Bolle
epistemiche,
scienza
e
credenza
Selene Arfini
1. Situazioni di economia cognitiva: euristiche di base
Nel gioco di carte Machiavelli o Ramino machiavellico, il cui nome deriva dal noto filosofo,
ogni giocatore ha inizialmente in mano 10 o 13 carte francesi nascoste agli altri giocatori, può
pescare ad ogni turno una carta da un mazzo coperto, non può scartare ed il suo scopo è quello
di depositare tutte le carte che ha in mano sul tavolo da gioco seguendo validi schemi
combinatori. Inquadrando una tale situazione all’interno della logica agent-based, il giocatore
è un agente cognitivo circoscritto in un determinato contesto, il gioco, nel quale possiede un
target, l’obiettivo di vincere il gioco, e un determinato numero di risorse cognitive composte
dalle informazioni a sua disposizione e dalle euristiche in grado di applicare per meglio
gestire questi dati.
A ben vedere, Machiavelli (e un qualsiasi gioco di carte, in verità) è un esempio
paradigmatico di una situazione in cui l’agente è in una condizione di economia cognitiva.
Non solo non possiede la totalità delle informazioni (non conosce quali carte hanno in mano
gli altri giocatori, l’ordine delle carte all’interno del mazzo e la distribuzione delle carte tra
giocatori e mazzo), non ha risorse cognitive in grado di ovviare a questa mancanza (anche
barando o continuando a pescare dal mazzo non avrebbe alcuna chance di raggiungere il
totale controllo delle carte sul tavolo e nelle mani dei suoi avversari). Infine, ha a disposizione
un tempo limitato per agire, scandito dai turni di gioco e dalla celerità delle azioni degli altri
partecipanti. Appare lampante in questo caso la differenza, spesso sottolineata da Gabbay e
Woods (2001), tra scantness (scarsità) e scarcity (povertà) delle risorse cognitive a
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disposizione di un agente: è vero, infatti, che il giocatore ha poche informazioni, è costretto
ad agire in un tempo limitato e non ha i mezzi per modificare questa situazione ma, per
vincere il gioco e conseguire quindi l’obiettivo prefissato, non ha bisogno di più tempo o
maggiori informazioni ma solo di elaborare ed applicare strategie cognitive in grado di
eludere le difficoltà poste dal gioco stesso. Le risorse che possiede sono scarse, ma non
paralizzanti, e sono il presupposto del concetto di homo heuristicus, introdotto nel dibattito
negli ultimi decenni del secolo scorso (Gingerenzer e Brighton, 2009).
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La scarsità delle risorse è, infatti, una qualità comparativa: non implica necessariamente la povertà o l’assenza
delle risorse, ma solo una loro minore quantità rispetto a quelle che normalmente possiede un agente istituzionale (intorno a
questo concetto cfr. capitolo precedente). A questo si aggiunge anche il fatto che l’agente pratico si pone, generalmente,
obiettivi modesti, commisurati alla quantità di risorse cognitive a sua disposizione. In questo senso un individuo potrebbe,
nonostante la scarsità degli strumenti disponibili, avere lo stesso tutti i mezzi per conseguire il suo scopo (Gabbay e Woods,
2001).
1. 1 L’Homo Heuristicus e lo sfruttamento delle fast-and-frugal
strategies.
La formulazione dell’homo heuristicus si basa su di una diversa concezione del rapporto tra
precisione dei risultati e sforzo, inteso come impiego di risorse cognitive all’interno del
processo decisionale. Nel passato queste nozioni erano analizzate a partire dalla premessa
necessaria di un loro rapporto di proporzionalità diretta all’interno di una forma di razionalità
efficiente. Si riteneva perciò scontato che più grande fosse lo sforzo maggiore sarebbe stata la
precisione del risultato. Questa tesi, e la sua conseguente ovvietà, vengono stravolte con
l’elaborazione del concetto di homo heuristicus, il quale incarna una forma di razionalità
efficiente in grado di raggiungere i risultati prefissati impiegando una ristretta quantità di
risorse cognitive. Si deve infatti pensare all’homo heuristicus come ad un agente che,
utilizzando un insieme di strategie cognitive, è in grado di eludere la stretta correlazione tra
sforzo e precisione, garantendo alle proprie azioni le migliori prestazioni possibili in una
situazione di economia cognitiva.
In questo contesto, nel quale si va a comporre ciò che Gigerenzen chiama l’Adaptive Toolbox
(letteralmente la “cassetta degli attrezzi” del nostro pensare ed agire quotidiano) si inserisce la
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già definita nozione di biased rationality (Bardone e Magnani, 2011), della quale si deve
approfondire un particolare aspetto, o, per meglio dire, l’applicazione di una fallacia specifica
che ha dei particolari risvolti all’interno del contesto della logica “agent-based”. La fallacia in
questione è l’ argumentum ad ignorantiam, il cui utilizzo porta l’homo heuristicus ad agire in
base ad una conoscenza che non possiede. Infatti, in termini logici, si definisce l’argumentum
ad ignorantiam la fallacia secondo la quale quando un agente non conosce una determinata
nozione come vera, allora non sarà vera.
Questa fallacia presenta un notevole vantaggio in termini di investimento di risorse: la
mancanza di conoscenza non viene infatti concepita come assenza di conoscenza, ma come
sapere negativo. Con l’inserimento di un’informazione irrilevante ai fini di determinare la
veridicità di una data nozione, vale a dire l’ignoranza dell’agente in merito alla verità o falsità
della stessa, si compone una fallacia in grado di garantire sicurezza all’azione dell’agente,
senza che questa sicurezza debba poggiare su solide basi. In breve il vantaggio che si ottiene
da questa costruzione è un premissory starting point, un iniziale punto di partenza per
prendere una decisione.
Per riprendere l’esempio esposto inizialmente, è possibile pensare alle decisioni di ogni
giocatore al tavolo come anch’esse sottoposte alla fallacia dell’argumentum ad ignorantiam:
se ogni giocatore si soffermasse a pensare a quante possibilità ci sono che una una data carta
utile sia ancora nel mazzo coperto, probabilmente non sarebbe in grado di proseguire il gioco.
Il calcolo sulla reale possibilità che una data carta esca sarebbe laborioso e, in fin dei conti
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Difficile sarebbe la traduzione in italiano della formula biased rationality: letteralmente si potrebbe
chiamare “razionalità parziale” o “prevenuta”, ma la formula inglese è sufficientemente ambigua per inquadrare
sia l’utilizzo delle “bias”, letteralmente “pregiudizi” o “errori”, all’interno del procedimento inferenziale che la
contraddistingue, sia il riferimento alla faziosità della razionalità stessa percepita da un esterno – e correttamente
logico – punto di vista.
non molto utile o abbastanza efficace per gestire ogni mano della partita. In poche parole, se
ogni giocatore ritenesse essenziale possedere questo tipo di conoscenza, il gioco si
bloccherebbe periodicamente senza per questo aumentare la possibilità che uno dei giocatori
sia avvantaggiato dalla nuova conoscenza acquisita. La mossa più corretta è perciò quella di
ignorare questa lacuna e convincersi, al contrario che quella carta non uscirà dal mazzo alla
prossima mano. In questo modo il giocatore è in grado di organizzarsi per manipolare le
combinazioni senza quella possibilità; di fatto, un’ignoranza è così sostituita con la
convinzione di una conoscenza, in realtà infondata, e il gioco può prosegue.
Le operazioni di questo tipo vengono definite fast-and-frugal strategy (letteralmente strategie
veloci-e-frugali) che, permettendo alla nostra mente di non arrestarsi di fronte a piccoli
ostacoli, ci mettono in grado di effettuare scelte quotidiane più o meno impegnative e, nel
contempo, di manipolare l’ambiente cognitivo al fine di perfezionare la decisione.
Sono presto evidenti i limiti di questa forma di razionalità: il suo radicarsi su argomenti fallaci
la distingue, già intuitivamente, dalla forma di razionalità con la quale si arriva a una
conoscenza genuina della realtà circostante e che ci permette di inferire sul mondo tesi
corrette senza possibilità d’errore. Nella vita quotidiana, tuttavia, non sempre disponiamo
degli strumenti o delle risorse cognitive per fondare le nostre credenze su questa più corretta
forma di razionalità bensì vi è la necessità di affidare alle fast-and-frugal strategies il compito
di determinare il nostro giudizio e la nostra azione.
1. 2 L’ambigua erroneità delle fallacie
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Fondamento logico della biased rationality, come si è già avuto modo di illustrare, sono le
fallacie, la cui valutazione e definizione nel corso della storia della logica ha subito notevoli
cambiamenti e, a partire dalla metà del secolo scorso, ha dato inizio e corpo a una rivoluzione
concettuale alla quale hanno contribuito anche numerose ricerche appartenenti al campo delle
scienze cognitive.
Dalla definizione di Aristotele che considerava le fallacie semplici concatenazioni di enunciati
che “sembrano” sillogismi (ossia inferenze valide), ma che in realtà non lo sono, alle ultime
considerazioni, evidentemente più problematiche a livello epistemologico, poste
all’attenzione della comunità filosofica dal già menzionato John Woods, la costruzione
concettuale intorno a questa tematica ha attraversato numerose fasi nel corso del tempo. Negli
ultimi quarant’anni, in particolare all’interno degli ambiti di ricerca sulla cognizione, si è
infatti verificato un mutamento sostanziale di prospettiva, che ha arricchito e ridefinito i punti
focali delle argomentazioni e modificato radicalmente le metodologie di valutazione.
A questo riguardo si deve necessariamente menzionare il testo di Hamblin, Fallacies (1970):
rifacendosi alle recenti teorie dell’argomentazione, Hamblin definisce infatti la fallacia non un
enunciato bensì un “argomento che sembra valido ma non lo è” (1970, p.12). Questa scelta
lessicale esprime la necessità di porre in luce l’elemento dialogico e pubblico che un
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Vedi capitolo 1, paragrafo 1.4.
argomento, al contrario di un semplice enunciato o di una concatenazione di enunciati,
possiede nel linguaggio ordinario e l’imperativo di affrontare la spinosa questione della
validità di un ragionamento fallacie all’interno dei meccanismi della comunicazione. In
questo contesto, infatti, non è solo la correttezza di un’inferenza ad essere perno dell’efficacia
di un argomento: ulteriori fattori entrano in gioco quali, per esempio, la capacità persuasiva
dell’agente e la sua abilità a manipolare l’attenzione dell’interlocutore.
Hambling infatti, nell’elaborazione dei cosiddetti “sistemi dialettici”, esamina la questione
selezionando uno specifico contesto, il dialogo, e un particolare fine, quello di convincere,
che determina il campo d’azione delle fallacie. Sempre lungo questo percorso analitico, lo
stesso problema è stato approfondito anche negli studi condotti da Jaakko Hintikka che,
operando un radicale mutamento concettuale, le riconsidera all’interno di una teoria
dell’interrogazione, nel contesto di una Dialogiche Logik, innovativa rispetto a quella
descritta nei sistemi tradizionali (Benzi, 2002). La svolta è però compiuta negli anni ‘90,
quando il tema è stato ripreso e scomposto nella New Dialectic di Douglas Walton, il quale,
ribadendo l’importanza di abbandonare una prospettiva logica puramente formale,
monolettica e monotonica, riconferma l’esigenza di approfondire lo studio del contesto nel
quale sorgono le fallacie per una loro più obiettiva valutazione e classificazione. Walton
elenca così sei tipologie specifiche di dialogo nel quale il giudizio sulla struttura logica
dipende non solo dallo scheletro formale delle mere inferenze argomentative messe in atto,
ma anche dalla loro efficacia nel raggiungere gli obiettivi verso cui sono orientati i
partecipanti. Infine la tematica viene espressamente inscritta all’interno di un assetto teorico
agent-based: nell’articolo The concept of fallacy is empty, Woods contribuisce a fondare il
tema delle fallacie come ineludibile all’interno di un’indagine basata sulla actually happens
rule e descrive audacemente il loro utilizzo come espressione di “possibili” virtù cognitive
(Woods, 2007). Questa nuova concezione è posta a confronto con la definizione composta
dalle quattro caratteristiche da sempre attribuite al ragionamento fallace, che vanno a formare
ciò che Woods chiama la EAUI conception secondo cui le fallacie sono erronee, attraenti (in
quanto non sembrano affatto erronee), universali ed incorreggibili (inclini, ossia, ad essere
riutilizzate, nonostante le si percepisca come erronee). Rigettando queste caratteristiche in
quanto manifesto di una definizione troppo restrittiva e semplicistica del ragionamento
fallace, Woods prende in considerazione specificatamente la valutazione della cosiddetta
Gang of Eighteen, (letteralmente, la Banda delle Diciotto) la lista delle fallacie maggiormente
conosciute nella tradizione filosofica, ed articola su di essa due tesi speculari: una negativa e
una positiva.
La prima è volta a dimostrare come le diciotto fallacie tradizionali non siano in realtà erronee
e, se le si considera tali, si deve ammettere che non sono errori che un agente reale commette
“tipicamente” (con ciò il loro carattere erroneo è escluso da un’indagine come quella qui
presentata, posta sotto l’actually happens rule).
La seconda, invece, descrive le fallacie comprese nella Gang of Eighteen come strategie
razionali per compensare la limitatezza delle risorse cognitive a disposizione; ergo, le fallacie
vengono descritte apertamente come virtù cognitive. Il processo cognitivo alla base delle
azioni fallaci viene giudicato in relazione alla sua efficacia nel conseguire l’obiettivo che
l’agente si pone e non esclusivamente in base alla correttezza della formalizzazione logica del
processo inferenziale. Questa seconda tesi, che Woods approfondisce, mette in discussione
radicalmente la validità della EAUI-conception: definendo le fallacie virtù cognitive, anche se
solo in particolari circostanze, viene messo in dubbio il loro assoluto carattere erroneo e con
ciò, proprio per il fatto che le fallacie non sono necessariamente portatrici di errore (ossia non
portano a ineluttabile fallimento) si rivelano essere attraenti, universali ed incorreggibili. Se ci
riferiamo ancora, per esempio, alla situazione del gioco, consideriamo parte integrante delle
strategie dei giocatori l’utilizzo di fallacie come l’argumentum ad ignorantiam prima
presentato. Il nocciolo del problema, secondo l’analisi logica classica, verte sul fatto che nel
compiere questo genere di inferenze la conclusione dipenderebbe da informazioni non
rilevanti per la risoluzione il completamento affidabilità dell’inferenza (come lo stato emotivo
dell’agente, la sua ignoranza o il giudizio di altri soggetti). Il discusso problema della
rilevanza è un punto centrale nel dibattito in merito alle fallacie e la prospettiva agent-based
proposta da Gabbay e Woods ci permette di spostare l’ago della bilancia in maniera
significativa verso un’elaborazione maggiormente proficua dal punto di vista cognitivo e
considerare le informazioni irrilevanti come parti integranti del materiale eco-cognitivo a
disposizione degli agenti. In questo modo la valutazione delle fallacie è fondata sulla modalità
con la quale sono utilizzati i dati per la formulazione delle inferenze e sulla loro efficacia nel
contesto nel quale i ragionamenti fallaci sono applicati. In tal modo si può ben vedere come a
livello eco-cognitivo il dilemma circa la liceità logica dell’inserimento di informazioni non
rilevanti è meno interessante della questione riguardo l’efficacia argomentativa che questo
stesso inserimento comporta.
Occorre a questo punto soffermarsi e meglio analizzare la ragione per la quale si dà inizio al
processo inferenziale, la modalità con la quale si costituiscono le informazioni prodotte e
l’effettivo esito epistemico a cui giunge l’individuo al termine della procedura; a questo tipo
di questioni risponde la dinamica tra dubbio e credenza elaborata dal filosofo americano
Charles Sanders Peirce.
2. La forza guida del pensiero: la dinamica tra dubbio e
credenza
Lo studio condotto da Charles Peirce in merito alla dinamica di creazione e rinnovamento
delle credenze agente nell’individuo ha inizio nei due saggi, “La fissazione della credenza” e
“Come rendere chiare le nostre idee” (1877-1878/1984a, 1984b). In questi scritti, attraverso
alcuni esempi particolari, Peirce analizza le modalità di studio e di utilizzazione del
ragionamento logico adottate nel corso dei secoli, dalla scolastica medievale all’applicazione
di determinate regole inferenziali nei progetti scientifici di Darwin, Clausius e Maxwell.
Questi esempi forniscono a Peirce l’occasione di parlare dell’essere umano come di un
animale “per lo più logico”, in quanto capace di meccanismi inferenziali efficienti (in grado,
cioè, di produrre conclusioni coerentemente derivate da premesse date) ma problematico,
poiché costituito da un metodo che non è in grado di dimostrare la verità degli enunciati
costruiti ma solo la loro validità dal punto di vista logico.
In ciò però sta la particolarità dell’essere umano: nonostante la problematicità delle inferenze
che formula egli è incessantemente motivato ad elaborarne di nuove e sempre più sofisticate.
In questa attività alcune inferenze vengono preferite ad altre a causa di quelli che Peirce
chiama abiti mentali (costituzionali o acquisiti) che indirizzano il pensiero secondo
predisposizioni individuali dovute all'educazione o alla personale disposizione psicologica del
soggetto. Un abito mentale può, per esempio, indicare all'agente un assetto inferenziale
analogico o fargli preferire una modalità supersiziosa di razionalità per risolvere un problema.
Gli abiti mentali conducono così alla formulazione di inferenze che sono considerate
particolarmente affidabili in particolari contesti. Le inferenze formulate a partire dall’abito
mentale sono basate su quelli che Peirce chiama principi-guida, e indirizzano verso la
costruzione di argomentazioni valide o non valide a seconda della loro applicazione nei
particolari contesti e a partire da determinate informazioni.
2.1 Principi-guida di inferenza ed errori: Galileo e la teoria sulle
maree.
Per chiarificare questo concetto possiamo vedere in che modo si applica questa teoria a un
caso emblematico della storia della scienza. Nel corso della trattazione del Dialogo sopra i
massimi sistemi del mondo, Galileo (1630/1970), per argomentare in favore del sistema
copernicano e spiegare perché sulla superficie terrestre non si avverte il movimento rotatorio
della Terra, formula un esempio mentale di grande efficacia retorica. Salviati, il portavoce del
sistema copernicano e del pensiero di Galileo stesso all’interno del Dialogo, invita a
immaginarsi a bordo di un gran naviglio sottocoperta: nonostante siano presenti numerosi
elementi che, secondo i sostenitori della tesi aristotelica e tolemaica, dovrebbero spostarsi
seguendo il movimento della nave durante cadute (“siavi anco un gran vaso d’acqua, e
dentrovi de’ pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vadia
versando dell’acqua in un altro vaso di angusta bocca, che sia posto a basso”) o lanci
(“gettando all’amico alcuna cosa, non piú gagliardamente la dovrete gettare verso quella parte
che verso questa, quando le lontananze sieno eguali”) non vi sono spostamenti che, di fatto,
possono indicare alle persone a bordo che la nave sia davvero in movimento.
Il principio-guida adottato da Galileo si basa sulla relazione apparente tra la percezione che
alcuni uomini, sottocoperta in una ipotetica chiatta, avrebbero del suo stesso movimento
rispetto alla percezione che gli uomini hanno del movimento della Terra. Ciò gli consente di
affermare che se delle persone presenti sottocoperta su di un naviglio non possono avvertire il
movimento della imbarcazione su cui si trovano, men che meno gli uomini saranno in grado
di avvertire la rotazione del pianeta.
Il medesimo principio gli consente anche di formulare la tesi – prima nel Discorso sopra il
flusso e il reflusso del mare e successivamente anche nel Dialogo – secondo la quale le grandi
masse d’acqua, composte da fluidi che non sottostanno alle stesse regole dei solidi nel
microcosmo seguano questo sistema anche a livello del macrocosmo e risentano, perciò, del
movimento della Terra il quale direttamente provoca il flusso e reflusso del mare. Lo
scienziato cerca di dimostrare questa teoria mediante un esperimento con un vaso collegato a
una corda e sottoposto a un doppio movimento rotatorio a modello degli spostamenti delle
acque durante la rotazione terrestre.
Mi son quasi sentito non leggiermente tirare ad ammettere queste due conclusioni
(fatti però i presupposti necessari): che quando il globo terrestre sia immobile, non
si possa naturalmente fare il flusso e reflusso del mare; e che quando al medesimo
globo si conferiscano i movimenti già assegnatili, è necessario che il mare
soggiaccia al flusso e reflusso, conforme a tutto quello che in esso viene
osservato. (p. 237)
Mediato dal medesimo principio-guida che gli permette di utilizzare la relazione tra
esperienze nel microcosmo a modello dei fenomeni nel macrocosmo per la risoluzione del
problema riguardo la percezione della rotazione terrestre, Galileo quindi compie:
1. un’inferenza corretta riguardo il moto terrestre e la percezione che ne hanno gli
uomini ed il trasferimento del medesimo moto agli oggetti fisici;
2. un’inferenza errata riguardo il fatto che i mari, essendo composti da fluidi, non siano
soggetti allo stesso principio che governa i solidi e quindi si muovano a causa della
rotazione e non assieme ad essa, nonostante partisse dalla medesima premessa
veritiera garantita dall’ipotesi copernicana.
Si mostra così che lo stesso principio-guida, che applicato inizialmente per dare origine
all’inferenza secondo la quale sulla superficie della Terra il movimento rotatorio non è
avvertito dagli esseri viventi, non può essere riutilizzato per dare luce anche all’inferenza
secondo la quale, i mari, sono soggetti a una diversa legge. Nonostante tutto ciò, può essere
asserito che la credenza a cui giunge Galileo è più che soddisfacente per lo scienziato, il quale
giudicò la tesi sulla spiegazione del flusso e reflusso del mare abbastanza veritiera e
saldamente concreta da fungere da prova evidente della tesi copernicana.
Proprio questa sicurezza, derivata dall’acquisizione di una certa credenza tramite inferenze,
viene posta da Peirce come il risultato ultimo del pensiero. In questo senso, quelli che egli
chiama “stati mentali” del dubbio e della credenza, sono posti alla base dell’esigenza logica
dell’essere umano. Nell’analisi di questi due stati si deve infatti sottolineare una loro
particolare differenza pratica: le credenze che modellano i nostri desideri e le nostre azioni
manifestano la nostra disposizione ad adottare un particolare abito mentale, cioè una
particolare proposizione, come principio guida.
Riprendendo il precedente esempio, la credenza (veritiera) nel doppio moto rotatorio della
Terra, guidata dal principio guida illustrato, ha conseguito sia la formulazione dell’ipotesi
sensata riguardo la percezione del movimento terrestre da parte degli esseri umani, sia la
teoria sulla causa del movimento delle maree. La credenza assume quindi un ruolo di statica
affermazione di un principio, i cui effetti sono la presa di posizione e l’adempimento di azioni
motivate dalla credenza stessa o in sua difesa, non la sua messa in discussione o
rielaborazione. In tal senso, la credenza ci mette in condizione di agire secondo un principio,
ma non ci consente di analizzarlo, non ci spinge all’azione su di esso.
2. 2 L’irritazione del dubbio i metodi per la fissazione di una
credenza e i vantaggi del fallibilismo.
Il dubbio, al contrario, è uno stato di insoddisfazione e di rinnegamento che motiva una ben
determinata ricerca. Quello che Peirce denomina “l’irritazione del dubbio” è uno stato
mentale che non desideriamo, uno stato dal quale cerchiamo di uscire e che rifuggiamo
proprio a causa della perdita di sicurezza e decisione data dall’abbandono di una credenza.
A differenza della statica fiducia e convinzione garantita dallo stato di credenza, il dubbio ci
pone infatti in una dinamica e affannosa ricerca (Peirce usa il termine “lotta” per enfatizzare il
carattere violento di questa condizione) per conseguire un nuovo stato di credenza e di quiete.
Questo meccanismo viene paragonato da Peirce allo scatto di un nervo che reagisce a una
stimolazione tramite un movimento per poi ritornare allo stato di rilassamento iniziale. Con
ciò si esaurisce l’unico obiettivo del pensiero che, da uno stato iniziale di irritazione (il
dubbio) dovuto alla messa in discussione di una credenza, attraverso il ragionamento
inferenziale raggiunge lo stato di pace conseguente all’adozione di una credenza differente.
In accordo con questa prospettiva, la fissazione di una nuova credenza è definita come l’unica
finalità e sola conseguenza del ragionamento inferenziale che non solo permette l’assunzione
di un particolare stato di sicurezza per il soggetto agente, ma anche l’adozione di un
determinato abito mentale, ossia un modello di pensiero e azione, dotato di senso e indirizzato
verso uno scopo, nella realtà quotidiana.
Secondo Peirce la fissazione di una credenza si attua attraverso quattro metodi: il metodo
della tenacia, il metodo dell’autorità, il metodo del ragionamento a priori e il metodo della
scienza. Il metodo della tenacia consiste, fondamentalmente, nell’evitare situazioni in grado di
far vacillare la credenza in questione. Non dubitando della presunta consistenza del principioguida adottato si rimane ancorati a una forma di sicurezza del proprio conoscere che viene
incrementata non solo dalla presenza stessa della credenza, ma anche dalla ferma volontà di
credere ad essa. Il metodo dell’autorità, a differenza del primo, si produce non solo a livello
individuale, ma anche a livello collettivo: la credenza viene fissata all’interno di un
determinato assetto sociale per volere e dominio di una qualche figura autoritaria che ne
impone l’accettazione. In terzo luogo, è presentato il metodo della ragione a priori, quello che
Peirce definisce il più intellettuale e rispettabile tra quelli finora esposti che finisce per essere
descritto come anche quello il cui fallimento è risultato il più evidente nel corso della storia
del pensiero. In questo caso la specifica credenza è infatti assunta come veritiera perché
considerata “in accordo con la ragione” e, come sottolinea Peirce, “non in accordo con
l’esperienza, ma con ciò che siamo portati a credere. […] Questo metodo considera la ricerca
qualcosa di simile allo sviluppo del gusto; ma il gusto, sfortunatamente, è sempre più o meno
una questione di moda” (Peirce, 1984a, p.254). In ultima analisi viene preso il considerazione
il metodo della scienza, giudicato da Peirce in grado di fissare una credenza legittimamente
veritiera, in grado di fondare le inferenze legittime su di un realismo che presuppone
l’esistenza di una “permanenza esterna” di oggetti reali, i quali sono conoscibili.
L’acquisizione di una credenza, anche se erronea, non solo provoca una situazione di
pacificazione all’interno del soggetto agente, per il quale cessa la “lotta” per uscire
dall’irritazione del dubbio, ma consente anche l’instaurazione di un meccanismo di azione e
reazione all’ambiente, in grado di muovere l’agente a prendere decisioni anche all’interno di
situazioni di economia cognitiva nelle quali, senza la possibilità ad assumere come veritiere e
sensate anche inferenze fallaci, sarebbe fortemente limitato.
Il fallibilismo, in questo senso, è la teoria che meglio esprime questo complesso di capacità
cognitive. Nei termini di John Woods, il fallibilismo si basa sul fatto che gli esseri-come-noi
hanno due tipi di abbondanza epistemica: una error abundance, che esprime semplicemente
la nostra propensione a commettere errori, molti errori, e una knowledge abundance, che
esprime la nostra volontà costante a sapere ed ad avere specifiche conoscenze (Woods, 2005).
La tensione permanente tra queste due componenti ci consente di fondare le nostre credenze
su di un piano non necessariamente solido dal punto di vista epistemologico, per così dire, ma
abbastanza soddisfacente da permettere la fissazione della credenza e, di conseguenza, la
condizione base per agire. Con le parole di Herbert Simon, il fatto che gli esseri umani siano
in grado di prendere decisioni e risolvere problemi in presenza di informazioni incomplete
garantisce la possibilità di considerare le conclusioni passibili di essere modificate in presenza
di nuove informazioni (Simons, 2000).
Le considerazioni precedenti mostrano infatti che tra le quattro possibilità menzionate il
soggetto agente non sempre sceglie di attenersi al metodo della scienza, ma, anzi, ha notevoli
vantaggi nell’evitare di farlo. L’apertura volontaria a modificare le proprie credenze ormai
fissate secondo i tre metodi ritenuti più fallibili e a inquadrarle sotto i canoni di una
razionalità scientifica è un’ardua attività per l’agente cognitivo, più di quanto sia si possa
supporre.
3. Bolle epistemiche: la fissazione esasperata delle credenze
La riflessione logica ed epistemica animata dall’interesse per le cause che muovono l’agente
cognitivo reale, si concentra utilmente sulla malleabilità del complesso di credenze che
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possiede e dalla loro aderenza all'habitus peirciano. Il quadro di credenze e la loro
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Per descrivere meglio la condizione intrinseca all’individuo di quiete apparente e, al contempo, di
perenne tensione derivata dallo stato di consapevolezza o di indifferenza verso le proprie credenze – la loro
veridicità, condivisione o ingenua assunzione – si potrebbe usare la parola greca stasis. In greco antico tale
parola rimanda a una situazione di crisi o tensione intrinseca alla polis, e veniva usata per designare sia la guerra
civile nella quale sfociavano le tensioni tra famiglie in avversarie, sia la presa di posizione dei vari membri della
città all’interno degli scontri; infine, come evidenzia l’etimologia (da istemi, stare, rimanere fermo) ci si riferiva
progressiva fissazione nonché le “rivoluzioni” all’interno della struttura cognitiva sono in
continua mutazione nel soggetto stesso ed ogni cambiamento di paradigma coinvolge non
solo la sua costituzione mentale ma anche il modo in cui agisce nel mondo. Oltretutto la
questione si complica quando si prendono in considerazione sia il meccanismo di generazione
e rivoluzione delle credenze nell’habitus dell’individuo sia la consapevolezza che l’individuo
stesso ha di questo meccanismo agente nel proprio sistema cognitivo. Infatti, anche se la piena
consapevolezza da parte del soggetto della dinamica tra dubbi e credenze sarebbe auspicabile,
esso si trova spesso in una situazione di inconsapevolezza o addirittura di negazione di questa
stessa dinamica, in conformità alla actually happens rule prima illustrata. Ciò assume tratti
molto interessanti e controversi.
La questione può essere esemplificata prendendo in considerazione una storiella la cui
paradossalità mostra a un livello parossistico il cortocircuito cognitivo tra credenza e
consapevolezza di tale credenza: quando viaggia in aereo un professore di statistica porta
sempre con sé una bomba; pensa, infatti, che se ci sono basse probabilità che su di un aereo vi
sia una bomba le probabilità che sul medesimo aereo ve ne siano due sono quasi nulle. Per
chiarirci, la questione non riguarda solo la fissazione della credenza fallace del professore, ma
lo stato di sicurezza ad essa conseguente che lo porta, nonostante l’infondatezza della sua
credenza, a salire sull’aereo.
Il rapporto tra la consapevolezza o meno di un individuo rispetto alla vulnerabilità e
legittimità delle proprie credenze ha portato Woods alla concettualizzazione di un sistema
cognitivo immunitario che si caratterizza per la presenza di quelle strutture cognitive
5
denominata bolle epistemiche.
La bolla epistemica è, in questo senso, in sintonia con i principi delineati all’interno del
pragmaticismo logico di Peirce ed è capace di mostrare la dinamica immunitaria (e
autoimmunitaria) del soggetto conoscente nelle sue più immediate ed evidenti manifestazioni
(dal caso del professore di statistica alle espressioni più banali e meno pericolose di
incoscienza verso la fondatezza delle proprie credenze).
Prima di tutto si può analizzare la struttura delle bolle epistemiche in riferimento a quanto
esposto in precedenza riguardo la dinamica dubbio/credenza nello schema logico-pragmatico
di Peirce. Tale dinamica può di fatto essere definita come una reazione immediata e
soddisfacente all’irritazione del dubbio. La fissazione della credenza necessaria per la
cessazione dello stato di irrequietezza e insofferenza, come si è detto, si compie all’interno del
modello costituito dai quattro metodi delineati – la tenacia, l’autorità, la ragione a priori e la
anche alla stasis per parlare della situazione di quiete provvisoria tra una guerra e l’altra, nella quale le tensioni
non sono appianate, ma stanno per dare origine a una nuova guerra. La continua elaborazione, produzione e
modifica delle credenze attraverso crisi create dall’irritazione del dubbio è equiparabile alla natura
incessantemente mutevole e soggetta a crisi cicliche della polis. Così come l’individuo è intrinsecamente portato
a rinnovare il proprio bagaglio di credenze attraverso cicliche rivoluzioni di prospettiva, anche la polis era
soggetta alle mutevoli evoluzioni della situazione di stasis con le quali riorganizzava la sua struttura sociale e
politica.
5
Cfr Magnani, 2009 (capitolo 7) e Woods, 2005
scienza – e attraverso moduli specifici, i quali acquistano consistenza e legittimità a seconda
delle circostanze di utilizzo e in base alla credenza che portano ad assicurare. Così pensata, la
bolla epistemica si configura esattamente come il modulo privilegiato nel quale la fissazione
della credenza si attua attraverso il metodo della tenacia. Ciò è introdotto da Woods con una
definizione della differenza tra conoscenza e credenza, posta parallelamente rispetto alla
dinamica dubbio/credenza di Peirce e alla luce di una prospettiva agent-based (Woods, 2005).
La conoscenza, sotto questi requisiti, è individuata come il possesso da parte di un agente di
un caso, un esempio paradigmatico a sostegno di una tesi (“knowledge is a kind of casemaking” p. 735) inscritto nella prospettiva in prima persona dell’agente, cioè, all’interno del
suo sistema di credenze. In questo modo la dinamica della fissazione della credenza diventa
sempre una questione di ascrizione di conoscenza, ossia dipende dalla valutazione da parte
dell’agente della forza dei casi paradigmatici presentati a sostegno di una tesi. Così credere a
una determinata nozione è equivalente, nell’ottica in prima persona dell’agente, al possedere
la conoscenza di quella determinata nozione.
Per arrivare alla chiave fondamentale del problema – poste le due tesi in merito alla fissazione
della credenza e riguardo al sollievo che nel soggetto provoca l’ascrizione di una determinata
conoscenza nella prospettiva in prima persona – si evidenzia dunque:
1. l’intrinseca necessità per la conoscenza di essere sempre recepita in una dinamica di
credenza per il soggetto agente;
2. l’impossibilità di avere credenze vacue, o vuote, che cioè non comportano alcuna
6
ascrizione di conoscenza per l’individuo.
Woods è dunque condotto alla formulazione della controversa Proposizione 6 “The down side
of belief”, la quale parla della credenza come necessaria condizione per la conoscenza e, al
contempo, come di un impedimento al suo conseguimento. È infatti vero che se le nostre
conoscenze sono recepite all’interno della dinamica della credenza, e che la loro fissazione in
questo frangente risolve l’irritazione del dubbio, ciò non garantisce affatto la verità o la
effettività di queste conoscenze, compromettendo di fatto il nostro assetto conoscitivo.
La presenza in noi di credenze false suggella l’evidente problematica dello stato
precariamente ingenuo della nostra conoscenza. Se, infatti, la percezione di questa precarietà
suggerisce la manipolazione delle informazioni che, sotto forma di credenze, recepiamo, al
6
Ogni credenza si poggia infatti su una dose, anche minima, di conoscenza di una determinata nozione.
La nostra dinamica epistemica è determinata e resa possibile dalla credenza: questo significa che quest’ultima è
sia ciò che consente l’esistenza delle nostre conoscenze, sia lo strumento con il quale le circoscriviamo. In
quanto tale una credenza non può diventare un contenuto di conoscenza in sé. Utilizzando un lessico kantiano, la
credenza è interpretabile come la semplice forma a priori con cui un contenuto epistemico può essere assunto a
conoscenza: non può mai essere essa stessa l’oggetto conosciuto. Infatti, se anche volessimo pensare una
credenza come oggetto di conoscenza in sé, ci troveremmo nella necessità di ascriverla all’interno di una nuova
credenza la quale sarebbe a sua volta il contenuto di un’ulteriore credenza e così via. La possibilità di avere
credenze vacue si elimina a causa dell’incapacità (per un agente reale) di pensare a una conoscenza unicamente
formale o all’irrealizzabile creazione di un circolo vizioso.
contempo vi è un meccanismo di immunizzazione di queste credenze rispetto alla nostra
valutazione imparziale: tale immunizzazione è garantita dal loro stesso essere percepite come
conoscenze, in quanto causa del sollievo dall’irritazione del dubbio.
Pur sapendo che vi è differenza tra lo statuto epistemico della percezione della conoscenza (il
sentire di sapere, “feeling of knowing”) e dell’effettivo conoscere in senso stretto, possiamo
applicare questa distinzione solo nell’ottica distaccata della terza persona e mai per quanto
riguarda le nostre proprie credenze. Ciò si palesa esplicitamente nella proposizione
riguardante la fugacità della verità (fugitivity of truth): è vero, infatti, che non c’è conoscenza
che non si possieda senza credere di possederla, ma il contrario non è così pacifico: se si
ritiene di possedere una qualche conoscenza ciò non implica che la si possieda davvero. In
questa dinamica trova spazio e ragione d’uso una duplice definizione del concetto di bolla
epistemica, come:
1. impossibilità – per il soggetto – di distinguere tra conoscenza e semplice credenza,
2. credere di avere una conoscenza esaustiva di una determinata nozione, senza che
questa sia effettivamente completa e realizzata.
La seconda di queste definizioni ci permette di presentare le bolle epistemiche come il
risultato di un’esasperazione della fissazione della credenza, a causa della quale l’utilizzo di
una minima ascrizione di conoscenza garantisce, erroneamente, la sua presenza effettiva e
completa alla consapevolezza dell’agente. Il caso paradigmatico che dovrebbe fondare una
conoscenza, nei termini di Woods, è, all’interno di una bolla epistemica, scelto e adottato in
maniera funzionale alla tesi. La cernita e il riconoscimento di questo esempio emblematico (o
di questa raccolta di esempi) vengono gestiti a partire dall’affermazione arbitraria della
particolare credenza che guida il pensiero. In questo modo, i fatti non saranno mai considerati
esempi contrastanti, ma verranno, piuttosto, adeguati e interpretati alla luce della teoria.
In Cognitive bubbles and firewalls: epistemic immunization in human reasoning, Magnani e
Bertolotti (2011) individuano la dinamica della bolla epistemica in prospettiva agent-based
come il frutto dell’applicazione di una fallacia efficace. Garantendo il sollievo dall’irritazione
del dubbio, la presenza di una credenza inconsistente (che non rispecchia il possesso della
conoscenza che effettivamente è acquisita) inganna, infatti, la struttura epistemico-cognitiva
dell’agente grazie allo schema che corrispondente alla fallacia dell’affermazione del
conseguente.
Premessa 1: Se conoscessi P si placherebbe la mia irritazione del dubbio rispetto a P,
Premessa 2: Si è placata la mia irritazione del dubbio rispetto a P,
Conclusione: Conosco P.
Nonostante l’esplicitazione logica di questo ragionamento porti alla sua chiara identificazione
come fallace, la sua applicazione comune è vasta e quasi totalmente impercettibile per il
soggetto. Secondo Woods, infatti, solo a partire dal riconoscimento dell’asimmetria tra la
prospettiva in prima e terza persona, si può giungere ad una messa in discussione delle
credenze fissate. La consapevolezza dell’intima correlazione tra conoscenza e credenza può
aprire il soggetto a un confronto con l’altro e alla messa in discussione delle conoscenze
inscritte nel suo complesso di credenze portando, quindi a una sempre più elaborata
ridiscussione delle proprie categorie.
3.1 L’incorreggibilità delle bolle epistemiche: un’arma a doppio
taglio
L’apertura alla modifica e alla ridiscussione delle proprie credenze non è però necessaria al
soggetto. Come si è sottolineato nel primo capitolo di questo libro, infatti, la fissazione della
credenza è, di norma, un momento di quiete dell’individuo: la consapevolezza della precarietà
delle sue conoscenze non fa altro che rimetterlo in uno stato di dubbio, di ansia e di
insoddisfazione. Questo rende la possibilità dell’apertura alla “correzione” tramite la
prospettiva di terza persona, benché sia auspicabile per la dinamica conoscitiva del soggetto,
è anche quella più difficoltosa. Le caratteristiche finora evidenziate, riguardo la dinamica
epistemica del soggetto, portano alla conseguente tesi dell’incorreggibilità delle bolle: il
sollievo per la fissazione di una credenza e l’esasperazione di questo stato attraverso una
dinamica di chiusura dell’individuo nei confronti della prospettiva in terza persona, assicura
la conservazione delle bolle epistemiche all’interno di una dinamica di protezione delle
credenze del soggetto, anche dalla sua stessa volontà di migliorarsi. In questo modo si può
effettivamente parlare di processo epistemico autoimmunitario: l’individuo tramite questo
meccanismo non solo evita di essere sottoposto a un continuo riesame e messa in discussione
delle proprie idee da parte di una prospettiva esterna (grazie, appunto, all’esasperata
fissazione di una credenza) ma attua lo stesso sistema difensivo anche nei confronti di sé e del
proprio senso critico, e non ha, perciò, la possibilità di esaminare la propria conoscenza al di
fuori della sua rete di credenze.
Questo dispositivo di tutela, che è alla base della costruzione di credenze e dello stabilirsi in
esse della conoscenza, attiva un duplice processo di protezione e si configura essenzialmente
come un processo di autoimmunizzazione. Non vi è solo la difesa da minacce esterne, ma
anche la difesa da quei meccanismi di manipolazione e riconfigurazione del sistema di
credenze che lo stesso individuo possiede, che sarebbero in grado di migliorare e arricchire la
sua struttura conoscitiva. La stessa possibilità che insorga il dubbio è fortemente
7
compromessa.
7
In questo senso possiamo citare come un chiaro esempio della duplice e ambigua struttura
autoimmunitaria che permea il nostro sistema cognitivo la preghiera che il famoso romanziere inglese Douglas
Adams fa recitare a un saggio oracolo in Praticamente innocuo, uno dei libri della serie cult Guida galattica per
autostoppisti (1992/2007): “Proteggimi dal sapere quel che non ho bisogno di sapere. Proteggimi anche dal
sapere che bisognerebbe sapere cose che non so. Proteggimi dal sapere che ho deciso di non sapere le cose che
ho deciso di non sapere. Ecco qua. In ogni caso è la stessa preghiera che reciti in silenzio dentro di te, per cui
tanto vale dirla apertamente”.
Per meglio analizzare questa dinamica è utile riprendere l’esempio della teoria del flusso e
reflusso del mare all’interno della struttura dimostrativa costruita da Galileo in difesa del
sistema copernicano. Rivedendo questo caso a partire dalla considerazione della conoscenza
come costruzione di esempi paradigmatici a sostegno di una determinata tesi, l’utilizzo da
parte di Galileo del moto delle maree come dimostrazione della rotazione e rivoluzione
terrestre si mostra come segno emblematico della presenza di una bolla epistemica all’interno
e alla base della sua struttura teorica.
La determinazione nell’affermare la tesi copernicana ha infatti condotto Galileo a sostenere
una posizione tutt’altro che evidente e certa. Flusso e reflusso del mare, all’epoca, non erano
solo considerati oggetti di posizioni cosmologiche metafisiche le quali, partendo da premesse
di natura teologica, facevano dipendere il fenomeno dal moto degli astri: numerosi studi (tra i
quali quelli di Keplero) affermavano esplicitamente la relazione tra fasi lunari e maree,
osservabile al di fuori della diatriba “tra i massimi sistemi del Mondo”. Galileo non solo non
prese in considerazione questa ipotesi ma cercò di confutarla a favore di una teoria più debole
e dubbia, che tuttavia sembrava garantire al suo sistema maggior equilibrio ed evidenza. Così
la sua tesi avrebbe tratto beneficio da un caso paradigmatico che ne confermava le leggi della
sua teoria e rendeva Galileo abbastanza sicuro di conoscere qualcosa che in realtà non
sapeva. Questa sua manipolazione delle credenze intorno al sistema copernicano lo
proteggeva – tramite la supposizione di una conoscenza in realtà non acquisita – sia dagli
oppositori della tesi copernicana, sia dal suo stesso nuovo metodo scientifico, che non era in
grado di fare esplodere questa particolare bolla epistemica. In questo modo l’immunità creata
come difesa dalla propria stessa razionalità – oltre che da quella avversaria – non consentiva
dubbi, o incertezze, nei confronti dei casi atti a riconfermare la teoria generale. Con ciò non si
intende sottovalutare le ovvie limitazioni epistemiche e scientifiche imposte al lavoro di
Galileo dalle autorità e dalle istituzioni sue contemporanee né, naturalmente, si vuole
sminuire la radicale genialità dell’impianto metodologico in atto nelle sue opere. L’intento,
infatti, è solo quello di mostrare l’incredibile permeabilità del sistema cognitivo umano al
processo di “imbollamento” (embubblement), confermato a livello esemplare dalla semplice
presenza di una bolla epistemica all’interno di un notevolmente complesso sistema scientifico
come quello di Galileo.
Oltre a quanto illustrato da questo noto caso esemplare occorre porre attenzione alla dinamica
di “imbollamento” come ad un processo cognitivo continuamente attivo nell’individuo: il
sistema cognitivo dell’essere umano è inevitabilmente predisposto alla costruzione di bolle
epistemiche. Anzi, per ogni conoscenza che si possiede si può di fatto sempre parlare di un
grado di inconsapevole presenza di una bolla intorno ad essa. Entrando prepotentemente nella
dinamica epistemica del dubbio e della credenza, la Bubble Thesis assolve la funzione di
mediatore emotivo tra uno stato di inquietudine e la calma derivata dalla fissazione di una
credenza. Senza la bolla, non vi sarebbe pace per l’individuo fino all’acquisizione totale della
conoscenza. Per quanto effimero possa essere questo stato di quiete, ci permette di agire nel
mondo, di partire da una qualche premessa che noi riteniamo fondata.
Per tornare all’esempio precedente, nonostante Galileo avesse torto rispetto alla teoria delle
maree, cionondimeno quella sua forma di sicurezza gli consentì di pubblicare il Dialogo
sopra i massimi sistemi del mondo (1630/1970) e di sostenere con esso una tesi veritiera,
nonché di non rimanere paralizzato dall’effettiva inconsistenza di quella sola posizione
teorica. In questo modo la dinamica epistemica autoimmunitaria si palesa nella sua più
completa forma strategica: le credenze del soggetto non sono difese in una prospettiva
unicamente autolesionista, ma anche per permettergli una presa di posizione definita rispetto
all’azione. Per assurdo, riprendendo l’esempio paradossale citato all’inizio del paragrafo, non
è assolutamente straordinario il fatto che il professore sia determinato a salire sull’aereo data
la sua credenza fallace, ma ne è addirittura motivato e senza di essa non potrebbe agire nel
mondo come invece gli accade di fare. Questo opportuno rovescio della medaglia sarà meglio
analizzato più avanti (insieme al motivo per cui è buono e utile che le guardie aereoportuali,
in una paradigmatica prospettiva in terza persona, siano efficaci nell’individuazione della
8
fallacia applicata dal professore e nel disarmarlo).
È utile ora soffermarsi sulle caratteristiche e specificità della dinamica autoimmunitaria in un
senso più ampio. Un autore in particolare ha argomentato in maniera prestigiosa e feconda
intorno a questo concetto in una prospettiva filosofica originale: il filosofo francese Jacques
Derrida ha infatti consentito un approccio teoretico (e biopolitico) al tema che consente di
pensare l’autoimmunità come un elemento che di fatto agisce in maniera onnipervasiva
nell’individuo (Derrida, 1994, 1995, 2000, 2003). In questo modo la bolla epistemica può
essere considerata un modello centrale per comprendere la dinamica autoimmunitaria del
soggetto sia a livello specificatamente epistemico sia, come vedremo, come paradigma
pervasivo dell’intero assetto cognitivo degli individui in cui svolge un ruolo determinante
anche nella creazione ed eventuale modificazione delle credenze morali. In questa prospettiva
è possibile concepire le bolle epistemiche – e cognitive e morali (delle quali si tratterà più
avanti) – non solo come schemi esemplari di strutturazione della nostra autocoscienza, ma
anche come strumenti di comprensione e approfondimento di quella dinamica
autoimmunitaria del “Sé” descritta da Derrida in riferimento a un più comprensivo piano
9
teoretico.
8
In riferimento agli argomenti trattati nel primo capitolo di questo libro, può essere interessante
domandarsi se un agente logico possa o meno essere affetto dalla dinamica delle bolle epistemiche. Data la sua
conformazione sarebbe ragionevole propendere per una risposta negativa (per l’assenza di influenza da parte
dell’ambiente e la mancanza di consapevolezza); in ogni caso sarebbe utile approfondire come questa sua
immunità alle bolle epistemiche potrebbe determinare la sua produzione e gestione delle inferenze.
9
Questo parallelo tra il concetto di autoimmunità legato allo sviluppo dell’epistemologia e del campo
delle scienze cognitive e la nozione propriamente teoretica, ideata a partire dalla prospettiva linguistico-politica
di Derrida potrebbe apparire azzardato o, quanto meno, pretenzioso. A ciò si deve contrapporre l’idea che
pretendere che si determini una costruzione teorica come quella delineata finora all’interno di un assetto
filosofico unitario non sarebbe solo ardimentoso, ma quanto mai svilente: le implicazioni che derivano
dall’applicazione delle strutture logiche, cognitive ed epistemiche illustrate in queste pagine non hanno una
chiusura determinata e le loro potenziali affermazioni in numerosi campi culturali sono ancora da approfondire.
Sarebbe forse una prova di miopia intellettuale non curarsi delle dinamiche che un concetto complesso come
4. Logica, a-logica o il-logica autoimmunitaria
Lo schema della logica autoimmunitaria prende corpo e consistenza negli scritti di Derrida
attraverso – e a favore di – una rielaborazione della dinamica dell’io vivente, della vita del
vivente e del rapporto tra vita e politica. Quando il concetto apparve per la prima volta in
Spettri di Marx (1993/1994), non vi era alcuna chiarificazione o riferimento specifico
all’utilizzo di questa scelta terminologica. La dinamica fu solamente presentata in modo
generico e strettamente funzionale al discorso biopolitico stabilendosi, senza ulteriori
argomentazioni, come movimento necessario alla vita del vivente. Solo successivamente
venne posta la questione della presenza problematica e imprescindibile di un “altro”, un
nemico, un avversario nel corpo vivo dell’io, come premessa ineliminabile, ma oltremodo
problematica, della costruzione dell’impianto autoimmunitario.
Essi non vogliono sapere che l’io vivente è autoimmune. Per difendere la sua vita,
per rapportarsi come il medesimo, a se stesso, l’io vivente è necessariamente
portato ad accogliere l’altro all’interno […]; deve dunque dirigere allo stesso
tempo a suo favore e contro di sé le difese immunitarie apparentemente destinate
al non-io, al nemico, all’opposto, all’avversario (p. 178).
Per rendere chiara la costruzione di questa tematica si deve inevitabilmente far riferimento a
tre questioni chiave, a più riprese articolate e lavorate nelle opere di Derrida: il concetto di
autoimmunità come elemento patologico e autodistruttivo in rapporto alla sua funzione in
campo biologico, la successiva elaborazione in riferimento a quella che viene chiamata la
logica a-logica o illogica del pharmakon e, infine, l’analisi della connessione della dinamica
autoimmunitaria con quella stabilita tra le freudiane pulsioni conservatrici e pulsioni di morte.
Il primo riferimento può essere individuato nel collegamento che Derrida pone tra
autoimmunità e immunodepressori in Fede e sapere. Simone Regazzoni, nel testo Derrida.
Biopolitica e democrazia (2012) individua in questo scritto una stretta connessione della
tematica autoimmunitaria con l’immunodeficienza e il deficit immunologico. Trova in questo
modo spazio di analisi e riflessione l’indagine sulla sindrome da immunodeficienza acquisita
(AIDS), più volte emersa nel corpus delle opere derridiane. L’immunodeficienza provocata
dall’autodistruzione, o distruzione delle difese del sé diventa così il perno di un dialogo con la
scienza biologica volto non ad esaurire il discorso sull’essere vivente come essere
autoimmune ma a fornire un’esposizione più nitida dell’aspetto patologico e distruttivo di
questa condizione. La formula dalla quale si apre il discorso in tal senso si individua nel
passaggio dall’edizione italiana di Fede e sapere a quella francese, nella quale la “malattia
autoimmune” diviene “le virus de l’immuno-deficience humaine” (VIH) (Derrida, 1995).
quello di autoimmunità a livello epistemico stabilisce con le sue omonime strutture in un campo filosofico più
ampio.
Secondo gli studi del noto medico e immunologo Jean Claude Ameisen, lo sviluppo
dell’AIDS sarebbe direttamente collegato all’apoptosi, o suicidio cellulare, provocato dal
virus dell’HIV, dei linfociti preposti a gestire la risposta immunitaria. Senza entrare
ulteriormente nel merito della questione medico/biologica, questa spiegazione della dinamica
biologica autoimmunitaria è in grado di focalizzare l’attenzione sulla distruzione della propria
immunità da parte dell’individuo, ossia sul movimento autoimmune in quanto immune dalla
propria immunità.
In questo modo si perviene, a partire dalla definizione para-etimologica di indenne,
all’elaborazione più completa del concetto di autoimmunità. L’indenne, ciò che non è stato
danneggiato, il puro, il non contaminato, è quel che Derrida definisce l’oggetto proprio della
religione, in rapporto stretto a livello etimologico con “danno”, (dall'antico lemma
indoeuropeo dap-no-m) e quindi in relazione con daps, dapis, la festa sacrificale, il banchetto
sacro. Questo elemento, richiamato come ciò che designa un - talvolta sacrificale - processo di
compensazione e restituzione, che permette di ricostituire la purezza intatta, l’integrità sana e
salva di una proprietà e di una proprietà non lesa è ciò che esplicitamente è identificato come
l’immune, portando all’equivalenza l’uso di questi due termini nel testo. Questo cambio
terminologico gli permette di descrivere la pulsione dell’indenne come effettiva autoimmunità
consentendogli di parlare della pulsione immunitaria e salvifica del sé verso il sé. Nella
dinamica così descritta si inserisce ciò che è definito un “qualcosa che ha i tratti di un doppio
perturbante che minaccia di dare la morte: una sorta di veleno al cuore del rimedio”
(Facioni, Regazzoni e Vitale, 2012).
Ciò consente l’apertura del parallelo tra autoimmunità e pharmakon, che Derrida definisce
logica – a-logica o illogica – del sé. Il movimento analizzato è al contempo difensivo e
autodistruttivo, si pone come unico rimedio e al contempo al suo interno risiede la minaccia
verso ciò che si vuole difendere. In questo senso tale movimento analizza i rapporti tra
pulsioni conservatrici e pulsione di morte del testo Al di là del principio di piacere di
Sigmund Freud all’interno di Speculare - su Freud (in particolare un estratto intitolato La vita
la morte, Derrida 1980/2000) in cui Derrida definisce le pulsioni conservatrici “i guardiani
della vita ma perciò stesso le sentinelle o i satelliti della morte” (p. 119-120). Nonostante la
dinamica autoimmunitaria all’epoca non fosse ancora presente nel lessico derridiano, questa
formulazione richiama esattamente il concetto che verrà poi a costituire la definizione chiave
del rapporto della vita del vivente, della vita del politico e della costituzione intrinsecamente
autoimmunitaria del sé.
Tornando al passo già citato tratto da Spettri di Marx, si può ora far riferimento a ciò che
l’altro (quell’altro che l’io deve necessariamente accogliere in sé per costituirsi come tale),
comporta: la difesa da esso non è che una componente necessaria per la costruzione del sé a
dispetto delle difese che si costituiscono per la propria stessa protezione. È un movimento di
apertura nei confronti di ciò che il sé da solo non può costituire ma che, in questo stesso
modo, non fa che minare l’indennità del sé stesso: il meccanismo intrinseco all’io, che ne
costituisce la vita e al contempo la sacrifica, non mina le proprie difese unicamente in una
morsa autodistruttiva, ben evidenziata nel parallelo con la patologia immunodeficiente, ma è
anche medicina, rimedio, pharmakon, la cui doppia valenza richiama il tema della morte
inscritto inesorabilmente nel cuore della vita stessa. Questo doppio dispositivo lavora
inesorabilmente all’interno del meccanismo costitutivo del “Sé” e ci consente di utilizzare
questa elaborazione teorica – sebbene difficile da comprendere in maniera sistematica – come
registro lessicale e dinamico applicabile al meccanismo autoimmunitario della struttura
cognitiva ed epistemica dell’individuo.
All’interno dell’articolo citato nel paragrafo precedente, Cognitive bubbles and firewalls,
Magnani e Bertolotti (2010) dopo aver analizzato il meccanismo delle bolle epistemiche,
sottolineano la loro presenza inevitabile nell’attività cognitiva degli esseri umani,
indipendente dalla consapevolezza che gli stessi sono in grado di raggiungere della loro
struttura e portata. A questo riguardo, gli autori estendono l’azione delle bolle epistemiche
all’intero complesso di meccanismi inferenziali utilizzati dagli esseri umani. La dinamica di
costruzione e decostruzione delle credenze, la cui costituzione prevede la presenza (e
minaccia) delle bolle epistemiche, non si attiva ed esercita solo nel contesto determinato della
formulazione tetica imposta dalla nascita spontanea di un dubbio: al contrario, la stretta
correlazione con la prospettiva agent-based adottata impone un’analisi delle situazioni che
concretamente un individuo deve affrontare; ciò presuppone una predisposizione
all’“imbollamento” nel più ampio contesto in cui l’individuo è visto e concepito come agente
e nel quale l’attività di problem-solving permane come sua prerogativa. In questo modo,
grazie alla presa d’atto dello studio dell’agente cognitivo sotto i requisiti imposti dalla
actually happens rule, gli autori possono parlare di bolla cognitiva e la dinamica descritta in
quest’ottica può effettivamente essere riconosciuta come un modello efficace di autoimmunità
cognitiva, condizionato dalla logica – illogica o a-logica – immunitaria derridiana.
Ciò consente di aprire nel prossimo paragrafo il tema della biopolitica, intesa da Derrida
come contesto fondamentale nel quale si palesa la logica autoimmunitaria, ma anche come
edificio cardine nel quale si evidenzia la portata del modello della Bubble Thesis, in quanto
meccanismo autoimmunitario non più agente solo a livello individuale ma sociale e quindi
operante in un sistema eco-cognitivo delle cosiddette “nicchie cognitive”.
5. Biopolitica e autoimmunità
L’autoimmunità come elemento costitutivo della vita del vivente è posto, negli scritti di
Derrida, nel cuore del discorso biopolitico, un terreno più ampio e articolato di quanto la
prospettiva finora essenzialmente focalizzata sulla dinamica intrinseca all’individuo abbia
mostrato. Questa forma di costruzione permette di articolare in che modo il meccanismo
autoimmunitario permei la struttura base dell’ordinamento sociale proprio a partire
dall’individuo e dai suoi stessi sistemi originari. La questione della “vita del vivente” come
punto di partenza e di arrivo della costruzione biopolitica consente anche di aprire un dialogo
con le formule proprie dell’indagine epistemico-cognitiva elaborate a partire dai complessi di
dispositivi immunitari, e quindi autoimmunitari, degli individui fino a comprenderne le
dinamiche che influenzano la costituzione sociale (in quanto formata da sistemi di nicchie
cognitive e morali di cui chiariremo i meccanismi più avanti).
Il meccanismo che intercorre tra queste due forme di analisi filosofica, per quanto seguano
percorsi differenti, può essere chiarito tramite un’interrogazione la cui formulazione prevede
lo studio di oggetti analoghi, tra i quali il sistema politico umano nella sua dinamica
complessità. Per iniziare ad affrontare questo ampliamento del discorso, si deve
necessariamente fare chiarezza su cosa intende Derrida quando tratta della biopolitica, in che
modo il meccanismo autoimmunitario la permei e in che modo essa ne sia profondamente
condizionata.
La questione della biopolitica si annuncia, nella decostruzione derridiana, come rapporto di
incontro e scontro con il paradigma biopolitico descritto da Foucault. Quest’ultimo pensa al
potere biopolitico come antitesi e superamento del potere sovrano: il diritto di lasciar vivere e
di dare la morte, diritto di sovranità, viene alterato – completato o sostituito – dall’innesto di
un potere affermativo in favore della vita: il diritto diviene biopolitico, quello di far vivere e
di lasciare morire. È così posta una radicale estraneità tra i due tipi di potere e il mutamento
che avviene nella modernità per l’attenzione che la politica assume nei confronti della vita, e
se ne delineano inoltre i contorni attraverso un passaggio netto, un salto. Si passa dalla
politica della sovranità alla biopolitica, ribaltando la situazione, ponendo – anti-teticamente
rispetto alla condizione precedentemente in atto – la questione della vita al centro del contesto
10
politico. Tutto ciò viene contestato da Derrida, il quale utilizza il termine biopolitica per
identificare una condizione intrinseca alla dinamica di potere, persino del potere sovrano, che
permane anche quando questo tipo di sovranità acquista una forma fantasmatica nell’epoca
moderna. Il termine, nell’accezione derridiana, mira a spiegare il rapporto tra politikon, bios e
zoè in una dinamica che comporta l’autoimmunità come chiave del problema. La questione
biopolitica viene così rielaborata e modellata grazie a questa nozione cardine nel testo già
citato Fede e Sapere, nel quale, attraverso la logica autoimmunitaria, è posto l’accento su
quella che può essere definita la pulsione di morte, intrinseca all’essenza stessa della vita del
vivente, che auto-distrugge e auto-costituisce la stessa possibilità di vita.
È ciò che Regazzoni (2012) definisce una logica auto-decostruttiva. La stessa, applicata alla
vita del politico prende parte alla struttura delle forme biopolitiche che assume. La
democrazia ne è un esempio paradigmatico. In Stati canaglia e Filosofia del terrore. Dialoghi
con Jürgen Habermas e Jacques Derrida, (Derrida, 2003) l’autoimmunità democratica si
palesa nel caso dell’11 settembre; l’attacco terroristico agli Stati Uniti, in quanto atto
suicida/omicida per eccellenza, emerge dalla – e contro – la democrazia americana come
sintomo più evidente e violento della sua costituzione autoimmunitaria. Ciò si evince
attraverso tre considerazioni in merito:
1. L’attacco proveniva, innanzitutto, dalla stessa democrazia americana: la preparazione
dei terroristi, le loro armi, gli aerei utilizzati, l’aeroporto dal quale sono partiti erano
americani, tollerati dagli americani e permessi dalla democrazia americana. La stessa
10
Le rielaborazioni che erediteranno questa tesi, come quella di Agamben (1999) o di Esposito (2004), ne
sono rifacimento e rimodellamento, ma mantengono questo passaggio come nocciolo chiave della questione.
che ha dato modo ai terroristi di essere accolti all’interno del paese e che ne ha subito
l’attacco. L’amministrazione statunitense stessa ne ha, in qualche modo, preso parte
non difendendosi a sufficienza da una minaccia non certo del tutto imprevedibile.
2. Nella reazione all’attacco terroristico la democrazia deve fare i conti con le proprie
strutture, con ciò che ha permesso l’evento e, perciò, con il suo stesso scheletro
autoimmunitario. Questo, però, produce nient’altro che un attacco al proprio stesso
sistema di diritti e, al fine di difendersi dall’altro, si difende ahimè anche da se stessa,
da ciò che all’interno della propria struttura l’ha consentito, riproducendo la dinamica
esposta in precedenza di distruzione delle proprie difese, di immunizzazione nei
confronti della propria immunità.
3. Infine, un terzo momento della dinamica autoimmunitaria viene innescato dalla
reazione al trauma – o, meglio, all’effetto del trauma – scatenato dall’11 settembre.
“La possibilità che il peggio debba ancora venire, che cioè si ripeta, ma in peggio”
(Derrida, 2003, p. 105) nullifica il tentativo dell’elaborazione del lutto e motiva una
risposta autoimmune alla stessa prospettiva salvifica che si avrebbe con una
consolante accettazione del fatto che ciò che è passato non potrà avvenire ancora. La
prospettiva che cerca di attenuare o neutralizzare questo effetto traumatico senza, in
realtà, scalfirlo crea solo risposte autoimmunitarie, che nutrono la stessa mostruosità
che pretendono di superare, come la guerra al terrorismo e lo spettro di una guerra
nucleare. La minaccia che vorrebbe difendere – ma in realtà attacca – la democrazia è
fantasmatica ma, proprio per questo, inattaccabile, impensabile.
Questo caso estremo, per quanto mostri con chiarezza il processo autoimmunitario in atto
all’interno di una struttura democratica, non deve suggerire l’idea che in assenza di un attacco
diretto ed evidente, le forme della biopolitica siano prive della auto-affezione immunitaria. Il
costituirsi dello spazio democratico come intrinsecamente autoimmune non è solo un
ammettere una pulsione auto-distruttiva al suo vertice, ma ammettere anche che sia un
movimento necessario per mantenere dinamica, viva e attiva la democrazia stessa. Come nel
caso dell’autoimmunità quale logica basilare all’interno del nostro paradigma
cognitivo/epistemico, che mette in grado l’individuo di agire e costruirsi un panorama di
credenze dalle quali partire per avere azione ed efficacia nel mondo, anche nel modello
biopolitico lo schema autoimmunitario svolge una funzione di radicale apertura. Nel
distruggere le proprie difese, infatti, e nel difendere un nucleo radicale di principi che
costituiscono la sfera biopolitica anche dalla stessa configurazione democratica, si apre la
possibilità al rischio e alle chance.
Nell’incontro tra la quantità di rischio che la democrazia - o la dimensione biopolitica in atto si assume e la disponibilità di chance che si pone alla propria portata vi è l’equilibrio
perennemente precario indispensabile a una politica viva e dinamica. In questo processo di
assunzione di rischi e distribuzione di chance si può innestare un discorso cognitivo al quale
possiamo fare riferimento per articolare a questo livello le considerazioni biopolitiche
derridiane. Si può così pensare a un modello biopolitico in grado di abbracciare, senza
fondere, la prospettiva filosofica eco-cognitiva, nella misura in cui affronta il problema della
nascita e dello sviluppo delle nicchie cognitive e morali.
6. Nicchie cognitive, nicchie morali e logica autoimmunitaria
Il termine nicchia cognitiva (Laland, Odling-Smee e Feldman, 2000) prende forma dal
concetto di “nicchia ecologica” con il quale si indica quell’insieme di caratteristiche
ambientali favorevoli allo sviluppo di una determinata forma di vita animale; la nicchia
ecologica si distingue dall’idea di habitat, per il fatto che non è una mera identificazione
dell’ambiente nel quale vivono forme di vita ma rappresenta il modo in cui queste vivono
nell’ambiente (Magnani, 2011, 2012). All’interno di una nicchia ecologica la pressione
selettiva non è solo costituita dalla struttura dell’ambiente naturale stesso, ma anche dalle
modificazioni e interazioni che gli animali apportano durante l’interazione quotidiana con
l’ambiente; in questo modo, all’interno di questa prospettiva naturalistica ed evolutiva, gli
animali possono essere definiti ingegneri ecologici per la loro capacità di manipolazione
dell’ambiente al fine di promuovere i fattori favorevoli alla loro specie e mitigare quelli
sfavorevoli.
Su questa struttura si delinea la definizione di nicchia cognitiva proposta da Laland e colleghi:
la manipolazione dell’ambiente è tale da garantire una specifica modifica della pressione
selettiva su una specie e consente a questa di predisporre la propria esistenza in quanto
gruppo, di agire con maggior controllo sull’ambiente stesso e, al contempo, di influire sugli
ambienti selettivi di altre specie (Laland, Odling-Smee e Feldman, 2000).
Nel caso della specie umana la costruzione di apparati sociali e la promozione al loro interno
di un sistema di cooperazione può essere visto alla luce di questo meccanismo. Le strutture
che consentono agli agenti di disporre, all’interno della società, di determinati strumenti
cognitivi e predispongono la condivisione di progetti (idee, apparati e istituzioni socioculturali), sono complessi di nicchie cognitive a diversi gradi di specializzazione. In questo
modo la possibilità per gli agenti di sfruttare gli elementi forniti nelle nicchie eco-cognitive
per poi ridistribuirli sotto forma di chance in grado di essere prese e utilizzate dagli altri
agenti della stessa nicchia aumentano e, nel contempo, la nicchia cognitiva stessa progredisce.
Le chance, in questo senso, sono quel tipo di informazioni che possono essere estratte,
sfruttate e ridistribuite dagli ingegneri ecologici e sono quindi parti integranti delle nicchie
cognitive. Queste informazioni sono utili, talvolta, allo stesso mantenimento della nicchia
come tale: le informazioni inerenti alla “sfera morale”, volte alla protezione e assimilazione di
determinati principi e regole da parte degli agenti, sono funzionali alla costruzione della stessa
nicchia cognitiva e, in questo caso, specificamente morale. Senza ora entrare nel merito della
costituzione e dello sviluppo delle nicchie morali (discusse nel capitolo successivo di questo
libro), è tuttavia utile anticipare un riferimento al modo in cui le informazioni morali si
costituiscono a livello collettivo negli agenti e il modo in cui essi le ridispongono nella
dinamica della nicchia cognitiva.
Per approfondire questo concetto è necessario riferirsi al meccanismo di “imbollamento”
descritto in precedenza. La struttura delle bolle cognitive – ideata sulla base delle bolle
epistemiche, potenzialmente presente, più in generale, in tutte le attività inferenziali del
soggetto – si riveste di un particolare meccanismo autoimmunitario nei casi in cui queste
attività inferenziali siano inerenti alla sfera morale e si rapportino, pertanto, all’assetto sociale
eco-cognitivo formato nelle nicchie morali. Le bolle morali (Magnani, 2011) sono dispositivi
il cui apparato si fonda su un assetto cognitivo e mantengono la funzione di esplicare il
meccanismo autoimmunitario degli agenti nella dinamica di costruzione e decostruzione del
dubbio e della credenza. In questo senso si può affermare semplicemente che si riferiscono a
quel particolare tipo di credenze che compongono l’assetto etico degli individui che, di fatto,
si stabilisce in relazione alla determinata nicchia morale nella quale le credenze si sviluppano,
e che protegge dall’individuazione delle conseguenze violente dovute all’esercizio di azioni
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morali. Se è possibile – ma non necessario – affrontare in una prospettiva eco-cognitiva il
discorso in merito alla portata d’azione delle bolle epistemiche (il cui effetto è mitigato
dall’interazione tra la prospettiva in prima persona e in terza persona), l’analisi diviene invece
cogente per quanto riguarda la dimensione morale. Infatti, l’effetto che questo processo di
imbollamento provoca grazie alla struttura stessa del suo schema autoimmunitario è di
notevole importanza per la gestione sociale e la condivisione delle credenze. Non si tratta solo
di un processo autoimmunitario intrinseco all’individuo: nella sua dimensione condivisa esso
contribuisce ad evidenziare quella dinamica autoimmunitaria già illustrata nel caso della
dimensione più teoretica della biopolitica.
Considerando gli esseri umani come ingegneri cognitivi e assumendo che la loro funzione
principale sia la ricerca di chance messe a disposizione all’interno di nicchie più o meno
sofisticate, è possibile giungere a due conclusioni: la prima interessa il campo più
specificamente evolutivo/biologico e riguarda la selezione delle chance messe a disposizione
degli agenti in ambiente eco-cognitivo così stratificato. La scelta, non unicamente a livello
cognitivo ma anche morale, delle informazioni e del materiale disponibile nelle nicchie
cognitive non può che indirizzare potentemente le opzioni e le modalità di vita degli individui
inseriti in tale contesto. La vitalità di una nicchia dipenderà dalla rielaborazione di queste da
parte dei singoli e dal loro nuovo innesto all’interno della nicchia. La seconda considerazione
è specificamente inerente all’elaborazione svolta circa la dimensione auto-immunitaria dei
soggetti nell’ottica biopolitica ed eco-cognitiva.
Se si considera la configurazione della logica autoimmunitaria descritta da Derrida a livello
eco-cognitivo, è possibile aprire un dialogo tra queste due prospettive filosofiche in grado di
11
Magnani (2012, capitolo 4) affronta – di fatto introducendolo – il tema della nicchia morale, mostrando
come la distribuzione di conoscenze morali nell’ambiente circostante permetta agli esseri umani di compiere
scelte morali in modo cognitivamente semplice, anche grazie ad alcuni artefatti che agiscono da mediatori
morali. Tuttavia, alla luce della prospettiva che Magnani introduce, nella quale morale e violenza sono
intrinsecamente legate, una nicchia morale così formata è anche un potente vettore di violenza strutturale: gli
individui possono percepire come violente le prescrizioni morali distribuite e automaticamente attivate nella
nicchia, qualora non siano in accordo con le loro stesse. Inoltre ogni moralità è mantenuta all’interno di un
gruppo grazie all’esercizio di punizioni e sanzioni più o meno violente.
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illuminare i meccanismi, talvolta palesemente incoerenti o, illogici, dell’apparato sociale. In
questa prospettiva si può pensare la dinamica autoimmunitaria presente all’interno di una
nicchia estesa e potente (come per esempio nel caso della democrazia, alla quale si è già fatto
riferimento con l’esempio riguardante il caso paradigmatico della democrazia americana)
come consistente in una speciale struttura eco-cognitiva in cui il conflitto tra bolle collettive,
morali e cognitive sottopone la nicchia stessa alla necessità di creare uno spazio in cui le
difese rispetto agli elementi pericolosi e dannosi sono interne e rivolte contro lo stesso
sistema. Il fanatismo religioso o il richiamo alla fantomatica anti-politica, per esempio,
diventano elementi delle bolle collettive insite nella nicchia democratica che devono essere
combattuti dalla nicchia stessa, grazie a un loro riconoscimento come parti della stessa ma
immuni rispetto alla possibilità di una loro vera espulsione. La dinamica di costruzione e
spostamento delle bolle fa sì che questo meccanismo sia sempre in azione e, a livello ecocognitivo, determini la qualità e la vitalità di una nicchia cognitiva e ne minacci, al contempo,
la funzionalità e l’efficacia.
In breve, sia a livello individuale sia in un contesto eco-cognitivo più ampio, la dinamica
autoimmunitaria si manifesta come un bisogno e un’arma a doppio taglio. La sua portata
autodistruttiva deve essere mitigata da un cosciente e costante ripensamento delle sue forme e
nell’adozione di una prospettiva che ammetta e riconosca, nell’esistenza di conflitti tra bolle
collettive generanti una ridefinizione continua della nicchia nella quale agiscono, la chiave
della sua stessa stabilità. In un certo senso, tutto ciò è paragonabile a una sorta di esplosione
controllata, il cui obiettivo risiede nel controllo, cosciente e capillare, dei danni e non
nell’arresto della detonazione.
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Cfr. Bertolotti e Magnani, 2013, descrivono un fenomeno simile, analizzando come – in casi particolari
– l'introduzione di particolari modificazioni, che favoriscono la sopravvivenza e il benessere degli agenti che la
popolano, ha invece un ruolo diretto nel provocare l'impoverimento o la totale inospitalità della nicchia cognitiva
stessa