Academia.eduAcademia.edu

Bolle epistemiche, scienza e credenza

2013, Introduzione alla New Logic. Logica, filosofia, cognizione, Genova: Il Melangolo

Nel gioco di carte Machiavelli o Ramino machiavellico, il cui nome deriva dal noto filosofo, ogni giocatore ha inizialmente in mano 10 o 13 carte francesi nascoste agli altri giocatori, può pescare ad ogni turno una carta da un mazzo coperto, non può scartare ed il suo scopo è quello di depositare tutte le carte che ha in mano sul tavolo da gioco seguendo validi schemi combinatori. Inquadrando una tale situazione all'interno della logica agent-based, il giocatore è un agente cognitivo circoscritto in un determinato contesto, il gioco, nel quale possiede un target, l'obiettivo di vincere il gioco, e un determinato numero di risorse cognitive composte dalle informazioni a sua disposizione e dalle euristiche in grado di applicare per meglio gestire questi dati. A ben vedere, Machiavelli (e un qualsiasi gioco di carte, in verità) è un esempio paradigmatico di una situazione in cui l'agente è in una condizione di economia cognitiva. Non solo non possiede la totalità delle informazioni (non conosce quali carte hanno in mano gli altri giocatori, l'ordine delle carte all'interno del mazzo e la distribuzione delle carte tra giocatori e mazzo), non ha risorse cognitive in grado di ovviare a questa mancanza (anche barando o continuando a pescare dal mazzo non avrebbe alcuna chance di raggiungere il totale controllo delle carte sul tavolo e nelle mani dei suoi avversari). Infine, ha a disposizione un tempo limitato per agire, scandito dai turni di gioco e dalla celerità delle azioni degli altri partecipanti. Appare lampante in questo caso la differenza, spesso sottolineata da Gabbay e Woods (2001), tra scantness (scarsità) e scarcity (povertà) delle risorse cognitive a disposizione di un agente: 1 è vero, infatti, che il giocatore ha poche informazioni, è costretto ad agire in un tempo limitato e non ha i mezzi per modificare questa situazione ma, per vincere il gioco e conseguire quindi l'obiettivo prefissato, non ha bisogno di più tempo o maggiori informazioni ma solo di elaborare ed applicare strategie cognitive in grado di eludere le difficoltà poste dal gioco stesso. Le risorse che possiede sono scarse, ma non paralizzanti, e sono il presupposto del concetto di homo heuristicus, introdotto nel dibattito negli ultimi decenni del secolo scorso (Gingerenzer e Brighton, 2009). 1 La scarsità delle risorse è, infatti, una qualità comparativa: non implica necessariamente la povertà o l'assenza delle risorse, ma solo una loro minore quantità rispetto a quelle che normalmente possiede un agente istituzionale (intorno a questo concetto cfr. capitolo precedente). A questo si aggiunge anche il fatto che l'agente pratico si pone, generalmente, obiettivi modesti, commisurati alla quantità di risorse cognitive a sua disposizione. In questo senso un individuo potrebbe, nonostante la scarsità degli strumenti disponibili, avere lo stesso tutti i mezzi per conseguire il suo scopo (Gabbay e Woods, 2001).

Bolle  epistemiche,  scienza  e  credenza     Selene Arfini 1. Situazioni di economia cognitiva: euristiche di base Nel gioco di carte Machiavelli o Ramino machiavellico, il cui nome deriva dal noto filosofo, ogni giocatore ha inizialmente in mano 10 o 13 carte francesi nascoste agli altri giocatori, può pescare ad ogni turno una carta da un mazzo coperto, non può scartare ed il suo scopo è quello di depositare tutte le carte che ha in mano sul tavolo da gioco seguendo validi schemi combinatori. Inquadrando una tale situazione all’interno della logica agent-based, il giocatore è un agente cognitivo circoscritto in un determinato contesto, il gioco, nel quale possiede un target, l’obiettivo di vincere il gioco, e un determinato numero di risorse cognitive composte dalle informazioni a sua disposizione e dalle euristiche in grado di applicare per meglio gestire questi dati. A ben vedere, Machiavelli (e un qualsiasi gioco di carte, in verità) è un esempio paradigmatico di una situazione in cui l’agente è in una condizione di economia cognitiva. Non solo non possiede la totalità delle informazioni (non conosce quali carte hanno in mano gli altri giocatori, l’ordine delle carte all’interno del mazzo e la distribuzione delle carte tra giocatori e mazzo), non ha risorse cognitive in grado di ovviare a questa mancanza (anche barando o continuando a pescare dal mazzo non avrebbe alcuna chance di raggiungere il totale controllo delle carte sul tavolo e nelle mani dei suoi avversari). Infine, ha a disposizione un tempo limitato per agire, scandito dai turni di gioco e dalla celerità delle azioni degli altri partecipanti. Appare lampante in questo caso la differenza, spesso sottolineata da Gabbay e Woods (2001), tra scantness (scarsità) e scarcity (povertà) delle risorse cognitive a 1 disposizione di un agente: è vero, infatti, che il giocatore ha poche informazioni, è costretto ad agire in un tempo limitato e non ha i mezzi per modificare questa situazione ma, per vincere il gioco e conseguire quindi l’obiettivo prefissato, non ha bisogno di più tempo o maggiori informazioni ma solo di elaborare ed applicare strategie cognitive in grado di eludere le difficoltà poste dal gioco stesso. Le risorse che possiede sono scarse, ma non paralizzanti, e sono il presupposto del concetto di homo heuristicus, introdotto nel dibattito negli ultimi decenni del secolo scorso (Gingerenzer e Brighton, 2009). 1 La scarsità delle risorse è, infatti, una qualità comparativa: non implica necessariamente la povertà o l’assenza delle risorse, ma solo una loro minore quantità rispetto a quelle che normalmente possiede un agente istituzionale (intorno a questo concetto cfr. capitolo precedente). A questo si aggiunge anche il fatto che l’agente pratico si pone, generalmente, obiettivi modesti, commisurati alla quantità di risorse cognitive a sua disposizione. In questo senso un individuo potrebbe, nonostante la scarsità degli strumenti disponibili, avere lo stesso tutti i mezzi per conseguire il suo scopo (Gabbay e Woods, 2001). 1. 1 L’Homo Heuristicus e lo sfruttamento delle fast-and-frugal strategies. La formulazione dell’homo heuristicus si basa su di una diversa concezione del rapporto tra precisione dei risultati e sforzo, inteso come impiego di risorse cognitive all’interno del processo decisionale. Nel passato queste nozioni erano analizzate a partire dalla premessa necessaria di un loro rapporto di proporzionalità diretta all’interno di una forma di razionalità efficiente. Si riteneva perciò scontato che più grande fosse lo sforzo maggiore sarebbe stata la precisione del risultato. Questa tesi, e la sua conseguente ovvietà, vengono stravolte con l’elaborazione del concetto di homo heuristicus, il quale incarna una forma di razionalità efficiente in grado di raggiungere i risultati prefissati impiegando una ristretta quantità di risorse cognitive. Si deve infatti pensare all’homo heuristicus come ad un agente che, utilizzando un insieme di strategie cognitive, è in grado di eludere la stretta correlazione tra sforzo e precisione, garantendo alle proprie azioni le migliori prestazioni possibili in una situazione di economia cognitiva. In questo contesto, nel quale si va a comporre ciò che Gigerenzen chiama l’Adaptive Toolbox (letteralmente la “cassetta degli attrezzi” del nostro pensare ed agire quotidiano) si inserisce la 2 già definita nozione di biased rationality (Bardone e Magnani, 2011), della quale si deve approfondire un particolare aspetto, o, per meglio dire, l’applicazione di una fallacia specifica che ha dei particolari risvolti all’interno del contesto della logica “agent-based”. La fallacia in questione è l’ argumentum ad ignorantiam, il cui utilizzo porta l’homo heuristicus ad agire in base ad una conoscenza che non possiede. Infatti, in termini logici, si definisce l’argumentum ad ignorantiam la fallacia secondo la quale quando un agente non conosce una determinata nozione come vera, allora non sarà vera. Questa fallacia presenta un notevole vantaggio in termini di investimento di risorse: la mancanza di conoscenza non viene infatti concepita come assenza di conoscenza, ma come sapere negativo. Con l’inserimento di un’informazione irrilevante ai fini di determinare la veridicità di una data nozione, vale a dire l’ignoranza dell’agente in merito alla verità o falsità della stessa, si compone una fallacia in grado di garantire sicurezza all’azione dell’agente, senza che questa sicurezza debba poggiare su solide basi. In breve il vantaggio che si ottiene da questa costruzione è un premissory starting point, un iniziale punto di partenza per prendere una decisione. Per riprendere l’esempio esposto inizialmente, è possibile pensare alle decisioni di ogni giocatore al tavolo come anch’esse sottoposte alla fallacia dell’argumentum ad ignorantiam: se ogni giocatore si soffermasse a pensare a quante possibilità ci sono che una una data carta utile sia ancora nel mazzo coperto, probabilmente non sarebbe in grado di proseguire il gioco. Il calcolo sulla reale possibilità che una data carta esca sarebbe laborioso e, in fin dei conti 2 Difficile sarebbe la traduzione in italiano della formula biased rationality: letteralmente si potrebbe chiamare “razionalità parziale” o “prevenuta”, ma la formula inglese è sufficientemente ambigua per inquadrare sia l’utilizzo delle “bias”, letteralmente “pregiudizi” o “errori”, all’interno del procedimento inferenziale che la contraddistingue, sia il riferimento alla faziosità della razionalità stessa percepita da un esterno – e correttamente logico – punto di vista. non molto utile o abbastanza efficace per gestire ogni mano della partita. In poche parole, se ogni giocatore ritenesse essenziale possedere questo tipo di conoscenza, il gioco si bloccherebbe periodicamente senza per questo aumentare la possibilità che uno dei giocatori sia avvantaggiato dalla nuova conoscenza acquisita. La mossa più corretta è perciò quella di ignorare questa lacuna e convincersi, al contrario che quella carta non uscirà dal mazzo alla prossima mano. In questo modo il giocatore è in grado di organizzarsi per manipolare le combinazioni senza quella possibilità; di fatto, un’ignoranza è così sostituita con la convinzione di una conoscenza, in realtà infondata, e il gioco può prosegue. Le operazioni di questo tipo vengono definite fast-and-frugal strategy (letteralmente strategie veloci-e-frugali) che, permettendo alla nostra mente di non arrestarsi di fronte a piccoli ostacoli, ci mettono in grado di effettuare scelte quotidiane più o meno impegnative e, nel contempo, di manipolare l’ambiente cognitivo al fine di perfezionare la decisione. Sono presto evidenti i limiti di questa forma di razionalità: il suo radicarsi su argomenti fallaci la distingue, già intuitivamente, dalla forma di razionalità con la quale si arriva a una conoscenza genuina della realtà circostante e che ci permette di inferire sul mondo tesi corrette senza possibilità d’errore. Nella vita quotidiana, tuttavia, non sempre disponiamo degli strumenti o delle risorse cognitive per fondare le nostre credenze su questa più corretta forma di razionalità bensì vi è la necessità di affidare alle fast-and-frugal strategies il compito di determinare il nostro giudizio e la nostra azione. 1. 2 L’ambigua erroneità delle fallacie 3 Fondamento logico della biased rationality, come si è già avuto modo di illustrare, sono le fallacie, la cui valutazione e definizione nel corso della storia della logica ha subito notevoli cambiamenti e, a partire dalla metà del secolo scorso, ha dato inizio e corpo a una rivoluzione concettuale alla quale hanno contribuito anche numerose ricerche appartenenti al campo delle scienze cognitive. Dalla definizione di Aristotele che considerava le fallacie semplici concatenazioni di enunciati che “sembrano” sillogismi (ossia inferenze valide), ma che in realtà non lo sono, alle ultime considerazioni, evidentemente più problematiche a livello epistemologico, poste all’attenzione della comunità filosofica dal già menzionato John Woods, la costruzione concettuale intorno a questa tematica ha attraversato numerose fasi nel corso del tempo. Negli ultimi quarant’anni, in particolare all’interno degli ambiti di ricerca sulla cognizione, si è infatti verificato un mutamento sostanziale di prospettiva, che ha arricchito e ridefinito i punti focali delle argomentazioni e modificato radicalmente le metodologie di valutazione. A questo riguardo si deve necessariamente menzionare il testo di Hamblin, Fallacies (1970): rifacendosi alle recenti teorie dell’argomentazione, Hamblin definisce infatti la fallacia non un enunciato bensì un “argomento che sembra valido ma non lo è” (1970, p.12). Questa scelta lessicale esprime la necessità di porre in luce l’elemento dialogico e pubblico che un 3 Vedi capitolo 1, paragrafo 1.4. argomento, al contrario di un semplice enunciato o di una concatenazione di enunciati, possiede nel linguaggio ordinario e l’imperativo di affrontare la spinosa questione della validità di un ragionamento fallacie all’interno dei meccanismi della comunicazione. In questo contesto, infatti, non è solo la correttezza di un’inferenza ad essere perno dell’efficacia di un argomento: ulteriori fattori entrano in gioco quali, per esempio, la capacità persuasiva dell’agente e la sua abilità a manipolare l’attenzione dell’interlocutore. Hambling infatti, nell’elaborazione dei cosiddetti “sistemi dialettici”, esamina la questione selezionando uno specifico contesto, il dialogo, e un particolare fine, quello di convincere, che determina il campo d’azione delle fallacie. Sempre lungo questo percorso analitico, lo stesso problema è stato approfondito anche negli studi condotti da Jaakko Hintikka che, operando un radicale mutamento concettuale, le riconsidera all’interno di una teoria dell’interrogazione, nel contesto di una Dialogiche Logik, innovativa rispetto a quella descritta nei sistemi tradizionali (Benzi, 2002). La svolta è però compiuta negli anni ‘90, quando il tema è stato ripreso e scomposto nella New Dialectic di Douglas Walton, il quale, ribadendo l’importanza di abbandonare una prospettiva logica puramente formale, monolettica e monotonica, riconferma l’esigenza di approfondire lo studio del contesto nel quale sorgono le fallacie per una loro più obiettiva valutazione e classificazione. Walton elenca così sei tipologie specifiche di dialogo nel quale il giudizio sulla struttura logica dipende non solo dallo scheletro formale delle mere inferenze argomentative messe in atto, ma anche dalla loro efficacia nel raggiungere gli obiettivi verso cui sono orientati i partecipanti. Infine la tematica viene espressamente inscritta all’interno di un assetto teorico agent-based: nell’articolo The concept of fallacy is empty, Woods contribuisce a fondare il tema delle fallacie come ineludibile all’interno di un’indagine basata sulla actually happens rule e descrive audacemente il loro utilizzo come espressione di “possibili” virtù cognitive (Woods, 2007). Questa nuova concezione è posta a confronto con la definizione composta dalle quattro caratteristiche da sempre attribuite al ragionamento fallace, che vanno a formare ciò che Woods chiama la EAUI conception secondo cui le fallacie sono erronee, attraenti (in quanto non sembrano affatto erronee), universali ed incorreggibili (inclini, ossia, ad essere riutilizzate, nonostante le si percepisca come erronee). Rigettando queste caratteristiche in quanto manifesto di una definizione troppo restrittiva e semplicistica del ragionamento fallace, Woods prende in considerazione specificatamente la valutazione della cosiddetta Gang of Eighteen, (letteralmente, la Banda delle Diciotto) la lista delle fallacie maggiormente conosciute nella tradizione filosofica, ed articola su di essa due tesi speculari: una negativa e una positiva. La prima è volta a dimostrare come le diciotto fallacie tradizionali non siano in realtà erronee e, se le si considera tali, si deve ammettere che non sono errori che un agente reale commette “tipicamente” (con ciò il loro carattere erroneo è escluso da un’indagine come quella qui presentata, posta sotto l’actually happens rule). La seconda, invece, descrive le fallacie comprese nella Gang of Eighteen come strategie razionali per compensare la limitatezza delle risorse cognitive a disposizione; ergo, le fallacie vengono descritte apertamente come virtù cognitive. Il processo cognitivo alla base delle azioni fallaci viene giudicato in relazione alla sua efficacia nel conseguire l’obiettivo che l’agente si pone e non esclusivamente in base alla correttezza della formalizzazione logica del processo inferenziale. Questa seconda tesi, che Woods approfondisce, mette in discussione radicalmente la validità della EAUI-conception: definendo le fallacie virtù cognitive, anche se solo in particolari circostanze, viene messo in dubbio il loro assoluto carattere erroneo e con ciò, proprio per il fatto che le fallacie non sono necessariamente portatrici di errore (ossia non portano a ineluttabile fallimento) si rivelano essere attraenti, universali ed incorreggibili. Se ci riferiamo ancora, per esempio, alla situazione del gioco, consideriamo parte integrante delle strategie dei giocatori l’utilizzo di fallacie come l’argumentum ad ignorantiam prima presentato. Il nocciolo del problema, secondo l’analisi logica classica, verte sul fatto che nel compiere questo genere di inferenze la conclusione dipenderebbe da informazioni non rilevanti per la risoluzione il completamento affidabilità dell’inferenza (come lo stato emotivo dell’agente, la sua ignoranza o il giudizio di altri soggetti). Il discusso problema della rilevanza è un punto centrale nel dibattito in merito alle fallacie e la prospettiva agent-based proposta da Gabbay e Woods ci permette di spostare l’ago della bilancia in maniera significativa verso un’elaborazione maggiormente proficua dal punto di vista cognitivo e considerare le informazioni irrilevanti come parti integranti del materiale eco-cognitivo a disposizione degli agenti. In questo modo la valutazione delle fallacie è fondata sulla modalità con la quale sono utilizzati i dati per la formulazione delle inferenze e sulla loro efficacia nel contesto nel quale i ragionamenti fallaci sono applicati. In tal modo si può ben vedere come a livello eco-cognitivo il dilemma circa la liceità logica dell’inserimento di informazioni non rilevanti è meno interessante della questione riguardo l’efficacia argomentativa che questo stesso inserimento comporta. Occorre a questo punto soffermarsi e meglio analizzare la ragione per la quale si dà inizio al processo inferenziale, la modalità con la quale si costituiscono le informazioni prodotte e l’effettivo esito epistemico a cui giunge l’individuo al termine della procedura; a questo tipo di questioni risponde la dinamica tra dubbio e credenza elaborata dal filosofo americano Charles Sanders Peirce. 2. La forza guida del pensiero: la dinamica tra dubbio e credenza Lo studio condotto da Charles Peirce in merito alla dinamica di creazione e rinnovamento delle credenze agente nell’individuo ha inizio nei due saggi, “La fissazione della credenza” e “Come rendere chiare le nostre idee” (1877-1878/1984a, 1984b). In questi scritti, attraverso alcuni esempi particolari, Peirce analizza le modalità di studio e di utilizzazione del ragionamento logico adottate nel corso dei secoli, dalla scolastica medievale all’applicazione di determinate regole inferenziali nei progetti scientifici di Darwin, Clausius e Maxwell. Questi esempi forniscono a Peirce l’occasione di parlare dell’essere umano come di un animale “per lo più logico”, in quanto capace di meccanismi inferenziali efficienti (in grado, cioè, di produrre conclusioni coerentemente derivate da premesse date) ma problematico, poiché costituito da un metodo che non è in grado di dimostrare la verità degli enunciati costruiti ma solo la loro validità dal punto di vista logico. In ciò però sta la particolarità dell’essere umano: nonostante la problematicità delle inferenze che formula egli è incessantemente motivato ad elaborarne di nuove e sempre più sofisticate. In questa attività alcune inferenze vengono preferite ad altre a causa di quelli che Peirce chiama abiti mentali (costituzionali o acquisiti) che indirizzano il pensiero secondo predisposizioni individuali dovute all'educazione o alla personale disposizione psicologica del soggetto. Un abito mentale può, per esempio, indicare all'agente un assetto inferenziale analogico o fargli preferire una modalità supersiziosa di razionalità per risolvere un problema. Gli abiti mentali conducono così alla formulazione di inferenze che sono considerate particolarmente affidabili in particolari contesti. Le inferenze formulate a partire dall’abito mentale sono basate su quelli che Peirce chiama principi-guida, e indirizzano verso la costruzione di argomentazioni valide o non valide a seconda della loro applicazione nei particolari contesti e a partire da determinate informazioni. 2.1 Principi-guida di inferenza ed errori: Galileo e la teoria sulle maree. Per chiarificare questo concetto possiamo vedere in che modo si applica questa teoria a un caso emblematico della storia della scienza. Nel corso della trattazione del Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo, Galileo (1630/1970), per argomentare in favore del sistema copernicano e spiegare perché sulla superficie terrestre non si avverte il movimento rotatorio della Terra, formula un esempio mentale di grande efficacia retorica. Salviati, il portavoce del sistema copernicano e del pensiero di Galileo stesso all’interno del Dialogo, invita a immaginarsi a bordo di un gran naviglio sottocoperta: nonostante siano presenti numerosi elementi che, secondo i sostenitori della tesi aristotelica e tolemaica, dovrebbero spostarsi seguendo il movimento della nave durante cadute (“siavi anco un gran vaso d’acqua, e dentrovi de’ pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vadia versando dell’acqua in un altro vaso di angusta bocca, che sia posto a basso”) o lanci (“gettando all’amico alcuna cosa, non piú gagliardamente la dovrete gettare verso quella parte che verso questa, quando le lontananze sieno eguali”) non vi sono spostamenti che, di fatto, possono indicare alle persone a bordo che la nave sia davvero in movimento. Il principio-guida adottato da Galileo si basa sulla relazione apparente tra la percezione che alcuni uomini, sottocoperta in una ipotetica chiatta, avrebbero del suo stesso movimento rispetto alla percezione che gli uomini hanno del movimento della Terra. Ciò gli consente di affermare che se delle persone presenti sottocoperta su di un naviglio non possono avvertire il movimento della imbarcazione su cui si trovano, men che meno gli uomini saranno in grado di avvertire la rotazione del pianeta. Il medesimo principio gli consente anche di formulare la tesi – prima nel Discorso sopra il flusso e il reflusso del mare e successivamente anche nel Dialogo – secondo la quale le grandi masse d’acqua, composte da fluidi che non sottostanno alle stesse regole dei solidi nel microcosmo seguano questo sistema anche a livello del macrocosmo e risentano, perciò, del movimento della Terra il quale direttamente provoca il flusso e reflusso del mare. Lo scienziato cerca di dimostrare questa teoria mediante un esperimento con un vaso collegato a una corda e sottoposto a un doppio movimento rotatorio a modello degli spostamenti delle acque durante la rotazione terrestre. Mi son quasi sentito non leggiermente tirare ad ammettere queste due conclusioni (fatti però i presupposti necessari): che quando il globo terrestre sia immobile, non si possa naturalmente fare il flusso e reflusso del mare; e che quando al medesimo globo si conferiscano i movimenti già assegnatili, è necessario che il mare soggiaccia al flusso e reflusso, conforme a tutto quello che in esso viene osservato. (p. 237) Mediato dal medesimo principio-guida che gli permette di utilizzare la relazione tra esperienze nel microcosmo a modello dei fenomeni nel macrocosmo per la risoluzione del problema riguardo la percezione della rotazione terrestre, Galileo quindi compie: 1. un’inferenza corretta riguardo il moto terrestre e la percezione che ne hanno gli uomini ed il trasferimento del medesimo moto agli oggetti fisici; 2. un’inferenza errata riguardo il fatto che i mari, essendo composti da fluidi, non siano soggetti allo stesso principio che governa i solidi e quindi si muovano a causa della rotazione e non assieme ad essa, nonostante partisse dalla medesima premessa veritiera garantita dall’ipotesi copernicana. Si mostra così che lo stesso principio-guida, che applicato inizialmente per dare origine all’inferenza secondo la quale sulla superficie della Terra il movimento rotatorio non è avvertito dagli esseri viventi, non può essere riutilizzato per dare luce anche all’inferenza secondo la quale, i mari, sono soggetti a una diversa legge. Nonostante tutto ciò, può essere asserito che la credenza a cui giunge Galileo è più che soddisfacente per lo scienziato, il quale giudicò la tesi sulla spiegazione del flusso e reflusso del mare abbastanza veritiera e saldamente concreta da fungere da prova evidente della tesi copernicana. Proprio questa sicurezza, derivata dall’acquisizione di una certa credenza tramite inferenze, viene posta da Peirce come il risultato ultimo del pensiero. In questo senso, quelli che egli chiama “stati mentali” del dubbio e della credenza, sono posti alla base dell’esigenza logica dell’essere umano. Nell’analisi di questi due stati si deve infatti sottolineare una loro particolare differenza pratica: le credenze che modellano i nostri desideri e le nostre azioni manifestano la nostra disposizione ad adottare un particolare abito mentale, cioè una particolare proposizione, come principio guida. Riprendendo il precedente esempio, la credenza (veritiera) nel doppio moto rotatorio della Terra, guidata dal principio guida illustrato, ha conseguito sia la formulazione dell’ipotesi sensata riguardo la percezione del movimento terrestre da parte degli esseri umani, sia la teoria sulla causa del movimento delle maree. La credenza assume quindi un ruolo di statica affermazione di un principio, i cui effetti sono la presa di posizione e l’adempimento di azioni motivate dalla credenza stessa o in sua difesa, non la sua messa in discussione o rielaborazione. In tal senso, la credenza ci mette in condizione di agire secondo un principio, ma non ci consente di analizzarlo, non ci spinge all’azione su di esso. 2. 2 L’irritazione del dubbio i metodi per la fissazione di una credenza e i vantaggi del fallibilismo. Il dubbio, al contrario, è uno stato di insoddisfazione e di rinnegamento che motiva una ben determinata ricerca. Quello che Peirce denomina “l’irritazione del dubbio” è uno stato mentale che non desideriamo, uno stato dal quale cerchiamo di uscire e che rifuggiamo proprio a causa della perdita di sicurezza e decisione data dall’abbandono di una credenza. A differenza della statica fiducia e convinzione garantita dallo stato di credenza, il dubbio ci pone infatti in una dinamica e affannosa ricerca (Peirce usa il termine “lotta” per enfatizzare il carattere violento di questa condizione) per conseguire un nuovo stato di credenza e di quiete. Questo meccanismo viene paragonato da Peirce allo scatto di un nervo che reagisce a una stimolazione tramite un movimento per poi ritornare allo stato di rilassamento iniziale. Con ciò si esaurisce l’unico obiettivo del pensiero che, da uno stato iniziale di irritazione (il dubbio) dovuto alla messa in discussione di una credenza, attraverso il ragionamento inferenziale raggiunge lo stato di pace conseguente all’adozione di una credenza differente. In accordo con questa prospettiva, la fissazione di una nuova credenza è definita come l’unica finalità e sola conseguenza del ragionamento inferenziale che non solo permette l’assunzione di un particolare stato di sicurezza per il soggetto agente, ma anche l’adozione di un determinato abito mentale, ossia un modello di pensiero e azione, dotato di senso e indirizzato verso uno scopo, nella realtà quotidiana. Secondo Peirce la fissazione di una credenza si attua attraverso quattro metodi: il metodo della tenacia, il metodo dell’autorità, il metodo del ragionamento a priori e il metodo della scienza. Il metodo della tenacia consiste, fondamentalmente, nell’evitare situazioni in grado di far vacillare la credenza in questione. Non dubitando della presunta consistenza del principioguida adottato si rimane ancorati a una forma di sicurezza del proprio conoscere che viene incrementata non solo dalla presenza stessa della credenza, ma anche dalla ferma volontà di credere ad essa. Il metodo dell’autorità, a differenza del primo, si produce non solo a livello individuale, ma anche a livello collettivo: la credenza viene fissata all’interno di un determinato assetto sociale per volere e dominio di una qualche figura autoritaria che ne impone l’accettazione. In terzo luogo, è presentato il metodo della ragione a priori, quello che Peirce definisce il più intellettuale e rispettabile tra quelli finora esposti che finisce per essere descritto come anche quello il cui fallimento è risultato il più evidente nel corso della storia del pensiero. In questo caso la specifica credenza è infatti assunta come veritiera perché considerata “in accordo con la ragione” e, come sottolinea Peirce, “non in accordo con l’esperienza, ma con ciò che siamo portati a credere. […] Questo metodo considera la ricerca qualcosa di simile allo sviluppo del gusto; ma il gusto, sfortunatamente, è sempre più o meno una questione di moda” (Peirce, 1984a, p.254). In ultima analisi viene preso il considerazione il metodo della scienza, giudicato da Peirce in grado di fissare una credenza legittimamente veritiera, in grado di fondare le inferenze legittime su di un realismo che presuppone l’esistenza di una “permanenza esterna” di oggetti reali, i quali sono conoscibili. L’acquisizione di una credenza, anche se erronea, non solo provoca una situazione di pacificazione all’interno del soggetto agente, per il quale cessa la “lotta” per uscire dall’irritazione del dubbio, ma consente anche l’instaurazione di un meccanismo di azione e reazione all’ambiente, in grado di muovere l’agente a prendere decisioni anche all’interno di situazioni di economia cognitiva nelle quali, senza la possibilità ad assumere come veritiere e sensate anche inferenze fallaci, sarebbe fortemente limitato. Il fallibilismo, in questo senso, è la teoria che meglio esprime questo complesso di capacità cognitive. Nei termini di John Woods, il fallibilismo si basa sul fatto che gli esseri-come-noi hanno due tipi di abbondanza epistemica: una error abundance, che esprime semplicemente la nostra propensione a commettere errori, molti errori, e una knowledge abundance, che esprime la nostra volontà costante a sapere ed ad avere specifiche conoscenze (Woods, 2005). La tensione permanente tra queste due componenti ci consente di fondare le nostre credenze su di un piano non necessariamente solido dal punto di vista epistemologico, per così dire, ma abbastanza soddisfacente da permettere la fissazione della credenza e, di conseguenza, la condizione base per agire. Con le parole di Herbert Simon, il fatto che gli esseri umani siano in grado di prendere decisioni e risolvere problemi in presenza di informazioni incomplete garantisce la possibilità di considerare le conclusioni passibili di essere modificate in presenza di nuove informazioni (Simons, 2000). Le considerazioni precedenti mostrano infatti che tra le quattro possibilità menzionate il soggetto agente non sempre sceglie di attenersi al metodo della scienza, ma, anzi, ha notevoli vantaggi nell’evitare di farlo. L’apertura volontaria a modificare le proprie credenze ormai fissate secondo i tre metodi ritenuti più fallibili e a inquadrarle sotto i canoni di una razionalità scientifica è un’ardua attività per l’agente cognitivo, più di quanto sia si possa supporre. 3. Bolle epistemiche: la fissazione esasperata delle credenze La riflessione logica ed epistemica animata dall’interesse per le cause che muovono l’agente cognitivo reale, si concentra utilmente sulla malleabilità del complesso di credenze che 4 possiede e dalla loro aderenza all'habitus peirciano. Il quadro di credenze e la loro 4 Per descrivere meglio la condizione intrinseca all’individuo di quiete apparente e, al contempo, di perenne tensione derivata dallo stato di consapevolezza o di indifferenza verso le proprie credenze – la loro veridicità, condivisione o ingenua assunzione – si potrebbe usare la parola greca stasis. In greco antico tale parola rimanda a una situazione di crisi o tensione intrinseca alla polis, e veniva usata per designare sia la guerra civile nella quale sfociavano le tensioni tra famiglie in avversarie, sia la presa di posizione dei vari membri della città all’interno degli scontri; infine, come evidenzia l’etimologia (da istemi, stare, rimanere fermo) ci si riferiva progressiva fissazione nonché le “rivoluzioni” all’interno della struttura cognitiva sono in continua mutazione nel soggetto stesso ed ogni cambiamento di paradigma coinvolge non solo la sua costituzione mentale ma anche il modo in cui agisce nel mondo. Oltretutto la questione si complica quando si prendono in considerazione sia il meccanismo di generazione e rivoluzione delle credenze nell’habitus dell’individuo sia la consapevolezza che l’individuo stesso ha di questo meccanismo agente nel proprio sistema cognitivo. Infatti, anche se la piena consapevolezza da parte del soggetto della dinamica tra dubbi e credenze sarebbe auspicabile, esso si trova spesso in una situazione di inconsapevolezza o addirittura di negazione di questa stessa dinamica, in conformità alla actually happens rule prima illustrata. Ciò assume tratti molto interessanti e controversi. La questione può essere esemplificata prendendo in considerazione una storiella la cui paradossalità mostra a un livello parossistico il cortocircuito cognitivo tra credenza e consapevolezza di tale credenza: quando viaggia in aereo un professore di statistica porta sempre con sé una bomba; pensa, infatti, che se ci sono basse probabilità che su di un aereo vi sia una bomba le probabilità che sul medesimo aereo ve ne siano due sono quasi nulle. Per chiarirci, la questione non riguarda solo la fissazione della credenza fallace del professore, ma lo stato di sicurezza ad essa conseguente che lo porta, nonostante l’infondatezza della sua credenza, a salire sull’aereo. Il rapporto tra la consapevolezza o meno di un individuo rispetto alla vulnerabilità e legittimità delle proprie credenze ha portato Woods alla concettualizzazione di un sistema cognitivo immunitario che si caratterizza per la presenza di quelle strutture cognitive 5 denominata bolle epistemiche. La bolla epistemica è, in questo senso, in sintonia con i principi delineati all’interno del pragmaticismo logico di Peirce ed è capace di mostrare la dinamica immunitaria (e autoimmunitaria) del soggetto conoscente nelle sue più immediate ed evidenti manifestazioni (dal caso del professore di statistica alle espressioni più banali e meno pericolose di incoscienza verso la fondatezza delle proprie credenze). Prima di tutto si può analizzare la struttura delle bolle epistemiche in riferimento a quanto esposto in precedenza riguardo la dinamica dubbio/credenza nello schema logico-pragmatico di Peirce. Tale dinamica può di fatto essere definita come una reazione immediata e soddisfacente all’irritazione del dubbio. La fissazione della credenza necessaria per la cessazione dello stato di irrequietezza e insofferenza, come si è detto, si compie all’interno del modello costituito dai quattro metodi delineati – la tenacia, l’autorità, la ragione a priori e la anche alla stasis per parlare della situazione di quiete provvisoria tra una guerra e l’altra, nella quale le tensioni non sono appianate, ma stanno per dare origine a una nuova guerra. La continua elaborazione, produzione e modifica delle credenze attraverso crisi create dall’irritazione del dubbio è equiparabile alla natura incessantemente mutevole e soggetta a crisi cicliche della polis. Così come l’individuo è intrinsecamente portato a rinnovare il proprio bagaglio di credenze attraverso cicliche rivoluzioni di prospettiva, anche la polis era soggetta alle mutevoli evoluzioni della situazione di stasis con le quali riorganizzava la sua struttura sociale e politica. 5 Cfr Magnani, 2009 (capitolo 7) e Woods, 2005 scienza – e attraverso moduli specifici, i quali acquistano consistenza e legittimità a seconda delle circostanze di utilizzo e in base alla credenza che portano ad assicurare. Così pensata, la bolla epistemica si configura esattamente come il modulo privilegiato nel quale la fissazione della credenza si attua attraverso il metodo della tenacia. Ciò è introdotto da Woods con una definizione della differenza tra conoscenza e credenza, posta parallelamente rispetto alla dinamica dubbio/credenza di Peirce e alla luce di una prospettiva agent-based (Woods, 2005). La conoscenza, sotto questi requisiti, è individuata come il possesso da parte di un agente di un caso, un esempio paradigmatico a sostegno di una tesi (“knowledge is a kind of casemaking” p. 735) inscritto nella prospettiva in prima persona dell’agente, cioè, all’interno del suo sistema di credenze. In questo modo la dinamica della fissazione della credenza diventa sempre una questione di ascrizione di conoscenza, ossia dipende dalla valutazione da parte dell’agente della forza dei casi paradigmatici presentati a sostegno di una tesi. Così credere a una determinata nozione è equivalente, nell’ottica in prima persona dell’agente, al possedere la conoscenza di quella determinata nozione. Per arrivare alla chiave fondamentale del problema – poste le due tesi in merito alla fissazione della credenza e riguardo al sollievo che nel soggetto provoca l’ascrizione di una determinata conoscenza nella prospettiva in prima persona – si evidenzia dunque: 1. l’intrinseca necessità per la conoscenza di essere sempre recepita in una dinamica di credenza per il soggetto agente; 2. l’impossibilità di avere credenze vacue, o vuote, che cioè non comportano alcuna 6 ascrizione di conoscenza per l’individuo. Woods è dunque condotto alla formulazione della controversa Proposizione 6 “The down side of belief”, la quale parla della credenza come necessaria condizione per la conoscenza e, al contempo, come di un impedimento al suo conseguimento. È infatti vero che se le nostre conoscenze sono recepite all’interno della dinamica della credenza, e che la loro fissazione in questo frangente risolve l’irritazione del dubbio, ciò non garantisce affatto la verità o la effettività di queste conoscenze, compromettendo di fatto il nostro assetto conoscitivo. La presenza in noi di credenze false suggella l’evidente problematica dello stato precariamente ingenuo della nostra conoscenza. Se, infatti, la percezione di questa precarietà suggerisce la manipolazione delle informazioni che, sotto forma di credenze, recepiamo, al 6 Ogni credenza si poggia infatti su una dose, anche minima, di conoscenza di una determinata nozione. La nostra dinamica epistemica è determinata e resa possibile dalla credenza: questo significa che quest’ultima è sia ciò che consente l’esistenza delle nostre conoscenze, sia lo strumento con il quale le circoscriviamo. In quanto tale una credenza non può diventare un contenuto di conoscenza in sé. Utilizzando un lessico kantiano, la credenza è interpretabile come la semplice forma a priori con cui un contenuto epistemico può essere assunto a conoscenza: non può mai essere essa stessa l’oggetto conosciuto. Infatti, se anche volessimo pensare una credenza come oggetto di conoscenza in sé, ci troveremmo nella necessità di ascriverla all’interno di una nuova credenza la quale sarebbe a sua volta il contenuto di un’ulteriore credenza e così via. La possibilità di avere credenze vacue si elimina a causa dell’incapacità (per un agente reale) di pensare a una conoscenza unicamente formale o all’irrealizzabile creazione di un circolo vizioso. contempo vi è un meccanismo di immunizzazione di queste credenze rispetto alla nostra valutazione imparziale: tale immunizzazione è garantita dal loro stesso essere percepite come conoscenze, in quanto causa del sollievo dall’irritazione del dubbio. Pur sapendo che vi è differenza tra lo statuto epistemico della percezione della conoscenza (il sentire di sapere, “feeling of knowing”) e dell’effettivo conoscere in senso stretto, possiamo applicare questa distinzione solo nell’ottica distaccata della terza persona e mai per quanto riguarda le nostre proprie credenze. Ciò si palesa esplicitamente nella proposizione riguardante la fugacità della verità (fugitivity of truth): è vero, infatti, che non c’è conoscenza che non si possieda senza credere di possederla, ma il contrario non è così pacifico: se si ritiene di possedere una qualche conoscenza ciò non implica che la si possieda davvero. In questa dinamica trova spazio e ragione d’uso una duplice definizione del concetto di bolla epistemica, come: 1. impossibilità – per il soggetto – di distinguere tra conoscenza e semplice credenza, 2. credere di avere una conoscenza esaustiva di una determinata nozione, senza che questa sia effettivamente completa e realizzata. La seconda di queste definizioni ci permette di presentare le bolle epistemiche come il risultato di un’esasperazione della fissazione della credenza, a causa della quale l’utilizzo di una minima ascrizione di conoscenza garantisce, erroneamente, la sua presenza effettiva e completa alla consapevolezza dell’agente. Il caso paradigmatico che dovrebbe fondare una conoscenza, nei termini di Woods, è, all’interno di una bolla epistemica, scelto e adottato in maniera funzionale alla tesi. La cernita e il riconoscimento di questo esempio emblematico (o di questa raccolta di esempi) vengono gestiti a partire dall’affermazione arbitraria della particolare credenza che guida il pensiero. In questo modo, i fatti non saranno mai considerati esempi contrastanti, ma verranno, piuttosto, adeguati e interpretati alla luce della teoria. In Cognitive bubbles and firewalls: epistemic immunization in human reasoning, Magnani e Bertolotti (2011) individuano la dinamica della bolla epistemica in prospettiva agent-based come il frutto dell’applicazione di una fallacia efficace. Garantendo il sollievo dall’irritazione del dubbio, la presenza di una credenza inconsistente (che non rispecchia il possesso della conoscenza che effettivamente è acquisita) inganna, infatti, la struttura epistemico-cognitiva dell’agente grazie allo schema che corrispondente alla fallacia dell’affermazione del conseguente. Premessa 1: Se conoscessi P si placherebbe la mia irritazione del dubbio rispetto a P, Premessa 2: Si è placata la mia irritazione del dubbio rispetto a P, Conclusione: Conosco P. Nonostante l’esplicitazione logica di questo ragionamento porti alla sua chiara identificazione come fallace, la sua applicazione comune è vasta e quasi totalmente impercettibile per il soggetto. Secondo Woods, infatti, solo a partire dal riconoscimento dell’asimmetria tra la prospettiva in prima e terza persona, si può giungere ad una messa in discussione delle credenze fissate. La consapevolezza dell’intima correlazione tra conoscenza e credenza può aprire il soggetto a un confronto con l’altro e alla messa in discussione delle conoscenze inscritte nel suo complesso di credenze portando, quindi a una sempre più elaborata ridiscussione delle proprie categorie. 3.1 L’incorreggibilità delle bolle epistemiche: un’arma a doppio taglio L’apertura alla modifica e alla ridiscussione delle proprie credenze non è però necessaria al soggetto. Come si è sottolineato nel primo capitolo di questo libro, infatti, la fissazione della credenza è, di norma, un momento di quiete dell’individuo: la consapevolezza della precarietà delle sue conoscenze non fa altro che rimetterlo in uno stato di dubbio, di ansia e di insoddisfazione. Questo rende la possibilità dell’apertura alla “correzione” tramite la prospettiva di terza persona, benché sia auspicabile per la dinamica conoscitiva del soggetto, è anche quella più difficoltosa. Le caratteristiche finora evidenziate, riguardo la dinamica epistemica del soggetto, portano alla conseguente tesi dell’incorreggibilità delle bolle: il sollievo per la fissazione di una credenza e l’esasperazione di questo stato attraverso una dinamica di chiusura dell’individuo nei confronti della prospettiva in terza persona, assicura la conservazione delle bolle epistemiche all’interno di una dinamica di protezione delle credenze del soggetto, anche dalla sua stessa volontà di migliorarsi. In questo modo si può effettivamente parlare di processo epistemico autoimmunitario: l’individuo tramite questo meccanismo non solo evita di essere sottoposto a un continuo riesame e messa in discussione delle proprie idee da parte di una prospettiva esterna (grazie, appunto, all’esasperata fissazione di una credenza) ma attua lo stesso sistema difensivo anche nei confronti di sé e del proprio senso critico, e non ha, perciò, la possibilità di esaminare la propria conoscenza al di fuori della sua rete di credenze. Questo dispositivo di tutela, che è alla base della costruzione di credenze e dello stabilirsi in esse della conoscenza, attiva un duplice processo di protezione e si configura essenzialmente come un processo di autoimmunizzazione. Non vi è solo la difesa da minacce esterne, ma anche la difesa da quei meccanismi di manipolazione e riconfigurazione del sistema di credenze che lo stesso individuo possiede, che sarebbero in grado di migliorare e arricchire la sua struttura conoscitiva. La stessa possibilità che insorga il dubbio è fortemente 7 compromessa. 7 In questo senso possiamo citare come un chiaro esempio della duplice e ambigua struttura autoimmunitaria che permea il nostro sistema cognitivo la preghiera che il famoso romanziere inglese Douglas Adams fa recitare a un saggio oracolo in Praticamente innocuo, uno dei libri della serie cult Guida galattica per autostoppisti (1992/2007): “Proteggimi dal sapere quel che non ho bisogno di sapere. Proteggimi anche dal sapere che bisognerebbe sapere cose che non so. Proteggimi dal sapere che ho deciso di non sapere le cose che ho deciso di non sapere. Ecco qua. In ogni caso è la stessa preghiera che reciti in silenzio dentro di te, per cui tanto vale dirla apertamente”. Per meglio analizzare questa dinamica è utile riprendere l’esempio della teoria del flusso e reflusso del mare all’interno della struttura dimostrativa costruita da Galileo in difesa del sistema copernicano. Rivedendo questo caso a partire dalla considerazione della conoscenza come costruzione di esempi paradigmatici a sostegno di una determinata tesi, l’utilizzo da parte di Galileo del moto delle maree come dimostrazione della rotazione e rivoluzione terrestre si mostra come segno emblematico della presenza di una bolla epistemica all’interno e alla base della sua struttura teorica. La determinazione nell’affermare la tesi copernicana ha infatti condotto Galileo a sostenere una posizione tutt’altro che evidente e certa. Flusso e reflusso del mare, all’epoca, non erano solo considerati oggetti di posizioni cosmologiche metafisiche le quali, partendo da premesse di natura teologica, facevano dipendere il fenomeno dal moto degli astri: numerosi studi (tra i quali quelli di Keplero) affermavano esplicitamente la relazione tra fasi lunari e maree, osservabile al di fuori della diatriba “tra i massimi sistemi del Mondo”. Galileo non solo non prese in considerazione questa ipotesi ma cercò di confutarla a favore di una teoria più debole e dubbia, che tuttavia sembrava garantire al suo sistema maggior equilibrio ed evidenza. Così la sua tesi avrebbe tratto beneficio da un caso paradigmatico che ne confermava le leggi della sua teoria e rendeva Galileo abbastanza sicuro di conoscere qualcosa che in realtà non sapeva. Questa sua manipolazione delle credenze intorno al sistema copernicano lo proteggeva – tramite la supposizione di una conoscenza in realtà non acquisita – sia dagli oppositori della tesi copernicana, sia dal suo stesso nuovo metodo scientifico, che non era in grado di fare esplodere questa particolare bolla epistemica. In questo modo l’immunità creata come difesa dalla propria stessa razionalità – oltre che da quella avversaria – non consentiva dubbi, o incertezze, nei confronti dei casi atti a riconfermare la teoria generale. Con ciò non si intende sottovalutare le ovvie limitazioni epistemiche e scientifiche imposte al lavoro di Galileo dalle autorità e dalle istituzioni sue contemporanee né, naturalmente, si vuole sminuire la radicale genialità dell’impianto metodologico in atto nelle sue opere. L’intento, infatti, è solo quello di mostrare l’incredibile permeabilità del sistema cognitivo umano al processo di “imbollamento” (embubblement), confermato a livello esemplare dalla semplice presenza di una bolla epistemica all’interno di un notevolmente complesso sistema scientifico come quello di Galileo. Oltre a quanto illustrato da questo noto caso esemplare occorre porre attenzione alla dinamica di “imbollamento” come ad un processo cognitivo continuamente attivo nell’individuo: il sistema cognitivo dell’essere umano è inevitabilmente predisposto alla costruzione di bolle epistemiche. Anzi, per ogni conoscenza che si possiede si può di fatto sempre parlare di un grado di inconsapevole presenza di una bolla intorno ad essa. Entrando prepotentemente nella dinamica epistemica del dubbio e della credenza, la Bubble Thesis assolve la funzione di mediatore emotivo tra uno stato di inquietudine e la calma derivata dalla fissazione di una credenza. Senza la bolla, non vi sarebbe pace per l’individuo fino all’acquisizione totale della conoscenza. Per quanto effimero possa essere questo stato di quiete, ci permette di agire nel mondo, di partire da una qualche premessa che noi riteniamo fondata. Per tornare all’esempio precedente, nonostante Galileo avesse torto rispetto alla teoria delle maree, cionondimeno quella sua forma di sicurezza gli consentì di pubblicare il Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo (1630/1970) e di sostenere con esso una tesi veritiera, nonché di non rimanere paralizzato dall’effettiva inconsistenza di quella sola posizione teorica. In questo modo la dinamica epistemica autoimmunitaria si palesa nella sua più completa forma strategica: le credenze del soggetto non sono difese in una prospettiva unicamente autolesionista, ma anche per permettergli una presa di posizione definita rispetto all’azione. Per assurdo, riprendendo l’esempio paradossale citato all’inizio del paragrafo, non è assolutamente straordinario il fatto che il professore sia determinato a salire sull’aereo data la sua credenza fallace, ma ne è addirittura motivato e senza di essa non potrebbe agire nel mondo come invece gli accade di fare. Questo opportuno rovescio della medaglia sarà meglio analizzato più avanti (insieme al motivo per cui è buono e utile che le guardie aereoportuali, in una paradigmatica prospettiva in terza persona, siano efficaci nell’individuazione della 8 fallacia applicata dal professore e nel disarmarlo). È utile ora soffermarsi sulle caratteristiche e specificità della dinamica autoimmunitaria in un senso più ampio. Un autore in particolare ha argomentato in maniera prestigiosa e feconda intorno a questo concetto in una prospettiva filosofica originale: il filosofo francese Jacques Derrida ha infatti consentito un approccio teoretico (e biopolitico) al tema che consente di pensare l’autoimmunità come un elemento che di fatto agisce in maniera onnipervasiva nell’individuo (Derrida, 1994, 1995, 2000, 2003). In questo modo la bolla epistemica può essere considerata un modello centrale per comprendere la dinamica autoimmunitaria del soggetto sia a livello specificatamente epistemico sia, come vedremo, come paradigma pervasivo dell’intero assetto cognitivo degli individui in cui svolge un ruolo determinante anche nella creazione ed eventuale modificazione delle credenze morali. In questa prospettiva è possibile concepire le bolle epistemiche – e cognitive e morali (delle quali si tratterà più avanti) – non solo come schemi esemplari di strutturazione della nostra autocoscienza, ma anche come strumenti di comprensione e approfondimento di quella dinamica autoimmunitaria del “Sé” descritta da Derrida in riferimento a un più comprensivo piano 9 teoretico. 8 In riferimento agli argomenti trattati nel primo capitolo di questo libro, può essere interessante domandarsi se un agente logico possa o meno essere affetto dalla dinamica delle bolle epistemiche. Data la sua conformazione sarebbe ragionevole propendere per una risposta negativa (per l’assenza di influenza da parte dell’ambiente e la mancanza di consapevolezza); in ogni caso sarebbe utile approfondire come questa sua immunità alle bolle epistemiche potrebbe determinare la sua produzione e gestione delle inferenze. 9 Questo parallelo tra il concetto di autoimmunità legato allo sviluppo dell’epistemologia e del campo delle scienze cognitive e la nozione propriamente teoretica, ideata a partire dalla prospettiva linguistico-politica di Derrida potrebbe apparire azzardato o, quanto meno, pretenzioso. A ciò si deve contrapporre l’idea che pretendere che si determini una costruzione teorica come quella delineata finora all’interno di un assetto filosofico unitario non sarebbe solo ardimentoso, ma quanto mai svilente: le implicazioni che derivano dall’applicazione delle strutture logiche, cognitive ed epistemiche illustrate in queste pagine non hanno una chiusura determinata e le loro potenziali affermazioni in numerosi campi culturali sono ancora da approfondire. Sarebbe forse una prova di miopia intellettuale non curarsi delle dinamiche che un concetto complesso come 4. Logica, a-logica o il-logica autoimmunitaria Lo schema della logica autoimmunitaria prende corpo e consistenza negli scritti di Derrida attraverso – e a favore di – una rielaborazione della dinamica dell’io vivente, della vita del vivente e del rapporto tra vita e politica. Quando il concetto apparve per la prima volta in Spettri di Marx (1993/1994), non vi era alcuna chiarificazione o riferimento specifico all’utilizzo di questa scelta terminologica. La dinamica fu solamente presentata in modo generico e strettamente funzionale al discorso biopolitico stabilendosi, senza ulteriori argomentazioni, come movimento necessario alla vita del vivente. Solo successivamente venne posta la questione della presenza problematica e imprescindibile di un “altro”, un nemico, un avversario nel corpo vivo dell’io, come premessa ineliminabile, ma oltremodo problematica, della costruzione dell’impianto autoimmunitario. Essi non vogliono sapere che l’io vivente è autoimmune. Per difendere la sua vita, per rapportarsi come il medesimo, a se stesso, l’io vivente è necessariamente portato ad accogliere l’altro all’interno […]; deve dunque dirigere allo stesso tempo a suo favore e contro di sé le difese immunitarie apparentemente destinate al non-io, al nemico, all’opposto, all’avversario (p. 178). Per rendere chiara la costruzione di questa tematica si deve inevitabilmente far riferimento a tre questioni chiave, a più riprese articolate e lavorate nelle opere di Derrida: il concetto di autoimmunità come elemento patologico e autodistruttivo in rapporto alla sua funzione in campo biologico, la successiva elaborazione in riferimento a quella che viene chiamata la logica a-logica o illogica del pharmakon e, infine, l’analisi della connessione della dinamica autoimmunitaria con quella stabilita tra le freudiane pulsioni conservatrici e pulsioni di morte. Il primo riferimento può essere individuato nel collegamento che Derrida pone tra autoimmunità e immunodepressori in Fede e sapere. Simone Regazzoni, nel testo Derrida. Biopolitica e democrazia (2012) individua in questo scritto una stretta connessione della tematica autoimmunitaria con l’immunodeficienza e il deficit immunologico. Trova in questo modo spazio di analisi e riflessione l’indagine sulla sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS), più volte emersa nel corpus delle opere derridiane. L’immunodeficienza provocata dall’autodistruzione, o distruzione delle difese del sé diventa così il perno di un dialogo con la scienza biologica volto non ad esaurire il discorso sull’essere vivente come essere autoimmune ma a fornire un’esposizione più nitida dell’aspetto patologico e distruttivo di questa condizione. La formula dalla quale si apre il discorso in tal senso si individua nel passaggio dall’edizione italiana di Fede e sapere a quella francese, nella quale la “malattia autoimmune” diviene “le virus de l’immuno-deficience humaine” (VIH) (Derrida, 1995). quello di autoimmunità a livello epistemico stabilisce con le sue omonime strutture in un campo filosofico più ampio. Secondo gli studi del noto medico e immunologo Jean Claude Ameisen, lo sviluppo dell’AIDS sarebbe direttamente collegato all’apoptosi, o suicidio cellulare, provocato dal virus dell’HIV, dei linfociti preposti a gestire la risposta immunitaria. Senza entrare ulteriormente nel merito della questione medico/biologica, questa spiegazione della dinamica biologica autoimmunitaria è in grado di focalizzare l’attenzione sulla distruzione della propria immunità da parte dell’individuo, ossia sul movimento autoimmune in quanto immune dalla propria immunità. In questo modo si perviene, a partire dalla definizione para-etimologica di indenne, all’elaborazione più completa del concetto di autoimmunità. L’indenne, ciò che non è stato danneggiato, il puro, il non contaminato, è quel che Derrida definisce l’oggetto proprio della religione, in rapporto stretto a livello etimologico con “danno”, (dall'antico lemma indoeuropeo dap-no-m) e quindi in relazione con daps, dapis, la festa sacrificale, il banchetto sacro. Questo elemento, richiamato come ciò che designa un - talvolta sacrificale - processo di compensazione e restituzione, che permette di ricostituire la purezza intatta, l’integrità sana e salva di una proprietà e di una proprietà non lesa è ciò che esplicitamente è identificato come l’immune, portando all’equivalenza l’uso di questi due termini nel testo. Questo cambio terminologico gli permette di descrivere la pulsione dell’indenne come effettiva autoimmunità consentendogli di parlare della pulsione immunitaria e salvifica del sé verso il sé. Nella dinamica così descritta si inserisce ciò che è definito un “qualcosa che ha i tratti di un doppio perturbante che minaccia di dare la morte: una sorta di veleno al cuore del rimedio” (Facioni, Regazzoni e Vitale, 2012). Ciò consente l’apertura del parallelo tra autoimmunità e pharmakon, che Derrida definisce logica – a-logica o illogica – del sé. Il movimento analizzato è al contempo difensivo e autodistruttivo, si pone come unico rimedio e al contempo al suo interno risiede la minaccia verso ciò che si vuole difendere. In questo senso tale movimento analizza i rapporti tra pulsioni conservatrici e pulsione di morte del testo Al di là del principio di piacere di Sigmund Freud all’interno di Speculare - su Freud (in particolare un estratto intitolato La vita la morte, Derrida 1980/2000) in cui Derrida definisce le pulsioni conservatrici “i guardiani della vita ma perciò stesso le sentinelle o i satelliti della morte” (p. 119-120). Nonostante la dinamica autoimmunitaria all’epoca non fosse ancora presente nel lessico derridiano, questa formulazione richiama esattamente il concetto che verrà poi a costituire la definizione chiave del rapporto della vita del vivente, della vita del politico e della costituzione intrinsecamente autoimmunitaria del sé. Tornando al passo già citato tratto da Spettri di Marx, si può ora far riferimento a ciò che l’altro (quell’altro che l’io deve necessariamente accogliere in sé per costituirsi come tale), comporta: la difesa da esso non è che una componente necessaria per la costruzione del sé a dispetto delle difese che si costituiscono per la propria stessa protezione. È un movimento di apertura nei confronti di ciò che il sé da solo non può costituire ma che, in questo stesso modo, non fa che minare l’indennità del sé stesso: il meccanismo intrinseco all’io, che ne costituisce la vita e al contempo la sacrifica, non mina le proprie difese unicamente in una morsa autodistruttiva, ben evidenziata nel parallelo con la patologia immunodeficiente, ma è anche medicina, rimedio, pharmakon, la cui doppia valenza richiama il tema della morte inscritto inesorabilmente nel cuore della vita stessa. Questo doppio dispositivo lavora inesorabilmente all’interno del meccanismo costitutivo del “Sé” e ci consente di utilizzare questa elaborazione teorica – sebbene difficile da comprendere in maniera sistematica – come registro lessicale e dinamico applicabile al meccanismo autoimmunitario della struttura cognitiva ed epistemica dell’individuo. All’interno dell’articolo citato nel paragrafo precedente, Cognitive bubbles and firewalls, Magnani e Bertolotti (2010) dopo aver analizzato il meccanismo delle bolle epistemiche, sottolineano la loro presenza inevitabile nell’attività cognitiva degli esseri umani, indipendente dalla consapevolezza che gli stessi sono in grado di raggiungere della loro struttura e portata. A questo riguardo, gli autori estendono l’azione delle bolle epistemiche all’intero complesso di meccanismi inferenziali utilizzati dagli esseri umani. La dinamica di costruzione e decostruzione delle credenze, la cui costituzione prevede la presenza (e minaccia) delle bolle epistemiche, non si attiva ed esercita solo nel contesto determinato della formulazione tetica imposta dalla nascita spontanea di un dubbio: al contrario, la stretta correlazione con la prospettiva agent-based adottata impone un’analisi delle situazioni che concretamente un individuo deve affrontare; ciò presuppone una predisposizione all’“imbollamento” nel più ampio contesto in cui l’individuo è visto e concepito come agente e nel quale l’attività di problem-solving permane come sua prerogativa. In questo modo, grazie alla presa d’atto dello studio dell’agente cognitivo sotto i requisiti imposti dalla actually happens rule, gli autori possono parlare di bolla cognitiva e la dinamica descritta in quest’ottica può effettivamente essere riconosciuta come un modello efficace di autoimmunità cognitiva, condizionato dalla logica – illogica o a-logica – immunitaria derridiana. Ciò consente di aprire nel prossimo paragrafo il tema della biopolitica, intesa da Derrida come contesto fondamentale nel quale si palesa la logica autoimmunitaria, ma anche come edificio cardine nel quale si evidenzia la portata del modello della Bubble Thesis, in quanto meccanismo autoimmunitario non più agente solo a livello individuale ma sociale e quindi operante in un sistema eco-cognitivo delle cosiddette “nicchie cognitive”. 5. Biopolitica e autoimmunità L’autoimmunità come elemento costitutivo della vita del vivente è posto, negli scritti di Derrida, nel cuore del discorso biopolitico, un terreno più ampio e articolato di quanto la prospettiva finora essenzialmente focalizzata sulla dinamica intrinseca all’individuo abbia mostrato. Questa forma di costruzione permette di articolare in che modo il meccanismo autoimmunitario permei la struttura base dell’ordinamento sociale proprio a partire dall’individuo e dai suoi stessi sistemi originari. La questione della “vita del vivente” come punto di partenza e di arrivo della costruzione biopolitica consente anche di aprire un dialogo con le formule proprie dell’indagine epistemico-cognitiva elaborate a partire dai complessi di dispositivi immunitari, e quindi autoimmunitari, degli individui fino a comprenderne le dinamiche che influenzano la costituzione sociale (in quanto formata da sistemi di nicchie cognitive e morali di cui chiariremo i meccanismi più avanti). Il meccanismo che intercorre tra queste due forme di analisi filosofica, per quanto seguano percorsi differenti, può essere chiarito tramite un’interrogazione la cui formulazione prevede lo studio di oggetti analoghi, tra i quali il sistema politico umano nella sua dinamica complessità. Per iniziare ad affrontare questo ampliamento del discorso, si deve necessariamente fare chiarezza su cosa intende Derrida quando tratta della biopolitica, in che modo il meccanismo autoimmunitario la permei e in che modo essa ne sia profondamente condizionata. La questione della biopolitica si annuncia, nella decostruzione derridiana, come rapporto di incontro e scontro con il paradigma biopolitico descritto da Foucault. Quest’ultimo pensa al potere biopolitico come antitesi e superamento del potere sovrano: il diritto di lasciar vivere e di dare la morte, diritto di sovranità, viene alterato – completato o sostituito – dall’innesto di un potere affermativo in favore della vita: il diritto diviene biopolitico, quello di far vivere e di lasciare morire. È così posta una radicale estraneità tra i due tipi di potere e il mutamento che avviene nella modernità per l’attenzione che la politica assume nei confronti della vita, e se ne delineano inoltre i contorni attraverso un passaggio netto, un salto. Si passa dalla politica della sovranità alla biopolitica, ribaltando la situazione, ponendo – anti-teticamente rispetto alla condizione precedentemente in atto – la questione della vita al centro del contesto 10 politico. Tutto ciò viene contestato da Derrida, il quale utilizza il termine biopolitica per identificare una condizione intrinseca alla dinamica di potere, persino del potere sovrano, che permane anche quando questo tipo di sovranità acquista una forma fantasmatica nell’epoca moderna. Il termine, nell’accezione derridiana, mira a spiegare il rapporto tra politikon, bios e zoè in una dinamica che comporta l’autoimmunità come chiave del problema. La questione biopolitica viene così rielaborata e modellata grazie a questa nozione cardine nel testo già citato Fede e Sapere, nel quale, attraverso la logica autoimmunitaria, è posto l’accento su quella che può essere definita la pulsione di morte, intrinseca all’essenza stessa della vita del vivente, che auto-distrugge e auto-costituisce la stessa possibilità di vita. È ciò che Regazzoni (2012) definisce una logica auto-decostruttiva. La stessa, applicata alla vita del politico prende parte alla struttura delle forme biopolitiche che assume. La democrazia ne è un esempio paradigmatico. In Stati canaglia e Filosofia del terrore. Dialoghi con Jürgen Habermas e Jacques Derrida, (Derrida, 2003) l’autoimmunità democratica si palesa nel caso dell’11 settembre; l’attacco terroristico agli Stati Uniti, in quanto atto suicida/omicida per eccellenza, emerge dalla – e contro – la democrazia americana come sintomo più evidente e violento della sua costituzione autoimmunitaria. Ciò si evince attraverso tre considerazioni in merito: 1. L’attacco proveniva, innanzitutto, dalla stessa democrazia americana: la preparazione dei terroristi, le loro armi, gli aerei utilizzati, l’aeroporto dal quale sono partiti erano americani, tollerati dagli americani e permessi dalla democrazia americana. La stessa 10 Le rielaborazioni che erediteranno questa tesi, come quella di Agamben (1999) o di Esposito (2004), ne sono rifacimento e rimodellamento, ma mantengono questo passaggio come nocciolo chiave della questione. che ha dato modo ai terroristi di essere accolti all’interno del paese e che ne ha subito l’attacco. L’amministrazione statunitense stessa ne ha, in qualche modo, preso parte non difendendosi a sufficienza da una minaccia non certo del tutto imprevedibile. 2. Nella reazione all’attacco terroristico la democrazia deve fare i conti con le proprie strutture, con ciò che ha permesso l’evento e, perciò, con il suo stesso scheletro autoimmunitario. Questo, però, produce nient’altro che un attacco al proprio stesso sistema di diritti e, al fine di difendersi dall’altro, si difende ahimè anche da se stessa, da ciò che all’interno della propria struttura l’ha consentito, riproducendo la dinamica esposta in precedenza di distruzione delle proprie difese, di immunizzazione nei confronti della propria immunità. 3. Infine, un terzo momento della dinamica autoimmunitaria viene innescato dalla reazione al trauma – o, meglio, all’effetto del trauma – scatenato dall’11 settembre. “La possibilità che il peggio debba ancora venire, che cioè si ripeta, ma in peggio” (Derrida, 2003, p. 105) nullifica il tentativo dell’elaborazione del lutto e motiva una risposta autoimmune alla stessa prospettiva salvifica che si avrebbe con una consolante accettazione del fatto che ciò che è passato non potrà avvenire ancora. La prospettiva che cerca di attenuare o neutralizzare questo effetto traumatico senza, in realtà, scalfirlo crea solo risposte autoimmunitarie, che nutrono la stessa mostruosità che pretendono di superare, come la guerra al terrorismo e lo spettro di una guerra nucleare. La minaccia che vorrebbe difendere – ma in realtà attacca – la democrazia è fantasmatica ma, proprio per questo, inattaccabile, impensabile. Questo caso estremo, per quanto mostri con chiarezza il processo autoimmunitario in atto all’interno di una struttura democratica, non deve suggerire l’idea che in assenza di un attacco diretto ed evidente, le forme della biopolitica siano prive della auto-affezione immunitaria. Il costituirsi dello spazio democratico come intrinsecamente autoimmune non è solo un ammettere una pulsione auto-distruttiva al suo vertice, ma ammettere anche che sia un movimento necessario per mantenere dinamica, viva e attiva la democrazia stessa. Come nel caso dell’autoimmunità quale logica basilare all’interno del nostro paradigma cognitivo/epistemico, che mette in grado l’individuo di agire e costruirsi un panorama di credenze dalle quali partire per avere azione ed efficacia nel mondo, anche nel modello biopolitico lo schema autoimmunitario svolge una funzione di radicale apertura. Nel distruggere le proprie difese, infatti, e nel difendere un nucleo radicale di principi che costituiscono la sfera biopolitica anche dalla stessa configurazione democratica, si apre la possibilità al rischio e alle chance. Nell’incontro tra la quantità di rischio che la democrazia - o la dimensione biopolitica in atto si assume e la disponibilità di chance che si pone alla propria portata vi è l’equilibrio perennemente precario indispensabile a una politica viva e dinamica. In questo processo di assunzione di rischi e distribuzione di chance si può innestare un discorso cognitivo al quale possiamo fare riferimento per articolare a questo livello le considerazioni biopolitiche derridiane. Si può così pensare a un modello biopolitico in grado di abbracciare, senza fondere, la prospettiva filosofica eco-cognitiva, nella misura in cui affronta il problema della nascita e dello sviluppo delle nicchie cognitive e morali. 6. Nicchie cognitive, nicchie morali e logica autoimmunitaria Il termine nicchia cognitiva (Laland, Odling-Smee e Feldman, 2000) prende forma dal concetto di “nicchia ecologica” con il quale si indica quell’insieme di caratteristiche ambientali favorevoli allo sviluppo di una determinata forma di vita animale; la nicchia ecologica si distingue dall’idea di habitat, per il fatto che non è una mera identificazione dell’ambiente nel quale vivono forme di vita ma rappresenta il modo in cui queste vivono nell’ambiente (Magnani, 2011, 2012). All’interno di una nicchia ecologica la pressione selettiva non è solo costituita dalla struttura dell’ambiente naturale stesso, ma anche dalle modificazioni e interazioni che gli animali apportano durante l’interazione quotidiana con l’ambiente; in questo modo, all’interno di questa prospettiva naturalistica ed evolutiva, gli animali possono essere definiti ingegneri ecologici per la loro capacità di manipolazione dell’ambiente al fine di promuovere i fattori favorevoli alla loro specie e mitigare quelli sfavorevoli. Su questa struttura si delinea la definizione di nicchia cognitiva proposta da Laland e colleghi: la manipolazione dell’ambiente è tale da garantire una specifica modifica della pressione selettiva su una specie e consente a questa di predisporre la propria esistenza in quanto gruppo, di agire con maggior controllo sull’ambiente stesso e, al contempo, di influire sugli ambienti selettivi di altre specie (Laland, Odling-Smee e Feldman, 2000). Nel caso della specie umana la costruzione di apparati sociali e la promozione al loro interno di un sistema di cooperazione può essere visto alla luce di questo meccanismo. Le strutture che consentono agli agenti di disporre, all’interno della società, di determinati strumenti cognitivi e predispongono la condivisione di progetti (idee, apparati e istituzioni socioculturali), sono complessi di nicchie cognitive a diversi gradi di specializzazione. In questo modo la possibilità per gli agenti di sfruttare gli elementi forniti nelle nicchie eco-cognitive per poi ridistribuirli sotto forma di chance in grado di essere prese e utilizzate dagli altri agenti della stessa nicchia aumentano e, nel contempo, la nicchia cognitiva stessa progredisce. Le chance, in questo senso, sono quel tipo di informazioni che possono essere estratte, sfruttate e ridistribuite dagli ingegneri ecologici e sono quindi parti integranti delle nicchie cognitive. Queste informazioni sono utili, talvolta, allo stesso mantenimento della nicchia come tale: le informazioni inerenti alla “sfera morale”, volte alla protezione e assimilazione di determinati principi e regole da parte degli agenti, sono funzionali alla costruzione della stessa nicchia cognitiva e, in questo caso, specificamente morale. Senza ora entrare nel merito della costituzione e dello sviluppo delle nicchie morali (discusse nel capitolo successivo di questo libro), è tuttavia utile anticipare un riferimento al modo in cui le informazioni morali si costituiscono a livello collettivo negli agenti e il modo in cui essi le ridispongono nella dinamica della nicchia cognitiva. Per approfondire questo concetto è necessario riferirsi al meccanismo di “imbollamento” descritto in precedenza. La struttura delle bolle cognitive – ideata sulla base delle bolle epistemiche, potenzialmente presente, più in generale, in tutte le attività inferenziali del soggetto – si riveste di un particolare meccanismo autoimmunitario nei casi in cui queste attività inferenziali siano inerenti alla sfera morale e si rapportino, pertanto, all’assetto sociale eco-cognitivo formato nelle nicchie morali. Le bolle morali (Magnani, 2011) sono dispositivi il cui apparato si fonda su un assetto cognitivo e mantengono la funzione di esplicare il meccanismo autoimmunitario degli agenti nella dinamica di costruzione e decostruzione del dubbio e della credenza. In questo senso si può affermare semplicemente che si riferiscono a quel particolare tipo di credenze che compongono l’assetto etico degli individui che, di fatto, si stabilisce in relazione alla determinata nicchia morale nella quale le credenze si sviluppano, e che protegge dall’individuazione delle conseguenze violente dovute all’esercizio di azioni 11 morali. Se è possibile – ma non necessario – affrontare in una prospettiva eco-cognitiva il discorso in merito alla portata d’azione delle bolle epistemiche (il cui effetto è mitigato dall’interazione tra la prospettiva in prima persona e in terza persona), l’analisi diviene invece cogente per quanto riguarda la dimensione morale. Infatti, l’effetto che questo processo di imbollamento provoca grazie alla struttura stessa del suo schema autoimmunitario è di notevole importanza per la gestione sociale e la condivisione delle credenze. Non si tratta solo di un processo autoimmunitario intrinseco all’individuo: nella sua dimensione condivisa esso contribuisce ad evidenziare quella dinamica autoimmunitaria già illustrata nel caso della dimensione più teoretica della biopolitica. Considerando gli esseri umani come ingegneri cognitivi e assumendo che la loro funzione principale sia la ricerca di chance messe a disposizione all’interno di nicchie più o meno sofisticate, è possibile giungere a due conclusioni: la prima interessa il campo più specificamente evolutivo/biologico e riguarda la selezione delle chance messe a disposizione degli agenti in ambiente eco-cognitivo così stratificato. La scelta, non unicamente a livello cognitivo ma anche morale, delle informazioni e del materiale disponibile nelle nicchie cognitive non può che indirizzare potentemente le opzioni e le modalità di vita degli individui inseriti in tale contesto. La vitalità di una nicchia dipenderà dalla rielaborazione di queste da parte dei singoli e dal loro nuovo innesto all’interno della nicchia. La seconda considerazione è specificamente inerente all’elaborazione svolta circa la dimensione auto-immunitaria dei soggetti nell’ottica biopolitica ed eco-cognitiva. Se si considera la configurazione della logica autoimmunitaria descritta da Derrida a livello eco-cognitivo, è possibile aprire un dialogo tra queste due prospettive filosofiche in grado di 11 Magnani (2012, capitolo 4) affronta – di fatto introducendolo – il tema della nicchia morale, mostrando come la distribuzione di conoscenze morali nell’ambiente circostante permetta agli esseri umani di compiere scelte morali in modo cognitivamente semplice, anche grazie ad alcuni artefatti che agiscono da mediatori morali. Tuttavia, alla luce della prospettiva che Magnani introduce, nella quale morale e violenza sono intrinsecamente legate, una nicchia morale così formata è anche un potente vettore di violenza strutturale: gli individui possono percepire come violente le prescrizioni morali distribuite e automaticamente attivate nella nicchia, qualora non siano in accordo con le loro stesse. Inoltre ogni moralità è mantenuta all’interno di un gruppo grazie all’esercizio di punizioni e sanzioni più o meno violente. 12 illuminare i meccanismi, talvolta palesemente incoerenti o, illogici, dell’apparato sociale. In questa prospettiva si può pensare la dinamica autoimmunitaria presente all’interno di una nicchia estesa e potente (come per esempio nel caso della democrazia, alla quale si è già fatto riferimento con l’esempio riguardante il caso paradigmatico della democrazia americana) come consistente in una speciale struttura eco-cognitiva in cui il conflitto tra bolle collettive, morali e cognitive sottopone la nicchia stessa alla necessità di creare uno spazio in cui le difese rispetto agli elementi pericolosi e dannosi sono interne e rivolte contro lo stesso sistema. Il fanatismo religioso o il richiamo alla fantomatica anti-politica, per esempio, diventano elementi delle bolle collettive insite nella nicchia democratica che devono essere combattuti dalla nicchia stessa, grazie a un loro riconoscimento come parti della stessa ma immuni rispetto alla possibilità di una loro vera espulsione. La dinamica di costruzione e spostamento delle bolle fa sì che questo meccanismo sia sempre in azione e, a livello ecocognitivo, determini la qualità e la vitalità di una nicchia cognitiva e ne minacci, al contempo, la funzionalità e l’efficacia. In breve, sia a livello individuale sia in un contesto eco-cognitivo più ampio, la dinamica autoimmunitaria si manifesta come un bisogno e un’arma a doppio taglio. La sua portata autodistruttiva deve essere mitigata da un cosciente e costante ripensamento delle sue forme e nell’adozione di una prospettiva che ammetta e riconosca, nell’esistenza di conflitti tra bolle collettive generanti una ridefinizione continua della nicchia nella quale agiscono, la chiave della sua stessa stabilità. In un certo senso, tutto ciò è paragonabile a una sorta di esplosione controllata, il cui obiettivo risiede nel controllo, cosciente e capillare, dei danni e non nell’arresto della detonazione. 12 Cfr. Bertolotti e Magnani, 2013, descrivono un fenomeno simile, analizzando come – in casi particolari – l'introduzione di particolari modificazioni, che favoriscono la sopravvivenza e il benessere degli agenti che la popolano, ha invece un ruolo diretto nel provocare l'impoverimento o la totale inospitalità della nicchia cognitiva stessa