TRA SCIENZA, EMOZIONI E COSCIENZA: BREVE VIAGGIO LUNGO LA STORIA
DELL’EMPATIA
di Tiziana Plebani
Università Ca’ Foscari Venezia
[email protected]
Neuroscienza salvaci tu
Quando ho letto della scoperta, tra l’altro tutta italiana, dei neuroni specchio posti in varie
aree del cervello, in grado di attivarsi riconoscendo e comprendendo le azioni altrui e
rendendo possibile una postura empatica verso il diverso da sé, ho immediatamente
pensato che la nostra specie umana ne avesse provocato la nascita dopo l’esperienza
dell’Olocausto e dell’insensibilità dei carnefici, oscura come un pozzo profondo di cui
non si vede la fine, nell’indifferenza di moltissimi. Ammetto ora che risvegliavo dentro
di me un pensiero magico che si affidava a un brandello di evoluzionismo positivista o,
per dirla in altre parole, a una speranza riposta in un progresso della civiltà tale da riuscire
financo a modellare le basi biologiche della vita e il funzionamento del cervello.
D’altronde il pensiero e l’emozione si incagliano davanti a ciò che pare incarnare il male
assoluto e ci si aggrappa a quel che può offrire una spiegazione e una via d’uscita.
La scoperta dei neuroni specchio è certamente un rinvenimento promettente, tanto più
che i ricercatori hanno ipotizzato un legame esistente tra l’attivazione di queste cellule e
la capacità di provare empatia1. Ma non è il caso di illuderci: allontaniamo subito l’idea
che questi nuclei cerebrali ci possano mettere al riparo di alcunché, mentre va piuttosto
posta attenzione alla tendenza in atto ad affidare e in qualche modo delegare alle
neuroscienze le soluzioni di problemi etici complessi. E in effetti la neuroscienza e le sue
scoperte stanno riscuotendo in anni recenti un’inedita audience al di fuori del territorio
specialistico, attraendo lettori e spettatori, si pensi solo allo straordinario successo dei
1
G. Rizzolati, A. Gnoli, In te mi specchio. Per una scienza dell'empatia, Milano, Rizzoli, 2016.
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libri di Oliver Sacks, come L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello,2 complice
anche uno stile brillante e al contempo vicino alla sofferenza altrui.
Si può essere così tentati di credere che basterebbe dotarsi di adeguati stimolatori dei
neuroni specchio in blister e facendoli assumere a tutti a far sì che i problemi che assillano
il nostro mondo, atrocità, disuguaglianze e povertà, potessero essere risolti in un batti
baleno grazie alla stimolazione dell’empatia. Ma è un altro pensiero magico rivestito in
questo caso di supremazia neuro-scientifica.
Mettiamocela via. Questa scoperta non ci offre alcuna soluzione ma ci spiega che
“potenzialmente” possiamo riconoscerci negli altri, siamo dunque dotati di percettori
utili, ma, si badi bene, la loro attivazione non è né un processo istintivo né qualcosa che
può darsi come assodato.
La storia delle emozioni, sviluppatasi negli ultimi venti anni, si è in effetti trovata di
fronte a un avversario temibile: lo sviluppo delle neuroscienze ha iniziato a dare
spiegazioni su ogni aspetto della nostra vita nonché sul funzionamento delle emozioni,
sottraendo terreno ad antropologi, sociologi e storici e conquistandosi un appeal vincente,
grazie alla “verità” della scienza.
Come storica e impegnata anche nello studio delle emozioni tento allora di riportare
la discussione su un orizzonte diverso, proprio a partire da ciò che la storia delle emozioni
ha sottolineato, contraddicendo una certa visione immobile, universalistica e senza tempo
del vissuto affettivo che invece ogni società, cultura e talvolta singolo gruppo costruisce,
in una dinamica che non corrisponde a un progresso lineare. Ci sono emozioni e
sentimenti che appartengono più propriamente a un dato periodo storico o a uno specifico
lasso di tempo, altri ancora emergono o riemergono mutati, come narra il libro di Ute
Frevert intitolato per l’appunto Emotions in History. Lost and Found, mentre altri erano
sconosciuti nei tempi addietro.3 L’empatia pare rientrare in quest’ultimi.
La nozione di empatia, con la riflessione su di essa, è infatti materia estranea al passato
sino al XVIII secolo, pur con qualche anticipazione, mentre è tematizzata in maniera più
che consistente, se non assillante, nel nostro orizzonte temporale. Pare siano presenti più
di 1500 titoli contemporanei dedicati all’empatia: già tale affastellamento riflette
2
O. Sacks, L uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Milano, Adelphi, 2006.
U. Frevert Emotions in History. Lost and Found, Budapest, New York, Central European University
press, 2011.
3
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un’emergenza e una viva preoccupazione che reca su di sé le stigmate del secolo breve e
dello spaesamento di fronte a una società di massa e di estranei. Ansie che non trovano
echi all’indietro e che per qualcuno, come Agamben, segnano addirittura la fine
dell’empatia o del poter parlare di empatia e umanità dopo l’Olocausto.4
Prima di visionare tale stratificazione di analisi e riflessioni, cercavo di comprendere
perché dentro i miei pensieri si annidasse l’idea che l’empatia non fosse un’emozione,
non ne avesse le vibrazioni, e che comunque, qualunque cosa essa possa essere, sembrasse
palesare una natura debole e instabile, difficilmente comunicabile come una “passione”
con una sua forza coinvolgente e che rischiasse pertanto di apparire come un generico
atteggiamento di “bontà”.
Lungo la ricognizione degli studi accumulatisi, questa impressione ha trovato un
ampio riscontro: di fronte a una sorta di obbligo morale all’empatia dettato dalle tragedie
del secolo scorso e dalle attuali, che viene costantemente richiamato anche dai media e
ribadito nei percorsi educativi, si riscontra in realtà un “intorpidimento” della capacità
empatica. Lo si accerta specialmente in chi è in contatto ripetuto e costante con le vittime
ma si osserva anche a riguardo delle testimonianze dei sopravvissuti o dei sofferenti che
non riescono a suscitare un ascolto autentico e trasformativo che non si limiti a una pietà
superficiale.5 La quantità di memoriali, diari, autobiografie, ricostruzioni storiche,
indagini sulla vita nei campi di sterminio che abbiamo ora a disposizione non pare aver
prodotto degli anticorpi attivi, come purtroppo constatiamo ai nostri giorni. Per lo più,
come ha denunciato la storica Carolyn Dean in The Fragility of Empathy, questa
sovraesposizione alla sofferenza di massa, soprattutto se veicolata da immagini, ha
provocato una sorta di anestesia emotiva, anche perché la fusione e l’immedesimarsi con
l’altro svuotano piuttosto che costruire: inoltre la mancanza di distanza di rispetto nella
postura identificativa rischia di usurpare il vero posto dell’altro che non può essere il
proprio6.
4
G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L'archivio e il testimone, Torino, Bollati Boringhieri, 1998.
Cfr. S. Moyn, The Fragility of Empathy after the Holocaust by Carolyn J. Dean: History in Transit:
Experience, Identity, and Critical Theory by Dominick LaCapra, «History and Theory», no. 3 (Oct, 2006),
pp. 397-415.
6
C. J Dean, The Fragility of Empathy after the Holocaust, Ithaca, London, Cornell University press, 2004.
L’autrice ha fatto anche notare l’esistenza di un uso e consumo di “pornografia della violenza” attraverso
le immagini.
5
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Ciò che dunque si nota nella letteratura sul tema è la crescita di uno sguardo critico
verso l’empatia, o piuttosto verso la sua debolezza etica che si concentra nell’affidarsi a
un approccio esclusivamente emotivo, espressione di un certo sentimentalismo
umanitario,7 che aveva già suscitato in Emmanuel Kant alcune profonde riserve.8
La nascita dell’empatia
Torno però al terreno storico che mi è più congeniale e penso che utilizzare la lente della
storia delle emozioni e della storia culturale possa offrire un interessante punto di
osservazione e farci presente che c’è un prima e c’è un dopo, ovvero che l’empatia fa
parte di un sentire che si è affacciato alla storia nella tarda modernità, divenuto poi acuto
nell’età contemporanea e che è stato ed è elaborato con gli strumenti culturali in uso e
che risponde a specifiche urgenze.
Ovviamente è impensabile contare di conoscere esattamente il vissuto e le percezioni
di società lontane da noi, tuttavia abbiamo una serie di dati che ne sono rappresentativi e
offrono la possibilità di orientarci. Pur in mancanza di testimonianze dirette, specialmente
delle persone verso cui i neuroni specchio avrebbero potuto attivarsi, ovvero degli oggetti
della postura empatica, possiamo documentare che la schiavitù, con il conseguente
portato di sofferenza e deprivazione di dignità umana, non abbia costituito un problema
sino al Settecento.
Non è inutile ricordare che la sua abolizione è stata definitivamente sancita nell’ambito
giuridico nel 1888 in Brasile, dopo la Spagna e gli Stati Uniti. Da quella data ci separano
solo centotrentacinque anni. Centotrentacinque anni in cui gli statuti e le costituzioni
hanno espulso dalla grammatica e dal lessico della vita comune la riduzione di un essere
umano a cosa, da cui estrarre valore,9 anche se non siamo in grado di sapere quanto ciò
sia stato efficace nella trasformazione anche dell’immaginario.
7
Si veda P. Bloom Against Empathy. The case for rational compassion, New York, Ecco, 2016, da poco
edito anche in Italia, Macerata, Liberilibri, 2023. Anche Laura Boella discute alla fine del suo Sentire
l’altro, Milano, Cortina, 2006 dell’empatia “negativa”, pp. 107-118.
8
Cfr. A. Donise, Critica della ragione empatica. Fenomenologia dell'altruismo e della crudeltà, Bologna,
il Mulino, 2019. Una strada diversa è indicata da M. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, Bologna, il
Mulino, 2004.
9
Per un orientamento: P. Delpiano, La schiavitù in età moderna, Roma-Bari, Laterza, 2009.
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Come si può notare, è una strada relativamente recente, prima della quale non era
motivo di indignazione o anche solo di stupore il fatto che alcuni individui fossero venduti
e trattati come cose. Evidentemente i neuroni specchio dei più, e non solo dei detentori
dei poteri, dormivano o erano silenziati. Ed è una strada recente, come si è detto, ma
anche a costante rischio di ricadute, perché il diritto è un’emanazione dello stato di salute,
accoglienza, e cultura di una società ma anche dei rapporti di forza che la animano, e
pertanto non è al riparo da altre spinte, come vediamo ai nostri giorni.
La nascita di quel che possiamo definire una “competenza” empatica, nel senso che si
tratta di una capacità che si apprende e si sviluppa, più che di qualcosa che è sempre desto
nel proprio bagaglio di modalità relazionali, è situata dagli storici nel diciottesimo secolo.
È uno dei guadagli che ci vengono dai Lumi, che guarda caso oggi una certa parte
dell’opinione pubblica e politica tende a liquidare, a cui vale invece la pena di ritornare.
Qual è stato pertanto allora il lievito di attivazione? La storica Lynn Hunt, nell’intenso
La forza dell’empatia, ha spiegato che ha fatto leva sul riconoscimento, vissuto sia nella
sfera mentale che emozionale, dell’autonomia individuale, del possesso del proprio corpo
da parte di ciascuno, fondante un diritto comune.10 Era qualcosa di nuovo rispetto al
passato, maturato attraverso lo stretto collegamento dello sviluppo di una capacità a
comprendere l’altro da sé con l’interiorizzazione dell’individualità e inviolabilità del
corpo, di chiunque fosse, a partire da sé. Tale consapevolezza nutrì la cultura della
sensibilità che ebbe riflessi anche nel linguaggio, tanto che in molti lessici nazionali
esordì la parola prima sconosciuta di “sentimento” che veniva veicolata dall’arte, dalla
musica, dal teatro e dalla letteratura.11 David Hume e altri pensatori presupposero che alla
base della comunità umana ci fosse un istinto di “simpatia”, oltre che di socievolezza, che
tramite l’immaginazione consentiva di trasformare il sentire degli altri, pur non
percependolo di persona, in una esperienza emotiva diretta che dava modo di superare gli
interessi dei singoli. Nessun movimento precedente aveva peraltro mai dato una risposta
compassionevole alla sofferenza degli altri, in particolare verso la loro sofferenza fisica.
10
L. Hunt, La forza dell'empatia. Una storia dei diritti dell'uomo, Roma-Bari, Laterza, 2010.
G. J. Barker-Benfield, The culture of sensibility. Sex and Society in Eighteenth-century Britain, Chicago,
University of Chicago press, 1992; rinvio anche al mio Un secolo di sentimenti. Amori e conflitti
generazionali nella Venezia del Settecento, Venezia, Istituto veneto di scienze lettere ed arti, 2012.
11
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E proprio in quell’ambito germinava la disapprovazione della tortura e dello schiavismo
che sarebbe più tardi sfociata nelle campagne abolizioniste del secolo successivo.
Per gli studiosi la “simpatia” settecentesca è l’antesignana della attuale concezione di
empatia anche se non è sovrapponibile; tuttavia è bene rammentare che la simpatia era
legata a stretto filo al riconoscimento dei diritti umani a tutti, vicini e lontani e di
qualunque colore della pelle, in un percorso in cui le connotazioni emotive, in ascolto
della realtà corporea, erano radicate in processi cognitivi, coscienti, di comprensione etica
e non sganciati dalla razionalità.
La nascita del romanzo, le scrittici e l’empatia
Come è stato osservato da Lynn Hunt e molti altri studiosi, lo sviluppo di quella cultura
della sensibilità settecentesca che modellò la simpatia verso l’altro è associato in maniera
indissolubile con il formidabile successo di un genere pressoché nuovo, il romanzo, che
provocava l’intensa partecipazione dei lettori, donne e uomini, ma forse è bene specificare
che si trattava di più donne che uomini, anche se servì a molti lettori per immedesimarsi
nei panni di una donna, esperienza assai nuova.
Era una lettura intensa e immersiva, un corpo a corpo con il romanzo che suscitava
scoperte dentro di sé e aperture verso gli altri e che riusciva a coinvolgere le classi meno
abbienti, in un tempo che non trovava concorrenza negli altri media e che vide
quell’affermarsi del libro come amico e compagno di vita che divenne per molti e molte
una guida sentimentale.
È in questo periodo che tocchiamo l’apice della potenza della lettura di entrare nella
vita del lettore e della lettrice: il romanzo faceva presa su un tempo dilatato che allentava
i vincoli societari, tacitava le strutture mentali, societarie, culturali e operava una
trasformazione del ‘sentimento del se’.
Ma chi scriveva queste storie così potenti? Il romanzo settecentesco è stato per lo più
un terreno frequentato dalle scrittrici che si trovarono a loro agio in un genere nuovo e
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poco presidiato dagli uomini. Ma questo ci fornisce solo una parziale spiegazione del gran
numero di donne che abbracciarono questa avventura di romanziere.12
È possibile che chi viva sulla propria pelle una sofferenza che dipende dalla
discriminazione sociale e culturale sia più sensibile a quella degli altri? E che ciò faccia
leva sulla consapevolezza della propria violabilità e fragilità corporea che ne derivano?
Possiamo forse liquidare come una circostanza casuale il fatto che il primo romanzo
europeo a empatizzare con gli schiavi e a denunciare le loro condizioni di vita fosse scritto
da una donna, Aphra Behn (1640-1689)? Nata in un ambiente assai modesto, faticò per
vivere autonomamente, patì anche il carcere, dovette ingegnarsi in molti modi per
sopravvivere e per sostenersi con la scrittura. Aveva vissuto per alcuni anni nella colonia
inglese del Suriname, a stretto contatto con lo sfruttamento dei neri africani lì deportati e
tale esperienza la segnò profondamente al punto da scrivere Oroonoko, or the Royal
Slave, pubblicato a Londra nel 1688 e facendosi fautrice dell’abolizionismo.
Rappresentato molte volte in teatro, il romanzo fu tradotto in francese ed è considerato il
precursore dei Discorsi sulla disuguaglianza di Jean-Jacques Rousseau.
Chi non si limitò a raccontare le sofferenze e violenze degli altri ma offrì loro la
possibilità di esprimere la loro voce fu la francese Françoise Graffigny. Le sue Lettres
d’une Péruvienne uscite nel 1747 conobbero un successo straordinario. Nel romanzo a
prendere la parola è Zilia, una giovane principessa inca rapita dagli spagnoli che narrava
la brutalità e i massacri dei conquistatori mentre, dopo il rocambolesco arrivo in Francia,
criticava le abitudini dei francesi giudicate severamente e che, rovesciando lo stereotipo
occidentale, definiva “selvagge”. Del resto Françoise aveva ben patito nella sua vita: era
stata fatta sposare presto con un uomo violento, brutale e dissipatore, da cui dipendeva
per le leggi vigenti sul matrimonio.
Essere consce della propria precarietà di stato e di corpo, sancita dal diritto, sovente
alla mercé di padri, mariti o uomini a cui erano sottoposte, acuì nelle scrittrici la capacità
di sentire la disuguaglianza altrui sulla propria pelle e di darle voce, tracciando un
percorso di empatia femminile che nutrì la trasformazione del sentire il diverso da sé e le
campagne abolizioniste. Se riconosciamo le antesignane in Aphra Ben e Françoise
12
Per tutto ciò che segue rinvio al mio Le scritture delle donne in Europa. Pratiche quotidiane e ambizioni
letterarie (secoli XIII-XX), Roma, Carocci, 2019, pp. 140-141, 181-187, 214-222.
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Graffigny, nell’Ottocento tale direttrice divenne ancora più perseguita tra le donne che si
misurarono con la penna: dall’inglese Harriet Martineau (1802-1876) col suo romanzo
sugli haitiani, The Hour and the Man: An Historical Romance, uscito nel 1841, alla
spagnola Gertrudis Gómez de Avellaneda (1814-1873), con Sab, pubblicato sempre nel
1841 a Madrid, ambientato tra le piantagioni di zucchero e tra i neri sfruttati, per giungere
all’opera che scosse il mondo intero, La capanna dello zio Tom, dell’americana Harriet
Beecher Stowe, dato in stampa a New York nel 1852.
Ma non fu solo la schiavitù ad animare la penna delle scrittrici, bensì la povertà, la
disuguaglianza sociale e la durezza della condizione operaia nel mondo del primo
capitalismo. Vollero far conoscere tali realtà non perché stimolassero nei lettori una
compassione di maniera ma per richiedere risposte e riforme sul piano giuridico e politico,
nonché spronare il risveglio delle persone. La francese Flora Tristan (1803-1844) visitò i
quartieri operai di Londra e nel 1839 pubblicò le sue Promenades dans Londres. Oltre a
descrivere gli estenuanti ritmi di lavoro, la miseria delle case e delle famiglie rivelava
l’altra faccia dello sviluppo: le prigioni, i manicomi, le baraccopoli e soprattutto i bordelli
e la piaga della prostituzione. In quegli stessi anni la scrittrice tedesca Bettina Brentano
von Arnim (1785- 1859), dopo un’indagine nei quartieri poveri di Berlino, scrisse nel
1844, l’Armenbuch (“Libro dei poveri”) così scottante che al momento ne venne impedita
la pubblicazione e apparve solo anni dopo. Nel 1848 uscì il drammatico romanzo Mary
Barton di Elizabeth Cleghorn Gaskell (1810-1865) che metteva in scena con grande
durezza gli esiti del conflitto di classe nei quartieri proletari di Manchester, scioccando i
lettori e smuovendo l’opinione pubblica, ricevendo pure gli apprezzamenti di Karl Marx.
Leggere: un universo emotivo perduto
Possiamo pensare che la lettura di questi romanzi, proprio per l’esito operato sulla
trasformazione della sensibilità e sulla realizzazione di riforme reali e di movimenti
sociali sia riuscita a stimolare i neuroni specchio di molti. Lettura ed empatia strinsero
allora un’alleanza di mutua potenza e riconoscimento.
Non pare che questo quadro rifletta l’oggi, diversi i contesti, le soggettività, le
emozioni in gioco, la concorrenza dei media e la nostra attenzione.
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Noi non ne siamo più capaci, non siamo capaci di provare quell’arresto del tempo,
sempre connessi e turbati dalla tirannia di un tempo accelerato e forse, a differenza di
allora, siamo privi di prefigurazione del futuro, privi di aspettative. E opponiamo
resistenza all’emozione profonda; la soggettività post-moderna non si fida del sentimento,
dell’abbandono, siamo sempre sull’avviso per scoprire gli inganni nella narrazione, il
nostro cuore e il nostro io sono distanti anni luce dalle sensazioni che provavano nel
Settecento con un libro in mano. Ci sentiamo ridicoli a commuoverci, guardiamo con la
condiscendenza dell’erudizione, come ha scritto James Elkins: «È sorprendente come
siano diventate gelide le persone in soli due secoli. Noi siamo a dieta stretta di ironico
distacco: ci permettiamo magre razioni di piacere, ma il genuino trasporto è severamente
vietato».13
È ben vero d’altra parte che il libro ha nella società contemporanea un ruolo e un peso
diverso di quello che aveva solo cent’anni fa: la società dello spettacolo, dal profetico
libro di Guy Debord, e del dominio delle immagini ha reso il libro se non residuale
certamente meno cogente nelle forme di comunicazione e trasmissione di competenze
emozionali o almeno meno attraente, meno rispondente a un tempo in continuo
mutamento in cui l’esperienza dell’abbandono è sentita quasi come una minaccia, un
rischio per una soggettività già troppo frammentata.
Tuttavia è solo grazie all’esperienza dell’abbandono, dell’uscita da sé e a un contatto
autentico con l’altro che può nascere un movimento in grado di rifondare l’empatia
arricchendo il nostro attuale orizzonte emotivo e cognitivo.14
In cuor mio però continuo a sperare che la letteratura possa costituire una risorsa e
riesca ancora ad accendere i dormienti neuroni specchio.
13
J. Elkins, Dipinti e lacrime. Storie di gente che ha pianto davanti a un quadro, Milano, Bruno Mondadori,
2001, p. 135.
14
E. Illouz, Intimità fredde, Milano, Feltrinelli, 2007.
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Bibliografia
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