Academia.eduAcademia.edu

Epistemologia e clinica. Tre Saggi

2013, ETS, Pisa

La medicina è storia degli individui e dell'umanità. È storia di concetti, di metafore, di "sguardi". Le bioscienze e le biotecnologie sono lo scenario dove oggi si ripensano la vita, il corpo, i limiti. Una riflessione umanistica -storica, epistemologica, etica o sociologica -diventa imprescindibile quando si vogliano comprendere a fondo il divenire delle scienze della vita, le vicende della nostra lotta al male come del nostro sentirsi "normali", del nostro relazionarsi nella cura, del nostro errare tra speranze e paure.

MEFISTO La medicina è storia degli individui e dell’umanità. È storia di concetti, di metafore, di “sguardi”. Le bioscienze e le biotecnologie sono lo scenario dove oggi si ripensano la vita, il corpo, i limiti. Una riflessione umanistica – storica, epistemologica, etica o sociologica – diventa imprescindibile quando si vogliano comprendere a fondo il divenire delle scienze della vita, le vicende della nostra lotta al male come del nostro sentirsi “normali”, del nostro relazionarsi nella cura, del nostro errare tra speranze e paure. MEFISTO Collana di Storia, Filosofia e Studi Sociali della Medicina e della Biologia Diretta da Alessandro Pagnini Giovanni Boniolo Stefano Canali Bernardino Fantini Stephen Jacyna Antonello La Vergata In collaborazione con 1. Marco Solinas, L’impronta dell’inutilità. Dalla teleologia di Aristotele alle genealogie di Darwin, 2012, pp. 186. 2. Stefano Canali, Talassemie. Storia medica e scientifica, 2012, pp. 214. 3. Stefano Brogi, Nessuno vorrebbe rinascere. Da Leopardi alla storia di un’idea tra antichi e moderni, 2012, pp. 220. 4. Alessandro Tomasi, Tecnologia e intimità. Per una nuova idea di progresso, 2013, pp. 208. 5. Rosapia Lauro-Grotto, Paradigmi metapsicologici. Con tre inediti di Freud. In preparazione. 6. Luciana Ceri, Etica e evoluzione. Spencer e le origini dell’eugenetica, 2013, pp. 156. 7. Carlo Gabbani, Epistemologia e clinica. Tre saggi, 2013, pp. 164. Carlo Gabbani Epistemologia e clinica Tre saggi Edizioni ETS www.edizioniets.com Volume pubblicato con il contributo di © Copyright 2013 EDIZIONI ETS Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa [email protected] www.edizioniets.com Distribuzione PDE, Via Tevere 54, I-50019 Sesto Fiorentino [Firenze] ISBN 978-884673671-0 Epistemologia e clinica Tre saggi . Introduzione Questo volume raccoglie tre saggi dedicati ciascuno ad un aspetto epistemologicamente rilevante del sapere clinico (inteso nel senso più ampio del termine): le funzioni e il rilievo dell’indagine su singoli casi in medicina; la natura e il ruolo dei sistemi tassonomico-classificatori in psichiatria; lo statuto epistemico e la varietà delle psicologie dinamiche. Al di là del riferimento alla clinica, ad accomunare questi saggi sono il taglio e la prospettiva di fondo, che probabilmente non è quella più abituale in filosofia della medicina e della psicologia. Infatti, la mia ricerca (in genere ed anche in questo caso) si incentra sul problema del rapporto tra la cosiddetta “immagine manifesta” e la cosiddetta “immagine scientifica dell’uomo”1. Questo significa, tra le altre cose, interrogarsi, da un lato, su che cosa ne è della persona entro la cornice delle scienze sperimentali della natura, dall’altro, su che cosa ne è delle scienze sperimentali della natura, e delle pratiche basate su di esse, quando hanno a che fare con l’essere umano e i fenomeni che lo riguardano 2. Questo volume offre, perciò, un itinerario epistemologico selettivo che mira a far emergere le peculiarità del sapere clinico connesse tanto alla sua speciale finalità operativa (la conoscenza in vista della cura), quanto alla natura straordinariamente articolata e diversificata degli oggetti, o dei fenomeni con cui esso ha a che fare. Ci chiederemo, 1 Cfr. W. Sellars, Philosophy and the scientific image of man, ora in Id., Science, Perception and Reality, Routledge, London 1963, pp. 1-40 [Ridgeview, Atascadero 1991]; trad. it. La filosofia e l’immagine scientifica dell’uomo, Armando, Roma 2007. 2 Cfr. ad esempio C. Gabbani, Per un’epistemologia dell’esperienza personale, Guerini e Associati, Milano, 2007; Id., Tra universo del senso comune e universo delle scienze: oltre il conflitto, in A. Peruzzi (a cura di), Pianeta Galileo 2010, Centro Stampa del Consiglio regionale della Toscana, Firenze 2011, pp. 137-156; Id. (ed.), Between Two Images. The Manifest and Scientific Conceptions of the Human Being, 50 Years On, «Humana.Mente. Journal of Philosophical Studies», 21, ETS, Pisa 2013; Id., The Causal Closure of What? An Epistemological Critique of the Principle of Causal Closure, «Philosophical Inquiries», I (2013), n. 1, pp. 145-174. 8 Epistemologia e clinica dunque, in quali modi e forme i peculiari fenomeni e le peculiari finalità del sapere clinico incidano sull’assetto complessivo di quest’ultimo e possano, eventualmente, differenziarne lo status rispetto a quello delle varie scienze sperimentali della natura alle quali la clinica attinge il proprio repertorio di conoscenze di base. Una domanda che percorre questo libro è, in altri termini, che cosa significhi per l’assetto epistemologico, categoriale e metodologico di differenti specialità cliniche (dalla medicina in generale, alla psichiatria, alla psicoanalisi) avere costitutivamente a che fare con fenomeni quali le condizioni patologiche dei singoli esseri umani, o (a maggior ragione) con un sottoinsieme specifico e speciale di esse, come le loro patologie psichiche. Sullo sfondo dell’analisi, vi è la convinzione che l’odierna medicina a base scientifico-sperimentale, e più ampiamente i saperi naturalistici ad essa soggiacenti, rappresentino un paradigma di razionalità ed efficacia imprescindibile, il cui valore è tale che il più proficuo dei discorsi epistemologici non può che essere relativo e funzionale ad essi. Questo non esclude che, su scale e livelli diversi, le varie scienze sperimentali della natura affrontino problemi o adottino cornici concettuali e metodologiche segnate da peculiarità e diversità molto rilevanti, e non esclude neanche che la conoscenza e la presa in carico efficace dei fenomeni patologici degli esseri umani possano richiedere anche il concorso di cornici concettuali e matrici metodologiche non naturalizzate (da un punto di vista epistemologico), in gradi e forme differenti, a seconda delle varie specialità. Quest’ultima questione, che è poi quella relativa alla coesistenza e integrazione dell’approccio scientifico/naturalistico, scompositivo e sub-personale, e di quello che è stato definito mentalistico, sintetico e di livello personale, costituisce probabilmente una delle tematiche che attraversano l’intero libro. La tensione tra questi livelli di approccio è vista, anzi, prima che come un problema, come tensione costitutiva di uno spazio epistemico, che è in modo particolare quello proprio della psichiatria e anche delle psicologie dinamiche (e, in questo senso, si potrebbe anche impiegare la formula generalissima di Martin Davies, quando parla di «interaction without reduction» tra livelli)3. Una seconda tematica che percorre interamente il libro è quella relativa alla dialettica in clinica tra condizioni/casi particolari e saperi/ modelli generali ai quali si ricorre. Anche in questo caso siamo proba3 Al tema dei livelli di analisi si fa riferimento in maniera più specifica nel secondo saggio, § 3.1. Introduzione 9 bilmente di fronte ad una tensione costitutiva per i saperi clinici in generale, e che è necessario per essi abitare, cioè assumere e declinare consapevolmente, piuttosto che tentare di superare. Di fatto, è in primis la pratica clinica quotidiana che è costantemente chiamata a farsene carico. Non è sempre ovvio che vi si riesca, ma è soprattutto ancora meno ovvio che sappiamo sempre cogliere il significato e le conseguenze che questa tensione tra singolarità e generalità può avere sull’assetto complessivo di qualunque scienza del patologico in tutte le dimensioni della sua costruzione di sapere. Allo stesso tempo, è proprio la più avanzata medicina basata sulle scienze sperimentali della natura che, a partire dalle acquisizioni conoscitive di ordine generale che la caratterizzano, può tendere a cogliere e farsi carico nel modo migliore (per quanto le compete) della individualità e delle peculiarità distintive di ciascun singolo caso clinico. Ma, anche approssimarsi a questo traguardo ideale richiede, tra l’altro, una consapevolezza sempre più piena ed esplicita appunto di questa tensione tra singolarità dei fenomeni e generalità dei modelli, per come essa si pone nei saperi clinici. Da questa consapevolezza, infatti, potrà derivare, poi, anche il tentativo costante di integrare, nella ricerca e nella terapia, gli strumenti teorico-pratici di ordine generale, con pratiche di individualizzazione e anche di personalizzazione, sulle quali torneremo. Si tratta, è bene notarlo fin d’ora, di pratiche che beneficiano di ogni progresso scientifico-sperimentale (e dunque completano, non negano il fondamento scientifico della medicina), ma, al contempo, esse consentono e richiedono anche il concorso e la cooperazione di vocabolari, metodi e saperi non naturalizzati, assieme a quelli naturalistici. Quelle che i tre saggi propongono sono, per lo più, trattazioni preliminari e introduttive ai diversi ambiti che essi affrontano e allo specifico lavoro epistemologico in tali ambiti. Del resto, vorrebbero servire, prima ancora che ad avvalorare il punto di vista che propongono, ad attirare l’attenzione su costellazioni di problemi o tematiche che, per quanto note, tendono ad essere trascurate o minimizzate quando, occupandosi di medicina, di psichiatria, di psicologia dinamica, non le si pone esplicitamente a tema. E, proprio perché questa non è e non intende essere una introduzione alla filosofia della medicina4, ma un percorso selettivo orientato 4 In questo senso si veda, ad esempio A. Pagnini (a cura di), Filosofia della medicina. La salute e la malattia, la diagnosi e la cura, l’etica e il diritto, Carocci, Roma 2010. 10 Epistemologia e clinica da interessi epistemologici, i saggi (nonostante abbiano titoli di carattere generale) non affrontano in maniera sistematica ed esaustiva le tematiche in oggetto, né trattano di argomenti istituzionali, pur decisivi, quali ad esempio le metodologie del campionamento e della statistica medica, o l’evoluzione storica della nosografia psichiatrica, oppure l’impianto complessivo della psicoanalisi freudiana o junghiana. Si tratta di argomenti rispetto ai quali è già possibile trovare introduzioni largamente affidabili e rispetto alle quali non avrei alcun contributo da apportare (né l’esigenza di contenere l’esposizione in spazi ragionevoli ne avrebbe consentito una trattazione istituzionale adeguata). Spero che queste omissioni non inficino né l’intelligibilità, né la validità di quanto dirò. Entrando nel merito del contenuto dei tre saggi: – Il primo (Epistemologia e casi clinici) è dedicato alla questione del ruolo del singolo caso clinico in medicina. La medicina è, infatti, un sapere che, a differenza di buona parte dei saperi scientifico-sperimentali, accorda uno spazio e una sorta di vero e proprio genere letterario (il case-report) alla presentazione di singoli casi clinici. Perché questo avviene? quale significato e quale valore conoscitivo e operativo ha il resoconto esperto di un singolo caso? che dinamismi può innescare la sua valorizzazione entro la costruzione di un sapere medico di portata sovraindividuale? e che cosa ci rivela tutto questo dello status del sapere clinico, dei livelli di analisi di cui necessita e della sua costitutiva tensione tra singolarità e generalizzazioni? – Il secondo saggio (Epistemologia e classificazioni psichiatriche) si incentra, invece, sulle problematiche epistemologiche poste dalle classificazioni psichiatriche. La psichiatria è, infatti, un sapere nel quale emergono al massimo grado le problematiche epistemologiche connesse al tentativo di costruire una conoscenza sistematica, scientifica e adeguata di condizioni patologiche che investono in maniera diretta ciò che le persone hanno di più distintivo (e prezioso): la loro vita psichica, i loro comportamenti, le loro relazioni con gli altri e con se stessi. Da questo punto di vista, le polemiche che sempre accompagnano l’impianto e l’uso del DSM, ad ogni sua nuova edizione, non sono che una spia di queste difficoltà. Attraverso la discussione di alcuni temi al centro del dibattito filosofico sulla psichiatria si intende allora proporre una prima interpretazione d’insieme assai generale circa natura e finalità delle tassonomie psichiatriche, viste come costrutti epistemici di Introduzione 11 sintesi, influenti e non interamente naturalizzabili, che orientano la conoscenza e la cura della condizione psicopatologica di una persona. – Il terzo saggio (Epistemologia e psicologie dinamiche) analizza, infine, la questione dello status scientifico della psicoanalisi, o meglio delle psicologie dinamiche. Si tratta di un tema controverso e che è da sempre al centro di accesi dibattiti in filosofia della scienza. Anche in questo caso, il tentativo vuole essere quello di ripensare l’impostazione stessa del problema, facendosi guidare dalle peculiarità dei fenomeni e delle finalità che sono propri della psicoanalisi, fino a far emergere l’inopportunità di giudicare le psicologie dinamiche come se si trattasse di un tutto unitario (infatti, ciò che può valere per la prospettiva di Freud non necessariamente varrà anche per Jung, o Adler, o Bion, poniamo), o come se la loro adeguatezza, validità e utilità dipendesse dal conformarsi pienamente a standard meccanicamente ripresi da altri saperi che hanno oggetti e finalità marcatamente diversi. Si approfondirà, per contro, l’ipotesi che tra i caratteri distintivi della teoria e della pratica in psicologia dinamica vi siano, da un lato, un pluralismo che segna quest’ambito fin dalle sue origini, e, dall’altro, il ruolo giocato da componenti categoriali mentalistiche, basate sul riferimento al contenuto degli stati mentali: un ruolo che contribuirebbe, tra l’altro, a distinguere questa disciplina dalle attuali scienze sperimentali della natura, situandola su un differente livello di analisi dei processi psichici. NOTIZIA SUGLI SCRITTI CHE COMPONGONO QUESTO VOLUME – PRIMO SAGGIO Il testo riprende, rivede molto ampiamente ricerche in materia presentate tra il 2003 ed oggi. Tra i lavori più recenti, ricordo Studio per casi e dinamiche del sapere clinico, in P. Giaretta-A. Moretto-G.F. Gensini-M. Trabucchi (a cura di), Filosofia della Medicina. Metodo, modelli, cura ed errori, Il Mulino, Bologna 2009, pp. 163-186; La questione del singolo caso clinico, in A. Pagnini (a cura di), Filosofia della medicina. La salute e la malattia, la diagnosi e la cura, l’etica e il diritto, Carocci, Roma 2010, cap. VIII, pp. 255-276; Epistemology and Clinical Cases Studies: Towards a Multilevel Approach, testo presentato al XXII Biennal Meeting of the Philosophy of Science Association, Montreal, 5 novembre 2010 [Symposium “Is it the Case? Epistemological Reflections on the Use of Case Studies in the Sciences”]; Étude de l’individu comme facteur de connaissance médicale, in B. Fantini-L. Lambrichs (cur. de), Penser la médecine du XXe au XXIe siècle, Evolutions, innovations, controverse, Éditions du Seuil, Paris, cap. 10, pp. 175-193, in corso di stampa (ma redatto essenzialmente nel 2009). – SECONDO SAGGIO Il testo qui pubblicato è una versione ampliata e largamente rivista dell’intervento dal titolo Di etichette, loops e persone. Problemi epistemologici delle classificazioni psichiatriche, presentato al seminario: “Psicopatologia: apporti dalla fenomenologia e dalle scienze della mente”, tenutosi all’Università di Roma III, il 27 ottobre 2011 (Discussant: Elisabetta Sirgiovanni), e poi apparso negli atti del seminario, dal titolo Fenomenologia e Cognitivismo: Prove di dialogo, “Bollettino Studi sartriani”, VIII (2012), pp. 157-196. – TERZO SAGGIO Il testo qui pubblicato riprende, rivede largamente e integra il lavoro presentato per la laurea in Scienze e Tecniche di Psicologia Clinica e di Comunità presso l’Università di Firenze (A.A. 2011-2012), dal titolo Premesse a un’epistemologia delle psicologie dinamiche. Introduzione 13 Per le osservazioni e i commenti ricevuti su versioni precedenti di queste ricerche e/o per le conversazioni su temi affini ringrazio: Rachel Ankeny, Matteo Borri, Raffaella Campaner, Laura Capantini, Elena Castellani, Alfredo Civita, Pierdaniele Giaretta, Louise Lambrichs, Roberta Lanfredini, Rosapia Lauro-Grotto, Massimo Marraffa, Mary Morgan, Alessandro Pagnini, Paolo Parrini, Cesare Scandellari, Marica Setaro, Elisabetta Sirgiovanni. Sono poi particolarmente riconoscente a chi ha voluto e accolto il libro in questa collana, in special modo Alessandro Pagnini. Le ultime parole, poi, se solo riuscissi a trovarne, sarebbero per mio padre e mia madre, e non tanto per quello che mi hanno insegnato, ma per quello che, temo, non ho mai saputo imparare dal loro amore, dalla loro cura e dalla loro voce per me, sonora o silenziosa. Pisa-Firenze, estate 2013 Primo saggio Epistemologia e casi clinici 1. Conoscenze singolari L’indagine scientifico-sperimentale è stata vista tradizionalmente come la forma più efficace e sistematica di ricerca di categorie, teorie, generalizzazioni che permettano di classificare, prevedere, spiegare e manipolare una pluralità di fenomeni individuali, emancipandosi dalla loro singolarità. E questo grazie all’individuazione di regolarità ed omogeneità tipologiche e/o legiformi. Al contempo, poiché ogni settore della ricerca sperimentale trae origine a partire da interrogativi circa eventi particolari e fenomeni individuali, ciascun sapere, dall’astronomia, alla geologia, dalla biologia, alla medicina, nel corso della propria storia ha accordato e accorda un certo spazio a studi su fatti particolari e individualità. Più in generale, tutte le discipline con contenuto empirico, da un lato, possono avere a che fare con lo studio di singoli fatti, dall’altro, per la natura stessa del sapere concettuale, ricorrono, in diversa misura, anche a risorse epistemiche di portata sovraindividuale, pur se di genere diverso. Cogliere le caratteristiche distintive di una disciplina significherà allora, tra l’altro, valutare il rapporto peculiare, per natura o grado, che si instaura in essa tra questi due aspetti: fatti singolari e modelli di portata generale. In contesto medico, ad esempio, i tratti individuali distintivi e la pratica dello studio sul caso singolo sembrano avere rilevanza maggiore che in altre discipline sperimentali: diverse riviste mediche conservano una sezione dedicata alla presentazione e discussione di singoli casi, e nel 2007 è sorta una rivista dedicata specificamente a questo genere di comunicazioni, il Journal of Medical Case Reports. Addirittura, Gorovitz e MacIntyre in un loro influente lavoro, dopo aver delineato polemicamente l’immagine di una scienza della natura fatta solo di conoscenze legiformi ineccepibili, si sono spinti a parlare della medicina 16 Epistemologia e clinica come di una «Science of Particulars»1. In linea generale, per spiegare il ruolo più o meno centrale che l’individualità dei fenomeni indagati riveste nelle varie discipline sono stati chiamati in causa diversi fattori. Fattori metodologici, ossia legati alla differenti modalità di studio degli oggetti. Così, Wilhelm Windelband2, nel contesto del dibattito sul carattere della conoscenza storica, propose una distinzione tra lo studio di un oggetto basato sul metodo nomotetico, cioè sulla ricerca di leggi generali (che attribuiva alle scienze naturali, e alla psicologia), oppure sul metodo idiografico, cioè centrato sullo studio della sua realtà singolare e della sua particolarità irripetibile (che sarebbe distintivo delle scienze storiche)3. 1 S. Gorovitz-A. MacIntyre, Toward a Theory of Medical Fallibility, in «The Hastings Center Report», 5 (1975), pp. 13-23 (poi anche in «Journal of Medicine and Philosophy», 1 (1976), pp. 51-71). 2 W. Windelband, Geschichte und Naturwissenschaft (1894); trad. it. Storia e scienza della natura, in P. Rossi (a cura di), Lo storicismo tedesco, UTET, Torino, pp. 313-332. 3 Sul ruolo dei procedimenti d’indagine basati su casi nelle varie scienze umane e storico-sociali C. Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario, in A. Gargani (cura di), Crisi della ragione, Einaudi, Torino 1979, pp. 57-106; M. Jenicek, Clinical Case Reporting in Evidence-based Medicine, Arnold, London 20012; trad. it. Casi clinici ed evidence-based medicine. Come preparare e presentare case report, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 2001, cap. 3; R.K. Yin, Case Study Research. Design and Methods, Sage, Thousand Oaks (Ca.) 20033; J.C. Passeron-J. Revel (sous la direction de), Penser par cas, Éditions de l’École des hautes études en sciences sociales, Paris 2005; A.N.H. Creager-E. Lunbeck-M.N. Wise (eds.), Science Without Laws. Model Systems, Cases, Exemplary Narratives, Duke U.P., Durham-London 2007. Forrester (J. Forrester, If p, then what? Thinking in cases, in «History of the Human Sciences», 9 (1996), pp. 1-25), spaziando dalla psicoanalisi alla giurisprudenza, ha poi parlato di uno «style of reasoning» (I. Hacking) connesso proprio agli studi su casi. È inoltre da vedere il saggio di Livet (P. Livet, Les diverses formes de raisonnement par cas, in J.C. Passeron-J. Revel (sous la direction de), Penser par cas, cit., pp. 229253), che tratteggia varie tipologie di ragionamento per casi, evidenziando (specie pp. 238243) il ruolo che possono svolgere in quest’ambito sistemi di logiche non-monotone, ossia che mirano ad adattare, rivedere o integrare le inferenze generali valide, in base alle informazioni che si acquisiscono sulle singole entità ed i loro contesti (per una introduzione a questo ambito J.F. Horty, Nonmonotonic Logic, in L. Goble (ed.), The Blackwell Guide to Philosophical Logic, Blackwell, Malden-Oxford etc. 2001, pp. 336-361; G. Fischer Servi, Quando l’eccezione è la regola. Le logiche non monotone, McGraw-Hill, Milano 2001). La complessiva unitarietà del metodo nei vari ambiti, anche ove si tratti dello studio di singoli eventi, è difesa, ad esempio, da D. Antiseri, Trattato di metodologia delle scienze sociali, UTET, Torino 1996, specie capp. 17 e 20; D. Antiseri-V. Cagli, Dialogo sulla diagnosi. Un filosofo e un medico a confronto, Armando, Roma 2008, specie §§ 2 e 19 (con opportuna replica di Cagli, specie pp. 73-75). Epistemologia e casi clinici 17 Ma le differenze potrebbero anche dipendere da fattori di maturità disciplinare, nel senso che la presenza di resoconti dedicati a singoli fatti sembra inversamente proporzionale al grado di evoluzione teorico-concettuale di una disciplina, e, dunque, la loro abbondanza in medicina potrebbe essere spia del fatto che essa è relativamente meno sviluppata della fisica, poniamo (cfr., infra, le osservazioni di Peter Medawar). La diversa importanza dei case-studies nei vari ambiti potrebbe forse dipendere da fattori pratici ed operativi 4. Ad esempio, siamo interessati a conoscere le individualità con le quali il clinico ha a che fare, cioè gli esseri umani, e a intervenire su di esse in una misura e in forme che non sembrano avere l’eguale per alcun altro “oggetto” di indagine sperimentale. È però possibile che spiegazioni puramente metodologiche e comparative, o esclusivamente pragmatiche non siano sufficienti. Gorovitz e MacIntyre hanno allora evidenziato come, ad esempio, uragani ed esseri umani sarebbero tipi di individualità così sensibili a una straordinaria molteplicità di fattori contestuali o storici imponderabili, da richiedere un approccio strutturalmente diverso da quello che può permetterci di conoscere entità come una molecola5. Questa considerazione apre la strada ad una prospettiva che colleghi lo spazio riservato nei diversi saperi allo studio di individualità a dei fattori connaturati, ossia alle peculiari caratteristiche degli enti e dei fenomeni che ciascuno di essi studia. Così, tale spazio sembra farsi maggiore nelle varie discipline, via via che passiamo da quelle che studiano tipi di entità che (in un ampio intervallo temporale) tendono a persistere invarianti nelle caratteristiche considerate, a quelle i cui oggetti sono in divenire, da quelle i cui oggetti sono non viventi, a quelle 4 Cfr. A.R. Jonsen-S. Toulmin, The Abuse of Casuistry. A History of Moral Reasoning, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1988, pp. 28-36. 5 Cfr. S. Gorovitz-A. MacIntyre, Toward a Theory of Medical Fallibility, cit., pp. 16-17. John Stuart Mill (A System of Logic, Ratiocinative and Inductive (1843); trad. it. Sistema di logica deduttiva e induttiva, UTET, Torino 1988, libro VI, cap. III) valutava che la estrema difficoltà nel tener conto della totalità dei fattori che possono influire in ciascun caso avesse rappresentato il vero scoglio alla creazione di una scienza esatta tanto per i fenomeni metereologici, quanto per la natura umana. Riteneva, però, che la difficoltà insuperabile fosse di ordine empirico (conoscere tutti i dati rilevanti in ciascun caso), più che teorico (sapere quali modelli e leggi si applicano a quel fenomeno). Almeno per alcuni fenomeni («i pensieri, i sentimenti e le azioni» dei quali parla Mill) anche la difficoltà teorica può, in realtà, essere rilevante. 18 Epistemologia e clinica che studiano entità viventi, per culminare con quelle che hanno a che fare con entità che sono in effetti soggetti coscienti ed agenti, o loro prodotti culturali6. Poiché anche la medicina ha a che fare con entità di quest’ultimo genere, sarà particolarmente opportuno interrogarsi circa l’adeguatezza, per essa, di «un abito mentale “nomotetico”, secondo il quale il singolo paziente non è nient’altro che l’esemplificazione concreta di una legge o di una condizione generale»7. E chiedersi se non sia, invece, essenziale anche la presenza di un approccio basato sui singoli casi e sull’attenzione esperta ai loro aspetti distintivi entro la popolazione di appartenenza. Di fatto, sulla scorta di Jenicek8 possiamo identificare diversi ambiti nei quali si articola la presenza dell’analisi centrata su singoli casi in medicina: – essa caratterizza, da un lato, la quotidiana pratica clinica, nonché il training formativo dei nuovi medici9; – d’altra parte, essa riveste un ruolo peculiare in medicina nel contesto della costruzione di nuovo sapere, quando si riconosca allo studio di singoli casi una effettiva importanza scientifica, nel senso che 6 Per i fattori intrinseci connessi al rilievo di un approccio case-based, è utile R.A. Ankeny, Case-Based Reasoning in the Biomedical and Human Sciences: Lessons from Model Organisms, in P. Hájek-L. Valdés-Villanueva-D. Wersterståhl (eds.), Logic, Methodology and Philosophy of Science. Proceedings of the Twelfth International Congress, King’s College Publications, London 2005, pp. 229-242: pp. 233-234. Le distinzioni tracciate sopra sono anche in linea con le osservazioni di K. Montgomery, How Doctors Think. Clinical Judgment and the Practice of Medicine, Oxford U.P., Oxford 2006, p. 71; un continuum simile a quello tratteggiato si trova anche in A.R. Jonsen-S. Toulmin, The Abuse of Casuistry, cit., p. 36, che però basano la distinzione tra discipline specie su aspetti pratico-operativi (cfr. pure J. Forrester, If p, then what?, cit., p. 16). Da vedere, inoltre, le riflessioni da cui muove R. De Monticelli, La conoscenza personale. Introduzione alla fenomenologia, Guerini e Associati, Milano 1998, pp. 14-16. 7 G. Federspil-C. Scandellari, La Medicina basata sulle Evidenze. Un’Analisi Epistemologica, in «MEDIC», 7 (1999), pp. 32-36: p. 35; cfr. anche P. Giaretta, Aspetti idiografici e nomotetici del procedimento clinico: analisi di un caso, in G. Federspil-P. Giaretta (a cura di), Forme della razionalità medica, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004, pp. 143-162; C. Scandellari, La diagnosi clinica. Principi metodologici del procedimento decisionale, Masson, Milano 2005, pp. 55-63. 8 Cfr. M. Jenicek, Casi clinici ed evidence-based medicine, cit., pp. xvii-xviii, 2-4, 79-82. 9 Cfr. K. Montgomery Hunter, Doctor’s Stories. The Narrative Structure of Medical Knowledge, Princeton University Press, Princeton 1991, pp. 51-57; M. Jenicek, Casi clinici ed evidence-based medicine, cit., cap. IV; F. Griffiths, The Case In Medicine, in D. Byrne-Ch. C. Ragin (eds.), The SAGE Handbook of Case-Based Methods, Sage, London 2009, pp. 441453. Epistemologia e casi clinici 19 essi «expand the field of general medical knowledge»10: ossia, permettono di comunicare alla comunità scientifica conoscenze che dovrebbero accrescerne in modo significativo il sapere, o almeno ampliare il novero dei fenomeni da prendere in considerazione. Nel prossimo paragrafo ci soffermeremo soprattutto su quest’ultimo genere di casi clinici. 2. L’indagine sul caso clinico nelle dinamiche della conoscenza medica Specialmente in anni recenti sono state elaborate disamine molto dettagliate dei vari generi di contributo conoscitivo originale che possono far sì che un case-report sia dotato di interesse scientifico11. L’elemento comune che sembra emergere è quello per cui, quando in contesto di ricerca si ricorre alla presentazione del caso, «almost always there is ‘the element of surprise’»12. Potremmo, perciò, anche dire che un case-report rappresenta in genere una conoscenza singolare, nel du- 10 M. Kidd-Ch. Hubbard, Introducing Journal of Medical Case Reports, in «Journal of Medical Case Reports», 1 (2007), p. 1. 11 Milos Jenicek (Casi clinici ed evidence-based medicine, cit., p. 83) presenta 19 ragioni per la pubblicazione di un case-report: in 6 delle prime 10, ricorre il termine «insolito» riferito a quanto si porta all’attenzione (vedi anche le precisazioni alle pp. 52-53). Il Journal of Medical Case Reports, nell’Editoriale di apertura, annovera invece sette tipi di fattori che renderebbero meritevole di pubblicazione un case-report: «(1) Unreported or unusual side effects or adverse interactions involving medications; (2) Unexpected or unusual presentations of a disease; (3) New associations or variations in disease processes; (4) Presentation, diagnoses and/or management of new emerging diseases; (5) An unexpected association between diseases or symptoms; (6) An unexpected event in the course of observing or treating a patient; (7) Findings that shed new light on the possible pathogenesis of a disease or an adverse effect» (M. Kidd-Ch. Hubbard, Introducing Journal of Medical Case Reports, cit.). Per considerazioni tipologiche generali J.P. Vandenbroucke, Case reports in an evidence-based world, «Journal of the Royal Society of Medicine», XCII (1999), n. 4, pp. 159–163 (mentre su quanto rende significativo un caso in ambito non medico R.K. Yin, Case Study Research, cit., pp. 161-162). Secondo Montgomery: «Narratability is the mark of the anomalous in medicine» (How Doctors Think, cit., p. 75); cfr. inoltre K. Montgomery Hunter, Doctor’s Stories, cit., sul ruolo di casi e aneddoti clinici (capp. IV-V, specie pp. 93-96 e 104-106) e sulle tipologie della loro presentazione in rivista (cap. VI). Circa il ruolo degli aneddoti, anche R.J. Macnaughton, Anecdote in clinical practice, in T. Greenhalgh-B. Hurwitz (eds.), NarrativeBased Medicine. Dialogue and Discourse in Clinical Practice, BMJ Books, London 1998, pp. 202-211. 12 J.P. Vandenbroucke, Case reports in an evidence-based world, cit., p. 160. 20 Epistemologia e clinica plice senso del termine: perché verte su un singolo e, al contempo, su qualcosa che appare singolare, cioè sorprendente, strano, senza eguali al clinico che lo presenta. Questo, però, non vuol dire che qualunque fatto inedito che emerga dall’interazione con un singolo sarà, dal punto di vista medico, tale da giustificare la scelta di attirarvi l’attenzione generale. Chi scrive di un caso clinico individuale avrà, allora, l’onere di spiegare perché ritenga utile attirare l’interesse di tutti gli esperti su quel caso, e perché attribuisca ad esso un qualche speciale rilievo teorico o pratico13. Cercando di fare sintesi delle varie caratterizzazioni proposte in letteratura, ma senza alcuna pretesa di esaustività, possiamo distinguere tre principali tipologie di funzioni che la presentazione di casi ha svolto e può svolgere nel processo di acquisizione del sapere medico. Poiché si tratta di tipi di funzioni e di momenti di costruzione del sapere medico che possono essere significativamente interconnessi, la distinzione individua, per lo più, aspetti concettualmente separati, o, comunque, il ruolo prevalente di un case-report, non l’unico. 1. Si è osservato un caso che presenta un certo insieme di caratteristiche o proprietà (nel senso più generale dei termini) clinicamente rilevanti. L’insieme di queste caratteristiche o proprietà, oppure almeno alcune di esse, risultano ignote in quanto tali, o ignote in rapporto alla patologia alla quale sono associate in quel caso; oppure non è stato fin lì riconosciuto come tali proprietà siano costitutive di una condizione patologica unitaria (o, quanto meno, come esse rappresentino «a set of facts [...] travelling together»)14; ancora: si presentano associazioni inusuali tra disturbi, o complicazioni rare di uno stato morboso. In alternativa: si è osservato un caso clinico che, inaspettatamente, non presenta alcune caratteristiche normalmente associate alla condizione patologica data. Si tratta di alcuni esempi di situazioni in cui il resoconto del caso può dare un contributo nell’iniziare a introdurre una novità sul piano descrittivo, rispetto alla situazione esistente. 13 Cfr., su un piano più generale J.C. Passeron-J. Revel (sous la direction de), Penser par cas, cit., specie pp. 10-11 e 15-18. 14 R. Ankeny, Using Cases to Establish Novel Diagnoses: Creating Generic Facts by Making Particular Facts Travel Together, in P. Howlett-M. Morgan (eds.), How Well Do Facts Travel? The Dissemination of Reliable Knowledge, Cambridge University Press, Cambridge 2011, pp. 252-272. Epistemologia e casi clinici 21 2. Si è osservato un caso che presenta un certo insieme di caratteristiche o proprietà clinicamente rilevanti. Anche se il caso appartiene ad una tipologia di condizione patologica che ha già ricevuto una qualche caratterizzazione e denominazione in letteratura, esso sembra poter essere spiegato alla luce di un tipo di fattori che è stato fin lì ignorato o escluso, oppure, al contrario, non può essere spiegato facendo appello al tipo di fattori ai quali abitualmente si fa appello. Ancora: concorrono a quella singola condizione patologica anche fattori fin lì non associati a quel tipo di patologia. Si tratta di alcuni esempi di situazioni in cui il resoconto del caso può dare un contributo nell’iniziare a introdurre una novità sul piano eziologico e/o esplicativo, rispetto alla situazione esistente. 3. Si è osservato un caso che presenta un certo insieme di caratteristiche o proprietà clinicamente rilevanti. In questo caso la condizione patologica che esse configurano, e la cui natura è già nota in letteratura, risponde positivamente, o è trattata efficacemente, oppure è individuata più precocemente ricorrendo a modalità operative inedite, o comunque mai applicate a tale tipo di condizione e che vengono presentate nel report (o, almeno, modalità diagnostiche o di trattamento note sono modificate in modo da risultare più efficaci di quanto ci si sarebbe atteso). Oppure, al contrario, nel caso in oggetto emergono effetti collaterali inediti di un trattamento, o difficoltà e complicazioni inattese; ancora: si manifestano interferenze fin lì ignote in condizioni di comorbidità etc. Si tratta di alcuni esempi di situazioni in cui il resoconto del caso può dare un contributo nell’iniziare a introdurre una novità sul piano operativo e/o terapeutico, rispetto alla situazione esistente. La prima funzione che abbiamo attribuito al case-report sarà, dunque, quella prevalente quando chi scrive giudica che attraverso il caso (o i casi) nei quali si è imbattuto sia possibile presentare fatti e fenomeni di rilievo clinico ignoti, o mal osservati, fino a quel momento. Nella sua forma più eclatante, quella che emerge dal caso sarà addirittura una condizione patologica complessiva non conosciuta, o perché mai incontrata, oppure perché non si è fin lì saputo cogliere come una serie di fenomeni, pur ben visibili, configurassero una condizione patologica unitaria. Ha osservato Ankeny: in medicine when a case study is published it usually highlights a new disorder that a practioner has been unable to map onto existing disease catego- Epistemologia e clinica 22 ries. The details provided in the initial description of this base case highlight what is thought to be essential to understanding this case as distinct and also for identifying other cases of the same disorder. Oftentimes no hypotheses or explanations are provided about the mechanisms of disease causation15 Quando il caso svolge la funzione della quale parla Ankeny, esso segna la prima fase di studio di una malattia, ossia quello che Paul Thagard ha definito lo stadio di «caratterizzazione», sottolineando anch’egli come, in genere, esso svolga un ruolo preliminare rispetto alla vera e propria spiegazione della patologia (pur senza poter essere mai rigidamente distinto da essa)16. Si noti che in una situazione di questo genere la presentazione del caso sembra l’unica opzione disponibile al clinico, perché ancora non esistono risorse teoriche di ordine generale ricorrendo alle quali egli possa rendere conto adeguatamente del fenomeno che attira la sua attenzione: dunque, non gli resterà che descriverlo per come lo ha incontrato. Possiamo forse vedere un esempio interessante in questo senso nel lavoro di James Parkinson del 1817, nel quale si descriveva quella che sarebbe stata, in seguito, la patologia eponima17. Si trattava di un «disease» che, egli sottolineava, «has not yet obtained a place in the classification of nosologists», ancora: «had escaped particular notice»18. 15 R.A. Ankeny, Case-Based Reasoning in the Biomedical and Human Sciences, cit., p. 231. 16 «Il primo stadio di comprensione di una malattia è la sua caratterizzazione, cioè la sua identificazione come un tipo speciale di processo che possiede un insieme proprio di sintomi capaci di differenziarlo da altre malattie. [...] Solitamente [...] i medici si fanno un’idea della natura di una malattia prima ancora di incominciare a speculare riguardo alle sue cause» (P. Thagard, How Scientists Explain Disease, Princeton University Press, Princeton 1999; trad. it. La spiegazione scientifica della malattia, McGraw-Hill, Milano 2001, pp. 125-126). 17 J. Parkinson, An Essay on the Shaking Palsy, For Sherwood, Neely, and Jones, London 1817, specie pp. 9-18 (il saggio è ora ristampato in «The Journal of Neuropsychiatry & Clinical Neurosciences», 14 (2002), pp. 222-36). su questo saggio si veda ora P.A.KempsterB. Hurwitz-A.J. Lees, A New Look at James Parkinson’s Essay on the Shaking Palsy, in «Neurology», 69 (2007), pp. 482-485. 18 Ivi, pp. ii-iii. Parkinson rimarcherà, infatti, più oltre che si tratta di un «disease resulting from an assemblage of symptoms, some of which do not appear to have yet engaged the general notice of the profession» (p. 27). Non solo: egli ritiene che, anche quelle tra le singole affezioni costitutive di tale patologia che sono già state descritte, siano state trattate in maniera inadeguata, cioè come se costituissero diverse patologie separate (cfr. pp. ii e 19). Come si dovrà mostrare, siamo allora davanti ad un «disease which does not accord with any which are marked in the systematic arrangements of nosologists» (cap. III, pp. 27-28). Epistemologia e casi clinici 23 Parkinson basava la propria descrizione della patologia soprattutto sull’analisi di un caso che lo aveva particolarmente colpito ed era all’origine di tutta la sua indagine in materia: Almost every circumstance noted in the preceding description, was observed in a case which occurred several years back, and which, from the particular symptoms which manifested themselves in its progress; from the little knowledge of its nature, acknowledged to be possessed by the physician who attended; and from the mode of its termination; excited an eager wish to acquire some further knowledge of its nature and cause19 Si noti, però, che oltre a presentare quel primo caso, Parkinson forniva notizie anche su altri cinque «illustrative cases» (da lui studiati e curati, o solo incontrati casualmente), poiché riteneva di poter affermare: «The preceding cases appear to belong to the same species» (almeno in base alla caratterizzazione da lui provvisoriamente data al disease)20. Parkinson dichiarava, tra l’altro, di presentare le risultanze delle proprie osservazioni, per quanto inadeguate, anche perché, grazie alla propria individuazione e caratterizzazione della malattia, finalmente ampia e corretta, altri potessero indagare circa la natura e le cause di essa21. Infatti, se anche avanzava delle prime ipotesi in merito, egli stesso le giudicava solo congetturali, parziali e non conclusive22. Naturalmente, però, non ogni volta che un clinico valuta di trovarsi davanti a un fatto nuovo di interesse clinico, ciò sarà indice di una lacuna effettiva nelle conoscenze disponibili. Potrà trattarsi, in effetti, di qualcosa che è già noto in letteratura, ma è ignoto a quel clinico. Oppure, l’errata convinzione di trovarsi davanti a un fenomeno inedito potrebbe essere dovuta al fatto che non gli è stato possibile riconoscere come tale qualcosa di cui egli stesso già conosceva l’esistenza. Dunque, si tende a ritenere che l’ipotesi secondo cui quello incontrato sarebbe un fatto inedito, o addirittura una condizione patologica nuova ed ignota, dovrà costituire non la prima, ma l’ultima opzione da considerare nella pratica diagnostica ordinaria. 19 Ivi, p. 9. Ivi, pp. 10-18. 21 Ivi, pp. iii-iv e 65-66. 22 Si noti che il dinamismo conoscitivo innescato per effetto diretto dalla presentazione del case-report ha poi una portata e un’autonomia tali per cui non si può escludere che la categoria diagnostica che col tempo verrà messa a punto su basi eziopatofisiologiche non si applichi più in modo pieno al caso indice, o non abbia comunque in esso un esemplare paradigmatico. 20 24 Epistemologia e clinica D’altra parte, però, questo non cancella la possibilità che, a partire dallo studio su casi, sia possibile ampliare effettivamente la conoscenza delle patologie esistenti. La storia, del resto, ne offre la conferma anche in epoca recente, al punto che Milos Jenicek, ha potuto notare: i report di casi clinici non sono soltanto il pane quotidiano dei clinici nel corso della loro formazione, ma, ora come in passato, rappresentano uno strumento essenziale per la scoperta di nuovi fenomeni in medicina e nelle altre scienze sanitarie. È così che la medicina ha aperto il vaso di Pandora dell’AIDS, del virus Ebola, delle cross-infezioni nosocomiali, dei danni ambientali, del disturbo di personalità multipla o delle reazioni indesiderate ai farmaci23. Jeniceck ha, perciò, parlato dello studio dei casi come «primo anello della catena delle evidenze»24. Non necessariamente, però, in contesto di ricerca si ricorre alla presentazione del caso clinico avendo come scopo di additare alla propria comunità scientifica una condizione patologica che non può essere in alcun modo collocata nel quadro delle categorie e delle tassonomie esistenti, o comunque fatti di rilievo clinico ad essa del tutto ignoti. L’intento potrebbe essere, piuttosto, quello di concentrarsi su questioni concernenti la spiegazione di una patologia che è già stata descritta, in qualche misura, e denominata. Certo, nel contesto della ricerca medica momento descrittivo e momento esplicativo sono sempre connessi, e nuove conoscenze (sul piano eziologico, ad esempio) possono comportare modifiche rilevanti anche sul piano tassonomico25. La sco- 23 M. Jenicek, Casi clinici ed evidence-based medicine, cit., p. XIII (altri esempi sono disseminati nel volume). Cfr. anche K. Montgomery Hunter, Doctor’s Stories, cit., pp. 46, 112-113 e 165. Vandenbroucke (Case reports in an evidence-based world, cit., p. 159), individua due modalità per l’introduzione di nuove patologie: una, come articolazione e raffinamento rispetto a patologie già note, l’altra come vera e propria scoperta di patologie del tutto ignote. 24 M. Jenicek, Casi clinici ed evidence-based medicine, cit., pp. 47-50; cfr. anche K. Montgomery Hunter, Doctor’s Stories, cit., pp. 81 e 129; J.P. Vandenbroucke, Case reports in an evidence-based world, cit., p. 162. Inoltre, quando si ha a che fare con patologie rare, i singoli case-report possono essere a lungo l’unico elemento di giudizio disponibile: «In molti campi della medicina specialistica (chirurgia, microbiologia clinica, tossicologia, psichiatria, genetica, traumatologia, medicina di urgenza o medicina del lavoro) i casi sono rari e i trial clinici non possono sempre essere eseguiti per motivi tecnici, economici e/o etici. Quindi i case report diventano una parte importante dell’evidenza» (M. Jenicek, Casi clinici ed evidence-based medicine, cit., p. 25). 25 Su questi aspetti e sui vari gradi del cambiamento concettuale in medicina si è soffermato P. Thagard, La spiegazione scientifica della malattia, cit. Epistemologia e casi clinici 25 perta dei fattori responsabili di una certa patologia ha, infatti, una decisiva importanza per caratterizzare e definire meglio e più correttamente una data condizione patologica e le sue forme. Ma, da un punto di vista pragmatico, un simile avanzamento non coincide, in genere, con la scoperta tout-court di quella patologia, ovvero, con la prima presa d’atto, anche puramente sintomatica e imprecisa, dell’esistenza della condizione patologica in questione. Può allora risultare spesso utile una distinzione relativa tra [x] la prima descrizione di una condizione patologica che fino a quel momento era ignota o trascurata, e [y] la spiegazione in termini nuovi o diversi di un tipo di condizione patologica relativamente nota26. Quando ad essere in gioco sia questo secondo tipo di processo, il ricercatore assumerà che la comunità alla quale si rivolge possegga già una certa competenza, seppure imperfetta e lacunosa, nell’individuare e descrivere lo stato patologico del quale egli intende, però, approfondire la conoscenza, a partire dalla presentazione di un caso. Tale presentazione potrà assumere soprattutto due valenze. Una prima valenza può essere quella di corroborare una specifica critica alle teorie esistenti. Si intenderà, così, ad esempio, mostrare come il singolo caso che si presenta, pur appartenendo al genere di fenomeni ai quali il modello teorico disponibile dovrebbe applicarsi, ne contraddica spiegazioni e previsioni. In realtà, è stato giustamente sottolineato come, nei fatti di rado lo studio di un caso comporterà da sé solo l’abbandono di un costrutto teorico generale27. E questo per problemi connessi alla certezza e al significato della singola disconferma sperimentale, nonché alla variabilità degli esseri umani e delle loro risposte agli esami clinici. Nonostante questo, la presentazione di singoli casi può avere un ruolo effettivo almeno nel dare avvio al progressivo emergere di eventuali anomalie, limiti o smentite delle teorie esistenti. Una seconda valenza, più rilevante, sarà, poi, quella che lo studio del caso può avere nel processo che porta a concepire ed iniziare a proporre un tipo di spiegazione nuova o, addirittura, uno stile di ana26 Thagard nota, ad esempio: «La teoria microbica comportò indubbiamente nuove modalità referenziali per i termini di malattia. La tubercolosi potrebbe ora essere descritta come la malattia causata dal bacillo tubercolare. I concetti di malattia non cambiarono completamente tuttavia, dal momento che non cambiarono le modalità descrittive di referenza associate con i sintomi familiari osservabili» (La spiegazione scientifica della malattia, cit., p. 172, cfr. anche pp. 162 e 175). 27 C. Scandellari, Falsificazione o verifica delle ipotesi diagnostiche in clinica: due concezioni a confronto, in G. Federspil-P. Giaretta (a cura di), Forme della razionalità medica, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004, pp. 31-39; Id., La diagnosi clinica, cit., pp. 127-131. Epistemologia e clinica 26 lisi nuovo riguardo a una condizione patologica, già relativamente nota (almeno a livello sintomatico), e che ha ricevuto una provvisoria collocazione entro la nomenclatura e la tassonomia medica. Il caso clinico potrà, allora, valere come occasione per cominciare a delineare gli elementi cardine di un’ipotesi esplicativa di tipo alternativo (e, spesso, anche come esemplificazione della efficacia pratica di questa). Possono forse essere riportati anche a questa funzione casi come quelli di Berta Pappenheim (il caso di Anna O.) e gli altri presentati negli Studi sull’isteria di Josef Breuer e Sigmund Freud. Analizzandoli, infatti, gli autori asserivano di aver compiuto progressi teorici decisivi circa l’eziologia prevalentemente traumatica del fenomeno patologico che dava il titolo all’opera, e circa il suo nesso con la sintomatologia28. Ma strettamente intrecciato a tale progresso teorico, se non prioritario rispetto ad esso, era in questi Studi il ruolo attribuito alla presentazione del caso anche sul piano pratico, ossia della innovazione nella cura. Veniamo, dunque, alla terza tra le possibili funzioni di esso richiamate inizialmente. Questa funzione, che consiste nel presentare novità di interesse operativo o terapeutico, assume svariate forme: potrà trattarsi, ad esempio, di comunicare risultanze relative a nuovi interventi di tipo terapeutico, chirurgico o farmacologico, oppure risultanze nuove relative a interventi routinari, come anche modifiche di essi o la loro applicazione a nuovi tipi di patologie. In certi casi, l’innovazione terapeutica potrà addirittura avere carattere fortuito, non intenzionale. Avranno spazio anche casi nei quali si attestano complicazioni inattese di un certo tipo di intervento, o effetti collaterali non noti etc. A puro titolo esemplificativo, mi limito a riportare i titoli di alcuni lavori apparsi nel 2013 sul Journal of Medical Case Reports: A large gastrointestinal stromal tumor of the duodenum treated by partial duodenectomy with Roux-en-Y duodenojejunostomy: a case report; Treatment of corneal neovascularization in ocular chemical injury with an off-label use of subconjunctival bevacizumab: a case report; Primary uveal lymphoma effectively managed with oral chlorambucil: a case report29. 28 J. Breuer-S. Freud, Studi sull’isteria, in S. Freud, Studi sull’isteria e altri scritti. Opere Volume I (1886-1895), Boringhieri, Torino 1967, pp. 161-439. Si noti che, trattando qui delle funzioni che il resoconto di un caso clinico svolge di fatto e/o nelle intenzioni di chi lo produce, non ha per noi rilievo immediato il giudizio circa la attendibilità del resoconto e/o la validità delle ipotesi esplicative che esso contiene. 29 Cfr. «Journal of Medical Case Reports», l’elenco dei lavori è disponibile anche on-line, all’indirizzo: http://www.jmedicalcasereports.com/content. Epistemologia e casi clinici 27 3. L’indagine sul caso clinico tra individualità e generalizzazione Proprio le diverse tipologie di impiego del case-study delineate inducono, però, a confrontarsi con quella che pare una condizione instabile dell’indagine sul singolo caso clinico in medicina. Sembra, infatti, che tale pratica, mentre evidenzia le peculiarità distintive di un individuo, al contempo presupponga e veicoli una cospicua fiducia nelle regolarità e nelle generalizzazioni sovraindividuali. La stessa idea che il caso clinico da presentare sia quello che costituisce un elemento di novità e sorpresa rispetto al sapere esistente rimanda, appunto, a un quadro di conoscenze generali, in relazione alle quali il singolo caso è studiato e caratterizzato, seppur per scarto. E, del resto, la descrizione e la spiegazione di un singolo fenomeno in un report scientifico faranno inevitabilmente ricorso a concetti, o principi, o parametri o strumenti epistemici dalla valenza sovraindividuale, riferendosi anche a proprietà «condivise o, in linea di principio, condivisibili da più individui»30. Il punto sembra concernere il modo stesso in cui sono individuati e caratterizzati i fenomeni e le proprietà di interesse clinico. Essi, infatti, sono in genere identificati in termini strutturali e formali, specificando una serie di caratteristiche tipologiche e quantitative che riguardano la loro costituzione, funzione etc. Ma, allora, niente vieterà che sia poi possibile ritrovare anche in altri casi (quelli che giudichiamo come) gli stessi tipi di fenomeni, gli stessi tipi di proprietà31. D’altra parte, come ricordato, la ricerca scientifico-sperimentale è stata tradizionalmente associata al principio per cui bisognerà, sì, interessarsi al singolo fatto, ma assumendo che costituisca un’occasione propizia per cogliere e formulare il modello astratto di dinamiche delle quali esso è una esemplificazione32. Sullo sfondo, sembra esservi 30 P. Giaretta, Aspetti idiografici e nomotetici del procedimento clinico, cit., p. 146. Naturalmente le cose si fanno più complesse (lo vedremo nell’ultimo paragrafo) quando l’attenzione si appunta su quelle caratteristiche delle quali è più evidente la dimensione contenutistica idiosincratica: intenzioni, desideri, sentimenti, valori etc. 32 Per considerazioni affini ed ulteriori circa la dialettica singolarità-generalità nel pensiero per casi in genere J.C. Passeron-J. Revel (sous la direction de), Penser par cas, cit., pp. 911, 41; nello specifico medico K. Montgomery, How Doctors Think, cit., pp. 70 e 78. In un testo dedicato alle scienze sociali, Yin ha osservato che il processo di generalizzazione al quale il case-study può dare il proprio contributo sarebbe non quello «statistical», ma quello «analytic», «in which a previously developed theory is used as a template with which to compare the empirical results of the case study» (R.K. Yin, Case Study Research, cit., pp. 32-33). 31 Epistemologia e clinica 28 l’assunto influente (e assai fruttuoso) secondo cui i fenomeni del nostro mondo esibiscono uno straordinario numero di regolarità, e le teorie scientifiche sono chiamate a cogliere queste regolarità che accomunano i singoli fenomeni. Perciò, in contesto di ricerca, si tenderà per lo più a presentare un singolo caso mirando, con ciò, a far emergere una novità clinicamente rilevante che può riguardare anche altri individui: una novità, dunque, di portata sovraindividuale, almeno virtualmente33. Del resto, che cosa giustificherebbe la presentazione di un caso ad un ampio pubblico di specialisti che, verosimilmente, non avrà mai a che fare direttamente con quel caso, se non la convinzione, da parte di chi scrive, che da esso sia possibile estrarre una qualche lezione rilevante anche a proposito di altri individui? Non di rado, questo significherà anche cercare di dare una presentazione del singolo caso che sia, per così dire, sintetica e standardizzata, cioè che “sfrondi” il caso da quelli che appaiono solo come caratteri idiosincratici o contingenti, individuando, delimitando e caratterizzando in termini oggettivi le sole proprietà di esso che si giudicano essenziali e facendo, così, somigliare sempre più il singolo fenomeno descritto a un tipo dal carattere ripetibile (sembra essere questo anche il caso di Parkinson, visto in precedenza). Va inoltre rilevato come un ricercatore o un clinico, di fronte ad un caso che sembra attestare un fatto rilevante ignoto, inspiegato o nuovo cercherà, in genere, di individuare e studiare egli stesso anche altri casi che può giudicare dello stesso tipo, almeno sulla (provvisoria) base di quelli che reputa i caratteri rilevanti del caso in questione (ancora una volta Parkinson in primis sembra procedere in questo modo). In linea di fatto, anzi, è probabile che sia proprio l’incontro con una pluralità di altri casi giudicati analoghi a persuadere il ricercatore di essere davanti a una lacuna rilevante nel sapere medico dato, e a confermarlo nella convinzione che quanto di inedito aveva attirato il suo interesse nel primo caso non sia il frutto di un abbaglio, né qualcosa di trascurabile34. Potremmo perfino dire che è il fatto che il nuovo dato emerso dal caso clinico si dimostri non completamente idiosincratico, ma rico33 Cfr. anche R. Ankeny, Using Cases to Establish Novel Diagnoses, cit., p. 255 e 267. Sono debitore alle sottolineature di Cesare Scandellari circa le cautele che devono accompagnare l’ipotesi diagnostica di una patologia inedita, e circa l’importanza che ha l’incontro con altri casi analoghi nel corroborare tale ipotesi (su questo secondo aspetto, anche K. Montgomery Hunter, Doctor’s Stories, cit., pp. 75-76). 34 Epistemologia e casi clinici 29 noscibile anche in altri casi, a corroborare, al contempo, l’affidabilità e la significanza dello studio svolto sul primo caso. Paul Thagard ha ricostruito come il primo passo nel processo che ha portato a individuare una causa batterica per le ulcere peptiche si leghi ad una singola osservazione di laboratorio: «Nel 1979 Robin Warren, un patologo del Royal Hospital di Perth, osservò batteri a forma di spirale in un campione bioptico estratto dallo stomaco di un uomo con dispepsia non ulcerosa»35. Ma, come Warren stesso ha ricordato, non fu facile trovare il consenso sul valore di quella prima risultanza: My colleagues finally believed the bacteria were there. However, they doubted their importance, and challenged me to find any more cases. I thought they were worthy of further study [...] so I continued to search and, to my surprise, I found them in quite a significant number of biopsies36. Quindi, soprattutto di fronte a una possibile novità di grande importanza, e specie se essa contrasta con le credenze mediche prevalenti, la prima richiesta avanzata da parte della comunità scientifica per giudicare rilevante e significativa la risultanza emersa dal singolo caso è, in genere, quella di mostrare come non si tratti di un unicum, ma di un qualcosa che si ripresenta in più casi37. In definitiva, dunque, entro una simile cornice di riferimento si finirà quasi inevitabilmente per occuparsi di un certo fenomeno patologico presente in un singolo, considerandolo come esempio di un certo tipo di fenomeni patologici, per i quali, se l’analisi è stata scientificamente adeguata, dovrebbe essere tendenzialmente valido quanto ha cominciato ad emergere attraverso il caso studiato38. A tal proposito, è 35 P. Thagard, La spiegazione scientifica della malattia, cit., p. 42. R. Warren, Helicobacter - The Ease and Difficulty of a New Discovery (Nobel Lecture, December 8, 2005), http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/medicine/laureates/2005/ warren-lecture.pdf, p. 299, corsivo mio). E aggiunge: «After two years I had collected many cases and was almost ready to publish my findings» (p. 301, corsivo mio). 37 Le cose potrebbero essere in parte diverse qualora si mostrasse, con argomenti non ad hoc, che il fenomeno nuovo e inatteso attestato dal singolo caso in questione è di per sé raro e/o difficile da osservare. 38 Da questo punto di vista, può emergere una parziale analogia con quanto accade nell’indagine biomedica quando ci si interessa ad una dato tipo di organismi non umani, perché si giudica che degli individui di quel tipo, opportunamente selezionati, possano costituire utili «organismi modello», o «esempi» per alcune proprietà degli esseri umani in genere. Un simile «exemplar reasoning» si avrebbe secondo Schaffner anche quando si considera il paziente come «clinical exemplar» di una patologia (K.F. Schaffner, Exemplar Reasoning about 36 30 Epistemologia e clinica rivelatore ciò che scrive Josef Breuer negli Studi sull’isteria, per giustificare la dettagliata esposizione del caso di Anna O, già citato. Egli spiega, infatti, di non essersi diffuso su quel caso per le sue singolari peculiarità, ma, al contrario, perché esso avrebbe permesso di cogliere regolarità sovraindividuali rilevanti. Similmente – si afferma – le uova degli echinodermi sono importanti in embriologia, non perché il riccio di mare sia un animale particolarmente interessante, ma perché il protoplasma delle sue uova è trasparente e quindi quel che possiamo osservare nel loro interno dà degli indizi di quello che probabilmente avviene in quelle uova il cui protoplasma è opaco39. In questa prospettiva, allora, il caso singolo sarebbe significativo solo perché esemplifica in trasparenza per noi ciò che avviene anche in molti altri casi, ai quali però non è possibile o non è economico avere accesso diretto. Di conseguenza, il caso sarebbe importante non in ragione di ciò che ha di singolare, ma in ragione di ciò che ha di generico. Del resto, non v’è dubbio che, nella cornice della ricerca sperimentale odierna, il valore probante riconosciuto al case-report singolo sia il meno forte40. Certo, esistono anche disegni sperimentali «single-case», che possono essere considerati in qualche misura eredi del case-report classico, ma essi, in genere, riguardano la ricerca in situazioni limite (come certe patologie croniche)41, o sono centrali soprattutto in ambiti Biological Models and Diseases: a Relation between the philosophy of Medicine and Philosophy of Science, in «Journal of Medicine and Philosophy» 11 (1986), pp. 63-80: p. 71). Mi baso, inoltre, specie su R.A. Ankeny, Case-Based Reasoning in the Biomedical and Human Sciences, cit.; Ead., Wormy Logic: Model Organisms as Case-Based Reasoning, in A.N.H. Creager-E. Lunbeck-M.N. Wise (eds.), Science Without Laws, cit., pp. 46-58 (di questo volume, anche Introduzione, parte I e Afterword); G. Caniglia, Organismi esemplari. Osservazioni epistemologiche di ordine descrittivo, «Humana.Mente», 6 (2008), pp. 101-128 (disponibile on-line: http://www.humana-mente.it/sestonumero.html). Cfr. P. Livet, Les diverses formes de raisonnement par cas, cit., pp. 236-237. 39 J. Breuer-S. Freud, Studi sull’isteria, cit., p. 207. 40 Cfr. J.P. Vandenbroucke, Case reports in an evidence-based world, cit., p. 162; M. Jenicek, Casi clinici ed evidence-based medicine, cit., pp. 138-140. 41 Per certe patologie croniche, in situazioni di incertezza, sono stati proposti esperimenti clinici con campione uguale a uno, trial randomizzati con n 1 (cfr. G. Guyatt, D. Sackett, J. Adachi, R. Roberts, J. Chong, D. Rosenbloom, J. Keller [1988], A clinician’s guide for conducting randomized trials in individual patients, in Canadian Medical Association Journal, CXXXIX (1988) n. 6, pp. 497-503). Questi «single-subject experiments» (p. 498) mirano a testare l’efficacia di una certa terapia per quel caso particolare, alternando cicli re- Epistemologia e casi clinici 31 clinici dalle caratteristiche epistemiche peculiari (come la psicoterapia)42. Per questo, se è ancora possibile che il primo imporsi all’attenzione di un fatto clinico inedito si leghi allo studio di singoli casi, oggi ci si aspetta, però, che le innovazioni riguardanti la spiegazione e la terapia di un certo tipo di patologia siano poi vagliate e validate tramite indagini sovraindividuali, attraverso studi controllati e randomizzati su gruppi43. Tali studi sono, senza dubbio, uno degli aspetti più preziosi ed irrinunciabili della medicina moderna. Essi non si limitano, dunque, ad analizzare uno o più casi singoli, ma fanno ricorso a indagini sistematiche su ampi campioni di individui con patologia dello stesso tipo, selezionati ed organizzati secondo un disegno appropriato. È, tra l’altro, da notare che, per loro natura, simili gruppi non includono gli individui tenendo conto di tutte le caratteristiche peculiari di ciascuno di essi che potrebbero avere un qualche rilievo clinico. Piuttosto, dovrà essere individuato un numero delimitato di proprietà, che già si ha ragione di ritenere particolarmente rilevanti rispetto al fenomeno studiato, e, di conseguenza, ciascun individuo che ha (o non ha) tali proprietà sarà poi incluso (o non incluso) in un determinato gruppo. Ed egli figurerà in quel gruppo non tanto in qualità di singolo irripetibile, ma in quanto, grazie alle proprietà considerate, si può ritenere che (almeno per gli specifici tratti studiati e limitatamente ad essi) svolga un ruolo rappresentativo rispetto al tipo (o sottotipo) di popolazione sulla quale ci interessa ottenere conclusioni valide, di portata sovraindividuale44. golari di cura basati su trattamenti diversi: «Anziché randomizzare i pazienti (o i trattamenti da un paziente all’altro), trattamenti alternativi vengono somministrati in maniera randomizzata per ogni futuro periodo del trial. Invece dei pazienti vengono randomizzati i trattamenti» (M. Jenicek, Casi clinici ed evidence-based medicine, cit., p. 150). 42 Si veda V. Lingiardi, La ricerca single-case, in N. Dazzi-V. Lingiardi-A. Colli (a cura di), La ricerca in psicoterapia. Modelli e strumenti, Raffaello Cortina, Milano 2006, pp. 123147. 43 Per tornare al lavoro di Warren e Marshall sul ruolo dei batteri nelle ulcere, Thagard ha ricordato che: «Nel settembre 1981, Marshall usò un antibiotico, la tetraciclina, per trattare un paziente con dolori addominali di origine sconosciuta, i sintomi del paziente e la gastrite furono completamente risolti. Marshall e Warren, allora, incominciarono una investigazione più sistematica del significato clinico dei batteri» (P. Thagard, La spiegazione scientifica della malattia, cit., p. 81; corsivo mio): dunque il singolo caso ha avuto, sì, un ruolo decisivo nell’emergere di un dato clinico inedito, ma per confermare l’ipotesi eziologica e terapeutica sottesa si è poi subito passati ad uno studio sistematico, perché il caso singolo non avrebbe avuto forza probante. 44 La costruzione dei gruppi può essere via via affinata, e può crescere il numero di variabili indipendenti tenute in considerazione, ma questo non cancella la presenza di un qual- 32 Epistemologia e clinica Tutte queste considerazioni potrebbero indurre a pensare che l’individuo, nella propria singolarità, si riveli una sorta di oggetto provvisorio del sapere medico, e far guardare alla medicina come a una disciplina che, con modi non troppo dissimili da altre, procede di generalità in generalità attraverso singolarità. In questo senso, lo studio del caso singolo sarebbe destinato ad annullarsi in sempre nuove teorie generali: esso avrà, magari, contribuito al sorgere di tali teorie, ma, paradossalmente, proprio nella misura in cui queste avranno fatto spazio alle istanze problematiche e/o innovative che il case report presentava, la singolarità sarà poi assimilata e dissolta nella nuova teoria. Il singolo caso, così, sarà richiamato ancora soltanto in sede di rievocazione storica, oppure, forse, quale strumento didattico per insegnare ad applicare la teoria: ossia, come uno dei «risultati passati esemplari», per usare la terminologia di Thomas Kuhn45, impiegata da più parti a questo proposito46. Al contempo, però, la nuova teoria emersa sarà costituita (non meno di quella che ha soppiantato) solo da conoscenze e procedure generali rese, anzi, più robuste dalla capacità di spiegare un maggior numero di fenomeni. In quest’ottica, sembrerebbe allora di poter dire che anche la medicina si conformi pienamente a quella sorta di regola generale enunciata da Peter B. Medawar: Il carico di fatti che caratterizza una scienza, varia in misura inversa al suo grado di maturità. Con il progredire della scienza, i fatti individuali sono ricompresi in, e perciò in un certo senso annullati da, asserti generali che hanno un potere esplicativo e una portata costantemente crescenti: una volta che questo è avvenuto non c’è più bisogno che essi siano conosciuti in modo che ruolo rappresentativo per l’individuo incluso nel campione, quando la conclusione raggiunta studiandolo è riferita a una più ampia popolazione. Cfr. anche M. Marinker, Sirens, stray dogs, and the narrative of Hilda Thomson, in T. Greenhalgh-B. Hurwitz (eds.), Narrative-Based Medicine, cit., pp, pp. 103-109: p. 106. 45 Th. S. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, Chicago University Press, Chicago 1962 (19702); trad. it. La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1999, p. 212. 46 Ad esempio K.F. Schaffner, Exemplar Reasoning about Biological Models and Diseases, cit. Ankeny ha però richiamato l’attenzione su quella peculiare circolarità di effetti in ragione della quale la ricerca su una dato tipo di patologia, attivata dal caso indice, può portare ad una modellizzazione della patologia stessa che non permette più di vedere nel caso originario tutti e soli i caratteri paradigmatici di essa (cfr. R.A. Ankeny, Case-Based Reasoning in the Biomedical and Human Sciences, cit., pp. 231-232; Ead., Wormy Logic: Model Organisms as Case-Based Reasoning, cit., pp. 51-54). Epistemologia e casi clinici 33 esplicito, vale a dire analizzati nei dettagli e tenuti a mente. In tutte le scienze veniamo progressivamente liberati dal fardello dei singoli fatti, dalla tirannia del particolare. Non abbiamo più bisogno di registrare la caduta di ogni mela47 4. Why cases won’t go away Bisogna riconoscere che il tragitto così descritto non manca di cogliere aspetti effettivi del dinamismo e della crescita del sapere medico. Sarebbe erroneo, però, ricavarne la conclusione che per la medicina, da un certo stadio di sviluppo in poi, la disamina dell’individualità potrà declinarsi come mero esercizio della capacità di giudicare sotto quale categoria, modello e protocollo generali dati cada il singolo di volta in volta in questione. Ossia, come se si trattasse di limitarsi a valutare quale sia il repertorio già acquisito di conoscenze sovraindividuali che, letteralmente, “fa al caso nostro”. Questo specie per due ordini di ragioni. In primo luogo, l’idea che da un certo momento in poi sia possibile limitarsi a far uso di un sapere già interamente dato per conoscere e curare adeguatamente le persone, presuppone l’idea che sia possibile giungere ad una sorta di sapere medico compiuto, esaustivo ed ineccepibile che includa tutti i tipi di fenomeni di interesse clinico che potremmo incontrare. Ma, al di là dei limiti empirici alle nostre effettive possibilità epistemiche, questo appare di per sé implausibile in ragione dei caratteri stessi dei fenomeni patologici. Su un piano sincronico, il pensiero va alla straordinaria variabilità, diversità e molteplicità degli elementi che, su livelli differenti e in forme differenti, possono concorrere a determinare e/o a caratterizzare una patologia umana, e all’ampio spettro di condizioni che ciascuno di tali elementi può assumere: dai fattori genetici ed epigenetici, all’incidenza del contesto ambientale, sociale e culturale, dai sintomi e i segni associati ad una patologia, alle complicanze o agli effetti collaterali di un certo trattamento di essa etc. Un repertorio esaustivo delle possibili combinazioni di interesse clinico tra tutti questi elementi pare praticamente irrealizzabile. Ma c’è di più. 47 P.B. Medawar, Two Conceptions of Science, in Id., The Art of the Soluble. Creativity and Originality in Science, Penguin, Harmondsworth, 1969 (19671), pp. 127-143: p. 128. 34 Epistemologia e clinica Su un piano diacronico, tutti i tipi di elementi che abbiamo menzionato vanno incontro (ciascuno sul proprio livello, ciascuno iuxta propria principia) a processi di mutazione che generano novità non prevedibili, ma che possono essere rilevanti sul piano clinico; processi che sono poi all’origine della variabilità e delle diversità ricordate sopra. Dunque, al di là dei nostri limiti epistemici, un limite intrinseco alla possibilità di un sapere medico finale ed esaustivo sembra risiedere nella natura in divenire del suo stesso oggetto. Questo significa anche che l’emergere di novità di interesse clinico deve essere visto come un fatto ordinario e perenne48. La medicina, perciò, deve e dovrà confrontarsi sempre, quotidianamente con nuovi casi che presentano aspetti ignoti, inediti e sorprendenti, di piccola o grande rilevanza, ma non trascurabili, e che mettono in dubbio la adeguatezza e/o la completezza delle teorie, dei modelli, delle classificazioni e dei protocolli terapeutici già esistenti. Ora, i case-report sembrano appunto un genere che può dare un proprio contributo originale in questo processo di attenzione interminabile al nuovo, al diverso, al non conosciuto. Essi, perciò, possono anche contribuire stabilmente ad innescare il dinamismo continuo di creazione di nuove categorie e conoscenze (descrittive, esplicative o terapeutiche). Inoltre, una caratteristica decisiva che studiosi come Ankeny hanno riconosciuto al «pensiero per casi» sta nel rendere possibile quel «feedback loop»49, in ragione del quale si ha una costante interazione tra modelli teorici sovraindividuali e casi singoli: in modo che, se i modelli e gli esempi paradigmatici contribuiscono a spiegare i casi individuali, possono, però, a loro volta, anche essere mutati in base alle risultanze che emergono attraverso questi ultimi50. 48 A tutto questo si aggiungono, poi, elementi di novità prodotti dal contesto medico, come le innovazioni tecnologiche e farmacologiche, o gli eventi fortuiti significativi etc.: tutti fattori di possibili occasioni per nuovi case-report. 49 R.A. Ankeny, Case-Based Reasoning in the Biomedical and Human Sciences, cit., pp. 231-232; Ead., Wormy Logic: Model Organisms as Case-Based Reasoning, cit., pp. 51-54. 50 Su un piano più generale, come ha osservato Livet: «nos catégories sont toujours en refonte et les nouveaux cas qui se présentent nous obligent à les refondre» (P. Livet, Les diverses formes de raisonnement par cas, cit., pp. 232, cfr. anche p. 241). Mentre Montgomery afferma che i medici dovranno operare: «interpreting cases in light of rules, revising the rules in light of cases» (K. Montgomery Hunter, Doctor’s Stories, cit., p. 47). Perciò parla anche di «interpretive circle» (K. Montgomery, How Doctors Think, cit., p. 91) sostenendo che la clinica non può mai ridursi a processo meccanico di «pattern recognition» (p. 119). Cfr. anche J.R. Macnaughton, Evidence and clinical judgement, in «Journal of Evaluation in Clinical Epistemologia e casi clinici 35 Ma, allora, mentre è possibile e, anzi, abituale che il contenuto di novità e conoscenze veicolato attraverso un case-report, proprio se si impone all’attenzione generale, finisca poi (presto o tardi) per essere assorbito entro un corpus di conoscenze generali, invece il bisogno del format case-report, cioè l’occasione e l’esigenza di presentare sempre nuovi case-report, in medicina si riproporrà sempre di nuovo, anche se con contenuti che mutano di volta in volta. In secondo luogo, il ruolo che una prospettiva o un approccio individualizzante svolge quando dà origine a mutamenti teorici e innovazioni di interesse generale è probabilmente solo un aspetto, o un effetto derivato da una funzione, più ampia, basilare e primaria, che esso svolge abitualmente in medicina. Un approccio clinico individualizzante può essere caratterizzato, ad esempio, (i) in ragione dell’attenzione sistematica che esso avrà per gli aspetti rilevanti che possono distinguere ciascun individuo dagli altri e, dunque, far sì che il suo caso si discosti da quanto è già noto e prevedibile grazie ai modelli e alle teorie esistenti; ma anche (ii) in ragione dello spazio che esso accorderà a quelle caratteristiche associate ad una condizione patologica che le sole conoscenze teoriche generali non permettono di cogliere a sufficienza, perché richiedono anche una interazione personale diretta con il soggetto (pensieri, relazioni, intenzioni, valori, sensazioni, aspettative etc.: vi torneremo nell’ultimo paragrafo). Quanti ritengono che un simile approccio «deve poter accompagnare» sempre la medicina, tenderanno allora a sottolineare come la forma mentis che presiede al resoconto del singolo caso non sia un fatto transitorio, ma essenziale. Questa tesi di metodo, però, non implica anche la tesi che, nel merito, ogni volta possiamo o sappiamo estrarre dall’esame individualizzante di un caso quanto è sufficiente a motivare la presentazione di quel caso in una pubblicazione scientifica, nel contesto di ricerca dato. Una pubblicazione scientifica avrà senso solo nella misura in cui si valuti che, di fatto, attraverso quel caso è possibile far emergere aspetti inediti che per grado, rilevanza e portata sovraindividuale recano un contributo effettivo alla ricerca in corso di nuovi costrutti teorici generali. In altre parole, sostenere che ciascuno merita un approccio individualizzante non comporta di credere che l’indagi- Practice», 4 (1998), pp. 89-92; F. Di Paola, Biosingolarità. Preludio a una critica della psichiatria biologica, in «aut aut», 287-288 (1998), pp. 139-174, specie p. 149. 36 Epistemologia e clinica ne su ogni caso possa condurre ad una presentazione di tipo monografico nella letteratura medica. Al contempo, però, sarebbe riduttivo pensare che solo a un caso degno di pubblicazione valga la pena di guardare in un’ottica individualizzante. Anche nell’evenienza contraria, infatti, non verrà meno l’importanza che un processo di individualizzazione, razionale e scientificamente informato, può aver avuto in rapporto al trattamento di quel caso. E, d’altra parte, adottare sempre una simile metodologia è presupposto della possibilità stessa che da alcuni casi sia poi tratto anche un contributo innovativo di rilevanza generale. Ne segue che l’approccio individualizzante dovrà precedere la stessa eventuale attribuzione di uno speciale significato epistemico ad un caso. In altre parole, non ad ogni caso è opportuno riservare un case-report, ma ad ogni caso è opportuno riservare un approccio individualizzante. Una simile impostazione può, perciò, contribuire al superamento della dinamica paradossale, vista sopra, secondo cui l’interesse per il singolo caso servirebbe solo a ottenere delle nuove conoscenze generali, che avrebbero, però, l’effetto di rendere tale interesse sempre meno rilevante. Nell’attuale contesto di ricerca sembra poi possibile individuare in particolare due livelli di indagine nei quali emerge la necessità di fare spazio a questi processi di individualizzazione. Si tratta, a ben vedere, di due livelli significativamente diversi e che, perciò, richiederanno due attitudini individualizzanti di genere differente. Li esamineremo in successione nei prossimi due paragrafi. 5. Aspetti singolari del caso clinico Per ciò che concerne il complesso delle caratteristiche rilevanti per la medicina e le sue finalità proprie, gli esseri umani si sono rivelati sia simili, sia diversi tra loro. Tanto simili tra loro, al punto da consentire la creazione sistematica di modelli eziologici e diagnostici, nonché di protocolli terapeutici dotati di utilità e validità sovraindividuali. L’efficacia senza eguali della moderna medicina sperimentale, che proprio su questo si basa, è, come minimo, un forte argomento in questo senso. Ma gli uomini sembrano essere anche abbastanza diversi tra loro da non consentire una applicazione meccanica ai singoli casi dei modelli sovraindividuali esistenti, tanto diagnostici, che eziologici, che tera- Epistemologia e casi clinici 37 peutici51. Questa diversità, come abbiamo visto, si pone su molteplici piani diversi a partire da quello della variabilità genetica52 e biochimica53, per giungere a quello fenotipico, oppure biografico, e quindi alle differenze ambientali, sociali e culturali, che possono anch’esse influire grandemente sulla salute degli esseri umani. Tutto questo fa sì che, sotto molteplici aspetti rilevanti per la medicina, gli individui non costituiscano mai gruppi di repliche identiche, ma ciascuno sia anche portatore di diversità rilevanti, con aspetti significativi di unicità54. Questa diversità, poi, riguarda tanto le condizioni di salute degli uomini, che quelle di malattia, vale a dire che gli uomini sono diversi tra loro sia quando sono sani, sia quando sono ammalati. 51 L’analisi qui proposta ha vari punti di consonanza con quella di Gorovitz e MacIntyre (Toward a Theory of Medical Fallibility, cit.), tuttavia essa mira a far emergere oltre ai limiti delle generalizzazioni in medicina, anche gli spazi che esse aprono per pratiche di adattamento particolare, nonché i dinamismi di potenziamento e raffinamento delle generalizzazioni stesse che lo studio dei singoli casi rende possibile. 52 Per una prima introduzione a queste tematiche, ad esempio M.R. Cummings, Human Eredity. Principles & Issues, Brooks/Cole, Pacific Grove (CA) 2009; trad. it. Eredità. Principi e problematiche della genetica umana, EdisSES, Napoli 20092. 53 Già Archibald Garrod notava: «The existence of chemical individuality follows of necessity from that of chemical specificity, but we should expect the differences between individuals to be still more subtle and difficult of detection. Indications of their existence are seen, even in man, in the various tints of skin, hair, and eyes, and in the quantitative differences in those portions of the end-products of metabolism which are endogenous and are not affected by diet (…) Even those idiosyncrasies with regard to drugs and articles of food which are summed up in the proverbial saying that what is one man’s meat is another man’s poison presumably have a chemical basis» (A.E. Garrod, Inborn Errors of Metabolism [1909], in Garrod’s Inborn Errors of Metabolism, Reprinted with a Supplement by H. Harris, Oxford U.P., London 1963, pp. 1-93: p. 6). Cfr. in proposito G. Corbellini, Individuality and Disease in Garrod’s Theory of Medicine, in «Nuncius. Annali di Storia della Scienza», IX (1994), pp. 809-817, che, tra l’altro, evidenzia opportunamente la seguente affermazione, tratta da una successiva Lecture di Garrod: «what we call disease is the response of the organism to the invasion of the agents of disease, and, seeing that no two individuals are exactly alike either in structure or in chemistry, sickness does not conform to any single model, each individual case calls for careful observations» (p. 815). 54 Su un piano biologico, Ernst Mayr ha legato la presa d’atto di questa unicità con l’invito ad un passaggio dal tradizionale «typological thinking» ad un più adeguato «population thinking» (Typological versus Population Thinking, (1976), ora in Id. Evolution and the Diversity of Life. Selected Essays, Harvard University Press, Cambridge (MA) 19975, pp. 2629). Ha osservato Stefano Canali: «ogni individuo di una specie a riproduzione sessuata è unico e costitutivamente differente da tutti gli altri. In questo senso, le popolazioni – dal cui insieme risulta ogni specie vivente – sono gruppi di individui unici e differenti l’uno dall’altro» (La medicina scientifica, in A. Pagnini (a cura di), Filosofia della medicina. La salute e la malattia, la diagnosi e la cura, l’etica e il diritto, Carocci, Roma 2010, pp. 81-118: 113). 38 Epistemologia e clinica Il che, per inciso, è anche una delle ragioni per cui la patologia non va confusa con la variabilità in sé, né meccanicamente identificata con qualunque anomalia statistica rispetto ad un tipo dato55. D’altra parte, modelli eziologici, nosografie, griglie diagnostiche, protocolli clinici e tutti gli strumenti necessari per accostarci in modo informato, rigoroso ed efficace ai fenomeni patologici sono stati costruiti a partire dallo studio di alcuni (innumerevoli, in realtà) esseri umani, allo scopo di essere poi applicati anche ad altri esseri umani. Ad altri esseri umani che si ritiene si trovino in condizioni analoghe ai primi relativamente ai parametri determinanti, ma che potrebbero sempre differenziarsi per qualche caratteristica clinicamente rilevante della quale il modello esistente non teneva conto. Inoltre, tali strumenti teorici costituiscono costrutti di tipo economico, che possono e debbono tenere conto di un numero limitato, per quanto grande, di tipi di variabili e di differenze, nonché di un numero limitato di loro combinazioni possibili. E, almeno quando si tratti di realtà multifattoriali e stratificate come le condizioni patologiche dei diversi esseri umani, difficilmente simili costrutti teorici generali potranno includere tutti i fattori che effettivamente le caratterizzano e che hanno influito, o anche solo potrebbero influire, su ciascuna singola situazione. Tra l’altro, quand’anche questo fosse possibile, probabilmente non sarebbe economico, da un punto di vista epistemico. Le conoscenze di carattere sovraindividuale in quest’ambito, del resto, hanno in genere carattere statistico. Si noti, da questo punto di vista, che perfino dei soggetti che sono stati direttamente studiati per creare i modelli generali esistenti saranno state prese in considerazione soltanto alcune caratteristiche rilevanti, e che le conclusioni di ordine generale estratte dallo studio di essi avranno, appunto, carattere statistico, non potendo perciò essere automaticamente applicate neppure a ciascuno di questi soggetti (e, dunque, ancor meno ad altri)56. 55 Cfr. G. Canguilhem, Le Normal et le Pathologique, Presses Universitaires de France, Paris 1966 (19431); trad. it. Il normale e il patologico, Einaudi, Torino 1998, pp. 101-114; C. Scandellari, La diagnosi clinica, cit., cap. 3; S. Canali, La medicina scientifica, cit., pp. 113114. Di Paola ha parlato di «biosingolarità» come caratteristica imprescindibile di ciascun individuo (Biosingolarità, cit.). 56 Greenhalgh ha notato che: «In large research trials, the individual trial participant’s unique and many-dimensioned experience is expressed as (say) a single dot on a scatter plot, to which we apply mathematical tools to produce a story about the ample as a whole. The generalisable truth that we seek to glean from research trials pertains to the sample’s (and, it is hoped, the population’s) story, not the individual trial participants’ stories. But there is a Epistemologia e casi clinici 39 In sintesi, quindi, la variabilità, la diversità e il mutare degli esseri umani, unitamente al carattere “economico”, selettivo e statistico delle nostre conoscenze scientifiche sono fattori che concorrono a precludere la possibilità che le risorse di ordine generale esistenti siano completamente adeguate alla conoscenza e alla cura dei singoli casi. Sarà perciò da escludere una loro applicazione meccanica ad essi. Naturalmente, con il progredire della ricerca clinica l’articolazione, la validità e la ricchezza delle nostre risorse epistemiche ed operative si accresce e sono sempre di più i tipi e i sottotipi di variabili che possono essere considerate. Ma, se questo fa la differenza quanto al grado di scientificità ed efficacia della medicina, non legittima però un’applicazione totalmente meccanica ai singoli casi delle conoscenze generali disponibili. I fattori che abbiamo individuato rappresentano infatti, in ultima analisi, impedimenti non provvisori e mai interamente superabili rispetto alla possibilità che in medicina il nuovo caso sia visto solo ed esclusivamente come istanza ennesima di un tipo o sottotipo noto (per quanto raffinato), e, del resto, le conoscenze sovraindividuali disponibili rispetto a quel dato tipo avranno pur sempre, fin dal loro sorgere, valore probabilistico. In definitiva, sarà dunque sempre possibile che sulla condizione di salute effettiva di un dato individuo incidano anche caratteristiche e fattori diversi da quelli che ai quali fanno riferimento le conclusioni diagnostiche e/o terapeutiche di ordine generale disponibili57. Potrà trattarsi di fattori sconosciuti, come pure di fattori conosciuti, ma che le conoscenze di ordine generale esistenti non avevano considerato, o che comunque non permettevano di cogliere in tutta la loro articolazione, variabilità e rilevanza. Schaffner ha così evidenziato che se un tratto distintivo della conoscenza biomedica è quello di procedere grazie all’impiego analogico danger of reifying that population story, i.e. of applying what A.N. Whitehead famously called the fallacy of misplaced concreteness» (T. Greenhalgh, Narrative based medicine in an evidence based world, in T. Greenhalgh-B. Hurwitz (eds.), Narrative-Based Medicine, cit., pp. 247-265: p. 251). 57 Su aspetti di questo genere ha insistito Gorovitz e MacIntyre, intendendo, anzi, sostenere che vi sono tipi di individualità per le quali «what is distinctive about them as particulars is what is crucially important». Può risultare, però, eccessiva o almeno sommaria, rispetto alle finalità e ai dinamismi propri della medicina, una quantificazione generica in base alla quale «how such particulars differ from one another in their diversity thus becomes as important as the characteristics they commonly share» (Toward a Theory of Medical Fallibility, cit., p. 17). 40 Epistemologia e clinica nei singoli casi di modelli creati a partire da altri casi, allora in essa generalizations can fail to apply not only because they represent a stochastic process, i.e., are statistical generalizations, but also, and perhaps more often, because the generalizations represent only a partial fit due to individual or strain variation58 Per tutte queste ragioni, i modelli di ordine generale non saranno da vedere come strumenti esaustivi e ineccepibili che esentino da una indagine su ciascun nuovo caso nella sua propria singolarità. Sarà, anzi, necessario sempre valutarli e ripensarli alla luce delle caratteristiche peculiari del singolo caso. Non si tratta semplicemente del fatto che tali costrutti dovranno di volta in volta essere corredati o “saturati” con le specifiche informazioni circa le condizioni assunte nel caso in questione dalle variabili rilevanti (cioè dalle variabili che, in base a quegli stessi modelli, sono da considerare rilevanti). Questo è qualcosa che accade, ovviamente, ogni volta che si vuole applicare un costrutto teorico generale ad un fenomeno particolare. Nell’adattamento richiesto dalla clinica sembra esserci più di questo. Il dato più significativo, infatti, si lega alla circostanza ulteriore per cui in ambito medico anche modelli scientifici appropriati di spiegazione o intervento, possono dover essere adattati, prima di essere applicati: nel senso che, per essere adeguati alle finalità della clinica, possono richiedere agli esperti veri e propri interventi di integrazione, modifica, arricchimento, rettifica, completamento etc. Adattamenti mirati, appunto, in base alle peculiarità del singolo caso e alla particolare combinazione di fattori rilevanti che, di volta in volta, concorrono a rendere la singola condizione patologica quella che è. In altri termini, come è stato rilevato, sembrano esservi ragioni per cui il singolo caso «ne peut pas davantage être retenu comme la variante libre d’une structure invariante ou la spécification automatique d’une norme»59. Si tratta, senza dubbio, di una condizione che segna anche altri contesti disciplinari, ma che tocca la medicina in un grado, con una frequenza e con un’importanza peculiari. Al punto da incidere sulla stessa forma mentis del clinico, contribuendo a caratterizzarla. 58 K.F. Schaffner, Exemplar Reasoning about Biological Models and Diseases, cit., p. 77, cfr. p. 69. 59 J.C Passeron-J. Revel, Penser par cas. Raisonner à partir de singularités, in in J.C. Passeron-J. Revel (sous la direction de), Penser par cas, cit., pp. 9-44: p. 12. Cfr. anche K.F. Schaffner, Exemplar Reasoning about Biological Models and Diseases, cit., pp. 76-77. Epistemologia e casi clinici 41 Come sappiamo, una simile pratica individualizzante e di messa alla prova dei modelli generali esistenti in base al nuovo caso con il quale si ha a che fare può addirittura aprire la strada a revisioni e innovazioni di ordine generale, rispetto a categorie, conoscenze e protocolli dati. E quando si ha il sospetto che le cose stiano così, si può avere una forte ragione per proporre all’attenzione generale un case-report. Allo stesso tempo, però, che i costrutti esplicativi e/o terapeutici esistenti possano sempre subire, o di fatto subiscano, un intervento di adattamento legato ai tratti rilevanti di un singolo non sarà sempre spia di un limite delle conoscenze di ordine generale che deve essere superato con mutamenti teorici posti sullo stesso livello di generalità, ossia proponendo altre conoscenze di ordine generale, integrative o sostitutive rispetto a quelle esistenti. L’approccio individualizzante potrebbe, infatti, anche operare in modo interno e non antagonista rispetto alle conoscenze di ordine generale date. Esso potrebbe, cioè, essere indice non del fatto che tali conoscenze sovraindividuali sono ancora insufficienti o infondate, ma del fatto che il tipo di costrutti generali che è possibile ed utile creare per conoscere e curare le patologie richiede sempre che essi, per quanto corretti, nel quotidiano lavoro clinico siano poi sempre integrati e adattati al singolo individuo e ai fattori peculiari di volta in volta operanti. E questo perché la variabilità di questi fattori, il loro mutare, il loro combinarsi, dando vita a fenomeni patologici multidimensionali e stratificati (e anche a più fenomeni patologici in comorbidità), possono impedire che degli strumenti teorici sovraindividuali di carattere probabile siano in grado di darci, da soli, conto di ciascun caso, in maniera adeguata alle finalità cliniche che abbiamo. In altri termini, la necessità dell’approccio individualizzante dipenderebbe da un tratto costitutivo dei singoli fenomeni patologici, e non (sempre) da un difetto provvisorio ed eliminabile dei nostri modelli sovraindividuali, non (sempre), cioè, dal fatto che essi non sono validi, ma dal fatto che lo sono nella misura in cui può esserlo un costrutto generale come quelli della medicina scientifica, rispetto a un fenomeno singolare come le condizioni patologiche degli esseri umani. L’adattamento, la individualizzazione, l’attenzione alle peculiarità del caso, in quest’ottica, non appaiono principalmente come momenti rari e critici di messa in discussione dell’adeguatezza/completezza di un corpus di conoscenze di ordine generale, ma come momenti abituali e fisiologici di valutazione critica della misura in cui le conoscenze sovraindividuali possono attagliarsi al singolo caso in questione e di integrazione tra ciò che queste possono offrirci, e ciò che invece ri- 42 Epistemologia e clinica chiede di essere declinato “su misura” in riferimento ad esso, per evitare che un modello generale si riveli, però, generico. È di decisiva importanza evidenziare come questo processo di valutazione e individualizzazione sarà tanto più possibile ed appropriato, quanto più si baserà su competenze, analisi, procedure e raffronti mirati, situandosi all’interno di una cornice generale scientifica di orientamento, spiegazione e cura. Ed esso potrà, ad esempio, svilupparsi anche procedendo alla integrazione, in riferimento ad un caso, di varie conoscenze o orientamenti generali di per sé distinti e non collegati. Un tale approccio individualizzante può perciò declinarsi anche (seppur non esclusivamente) quale estremo raffinamento di molteplici conoscenze sovraindividuali Del resto, si potrebbe aggiungere, sono proprio gli sviluppi più avanzati della farmacologia e della medicina scientifica, ossia gli sviluppi più avanzati nella ricerca di regolarità sovraindividuali, che hanno contribuito anche a far emergere in modo nuovo tanto l’esigenza, quanto la possibilità di diagnosi e terapie sempre più personalizzate 60 e, perciò, sempre più appropriate ed efficaci per lo specifico caso al quale sono destinate61. In questo senso, come ha osservato Schaffner in risposta alla caratterizzazione della medicina di Gorovitz e MacIntyre (richiamata in apertura) «one may use the phrase, ‘a science of particulars’, […] but 60 A questo proposito credo che in realtà il generico individualizzate sarebbe preferibile a personalizzate. Nel prossimo paragrafo mi soffermerò, infatti, su quelli che ritengo siano propriamente da definire aspetti personali (e non solo individuali) di una condizione patologica. 61 Ricordo che dal 2011 esiste anche un Journal of Personalized Medicine specificamente dedicato a queste tematiche. Come osserva Urs A. Meyer nell’editoriale del primo numero: «Personalized medicine is not a new idea or revolution as physicians have always treated patients on the basis of the available knowledge and the probability that a certain medication will benefit the patient. The historical writings of Hippocrates, Garrod, Osler and others already emphasized the centrality of “treating the patient, not the disease”. What we have witnessed in the last decade, however, is a breathtaking acceleration in understanding human genetic diversity as the result of a technological revolution» (U.A. Meyer, Welcome to the Journal of Personalized Medicine: A New Open-Access Platform for Research on Optimal Individual Healthcare, in «Journal of Personalized Medicine», I (2011), n.1, p. 1). Sull’impatto complessivo di queste nuove conoscenze si veda E.R. Kandel, Psychiatry, Psychoanalysis, and the New Biology of Mind, American Psychiatric Publishing, Washington-London 2005; trad. it. Psichiatria, psicoanalisi e nuova biologia della mente, Raffaello Cortina, Milano 2007, cap. 8. Cfr anche G. Recchia-A. Pirazzoli, Medicina personalizzata: attese, rischi e realtà, in P. Giaretta-A. Moretto-G.F. Gensini-M. Trabucchi (a cura di), Filosofia della Medicina. Metodo, modelli, cura ed errori, Il Mulino, Bologna 2009, pp. 205-257. Epistemologia e casi clinici 43 one is advised to recall that it is by virtue of that sciences’ generalizations that it is a ‘science’»62. In definitiva, sembra essere emerso come in medicina l’interesse per il singolo caso e l’approccio individualizzante ad esso non rappresentino un fatto transitorio, non siano legati solo alle fasi più immature della disciplina, non debbano avere spazio solo quando abbiamo a che fare con un caso clinico meritevole di passare alla storia, e non agiscano soltanto come pratica antagonista alle conoscenze di ordine generali esistenti, ma anche come necessario intervento critico di adattamento di esse al singolo di volta in volta in questione. Quanto detto fin qui non impedisce in alcun modo che due o più individui possano trovarsi in condizioni patologiche che, in base ai criteri della teoria e in ragione dei nostri scopi, saremo giustificati nel considerare dello stesso tipo. Da un punto di vista medico, però, un simile giudizio non equiparerà in termini assoluti quei due individui, come se l’uno fosse sotto ogni aspetto rilevante identico all’altro: «each case may differ from other cases of the same kind» e «each patient is potentially […] an anomalous instance of disease»63. Gorovitz e MacIntyre hanno anzi osservato come, data l’incertezza che in ambiti come questi caratterizza anche la nostra miglior conoscenza possibile, ogni generalizzazione in materia dovrebbe essere preceduta dalla clausola «characteristically and for the most part…»64. Di conseguenza, risulterà inappropriato assumere che i dettami del sapere consolidato possano essere impiegati in maniera automatica per ciascun nuovo caso di un tipo dato. Ciò potrebbe avvenire solo in riferimento ad un ipotetico, forse immaginario, “paziente tipo”, ma non per la persona in carne ed ossa con la quale si ha di volta in volta a che fare. Come è stato osservato, infatti: As physicians […] we want to base our actions on valid evidence, but we know that this evidence - when it exists - will rarely be directly relevant to the case of Mrs. Jones. We cannot expect to find a study of even a small number of Mrs. Joneses. There is only one Mrs. Jones65. 62 K.F. Schaffner, Exemplar Reasoning about Biological Models and Diseases, cit., p. 77. K. Montgomery Hunter, Doctor’s Stories, cit., pp. 38 e 18. Montgomery (How Doctors Think, cit., p. 193). 64 S. Gorovitz-A. MacIntyre, Toward a Theory of Medical Fallibility, cit., p. 17. 65 J. Hoey, The one and only Mrs. Jones, in «Canadian Medical Association Journal», 159 (1998), pp. 241-242: p. 241; affermazioni affini in M. Jenicek, Casi clinici ed evidence-based medicine, cit., p. 177; K. Montgomery, How Doctors Think, cit., p. 32. 63 Epistemologia e clinica 44 Si potrebbe a questo proposito rilevare come, in effetti, l’importanza e il bisogno di adattare i modelli descrittivi ed operativi generali ai singoli casi siano stati sempre ben chiari nella pratica clinica: It is clear that doctors need to understand their patients through a scientific knowledge of how the body works and to appreciate how scientific research can help them to make decisions about the best treatment for their patients. But this scientific approach needs to be modified in the clinical situation when dealing with the individual patient66 E si è anche sottolineato come pur costituendo alla lunga il percorso diagnostico più vantaggioso, il protocollo diagnostico non assicura di ottenere, nel singolo caso, il miglior risultato, poiché le circostanze contingenti possono essere diverse o perché le risposte delle indagini cliniche possono differire da quelle previste dal protocollo […]. Da queste ultime considerazioni derivano due importanti conclusioni: che il procedimento diagnostico (ciò che si deve fare per il singolo paziente) spesso non coincide con il protocollo diagnostico (ciò che è consigliabile fare nella situazione generica) e, come conseguenza di quest’ultima considerazione, che è vano – se non pericoloso o fuorviante – pretendere che la professione medica possa essere ridotta ad una serie più o meno vasta di linee guida […]67 Sembra perciò largamente assodato che «clinical reasoning in medicine has, of necessity, two aspects: generalization and particularization»68. 66 R.J. Macnaughton, The humanities in medical education: context, outcomes and structures, «Medical Humanities», supplemento al «Journal of Medical Ethics», 26 (2000), pp. 23-30: p. 23. Sul significato delle componenti pratiche e idiografiche del giudizio clinico riguardo la diagnosi ed il trattamento adatti (e adattati) al singolo si soffermano, da vari punti di vista, quasi tutti i testi citati. Ricordo solo: C. Ginzburg, Spie, cit., § 2; A.R. Jonsen-S. Toulmin, The Abuse of Casuistry, cit., cap. 1, specie, pp. 36-42; K. Montgomery Hunter, Doctor’s Stories, cit., pp. 38-40; P. Giaretta-G. Federspil, Il procedimento clinico. Analisi logica di una diagnosi, Piccin, Padova 1998; T. Greenhalgh, Narrative based medicine in an evidence based world, cit.; J.R. Macnaughton, Evidence and clinical judgement, cit.; G. Federspil-C. Scandellari, La Medicina basata sulle Evidenze, cit.; M. Jenicek, Casi clinici ed evidence-based medicine, cit., pp. 23-25, 64-67; L. Zannini, Medical humanities e medicina narrativa. Nuove prospettive nella formazione dei professionisti della cura, Cortina Editore, Milano 2008, § 2.4.2. Sulla logica che presiede agli adattamenti contestualizzanti, cfr. P. Livet, Les diverses formes de raisonnement par cas, cit. 67 C. Scandellari, La diagnosi clinica, cit., pp. 53-54. 68 K. Montgomery, How Doctors Think, cit., p. 86. Epistemologia e casi clinici 45 Possiamo anzi dire che proprio in virtù dell’importanza riconosciuta a questi aspetti si è soliti introdurre una (giustificata) distinzione, all’interno della medicina, tra ambiti nei quali si ha maggiormente di mira una conoscenza di ordine generale delle patologie, ed ambiti che hanno più di mira l’aderenza alla particolare individualità con la quale si ha a che fare (al punto che si è potuto parlare della medicina pratica appunto come di una «ars individualisandi»)69. Una distinzione che ha anche portato a notare come tra ambiti diversi della medicina esisterebbe una sorta di «epistemological gap»70. Ora, la necessità di distinguere tra modalità, finalità e livelli distinti nelle attività bio-mediche è innegabile. Ma assumere che la singolarità dell’individuale interessi esclusivamente la pratica clinica e non anche la conoscenza medica in generale, come se la ricerca tipologica degli uni ed il particolarismo idiografico degli altri si limitassero a giustapporsi, rischierebbe di rendere vuota la nosografia, e cieca la clinica71. Come abbiamo detto, gli immancabili profili di individualità presenti nelle singole condizioni cliniche non necessariamente incideranno sulla fiducia con cui guardiamo ai costrutti teorici di portata generale esistenti. Tali aspetti, però, incideranno significativamente sul modo in cui concepiamo e valutiamo lo statuto ontologico ed epistemologico di questi costrutti sovraindividuali. Infatti, se la medicina scientifica è costitutivamente caratterizzata dall’impiego di tassonomie, spiegazioni e protocolli sovraindividuali nel trattare il singolo, sembra tuttavia che essi non debbano mai essere assolutizzati, come se si trattasse di acquisizioni immutabili e onnicomprensive, o come se individuassero essenze immutabili e sussistenti, che si istanziano imperfettamente nei singoli casi, rispetto ai quali, però, avranno un grado maggiore di realtà. La questione non ha solo un ovvio rilievo filosofico, ma anche una immediata ricaduta sull’idea stessa di medicina e sul modo di praticarla. Ha notato Stefano Canali: La versione essenzialistica della malattia, anche chiamata ontologica, è quella su cui fondamentalmente si formano tuttora i medici. In essa il paziente, quando non irrilevante, è indifferenziato, ovvero solo l’occasionale mezzo 69 C. Ginzburg, Spie, cit., p. 88. K. Montgomery Hunter, Doctor’s Stories, cit., pp. 29 e 70; cfr. A.R. Jonsen-S. Toulmin, The Abuse of Casuistry, cit., cap. I. 71 Per usare una celebre immagine kantiana che si può ritrovare, con ottica analoga, anche in P. Livet, Les diverses formes de raisonnement par cas, cit., p. 231. 70 Epistemologia e clinica 46 attraverso cui prende corpo lo stato morboso. Quest’ultimo è la vera individualità [...]72. Riassuntivamente, le considerazioni svolte fin qui vorrebbero servire a far emergere lo status costitutivamente anfibio e dinamico di una disciplina sperimentale che, in misura superiore ad altre, pare procedere contemperando sia modalità “idiografiche”, che modalità “nomotetiche”, e, anzi, alimentandosi del rapporto costante, per quanto problematico, tra questi due livelli di analisi, distinti e intrecciati73. Contemperare queste due modalità significherà, tra l’altro, valutare sempre, per ogni nuovo caso, ciò che è rilevante su entrambi i livelli, cercando poi di integrare le risultanze in un approccio multilivello. Un approccio, cioè, che metta il clinico nelle condizioni, da un lato, di riconoscere le caratteristice del caso o del fenomeno patologico che permettono di ricondurlo a conoscenze (eziologiche, diagnostiche e terapeutiche) di ordine sovraindividuale, dall’altro, di identificare e valorizzare le caratteristiche rilevanti che invece lo differenziano da altri casi di tipo analogo e, dunque, dalle conoscenze generali già disponibili. Come ha scritto Jenicek, quindi: La casistica medica deve occuparsi di ogni caso come se fosse una esperienza unica e una parte più ampia della conoscenza e dell’esperienza medica e del sapere generale. La difficoltà sta nell’affrontare altrettanto bene entrambe la parti dell’equazione74 Il fine di questo difficile esercizio è, potremmo dire, quello di sviluppare uno sguardo stereoscopico sul singolo caso, ossia uno sguardo clinico capace di beneficiare delle risorse distinte della generalizzazione e dell’individuazione per approssimarsi al suo fine proprio: «unicuique suum tribuere». 72 S. Canali, La medicina scientifica, cit., p. 113. Espressioni analoghe in K. Montgomery Hunter, Doctor’s Stories, cit., p. 48 (vedi anche pp. 132-138, sul rischio di reificare il paziente), cfr. K. Montgomery, How Doctors Think, cit., cap. VI. Cfr. a questo proposito anche le considerazioni citate nella nota conclusiva al secondo saggio, infra. Sui pericoli connessi alla distanza tra modelli e singoli individui (a partire dalla psichiatria), cfr. anche F. Di Paola, Biosingolarità, cit. 74 M. Jenicek, Casi clinici ed evidence-based medicine, cit., pp. 171-172. 73 Epistemologia e casi clinici 47 6. Aspetti personali del caso clinico In medicina trova spazio anche un diverso tipo di individualizzazione, connesso a fattori ed aspetti di un genere differente rispetto a quelli visti fin qui. È quello che si lega alla presa in carico, sia da un punto di vista conoscitivo, che in prospettiva di cura, degli aspetti personali di ciascuna condizione patologica. Una valenza ulteriore dell’indagine centrata sul singolo caso emerge, allora, se si assume che anche tali aspetti personali ed interpersonali, come pure il modo peculiare che ciascuno ha di rapportarsi al proprio stato psico-fisico possano costituire qualcosa di essenziale in clinica. Tali aspetti rappresenteranno, cioè, dei fattori individuali che debbono sempre poter trovare spazio e voce nella relazione clinica, perché potrebbero rivestire un qualche ruolo tanto nel contribuire a spiegare la genesi della condizione patologica, quanto in riferimento all’approccio terapeutico ad essa, nonché per ciò che concerne la prognosi. È inoltre anche possibile che condizioni patologiche analoghe dal punto di vista dei fattori propri dell’analisi naturalistica (in termini di lesione, di alterazione etc.), siano associate (stabilmente o almeno transitoriamente) a condizioni sintomatiche, comportamentali e di qualità della vita marcatamente diverse da soggetto a soggetto, in ragione di fattori che appartengono alla dimensione personale distintiva del singolo in cura (tipo di vita e di relazioni, riserva cognitiva, aspettative, attività e valori etc.). Nella prospettiva della personalizzazione (per come essa è qui intesa), diventa necessario saper guardare alla patologia non solo come disease biologico, ma più ampiamente anche come illness, cioè, appunto, come condizione ed esperienza personale. Il riferimento è qui ad una distinzione sviluppata da Marinker, secondo il quale: The quality which identifies disease is some deviation from a biological norm. There is an objectivity about disease which doctors are able to see, touch, measure, smell […] Illness is a feeling, an experience of unhealthy which is entirely personal, interior to the person of the patient. Often it accompanies disease, but the disease may be undeclared, as in the early stages of cancer or tuberculosis or diabetes. Sometimes illness exists where no disease can be found75. 75 M. Marinker, Why make people patients?, «Journal of Medical Ethics», 1 (1975), pp. 81-84: pp. 82-83, che parla poi anche di una dimensione sociale della malattia, la sickness). George Engel, criticando un paradigma solo biomedico di analisi della malattia, ha quindi 48 Epistemologia e clinica Entrare in relazione con i particolari tratti distintivi della condizione personale di ciascuno (i pensieri, le relazioni, le intenzioni, i valori, le sensazioni, le aspettative etc.) richiede di sviluppare appunto una relazione terapeutica individualizzante. Essa avrà, dunque, un ruolo irrinunciabile anche nella misura in cui in clinica si intende dare risalto a simili aspetti. E, in quest’ottica, l’indagine sul singolo caso non sarà mai solo la premessa ad una teoria che ci esoneri poi dal confronto con ciascuno. Troviamo perciò qui un motivo che pare legare nel modo più radicale la medicina all’interesse per i casi nella loro individualità. Ma scegliere di fare posto anche a questo tipo di fenomeni, comporterà la necessità di una forma di individualizzazione ulteriore e più forte rispetto a quella delineata nelle pagine precedenti e che si situava ancora nel contesto di una cornice scientifico-naturalistica. Ovviamente sarà sempre del tutto essenziale e basilare che una condizione patologica sia affrontata con i metodi, le categorie, le conoscenze e gli strumenti offerti dalle scienze sperimentali della natura. Allo stesso tempo, però, sembra che un approccio basato solo su queste risorse, per quanto evolute, non sia adeguato a rendere conto di tutti gli aspetti che richiamavamo sopra e che possono costituire altrettante componenti rilevanti anche della condizione di malattia di una persona76. Una forma di individualizzazione più forte, sarà allora quella che prevede di poter accordare spazio oltre che alla caratteristiche singolari di ciascun caso che possono essere indagate in termini interamente bio- proposto di svilupparne una nuova interpretazione biopsicosociale (G.L. Engel, The Need for a New Medical Model: A Challenge for Biomedicine, in «Science», 196 (1977), pp. 129-136, specie pp. 132-133; in merito si vedano F. Borrell-Carrió-A.L. Suchman-R.M. Epstein, The Biopsychosocial Model 25 Years Later: Principles, Practice, and Scientific Inquiry, in «Annals of Family Medicine», 2 (2004), pp. 576-582; G. Bert, Medicina narrativa. Storie e parole nella relazione di cura, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 2007, pp. 63-66, e il numero monografico di «Families, Systems & Health», XXIII (2005) n. 4. Ma su questi temi cfr. anche G. Canguilhem, Il normale e il patologico, cit. 76 Circa le diverse componenti di una condizione clinica e i differenti modi di guardare ad essa, ad esempio M. Marinker, Sirens, stray dogs, and the narrative of Hilda Thomson, cit., specie pp. 106-109. Sui rapporti tra conoscenza scientifica ed esperienza personale in medicina, oltre a quanto già citato, si soffermano anche G. Cosmacini, La medicina non è una scienza. Breve storia delle sue scienze di base, Raffaello Cortina, Milano 2008, pp. 61-62, 98103; L. Zannini, Medical humanities e medicina narrativa, cit., §§ 1.2 e 3.1-3.2, specie p. 152; F. Griffiths, The Case In Medicine, cit., pp. 445-448. Risvegli di Oliver Sacks è un classico esempio classico di attenzione alla «qualità personale» della patologia, accompagnata da riflessioni sui metodi ed i linguaggi della clinica (Awakenings, New Revised Edition, Picador, London 1991 (19731); trad. it. Risvegli, Adelphi, Milano 1995). Epistemologia e casi clinici 49 logici, chimici e comunque naturalistici, anche a caratteristiche che sembrano richiedere un genere di analisi diverso. Anche simili aspetti potranno così contribuire alla spiegazione, alla diagnosi e, in modo speciale, alla appropriatezza e all’efficacia dell’intervento terapeutico77. Proprio l’interesse per le caratteristiche personali di ciascuna condizione patologica, nonché per il contributo di conoscenze che ciascun soggetto in cura può offrire alla clinica, ha acquisito in tempi recenti grande importanza nell’ambito della cosiddetta «medicina centrata sul paziente» (o, appunto, «sulla persona»), ed anche attraverso la valorizzazione di quella che negli anni ’80 si è proposto di chiamare «l’agenda del paziente»78. In altri lavori, poi, si è sostenuto che la rinnovata considerazione per simili dimensioni dovrebbe contribuire soprattutto a rendere i medici sempre più consapevoli della pervasività e del valore che hanno le componenti narrative e relazionali nella trattazione di un caso clinico, e nella medicina in genere. L’attenzione a queste ultime componenti ha recentemente trovato spazio in numerosi studi79. È da rilevare co- 77 Tra gli esempi di fattori influenti in questo senso Macnaughton ricorda: «the consent of this patient, the meaning of the disease for this patient, how important the side-effects are for this patient, whether this patient has heard of the treatment, the family supports, and perhaps even the cost» (J.R. Macnaughton, Evidence and clinical judgement, cit., p. 91; cfr. anche J. Hoey, The one and only Mrs. Jones, cit.; C. Scandellari, La diagnosi clinica, cit., pp. 6-9; L. Zannini, Medical humanities e medicina narrativa, cit., §§ 2.4.2, 2.6). 78 Una pionieristica ricerca sull’importanza del rapporto medico-paziente e sulle dimensioni psicologiche dell’esperienza patologica fu quella dello psicanalista Michael Balint, che discuteva un’ampia casistica, frutto di un lavoro seminariale di gruppo (cfr. M. Balint, The Doctor, his Patient and the Illness, Pitman Publishing Co., London 1957 (19632); trad. it. Medico, paziente e malattia, Feltrinelli, Milano 1961). Quanto all’odierna medicina non più solo «disease centred», ma anche «patient centred», E.A. Moja-E. Vegni, La visita medica centrata sul paziente, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, in particolare sulla «agenda del paziente», il cap. III (ma, a proposito di tale strumento, cfr. anche i possibili limiti richiamati da L. Zannini, Medical humanities e medicina narrativa, cit., pp. 53-56). Moja e Vegni ricordano come circa il rapporto che un singolo instaura con la propria malattia il medico potrà avere strumenti orientativi di fondo, ma non conoscenze di merito che precedano l’incontro con quel paziente, «unico, irrinunciabile competente» in materia (p. 48, cfr. pp. 54-55, 73, 113). 79 Tra i lavori recenti sulla medicina narrativa, e sulle componenti umanistiche della clinica, prima di tutto K. Montgomery Hunter, Doctor’s Stories, cit. (che nel capitolo VII analizza anche il rapporto tra resoconto clinico e narrazione in prima persona di una patologia), e Ead., How Doctors Think, cit., pp. 46-51; quindi B.J. Good, Medicine, Rationality, and Experience. An Anthropological Perspective, Cambridge University Press, Cambridge 1994; 50 Epistemologia e clinica me tali studi si presentino, in genere ed opportunamente, come un decisivo potenziamento, e non come un’alternativa, rispetto alle metodologie scientifiche abituali. Sembra, inoltre, proficuo che essi non conducano ad un olismo così indefinito da identificare l’adeguata disamina clinica di ciascun caso con la comprensione complessiva dell’esistenza di una persona. Si tratterà, semmai, di tendere verso una lettura integrata e integrale della specifica condizione patologica nella quale essa si trova. Bisogna poi ricordare che la relazione terapeutica e il dialogo clinico individualizzanti non costituiscono solo un luogo privilegiato per prendere conoscenza degli aspetti personali ed interpersonali di ciascuna situazione patologica. Essi, al contempo, tendono ad avere effetti considerevoli (intenzionali o meno che siano) sulle persone in cura, incidendo in svariati modi sulla loro salute e sul modo che avranno di rapportarsi alla propria situazione, all’intervento medico, agli altri ed al proprio futuro80. Qualcuno potrebbe, però, obiettare che la scelta di accordare spazio anche ad aspetti come i pensieri, le relazioni, le intenzioni, i valori, le sensazioni, le aspettative etc., sia qualcosa che interessa in misura rilevante soltanto un’area limitata della medicina, ossia quella che si occupa delle condizioni psicopatologiche della persona. E questo perché (solo) in casi del genere tali aspetti appaiono, potremmo dire, costitutivi e non solo complementari rispetto al tipo di patologia che si affronta81. Senza dubbio, sono qui necessarie distinzioni di grado in trad. it. Narrare la malattia. Lo sguardo antropologico sul rapporto medico-paziente, Edizioni di Comunità, Torino 1999, capp. V-VI; T. Greenhalgh-B. Hurwitz (eds.), Narrative-Based Medicine. Dialogue and Discourse in Clinical Practice, cit.; R.J. Macnaughton, The humanities in medical education, cit.; B. Hurwitz-T. Greenhalgh-V. Skultans (eds.), Narrative Research in Health and Illness, Blackwell, Malden (Mass.)-Oxford 2004; R. Charon, Narrative Medicine. Honoring the Stories of Illness, Oxford U.P., Oxford- New York 2006; G. Bert, Medicina narrativa, cit.; L. Zannini, Medical humanities e medicina narrativa, cit. Per Charon: «Nonnarrative knowledge attempts to illuminate the universal by transcending the particular; narrative knowledge, by looking closely at individual human being grappling with the conditions of life, attempts to illuminate the universals of the human condition by revealing the particular» (p. 9, cfr. anche pp. 28-29, 45-48, 236). Su alcuni presupposti epistemologici rilevanti, anche R. De Monticelli, La conoscenza personale, cit. 80 Su alcuni di questi punti cfr. già M. Balint, Medico, pazientee malattia, cit., cap. X e parte III. Su aspetti più specifici degli effetti indotti dalle diagnosi e dalle classificazioni, ci soffermeremo nel prossimo saggio, sezione 2. 81 Per le questioni che riguardano più specificamente o in misura distintiva la psichiatria e la psicologia clinica si rimanda al prossimo saggio e in particolare alla sezione 3. Epistemologia e casi clinici 51 rapporto alle varie specialità mediche e, indubbiamente, la centralità per la clinica di tali aspetti può avere forme e misure diverse in rapporto ai differenti tipi di condizione patologica. Ma, allo stesso tempo, un’attitudine che valorizzi nella misura del possibile anche gli aspetti personali rilevanti del caso sembra fornire un contributo essenziale nel preservare o accrescere le risorse conoscitive e la qualità operativa in ogni settore della medicina: perché di tali aspetti influenti nessuna nostra condizione patologica è mai priva. 7. Alcune conclusioni In conclusione, sembrano dunque essere emersi in questa riflessione epistemologica sul ruolo dello studio del singolo caso nei saperi clinici due tipi di tensione costitutiva che si intersecano e che sembra contribuiscano a fondare lo spazio stesso della clinica, per come la conosciamo: – da un lato, la tensione tra generalità dei modelli teorici e individualità delle nostre condizioni patologiche, o, se si vuole, tra impostazione idiografica e impostazione nomotetica: una tensione costitutiva, potremmo dire, perché fondante della natura della medicina come scienza, in rapporto alla peculiarità del suo oggetto, che sono le singole condizioni patologiche delle persone. Una tensione che, perciò, non può mai trasformarsi in contrapposizione unilaterale. – dall’altro, la tensione tra livelli diversi di indagine, quello propriamente naturalistico (genetico, chimico, fisiopatologico etc.) e quello situato, invece, sul livello personale dell’esperienza soggettiva: e anche questa sembra essere un’altra tensione costitutiva, perché la medicina ha bisogno di entrambi i livelli per rendere conto del carattere stratificato e multidimensionale delle condizioni patologiche delle persone82. Questi tipi di tensioni, per quanto fondativi, possono, senza dubbio, far sorgere conflitti entro il campo della clinica, ed il punto di equilibro tra essi non può mai essere dato in linea generale (cioé, in modo valido per ogni tipo di specialità medica e di condizione patologica), né una volta per tutte. Ma abitare questa duplice tensione, e ten82 Al tema dei livelli di analisi si fa riferimento in maniera più specifica nel secondo saggio, § 3.1. 52 Epistemologia e clinica tare, dunque, questa duplice integrazione (del generale e del particolare, del livello naturalistico e di quello personale di indagine) rappresenta appunto un compito costitutivo della clinica ed è, probabilmente, più proficuo che non invece cercare di dissolvere queste diverse polarità, tramite approcci riduttivi o eliminativi. Del resto, la volontà di tendere a questa duplice integrazione sembra qualcosa che (pur nei modi, nelle forme, con le preferenze e coi limiti propri dell’epoca) è già possibile riconoscere in un testo appartenente al Corpus Ippocraticum: il trattato intitolato Epidemikòn. Un testo che, non a caso, pare costituisca anche la prima raccolta di casi clinici della medicina occidentale. Nel libro primo l’autore osserva: Questi i fenomeni relativi alle malattie, dai quali traevo le mie conclusioni, fondandole su quanto v’è di comune e quanto di individuale nella natura umana; sulla malattia, sul malato, sulla dieta e su chi la prescriveva (ché da ciò dipendono sviluppi favorevoli o funesti); sulla costituzione generale e specifica dei fenomeni celesti e di ciascuna regione; sui costumi, il regime, il modo di vita, l’età di ognuno; sui discorsi, i modi, i silenzi, i pensieri [...]83. 83 Le Epidemie, in Ippocrate, Opere, a cura di M. Vegetti, UTET, Torino 1976, p. 335 [I, 23]. «Nei trattati intitolati Epidemie troviamo, per la prima volta nella storia della medicina, delle schede individuali sui malati in cui viene descritta, in certi casi giorno per giorno, l’evoluzione della malattia» (J. Jouanna, La nascita dell’arte medica occidentale, in M. Grmek (a cura di), Storia del pensiero medico occidentale. 1. Antichità e Medioevo, Laterza, RomaBari 1993, p. 9). Su I, 23, cfr. V. Di Benedetto, Il medico e la malattia. La scienza di Ippocrate, Einaudi, Torino 1986, pp. 115-117; V. Langholf, Medical Theories in Hippocrates. Early Texts and the ‘Epidemcs’, de Gruyter, Berlin-New York 1990, specie pp. 194-208. Secondo saggio Epistomologia e classificazioni psichiatriche Vorrei affrontare tre questioni di carattere epistemologico che sono rilevanti in rapporto alle classificazioni e ai sistemi diagnostici in psichiatria1. Si tratta di problematiche che sono per lo più trattate separatamente; spero, però, che considerarle sinotticamente permetta di cominciare a fare emergere una possibile caratterizzazione filosofica d’insieme dei sistemi di classificazione diagnostica nella clinica psichiatrica come costrutti epistemici di sintesi, influenti e non interamente naturalizzabili, che orientano la conoscenza e la cura della condizione psicopatologica di una persona. Chiamerò questa concezione epistemico-pragmatica. 1. Etichette (costrutti epistemici di sintesi...) In anni recenti ha avuto un significativo spazio in letteratura il dibattito sulla natura categoriale e/o dimensionale che devono avere i sistemi classificatori e tassonomici in psichiatria. Vorrei soffermarmi innanzitutto su questo tema2. L’analisi riguarderà il modello categoriale 1 La riflessione epistemologica accompagna fin dall’origine la costruzione delle odierne classificazioni psichiatriche (si pensi al contributo di Hempel, Introduction to problems of taxonomy). Per una introduzione storica e sistematica ai temi epistemologici della classificazione psichiatrica B. Fulford, T. Thornton, G. Graham, Oxford Textbook of Philosophy and Psychiatry, Oxford University Press, Oxford 2006, specie cap. 13; T. Thornton, Essential Philosophy of Psychiatry, Oxford University Press, Oxford 2007, specie cap. 5. Cfr. anche A. Civita-D. Cosenza (a cura di), La cura della malattia mentale. I Storia ed epistemologia, Bruno Mondadori, Milano 1999; M. Aragona, Storia e criteri dei paradigmi nosografici, in A. Pagnini (a cura di), Filosofia della medicina. Epistemologia, ontologia, etica, diritto, Carocci, Roma 2010, pp. 371-395. 2 Impiegherò qui i termini ‘categoria’ e ‘concetto’ come sinonimi, per quanto questo 54 Epistemologia e clinica in genere e non, ad esempio, gli specifici problemi connessi alla peculiare articolazione categoriale odierna del DSM: questi ultimi, infatti, spesso non riguardano l’assetto categoriale in sé, ma una specifica articolazione di un sistema categoriale. Come è già stato sottolineato3, sarebbe improprio addossare in maniera meccanica e immediata all’impianto categoriale in sé (e dunque ad ogni possibile modello categoriale), ogni limite (reale o presunto) del modello categoriale adottato dal DSM. Tra i limiti rimproverati, di fatto, all’impianto categoriale in genere, si possono ricordare: – l’esistenza di una soglia clinica netta che determina con inverosimile nettezza l’estensione di una categoria; – l’assenza di distinzione intracategoriale, ossia l’equiparazione di tutti coloro che sono inclusi in una categoria (e di tutti coloro che ne sono esclusi), e quindi la scarsa informatività della categorizzazione rispetto alle differenze individuali intra-categoria; – la connessa idea che le condizioni patologiche siano entità discrete e ben separate; – le difficoltà esplicative e di applicazione generate dalla comorbidità massiva nelle diagnosi, o il lussureggiante panorama di etichette diagnostiche esistente; – più ampi problemi di utilità e validità delle varie categorie diagnostiche, anche a fronte di una accresciuta inter-rater reliability. Con l’intento di ovviare a scogli di questo genere si è imposta l’attenzione per una diagnosi e dei modelli di tipo dimensionale. E questo in modo particolare in risposta ai limiti dell’assetto categoriale del DSM per i disturbi di personalità dell’asse II. Tra questi modelli uno degli esempi più noti è forse il cosiddetto Five-Factor Model 4. È semnon sia ovvio nel dibattito filosofico in materia dove «Distinguiamo [...] le categorie che sono nel mondo, dai concetti che le rappresentano» (cfr. E. Lalumera, Cosa sono i concetti, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 4). 3 Cfr. G. Vella, M. Aragona, Metodologia della diagnosi in psicopatologia. Categorie e dimensioni, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pp. 191-192. Preciso, però, che al contempo il mio discorso concerne sistemi classificatori in psichiatria che, come il DSM, mirino a un qualche utilizzo (quand’anche solo epidemiologico) nel contesto della attività clinico-diagnostica: classificazioni che intendessero programmaticamente servire solo ai ricercatori potrebbero richiedere valutazioni di altro tipo. Cfr. anche, infra, nota 28. 4 Ma per una più ampia rassegna storica, vedi G. Vella, M. Aragona, Metodologia della diagnosi in psicopatologia, cit., § 2.2. Epistomologia e classificazioni psichiatriche 55 brato in quest’ottica che, invece di limitarsi a etichettare una persona in base alla piena presenza o totale assenza di una patologia (intesa come realtà del tipo tutto/nulla), fosse più utile concentrarsi sullo studio delle varie dimensioni nelle quali si articola la sua personalità, concependole come realtà tra loro indipendenti, che possono essere operazionalizzate al modo di un continuum quantitativo, opportunamente misurabile. Questo permetterà, poi, di far emergere per ciascuno le aree problematiche o almeno di anomalia, gli scarti rilevanti dall’ordinario, le correlazioni significanti tra aspetti diversi. Di fatto, mi pare che il risultato prevalente sia stato spesso, fino ad oggi, l’adozione di modelli diagnostici e tassonomici che hanno, o possono avere, logiche miste, cioè che possono contemperare sia il metodo dimensionale, che quello categoriale (o meglio: una interpretazione dimensionale di alcune categorie). Si è però anche diffusa una sorta di parola d’ordine che legge questo mutamento come passaggio da un tipo di modello a un altro. Aragona ha perciò giustamente registrato il progetto di dar vita a modelli dimensionali come la proposta rivoluzionaria (nel senso di Kuhn) «a oggi più forte»5 per cercare di superare i limiti (effettivi) di quello che sarebbe il «paradigma» del DSM. In ogni caso, l’idea che si è affacciata non di rado è che siamo davanti a una scelta tra approcci categoriali, oppure dimensionali, oppure misti: tutte e tre le scelte sarebbero ugualmente aperte6. Intendo approfondire il confronto tra modelli categoriali e dimensionali e in particolare vorrei discutere di alcune caratteristiche (non tutte) dei sistemi categoriali che mi sembrano a rischio di travisamento quando si compara impianto categoriale e impianto dimensionale. Da questa trattazione dovrebbe anche progressivamente emergere che cosa intendo, parlando di classificazioni psichiatriche, come costrutti epistemici di sintesi. 1.1. Profili fattuali: l’ineliminabilità della componente categoriale Un primo aspetto sul quale mi soffermo brevemente (anche perché 5 M. Aragona, Aspettando la rivoluzione. Oltre il DSM-V: le nuove idee sulla diagnosi tra filosofia della scienza e psicopatologia, Editori Riuniti, Roma 2006, p. 157; cfr. p. 194. 6 «Un altro problema centrale nella diagnostica […] è quello della scelta, o dell’integrazione, tra diagnosi categoriale e dimensionale» (N. Dazzi-V. Lingiardi-F. Gazzillo, La diagnosi psicologica: principi, caratteristiche, obiettivi, in N. Dazzi-V. Lingiardi-F. Gazzillo (a cura di), La diagnosi in psicologia clinica. Personalità e psicopatologia, Raffaello Cortina, Milano 2009, pp. 3-14: p. 8). Epistemologia e clinica 56 è stato già ben rilevato) è quello per cui, di fatto, componenti categoriali e dimensionali sono necessariamente più intrecciate di quanto a volte si lasci intendere. Può essere qui utile rifarsi alla distinzione introdotta da Vella e Aragona tra approccio categoriale e diagnosi categoriale (come anche tra approccio e diagnosi dimensionale). Mentre la diagnosi categoriale si ha quando un giudizio categoriale viene applicato nella diagnosi di un soggetto, un approccio categoriale «vale per i singoli fenomeni […] distingue nettamente, inserendoli in questa o quella classe»7. In quest’ottica, possiamo rilevare come quello che si intende rifiutare adottando i sistemi dimensionali è, in genere, di categorizzare persone, per così dire, ossia di fare diagnosi categoriali. Non ci si potrà, però, esimere dal dover categorizzare fenomeni, tratti e dimensioni psichiche, e, in questo senso, su un piano epistemologico, le dimensioni rappresentano a tutti gli effetti delle categorie. Come hanno osservato appunto Vella e Aragona: quando, al fine di valutare dimensionalmente i fenomeni, li si sceglie, si opera una determinazione e distinzione di ogni singolo fenomeno dagli altri e questa è un’operazione categoriale […] l’approccio categoriale è dunque presente anche alla base dell’approccio dimensionale8. Di conseguenza, però, sembra di poter dire (pur senza sottovalutare le differenze presenti) che alcune problematiche epistemologiche connesse alla natura categoriale del costrutto si ripresenteranno analoghe anche per i cosiddetti modelli dimensionali. Ad esempio: distinguiamo dimensioni e tratti ‘realmente’ separati? Colleghiamo a formare una dimensione aspetti oggettivamente connessi? E perché proprio quelli e non altri? Gli items considerati irrilevanti per costruire e operazionalizzare un costrutto dimensionale sono davvero irrelati a esso? Perché gli items rilevanti contano tutti allo stesso modo (o, invece: perché hanno ordinamento gerarchico)? Dimensioni quali extraversion o openness to experience hanno davvero un correlato unitario e omogeneo fra i tratti nucleari della personalità?9 7 G. Vella, M. Aragona, Metodologia della diagnosi in psicopatologia, cit., pp. 178-179. Ivi, pp. 211-212; cfr. anche pp. 179 e 216. 9 «Siete sicuri che siano queste le dimensioni rilevanti da considerare? Non potrebbero esserci altri inquadramenti dimensionali (modelli con dimensioni più o meno numerose, o con altre dimensioni, diverse) che colgono meglio le problematiche cliniche e che sono più utili di queste per la terapia?» (M. Aragona, Aspettando la rivoluzione, cit., p. 170; cfr. anche G. Vella, M. Aragona, Metodologia della diagnosi in psicopatologia, cit., pp. 140-144). 8 Epistomologia e classificazioni psichiatriche 57 Si porranno, cioè, rispetto alle dimensioni (alle categorie-dimensioni) alcune questioni strutturalmente analoghe a quelle che si ponevano rispetto alle categorie-disturbo. Così, problemi come quelli di validità del costrutto, concernenti la natura discreta o meno delle partizioni introdotte dalla teoria, sembrano ripresentarsi anche se diversamente dislocati. Ed essi sono, del resto, problemi che nessuna matrice di rappresentazione scientifica può sperare di risolvere una volta per tutte, grazie a una semplice opzione circa il proprio assetto strutturale. 1.2. Profili normativi: il modello categoriale alla prova Si potrebbe obiettare che, però, se passiamo dai profili fattuali di una classificazione e da quanto essa necessariamente porta con sé, ai profili normativi e a ciò che possiamo invece scegliere, allora sembra emergere una giustificata superiorità dell’assetto dimensionale rispetto ai limiti di per sé presenti nelle classificazioni di impianto categoriale. Esaminiamo, dunque, alcuni esempi specifici di quelli che si suppone siano i limiti (o, al contrario, i meriti) delle classificazioni categoriali. 1.2.1. Il boundary problem. Le classificazioni categoriali introdurrebbero soglie arbitrarie di cut-off, cioè soglie nette di rilevanza clinica che determinano chi è incluso e chi escluso dall’estensione di una certa categoria. Tali criteri sembrano avere una chiara natura convenzionale: perché un sintomo deve perdurare due settimane o 15 giorni, e non 13 o 16 giorni? perché il soggetto deve presentare almeno 3 condizioni-criterio e non 4 o 2? Perché il valore soglia del parametro T deve essere x e non x+1 o x-1? L’approccio dimensionale, invece, non imporrebbe l’introduzione di simili soglie arbitrarie. Si tratta, indubbiamente, di una questione di grande rilievo. E però, sembra anche che si tratti di una questione che ha a che fare con il significato che attribuiamo a queste soglie cliniche, più che con il rifiuto o l’accettazione tout court della loro presenza. Pare, infatti, che, per la loro natura e le loro finalità proprie, una classificazione e una categorizzazione clinica non siano davvero tali se si limitano solo a operazionalizzare una certa caratteristica. Esse devono anche rispondere alla necessità epistemico-pratica di fissare una soglia per la significatività e la rilevanza clinica del fenomeno in esame. Infatti, il mero rilevare la posizione di un individuo lungo il continuum numerico coordinato a una certa sua proprietà o dimensione, di per sé, non costituisce né classificazione clinica, né diagnosi. Diagnosi è sempre farsi carico anche del momento normativo e pratico, stabilen- 58 Epistemologia e clinica do, sia pure in modo ipotetico e parziale, se una condizione rilevata o misurata costituisce in quel caso un fatto patologico, o almeno bisognoso di una specifica attenzione clinica10. Questo significa tra l’altro che il semplice rilevare come un individuo si posizioni, entro una dimensione, rispetto alla media, o anche rispetto a un intervallo amplissimo di popolazione, non potrà mai equivalere alla individuazione meccanica di una condizione patologica11. Più in generale, come ha scritto Jerome Wakefield: all of the tests that are commonly used to distinguish disorder from nondisorder rest on implicit assumptions about the concept of disorder; otherwise, it is not clear whither the test is distinguishing disorder from nondisorder, one disorder from another disorder, or one nondisordered condition from another [...] whether the distinguished constructs are disorder versus nondisorder goes beyond the test’s capabilities12 Ora, stabilire una soglia di rilevanza clinica equivale di fatto a creare una classe e, perciò, anche una categoria. Dal che, però, non segue che la condizione misurata (poniamo sia il valore della pressione arteriosa) non possa anche essere vista come una variazione quantitativa in un continuum. Ma, per converso, questo suggerisce anche che la modellizzazione di una proprietà quale continuum dimensionale non comporta, di per sé, la sparizione dell’approccio e della diagnosi categoriali. Infatti, non appena si procede a fissare soglie per demarcare la rilevanza clinica di un fenomeno (esigenza, questa, che appare imprescindibile), inevitabilmente si apre uno spazio anche per una logica di tipo propriamente categoriale. Il punto di equilibrio tra approccio dimen10 «I valori della pressione arteriosa formano un continuum, che si adatta perfettamente a un approccio dimensionale; tuttavia, l’esistenza di una soglia oltre la quale si parla di ipertensione permette ai medici di stabilire con maggiore sicurezza quando sia opportuno sottoporre il paziente a uno specifico trattamento. In modo del tutto analogo, definire una soglia per la depressione clinicamente significativa può aiutare a fissare un limite oltre il quale è consigliabile sottoporre il paziente a una terapia» (A.M. Kring-G.C. Davison-J.M. NealeS.L. Johnson, Psicologia clinica, Il Mulino, Bologna 2008, p. 72). Anche per questo: «Ogni diagnosi è dunque, sempre, una diagnosi categoriale, come infatti nota giustamente Pancheri (1995), il termine diagnosi dimensionale è un controsenso, e può essere usato […] solo in senso analogico rispetto alla diagnosi vera e propria, che è categoriale» (G. Vella, M. Aragona, Metodologia della diagnosi in psicopatologia, cit., p. 191, cfr. pp. 226-227). 11 Cfr. anche ivi, pp. 151-152. 12 J.C. Wakefield, The concept of mental disorder: diagnostic implications of the harmful dysfunction analysis, in «World Psychiatry», VI (2007), n. 3, pp. 149-156: p. 150. Epistomologia e classificazioni psichiatriche 59 sionale e categoriale starà, allora, semmai nel riconoscere che esistono categorie le quali «sono la traduzione categoriale di una distribuzione dimensionale»13. Da un punto di vista epistemologico, sarà perciò importante distinguere tra la natura discreta e a soglia netta delle categorie (che rimanda a un’esigenza di definitezza), e la natura propria dei criteri che regolano l’applicazione di tali categorie, i quali possono anche essere costrutti dimensionali quantitativi, privi di discontinuità oggettive, dotati di significato contestuale e relativo. In altre parole, una categoria tassonomica ben formata deve applicarsi o non applicarsi in modo definito e univoco a ciascuna entità che cada sotto l’esame diagnostico: ma questo non toglie che le proprietà elette a criterio per l’applicazione di tale categoria possano essere tali che il primo incluso nell’estensione della categoria e il primo escluso si differenzino per uno scarto infinitesimo. Non sarà, dunque, sempre e necessariamente la presenza oggettiva di «zone di rarità» a determinare l’assetto categoriale della diagnosi, quanto la scelta intersoggettiva (esperta e giustificabile) di istituire un certo divide. Proprio questo, si potrebbe però rimarcare, contribuisce forse a rendere le soglie diagnostiche tanto difficili da accettare: non il fatto di misconoscerne l’importanza, ma il doverne riconoscere una certa arbitrarietà, il carattere convenzionale e contestuale, o l’accorgersi che esse non sembrano poter cogliere una reale articolazione del mondo in tipi. Rispetto a questo problema (sul quale torneremo), credo che proprio la ragione pragmatica che ci motiva a fissare e imporre delle soglie disgiuntive di rilevanza clinica, possa anche guidarci nella interpretazione del significato da attribuire a tali soglie e alle classi che ne derivano. Sembra, infatti, inevitabile che in clinica delle soglie siano introdotte, e anche che siano controverse, provvisorie, dipendenti dal contesto e dalle finalità. Ma, proprio per questo, non è necessario che la loro accettazione si identifichi con l’attribuire sempre ad esse il significato di confini, bordi metafisici della realtà, descritta «from nowhere». Per accettare la loro legittima presenza nei nostri sistemi tassonomici non sarà, cioè, necessario pensare che quelle soglie definiscano e colgano (o, almeno, necessariamente debbano cogliere) le articolazioni ultime del mondo oggettivo cui le riferiamo. Saranno, piuttosto, soglie sulle quali ci accordiamo per le finalità, le conoscenze, i va13 M. Aragona, Aspettando la rivoluzione, cit., p. 197. 60 Epistemologia e clinica lori, le possibilità che abbiamo in un dato ambito, in un certo momento. Questo non significa che esse siano arbitrarie, nel senso che non se ne può motivare la scelta e l’applicazione in modo intersoggettivo, o che non possano individuare autentiche discontinuità funzionali e/o qualitative. Significa, al contrario, che la validità della scelta di quelle categorie riposa sulle giustificazioni intersoggettive appropriate che possiamo portare a loro sostegno (in base a evidenze quantitative e/o qualitative), e non sul fatto che colgano presunte articolazioni della natura in sé. Si tratterebbe, allora, di passare da una concezione metafisica, a una concezione epistemico-pragmatica anche delle soglie di rilevanza clinica. In questa prospettiva, poi, il problema posto dalla arbitrarietà delle soglie di cut-off e dalla contiguità dei soggetti inclusi ed esclusi potrà, se non essere risolto pienamente in linea teorica, almeno essere affrontato proficuamente, cioè nella misura in cui ciò è indispensabile per orientare l’intervento in clinica. Vale a dire che si potrà procedere attraverso un numero indefinito di raffinamenti della classificazione, ossia accrescendo le partizioni categoriali tanto quanto lo consiglia il bilancio tra i costi della moltiplicazione di categorie e i benefici del raffinamento epistemico nel distinguere tipi di condizioni diverse. In questo senso, se le singole categorie nosografiche hanno una logica rigida ed esatta, il sistema categoriale, nel suo complesso, può giungere ad avere quella flessibilità che è utile e possibile in un sistema non idiografico. 1.2.2. La questione delle distinzioni del tipo tutto/nulla. Già sullo sfondo del problema che abbiamo ora analizzato si profila, però, quella che, su un piano epistemologico, è forse la più significativa delle difficoltà fatte valere contro il modello categoriale. Esso, si dice, si basa su distinzioni del tipo tutto/nulla, cioè non consente se non differenziazioni assolute rispetto alle condizioni individuate da una categoria. Ora, però, si obietta, l’esperienza ci insegna come non sia vero che coloro che cadono entro l’estensione di una categoria psichiatrica sperimentino tutti allo stesso modo la condizione che essa individua e, analogamente, ci insegna come, tra coloro che cadono fuori dall’estensione di tale categoria, alcuni siano più prossimi di altri alla condizione patologica. Dunque, noi non vogliamo che il nostro sistema di classificazione permetta solo distinzioni assolute, del tipo tutto/nulla, e non vogliamo che tutti gli appartenenti a una classe si equivalgano quanto alle proprietà di ascrizione ad essa, ossia, che le condizioni di ascrizio- Epistomologia e classificazioni psichiatriche 61 ne alla classe possano solo essere soddisfatte o meno, ma non in forme diversificate. Ad alcuni è parso che solo un impianto dimensionale, con il suo “continuismo”, potesse accogliere questa esigenza e non, invece, uno categoriale. Propenderei a credere che il recepimento di giuste esigenze come questa non comporti il superamento di un modello categoriale tout court, bensì un mutamento interno al nostro modo di concepirlo e, in particolare, l’abbandono di alcuni requisiti particolarmente stringenti della cosiddetta teoria classica dei concetti. È interessante notare come, proprio mentre in psichiatria si affermava l’idea che la natura, per così dire, graduabile dei giudizi diagnostici mettesse in dubbio il loro assetto categoriale, negli studi cognitivi sulla categorizzazione concettuale venivano alla ribalta le teorie dei prototipi, che sembravano, al contrario, attribuire proprio caratteristiche di questo genere ai nostri ordinari processi di categorizzazione e concettualizzazione. Come è noto, infatti, dagli anni Settanta del Novecento, Eleanor Rosch e altri hanno proposto una teoria psicologica dei concetti, chiamata teoria dei prototipi, che interpreta la nostra attività di categorizzazione lessicale (in particolare quella ordinaria, cioè legata all’applicazione di concetti non specialistici) in base al ruolo giocato da prototipi, cioè da casi esemplari che permetterebbero di fissare il significato focale di ciascun concetto: «categories are composed of a “core meaning” which consists of the “clearest cases” (best examples) of the category, “surrounded” by other category members of decreasing similarity to that core meaning»14. Lalumera riassume così il processo di categorizzazione alla luce di questa famiglia di teorie: Categorizzare, nei modelli prototipici, consiste nel confrontare il nuovo esemplare con la rappresentazione del prototipo della categoria, valutando la somiglianza. L’esemplare appartiene alla categoria se la somiglianza eccede una certa soglia (threshold), fissata nella rappresentazione della categoria […] la categorizzazione è ancora idealmente un verdetto sì/no (sì se la somiglianza 14 E. Rosch, On the internal structure of perceptual and semantic categories, in T.E. Moore (ed.), Cognitive development and the acquisition of language, Academic Press, New York 1973, pp. 111-144: p. 112; cfr. Ead., Principles of Categorization, ora in E. Margolis, S. Laurence (eds.), Concepts. Core readings, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1999, pp. 189-206: p. 196. Come introduzione a questi dibattiti E. Margolis, S. Laurence (eds.), Concepts. Core Readings, cit.; Idd., Concepts, in Stanford Encyclopedia of Philosophy (2011) http://plato.stanford.edu/entries/concepts/; E. Lalumera, Cosa sono i concetti, cit., specie §§ 2.3 e 2.7-2.8. Epistemologia e clinica 62 è maggiore e uguale al valore di soglia, no altrimenti), ma è facile spiegare gli effetti di tipicità: ci sono esemplari buoni, con valore di somiglianza alto, esemplari meno buoni, con valore minore, e casi borderline15. Mi pare che un processo di categorizzazione così inteso possa certo accogliere l’esigenza di graduabilità, o, meglio, di non equiparazione di quanto cade nella estensione di un concetto (per alcune teorie sarebbe possibile perfino una misurazione formalizzata del tasso di somiglianza caso/prototipo). Solo che, appunto, non solo tutto questo non costituisce un’alternativa al modello categoriale, ma intende essere la presentazione di una teoria cognitiva generale sul funzionamento delle nostre categorizzazioni ordinarie. Al contempo, mi pare che abbiamo qui una esplicitazione di una possibile struttura logica soggiacente ai cosiddetti modelli misti di diagnosi in psichiatria, che, in questa ottica, appaiono come preziose innovazioni interne al modello categoriale. Da questo punto di vista, direi, anzi, che non solo la liberalizzazione desiderata non ci obbliga ad abbandonare un assetto categoriale, ma, al contrario, la teoria dei prototipi (oltre ad avere problemi di altro genere)16, è già perfino troppo liberale per rendere conto di una classificazione psichiatrica. Essa, cioè, pur essendo una teoria categoriale, concede semmai troppo, non troppo poco, alle esigenze viste sopra (e per questo non sarebbe una buona teoria generale delle categorizzazioni psichiatriche). Ciò perché, a differenza dei concetti e delle categorie di uso comune, abbiamo bisogno (come detto) che le categorie diagnostiche abbiano anche una definizione esplicita e dei confini estensionali determinati, netti. C’è invece un tasso di fuzziness, di vaghezza, tipico del nostro uso dei concetti ordinari, che la teoria dei prototipi accoglie e cerca di spiegare, ma che non possiamo facilmente accettare quando si tratta di classificazioni e modelli clinici. 15 Ivi, pp. 71-72. La teoria della Rosch è una teoria psicologico-cognitiva dei concetti e sarebbe fraintesa, o comunque risulterebbe verosimilmente inadeguata, se ne volessimo fare una esaustiva teoria generale circa i concetti. Essa ha ricevuto sia critiche di tipo filosofico che critiche di tipo sperimentale. Ricordo solo, da un lato, il fatto che essa, di per sé, non rende conto delle questioni semantico-normative connesse ai concetti, dall’altro, come sia risultato falso che dalla presenza di effetti prototipici si possa sempre e in linea generale inferire che i tipi di concetti per i quali si riscontra tale effetto abbiano (e siano avvertiti avere da chi li usa) una struttura graduata e non definitoria (cfr. S.L. Armstrong, L.R. Gleitman, H. Gleitman, What some concepts might not be, ora in E. Margolis, S. Laurence (eds.), Concepts. Core readings, cit., cap. X). 16 Epistomologia e classificazioni psichiatriche 63 1.2.3. L’esigenza di sintesi qualitativa. Ma, assolto presuntivamente da alcuni capi di imputazione tradizionali, quali potrebbero essere invece i possibili meriti di un impianto di tipo (anche) categoriale? Credo si possa dire, per prima cosa, che esso può rispondere a un nostro bisogno di sintesi qualitativa. – Sintesi. La componente categoriale dei sistemi diagnostici consente, infatti, la necessaria sintesi su più livelli. Sintesi sul livello intrapersonale, perché permette, prima, di unificare più segni o sintomi diversi in un fatto diagnostico o in una dimensione, e, poi, di unificare molteplici fatti di rilievo clinico (o anche più risultanze dimensionali) in una condizione patologica. E, in effetti, ciò con cui abbiamo a che fare in psichiatria non sono mai solo dimensioni, segni, sintomi irrelati, ma un complesso integrato che richiede quello sguardo di sintesi che, almeno potenzialmente, l’assetto categoriale rende disponibile. Sintesi sul livello interpersonale, perché il ricorso ad una componente categoriale permette di raggruppare occorrenze diverse di segni, sintomi, comportamenti, lesioni ecc. in tipi definiti, e consente, così, di raggruppare individui diversi in classi utili per le nostre diverse finalità (epidemiologiche, sperimentali etc.). – Qualitativa. Il fatto è, inoltre, che non sempre possiamo immaginare la patologia psichica semplicemente come un fenomeno concernente singole dimensioni rappresentate al modo di un continuum quantitativo. Il modello categoriale ci consente di tenere ferma l’idea che non tutto nella sofferenza psichica sia da concepire come mera variazione quantitativa in un qualche continuum dimensionale che va dalla normalità alla patologia. Una simile rappresentazione della patologia psichica sarà utile ed appropriata in molteplici casi, ma non lo è sempre. Anzi, probabilmente, siamo di fronte ad una rappresentazione che è sempre solo parziale: nel senso che, come è stato notato infinite volte, ogni condizione di sofferenza o patologia psichica vissuta, pur essendo correlata al concorso di alterazioni rappresentate in termini quantitativi, non è solo quantitativamente, ma anche qualitativamente altra rispetto alla salute17. L’elemento categoriale permette, allora, di cogliere anche questi 17 Inoltre, non potrebbero esserci «fenomeni che esistono solo nella patologia e che non hanno un corrispettivo normale?» (M. Aragona, Aspettando la rivoluzione, cit., p. 161, e, più ampiamente, G. Vella, M. Aragona, Metodologia della diagnosi in psicopatologia, cit., pp. 144-148, 154-158, 202-210). Più in generale, come è stato osservato: «si deve […] operare una distinzione tra il fenomeno in toto, che è categorialmente non misurabile, e le sue carat- 64 Epistemologia e clinica aspetti qualitativi e di significato complessivo, e di non dover sempre ridurre la patologia psichica al mero epifenomeno additivo di più fattori, o più dimensioni. Come minimo, si tratta qui di riconoscere che, perfino limitandosi a impiegare l’armamentario quantitativo-dimensionale, può risultare che «more (o less) is different». In psichiatria, cioè, una anomalia patologica operazionalizzata in termini di variazione in un continuum quantitativo, ha anche un correlato qualitativo nella modificazione dell’esperienza vissuta, che l’approccio quantitativo-dimensionale contribuisce a illuminare, ma non esaurisce: per coglierlo, abbiamo anche bisogno del concorso sintetico dell’elemento categoriale18. 1.3. Profili epistemologici: tra etichette e sostanze Pare, però, che, anche al di là delle singole caratteristiche discusse o discutibili delle classificazioni categoriali, il vero nodo problematico e cruciale sia anche di natura epistemologica più generale. E riguardi soprattutto il modo in cui interpretiamo il ruolo delle categorie psichiatriche e la natura dei loro correlati. Si può, infatti, sospettare che, non di rado, sia quanti difendono, sia quanti rigettano in linea di principio le tassonomie categoriali condividano, paradossalmente, lo stesso modello epistemologico circa la natura, il ruolo e i correlati di queste. E, dunque, in un caso si difenda il ricorso alle categorie ritenendo che (almeno a certe condizioni) sia possibile soddisfare con successo determinati standard, nel caso contrario, si rifiuti il ricorso alle categorie perché si ritiene che non potrebbero mai rispettare quegli stessi standard. Opzioni opposte circa la legittimità delle diagnosi categoriali avrebbero, così, alle spalle un medesimo impianto epistemologico, non messo in discussione. Proprio tale impianto potrebbe, però, costituire un aspetto problematico e da discutere. Mi riferisco al principio-guida, in genere implicito, secondo cui, di fatto, una categoria per essere legittima dovrebbe necessariamente individuare un tipo (di sostanze o di entità per sé sussistenti) che appartiene al “vero arredo ontologico del mondo”, ed essere definita in teristiche formali. Infatti alcuni degli aspetti formali dei fenomeni psicopatologici categoriali (ad esempio, la frequenza di un fenomeno, oppure la sua durata, o l’intensità) si modificano quantitativamente e dunque sono misurabili» (ivi, pp. 216-217). 18 L’esigenza di sintesi, sia chiaro, non va nel senso di ‘esaurire’ la persona in quella etichetta o in quei criteri tassonomici: ogni persona, del resto, è sempre più della somma di tutte le sue caratteristiche o manifestazioni. Al contempo, però, la clinica non cura una o più affezioni staccate dalla persona che le ha: cura una/la condizione patologica di quella persona. Epistomologia e classificazioni psichiatriche 65 rapporto ad essa, secondo un modello che ha come esempio guida le tradizionali tassonomie naturalistiche: da quella delle particelle elementari, alla tavola periodica degli elementi chimici, alle tassonomie botaniche o zoologiche (assunte e interpretate alla luce del senso comune). Le categorie psichiatriche finiranno così per essere concepite al modo di quelli che in filosofia vengono definiti predicati sortali puri. Se questo è lo standard di riferimento, i criteri definitori di ciascuna categoria/classe non potranno poi che essere criteri immutabili, esatti, non graduabili, acontestuali. Una simile opzione sembra figlia di quella ben più generale, ostinata inclinazione che tanto preoccupava Wittgenstein: (Ci troviamo di fronte ad una delle grandi fonti di disorientamento filosofico: noi cerchiamo una sostanza [substance] in corrispondenza di un sostantivo [substantive], un sostantivo ci induce a cercare una cosa che corrisponda ad esso)19. Proprio per questo si tratta di un commitment pre-disciplinare difficile da superare e particolarmente pericoloso in psichiatra. Se veniamo infatti allo specifico psichiatrico, Kendell e Jablensky in un loro influente lavoro hanno descritto qualcosa di simile parlando di una «Implicit ‘Disease Entity’ Assumption»: Thoughtful clinicians have long been aware that diagnostic categories are simply concepts, justified only by whether they provide a useful framework for organizing and explaining the complexity of clinical experience in order to derive inferences about outcome and to guide decisions about treatment. Unfortunately, once a diagnostic concept such as schizophrenia or Gulf War syndrome has come into general use, it tends to become reified. That is, people too easily assume that it is an entity of some kind that can be invoked to explain the patient’s symptoms and whose validity need not be questioned. Even though the authors of contemporary nomenclatures may be careful to point out that “there is no assumption that each category of mental disorder is a completely discrete entity with absolute boundaries dividing it from other mental disorders or from no mental disorder” (DSM-IV, p. xxii), the mere fact that a diagnostic concept is listed in an official nomenclature and provided with a precise, complex definition tends to encourage this insidious reification20. La psichiatria attuale sembra assai distante dal fornirci categorie 19 L. Wittgenstein, The Blue and Brown Books, Blackwell, Oxford 1958; trad. it. Libro blu e libro marrone, Einaudi, Torino 1983, p. 5. 20 R. Kendell, A. Jablensky, Distinguishing Between the Validity and Utility of Psychia- 66 Epistemologia e clinica che risultino plausibili e adeguate alla luce di un simile assunto reificante e degli standard metafisici che ne derivano. In prospettiva futura, tener ferma questa impostazione non potrà, allora, che generare: o (x) la speranza “dimensionalista” di superare il modello categoriale, ritenuto inseparabile dal rispetto di questi standard (ossia: eliminare il sostantivo, perché non si trova la sostanza); oppure (y) la speranza naturalista di giungere a un modello categoriale finalmente adeguato a questo standard, perché basato sulla definizione (e non la semplice correlazione) dei diversi tipi di disturbi in termini di loro fattori eziopatogenetici canonici, o comunque di fattori (quali sono quelli indicati da Kendell e Jablensky) che garantiscano bordi netti come quelli di entità naturali ai referenti delle categorie valide (ossia: trovare la sostanza, per legittimare il sostantivo). Abbiamo qui, come detto, due esiti opposti, ma che sembrano derivare, almeno in parte, da un medesimo retroterra epistemologico che a me pare costituisca un nodo cruciale della filosofia della psichiatria. 1.3.1. Finalità e natura dei modelli scientifici. Rispetto a una comprensione che giudica legittime le classificazioni categoriali solo se colgono le oggettive articolazioni metafisiche dell’arredo del mondo o della mente (e sono da queste definite), sembra più plausibile pensare che le classificazioni e i modelli in psichiatria si caratterizzino per un’altra, più modesta finalità primaria: essi, prima che mirare a cogliere la natura ultima della realtà, organizzano in modo sintetico, e illuminano in modo coerente i caratteri salienti, le manifestazioni rilevanti e i fattori determinanti delle condizioni patologiche della psiche, stabilendo anche nessi di regolarità, prevedibilità e cura, in ragione delle possibilità e degli interessi epistemico-operativi di chi li costruisce. Del resto, i modelli scientifici dei fenomeni non esistono, né valgono di per sé, in maniera assoluta, ma selezionano sempre alcune caratteristiche dei fenomeni che modellizzano e li rappresentano in base alle capacità, tric Diagnoses, in «The American Journal of Psychiatry», 160, (2003), n. 1, pp. 4-12: p. 5; cfr. DSM – IV – TR. Diagnostic and Statistic Manual of Mental Disorders, American Psychiatric Association, Washington 2000, trad. it. DSM – IV – TR. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Masson, Milano 2002, p. 9; T. Thornton, Essential Philosophy of Psychiatry, cit., pp. 180-182 e 198-202. Sull’ontologia delle tassonomie psichiatriche, anche C. GabbaniG. Stanghellini, What Kind of Objectivity Do We Need for Psychiatry? A Commentary to Oulis’s Ontological Assumptions in Psychiatric Taxonomy, in «Psychopathology. International Journal of Descriptive and Experimental Psychopathology, Phenomenology and Psychiatric Diagnosis», 41 (2008), n. 3, pp. 203-204. Epistomologia e classificazioni psichiatriche 67 le scelte e le finalità della comunità che li costruisce e impiega. Come ha argomentato Bas van Fraassen, dunque, la relazione di rappresentazione ha struttura triadica, non diadica, e dovremmo dire non «X rappresenta Y», ma «Z usa X per rappresentare Y come un F», poiché «There is no representation except in the sense that some things are used, made or taken, to represent some things as thus or so»21. Nella loro summa sulla filosofia della psichiatria, Fulford, Thornton e Graham22 hanno felicemente indicato il cambiamento di paradigma necessario in questo senso come il passaggio all’idea che, per usare una espressione di Sartorius, «A classification is a way of seeing the world at a point in time», abbandonando una «absolute conception» (Bernard Williams) «derived from such paradigms as the Chemical Periodic Table», secondo cui «as science is about what the world is really like, classification should be, not a way, but the way of seeing the world». Si tratterebbe, perciò, di favorire: «The shift from ‘the’ to ‘a’ valid scientific way of seeing the world». Questo non implicherà certo che ‘anything goes’: significherà, semmai, cambiare alcuni degli standard in base ai quali giudichiamo se un modello o una classificazione sono o no adeguati. Così, riconcepire in queste direzioni la natura e la funzione di una classificazione potrà voler dire anche modificare degli assunti invalsi circa i criteri che una buona classificazione deve rispettare per essere dotata di affidabilità (test-ritest; interrater reliability), utilità, e dei vari tipi di validità. Non si tratta, sia chiaro, di far collassare il concetto di validità in quello di mera utilità: la loro distinzione normativa è irrinunciabile. Si tratta, però, come già osservavano Kendell e Jablensky: «to clarify what is implied when a diagnostic category is described as having high validity, or simply as being valid»23. Ad esempio, in prospettiva epistemica un costrutto avrà validità se permette di conoscere 21 B. van Fraassen, Scientific representation: Paradoxes of perspective, Oxford University Press, Oxford-New York, 2008, p. 23. 22 B. Fulford, T. Thornton, G. Graham, Oxford Textbook of Philosophy and Psychiatry, cit., pp. 376-377. Anche secondo Ian Hacking il modello botanico di Linneo, come quello chimico, avrebbero costituito un ideale sviante per la psichiatria: «There have been many systems for classifying mental illness [...], but all seem to me to be on the botanical model, and that has been their fatal flaw» (Lost in the Forest, in «London Review of Books», XXXV (August 2013), n. 15, pp. 7-8: p. 8). M. Aragona, Storia e criteri dei paradigmi nosografici, cit., p. 382. 23 R. Kendell, A. Jablensky, Distinguishing Between the Validity and Utility of Psychiatric Diagnoses, cit. Epistemologia e clinica 68 e operazionalizzare (meglio di altri) davvero il fenomeno che si intende indagare. Ma, allora, a quali standard dovrà corrispondere un costrutto per essere “valido” dipenderà, appunto, dal carattere di ciò che con esso si intende descrivere, misurare, prevedere e non potranno essere fissati standard generici di validità per ogni tipo di classificazione. Non possiamo, cioè, chiedere a una classificazione di soddisfare gli stessi tipi di requisiti sia che individui tipi di animali, sia che individui, ad esempio, tipi di professioni. E, dunque, non sarà affatto ovvio che una classificazione psichiatrica debba essere giudicata valida in base agli standard che valgono per le classificazioni riguardanti entità naturali discrete: perché non è detto che siano di questo tipo i correlati che essa intende e può classificare. In altre parole, bisognerà evitare di associare alla nozione di validità degli standard implausibili o fuori luogo, assumendo che vi sia un unico criterio di validità per ogni nostra possibile classificazione. E, forse, nemmeno per ogni categoria valida relativa ai tipi di condizioni patologiche che devono essere inclusi in un sistema di classificazione psichiatrica. Del resto, come ha notato Thornton: «All the virtues of taxonomy […] are merely virtues seen from the perspective of a particular approach to scientific psychiatry, not a comment on that somehow from the outside»24. 1.3.2. Natura del correlato. Questo ci conduce alla necessità di una riflessione circa la natura dei correlati delle nostre categorie e classificazioni psichiatriche, ossia circa quello cui esse intendono riferirsi. In effetti, da sempre ci si è chiesti se certe categorie nosografiche in psichiatria abbiano o meno dei correlati reali. Forse, però, il punto sarebbe piuttosto chiedersi che tipi di realtà siano i loro correlati, una volta accettato che essi, almeno nel caso delle nostre migliori categorie, esistono ‘realmente’ (ossia, anche in indipendenza dalla teoria). Non si tratta, cioè, in linea generale, tanto di sollevare dubbi sistematici, o di rimanere agnostici sull’impegno ontologico circa l’esistenza di quel complesso di fenomeni dei quali la teoria deve rendere conto. Si tratta, semmai, di chiedersi per che cosa esattamente prendiamo un impegno ontologico, ossia che statuto attribuiamo ai correlati delle nostre migliori categorie tassonomiche. Poiché è la prospettiva naturalistica quella che oggi appare spesso come la più accreditata a fornirci i “veri” correlati per le nostre migliori categorizzazioni psichiatriche, converrà discutere della questione a 24 T. Thornton, Essential Philosophy of Psychiatry, cit., pp. 198-199. Epistomologia e classificazioni psichiatriche 69 partire da questa impostazione. La componente naturalistica delle categorie psichiatriche (quella, ad esempio, che rimanda a fattori eziopatogenetici situati sul livello genetico, molecolare, neurobiologico etc.) è e, probabilmente, sarà sempre più di rilievo decisivo non solo per sostanziare le nostre classificazioni psichiatriche, ma anche per contribuire a strutturarle in un certo modo, piuttosto che in un altro. Ora, però, un conto è esigere che le nostre migliori classificazioni siano concepite dando il massimo spazio possibile anche a questa componente, tutt’altro è pensare che tutte le nostre categorie psichiatriche possano e debbano essere definite in base a tale componente soltanto, come se avessero quale proprio referente effettivo solo un dato naturalistico di livello sub-personale. Un dato che, in tal caso, da fattore rilevante del fenomeno complessivo di interesse psichiatrico, diverrebbe il fenomeno stesso: ovvero, tutto e solo ciò che alla psichiatria interessa. In effetti, non appare né possibile, né opportuno ridurre il correlato delle nostre migliori categorie psichiatriche solo ad un simile dato. E non certo perché tale componente naturalistica venga rifiutata o ritenuta inessenziale, bensì perché l’approccio psichiatrico rimanda a qualcosa che deve includere tale componente, ma è anche altro e di più. Si mira, infatti, a individuare un tipo di condizione patologica della mente di una persona, che potrà, sì, essere ricollegata alla presenza degli appropriati fattori eziologici o fisiopatologici di tipo naturalistico, ma che non può mai essere identificata, definita e caratterizzata solo in riferimento ad essi. Anzi, in certa misura, saranno proprio le componenti sintomatiche, fenomenologiche, dinamiche, comportamentali, personali che contribuiranno a dare il significato giusto, il valore adeguato, il ruolo appropriato alle risultanze dell’indagine naturalistica (e ovviamente, su un altro piano, esisterà anche un contributo inverso). Tali componenti, cioè, contribuiranno in modo decisivo a farci giudicare l’anomalia come patologia, ossia, a farci valutare che il dato risultante dall’indagine naturalistica è sistematicamente connesso all’emergere di una condizione personale che (anche in base a criteri normativi e contestuali) abbiamo ragione per valutare come patologica: e sarà, appunto, la condizione psichica patologica di una persona25, 25 Associo alla categoria di “persona” un tipo di impegno ontologico molto diverso da quello che reputo necessario per legittimare una categoria psichiatrica (cfr. C. Gabbani, Per un’epistemologia dell’esperienza personale, Guerini e Associati, Milano 2007). Questo perché nel caso della persona i fenomeni personali hanno bisogno della persona come loro effettivo spazio reale e logico di possibilità e di intelligibilità (nel senso che esistono e diventano intelli- 70 Epistemologia e clinica nel suo carattere stratificato e multidimensionale, a costituire il vero correlato del discorso psichiatrico26. Un correlato, dunque, irriducibile a un unico, semplice fatto, sia pur decisivo come sono quelli che l’indagine naturalistica può esibire, su un piano genetico e/o neurobiologico. Del resto, oggi gli stessi modelli generali di spiegazione causale per i disturbi mentali sembrano inclinare verso una strutturazione pluralista, che prevede l’interazione di tipi diversi di fattori situati su più livelli: da quelli che pertengono all’indagine naturalistica oggettiva, a quelli che riguardano invece vissuti, credenze e valori soggettivi27. Le categorie di una classificazione psichiatrica sembrano, quindi, chiamate sempre più a compiere anche questo ulteriore e decisivo lavoro di sintesi: non permettere mai che la psichiatria divenga psichiatria a una dimensione, fatta solo di determinanti naturalistiche o solo di vissuti soggettivi, solo neurobiologica, poniamo, oppure solo clinica e comportamentale, ma consentirle di tendere alla integrazione, nella distinzione, e all’equilibrio tra più componenti, irriducibili, e però tutte essenziali per la caratterizzazione del particolare tipo di condizioni patologiche delle quali essa deve farsi carico28. gibili in quanto appartengono a una persona). Ciò non è invece richiesto necessariamente nel caso delle categorie psicopatologiche, e proprio perché la presenza della persona rende concepibile che il loro correlato che non sia un’entità, ma un modo di essere (della persona) manifesto in una molteplicità di sintomi e segni. 26 Così, solo per fare un esempio, il correlato di certe categorie di disturbi di personalità, sembra essere rappresentato da un dato modo di essere complessivo ed unitario della persona. Sarebbe, perciò, improprio e non proficuo considerare tale correlato come una cosa tra le altre, e, perciò, anche come una entità o un processo entro l’arredo naturalistico del mondo (al pari di un virus, di una lesione, di una mutazione genetica), oppure definire simili categorie solo in termini di alterazioni e disfunzioni (che pure possono essere sistematicamente connesse alla presenza di tali disturbi). 27 Per un approccio pluralista e multilivello alla spiegazione causale in psichiatria, è da vedere R. Campaner, Philosophy of Medicine. Causality, Evidence and Explanation, ArchetipoLibri, Bologna 2012, capp. 8-9, in particolare, le osservazioni svolte nel § 8.3 (pp. 124130), a partire dalla posizione di Kenneth Schaffner, con riferimento al quale Campaner nota: «This multilevel, non-reductionist, prototypical approach goes together with the suggestion that the diagnosis of individual patients should include both (provisionally) objective and subjective elements, multiple levels, and beliefs and values of both the patient and the treating psychiatrist» (p. 130). 28 Trattando delle polemiche connesse all’apparizione del DSM-V, Ian Hacking (Lost in the Forest, cit., p. 7) ha recentemente considerato l’ipotesi che in futuro coesistano un sistema classificatorio per i clinici ed uno diverso per i ricercatori («there is indeed cause for concern, but there is no principled contradiction between having a manual for clinicians and Epistomologia e classificazioni psichiatriche 71 Un simile invito all’integrazione presta, inevitabilmente, il fianco all’osservazione per cui questa, in generale, non potrà realizzarsi pacificamente, come semplice aggiunta conservativa di nuove informazioni (connesse ad un certo livello di analisi), a quelle che già possediamo e in base alle quali una condizione patologica è stata classificata fin qui. Questo è probabilmente anche uno dei motivi per cui, molto spesso, gli approcci basati sui diversi livelli di caratterizzazione della patologia si sono presentati come alternativi29. Oppure, si è visto addirittura una «distanza incolmabile» tra i diversi livelli esplicativi30. different guidelines for research. I do not deny there is a tension, but the two can coexist well enough»). Che questo possa avvenire non è da escludere, come non si può escludere che, in certi casi e per certi scopi, classificazioni di tipo differente possano essere proficue. Ancor più ragionevole è che non tutti i contesti vengano vincolati in ogni circostanza all’adozione delle classificazioni prevalenti. Ma, dato il ruolo essenziale che sembra possa giocare in psichiatria proprio il tentativo di sintesi tra più livelli diversi di analisi, non credo che classificazioni separate e programmaticamente “a una dimensione” (genetico-neurologica vs. sintomatica), solo per ricercatori, oppure solo per clinici, rappresenterebbero alla lunga un esito desiderabile e proficuo. In ogni caso, come detto in apertura, tutto il discorso svolto fin qui si riferisce a possibili sistemi di classificazione in psichiatria che mirino ad una qualche forma di utilizzo da parte dei clinici (anche solo a scopi epidemiologici). 29 Sul confronto tra impostazione descrittivista vs. impostazione eziopatogenista, cfr. M. Aragona, Aspettando la rivoluzione, cit., pp. 148-155. 30 F. Di Paola, L’istituzione del male mentale. Critica dei fondamenti scientifici della psichiatria biologica, manifesto libri, Roma 2000, cap. 2, p. 60. In una prospettiva di critica ai programmi di psichiatria biologica, egli ha parlato di «distanza incolmabile tra i livelli esplicativi ‘bassi’ (geni, molecole etc.), quelli descrittivi intermedi (sistemi o tessuti o metabolismi cerebrali), e infine quelli ‘alti’ che dovrebbero essere ‘spiegati’ (sintomi o sindromi psichiatricamente definiti)», per cui si finirebbe solo con il correlare cause incerte a effetti indefiniti (cfr. p. 56). Che il problema dell’interfaccia tra livelli sia reale e decisivo, e che certe spiegazioni eziologiche siano erronee, semplicistiche e premature è vero. Ma una contrapposizione in linea di principio tra livelli lascerebbe perplessi, anche perché essa pare già presupporre la estraneità reciproca che intende provare. Infatti, in genere, nella scienza è anche grazie alla interazione tra diversi livelli che le categorizzazioni possono lentamente raffinarsi in funzione dei loro scopi propri. Non solo la psichiatria, ma nessuna scienza ha mai sviluppato una tassonomia fenomenologica definitiva alla quale poi, con una correlazione interteorica perfetta, ha semplicemente connesso le risultanze di altri livelli di analisi. In tutti i processi di ricerca, piuttosto, si parte dalle categorizzazioni disponibili, ma senza assumerle come intangibili e adeguate, e sarà poi anche una interazione multilivello a permettere il processo autocorrettivo di revisione delle categorizzazioni entro e tra i livelli. Per questo, invece di esasperare il problema autentico della distanza tra livelli, è forse utile saggiare se questo problema, che non ha una soluzione generale, possa via via trovare soluzioni locali, legate alle singole condizioni patologiche e categorie tassonomiche: perché proprio essere all’altezza del dinamismo indotto da questa indubbia tensione è uno dei compiti costitutivi della ricerca psichiatrica. 72 Epistemologia e clinica Le difficoltà di connettere livelli di analisi differenti sono senza dubbio grandi e reali, ma non tali, a mio parere, da mettere in dubbio la validità del principio regolativo secondo cui il traguardo ideale verso il quale tendere, da un punto di vista epistemologico, è costituito dalla integrazione di più livelli di analisi nel caratterizzare ciascuna categoria psichiatrica. Le difficoltà e le obiezioni incidono, semmai, sulle forme possibili della sua odierna attuazione. Questa integrazione tra i diversi tipi di fattori avrà, poi, inevitabilmente, punti di equilibrio che dovranno essere individuati specificamente, di volta in volta, per ciascuna categoria diagnostica, e anche in ragione delle conoscenze di fatto disponibili al momento. Allo stesso tempo, una tale ricerca avrà effetti revisionistici e “rivoluzionari” sui sistemi di classificazione attuali, che solo in parte sono già prevedibili e che, in ogni caso, saranno in parte diversi a seconda delle singole categorie. A questo proposito, Massimiliano Aragona ha osservato come non sarebbe necessario che una classificazione diagnostica in psichiatria «sia impostata in modo uniforme». Del resto, egli ha ricordato, tra le categorie diagnostiche in medicina alcune sono definite in base al sintomo preminente, altre in base al quadro sindromico, altre in base alle alterazioni fisiopatologiche, altre in base all’etiologia. Ovviamente ciò fa perdere in coerenza, ma ha l’enorme vantaggio di lasciare campo aperto alla ricerca [...]31. È una considerazione assai opportuna e proficua. Rispetto ad essa, l’invito di queste pagine vorrebbe essere, però, quello a considerare l’ipotesi che in psichiatria questo pluralismo multidimensionale non rappresenti soltanto una opzione pragmatica (legata ai limiti del nostro sapere) e da declinare a seconda delle categorie (scegliendo in un caso un approccio sintomatico, nell’altra uno eziologico etc.), quanto piuttosto uno stabile principio regolativo, la cui applicazione varia nel tempo, ma che si declina anche entro ogni categoria psichiatrica (nel senso che, idealmente, ciascuna categoria dovrebbe integrare tutti i diversi livelli di approccio coinvolti dalla condizione patologica cui essa si riferisce). In psichiatria, cioè, prima che le classificazioni, potrebbe31 M. Aragona, Aspettando la rivoluzione, cit., pp. 195-196. Anche Maj ha osservato che «different classification strategies may be needed for the various areas of psychopathology» (M. Maj, ‘Psychiatric comorbidity’: an artefact of current diagnostic systems?, in «The British Journal of Psychiatry», 186 (2005), pp. 182-184: p. 184). Epistomologia e classificazioni psichiatriche 73 ro essere miste le categorie stesse. Anche se, naturalmente, è poi ben possibile che, a seconda del tipo di condizione alla quale ci riferiamo, una componente abbia un ruolo prevalente rispetto alle altre nel definire una data categoria diagnostica. Non v’è dubbio che la prospettiva di fondo che è stata qui sommariamente disegnata possa innescare una tensione (cooperativa) tra formae mentis, metodi, apparati concettuali e livelli di analisi differenti, che potrebbe anche tradursi in una contrapposizione volta a stabilire quali livelli di analisi, in caso di conflitto, debbano prevalere. Questione alla quale, come detto, probabilmente non esiste una risposta atemporale e di carattere generale (cioè valida per qualunque condizione psicopatologica). Ma il punto è che questa tensione, pur con tutte le difficoltà che porta con sé, sembra, almeno in parte, una tensione costitutiva dello spazio epistemico proprio della psichiatria, in ragione della natura stessa che hanno i fenomeni dei quali essa si occupa. E, dunque, l’aspirazione ad una integrazione equilibrata sembra poter rappresentare almeno un utile principio regolativo32. 2. Loops (... influenti...) Le categorie e le classificazioni psichiatriche, oltre a essere costrutti epistemici di sintesi, sono influenti, nel senso che influiscono in modo peculiare su quanto classificano. Ciò significa che le categorie e le classificazioni con le quali rendiamo conto della condizione psichica di una persona possono influire direttamente sulla condizione psichica di quella persona, quando essa ne venga a conoscenza. In altre parole, tali categorie possono incidere sui fenomeni stessi cui si riferiscono. È questo 32 Tendere idealmente verso categorie multidimensionali potrebbe forse anche concorrere ad affrontare il problema di quella che viene spesso avvertita come una eccessiva diffusione di diagnosi multiple in psichiatria (una condizione legata, cioè, non ad una effettiva presenza di più patologie in un soggetto, ma all’attribuzione ad esso di molteplici diagnosi, in ragione dei limiti delle particolari categorie diagnostiche in uso): infatti, il ricorso a livelli di analisi molteplici, potrebbe portare ad avere categorie diagnostiche con maggiori fattori specifici caratterizzanti e distintivi, limitando la comorbidità, se spuria. Non è possibile, però, approfondire qui questa questione di grande rilevanza e complessità, per la quale cfr. G. Vella-M. Aragona, La comorbidità in psichiatria, in «Nóos», I (1998), pp. 37-62; M. Maj, ‘Psychiatric comorbidity’, cit.; M. Aragona, Aspettando la rivoluzione, cit., passim; M. Jakovljević - Ž..-Crnĉević, Comorbidity as an epistemological challenge to modern psychiatry, in «Dialogues in Philosophy, Mental and Neuro Sciences», 5 (2012), pp. 1-13. 74 Epistemologia e clinica un tratto che, sotto alcuni punti di vista, può risultare distintivo delle classificazioni psichiatriche, rispetto ad altri generi di tassonomie. 2.1. «Biocircolarità» e «interattività» delle classificazioni In anni recenti la riflessione sull’effetto provocato da certe nostre classificazioni sui propri oggetti, e da quelle psichiatriche in specie, è stata promossa in epistemologia specie da Ian Hacking33. Nella sua analisi mi pare emergano specialmente due processi connessi a questa influenza, e che ritengo importante tenere distinti. Un primo aspetto, si lega a un fenomeno più generale, che Hacking ha definito «biocircolarità». La tesi della biocircolarità è quella per cui gli stati mentali (x) influenzano e (y) sono influenzati dagli stati fisiologici. Hacking ha espresso (x) affermando: «I cambiamenti di idee possono cambiare i nostri stati fisiologici». E ha osservato: Prendiamo un gruppo di pazienti cui è stata diagnosticata una depressione, che migliorano quando vengono sottoposti a un trattamento puramente comportamentale. Non c’è intervento chimico di nessun genere, solo una terapia psicocomportamentale. I risultati indicano che i livelli di serotonina di coloro che migliorano sotto un tale trattamento sono vicini ai livelli dei pazienti non depressivi, laddove prima dei trattamenti la serotonina era esaurita. […] chiamerò questo biocircolarità34. 33 Si veda già I. Hacking, Making Up People, in T.C. Heller et al. (eds.), Reconstructing Individualism. Autonomy, Individuality, and the Self in Western Thought, Stanford University Press, Stanford 1986, pp. 222-236; versione rivista in I. Hacking, Historical Ontology, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2002, pp. 99-114, trad. it. Ontologia storica, ETS, Pisa 2010, pp. 135-154 (prima versione del 1983). Su altri aspetti del pensiero di Hacking, cfr. M. Castiglioni, A. Corradini, Modelli epistemologici in psicologia. Dalla psicoanalisi al costruzionismo, Carocci, Roma 2003, pp. 87-96; G. Maglione, Naming and Looping. Studio sull’epistemologia della diagnosi psichiatrica in Ian Hacking, ilmiolibro.it, 2011, disponibile online: http://reader.ilmiolibro.kataweb.it/v/711884/Naming_Looping#!. Circa la consapevolezza e le conseguenza di questioni analoghe a quelle sollevate da Hacking, cfr. anche M. Armezzani, Esperienza e significato nelle scienza psicologiche, Laterza, Roma-Bari 2002, specie pp. 181-182. 34 Le citazioni sono tratte da I. Hacking, The Social Construction of What?, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1999, trad. it. La natura della scienza, McGraw-Hill, Milano 2000, rispettivamente pp. 99 e 100. Potrebbe essere interessante analizzare analogie, ma anche differenze tra quest’idea e la tesi di Eric Kandel secondo cui quando l’azione psicoterapeutica è efficace allora essa ha un effetto indiretto e durevole sull’apparato neuronale Epistomologia e classificazioni psichiatriche 75 Un secondo aspetto, strutturalmente dipendente dal primo, ma più specifico e radicale, ha poi attirato in particolare l’attenzione di Hacking: è quello della «interattività» e «circolarità classificatoria». Egli ha così focalizzato l’analisi su quelli che ha inizialmente chiamato «generi interattivi»35, dove l’interattività è, appunto, una caratterizzazione «che si applica non alle persone ma alle classificazioni, ai generi, a quei generi che possono influenzare ciò che è classificato». Il punto per Hacking è il seguente: Esiste un’interazione dinamica tra le classificazioni sviluppate dalle scienze sociali e gli individui o i comportamenti che vengono classificati. Il fatto di applicare una classificazione agli individui può influenzarli in modo diretto. Può anche cambiarli. Così, i tratti caratteristici dell’individuo di una classe data possono cambiare. La nostra conoscenza di questi individui deve allora essere rivista di conseguenza, e noi dobbiamo forse modificare le nostre stesse classificazioni36. In altre parole, saremmo di fronte a categorie che generano quello che Hacking ha definito un «effetto circolare», ossia che innescano in ciò a cui si riferiscono un mutamento tale per cui, poi, le categorie stesse potranno a loro volta mutare: Ciò che si sapeva sulle persone di un genere diventa falso perché le persone di quel genere sono cambiate in virtù di come sono state classificate, di quello che credono di se stesse, o a causa di come sono state trattate perché così classificate. Si crea un effetto circolare [a looping effect] (o anche ‘effetto valanga’)37. del soggetto in cura, cfr. Psychiatry, Psychoanalysis, and the New Biology of Mind, American Psychiatric Publishing, Washington-London 2005; trad. it. Psichiatria, psicoanalisi e nuova biologia della mente, Raffaello Cortina, Milano 2007. Su questo reciproca influenza tra stati mentali e fisiologici, anche A. Civita, Neuroscienze e malattia mentale, in A. Civita-D. Cosenza (a cura di), La cura della malattia mentale, cit., pp. 45 e 87-88. 35 Ivi, pp. 28-29 e cap. IV. La citazione successiva è tratta da p. 93. 36 I. Hacking, Plasmare le persone. Corso al Collège de France (2004-2005), a cura di A. Bella e M. Casonato, Quattroventi, Urbino 2008, p. 67. Ancora di recente Hacking ha sottolineato: «A diagnosis may also have [...] effects on how patients think of themselves, how they feel and how they behave. Especially since nowadays, when told their diagnosis, patients tend to look it up online. There they obtain a sort of stereotype of how they ought to be feeling and behaving» (I. Hacking, Lost in the Forest, cit., p. 7). Sulla «malleabilità degli individui» in ragione dell’uso dei concetti psicologici insiste anche S. Shamdasani, Jung and the Making of Modern Psychology. The Dream of a Science, Cambridge University Press, Cambridge 2003; trad. it. Jung e la creazione della psicologia moderna. Il sogno di una scienza, Magi, Roma 2007, pp. 29-30. 37 La natura della scienza, cit., p. 95; cfr. I. Hacking, Kinds of People: Moving Targets, in 76 Epistemologia e clinica Secondo l’interpretazione di Hacking, sarà allora di grande importanza essere consapevoli di come il processo classificatorio possa aprire delle vere e proprie nuove «possibilità di esistenza» ai soggetti che apprendono di essere categorizzati in un certo modo. In risposta a ciò, potranno innescarsi in essi mutamenti che giungono fino a obbligarci a creare nuove e inedite categorie per tenere conto delle trasformazioni avvenute: trasformazioni, si intende, dovute al processo stesso di categorizzazione e che non sarebbero avvenute in assenza di esso. Hacking ha studiato in dettaglio esempi di categorie candidate ad avere questo statuto (teorizzando soprattutto a partire da tali esempi). Per limitarci ad alcune di esse che possono più direttamente interessare la psichiatria, troviamo ad esempio: “personalità multipla” (poi “disturbo dissociativo dell’identità”)38, “fuga dissociativa”, “depressione”, “obesità”, “nevrosi”, “disabilità”, “teledipendenza”, “ritardo mentale”, “autismo”, “schizofrenia” etc. Nell’analisi di Hacking, le categorie psichiatriche svolgono, dunque, un ruolo centrale e, potremmo dire, di confine: poiché si tratta di categorie che sembrano riferirsi sia a caratteristiche sensibili alla classificazione e che mutano in base alle risposte ad essa, sia a proprietà naturali, indifferenti alla classificazione (perciò, analizzandole, «abbiamo bisogno di dare spazio […] sia al costruzionista che al biologo»)39. «Proceedings of the British Academy» CLI (2007), pp. 285-317: pp. 296-298 (al quale faccio riferimento; cfr. però Categorie di persone: un bersaglio mobile, in «La Rivista delle Politiche Sociali» 3 (2009), pp. 265-304). Per Hacking è decisivo non confondere questa idea di interattività con una sorta di costruttivismo radicale, del quale essa vorrebbe essere, anzi, il correttivo, nel senso che ne delimita le ragioni accettabili, opponendosi alla sua assolutizzazione. Il costruttivismo radicale: «suggerisce una strada a senso unico: la società (o qualche suo frammento) costruisce il disturbo (e questo è male, perché il disturbo non esiste realmente nel modo in cui viene descritto, o non esisterebbe in realtà se non fosse descritto). Introducendo l’idea di genere interattivo, voglio chiarire che abbiamo una strada a doppio senso, o piuttosto un labirinto di vicoli collegati» (La natura della scienza, cit., p. 105; cfr. I. Hacking, Kinds of People, cit., pp. 298-299 e 303). 38 Cfr. I. Hacking, Rewriting the soul. Multiple Personality and the Sciences of Memory, Princeton University Press, Princeton, 1995, trad. it. La riscoperta dell’anima. Personalità multipla e scienze della memoria, Feltrinelli, Milano, 1996. 39 La natura della scienza, cit., pp. 98-99. Hacking ha inizialmente ritenuto che i «generi interattivi» costituissero un insieme «ben definito», la cui presenza contribuiva a demarcare le scienze umani e sociali, da un lato, rispetto a quelle naturali, dall’altro, che risulteranno, invece, caratterizzate in termini di «generi indifferenti» (La natura della scienza, cit., p. 104; cfr. pp. 52-53, 98), ossia come classificazioni riferite a oggetti sui quali esse non possono incidere. In seguito, però, Hacking ha inteso escludere che esista una classe omogenea e distinta di veri e propri «generi» interattivi, appannaggio delle scienze umane (Kinds of People, cit., Epistomologia e classificazioni psichiatriche 77 In questa lettura, la categoria di “depressione”, ad esempio, da un lato, individuerà proprietà causali insensibili a ogni mutamento doxastico, dall’altro, sembra, però, anche avere tutte le caratteristiche della interattività. Essa esemplificherà, allora, quei tipi di categorie che manifestano effetti circolari, cioè, devono essere rivisti perché gli individui classificati in un certo modo cambiano in risposta a come vengono classificati. D’altra parte, molti di questi generi interattivi potrebbero individuare proprietà causali genuine, generi biologici, che, come tutti i generi indifferenti, sono ininfluenzabili, in quanto generi, da quello che noi sappiamo di loro40. Di conseguenza, parlare di “depressi” quando si cominciò a farlo per la prima volta poteva, forse, significare riferirsi a un tipo di fenomeno, o comunque a soggetti, diversi da quelli cui la stessa categoria si applica ora che essa è divenuta di dominio comune e ha dispiegato effetti massivi sulla rappresentazione e sulla autorappresentazione dei soggetti affetti. Ecco perché dovremmo anche accettare che, per così dire, i depressi non sono più gli stessi, da quando parliamo di “depressione”. 2.1. La «biocircolarità» come carattere pervasivo e distintivo delle categorie psichiatriche In una lettura moderata la interattività tra classificazioni e soggetti classificati in psichiatria è un fenomeno che può incidere sulla fenomenologia, l’autocoscienza, le modalità espressive e alcuni comportamenti dei pazienti, nonché sulla loro percezione da parte degli altri. Essa, quindi, può anche portarci ad arricchire e integrare le informazioni connesse alle categorie psichiatriche esistenti. In una versione più radicale, e in un senso pieno di “circolarità”, essa dovrebbe poi addirittura generare la necessità di coniare categorie e pp. 293 e 312; Plasmare le persone, cit., pp. 170-171, 179-182). Personalmente, ritengo necessarie quelle demarcazioni tracciate, almeno in una fase, da Hacking e in ragione delle quali la possibilità di indurre effetti interattivi e circolari si lega alla peculiarità degli ‘oggetti’ ai quali alcune categorizzazioni si riferiscono, e in particolare al fatto che la psichiatria è un sapere i cui oggetti sono soggetti agenti e autocoscienti (cfr. in questo senso La natura della scienza, cit., pp. 52-53), o loro caratteristiche, proprietà, condizioni di vita. Come egli notava, le persone reagiscono al modo in cui sono classificate, i quarks no: «acqua, solfato, cavallo, tigre, limone, sclerosi multipla, calore e giallo […]. Nessuno di questi è consapevole di venire così classificato […] i cavalli non sono diversi per il fatto di venire classificati come cavalli» (ivi, p. 97). 40 Ivi, p. 111. 78 Epistemologia e clinica classificazioni inedite (o radicalmente riviste), in risposta agli effetti di quelle esistenti. Ritengo che questo fenomeno sia in psichiatria meno pervasivo di quanto Hacking a tratti lasci intendere. Sembra trattarsi, infatti, di un fenomeno sociale, raro e innovativo. Davvero decisivo e pervasivo pare invece essere in psichiatria il fenomeno della biocircolarità (della quale l’interattività è un caso limite), in quanto fatto individuale, quotidiano e non innovativo, che si produce ogni volta che un soggetto applica alle proprie condizioni psico-fisiche delle categorizzazioni, o delle credenze. In altri termini, ogni volta che un soggetto apprende qualcosa circa la propria condizione psichica, questa in qualche misura muta e, più in generale, gli stati mentali sono, sì, influenzati dagli stati fisiologici, ma al contempo anche li influenzano. Per contro, solo raramente in psichiatria il fenomeno di circolarità messo in luce da Hacking sembra generare un grado di interattività, tra classificazioni e individui classificati, tale da incidere sulla struttura delle stesse classificazioni, fino a richiedere che esse si articolino in nuove, inedite categorie. E questo nonostante il fatto che abbiamo a che fare con categorie che individuano anche proprietà sensibili agli effetti della categorizzazione. Occorre, infatti, per prima cosa sottolineare che non ogni volta che sorgono etichette linguistiche nuove o diverse, allora abbiamo davvero a che fare con concettualizzazioni e classificazioni inedite. Ma, al di là di questo, non sembra così frequente che innovazioni intradisciplinari nella classificazione medica delle persone possano rendere per la prima volta disponibili tipi di esistenza che sarà utile considerare come veri e propri fenomeni psicopatologici specifici, nuovi e fin lì inaccessibili. Perché vi sia una interattività piena non basta, infatti, che una categorizzazione abbia un qualche effetto su colui che è classificato, e neppure che modifichi genericamente la sua condizione psichica. Bisogna che il retroeffetto sia specifico e massivo al punto da modificare proprio quelle proprietà che regolano la caratterizzazione e l’applicazione di una certa categoria tassonomica. Non solo. Se vogliamo parlare di nuove, inedite condizioni dei soggetti patologici, e quindi del bisogno di nuove, inedite categorie diagnostiche, allora le classificazioni dovrebbero incidere, non solo arricchendo o variando in qualche tratto la fenomenologia associata a una categoria già esistente, né solo mutando la condizione patologica nota A, in quella che può essere considerata una mera variante interna A1, oppure in una diversa condizione patologica B, già nota. Tutto questo, infatti, porterebbe a mutare la diagnosi degli individui, ma senza vera in- Epistomologia e classificazioni psichiatriche 79 novazione rispetto alle categorie già disponibili. Le classificazioni in uso, per generare effetti circolari di mutamento che incidano sulla propria stessa struttura e articolazione, dovrebbero indurre un mutamento che ingeneri un tipo di condizione patologica fin lì ignoto nei suoi tratti essenziali, e che dunque richiederà, a sua volta, una vera novità classificatoria. Quest’ultimo effetto radicale della biocircolarità pare costituisca un sommovimento nosografico non ordinario: non di frequente, infatti, accade che l’effetto sociale di una interpretazione diagnostica sia tale da costringerci a cercare categorie inedite per rendere conto del mutamento massivo che si è prodotto. Naturalmente non sarebbe coerente, dopo aver promosso un pragmatismo classificatorio, proporre ora prescrizioni assolute su ciò che conta e su ciò che non conta, su che cosa deve avere importanza e che cosa no nel classificare. E, anzi, se si studiano le variazioni nell’esperienza soggettiva e nell’espressione culturale di certe condizioni patologiche, come la depressione e l’obesità, oppure se ci si muove sul piano della “archeologia culturale”, le differenze contestuali, le variabili espressive e concernenti la rappresentazione della condizione patologica staranno legittimamente al centro dell’analisi41. Non solo: come detto, non è il caso di avere alcuna pregiudiziale contro la creazione di tutte le categorie diagnostiche che possono servire a rendere la psichiatria più adeguata ai propri compiti conoscitivi e terapeutici. Ma oggi, in genere, il reale bisogno di nuove categorie diagnostiche inedite dipende dall’effetto e dal combinarsi di fattori biologici e ambientali, di processi e contesti storici inediti, più di rado si lega direttamente all’influsso esercitato dalla diffusione di un altro costrutto diagnostico. Inoltre, se parliamo delle principali categorie psichiatriche destinate a scopi epidemiologici, comunicativi, di medicina preventiva e di orientamento diagnostico generale, sembra pragmaticamente ragionevole che esse siano, per lo più, costruite e caratterizzate in modo tale che i fenomeni che individuano e cui si applicano, pur essendo influenzati dalle classificazioni stesse, non siano, di norma, costitutivamente dipendenti da esse. Infatti, se questo avvenisse, avremmo probabilmente categorie troppo sensibili e interattive, oppure incapaci di co41 Ma in questo caso credo che bisognerà almeno guardarsi dall’assolutizzare tali differenze fino a ritenere che la storia dell’uomo, o la storia delle condizioni patologiche, sia fatta soprattutto di simili rotture, improvvise nascite e differenze. Al contrario, forse le stesse differenze storico-culturali concernenti un tipo di patologia sono pensabili e comprensibili proprio su uno sfondo influente di tacite invarianze. 80 Epistemologia e clinica gliere le invarianti che soggiacciono a certe mutevoli peculiarità espressive di una patologia. In altri termini, non credo che sarebbe proficuo, in sede medica, avere delle categorie diagnostiche che siano, in linea generale, a tal punto narrow e dipendenti da criteri culturalmente influenzati, da poter essere legittimamente applicate ad un paziente, solo se costui e/o il suo contesto geo-cronologico dispongono di certe specifiche concezioni e rappresentazioni, proprie di una data cultura. Naturalmente, questo non toglie in alcun modo che l’analisi idiografica debba poi tenere conto di tutti gli anche minimi mutamenti di espressione, comportamento, autorappresentazione e percezione sociale che la diagnosi classificatoria può generare. Ma, e torneremo su questo più avanti, una classificazione che fosse specifica e sensibile quanto un case-report abdicherebbe al proprio scopo. In definitiva, non c’è bisogno di desiderare categorie psichiatriche definite solo in termini neuroscientifici per ritenere che, plausibilmente, non sarebbe utile moltiplicare tali categorie ad ogni variare delle molteplici fenomenologie espressive, comportamentali e di rappresentazione connesse a una condizione patologica. Anche in questo caso, anzi, proprio il tentativo di evitare categorie classificatorie “a una dimensione” in psichiatria, imporrà di conservare un equilibrio dinamico e circostanziato, di volta in volta, tra più dimensioni e livelli di analisi, senza permettere che uno solo prevalga. In sintesi, allora, potremmo dire che (i) tutte le credenze concernenti la propria condizione clinica possono avere delle ricadute dirette sulla condizione psico-fisica della persona che nutre tali credenze: ricadute la cui intensità in certi casi giunge a interessare direttamente la clinica stessa, mentre in altri no. Esisteranno, poi, (ii) casi in cui questa ricaduta può incidere in modo significativo sugli stessi tratti rilevanti per la diagnosi originaria, e quindi anche sul modo in cui quella data persona è stata “classificata”; questo potrà, dunque, anche portare ad arricchire o variare alcuni tratti fenomenologici ed espressivi più tipicamente associati ad una diagnosi. Ma sarà solo quando questo retroeffetto specifico sarà particolarmente marcato e rilevante, concernerà una molteplicità di individui, e inoltre porterà a una condizione patologica i cui tratti essenziali erano fin lì inediti, che (iii) una certa categoria tassonomica avrà modificato il proprio referente fino al punto tale da sollecitare lo stesso sistema classificatorio a mutare e rinnovarsi con nuove categorie. Per queste e altre ragioni, sembra essere la biocircolarità, piuttosto Epistomologia e classificazioni psichiatriche 81 che l’interattività, il fattore che caratterizza ordinariamente le categorizzazioni psichiatriche. Inoltre, la biocircolarità pare anche un tratto distintivo e pervasivo di esse. Pervasivo, perché è qualcosa che può accadere a ciascuno, ogni giorno e per le più diverse condizioni psicopatologiche. Distintivo, perché tale effetto biocircolare non eclatante rappresenta una peculiarità che differenzia la psichiatria da un gran numero di saperi naturalistici. Le discipline naturalistiche, infatti, hanno oggetti che non possono essere direttamente e immediatamente influenzati in se stessi da credenze su loro proprietà, anche perché, per la maggior parte, si tratta di oggetti che non possono affatto nutrire credenze, oppure di proprietà comunque indifferenti alle credenze dei loro portatori. La psichiatria, pur avendo a che fare anche con proprietà di questo tipo («indifferenti»), ha al contempo a che fare con proprietà e condizioni sulle quali le credenze possono influire direttamente. Non solo: tra le discipline caratterizzate dalla biocircolarità, è forse l’unica per la quale ha propriamente e pienamente senso parlare in termini di biocircolarità diretta tra stati fisiologici e mentali. Una conoscenza circa la condizione psichica di un soggetto, come il sapere che sperimenta un episodio depressivo, può, infatti, influire direttamente e in alto grado sulla condizione psichica generale di quel soggetto (quando costui la apprende), e su quella stessa patologia psichiatrica, in specifico. Vi è, dunque, un alto livello di circolarità diretta. Nel caso di altri tipi di patologia (una frattura, una insufficienza renale, un tumore ecc.), invece, l’effetto su di essi delle conoscenze diagnostiche apprese dal paziente può essere significativamente inferiore, o, comunque, anche quando sia presente, risulterà mediato dall’induzione di un cambiamento che riguarda in primo luogo, appunto, la condizione psichica del paziente e non direttamente la patologia in oggetto. Un effetto di biocircolarità diretta, del resto, sembra prodursi solo quando abbiamo a che fare con le persone e proprio in rapporto a ciò che esse hanno di più distintivo. Infatti, perché vi sia l’effetto di una categorizzazione sullo stesso livello gerarchico cui essa si riferisce (e quindi una diretta circolarità di effetti) è necessario avere a che fare con persone, poiché solo le persone possono apprendere classificazioni che si riferiscono a loro stesse, ed essere sensibili ai significati di tali classificazioni e del loro uso. Ma, più in specifico, dovranno essere, in qualche misura, in gioco quelle caratteristiche distintive delle persone che possono essere influenzate direttamente da credenze: gli stati psi- 82 Epistemologia e clinica chici, appunto. Un tale effetto richiede, in definitiva, di essere in presenza di una condizione personale affrontata sul livello di analisi che è più proprio e distintivo di essa. Appunto questa considerazione ci conduce, allora, alla terza dimensione delle classificazioni psichiatriche che intendiamo affrontare. Prima di esaminarla, però, sarà il caso almeno di rimarcare come, questo carattere straordinariamente influente delle classificazioni e delle diagnosi psichiatriche imponga anche un atteggiamento di particolare cura a tutti coloro che (professionalmente, o non professionalmente) fanno uso di tali categorie. In particolare, appare essenziale essere sempre consapevoli di quanto il loro impiego possa incidere su ciò di cui esse parlano, su colui di cui parlano, sul modo in cui altri guarderanno a costui, finendo, non di rado, per ritenerlo “classificato” in un certo modo (anche se, in realtà, si tratta piuttosto del portatore di una patologia classificata in un certo modo). Tale effetto merita particolare cura perché ci dice come, toccando la sfera più preziosa, distintiva e personale di un essere umano, una diagnosi psichiatrica spesso non venga recepita soltanto, o primariamente, nei suoi tratti denotativi e scientifici, ma tenda facilmente a rivestirsi di caratteri valutativi, connotativi, assiologici, sovente ingiustificati e dannosi per la persona ammalata. 3. Persone (…non interamente naturalizzabili, che orientano la conoscenza e la cura della condizione psicopatologica di una persona) Per completare questo tentativo di caratterizzazione delle classificazioni psichiatriche vorrei conclusivamente soffermarmi ancora su due aspetti: 1. La questione del livello e del genere di analisi che sono più adeguati per la psichiatria, in ragione dei fenomeni e delle finalità che la caratterizzano. 2. La questione del rapporto tra costrutti concettuali sovraindividuali, come le classificazioni e le tassonomie, e gli aspetti irriducibilmente personali della singola condizione psicopatologica. 3.1. Fenomeni di interesse psichiatrico e livello di analisi personale/sub-personale Come abbiamo già avuto modo di dire, appare importante che le categorie alle quali la psichiatria fa ricorso non siano categorie “a una Epistomologia e classificazioni psichiatriche 83 dimensione”, cioè basate su una sola componente (eziologica oppure clinica etc.), ma che esse mirino sempre più a trovare un equilibrio dinamico e una sintesi tra dimensioni distinte, che pertengono livelli di analisi differenti, e che, però, sono tutte rilevanti quando abbiamo a che fare con le malattie della mente. In particolare, se l’obiettivo è la caratterizzazione di una condizione psichica della persona in quanto stato patologico, per poter rendere conto adeguatamente di essa, e per poter giudicare tale condizione come patologica sembra necessaria una integrazione tra aspetti situati su scale e in sfere diverse, mentre non basterebbe, ad esempio, concentrarsi soltanto sui correlati genetici o neurobiologici di essa. Dovranno, perciò, avere spazio adeguato anche la descrizione, l’analisi e l’interpretazione dei vissuti coscienti soggettivi che concorrono essenzialmente a determinare la qualità patologica di una data situazione personale. Ma accogliere questa esigenza fa tutt’uno, almeno attualmente, col dire che in psichiatria, accanto a strumenti e livelli naturalistici di descrizione e spiegazione, sono indispensabili anche strumenti concettuali di tipo non naturalistico (cioè non naturalizzabili su un piano epistemologico). Dunque, le stesse classificazioni psichiatriche non saranno interamente naturalizzabili. In effetti, quale sia il modo più adeguato di rendere conto dei fenomeni che caratterizzano la nostra esperienza soggettiva è, notoriamente, uno dei temi più dibattuti nella filosofia della mente recente. Ma sembra ragionevole sostenere che (come minimo allo stato delle cose) ci sono aspetti della nostra esperienza cosciente dei quali non saremmo in grado di rendere conto, che, anzi, scomparirebbero dal nostro sguardo, se non fosse conservato anche un approccio alla mente cosciente di tipo sintetico e contenutistico, ossia di carattere non scientifico-sperimentale. In particolare, Jennifer Hornsby42, riprendendo originalmente alcune tesi del primo Dennett, che aveva parlato di «personal and sub-personal levels of explanation»43, ha sostenuto che è impossibile rendere conto della mente cosciente, dei contenuti dell’esperienza se si abbandona il cosiddetto livello personale e sintetico di analisi, “scendendo” ai livelli sub-personali di analisi, o limitandosi a scomporre la mente in sub-agenzie funzionali. Così, ad esempio, sembra che un dolore o una decisione sarebbero essenzialmente travisati nella loro natura propria, se scegliessimo 42 J. Hornsby, Personal and Sub-Personal: A Defence of Dennett’s Early Distinction, in «Philosophical Explorations», III (2000), n. 1, pp. 6-24. 43 D. Dennett, Content and Consciousness, Routledge, London 19862, § 11, pp. 90-96. 84 Epistemologia e clinica di abbandonare il livello personale che ci permette di concepirli quali fenomeni unitari coscienti, con un preciso contenuto e determinate qualità, per analizzarli scompositivamente solo in base ai vari processi sub-personali che correliamo alla loro presenza. Per avere una conoscenza adeguata della mente cosciente sarà perciò, più in generale, necessario preservare sempre il ruolo autonomo di un livello personale e “mentalistico” di analisi. Un livello al quale, secondo Hornsby, dovremmo riconoscere anche una funzione autenticamente esplicativa. Se anche altri hanno diffidato di tale livello di categorizzazione e analisi, o suggerito, di limitare il rilievo ad esso conferito (approccio deflattivo), non pare che abbiano comunque potuto provarne la attuale dispensabilità, ossia la nostra possibilità di ottenere una adeguata conoscenza dell’esperienza cosciente, prescindendo dal suo contributo44. La rivendicazione di Hornsby circa la indispensabilità di un tale livello di analisi risulta, dunque, condivisibile e rilevante anche per la psichiatria. Credo, però, che le sue tesi richiedano alcune precisazioni e correttivi. Ad esempio, se è vero, come essa scrive, che possono esserci «personal-level facts no further illumination of which can be got by digging deeper», non sempre è così, o almeno non da ogni punto di vista. Il progresso delle scienze naturali e cognitive ha mostrato, infatti, come lo studio di quanto non si situa sul livello personale di analisi, lo studio ad esempio dei processi non solo impliciti, ma stabilmente subcoscienti, possa concorrere ad una migliore comprensione di fenomeni pure essenzialmente personali. In ogni caso, sembra legittimo che processi dei quali rendono conto analisi e indagini situate su livelli subpersonali possano incidere anche sulla nostra comprensione di fenomeni propri del livello personale di analisi45. Martin Davies, ad esem44 Mi riferisco ad esempio a J.L. Bermúdez, Personal and Subpersonal: A Difference without a Distinction, in «Philosophical Explorations», III (2000), n. 1, pp. 63-82. Sul problema dell’«interfaccia» e dell’interazione tra livelli è incentrato Id., Philosophy of Psychology: A Contemporary Introduction, Routledge, London, 2005; sul quale cfr. C. Gabbani (ed.), Forum on: J.-L. Bermúdez, Philosophy of Psychology: A Contemporary Introduction, in «Philosophy of Mind Forums», 3 (September 2006), SWIF – Edizioni Digitali di Filosofia (specie il saggio di A. Paternoster). 45 Mi limito a menzionare in questo caso, senza poter approfondire il tema, le ricerche sul cosiddetto inconscio cognitivo, ricerche che (anche senza volerne esagerare oltre modo il significato) sembrano poter apportare un contributo effettivo alla nostra conoscenza di feno- Epistomologia e classificazioni psichiatriche 85 pio, ha così proposto che la relazione tra livelli in questo caso si configuri meglio entro la prospettiva generale di una «interaction without reduction», nel senso che, da un lato, un resoconto in termini sub-personali non può fornirci «a fully satisfying explanation of personal-level phenomena», ma, dall’altro, «discoveries about information processing can constrain the empirical claims that we make about persons as such» (non è detto, però, che gli specifici argomenti di Davies a sostegno di questa tesi siano condivisibili)46. Più in generale, quello che importa sottolineare è che, se anche un fenomeno emerge come tale e manifesta le sue qualità essenziali solo sul livello personale di analisi, questo non significa che sia, né quanto alla genesi, né quanto alla spiegazione, irrelato e impermeabile rispetto a fenomeni che si producono su altri piani (piani sub-coscienti, piani sub-personali), che richiedono altri livelli di analisi, e ai quali, pure, esso sarà irriducibile. Decisiva sembra, perciò, essere non la autosufficienza, ma la indispensabilità del livello personale di analisi. Questo implica che, appunto, un resoconto adeguato dei fenomeni che caratterizzano la nostra attività cosciente, dei vissuti della nostra esperienza soggettiva, richiede sempre la presenza del livello personale di analisi in quanto solo con il suo concorso tali fenomeni, tali vissuti emergono per ciò che propriamente sono. Ma niente impone che tale livello di analisi debba sempre essere l’unico rilevante. È tra l’altro da notare che essenzialmente e irriducibilmente personali sono, appunto, i fenomeni con i quali abbiamo a che fare, primeni che pure emergono propriamente sul livello personale di analisi. Riferimenti classici in materia sono R.E. Nisbett-T.D. Wilson, Telling More Than We Can Know: Verbal Reports on Mental Processes, in «Psychological Review», LXXXIV (1977), pp. 231-259; J. Kihlstrom, The Cognitive Unconscious, «Science», 237 (1987), pp. 1445-1452. Per una prima introduzione a questo genere di tematiche, ad esempio D. Kahneman, Thinking, Fast and Slow, Penguin, London 2011; trad. it. Pensieri lenti e veloci, Mondadori, Milano 2012; M. Marraffa-A. Paternoster, Sentirsi esistere. Inconscio, coscienza, autocoscienza, Laterza, Roma-Bari 2013, cap. I. 46 M. Davies, Interaction without Reduction: the Relationship between Personal and Sub-personal Levels of Description, in «Mind & Society», I (2000), n. 2, pp. 87-105: pp. 9596; cfr. Id., Brain and Mind, in M.G. Gelder-N.C. Andreasen-J. J. López-Ibor-J.R. Geddes (eds), The New Oxford Textbook of Psychiatry Oxford University Press, Oxford, 20092, § 2.1, pp. 133-136. Ma per una prospettiva alternativa su questa interazione tra livelli, è da vedere L. Skidelsky, Personal-Subpersonal: The Problems of the Inter-level Relations, «Protosociology. An international journal of interdisciplinary research», XXII (2006), pp. 116-135. 86 Epistemologia e clinica ma che i livelli delle nostre analisi. “Personali” significa che essi appartengono alla persona (non a qualche sua parte, o sub-agenzia) e che sono complessivamente possibili e comprensibili solo entro la trama di un’esistenza personale. Ma questo non equivale a dire che per tutti questi fenomeni, o, meglio, per ogni aspetto di questi fenomeni, tutto ciò che di appropriato e rilevante può essere conosciuto si situi sul solo livello personale di analisi, inteso come autosufficiente ed isolato. In certi casi, invece, la conoscenza di fatti analizzabili su un livello sub-personale, scompositivo, naturalistico, può contribuire a gettare una luce maggiore o diversa su simili stati coscienti, portandoci a contestualizzare una credenza, una decisione, una spiegazione entro una cornice più ampia di quella che avremmo a disposizione limitandoci soltanto al livello personale di analisi (il che varrà, ad esempio, a collocarle entro il quadro di una certa modalità subcosciente di risposta emotiva, oppure di elaborazione cognitiva di dati e percezioni). Del resto, è il caso di ricordare che la persona si estende ben oltre il proprio apice autocosciente47. Ed anzi, essa costituisce la cornice per le diverse vicissitudini cui va incontro il nostro sé (o i nostri sé) lungo l’esistenza: ed è anche per questo che un concetto di persona così caratterizzato può essere più che mai prezioso oggi (e proprio a fronte della crisi di nozioni come quelle di “io”, “individuo”, “soggetto”, “coscienza” etc.)48. “Persona” individua, infatti, lo spazio reale e logico di possibilità e intelligibilità per la coesistenza, l’interazione, il conflitto, l’integrazione etc. tra quanto in noi è conscio e quanto è inconscio, quanto è volontario e quanto è involontario, quanto è naturale e quanto è culturale, quanto è sincronico e quanto è diacronico, quanto è permanente e quanto è mutevole, e, più in generale, quanto sta sul livello personale di analisi e quanto sta su livelli sub-personali. In quest’ottica, allora, l’importanza del livello personale di analisi non risalterà da una sua presunta autosufficienza, ma al contrario dal 47 Come ha ben notato Roberta De Monticelli: «L’essenziale è [...] che non si identifichi la persona con il momento di essa che si manifesta come <io>, come se non fosse se stesso che ciascuno pur sempre esprime nelle azioni e nelle risposte affettive, più o meno volontarie e più o meno consapevoli, che lo motivano» (L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire, Garzanti, Milano 2003, p. 91). 48 Cfr. C. Gabbani, Per un’epistemologia dell’esperienza personale, cit.; Id., Persona e pensiero, «L’Arco di Giano. Rivista di Medical Humanities», in corso di stampa; Id., Consciousness and the Concept of a Person, in M. Galletti (a cura di), Menti morali. Persone, ragioni, virtù, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, in corso di stampa. Epistomologia e classificazioni psichiatriche 87 fatto che anche fenomeni che studiamo su livelli sub-personali di analisi trovano il proprio interesse e il proprio significato in riferimento a quanto si situa propriamente sul livello personale di analisi, ovvero nell’aiutarci a comprendere meglio certi fenomeni che emergono sul livello personale di analisi e ai quali li correliamo. Se questo è vero, ne seguirà che nessun sapere circa la persona può prescindere dal livello personale di analisi, né limitarsi ad esso. L’irrinunciabilità del livello personale di analisi, cioè, non significherà che esso debba o possa operare in isolamento dagli altri livelli sub-personali. La sua presenza sintetica sarà sempre indispensabile e irriducibile, ma questo non toglie che sarebbe letteralmente miope voler guardare alla mente cosciente rinunciando ai vantaggi e agli arricchimenti che possono venire dal ricorso appropriato e giustificato a indagini poste sui vari livelli sub-personali, una volta che siano opportunamente “interfacciate” con il livello personale49. Possiamo, dunque, affermare che le classificazioni e le diagnosi psichiatriche non possono mai prescindere dall’incorporare anche un elemento di analisi di livello personale e sintetico per i fenomeni che trattano, e che questo le rende non interamente naturalizzabili. Ma possiamo anche aggiungere che le classificazioni, le categorie e i resoconti psichiatrici non possono limitarsi solo a tale livello personale di analisi, o isolarlo dagli altri livelli di analisi. Anzi, le categorie psichiatriche sono piuttosto chiamate, anche in questo caso, a svolgere sempre più una funzione di sintesi tra dimensioni, aspetti situati su scale e in sfere differenti (ciò che pertiene alla genetica, alla neurobiologia, allo studio delle sub-agenzie funzionali della mente etc.), per potere così caratterizzare e comprendere al meglio la condizione patologica stratificata e multidimensionale che hanno di mira. E se un qualche primato del livello personale di analisi esiste, non starà nella sua autosufficienza, ma, al contrario, nel fatto che tutte le conoscenze relative agli altri livelli di analisi sub-personali saranno cercate e impiegate sempre in vista del rilievo che esse possono avere in rapporto a fenomeni che emergono in pienezza e che sono concepibili propriamente, appunto, sul livello personale di analisi. 49 Il «problema dell’interfaccia» è quello relativo ai modi in cui sia possibile mettere in rapporto (interfacciare) il livello personale di analisi e le peculiari proprietà che emergono su tale livello, con i livelli sub-personali di analisi e i tipi di proprietà analizzabili su tali livelli. Cfr. Bermúdez, Philosophy of Psychology..., cit. 88 Epistemologia e clinica 3.2. Fenomeni di interesse psichiatrico e livello di analisi sovrapersonale Per quanto i nostri costrutti epistemici conservino uno spazio irriducibile al livello personale di analisi, sembrano però esserci aspetti essenziali di ogni singola condizione psicopatologica (significati, valori, immagini, singoli contenuti, dimensioni teleologiche, nessi biografici etc.) che sono essenziali per la conoscenza psichiatrica, ma non sembrano direttamente accessibili agli strumenti epistemici (modelli, categorie, classificazioni, tassonomie etc.) di tipo sovrapersonale. La stessa World Psychiatric Association ha perciò invitato a includere nella diagnosi anche un livello di attenzione narrativa a elementi idiografici, personali, che arricchisca e completi la disamina tipologica50. Al rapporto tra generalità degli strumenti epistemici della medicina scientifica e singolarità di ogni condizione patologica personale è stato dedicato l’intero primo saggio di questo volume, e ad esso non possiamo che rimandare per gli aspetti complessivi della questione. Vale però la pena di soffermarsi brevemente almeno su alcuni caratteri della questione più specificamente connessi alla psichiatria e alla psicologia clinica, visto che è di tutta evidenza come in questi ambiti il problema del rapporto tra casi singolari e modelli generali si ponga in modo straordinariamente accentuato e rilevante. Storicamente, anzi, l’enfasi sull’importanza degli elementi idiografici ha portato anche a forme di critica così radicali alle tassonomie e alle classificazioni sovraindividuali da suggerire di rigettarle in toto, o comunque di diffidarne in quanto strumenti medici che tendenzialmente predispongono a obliterare la singolarità del caso individuale e la sua specifica fenomenologia. Ora, è indubbio che possa accadere che il ricorso meccanico all’uso di strumenti nomotetici abbia portato e porti a trascurare le dimensioni più individuali della condizione patologica che incontriamo, a sottovalutare o obliterare il carattere e la qualità personale di ciascuna malattia psichica, quasi espropriandone il paziente, o facendolo sentire solo il portatore occasionale di essa51. 50 Cfr. anche B. Fulford, T. Thornton, G. Graham, Oxford Textbook of Philosophy and Psychiatry, cit.; T. Thornton, Essential Philosophy of Psychiatry, cit., pp. 182-185; T. Thornton, Should comprehensive diagnosis include idiographic understanding?, in «Medicine Health Care and Philosophy», 11 (2008), pp. 293-302. 51 A questa sensazione sembra dare voce la pagina iniziale del noto romanzo di Giuseppe Berto Il male oscuro: «Penso che questa storia della mia lunga lotta col padre, che un tem- Epistomologia e classificazioni psichiatriche 89 È senza dubbio importante mettere in discussione le classificazioni generali, o i loro usi impropri (specie in sede terapeutica), e ancor più importante è migliorare quelle esistenti, come il DSM, ad esempio sul piano dello spazio dato ai significati52. Ma più importante di tutto mi pare che sia, anche in questo caso, concepire e comprendere in modo appropriato natura, funzioni e limiti delle classificazioni psichiatriche e degli strumenti concettuali sovraindividuali (piuttosto che diffidarne in modo indiscriminato), così come cogliere possibilità, funzionamento e limiti di un approccio idiografico. In quest’ottica, sembra assai felice una caratterizzazione data da Alfredo Civita (trattando di teorie psicoanalitiche), secondo la quale possiamo guardare ai nostri costrutti teorici sovrapersonali come a «schemi teorici insaturi [...] che orientano l’esplorazione dell’individualità»53. Questo significa che i sistemi categoriali e diagnostici sovrapersonali, lungi dal sostituirsi all’incontro con l’individuo, e con i contenuti, i dinamismi e i significati dei quali si fa portatore, sono al servipo ritenevo insolita per non dire unica, non sia in fondo tanto straordinaria se come sembra può venire comodamente sistemata dentro schemi e teorie psicologiche già esistenti, anzi in un certo senso potrebbe perfino costituire una appropriata dimostrazione della validità razionale di tali schemi o teorie [...]» (Mondadori, Milano 1979 [I edizione: Rizzoli, Milano 1964], p. 19). Paradossalmente, proprio una narrazione di questo genere, però, contribuisce a provare come la presenza di regolarità che permettono di tipizzare delle condizioni patologiche, non esaurisca, né metta a repentaglio i caratteri rilevanti, significanti, personali e straordinari delle loro singole occorrenze. 52 Mi pare equilibrata la posizione assunta in proposito da Wakefield, che (pur ritenendo necessario migliorare il DSM quanto allo spazio dato ai significati soggettivi) scrive: «Ovviamente, come regola generale, più si conosce il sistema dei significati del paziente meglio è. Ma lo scopo del DSM IV non è quello di fornire una sintesi della psicodinamica del paziente, del piano di trattamento o della formulazione del caso. Si tratta, infatti, di un manuale strettamente diagnostico il cui scopo è quello di permetterci di affermare sinteticamente ciò che non va nel funzionamento mentale del paziente nel modo più neutrale possibile» (J.C. Wakefield, Significato e melanconia: perché il DSM IV non può ignorare (del tutto) il sistema intenzionale del paziente, in J.W. Barron (ed.), Making Diagnosis Meaningful. Enhancing Evaluation and Treatment of Psychological Disorders, APA Books, Washington 1998, trad. it. Dare un senso alla diagnosi, a cura di V. Lingiardi, Raffaello Cortina, Milano 2005, cap. 2, pp. 31-77: p. 33). Si noti che, nonostante la sua definizione generale della malattia psichica, Wakefield è a favore di manuali teoreticamente neutrali e privi di determinanti eziologiche ultime, come il DSM. 53 A. Civita, Psicoanalisi e psicoterapia cognitiva, in «Sistemi Intelligenti», XVI (2004), pp. 271-281: p. 280. L’autore si è soffermato specificamente sul problema del rapporto tra approccio generalizzante e individualizzante, e su vantaggi e svantaggi di ciascuno di essi in psichiatria in A. Civita, Introduzione alla storia e all’epistemologia della psichiatria, Guerini e Associati, Milano 1996, pp. 30-37. 90 Epistemologia e clinica zio, sono in funzione di tale incontro. Sono, cioè, da considerare, una volta di più, come costrutti epistemici la cui funzione clinica è di prepararci, guidarci e attirare la nostra attenzione su quanto, probabilmente, è più rilevante nell’incontro coi singoli pazienti. Le categorie psichiatriche, le classificazioni, dunque, non ci restituiscono la “vera essenza” della patologia, rispetto alla quale i singoli pazienti effettivi sarebbero solo una imperfetta, approssimativa e trascurabile occorrenza empirica; al contrario: costruite a partire dallo studio scientifico e controllato di una molteplicità di individui, esse ci offrono strumenti cognitivi e modelli di sintesi al servizio della conoscenza e della cura di altre persone che il clinico prenderà in carico. Inevitabilmente, però, tali risorse epistemiche ci danno questo contributo nella misura in cui ciò è possibile a un costrutto teorico di carattere generale e, quindi, per loro stessa natura, lo fanno con riferimento non a quanto può distinguere una data condizione personale da ogni altra, sia pure dello stesso tipo, ma con riferimento a pattern di regolarità strutturale. Di conseguenza, se per esplorare una individualità abbiamo bisogno di classificazioni e diagnosi che ci aiutino a individuare queste regolarità strutturali, che si situano su molti piani, ciò non toglie (anzi è al servizio del fatto) che per «dare un senso alla diagnosi» (secondo l’espressione di un libro curato da James Barron) abbiamo sempre il bisogno e l’obbligo di andare anche oltre (il che non equivale a: contro) ogni strumentazione di ordine generale. Infatti, il significato esistenziale di un segno di rilievo psicopatologico, nella misura in cui può essere colto, può essere colto solo integrando nell’analisi anche quanto può emergere soltanto in un rapporto interpersonale di incontro con la singola persona in questione. Per cui, secondo una celebre formula di Westen, Gabbard e Blagov: «se vogliamo comprendere i sintomi, dobbiamo conoscere qualcosa della persona che li ospita»54. Ma questo essenziale processo di individualizzazione narrativo e dialogico, nella misura in cui si traduce in conoscenza proposizionale, ricorrerà anch’esso (sia pure in modi peculiari) a costrutti epistemici di portata sovraindividuale (almeno in linea di principio), come sono in definitiva i concetti e le categorie55. 54 D. Westen, G.O. Gabbard, P. Blagov, “Ritorno al futuro”. La struttura di personalità come contesto per la psicopatologia, in N. Dazzi-V. Lingiardi-F. Gazzillo (a cura di), La diagnosi in psicologia clinica, cit., cap. 7, pp. 87-122: p. 87. 55 Cfr. anche T. Thornton, Should comprehensive diagnosis include idiographic understanding?, cit. Epistomologia e classificazioni psichiatriche 91 In effetti, già Eugen Bleuler aveva riconosciuto: una noxa non istituisce mai un sintomo psicopatologico che non rechi l’impronta della personalità. Essa può soltanto modificare la personalità preesistente. Le conseguenze psichiche di una noxa non ne dipendono mai unicamente, ma dipendono sempre e in misura assai ampia anche dalla personalità del paziente quale si è configurata in forza delle sue individuali disposizioni e della peculiare storia della sua vita56. Aggiungendo al contempo: «Ciononostante è necessario considerare, descrivere e insegnare la psichiatria speciale in base ad un certo criterio di suddivisione». Dunque, più che contrapporre momento della generalizzazione tipologica e momento della individualizzazione narrativa, sembra necessario comprendere il loro statuto, la loro tensione ma anche il loro essenziale interagire, per disegnare lo spazio proprio della psichiatria. In questa prospettiva, si tratterà anche di riconoscere che le nostre categorie generali sono modelli approssimati per e che si applicano a tipi di patologie delle persone (tipi di patologie personali), ma non definiscono una persona tout court. E questo (tra l’altro) perché le nostre classificazioni e i nostri modelli psichiatrici ci fanno conoscere quello che delle patologie è utile ed è possibile conoscere facendo, per così dire, epochè dagli aspetti di irriducibile singolarità delle differenti persone che vivono, di fatto, quelle condizioni. Anche per questo, non dobbiamo, come detto, mai confondere, reificandolo, un modello astratto con il fenomeno al quale lo riferiamo. Infatti, la condizione della quale legittimamente parliamo come di un tipo, non si istanza mai identica in diversi casi, ma, al modo di una famiglia, di un’amicizia, o di una vacanza, si tratta del tipo di designatum che riceve dei contenuti e un profilo distintivo dalle persone che vivono di volta in volta quella condizione. In altre parole, mentre le particelle elementari (e ancor più i quadrati e i rettangoli) sono tali che, come ha scritto il fisico Steven Weinberg, «se hai visto un elettrone, li hai visti tutti»57, le condizioni psicopatologiche, no: perciò, sarà al contempo fuori luogo richiedere che le classificazioni psichiatriche abbiano natura, struttura ed efficacia analoghe ad altri tipi di tassonomie scientifiche, e lo sarà 56 E. Bleuler, Lehrebuch der Psychiatrie (1911), trad. it. Trattato di psichiatria, Feltrinelli, Milano 1967, pp. 136-137. 57 S. Weinberg, The Revolution That Didn’t Happen, in «The New York Review», 8/10/1998, pp. 48-52: p. 51. 92 Epistemologia e clinica anche pretendere da loro (o, al contrario, rimproverare loro) che esse ci dispensino dal “vedere” il soggetto ennesimo al quale si applicano, come può fare una teoria delle particelle58. 58 Le considerazioni sulla natura sia idiografica che nomotetica del sapere medico che ho cercato di svolgere nel primo capitolo di questo volume (e che ho qui brevemente ripreso e specificato), mi pare siano affini a quelle svolte da Barron e Lingiardi (Introduzione a Dare un senso alla diagnosi, cit.) circa la diagnosi psichiatrica, anche sulla scorta di queste giuste osservazioni di Theodore Millon e Roger Davis: «Mentre la prospettiva orientata nomoteticamente sottolinea ciò che le persone hanno in comune, o le regolarità all’interno di una classe di oggetti, la prospettiva idiografica enfatizza l’individualità, la complessità e l’unicità di ogni individuo […]. La descrizione di un individuo non può essere così idiosincratica da sfociare nell’ineffabilità. I costrutti non possono esistere senza individui a cui paragonarli; gli individui non possono essere compresi senza dei costrutti» (citato alle pp. xix-xx, tratto da Disorder of Personality: DSM-IV and Beyond, John Wiley & Sons, New York 19962, pp. 5-7). Terzo saggio Epistemologia e psicologie dinamiche 1. Psicologia dinamica e filosofia La psicoanalisi è una delle discipline che lungo l’ultimo secolo hanno destato più interesse nell’ambito dell’epistemologia e della filosofia della scienza1. Un’attenzione che, per lungo tempo, è stata superiore a 1 Per limitarci a menzionare solo alcuni scritti italiani recenti sui rapporti tra psicoanalisi e filosofia della scienza: P. Repetti (a cura di), L’anima e il compasso. Saggi su psicoanalisi e metodo scientifico, Theoria, Roma 1985; P. Parrini, La psicanalisi nella filosofia della scienza, (1987) ora in Id., Sapere e interpretare. Per una filosofia e un’oggettività senza fondamenti, Guerini, Milano 2002, pp. 141-158; M. Buzzoni, Operazionismo ed ermeneutica. Saggio sullo statuto epistemologico della psicoanalisi, Franco Angeli, Milano 1989; Id., Epistemologia della psicoanalisi, in Enciclopedia Filosofica Bompiani, Bompiani, Milano 2006, vol. IX, 9114-9119; M. Innamorati, Psicoanalisi e filosofia della scienza: critiche epistemologiche alla psicoanalisi, Franco Angeli, Milano 2000; R. Brigati, Le ragioni e le cause. Wittgenstein e la filosofia della psicoanalisi, Quodlibet, Macerata 2001; F. Palombi, Il legame instabile: attualità del dibattito psicoanalisi-scienza, Franco Angeli, Milano 2002 (specie sulla epistemologia della psicoanalisi in ambito anglofono, nel periodo 1948-1965); A. Pagnini, Filosofia della psicoanalisi, in N. Vassallo (a cura di), Filosofie delle scienze, Einaudi, Torino 2003, pp. 249279; Id., Filosofia e psicoanalisi in Italia: l’apoteosi dell’antinaturalismo, in C. Portioli (a cura di), Natura e libertà. Filosofia, scienza ed etica, Morlacchi, Perugia, pp. 1-28; M. CastiglioniA. Corradini, Modelli epistemologici in psicologia. Dalla psicoanalisi al costruzionismo, Carocci, Roma 2003, cap. 5; R. Conforti (a cura di), La psicoanalisi tra scienze umane e neuroscienze. Storie, alleanze, conflitti, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006. Cfr. anche L. Mecacci, Psicologia e psicoanalisi nella cultura italiana del Novecento, Laterza, Roma-Bari 19982. Per un’introduzione sintetica a molti dei problemi concernenti il rapporto tra scienza e psicoanalisi, si veda Psychoanalysis: An Introduction to the Philosophy of Science, in K.W.M. Fulford-T. Thornton-G. Graham, Oxford Textbook of Philosophy of Psychiatry, Oxford University Press, Oxford 2006, parte III, cap. 11, pp. 243-287. Preciso che quando farò uso diretto della espressione “psicoanalisi”, senza ulteriori specificazioni, sarà da intendere nell’accezione più generica, come sinonimo di “psicologia dinamica” e non di “impostazione freudiana”, per una distinzione molto più articolata tra “psicologia dinamica” e “psicoanalisi”, cfr. G. Jervis, Psicologia dinamica, in Enciclopedia Italiana – VI Appendice, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2000, pp. 506-508. 94 Epistemologia e clinica quella verosimilmente riservata ad esempio alla chimica, alla biologia, o alla geologia. Forse solo nel caso della fisica l’interesse della filosofia della scienza è stato decisamente superiore. E, però, le ragioni di questo interesse sono nei due casi pressoché diametralmente opposte. La fisica ha lungamente rappresentato l’emblema di quello che, con una espressione della tradizione neo-kantiana, potremmo chiamare «il fatto della scienza», ovvero un caso paradigmatico di successo epistemico che la filosofia aveva più il compito di spiegare, che quello di mettere in discussione. Essa rappresentava, inoltre, il primo caso (cronologicamente) di cospicuo successo di un sapere empirico-sperimentale, e i suoi risultati si collocavano ad un livello tanto basilare da rendere plausibile la speranza che dalla fisica fosse possibile ricavare, tanto sul piano del metodo, quanto su quello dei contenuti, indicazioni, prescrizioni e vincoli utili anche per le scienze collocate su una diversa scala (su una scala superiore). La forma più radicale di questa centralità assunta dalla teoria fisica nel secolo scorso sarà in questo senso il fisicalismo. Esso fu inteso, prima (nell’empirismo logico), come la tesi secondo cui sarebbe stato possibile procedere ad una unificazione del discorso scientifico, tale da consentire la riformulazione di ogni proposizione descrittiva ed esplicativa nei termini di un asserto equipollente appartenente alla cornice concettuale della fisica. In un secondo momento, in un contesto di realismo metafisico, il fisicalismo si è anche identificato con la tesi per cui esistono realmente nel nostro mondo tutti e soli gli oggetti e le proprietà postulati dalla fisica (verosimilmente, non quella attuale, ma quella idealmente compiuta)2. In quest’ottica, si è così finito per conferire alla fisica (in modo assai discutibile) addirittura una valenza e un ruolo metafisici, assumendo quello che Thomas Nagel ha definito «un criterio di realtà epistemologico – secondo cui solo ciò che può essere compreso in un certo modo esiste», e in ragione del quale si «assegna a un solo tipo di comprensione umana la supervisione dell’universo e di quanto può essere detto su esso»3. Per la psicoanalisi si può dire che le cose stiano in modo opposto. Non sono stati il suo riconosciuto successo e la sua presunta esemplarità a meritarle l’attenzione degli epistemologi, ma, al contrario, il suo statuto problematico sia quanto alla elaborazione teorica, che quanto 2 Per una introduzione al dibattito odierno sul fisicalismo D. Stoljar, Physicalism, Routledge, London-New York 2010. 3 T. Nagel, The View from Nowhere, Oxford University Press, New York 1986; trad. it. Uno sguardo da nessun luogo, Il Saggiatore, Milano 1988, rispettivamente pp. 18 e 11. Epistemologia e psicologie dinamiche 95 al controllo delle affermazioni e delle applicazioni terapeutiche. In questo caso, dunque, la filosofia della scienza non solo si è impegnata nella ricostruzione, nella spiegazione e nell’interpretazione delle teorie psicoanalitiche, ma, non di rado, ha anche assunto l’atteggiamento del giudice chiamato a decidere della sua scientificità, o, addirittura, della sua validità epistemica tout-court (quando non ha fatto coincidere le due cose)4. Accanto al suo problematico status epistemico, vi sono almeno altri due fattori che possono contribuire a spiegare il rilievo che la psicoanalisi ha assunto agli occhi della filosofia. Da un lato, l’incidenza che essa ha avuto, ben oltre la cerchia degli specialisti, sull’immagine complessiva dell’uomo e della sua natura. Si tratta, del resto, di qualcosa che Freud stesso aveva ben colto (ed enfatizzato) parlando di un sapere che infliggerebbe all’uomo (dopo quelle già subite ad opera di Copernico e Darwin) una terza e più grave «ferita narcisistica», espropriandolo dalla certezza di una presa epistemica su se stesso (il che, peraltro, avrebbe spiegato, secondo Freud, le «resistenze» incontrate dalla psicoanalisi)5. Dunque, si tratta di una disciplina il cui impatto su tematiche tradizionalmente appannaggio della filosofia è stato grande. D’altra parte, un secondo aspetto rilevante (connesso al primo) risiede nel fatto che la psicoanalisi costituisce un sapere e una pratica che per metodi, concetti, stile argomentativo, riferimenti culturali ha manifestato a lungo un’affinità significativa con il sapere filosofico; un’affinità che, per quanto parziale, è certo superiore a quella che mostrano con esso discipline scientifico-sperimentali come la fisica e la biologia. Questa maggior vicinanza, se da un lato contribuisce a spiegare la speciale diffusione dell’attenzione alla psicoanalisi da parte dei filosofi, dall’altra, in certi casi, può avere indotto la convinzione che tale disciplina non richiedesse uno specifico, peculiare percorso di formazione, paragonabile a quello richiesto dalla chimica o dalla botanica. Si tratta, quindi, di una prossimità capace di produrre a un tempo frequenti incontri e frequenti fraintendimenti. Torniamo alla fisica. C’è almeno un altro aspetto del ruolo che essa ha avuto nella filosofia della scienza del Novecento che può interessa4 Sulle forme e le ragioni dell’interesse filosofico per la psicoanalisi, più ampiamente A. Pagnini, Filosofia della psicoanalisi, cit., § 1. 5 Cfr. S. Freud, Una difficoltà della psicoanalisi, (1917), in Id., Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti. Opere Volume VIII (1915- 1917), Boringhieri, Torino 1976, pp. 657-664. 96 Epistemologia e clinica re la nostra ricerca. Come già accennato, la fisica ha avuto un tale rilievo da fornire indicazioni, conoscenze e prescrizioni che si è spesso ritenuto potessero e dovessero valere per ogni sapere scientifico-sperimentale (in conformità alla scala dei fenomeni dei quali esso si occupa), quando non addirittura per ogni disciplina che intendesse avere un qualche valore esplicativo nel nostro mondo. Questo ha anche fatto sì che nel proprio procedere la filosofia della scienza, non solo desse uno spazio preponderante alla fisica, ma operasse non di rado una distorsione, che è una sorta di sineddoche metodologica: lo studio della parte per il tutto. Intendo dire che, a lungo, si è spesso fatto filosofia della scienza (intesa come filosofia dell’intera attività scientifico-sperimentale), facendo di fatto filosofia della sola fisica e da parte di filosofi le cui competenze scientifiche (non di rado notevoli) erano per lo più competenze formatesi esclusivamente a confronto con la fisica. Negli anni della «nuova sintesi» tra genetica ed evoluzionismo, o della scoperta del ruolo e della struttura del DNA, la filosofia della scienza era prima e più di tutto filosofia della fisica e sembra si possa dire che l’immediatezza con cui vi sono state analisi filosofiche del significato e dell’importanza della teoria della relatività, o anche della meccanica quantistica, non ha riscontro nella ricezione dei pur notevoli avanzamenti che riguardavano altre scienze. Ciò ha significato che i contributi della (un tempo) «nuova filosofia della scienza» (Hanson, Kuhn, Feyerabend etc.), ad esempio, siano stati basati prevalentemente sulla sola fisica. La stessa tradizione di indagine sul mutamento e il divenire delle teorie scientifiche in genere, che ha uno snodo capitale ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche6 di Thomas Kuhn, è molto spesso segnata da elaborazioni basate in misura preponderante sull’analisi di esempi tratti dalla storia della fisica e la cui lezione viene poi generalizzata, con maggiore o minor cautela, ad altri saperi7. In altri termini, non di rado si è assunta la fisica (o meglio: una 6 Kuhn scriveva nella Prefazione che «La decisione di trattare in questa sede soltanto le scienze fisiche fu presa in parte per dare a questo saggio maggiore coerenza ed in parte sulla base della mia competenza attuale» (Th. S. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, Chicago University Press, Chicago 1962 (19702); trad. it. La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1999, p. 12). 7 Così è sostanzialmente ancora in uno dei più recenti e significativi esiti in quest’ambito M. Friedman, Dynamics of Reason, CSLI, Stanford 2001; trad. it. Dinamiche della ragione. Le rivoluzioni scientifiche e il problema della razionalità, Guerini e Associati, Milano 2006. Solo nell’ultimo capitolo della seconda parte si introducono le «altre scienze» (“altre” rispetto alla fisica). Epistemologia e psicologie dinamiche 97 data porzione della storia di alcune specialità della fisica) come emblema di che cosa sia la scienza e si è poi ritenuto che le conclusioni valide che si potevano desumere dalla analisi di essa potessero in buona misura valere in generale per la scienza. Questo ha per noi una duplice rilevanza. In primo luogo, perché molto spesso i filosofi della scienza si sono rapportati anche alla psicoanalisi portando con sé una forma mentis, un’idea di scienza, concetti e metodi forgiati dal confronto con la fisica. In secondo luogo, questa sorta di sineddoche metodologica che abbiamo visto “in grande” nella filosofia della scienza in genere pare riproporsi, strutturalmente analoga, anche nella riflessione filosofica sulla psicologia dinamica. Intendo dire che, spesso, la riflessione filosofica si è appuntata in maniera del tutto preponderante sul solo pensiero di Freud, ritenendo, però, di fornire così una trattazione di quest’ambito in generale8. Si tratta, naturalmente, di qualcosa che ben si spiega con il ruolo fondante riconosciuto a Freud nella storia della psicologia dinamica9, e con il predominio relativo esercitato dalla sua prospettiva: ma che non si può altrettanto giustificare. Certo, l’analogia con il rapporto tra la fisica e le altre scienze, deve qui senza dubbio essere attenuata e non può essere riproposta meccanicamente: in fondo, se la psicoanalisi è una disciplina, le varie teorie e pratiche al suo interno non potranno differenziarsi nello stesso grado in cui possono differenziarsi due diverse discipline scientifico sperimentali, come la fisica e la zoologia. E però, a questa plausibile attenuante rispetto alla scelta di concentrare 8 Anche il recente (e pregevole) capitolo sulla psicoanalisi presente in K.W.M. FulfordT. Thornton-G. Graham, Oxford Textbook of Philosophy of Psychiatry, cit., non prende in considerazione se non il pensiero di Freud. Può essere interessante notare che già il volume S. Hook (ed.), Psychoanalysis, Scientific Method, and Philosophy. A Symposium edited by Sidney Hook, New York University Press, New York 1959; trad. it. Psicoanalisi e metodo scientifico, Einaudi, Torino 19674, è essenzialmente centrato su Freud e “teoria psicoanalitica” vi è intesa nel senso stretto di “teoria freudiana”. Tra quanti sembrano mostrare consapevolezza del punto (pur concentrando la propria analisi esclusivamente su Freud) vi è Paul Ricoeur che in apertura a Della Interpretazione scrive: «questo libro verte su Freud e non sulla psicoanalisi, e ciò significa che non vi si troveranno due cose: l’esperienza dell’analisi stessa e la considerazione delle scuole post-freudiane» (De l’interpretation. Essai sur Freud, Seuil, Paris 1965; trad. it. Della interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano 1967, p. 9). 9 Sull’origine e i molteplici significati del termine “dinamico”, cfr H.F. Ellenberger, The Discovery of the Unconscious. The History and Evolution of Dynamic Psychiatry, Basic Books, New York 1970; trad. it. La scoperta dell’inconscio. Storia della psichiatria dinamica, Bollati Boringhieri, Torino 1976, pp. 339-341. 98 Epistemologia e clinica essenzialmente su Freud la riflessione sulla psicoanalisi in genere, si associano delle aggravanti, se così vogliamo dire. Per prima cosa, basandosi essenzialmente sui soli testi di Freud, a un secolo e più di distanza dal loro apparire, l’epistemologia assume un atteggiamento che apparirebbe incongruo nel caso di qualunque disciplina scientifico-sperimentale; e questo proprio nel momento in cui si tratta di valutare (tra l’altro) lo statuto scientifico-sperimentale della psicoanalisi. Intendo dire che sarebbe stato impensabile nel 2000 fare filosofia della fisica o della biologia, della matematica o delle teorie dell’evoluzione, limitandosi a testi apparsi tra la fine dell’800 e il 1938, come se essi potessero rappresentare l’attuale assetto fondamentale di quella disciplina. Di conseguenza, può apparire almeno problematico che, proprio quanti intendono saggiare, o addirittura sostenere, la natura scientifica del sapere psicoanalitico assumano un simile atteggiamento metodologico. A fronte di questa contestazione, credo siano possibili due tentativi di difendere la legittimità di un’analisi basata essenzialmente sul pensiero freudiano. Due tentativi basati su idee opposte e, in definitiva, entrambi non convincenti. Il primo sta nel dire che il pensiero di Freud rappresenta una matrice fondante e unificante della psicologia dinamica dotata di una tale forza e attualità da rendere marginali e poco rilevanti in sede epistemologica le divergenze o gli sviluppi successivi, legittimando, dunque, una discussione filosofica limitata ad esso10. In questa prospettiva, almeno per ciò che concerne i suoi caratteri fondanti di maggior interesse epistemologico, la psicoanalisi nascerebbe “adulta”, per così dire, mostrando così un tratto di precocità e unitarietà che sarebbe perfino più forte di quello che è dato riscontrare nelle scienze sperimentali della natura che conosciamo. La seconda opzione sta nell’affermare, al contrario, che, a differenza della fisica o della biologia, la psicologia dinamica non è affatto un sapere con fondamenti teorici e pratici unitari, e con esempi di successo riconosciuti da tutti gli specialisti (non è un sapere «paradigmatico», direbbe qualcuno, usando un termine kuhniano). Ma, allora, per 10 Ad esempio, secondo Cooper esisterebbe un solo paradigma rivoluzionario in psicoanalisi, quello di Freud, e il resto sarebbero solo «variazioni sui temi già stabiliti da lui» (A.M. Cooper, Rassegna storica dei paradigmi psicoanalitici, in A. Rothstein (ed. by), Models of the Mind. Their Relationship to Clinical Work, International Universities Press, New York 1985; trad. it. Modelli della mente. Tendenze attuali della psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino 1990, cap. I, p. 14). Epistemologia e psicologie dinamiche 99 una simile disciplina non vi saranno quei progressi unanimemente riconosciuti che caratterizzano gli altri saperi, né il più recente dei manuali potrà darci un quadro più veritiero, aggiornato e condiviso di questa disciplina rispetto a quello che ricaviamo da un classico di un secolo fa (come accade, invece, in fisica o in biologia). Mentre l’opera di un grande matematico, di un grande fisico, di un grande biologo verrà recepita entro la cornice unitaria del proprio sapere, ma sarà, poi, anche superata e sostituita da altre opere in tema, più aggiornate ed avanzate, questo non sarebbe il caso della psicoanalisi e, perciò, trattarne significherà tornare sempre di nuovo ai testi di Freud. Ho detto che i due argomenti si basano su diagnosi opposte, ma che né l’uno, né l’altro sembrano legittimare la scelta di una analisi epistemologica dei fondamenti della psicologia dinamica limitata al pensiero di Freud. I motivi di questa inadeguatezza sono, però, diversi nei due casi. Il primo argomento sarebbe formalmente valido ma, come vedremo, si basa su un assunto falso circa il ruolo unificante del pensiero di Freud nella storia della psicologia dinamica. Il secondo argomento, basato sull’assunto contrario (e plausibile) di una condizione di non unità e non unanimità della psicologia dinamica rispetto ai propri fondamenti, trae, invece, da questa premessa una conseguenza erronea. Soffermiamoci in primis su quest’ultimo punto, visto che all’altro argomento sarà riservato il prossimo paragrafo. Sembra che fare appello ad una condizione peculiare di non unitarietà teorica e pratica della psicologia dinamica per giustificare un’analisi epistemologica basata sul solo corpus freudiano sia doppiamente erroneo. Infatti, da un lato, significherebbe porre già a norma di un’analisi epistemologica una delle tesi (quella dello statuto non unitario della psicoanalisi) che essa dovrà, semmai, provare oppure confutare. D’altra parte, e soprattutto, il punto è che proprio nel caso in cui le cose stessero così (se, cioè, la psicoanalisi non si trovasse in una condizione di unitarietà e unanimità teorico-pratica), l’attenzione pressoché esclusiva per Freud sarebbe particolarmente deleteria. Infatti, una disciplina che si trova in una condizione di pluralismo e conflittualità teorico-pratica, non è, in genere, una disciplina nella quale manchino tradizioni e prospettive complessive che si candidano a conferirle unitarietà. Al contrario, il problema può consistere proprio nel fatto che vi sono troppe tradizioni e troppe prospettive d’insieme in competizione tra di loro, senza che nessuna riesca, però, ad ottenere il livello di consenso generalizzato sufficiente ad accreditarla come la sola, aprendo, così, quella che, nei termini de La struttura delle rivoluzioni scientifiche, rappresenterebbe 100 Epistemologia e clinica una fase di «scienza normale». Una fase, cioè, lungo la quale tutti gli specialisti operanti nel settore si riconoscono accomunati da soluzioni esemplari, metodi, problemi, teorie, generalizzazioni, costellazioni di credenze, valori, strumenti, categorie, pratiche, obiettivi condivisi. Ma, se le cose stanno così, è del tutto evidente che, quando abbiamo a che fare con una disciplina del genere, una ricostruzione epistemologica o una ricostruzione storica che si basino essenzialmente solo su un autore, una proposta teorica, o una tradizione di ricerca tra quelle di fatto disponibili impedirà di cogliere una delle dimensioni epistemiche cruciali di quel sapere. E questo anche qualora la prospettiva esaminata fosse (come probabilmente accade nel caso freudiano) quella relativamente prevalente o egemonica. Simili ricostruzioni, anzi, potrebbero anche finire per portare a conclusioni filosofiche che non si attagliano alla (intera) disciplina, ma solo ad una proposta teorica nell’ambito di tale disciplina. E potrebbero perfino concentrarsi su aspetti critici che sono presenti, o hanno davvero carattere problematico, solo in una data proposta teorica interna a quel sapere, o, addirittura, su problemi che altre proposte teoriche entro quello stesso contesto disciplinare sono state le prime a criticare (magari proponendosi proprio per questa ragione come alternative). Sembra, dunque, che la non unitarietà teorico-pratica della psicologia dinamica, il suo status atipico rispetto alle scienze sperimentali della natura non giustificherebbero affatto la scelta di concentrare solo su Freud l’analisi epistemologica. Anzi, renderebbero la scelta particolarmente inadeguata. Sarebbe, semmai, soltanto ove l’opera di Freud costituisse un fattore di coesione straordinariamente forte ed attuale che potrebbe divenire legittima una disamina limitata solo ad esso. Ne consegue che un aspetto assai rilevante e da approfondire nel quadro di un’analisi filosofica della psicologia dinamica, e quasi preliminarmente ad essa, riguarderà appunto lo statuto unitario o meno di questa disciplina sotto gli aspetti epistemologicamente caratterizzanti, e, più in particolare, la legittimità o meno di individuare nel lascito freudiano questo principio unificatore. C’è, però, anche un’altra caratteristica saliente che sembra aver connotato significativamente la riflessione epistemologica sulla psicologia dinamica per lungo tempo. Essa, infatti, non solo si è focalizzata molto largamente attorno a un autore, ma si è anche focalizzata soprattutto attorno a un tema: il problema de la scientificità o meno della psicoanalisi. Verrebbe quasi da dire, con una forzatura, che, non di rado, l’inte- Epistemologia e psicologie dinamiche 101 ra epistemologia della psicologia dinamica si è perciò risolta nella domanda: quella di Freud era scienza? E, se sì, era buona scienza? Sia chiaro: come e più della scelta di concentrarsi su Freud, anche la scelta di concentrarsi sul problema della scientificità ha molte ragioni a proprio sostegno, perché la questione è senza dubbio centrale. Ma non si tratta dell’unica questione epistemologica rilevante ed essa si intreccia con altre tematiche che sono state forse messe in ombra dal suo prevalere. Inoltre, in certi casi, la questione della scientificità della psicoanalisi è stata impostata assumendo che esistesse la scienza (le scienze sperimentali della natura), un metodo per la scienza (si tratti dell’induttivismo eliminatorio, o del procedere «per congetture e confutazioni» etc.) e un modo di operare, valutarsi e autocomprendersi da parte de la psicoanalisi. Dunque, dopo aver identificato la psicoanalisi con il freudismo, individuare nella questione della scientificità il problema epistemologico posto dalla psicoanalisi ha significato aggiungere ulteriori componenti riduzioniste all’impostazione dell’analisi. Si tratta, lo ripetiamo, di scelte comprensibili e che hanno dato anche frutti di altissimo livello, ma, probabilmente, non siamo tenuti ad attenerci ad esse anche oggi. Forse l’esempio più significativo di analisi filosofica della psicoanalisi basata su questo genere di impostazione che ho chiamato “riduzionista” è stato il saggio di Adolf Grünbaum The Foundations of Psychoanalysis, apparso nel 1984, e che ha segnato un vero e proprio spartiacque in quest’ambito11. Converrà, allora, soffermarsi su alcuni aspetti di questo lavoro, per cogliere in opera alcune caratteristiche rilevanti dell’impostazione che abbiamo cercato di tratteggiare fin qui. Come è giusto, The Foundations of Psychoanalysis è stato analizzato e discusso assai ampiamente e non ce ne occuperemo per esteso in questa sede, limitandoci a richiamarne alcuni aspetti generali, in fun11 A. Grünbaum, The Foundations of Psychoanalysis. A Philosophical Critique, University of California Press, Berkeley (CA.) 1984; trad. it. I fondamenti della psicoanalisi. Una critica filosofica, Il Saggiatore, Milano 1988. Di Grünbaum in italiano anche Id., Freud’s theory: the perspective of a philosopher of science, «Proceedings and Addresses of the American Philosophical Association», 57 (1983), pp. 5-31; trad. it. La teoria di Freud nella prospettiva di un filosofo della scienza, in P. Repetti (a cura di), L’anima e il compasso, cit., pp. 87-138; Id., Reflections on the Foundations of Psychoanalysis, «The Behavioral and Brain Sciences», 2 (1986); trad. it. Psicoanalisi. Obiezioni e risposte, a cura di M. Pera, Armando Editore, Roma 1988. Sull’itinerario complessivo dello studioso Id., La mia odissea dalla filosofia alla psicoanalisi, Di Rienzo Editore, Roma 2001. 102 Epistemologia e clinica zione del nostro itinerario. Per prima cosa, il saggio di Grünbaum si propone di affrontare i fondamenti della psicoanalisi, ma, di fatto, si tratta di un saggio centrato solo su Freud e sulle interpretazioni storico-filosofiche del suo pensiero. Grünbaum affronta brevemente e rivendica apertamente la legittimità di questa scelta, poiché, relativamente agli psicoanalisti post-freudiani a lui noti (Kohut, Kernberg, Fairbairn, Winnicott etc.), si sente di poter affermare: «la mia critica epistemologica delle originarie ipotesi freudiane vale con ugual forza per gli assunti etiologici, evolutivi e terapeutici di questi successori»12. Secondo Grünbaum, Freud avrebbe coerentemente e consapevolmente perseguito il progetto di costruire una «scienza naturale»13 come le altre, fondando tale progetto su basi propriamente metodologico-epistemiche, senza alcuna ipoteca metafisica fuorviante (e senza più ambizioni di riduzionismo ontologico, almeno dopo l’abbandono del Progetto del 1895). Grünbaum ritiene, perciò, infondata la tesi secondo cui la psicoanalisi non avrebbe il carattere di una scienza: la si declini al modo di un’accusa, oppure di una apologia. Essa, in base alle evidenze testuali freudiane, intenderebbe essere scienza a pieno titolo, ossia un sapere empirico-sperimentale che impiega «consolidati canoni induttivistici per la convalida delle asserzioni causali», e riceve sostegno evidenziale (oppure è invalidato) dalle risultanze della propria applicazione. Inoltre, essa si occuperebbe di cause dell’agire, e non solo di ragioni. Come detto, il metro di giudizio della scientificità della psicoanalisi al quale Grünbaum si rifà è un metro che egli ritiene di trovare all’opera nello stesso corpus freudiano. Egli, cioè, volendo esaminare Freud in base al «suo stesso canone di scientificità», procede impiegando come criteri di convalida quelli che ritiene esser stati i criteri di validazione delle teorie adottati da Freud stesso, ossia «quelli propri dell’induttivismo ipotetico-deduttivo». Grünbaum chiarisce che basare la disamina su questi criteri, accettando «il parametro di status scientifico formulato dallo stesso Freud»14, non significa anche ricono12 A. Grünbaum, I fondamenti della psicoanalisi, cit., p. 318: «benché io abbia formulato una critica epistemica dei pilastri della psicoanalisi, ci si potrebbe chiedere perché mi sia anacronisticamente concentrato sulle teorie di Freud». Cfr. Id., Psicoanalisi. Obiezioni e risposte, cit., pp. 51-52. 13 L’espressione figura fin dall’incipit del volume, cfr. A. Grünbaum, I fondamenti della psicoanalisi, cit., pp. 9-10. Epistemologia e psicologie dinamiche 103 scerlo come il criterio che demarca quanto è scienza da quanto non lo è15. A me pare, però, che non si possa facilmente sfuggire al fatto che la diagnosi circa la scientificità di un sapere, così come quella circa la sua buona o cattiva scientificità, non può valere più della norma che si impiega per valutarla (può, semmai, valere meno). Dunque, accettare la bontà delle conclusioni alle quali si giunge in base a tale norma, e giudicare della scientificità della psicoanalisi in ragione dell’applicabilità, o dell’applicazione, di tale parametro equivale, implicitamente, ad averne accettato almeno la validità, a livello generico, e la necessità, a livello specifico, per la psicoanalisi. Questo nel senso che la scientificità di tale disciplina sembra consistere nell’incorporare tale criterio e la sua cattiva scientificità nel non ricevere conferma da esso. Ma l’esistenza di un simile criterio necessario (o prerequisito) di scientificità è tesi controversa e che, in ogni caso, dovrebbe essere debitamente argomentata senza appellarsi al fatto di giudicare un autore con quello che sarebbe stato il suo stesso metodo16. L’appuntarsi della discussione su questo criterio può, poi, lasciare in ombra un’altra questione rilevante, ossia quella legata al determinare perché la psicoanalisi dovrebbe essere considerata non solo scienza, ma «scienza naturale» (in un qualche senso significativo e attuale del termine). Non risulta, infatti, che questo possa avvenire in forza dello stesso criterio che la rende “scienza”, poiché, in tal caso, l’aggettivo sarebbe vacuo e ridondante (e, del resto, non è detto che, per chi lo accetta, l’induttivismo ipotetico-deduttivo debba essere circoscritto alla scienza naturale). Ma pare che, a legittimare la psicoanalisi come scienza naturale non possa essere nemmeno il mero fatto che essa si occupi di cause (e non solo di ragioni). O, almeno, questa non è una motivazione sufficiente e adeguata rispetto al significato abituale che il 14 A. Grünbaum, I fondamenti della psicoanalisi, cit., p. 127. «[...] l’applicazione da parte mia della sua norma dichiarata di razionalità scientifica alla psicoanalisi non implicherà che io consideri questa stessa norma il criterio di demarcazione fra scienza e non-scienza» (I fondamenti della psicoanalisi, cit., p. 127). Cfr. anche Id., La teoria di Freud nella prospettiva, cit., p. 104; Id., Psicoanalisi. Obiezioni e risposte, cit., p. 29. 16 A tal proposito, pur apprezzando ampiamente il contributo di Grünbaum, Paolo Parrini ha osservato: «neppure l’induzione eliminatoria (come già il principio di verificazione o quello di falsificazione, comunque riformulati e integrati) può essere considerata un criterio generale logicamente soddisfacente di scientificità, se non altro perché la sua adozione in senso pieno squalificherebbe come non scientifica qualsiasi ipotesi o teoria, compresi i principi teorici che stanno alla base di scienze consolidate come la fisica o la chimica» (P. Parrini, La psicanalisi nella filosofia della scienza, cit., p. 153). Nella stessa prospettiva: K.W.M. Fulford-T. Thornton-G. Graham, Oxford Textbook of Philosophy of Psychiatry, cit., p. 279. 15 104 Epistemologia e clinica termine ha in filosofia, specie oggi, quando al centro della discussione sta proprio la possibilità o meno di dare un trattamento in termini naturalistici alla causalità mentale (di “naturalizzarla”): cosa che, evidentemente, ha senso solo se non si presuppone che, per definizione, un sapere che intende trattare di cause sia già, per ciò solo, una scienza naturale, appartenga già, di per se stesso, ad una cornice logico-concettuale naturalistica17. Torneremo più avanti (§ 3) su questo tema. Basti, per il momento, aver avuto conferma di come l’analisi epistemologica generale circa i fondamenti della psicoanalisi si traduca qui, in effetti, soprattutto in un’analisi della scientificità delle teorie di Freud. Proprio a questo proposito, avrebbe un ruolo centrale per Grünbaum quello che egli chiama «Argomento della concordanza» (o «della corrispondenza» [Tally Argument]). Si tratta di un argomento che Grünbaum ritiene si trovi negli scritti dello stesso Freud e che, con opportune premesse, permetterebbe di mettere adeguatamente alla prova la veridicità delle ricostruzioni psicoanalitiche. L’argomento avrebbe come premessa due «condizioni causalmente necessarie» che egli reputa possibile distillare dal testo di Freud, e la congiunzione delle quali Grünbaum chiama «Tesi della condizione necessaria» (TCN). In sintesi, esse esprimono: da un lato, (a) la tesi secondo cui solo l’interpretazione e il trattamento psicoanalitico permettono al paziente un corretto insight riguardo l’eziologia che sta alla base del disturbo, circa gli «agenti patogeni inconsci della sua psiconevrosi»; dall’altro, (b) la tesi secondo cui «l’insight corretto dell’analizzato nell’etiologia del suo disturbo e nella dinamica inconscia del suo carattere» sarebbe «causalmente necessario» per una stabile remissione della patologia18. Freud può, così, osservare che la soluzione della psiconevrosi del paziente (dovuta a rimozione) «e il superamento delle sue resistenze riesce solo se gli sono state date quelle rappresentazioni anticipatorie [Erwartungsvorstellungen] che concordano con la realtà che è in lui [mit der Wirklichkeit in ihm übereinstimmen]. Ciò che era inesatto nelle supposizioni del medico viene a cadere nel corso del17 Grünbaum, d’altra parte, ha ragione nel rifiutare l’idea che lo status di scienza naturale di una disciplina presupponga la riduzione ontologica dei fenomeni di cui essa si occupa a «entità fisicalistiche» (o, più in generale, una qualche opzione metafisica): segno, però, che per decidere dello statuto naturalistico o meno della psicologia dinamica servirà un qualche altro criterio di tipo epistemologico (come vedremo in § 3). 18 Cito da: A. Grünbaum, I fondamenti della psicoanalisi, cit., p. 183. Epistemologia e psicologie dinamiche 105 l’analisi, e va quindi ritirato e sostituito con qualcosa di più giusto»19. Sulla base di questi assunti, dunque, Freud sarebbe stato giustificato nel considerare i successi terapeutici effettivamente conseguiti dal trattamento psicoanalitico come prova certa della veridicità delle interpretazioni fornite al paziente, cioè, appunto, della loro corrispondenza con la realtà20. L’efficacia terapeutica costituirebbe, d’altra parte, anche la sola garanzia empirica legittima per la psicoanalisi, dal momento che, secondo Grünbaum, ciò che emerge all’interno del setting clinico, di per sé solo, risulterebbe irrimediabilmente esposto alla contaminazione dovuta all’interferenza suggestiva dell’analista21. Secondo Grünbaum, un simile argomento è valido sul piano formale, e fa di Freud un «sofisticato metodologo scientifico». Sfortunatamente, però, a suo parere, quanto funge da premessa necessaria ad esso sarebbe «empiricamente quasi insostenibile»22. E questo comporterebbe anche il venir meno del solo argomento di fatto disponibile per saggiare e corroborare le interpretazioni psicoanalitiche. Si noti che, secondo Grünbaum, le condizioni necessarie, che fanno da premesse per l’argomento da lui enucleato, sarebbero state difese da Freud «almeno fino al 1917», mentre, in seguito, egli stesso avrebbe accettato ipotesi in contrasto con tali premesse, fino a «demolirle»: Evidentemente, lungi dal continuare a sostenere che esistesse un sostegno empirico delle due premesse al suo argomento della corrispondenza, Freud stesso nei suoi ultimi anni gradualmente vi rinunciò o le indebolì entrambe in modo consistente23. 19 S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, (1915-17), in Id., Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti, cit., pp. 189-611: lezione 28, p. 601. Il testo originale è alla p. 470 del vol. XI dei Gesammelte Werke, Fischer, Frankfurt 1978 (Vorlesungen zur Einführung in die Psychoanalyse). Cfr. A. Grünbaum, La teoria di Freud nella prospettiva, cit., § 3, specie pp. 112-115; Id., I fondamenti della psicoanalisi, cit., pp. 181-186 (che traduce «Argomento della Concordanza»); Id., Psicoanalisi. Obiezioni e risposte, cit., p. 36 (usa «Corrispondenza»). 20 Scrive tra l’altro Grünbaum (ibidem): «In breve: Freud postula TCN, asserisce che la sua terapia permette cure genuine e quindi vuol far uso di queste due arrischiate tesi per comprovare la veridicità (cioè l’affidabilità e validità) dei dati clinici tratti da pazienti nevrotici la cui analisi si suppone sia stata coronata da successo». 21 Sul problema e l’accusa di “suggestione” nella fase iniziale della psicoanalisi, cfr. R.S. Wallerstein, The Talking Cures. The Psychoanalyses and the Psychoterapies, Yale University Press, New Hawen and London 1995, cap. 1. 22 A. Grünbaum, I fondamenti della psicoanalisi, cit., p. 169. 23 A. Grünbaum, Psicoanalisi. Obiezioni e risposte, cit., p. 38. Cfr. Id. I fondamenti della psicoanalisi, cit., pp. 194-195, 209-210, 218 e 225. 106 Epistemologia e clinica Diversi studiosi hanno ritenuto che, in realtà, Grünbaum sopravvaluti il significato, la pervasività e l’importanza che questo supposto “unico argomento” avrebbe avuto per Freud nel legittimare la psicoanalisi24. Inoltre, comunque stiano le cose con Freud, sembra trattarsi di un argomento che parte della tradizione psicodinamica avrebbe potuto ritenere in linea di principio inadeguato per la validazione della disciplina. E non tanto in ragione del sostegno empirico adeguato o meno delle premesse, né perché la verità dell’interpretazione psicoanalitica sia ritenuta incontrollabile o irrilevante per la cura, ma perché l’Argomento della concordanza sembra basarsi su una rappresentazione troppo schematica e semplificata del nesso che, in terapia, lega la validità della ricostruzione al successo terapeutico. Quand’anche le sue premesse fossero (state) valide, cioè, esso non sarebbe comunque un buon modo per saggiare la verità delle asserzioni psicoanalitiche, visto che troppi altri fattori devono concorrere perché sia possibile conseguire quell’effetto clinico che si vorrebbe assumere come indicatore sensibile di veridicità. Ma su questo punto torneremo nella prossima sezione. Al di là di questo, possiamo intanto notare che, quand’anche la verità dell’interpretazione fosse assunta quale condizione necessaria per l’efficacia terapeutica, essa, nella prospettiva di Freud, sembra non possa rappresentare una condizione sufficiente. Infatti, già in ipotesi, non qualunque offerta di ricostruzioni veridiche al paziente avrà forza di cura su di lui. E questo non riguarda solo quei tipi di patologia che, secondo Freud stesso, sarebbero stati refrattari al trattamento analitico. Molto più ampiamente e radicalmente, il fatto è che il terapeuta potrebbe, ad esempio, comunicare al soggetto in cura una ricostruzione veridica, ma farlo troppo presto, ossia in un momento in cui questi non è ancora pronto, o disposto ad accettarla. Il mancato assenso, di per sé, non toglierà nulla alla possibile veridicità fattuale di quella ricostruzione, ma potrà inficiare in modo peculiare gli effetti che essa ha sul paziente. Non si tratta soltanto di riconoscere che anche in psicoanalisi, come in ogni ambito, un sapere veridico può essere applicato male, ma, forse, anche di cogliere come in quest’ambito la relazione 24 Si veda F. Cioffi, Freud fa davvero affidamento sull’argomento della concordanza per controbattere l’argomento della suggestionabilità?, in A. Grünbaum, Psicoanalisi. Obiezioni e risposte, cit., pp. 65-68 (cfr. pp. 223-230); D. Sachs, In Fairness to Freud, «The Philosophical Review», 98 (1989), pp. 349-378; K.W.M. Fulford-T. Thornton-G. Graham, Oxford Textbook of Philosophy of Psychiatry, cit., pp. 277-280. Epistemologia e psicologie dinamiche 107 clinica e il lavoro del singolo soggetto in cura su se stesso siano dei fattori che sul piano della teoria stessa risultano costitutivi del modo in cui è concepito il nesso tra verità ed efficacia. Come ha scritto Alfredo Civita: la situazione analitica implica che l’analizzato si assuma la responsabilità – o, per meglio dire, la corresponsabilità – della cura. Non serve a niente che venga a sapere dall’esterno ciò che ha rilevanza per la sua sofferenza; egli deve giungervi attraverso un lavoro che, sia pure nell’ambito della coppia terapeutica, comporta un impegno personale che richiede tempo, fatica psichica, l’attraversamento di esperienze dolorose. Il sapere in psicoanalisi ha un’efficacia trasformativa solo se viene costruito in questo modo, altrimenti resta un sapere sterile, intellettualistico, che lascia intatte le cose. Tenendo conto di ciò si può capire l’affermazione di Freud secondo cui un’interpretazione è davvero opportuna ed efficace soltanto quando il paziente, per così dire, ha già sulla punta della lingua il suo contenuto25. Non interessa discutere qui in dettaglio se e quanto gli aspetti che abbiamo iniziato ad evidenziare mettano in dubbio l’impostazione di Grünbaum e il suo argomento: vi torneremo, brevemente, più oltre. Speriamo, però, di aver mostrato a sufficienza come la trattazione di Grünbaum rappresenti esemplarmente la modalità di analisi epistemologica doppiamente riduzionista che abbiamo tratteggiato in precedenza: quella, cioè, che riduce l’epistemologia delle psicologie dinamiche, essenzialmente all’analisi della scientificità della psicoanalisi freudiana26. Ma soprattutto, alla luce di quanto osservato fin qui, sembra legittimo ed opportuno provare ad articolare una disamina dei fondamenti filosofici ed epistemologici delle psicologie dinamiche che abbia assunti, tematiche e finalità differenti rispetto ad una impostazione tradizionale che, del resto, forse non raccoglie più l’interesse di un 25 A. Civita, La clinica moderna e la malattia mentale, in A. Civita-D. Cosenza (a cura di), La cura della malattia mentale I Storia ed epistemologia, Bruno Mondadori, Milano 1999, p. 120. Diversa mi pare la lettura della questione data da M. Buzzoni, Operazionismo ed ermeneutica, cit., pp. 107-110. 26 Al punto che Marco Innamorati è giunto a sostenere che le argomentazioni di Grünbaum conterrebbero «un sofisma di fondo: (1) la versione freudiana della psicoanalisi è (i) la più aderente ai canoni della vera scienza e (ii) fondante rispetto a tutte le psicologie dinamiche successive; (2) l’attendibilità di un asserto psicodinamico dipende dall’aderenza alla lectio freudiana; (3) la confutazione delle tesi di Freud, confuta dunque, ipso facto, ogni versione della psicoanalisi» (M. Innamorati, Psicoanalisi e filosofia della scienza, cit., p. 20). Cfr. anche P. Robinson, Freud and his critics, California University Press, Berkeley-Los AngelesOxford 1994.; trad. it. Freud e i suoi critici, Astrolabio, Roma 1995, cap. 3. 108 Epistemologia e clinica tempo27. Ci proponiamo perciò: • di proporre alcune prime ragioni a sostegno dell’idea che la storia della psicologia dinamica sia quella di un sapere segnato da una pluralità, al proprio interno, specialmente se si considerano in chiave epistemologica quelli che potremmo chiamare i suoi «fondamenti»: al punto che sarebbe opportuno parlare al plurale di psicologie dinamiche. Ne segue che non sarebbe opportuno concentrare la riflessione filosofica circa la psicologia dinamica sul solo corpus freudiano (§ 2); • di iniziare a mostrare come nella psicologia dinamica (anche al di là delle divergenti tradizioni o impostazioni) abbia un ruolo essenziale una componente categoriale di tipo non naturalistico, una componente che consente a questa disciplina di situarsi su un livello personale e contenutistico di accesso ai contenuti psichici: tale livello è, tra l’altro, quello che rende possibile formulare e comunicare la rappresentazione della realtà che è nel paziente (la «realtà che è in lui» della quale parlava Freud)28 (§ 3); • di far emergere come, di conseguenza, anche l’epistemologia dovrà essere plurale nel suo applicarsi alle psicologie dinamiche, per poterne apprezzare adeguatamente i caratteri distintivi. Sarà perciò opportuna un’epistemologia: che (i) non si limita ad applicare in modo indiscriminato e meccanico all’ambito della psicologia dinamica standard, strumenti e criteri messi a punto in altri contesti disciplinari; (ii) che sa adottare standard normativi, strumenti di analisi e criteri di giudizio diversificati anche in base agli assunti, alle specifiche teorie cliniche e metapsicologiche, ai metodi terapeutici e alle finalità di cura che caratterizzano e distinguono ciascuna delle differenti proposte teoricoterapeutiche che è dato incontrare entro l’ambito delle psicologie dinamiche. 27 «D’altra parte la questione del criterio di demarcazione tra scienza e non scienza, che ha vissuto forse un momento di particolare intensità nella controversia tra Popper e Grünbaum, sembra avere progressivamente perso di interesse agli occhi degli epistemologi nel corso degli ultimi anni, stante l’apparente impossibilità di stabilire un criterio univoco che renda conto dello sviluppo della storia della scienza e prometta di rimanere stabile nel futuro» (M. Innamorati, Psicoanalisi e filosofia della scienza, cit., p. 134). Cfr. A. Pagnini, Filosofia della psicoanalisi, cit., pp. 275-276. 28 La realtà che è nel paziente non è evidentemente riducibile alla serie di eventi e fatti che costituiscono la sua biografia oggettivata, ma costituisce anche un complesso di vissuti psichici soggettivi che configurano un universo di carattere peculiare. Epistemologia e psicologie dinamiche 109 2. La componente teorica non unitaria Vogliamo dunque, per prima cosa, interrogarci meglio sul carattere unitario o meno della psicologia dinamica e, più in particolare, valutare se l’impostazione freudiana abbia procurato ad essa dei fondamenti condivisi. Potremmo anche dire: abbia fornito alla psicologia dinamica un «paradigma» nel senso di Kuhn. Se non useremo, per lo più, questo termine è perché, per sua stessa ammissione, esso è stato impiegato da Kuhn con una varietà polivoca di significati, che egli ha poi ricondotto in specie a due sensi principali: da un lato, quello di «matrice disciplinaria», o «costellazione di credenze, valori, tecniche [...] condivise da un gruppo», dall’altro, quello di «risultati passati esemplari» (un significato che sembra aver progressivamente privilegiato)29. Mentre il primo senso di «paradigma» (l’intera costellazione condivisa di credenze, valori, tecniche, e così via) potrebbe essere appropriato per questa analisi, solo marginalmente essa potrà, invece, affrontare le questioni (peraltro di grande interesse) che sarebbero poste dalla seconda accezione, attraverso la quale Kuhn pare voler enfatizzare, più che la condivisione teorica di principi, la presenza di una modalità operativa comune nel risolvere problemi per i quali si riconosce esistano soluzioni esemplari. Detto questo, varrà la pena di ricordare come sia stato da più parti sostenuto che una significativa mancanza di unitarietà e unanimità caratterizzerebbe l’intero ambito della psicologia in generale30. Ha scritto, ad esempio, Luciano Mecacci: non si può parlare di uno sviluppo lineare della psicologia. Non vi è stata e non vi è una scienza unitaria, che si dispiega nel tempo in modo coerente attorno a un nucleo fondamentale di principi teorici, condivisi e accettati unanimemente dalla comunità dei suoi ricercatori. Abbiamo invece di fronte una famiglia di linee di ricerca, ciascuna delle quali ha propri assunti teorici fon29 «Da un lato, esso rappresenta l’intera costellazione di credenze, valori, tecniche, e così via, condivise dai membri di una data comunità. Dall’altro, esso denota una sorta di elemento di quella costellazione, le concrete soluzioni-di-rompicapo che, usate come modelli o come esempi, possono sostituire regole esplicite come base per la soluzione dei rimanenti rompicapo della scienza normale» (T.S. Kuhn, Poscritto 1969 in Id., La struttura, cit., p. 212; cfr. pp. 219-220). Ma sul rapporto tra Kuhn, la nozione di “paradigma” e la psicoanalisi è da vedere J. Forrester, On Kuhn’s Case: Psychoanalysis and the Paradigm, in «Critical Inquiry», XXXIII (2007), n. 4, pp. 782-819. 30 Che la psicologia non sia attualmente in un sapere paradigmatico potrebbe essere un’opinione che emerge da La struttura stessa, cfr. pp. 193-194. 110 Epistemologia e clinica damentali che la caratterizzano rispetto alle altre, proprie metodologie e proprie aree privilegiate di indagine31. È possibile che la psicologia dinamica non rappresenti solo una delle linee di ricerca che contribuiscono alla pluralità multiforme della psicologia in genere, ma sperimenti anche al proprio stesso interno una condizione di pluralità e, dunque, di non unitarietà. La questione della unitarietà e della unanimità in una disciplina può declinarsi anche in termini graduati, più che nella forma del tutto/nulla, ed è probabilmente questo anche il caso della psicologia dinamica. Tale questione, poi, può declinarsi con riferimento ad aspetti che riguardano più i fondamenti generali di un sapere, oppure specifici aspetti teorici, o invece le dimensioni più operative (e terapeutiche): anche se, evidentemente, si tratta di tre ambiti fortemente intrecciati tra di loro. In questo senso, il nostro focus sarà, come detto, principalmente sugli aspetti che potremmo chiamare fondanti/fondazionali. Questo per due ordini di ragioni: da un lato, perché si tratta dei temi che da sempre sembrano avere il nesso più immediato e diretto con la questione generale dello status della psicologia dinamica; dall’altro, perché si tratta di questioni che, già di per sé, hanno un carattere epistemologico: non sono, cioè, questioni che riguardano solo singoli concetti, singole ricostruzioni o pratiche terapeutiche, e che hanno poi, complessivamente, anche un riflesso sulla natura complessiva di una disciplina, ma sono questioni che, già di per sé, toccano tematiche dotate di un proprio rilievo epistemologico. Ora, almeno in riferimento a questi aspetti fondanti della psicologia dinamica, del suo status e della sua autocomprensione di sé, sussistono buone ragioni per ritenere, appunto, che la storia della disciplina sia 31 L. Mecacci, Storia della psicologia del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1992, p. viii. Sul concetto di «paradigma» in psicologia (e l’ampia bibliografia in materia), si veda soprattutto Id., Psicologia moderna e postmoderna, Laterza, Roma-Bari 1999, cap. II. Sulla stessa linea è anche Cionini per ciò che concerne le psicoterapie (cfr. L. Cionini (a cura di), Psicoterapie. Modelli a confronto, Carocci, Roma 1998, pp. 15-16). Mentre Alfredo Civita ha osservato: «se è vero che la storia della psicologia è stata ed è tuttora una storia di rivoluzioni è anche vero che nessuno degli orientamenti emergenti è mai riuscito a guadagnarsi il consenso unanime della comunità scientifica e professionale» e, con specifico riferimento alla pratica psicologica, ha aggiunto: «ci troviamo di fronte a una situazione che, nei termini di Kuhn, si potrebbe definire preparadigmatica […] L’idea di un paradigma condiviso appare a questo punto una pia illusione» (A. Civita, Filosofia della psicologia, in N. Vassallo (a cura di), Filosofie delle scienze, cit., pp. 296-297; cfr. Id., Psicoanalisi e psicoterapia cognitiva, «Sistemi Intelligenti», XVI (2004), pp. 271-281). Epistemologia e psicologie dinamiche 111 segnata dalla presenza di tratti salienti di non unitarietà e non unanimità (potremmo anche dire, con le precisazioni del caso: di non paradigmaticità). La stessa diversità di tradizioni, scuole, associazioni di specialisti tra loro alternative sembra, appunto, un effetto di questa mancanza di unanimità (il che non esclude che possa esserne divenuta anche una con-causa). Si potrebbe obiettare che in quest’ambito la paradigmaticità, più che derivare dal consenso, debba essere data da una sorta di stipula normativa, in ragione della quale la disciplina sarebbe definita dalla fedeltà al dettato freudiano e chi non si attiene ad esso, lungi dal rendere la disciplina non paradigmatica, semplicemente si esclude da essa. Il punto è, però, che proprio l’uso polemico che è stato fatto di questo argomento conferma come, al di là delle rivendicazioni terminologiche, sia estremamente difficile la reductio ad unum dell’ambito di ricerca, inaugurato da Freud, relativo ai nostri dinamismi coscienti e inconsci, di tipo affettivo, ideativo, relazionale, e alla cura “con parole” delle patologie connesse ad essi. In questo senso, l’eventuale uso in via esclusiva di un termine (“psicoanalisi”) solo per gli aderenti ad una data tradizione non cancella la pluralità effettiva che è possibile riscontrare entro quest’ambito. Questa pluralità è anche all’origine del duplice significato assunto di fatto dal termine “psicologia dinamica”. Giovanni Jervis, in una sezione (§ 1.2) del proprio manuale intitolata «Molteplicità della psicologia dinamica», ha così richiamato due accezioni dell’espressione «psicologia dinamica», la prima che la identificherebbe con le teorie di Freud, la seconda in base alla quale essa in modo più consapevole e colto, è vista come qualcosa di più ampio della psicoanalisi di Freud. In questo caso la psicologia dinamica ci si presenta come lo studio generale dell’inconscio, dei conflitti, delle nostre difese psicologiche, dei legami interpersonali. Appare quindi ragionevole esaminare come questi temi siano stati investigati non solo da Freud e dai suoi discepoli ma anche da una serie di altri autori di grande rilievo32. È del resto da rimarcare come, più dei filosofi, gli storici della psicologia dinamica si siano spesso mostrati acutamente consapevoli della questione, prestando la massima attenzione alle proposte alternative sviluppatesi nel corso della sua storia. Addirittura, Ellenberger ha af- 32 G. Jervis, Psicologia dinamica, Il Mulino, Bologna 2001, p. 12. 112 Epistemologia e clinica fermato in apertura del suo celebre saggio: Il punto di partenza del mio studio fu una riflessione sul contrasto che sussiste tra l’evoluzione della psichiatria dinamica e quella delle altre scienze. Nessuna branca della scienza ha subìto più metamorfosi di quante ne abbia subìto la psichiatria dinamica: dalla guarigione primitiva al magnetismo, dal magnetismo all’ipnotismo, dall’ipnotismo alla psicoanalisi e alle più recenti scuole dinamiche. Inoltre, queste varie tendenze hanno attraversato una successione di fortune alterne, passando dall’accettazione al rifiuto. In verità, esse non furono mai accettate in modo completo, inequivoco come le scoperte della fisica, della chimica e della fisiologia; occorre anche tenere presente come gli insegnamenti delle scuole dinamiche più recenti risultino in gran parte inconciliabili tra loro33. Per non restare sul piano di un’analisi generica e far emergere l’importanza di questo carattere plurale e non unanime dei fondamenti della psicologia dinamica, ci soffermeremo brevemente su alcuni aspetti del dissenso tra Freud e Jung. Dovrebbe così apparire chiaro come, fin dall’origine, in psicologia dinamica si confrontino opzioni teoriche e cliniche coeve che configurano prospettive d’insieme divergenti e alternative circa lo statuto, i metodi e i fini di questa disciplina34. Quelle che toccheremo saranno, come detto, questioni di fondo ma, è bene sottolinearlo, non questioni sovradeterminate rispetto alla effettiva costruzione di sapere psicodinamico e alla sua pratica. Un esempio ci aiuterà a cogliere meglio questo punto. Due fisici possono essere uno realista scientifico e uno antirealista senza che questo precluda loro la possibilità di cooperare quotidianamente a costruire una stessa teoria, o a effettuare uno stesso esperimento, traendone una conclusione scientifica analoga. Ciò significa che simili divergenze epistemologiche non hanno un riflesso diretto e immediato sull’unitarietà e l’unanimità interna a quella disciplina. Non così, per le divergenze fondazionali 33 H.F. Ellenberger, La scoperta dell’inconscio, cit., p. ix; cfr. pp. 54-56 e 1041-1043. Una attenzione precipua alla dialettica unitarietà/diversità è anche nel contributo storiografico di un terapeuta come Robert Wallerstein (The Talking Cures. The Psychoanalyses and the Psychoterapies, cit.), sul quale tornerò più avanti. 34 La questione non concerne solo il caso di Jung. Secondo Ellenberger (La scoperta dell’inconscio, cit., p. 653; cfr. anche pp. 669, 695, 1033): «né Adler né Jung possono essere definiti “psicoanalisti non ortodossi”, e i loro sistemi non sono semplicemente distorsioni della psicoanalisi» (intesa come dottrina freudiana), piuttosto: «entrambi avevano proprie idee personali prima di incontrare Freud, collaborarono con lui conservando la propria indipendenza e, dopo essersi staccati da lui, svilupparono sistemi che erano fondamentalmente diversi dalla psicoanalisi e che sono fondamentalmente diversi l’uno dall’altro». Epistemologia e psicologie dinamiche 113 della psicologia dinamica che esamineremo in questa sede e che, come vedremo, sembrano riflettersi su tutti i livelli dell’impresa psicodinamica: dalla metapsicologia alla pratica terapeutica. Del resto, esse costituirono, storicamente, un fattore decisivo di quella che è tra le prime rotture manifestatesi entro il movimento psicoanalitico, e forse la più importante: quella consumatasi, appunto, tra Freud e Jung, il «figlio maggiore […] successore e principe ereditario – in partibus infidelium»35. In questa sede, il nostro scopo non è tanto quello di sostenere che le tesi junghiane risultino preferibili a quelle di Freud, ma, come detto, solo quello di mostrare più in dettaglio la presenza e la natura del pluralismo in psicologia dinamica. Tenteremo, perciò, un primo, breve (e necessariamente rapsodico), confronto tra i due autori, con riferimento in particolare a tre tematiche, strettamente connesse tra loro: 1. Il rapporto tra la psicologia dinamica e la received view naturalistica 2. L’opzione pro o contro il riduzionismo 3. La causalità e il ruolo dell’interpretazione causale nell’analisi Per ragioni di sintesi e perché l’andamento crono-logico della discussione lo consente, evidenzieremo in particolare i passaggi nei quali Jung intende distanziarsi deliberatamente dalla teoria freudiana, per come egli la interpretava36. • Il rapporto tra la psicologia dinamica e la received view naturalistica L’attitudine di Freud rispetto alle scienze della natura del suo tempo è stata oggetto di innumerevoli ricostruzioni e molto si è discusso, ad esempio, attorno al lavoro di Frank Sulloway, secondo il quale egli sarebbe sempre rimasto un «criptobiologo» che nutriva la speranza di fondare una scienza naturale della mente, anche dopo l’abbandono 35 Lettere tra Freud e Jung, a cura di W. McGuire, Boringhieri, Torino 1974, lettera 139, 16 aprile 1909, p. 235. Jung stesso, del resto scriverà: «Il contrasto tra Freud e me si basa sostanzialmente sulla diversità dei postulati di principio» (C.G. Jung, Il contrasto tra Freud e Jung, (1929), in Id., Freud e la psicoanalisi. Opere Volume IV, Boringhieri, Torino 1973, pp. 355-364: p. 364). 36 In questa sede non sarà possibile, purtroppo, soffermarsi sugli aspetti di evoluzione diacronica dello stesso pensiero di Jung, per i quali si rimanda ai testi e alla letteratura secondaria citata nelle note. Per una sintesi d’insieme sul confronto di Jung con Freud circa tematiche epistemologiche, si veda anche D. Palliccia, Il rapporto con Freud, in A. Carotenuto (dir. da), Trattato di Psicologia analitica, UTET, Torino 1992, vol. I, cap, X, pp. 213-247, cfr. E. Liotta, Jung e il dissenso da Freud, ivi, vol. I, cap. XI, pp. 249-274. Non ho potuto avvalermi di M. Innamorati, Jung, Carocci, Roma 2013, apparso quando questo volume era già in bozze. 114 Epistemologia e clinica del cosiddetto Progetto di una psicologia (nel quale i processi psichici erano trattati «come stati quantitativamente determinati di particelle materiali identificabili»)37. Si tratta di un tema complesso, che tocca molteplici questioni, e che non può qui essere analizzato nella sua interezza (anche se vi torneremo nel prossimo paragrafo). Si può, forse, almeno osservare che, se Freud rimarcò l’autonomia della psicoanalisi, per come di fatto la veniva costruendo, rispetto a tutte le altre discipline scientifico-naturalistiche allora esistenti, egli comunque la concepiva interamente come una costruzione autonoma entro la cornice complessiva delle scienze della natura e, dunque, come una scienza naturale tout-court. Del resto, è esplicita in Freud anche l’idea che la psicoanalisi, non essendo portatrice di una sua propria Weltanschauung, «deve accettare quella della scienza»38. E tra gli elementi costitutivi di questa forma mentis vi è, tra l’altro, l’idea che, bandite intuizioni, rivelazioni, divinazioni, «lo spirito e l’animo umano sono oggetti della ricerca scientifica esattamente allo stesso modo di qualsiasi altra cosa estranea all’uomo». In quest’ottica, anzi, il contributo della psicoanalisi alla scienza «consiste precisamente nell’aver esteso la ricerca al campo psichico». Questo non vuol dire, però, che in Freud l’adesione alla visione scientifica standard del mondo fosse priva di tensioni e contraddizioni. Paul Roazen39, proprio trattando del rapporto FreudJung, ha ad esempio sottolineato l’interesse di Freud per il cosiddetto occulto e, in particolare, per i fenomeni della telepatia. Emergerebbero qui, però, «due distinte personalità» di Freud, non armonizzate: quella dello scienziato razionalista e quella del pensatore interessato ed aperto a fenomeni meno ovvi. La non armonizzazione si lega al fatto che tale apertura a quanto eccede la visione scientifico-naturalistica 37 S. Freud, Progetto di una psicologia, (1895), in Id., Progetto di una psicologia e altri scritti. Opere Volume II (1892-1899), Bollati Boringhieri, Torino 1968, pp. 201-284: p. 201. Cfr. F. Sulloway, Freud, Biologist of the Mind. Beyond the Psychoanalytic Legend, Basic Books, New York 1979; trad. it. Freud, biologo della psiche, Feltrinelli, Milano 1982 (sul Progetto cap. IV; su Freud-Jung, specie pp. 477-481); A. Grünbaum, I fondamenti della psicoanalisi, cit., pp. 11-12; E.R. Kandel, L’età dell’inconscio, cit., pp. 67-75. 38 S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), (1932), in Id., L’uomo Mosè e la religione monoteistica e altri scritti. Opere Volume XI (1930-1938), Bollati Boringhieri, Torino 1979, pp. 115-284: lezione 35, pp. 262-263. E aggiunge che tale Weltanschauung: «accetta [...] l’unitarietà della spiegazione dell’universo, ma solo come un programma il cui adempimento è differito nel futuro». Sulla diversa impostazione di Freud e Jung in fatto di Weltanschauung, cfr. D. Palliccia, Il rapporto con Freud, cit., § 2.2. 39 P. Roazen, Freud and his followers, Knopf, New York 1975; trad. it. Freud e i suoi seguaci, Einaudi, Torino 1998, cap. VI, § 2. Epistemologia e psicologie dinamiche 115 (e deterministica) del mondo sembra rimanere in Freud una componente non integrata nella sua concezione complessiva della realtà e della psicoanalisi, e l’ammissione della possibilità di tali fenomeni si configura come una sorta di ombra che si proietta sulla scientificità dell’edificio psicoanalitico, ma non deve essere ammessa al suo interno40. Ovviamente, il punto rilevante non sta affatto nella telepatia in sé, ma nel fatto che per Freud la possibilità (o la tentazione) di ammettere l’esistenza di fenomeni che eccedono la descrizione naturalistica disponibile del mondo sembri presentarsi come un dato di per sé problematico e che rischia di squalificare un sapere che, evidentemente, avrebbe tra i propri ingredienti di legittimità il fatto di collocarsi pienamente e compiutamente entro la visione scientifica e naturalistica del mondo data. Proviamo, invece, a evidenziare alcuni tratti rilevanti dell’attitudine di Jung, più che verso un ideale di scientificità in sé, verso la received view naturalistica, o la vigente Weltanschauung scientifica (per dirla con Freud)41. Ovviamente, tali tratti non ci interessano in quanto mere opinioni private di Jung, ma perché incidono direttamente sulla sua costruzione della psicologia analitica. Secondo Jung: La psicologia freudiana si muove entro gli angusti confini dei presupposti scientifici materialistici della fine del diciannovesimo secolo, senza mai aver indagato sulle loro premesse42. 40 Sembra, anzi, che i due aspetti si escludano e si potenzino a vicenda: «Stranamente, la tendenza a credere nella trasmissione del pensiero si manifestò in un periodo della sua vita, gli anni ’20, in cui egli insisteva sempre più sulla natura puramente scientifica, e non artistica, della psicoanalisi» (P. Roazen, Freud e i suoi seguaci, cit., p. 291). Per il confronto Freud-Jung su queste tematiche, cfr. anche E. Liotta, Jung e il dissenso da Freud, cit., § 2.5. 41 Come ha notato Shamdasani, infatti «I problemi posti dalla “volontà di scienza” della psicologia non devono essere risolti […] eliminando semplicemente l’etichetta di scienza e dichiarando che le psicologia è un’arte o un’ermeneutica. Il problema cruciale non è se una disciplina particolare si autodefinisca o meno come scienza, bensì la natura delle sue prassi e delle sue istituzioni» (S. Shamdasani, Jung and the Making of Modern Psychology. The Dream of a Science, Cambridge University Press, Cambridge 2003; trad. it. Jung e la creazione della psicologia moderna. Il sogno di una scienza, Magi, Roma 2007, p. 28, cfr. cap. I). 42 C.G. Jung, Sigmund Freud: Necrologio, (1939), in Id., Psicoanalisi e psicologia analitica. Opere Volume XV, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 215-224: p. 222. Alcuni scritti di Jung sul proprio rapporto con Freud sono stati raccolti assieme in C.G. Jung, Il contrasto tra Freud e Jung, Boringhieri, Torino 1975 (qualora si rimandi a questo volume, invece che al saggio omonimo di Jung, l’indicazione bibliografica sarà integrale). 116 Epistemologia e clinica L’accusa può essere sommaria, ma esprime la diversa attitudine che Jung sentiva di avere verso quei presupposti, la sua convinzione che Freud avesse poco approfondito il retroterra filosofico del proprio punto di vista e, forse, anche la convinzione di appartenere ad una diversa, successiva fase del dialogo con le scienze sperimentali43. Ad ogni modo, nell’ottica junghiana non sembra esserci ragione per cui la psicologia dovrebbe idealmente subordinarsi alla Weltanschauung della moderna scienza naturale, né per supporre che tutti i fenomeni e i nessi che l’indagine psicologica mette in luce e fa propri saranno progressivamente meglio studiati grazie alle odierne metodologie naturalistiche. Più in particolare, come vedremo, la scienza naturale, per Jung, ci offre un genere di conoscenza che può essere esaustiva quando ci occupiamo di certi tipi di oggetti nello spazio-tempo, ma che non è mai sufficiente quando in questione non sono oggetti, bensì la psiche. Del resto, in un’ottica molto più generale, la scienza rispetto alla psiche non sarebbe che «una delle sue funzioni, e non potrà mai esaurire l’abbondanza della sua vita»44. Di conseguenza, come Jung ha più volte rimarcato, «la cosiddetta concezione scientifica del mondo non può [...] essere se non un punto di vista parziale»45. Addirittura, come arriverà a scrivere: La psicologia deve abolirsi come scienza e proprio abolendosi raggiunge il suo scopo scientifico. Ogni altra scienza ha un “al di fuori” di sé stessa; ma non la psicologia, il cui oggetto è il soggetto di ogni scienza in generale46. Si può aggiungere che Jung riteneva che tutte le teorie psicologiche del presente (inclusa quella da lui proposta) fossero non più che 43 Per quanto, come ha mostrato Shamdasani (Jung e la creazione della psicologia moderna, cit.) le concezioni di Jung fossero assai influenzate dalla scienza e dalla filosofia della natura dell’Ottocento. 44 C.G. Jung, Il contrasto tra Freud e Jung, cit., p. 363. 45 C.G. Jung, La sincronicità come principio di nessi acausali, (1952), in Id., La dinamica dell’inconscio. Opere Volume VIII, Boringhieri, Torino 1976, pp. 447-550: p. 452. 46 C.G. Jung, Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, (1954), in Id., La dinamica dell’inconscio. Opere Volume VIII, Boringhieri, Torino 1976, pp. 177-251: p. 240. Giunti a riconoscere il peculiare rapporto tra soggetto e oggetto in psicologia, poi, secondo Aversa, per Jung: «Non si tratta più […] di denunciare l’insufficienza del metodo delle scienze naturali o quello delle scienze della cultura. L’impossibilità di conoscere non è insita nel metodo qualunque esso sia, ma è insita in qualunque situazione conoscitiva in cui il soggetto della conoscenza e l’oggetto della conoscenza rivelino una sostanziale identità» (L. Aversa, Il problema dell’antinomia, in L. Aversa (a cura di), Fondamenti di Psicologia Analitica, Laterza, RomaBari 1995, pp. 55-76: p. 59). Epistemologia e psicologie dinamiche 117 «espressione veritiera» di quanto era emerso lungo il percorso soggettivo di indagine del singolo ricercatore, e dipendessero in modo decisivo dallo stesso assetto psicologico di costui. In questo senso, sarebbe stato ancora troppo presto per aspirare a teorie di portata autenticamente generale e fondante. La stessa psicoanalisi freudiana sarebbe anche espressione o «sintomo» delle caratteristiche psichiche di Freud, nonché delle specifiche condizioni storiche in cui essa sorse: non si tratterebbe, dunque, solo del frutto asettico di uno sforzo scientifico, come vorrebbe l’approccio dogmatico47. Jung, d’altra parte, riteneva che il pluralismo e il prospettivismo costituissero, in certa misura, una componente ineliminabile della psicologia, anche se si poteva sperare che, col tempo, sarà raggiunta una larga convergenza su alcuni suoi fondamenti48. Questa prospettiva di Jung, poi, sembra riflettersi anche nell’atteggiamento verso gli ambiti di sapere diversi dalle scienze sperimentali della natura. Ad essi, infatti, si guarda non solo come ambiti che possono fornire alla psicoanalisi occasioni di applicazione del proprio metodo, ma anche come discipline che possono recare un contributo genuino di conoscenza, nel quadro di una concezione «enciclopedica» della psicologia49. • Riduzionismo/antiriduzionismo Nell’affrontare questa tematica sarà utile distinguere tra processo di riduzione e riduzionismo. La riduzione è una pratica teorico-concettuale che può declinarsi in vari modi e che Jung giudica in linea di principio legittima e, anzi, caratteristica di certe procedure scientifiche del sapere, purché se ne riconosca la natura provvisoria e interna a un framework dato50. Naturalmente, poi, questa posizione di principio non 47 Cfr. C.G. Jung, Prefazione a W. M. Kranefeldt, “Die Psychoanalyse”, (1930), in Id., Freud e la psicoanalisi, cit., pp. 343-353. Cfr. D. Palliccia, Il rapporto con Freud, cit., § 2.1. 48 Su questo specie: C.G. Jung, Il contrasto tra Freud e Jung, cit.; cfr. S. Shamdasani, Jung e la creazione della psicologia moderna, pp. 116-129; P. F. Pieri, Introduzione a Jung, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 87-91, 94-97. Considerazioni di questo genere si possono trovare nelle conferenze del 1935 alla Clinica Tavistock. 49 Come scriverà in una lettera del 1913, ai curatori della Psychoanalytic Review: «Abbiamo bisogno non solo del lavoro degli psicologi medici, ma anche di quello dei filologi, degli storici, degli archeologi, dei mitologi, degli studiosi di folklore, degli etnologi, dei filosofi, dei teologi, dei pedagoghi e dei biologi» (citato in S. Shamdasani, Jung e la creazione della psicologia moderna, cit., pp. 38-39). 50 Al punto che Pieri (Introduzione a Jung, cit., pp. 63-66), richiamando minuziosamen- 118 Epistemologia e clinica implica che ogni riduzione appaia valida o accettabile e, anzi, come vedremo, Jung di fatto contesterà varie delle spiegazioni riduttive di Freud. Ma, soprattutto, ne contesterà l’attitudine riduzionista di fondo. Il riduzionismo si legherebbe, infatti, alla assolutizzazione di alcune rappresentazioni riduttive, come se non fossero costrutti teorici parziali e situati, ma cogliessero e fissassero, una volta e per sempre, tutti e soli i caratteri rilevanti del fenomeno studiato51. Sembra, dunque, esservi un duplice livello di valutazione nel confronto di Jung con Freud su questo tema: la contestazione della validità di alcune sue spiegazioni riduttive e, a partire da questo, la contestazione di una più generale modalità unilaterale di approccio alla spiegazione e al suo uso. Sul primo piano, cioè per ciò che concerne la critica puntuale alle tesi riduttive di Freud, uno degli aspetti più volte rimarcati da Jung si lega alla sua presa di distanza da Freud riguardo alla concezione e al ruolo della libido. Jung, infatti, rifiuta l’idea che l’energia libidica sia sempre ri(con)ducibile primariamente all’ambito sessuale (parla, infatti, di una riserva «nei confronti dell’ubiquità della sessualità»), offrendone, invece, una lettura polivoca e di tipo finalistico, tanto da designarla con il termine più generico di «energia psichica»52. Nel precedente Trasformazioni e simboli della libido (1912) aveva scritto è più prudente, parlando della libido, intendere con questo termine un valore energetico suscettibile di comunicarsi a una sfera qualsiasi di attività: potenza, fame, odio, sessualità, religione, senza essere un istinto specifico53. te le varie tipologie di riduzione considerate da Jung, ha potuto parlare di una «assunzione critica della riduzione»: una formulazione che accentua l’aspetto positivo di essa nell’opera junghiana, ove non di rado il contesto in cui si parla di riduzione fa emergere soprattutto la sottolineatura dei limiti e dell’unilateralità delle riduzioni esaminate. La riduzione caratteristica della comprensione costruttiva è in caso solo «riduzione a tipi generali», cioè una forma di riduzione che sembra confermare l’idea che per Jung la psicologia «non può tradursi o raffigurarsi che in se stessa» (Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, cit., p. 240; cfr. S. Shamdasani, Jung e la creazione della psicologia moderna, cit., p. 125). 51 Per una prima introduzione alle nozione di riduzione e riduzionismo in Jung, si vedano le rispettive voci in P.F. Pieri, Dizionario Junghiano. Edizione ridotta, Bollati Boringhieri, Torino 20052, pp. 387-388. Rileva altrove Pieri: «Jung parla in genere di riduttivismo a proposito delle concezioni psicologiche che non rispettano la complessità e l’articolazione dei fenomeni di cui vogliono rendere conto: riducendo la realtà a un solo aspetto e la conoscenza a un solo approccio, è fondamentalmente riduttivo lo scientismo che pervade il positivismo» (Introduzione a Jung, cit., p. 63). 52 C.G. Jung, Saggio di esposizione della teoria psicoanalitica, (1913), in Id., Freud e la psicoanalisi, cit., pp. 109-241: lezione 1, p. 146. 53 C.G. Jung, Simboli della trasformazione, (19121; 19524). Opere Volume V, Boringhie- Epistemologia e psicologie dinamiche 119 Per Jung, più in generale, l’energia psichica è qualcosa che gli uomini, in un contesto culturale, continuamente trasformano e traspongono, in chiave simbolica. Allo stesso tempo, egli riterrà che non tutti i fenomeni patologici di psiconevrosi si possano interpretare sempre in termini di conflittualità legate all’energia libidica, concepita secondo l’ottica freudiana. Scriverà infatti: «non potevo ammettere che tutte le nevrosi fossero causate da rimozioni sessuali o da traumi sessuali. Era così in certi casi, ma non in altri»54. Emerge, quindi, come la critica a Freud sia in questo caso una critica doppiamente antiriduzionista: si intende, infatti, proporre una interpretazione della libido più polivoca, rispetto a quella freudiana e, al contempo, si rifiuta l’idea che alla base di tutte le psiconevrosi vi siano sempre antichi conflitti libidici di tipo sessuale. È comunque opportuno precisare che, da un lato, il concetto di energia psichica viene introdotto come concetto proprio della psicologia e autonomo rispetto a quello di energia fisica, dall’altro, le dimensioni energetiche di tipo psichico sarebbero, almeno in linea di principio, passibili di una qualche forma ad hoc di valutazione quantitativa. Esse, dunque, potranno essere studiate “scientificamente”, mentre alcuni principi (come quello di conservazione) che valgono per l’energia fisica, troverebbero anche una forma di analogo per l’energia psichica55. Ma si tratta di uno dei tentativi più problematici e in dive- ri, Torino 1970, parte II, p. 140. E aveva notato: «La libido è appetitus allo stato naturale. Sotto l’aspetto ontogenetico, l’essenza della libido è costituita dai bisogni corporali come la fame, la sete, il sonno, la sessualità, e dagli stati emotivi e affettivi» (p. 138). Vedi anche C.G. Jung, Energetica psichica, (1928), in Id., La dinamica dell’inconscio. Opere Volume VIII, Boringhieri, Torino 1976, pp. 9-77, specie § 3. Cfr. H.F. Ellenberger, La scoperta dell’inconscio, cit., pp. 806-807; M. La Forgia, L’epistemologia junghiana, in L. Aversa (a cura di), Fondamenti di Psicologia Analitica, cit., pp. 3-26, specie § 2.1; P. F. Pieri, Introduzione a Jung, cit., pp. 29-31; e: S. Shamdasani, Jung e la creazione della psicologia moderna, cit., pp. 253-256; 264-277; 290-297; che ricostruisce anche il rapporto tra la concezione di Jung e il pensiero di Schopenhauer e di Bergson). Sulla nozione di libido in Freud, cfr. J. Laplanche-J.B. Pontalis, Vocabulaire de la psychanalyse, PUF, Paris 1967; trad. it. Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, Roma-Bari 1993, t. I, pp. 320-322, per un punto di vista apertamente freudiano sul contrasto Freud-Jung in merito E. Glover, Freud or Jung?, Allen & Unwin, London 1950; trad. it. Freud o Jung?, Sugarco, Milano 1978, cap. III. 54 C.G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, Rizzoli, Milano 1992, p. 189. E aveva rimarcato: «non potevo essere d’accordo con Freud. Egli considerava come causa della rimozione il trauma sessuale, e questo non mi bastava» (p. 188). 55 Su questo aspetto C.G. Jung, Energetica psichica, cit., specie § 1.2 (mentre sul contra- 120 Epistemologia e clinica nire della riflessione junghiana che non possiamo qui approfondire56. Sempre in chiave antiriduzionista, poi, Jung riterrà necessario distinguere il ruolo della sessualità e dell’istinto riproduttivo nella filogenesi di certi fenomeni psichici e comportamentali, da quello che potremmo definire il ruolo costitutivo che tali fattori hanno al presente, e che possono giocare in una spiegazione del loro significato e della loro finalità attuale: Anche se non si può sollevare alcun dubbio sull’origine sessuale della musica, sarebbe una generalizzazione priva di gusto e valore voler inserire la musica nella categoria della sessualità. Una simile terminologia porterebbe a trattare del duomo di Colonia in un testo di mineralogia, in quanto è fatto per buona parte di pietre57. In altri termini, un conto è ricondurre l’origine, il primo emergere di una data pratica all’influenza di certi fattori, un altro è pretendere che il significato di tale pratica, a prescindere dai mutamenti contestuali e culturali, sia per sempre riducibile a nient’altro che quei fattori e, di conseguenza, sia apprezzato, compreso e conosciuto nel modo più appropriato attraverso la sola analisi genealogico-decostruttiva. Sembra così emergere come, nei pur diversi casi e sui pur differenti livelli, la presa di distanza di Jung da quello che riteneva essere l’insegnamento di Freud sia, di frequente caratterizzata dalla contrapposizione a quello che viene visto come un riduzionismo unilaterale, in fa- sto con Freud in tema di libido si torna alle pp. 65-67); Ellenberger (La scoperta dell’inconscio, cit., pp. 815-816) sottolinea come nell’ottica di Jung dell’energia psichica sarebbe possibile valutare le differenze quantitative, ma non compiere misurazioni dirette vere e proprie. 56 Sulla rilevanza della questione energetica per la psicologia dell’epoca, cfr. S. Shamdasani, Jung e la creazione della psicologia moderna, cit., pp. 244 segg. (su Jung specie pp. 290297), che giustamente evidenzia l’improbabilità che le considerazioni junghiane dimostrino la applicabilità all’energia psichica di principi come quelli della fisica e raggiungano più che un carattere metaforico: «Il problema sollevato dal tentativo di affermare che il concetto di libido soddisfacesse i requisiti della conservazione dell’energia e dell’entropia era se in ballo ci fosse qualcosa di più di un’analogia e di una trasposizione metaforica del linguaggio della fisica nella psicologia o se parlare di “entropia psicologica” fosse meno metaforico che parlare di “personalità magnetica”» (p. 295). Circa lo statuto e la complessa evoluzione della concezione energetica di Jung, si veda L.Verdi-Vighetti, La libido e l’energia psichica, in A. Carotenuto (dir. da), Trattato di psicologia analitica, cit., vol. II, cap. XXVII, pp. 1-29. 57 C.G. Jung, Saggio di esposizione della teoria, cit., p. 147. Si tratta di un’analogia cara a Jung, cfr. ad esempio Id., Sulla comprensione psicologica di processi patologici, Appendice a Il contenuto della psicosi, (1914), in Id., Psicogenesi delle malattie mentali. Opere Volume III, Boringhieri, Torino 1971, pp. 185-199: p. 188; Id., Simboli della trasformazione, cit., p. 139. Epistemologia e psicologie dinamiche 121 vore di una forma di pluralismo. Naturalmente, queste messe a punto non sono mai negazioni di un effettivo contributo esplicativo dato da certi fattori portati alla luce da Freud: il rifiuto riguarda piuttosto quella che, agli occhi di Jung, pare configurarsi al modo di una loro assolutizzazione riduzionista. Come è stato rilevato, e come notavamo, Jung appare critico soprattutto nei confronti della presentazione da parte di Freud e della sua scuola, delle concezioni psicologiche come realtà assolute e non come ipotesi, strumenti, o modelli e quindi non come costrutti e in quanto tali rappresentazioni di oggetti naturali e non già oggetti naturali tout court; oggetti che si danno relativamente e vincolatamente a una determinata pratica [...]58. A riprova e sintesi di quanto detto, si può osservare come, a più riprese, la critica che Jung rivolgerà a Freud e al metodo analitico-riduttivo sarà da lui compendiata nel rifiuto di una formula, tipicamente riduzionista, che a suo modo di vedere non rendeva conto adeguatamente della vita psichica: «null’altro che», «niente altro che»59. Ancora nel necrologio scritto in memoria di Freud osserverà: Da tutto il pensiero di Freud ridonda dunque su di noi un terribile e pessimistico “niente altro che”. In esso non si apre mai uno spiraglio liberatore su forze soccorritrici, risanatrici che l’inconscio faccia giungere a beneficio del malato60. 58 P.F. Pieri, Introduzione a Jung, cit., p. 22; sulla critica dello scientismo, più ampiamente: pp. 20-29. 59 «Il metodo analitico-riduttivo ha il vantaggio di essere molto più semplice del metodo costruttivo. Esso riduce a fondamenti generali, essenzialmente noti, di natura molto semplice. Il secondo invece deve costruire con materiali estremamente complicati, per raggiungere un obiettivo sempre di nuovo sconosciuto. Questo lavoro costringe il ricercatore a tenere pienamente conto di quante forze sono all’opera nell’anima umana. I bisogni religiosi e filosofici dell’umanità, che il metodo riduttivo cerca di sostituire con concetti elementari secondo il principio del “null’altro che”, devono essere riconosciuti come tali e accettati come indispensabili componenti costruttive, se si vuole invece tener conto in modo costruttivo della natura della forza psichica» (C.G. Jung, Sulla comprensione psicologica di processi patologici, cit., p. 198; si veda anche pp. 192-193; cfr. S. Shamdasani, Jung e la creazione della psicologia moderna, cit., pp. 76-77, specie nota 25). Un’accusa analoga («Questo, in realtà, è solo questo») è rivolta a Freud da Wittgenstein (Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, Adelphi, Milano 1992, pp. 86-95). 60 C.G. Jung, Sigmund Freud: Necrologio, cit., p. 221; cfr. anche C.G. Jung, Sigmund Freud come fenomeno storico-culturale, (1932), in Id., Psicoanalisi e psicologia analitica. Opere Volume XV, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 3-12: p. 6; nello stesso saggio Jung aggiun- 122 Epistemologia e clinica • La causalità e il ruolo dell’interpretazione causale nell’analisi Il modo junghiano di concepire lo statuto della psicologia analitica e la natura delle interpretazioni che essa ricerca si manifesta anche nella trattazione che egli propone della causalità e delle sue forme, e, di conseguenza, nel ruolo che ascrive alla ricostruzione eziologica in rapporto alla terapia e al suo successo. Ci limitiamo qui a qualche annotazione di carattere molto generale, senza in alcun modo poter rendere giustizia ad un tema che è tra i più rilevanti e complessi per la filosofia della psicologia dinamica. La prospettiva di Jung sembra riguardare sia la portata dei tradizionali nessi causali, sia la loro natura, sia, infine, il ruolo della spiegazione causale nella psicologia. Quanto al primo aspetto, contro l’idea di una «onnipotenza della causalità», Jung ritiene che i nessi rilevanti tra fenomeni, vissuti psichici interiori ed eventi fisici oggettivi non siano solo quelli di carattere causale (o, come minimo, non siano sempre conformi alle concezioni causali della fisica classica). Come scriverà: «il legame tra eventi è in certe circostanze di natura diversa da quella causale, ed esige un diverso principio interpretativo»61. In secondo luogo e soprattutto, la stessa causalità (in specie la causalità psichica) dovrà essere adeguatamente concepita, e ciò non può accadere compiutamente entro il solo paradigma materialistico (causa = causa materiale), o entro la cornice delle sole scienze naturali. Scrive infatti: I grandi progressi che sono stati compiuti nel campo dell’anatomia e della fisiopatologia cerebrali, e l’attuale generale disposizione favorevole alle scienze naturali ci hanno insegnato a cercare sempre e dappertutto cause materiali ge: «Ogniqualvolta egli [scilic. Freud] intraprende una dolorosa riduzione […] possiamo stare sicuri di trovarci di fronte a una sopravvalutazione o a una falsificazione». 61 C.G. Jung, La sincronicità come principio di nessi acausali, cit., p. 451. Jung arriverà anche a chiedersi: «il coordinamento dei processi psichici e di quelli fisici nell’essere vivente non andrebbe inteso come un fenomeno sincronistico, anziché come una relazione causale?» (p. 524). Cfr. anche la voce Sincronicità in P.F. Pieri, Dizionario Junghiano, cit., pp. 423-424; M. La Forgia, L’epistemologia junghiana, cit., § 2, e soprattutto Id., La sincronicità, in A. Carotenuto (dir. da), Trattato di psicologia analitica, cit., vol. II, cap. XXVIII, pp. 31-59, specie p. 33. Si possono avanzare riserve circa il modo in cui Jung ritiene di poter inquadrare questa concezione alla luce della fisica novecentesca: ma ciò che qui più interessava era, per così dire, la pars destruens del discorso di Jung, cioè, la messa in dubbio dell’idea che si debba accettare la rilevanza soltanto di quei nessi che sono stati preventivamente incorporati e spiegati entro la cornice concettuale delle scienze sperimentali della natura esistenti. Epistemologia e psicologie dinamiche 123 e restarcene soddisfatti quando le abbiamo trovate […] Lo sviluppo delle scienze naturali portò con sé una visione del mondo generale, quella del materialismo scientifico, che dal punto di vista psicologico, si basa su una considerevole sopravvalutazione della causalità fisica. Il materialismo scientifico rifiuta per principio di riconoscere un qualunque altro rapporto causale che non sia quello fisico62. Jung intende respingere questo «dogma materialistico» che oscurerebbe la comprensione della vera e propria «etiologia psicologica» e porterebbe a trascurare sistematicamente fattori decisivi. Si tratta, infatti, anche di ripensare il ruolo della attuale spiegazione causale entro la psicologia. Per Jung, il riferimento alla causalità esprime una «comprensione all’indietro», che procede in modo oggettivo e riduzionista e che è tipico de «l’attuale modo di spiegazione scientifica. Spiegazione scientifica vuol dire spiegazione causale»63. Esso configura una modalità di operare legittima, ma, egli aggiunge, che la scientificità si identifichi effettivamente con la spiegazione causale è una questione della cui validità «sarebbe ancora da discutere. Per il campo della psicologia devo esprimere con ogni energia i miei dubbi in proposito»64. Non si tratta in alcun modo di negare l’importanza nella psicoanalisi della spiegazione causale ed eziologica “volta all’indietro”, per così dire, il fatto è, però, che questo sapere oggettivo per Jung: è solo una metà dell’anima. L’altra metà, la più importante si deve intendere costruttivamente, verso l’avanti, e quando ciò non accade, non si è capito nulla65. In questo senso, dirà Jung, quasi con ironia, la psicoanalisi freudia62 C.G. Jung, Il problema della psicogenesi nella malattia mentale, (1919), in Id., Psicogenesi delle malattie mentali. Opere Volume III, Boringhieri, Torino 1971, pp. 219-235: p. 221. E Jung aggiunge: «L’accettazione quasi incontrastata del dogma materialistico nella psichiatria si basa sul principio che la medicina è una scienza naturale e lo psichiatra come medico è uno scienziato». Cfr. Id., Energetica psichica, cit., p. 15. Vedi anche la voce Materialismo in P.F. Pieri, Dizionario Junghiano, cit., pp. 250-254. 63 C.G. Jung, Sulla comprensione psicologica di processi patologici, cit., p. 187. E aggiunge: «Noi perciò tendiamo naturalmente, ogni volta che pensiamo in modo scientifico, a dare spiegazioni e interpretazioni causali, e a ritenere spiegata una cosa quando è stata ridotta analiticamente alla causa e al principio generale. In questo il metodo di spiegazione psicologica di Freud è, nel suo principio, rigorosamente scientifico». 64 Ibidem. 65 Ivi, p. 188. Cfr. C.G. Jung, Sigmund Freud come fenomeno storico-culturale, cit., p. 10. Si veda anche D. Palliccia, Il rapporto con Freud, cit., pp. 219-221, 233-234. 124 Epistemologia e clinica na potrebbe essere indubbiamente scientifica, «ma non centrerebbe affatto il punto essenziale». Scriverà, perciò: La lacuna della concezione di Freud consiste nell’unilateralità a cui sempre inclina la concezione meccanicistico-causale, cioè nella reductio ad causam semplificatrice che, quanto più vera, più semplice e più comprensiva, tanto meno riesce a rendere giustizia dell’importanza del fenomeno così analizzato e ridotto66. Sarebbe, invece, decisivo riconoscere, ad esempio, come, nell’evolversi della psiche, «le causae si trasformano […] in mezzi per raggiungere un fine, in espressioni simboliche di un cammino da percorrere»67. Ma cogliere questa dimensione richiede secondo Jung la capacità di sviluppare un peculiare approccio interpretativo, che è poi quello della sua psicologia: Il punto di vista causale vuole sapere solo in che modo quest’anima presente sia divenuta così come si presenta oggi. Il punto di vista costruttivo invece si domanda come, da quest’anima divenuta così, si potrà gettare un ponte verso il futuro68. Nella psicologia analitica diventano, così, centrali anche domande diverse da quelle che poteva porsi lo scienziato, e il terapeuta non si limiterà più solo a cercare una esatta ricostruzione eziologica circa l’insorgere del disturbo, ma si domanderà, ad esempio, anche: «qual è il compito necessario al quale il paziente non vuole adempiere?»69. Riassuntivamente, come scrive Jung stesso: Al contrario di Freud e Adler, il cui principio interpretativo è sostanzialmente riduttivo e quindi sempre rivolto al condizionamento infantile dell’uomo, io attribuisco un peso alquanto maggiore all’interpretazione costruttiva e sintetica considerando il fatto che il domani è praticamente più importante dello ieri, e il “da dove” è meno essenziale del “verso dove” […] sono convinto che nessuna comprensione del passato e nessuna reviviscenza, per quanto intensa, di reminiscenze patogene possa liberare l’uomo dal potere del passa- 66 C.G. Jung, Energetica psichica, cit., cap. II, § 2, p. 27. Cfr. la voce Causalità in P.F. Pieri, Dizionario Junghiano, cit., pp. 70-71; Id., Introduzione a Jung, pp. 87-91. 67 C.G. Jung, Energetica psichica, cit., cap. II, § 2, pp. 32-33. 68 C.G. Jung, Sulla comprensione psicologica di processi patologici, cit., p. 189, cfr. p. 191. 69 C.G. Jung, Sulla psicoanalisi, (1916), in Id., Freud e la psicoanalisi, cit., pp. 259-269: pp. 266-267. Epistemologia e psicologie dinamiche 125 to quanto la costruzione del nuovo […] Né la semplice presa di coscienza delle cause è sufficiente, in quanto la guarigione della nevrosi in ultima analisi è un problema morale e non l’effetto magico della riemergenza di ricordi70. In questa ottica, allora, sarà anche il rapporto interpersonale con il terapeuta ad avere un ruolo decisivo in vista di un superamento stabile della condizione patologica. Infatti, a patto che il terapeuta sia adeguato (non solo tecnicamente, ma umanamente e culturalmente), la relazione clinica stessa potrà costituire il primo ponte verso il futuro del quale l’analista junghiano va in cerca. Infatti, tale rapporto personale: «per il paziente, è per così dire un ponte sul quale arrischiare i primi passi verso un’esistenza ricca di significato»71. Naturalmente, questo non autorizzerà in alcun modo il terapeuta ad indulgere in una precettistica autoritaria, o a indirizzare il paziente secondo le proprie convinzioni, sostituendosi a lui. Semmai, si tratterà, da parte sua, di mettere integralmente in gioco anche se stesso, in vista di quello che appare l’obiettivo comune e qualificante della psicoanalisi: «trovare la linea di minor resistenza che si oppone all’armonico sviluppo della personalità»72. È da notare come l’impostazione epistemologica junghiana venga a incidere in modo diretto anche sulla concezione del lavoro terapeutico e delle condizioni per una sua efficacia clinica, nonché sul tipo di consapevolezza che si dovrà suscitare nel paziente, in vista del superamento del disturbo. A questo scopo, infatti, oltre e al di là di un corretto insight circa la propria patologia, diventa decisivo soprattutto saper suscitare in lui una adeguata autocomprensione evolutiva, ovvero, collaborare con lui a far emergere una meta valida per il suo sforzo, una destinazione appropriata per il suo potenziale fin lì mal indirizzato, aiutandolo, così, a cogliere quale «cammino» indicano i suoi disturbi, 70 C.G. Jung, Prefazione a W. M. Kranefeldt, cit., p. 350. C.G. Jung, Il valore terapeutico dell’abreazione, (1921/1928), in Id. Pratica della psicoterapia. Opere Volume XVI, Boringhieri, Torino 1981, pp. 137-148: p. 147. 72 Questioni attuali di psicoterapia: carteggio tra C.G. Jung e R. Loÿ, (1914), in C.G. Jung, Freud e la psicoanalisi, cit., pp. 271-310: p. 292 (lettera di Jung dell’11 febbraio 1913, corsivo nell’originale). Nella stessa corrispondenza, pur riconoscendo gli aspetti suggestivi che accompagnano ogni interazione terapeutica, Jung afferma: «è meglio [...] che rinunciamo ad ogni pretesa di dare degli orientamenti e che ci sforziamo solo di mettere in rilievo tutto ciò che l’analisi porta alla luce, in modo che il paziente veda chiaro e sia capace di trarre appropriate conseguenze. Alla lunga, del resto, egli finisce col non credere a ciò che non ha conquistato personalmente, e quello che ha accettato in base al principio d’autorità serve solo a farlo restare infantile» (p. 299). 71 126 Epistemologia e clinica e lavorando ad «aprire dei canali di deflusso, cioè trovare le possibilità o l’atteggiamento che offrano all’energia il gradiente che le è appropriato»73. Tutto questo perché, come Jung afferma efficacemente: «una forma di vita non può essere abbandonata se non se ne riceve un’altra in cambio»74. Risulta, allora, chiaro come, in questa impostazione, saranno in linea di principio molti i fattori concorrenti, molte le condizioni concomitanti da considerare rilevanti per il successo terapeutico, al di là della veridicità della ricostruzione resa accessibile al paziente. Non solo, come già sappiamo, il fatto di fornire tale ricostruzione al momento debito, ma anche il fatto di fornirla all’interno di una relazione clinica sufficientemente buona e produttiva, e, dunque, ad un paziente che ha maturato un atteggiamento di apertura verso un terapeuta che stima e del quale si fida75. E altrettanto decisivo sarà, appunto, il fatto di saper costruire con il soggetto anche una prospettiva evolutiva adeguata per lui, vale a dire, di produrre non solo una corretta presa di coscienza della sua forma di vita pregressa e attuale, ma anche la configurazione plausibile di una nuova forma di vita, diversa e meglio rispondente alla sua natura profonda. L’efficacia della terapia, quindi, sarà vista come il frutto di molte componenti, e la stabile remissione del disturbo non potrà, neppure in ipotesi, essere connessa in modo univoco e monofattoriale alla veridicità della ricostruzione eziologica fornita al paziente: quest’ultima rappresenterà solo uno dei fattori rilevanti, e mai un fattore sufficiente. Di conseguenza, in un’ottica junghiana (ma, certo, non solo junghiana), sembra ragionevole aspettarsi che, anche in presenza di un insight veridico, non si abbia stabile superamento della condizione patologica, in mancanza di molti altri fattori rilevanti e nient’affatto scontati. Tutto ciò sembra incidere direttamente anche sull’utilità e l’attendibilità che, già in ipotesi, è possibile ascrivere all’Argomento della concordanza, quale metodo di controllo e legittimazione del contenu- 73 C.G. Jung, Il contrasto tra Freud e Jung, cit., p. 362. E aveva osservato: «Il paziente non deve soltanto essere capace di riconoscere la causa e l’origine della propria nevrosi; deve anche vedere la meta verso cui tende» (C.G. Jung, Il valore terapeutico dell’abreazione, cit., p. 148). Sulla visione psicoterapeutica di Jung, L. Aversa, Jung e la psicoterapia, in A. Carotenuto (dir. da), Trattato di psicologia analitica, cit., vol. II, cap. XLIII, pp. 407-427. 74 C.G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, cit., p. 209. 75 Sul rilievo primario di questo aspetto, cfr. ad esempio Questioni attuali di psicoterapia, cit., p. 281. Epistemologia e psicologie dinamiche 127 to di verità della psicoanalisi. Voler saggiare la presenza di una condizione (la veridicità della ricostruzione analitica), in base ad un effetto (la remissione del disturbo) che, per prodursi, richiederebbe il concorso di troppi altri fattori appare, se non formalmente invalido, comunque in linea di principio poco utile e poco efficace. Si avrà, infatti, un sistema di controllo di per sé troppo poco sensibile, per dirci qualcosa di significativo e rappresentativo sul contenuto di verità della psicoanalisi. Questo significa che la adeguatezza o inadeguatezza di un tale argomento quale sistema di prova della veridicità della ricostruzioni psicoanalitiche non dipenderà dal sostegno empirico di cui godono o non godono le sue premesse (quella circa la necessità causale di un vero insight per la guarigione e quella circa l’indispensabilità della psicoanalisi nel darcelo). Si tratterebbe comunque di un cattivo strumento, anche se le sue premesse fossero corroborate e vere. Esso si basa, infatti, su una rappresentazione troppo schematica e lineare del nesso che lega la eventuale veridicità dell’insight e il successo della terapia, e solo alla luce di questa distorsione si può pensare che abbia un significativo valore informativo. In definitiva, un tale argomento potrebbe risultare adeguato al compito di vagliare la veridicità della psicoanalisi, solo ove si ritenesse che tutto ciò che è necessario alla cura sia l’offerta al paziente di un insight veridico, o poco altro. Credo si possa perciò dire che, da una prospettiva junghiana, il contenuto di verità della psicoanalisi, la validità dell’interpretazione psicodinamica non possono in linea di principio essere testate in modo significativo e attendibile facendo ricorso all’Argomento della concordanza, quale che sia la affidabilità delle sue premesse. In particolare, la verità delle asserzioni psicoanalitiche e il suo nesso con la riuscita della terapia non possono essere messi in relazione in questo modo: qui non è concepibile nessuna strada lineare e univoca che porti a ritroso dalla efficacia alla verità (quand’anche quest’ultima fosse ritenuta causalmente necessaria alla remissione). Ma ciò non significa che il contenuto di verità della psicoanalisi non sia controllabile in principio. Il punto è che, in principio, non è controllabile così: perché una terapia psicodinamica, almeno in base ad alcune interpretazioni influenti, è più complessa di così e sarebbe necessario concepirne il controllo in modo più articolato, composito e appropriato di quanto non faccia questo argomento76. 76 Naturalmente, queste considerazioni non intendono affatto esprimere il peculiare modo junghiano di valutare gli aspetti suggestivi del trattamento terapeutico (cfr., ad esem- 128 Epistemologia e clinica Anche in ragione di questo esame estremamente sommario di alcune differenze tra i soli Freud e Jung, pare trovare conferma la tesi che, fin dalle origini, la psicologia dinamica si è configurata come una disciplina costantemente caratterizzata da divisioni, ripensamenti e opzioni alternative, che toccano sempre di nuovo i suoi stessi fondamenti e hanno conseguenze epistemologiche rilevanti. Jung stesso, del resto, aveva scritto: Ciò che al giorno d’oggi si designa in generale con l’etichetta di “psicoanalisi”, in realtà non è “una” cosa, ma molte diverse sfumature del grande problema psicologico della nostra epoca77. Le principali opzioni alternative esistenti, d’altra parte, hanno generato ciascuna proprie tradizioni e, dunque, continuano a riproporsi ben oltre la morte dei loro iniziatori, godendo della preferenza di un numero non trascurabile di specialisti del settore. Rispetto alla sintesi freudiana, poi, il quadro della psicologia dinamica non è stato arricchito solo dalla presenza di nuove impostazioni alternative, ma anche dall’affiorare di nuove conoscenze che Freud non poteva avere, e delle quali, però, sarebbe oggi impossibile non tenere conto. Appare del resto inevitabile che la psicologia dinamica debba evolversi e mutare, all’evolversi e al mutare delle scienze e dei saperi ai quali, per più versi, è correlata. In questo senso, anzi, come è stato notato: «La psicologia […] fruisce, per così dire, di una doppia storicità: quella dovuta all’evolversi delle scienze della natura e quella dovuta all’evolversi delle scienze della cultura»78. Così, non si può ignorare l’impatto sulla psicologia dinamica delle conoscenze neuroscientifiche che Freud non poteva avere79: esse hanno largamente arpio, Questioni attuali di psicoterapia, cit.), né il suo punto di vista circa il rapporto tra verità ed efficacia in analisi. Ci si è limitati a mostrare come, alla luce di una visione complessa e articolata dei fattori e delle finalità presenti in psicoterapia, quale emerge dai testi di Jung (e, certamente, anche di molti altri), il Tally Argument, difficilmente potrebbe dare un contributo rilevante a corroborare la validità delle interpretazioni psicoanalitiche, anche ove le sue premesse fossero valide. A riprova di come, ammesso e non concesso che certi argomenti si attaglino all’impostazione freudiana, non sono, però, meccanicamente applicabili all’intera tradizione psicodinamica. 77 C.G. Jung, Prefazione a W.M. Kranefeldt, cit., p. 347. 78 M.Trevi-M. Innamorati, Riprendere Jung, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 76. 79 Per un primo orientamento in tema si veda M. Solms, Le neuroscienze, in E.S. Person-A.M. Cooper-G.O. Gabbard (a cura di), Psicoanalisi. Teoria – Clinica- Ricerca, Raffaello Cortina, Milano 2006, cap. 36, pp. 869-888; M. Solms-O.H. Turnbull (2011), What Is Neuropsychoanalysis?, in «Neuropsychoanalysis», XIII (2011), n. 2, pp. 133-145; per una biblio- Epistemologia e psicologie dinamiche 129 ricchito, tra l’altro, la nostra immagine generale dell’uomo, nonché il nostro modo di guardare a svariati temi specifici rilevanti, dalle emozioni all’empatia, dalla memoria alle reazioni di difesa, dal sonno al sogno etc. Così come non si possono trascurare i contributi teorici e sperimentali provenienti dagli studi sul cosiddetto «inconscio cognitivo»80. È, anzi, proprio la fedeltà allo spirito, piuttosto che alla lettera freudiana, che impedirebbe di trascurare i risultati scientifici intervenuti dopo la sua morte. Al contempo, è naturale che anche questi nuovi elementi di conoscenza abbiano contribuito allo sviluppo di linee di ricerca, teorie, prospettive eziologiche e terapeutiche assai distanti dal modello freudiano originario. In definitiva, come ha ricordato Maria Ponsi, si è assistito in psicoanalisi a una tale proliferazione di teorie e modelli di trattamento che il presidente dell’International Psychoanalytical Association (IPA), nella sua relazione introduttiva al Congresso di Montreal nel 1987, si chiedeva se si dovesse parlare di “una o di molte psicoanalisi”81. grafia storica F. Tramonti, Psicoanalisi e Neuroscienze. Guida Bibliografica (1911-2002), ETS, Pisa 2003; per un classico contributo in materia, si veda ora E.R. Kandel, Psychiatry, Psychoanalysis, and the New Biology of Mind, American Psychiatric Publishing, WashingtonLondon 2005; trad. it. Psichiatria, psicoanalisi e nuova biologia della mente, Raffaello Cortina, Milano 2007, in special modo capp. 2 e 3, che disegna il quadro per una cooperazione tra neurobiologia, psichiatria e psicoanalisi; dello stesso cfr. ora anche The Age of Insight. The Quest to Understand the Unconscious in Art, Mind, and Brain, from Vienna 1900 to the Present, Random House, New York 2012; trad. it. L’età dell’inconscio. Arte, mente e cervello dalla grande Vienna ai nostri giorni, Raffaello Cortina, Milano 2012. Inoltre, dal 1999 esiste la rivista Neuropsychoanalysis e dal 2000 una International Neuropsychoanalysis Society (cfr. http://www.neuropsa.org.uk/). 80 Per una prima introduzione ai temi dell’inconscio cognitivo, oltre ai classici R. Nisbett-T. Wilson (1977), Telling More Than We Can Know: Verbal Reports on Mental Processes, «Psychological Review», LXXXIV (1977), pp. 231-259; J. Kihlstrom, The Cognitive Unconscious, «Science», 237 (1987), pp. 1445-1452, si veda ad esempio F. Tallis, Hidden Minds. A History of the Unconscious, Profile Books, London 2002; trad. it. Breve storia dell’inconscio, Il Saggiatore, Milano 2003, specie cap. 6; M. Marraffa-A. Paternoster, Sentirsi esistere. Inconscio, coscienza, autocoscienza, Laterza, Roma-Bari 2013, cap. I. 81 M. Ponsi, Il cammino della psicoanalisi verso il metodo scientifico: tradimento o traguardo?, in N. Dazzi-V. Lingiardi-A. Colli (a cura di), La ricerca in psicoterapia. Modelli e strumenti, Raffaello Cortina, Milano 2006, p. 719; cfr. pp. 734-737. E Jervis ha osservato: «Bisogna considerare che la psicologia dinamica non è mai stata una dottrina unitaria, né un corpus sistematico di idee, ma è piuttosto paragonabile a un vasto magazzino degli attrezzi, a un capanno stracolmo di una eterogenea raccolta di strumenti d’indagine [...]» (G. Jervis, Psicologia dinamica, cit., p. 12, cfr. anche p. 43). 130 Epistemologia e clinica Anche per queste ragioni, del resto, è proprio al plurale che Robert Wallerstein ha intitolato la propria ponderosa ricostruzione della storia delle psicoterapie di ispirazione psicoanalitica: The Talking Cures. The Psychoanalyses and the Psychoterapies82. Ma un pluralismo di questo genere sembra segnare una decisiva differenza tra lo status della psicologia dinamica e quello delle maggiori scienze sperimentali della natura odierne e confermare come non si possa limitare una disamina dei fondamenti epistemologici della psicologia dinamica al solo corpus freudiano. Ci si potrebbe, però, ancora chiedere se questa situazione di non unitarietà rappresenti una condizione stabile e insuperabile in psicologia dinamica, o se si tratti, invece, di qualcosa che potrebbe essere superato, o, addirittura, è già in via di superamento. Lo stesso Robert Wallerstein, ad esempio, pur parlando al plurale di psychoanalyses (come abbiamo visto), ritiene che sia possibile individuare fasi di consenso unitario nell’ambito della disciplina: ad esempio, negli Stati Uniti tra gli anni ’40 e ’60 ve ne sarebbe stata una83. Si sarebbe, però, trattato, appunto, di una fase di egemonia relativa, locale e provvisoria (egli stesso descrive la successiva frammentazione). E, di per sé, le egemonie relative di una tradizione di ricerca o di un programma teoricooperativo rispetto ad altri, più che provare una condizione di unanimità, fanno pensare alle vicissitudini storiche che sono tipiche delle discipline nelle quali, per molti versi, l’unanimità non è stata raggiunta e si hanno prevalenze altalenanti e temporanee di scuole, tradizioni, mode. Wallerstein, inoltre, pare convinto che un nuovo «common ground» si stia formando anche ai nostri giorni, almeno limitatamente ai principi concernenti l’azione terapeutica (un ambito che egli circoscrive in contrapposizione al pluralismo che regnerebbe sul piano teorico più generale e metapsicologico)84. Altri negano che le cose abbia82 R.S. Wallerstein, The Talking Cures. The Psychoanalyses and the Psychoterapies, cit. Il libro è focalizzato prevalentemente sul mondo anglofono (cfr. pp. xiii-xiv), esso deliberatamente (cfr. p. xix) non affronta la questione della natura epistemologica della psicoanalisi. 83 R.S. Wallerstein, The Talking Cures. The Psychoanalyses and the Psychoterapies, cit., II parte, specie capp. 5-6: il cap. 8 descrive, invece «The Fragmenting of the Consensus 1954-1979», e il cap. 9 «A World without Consensus 1979-1994» (ossia fino all’uscita del libro), ove si legge: «We have essentially been living in a vastly enlarged psychoanalytic world, with many diverse lines of theoretical and clinical development […]; it is now a world without consensus» (p. 145; cfr. anche parte V, cap. 25). 84 Cfr. R.S. Wallerstein, The Talking Cures. The Psychoanalyses and the Psychoterapies, cit., pp. 528-542. Ponsi, analizzando questa tesi, ipotizza invece che «la realtà del pluralismo» non si affatto in via di superamento ma che, proprio per la sua permanenza, in via di Epistemologia e psicologie dinamiche 131 no assunto questa direzione e, naturalmente, si tratterebbe di discutere in dettaglio la qualità e la quantità dei punti di consenso, nonché la diffusione di questa convergenza (anche oltre il mondo anglofono, anche oltre la tradizione prevalente negli Stati Uniti). In ogni caso, si può dubitare che se anche si producesse davvero una futura convergenza attorno a una “base comune”, essa esprimerebbe un sostanziale attenersi al dettato freudiano, al punto da permettere di guardare alla sua opera come il “paradigma”, il centro unitario di questa futura psicologia dinamica, non più polivoca85. Da questo punto di vista, se anche volessimo limitarci a considerare il solo piano dell’azione terapeutica, basterà pensare alla larga diffusione di punti di vista divergenti rispetto a Freud circa la natura, le modalità e il ruolo della relazione psicoterapeutica, nonché al fatto che, come ha osservato Morris Eagle riferendosi all’atteggiamento terapeutico dell’analista, la concezione classica, freudiana è andata incontro ad un «rifiuto quasi totale da parte della psicoanalisi contemporanea»86 (fatta eccezione per l’attitudine non giudicante). Detto questo, la presente analisi non mirava a determinare se e quanto sarà possibile in futuro un processo di convergenza entro la psicologia dinamica, né, ovviamente, pretendeva di negare la presenza di convergenze su singoli aspetti diagnostici, eziologici o terapeutici. Ci si è, piuttosto, limitati a prendere atto di come, entro il campo psicodinamico, si siano sviluppate e diffuse, fin dalle origini, opzioni marcatamente differenti circa i fondamenti epistemologici della discicambiamento sia «l’atteggiamento verso chi professa concezioni e punti di vista diversi dai propri» nel senso di un rispetto e di una apertura maggiori (Il cammino della psicoanalisi verso il metodo scientifico, cit., pp. 734-735). 85 Da questo punto di vista, potrebbe forse essere interessante valutare quanti terapeuti odierni riconoscerebbero nei celebri casi clinici presentati da Freud degli esempi passati di successo paradigmatico: esempi, cioè, che forniscono il modello al quale possono ancora oggi uniformarsi per affrontare i pazienti. 86 M.N. Eagle, From Classical to Contemporary Psychoanalysis, Routledge, New York and London 2011; trad. it. Da Freud alla psicoanalisi contemporanea. Critica e integrazione, Raffaello Cortina, Milano 2012, p. 93; cfr. anche capp. IX-X. Il libro di Eagle offre una più generale, attenta analisi comparativa delle varie concezioni freudiane nei diversi ambiti e dei modi in cui esse sono state ripensate (con divergenze e convergenze) nell’ambito della psicoanalisi contemporanea, riconoscendo tra l’altro anche delle diversità rilevanti che vanno dalle concezioni dei processi inconsci e della mente, al ruolo della rimozione, alle «sottostanti posizioni filosofiche» (p. 283). Sulla ricostruzione dettagliata dei vari modi di concepire la relazione terapeutica si incentra R.S. Wallerstein, The Talking Cures. The Psychoanalyses and the Psychoterapies, cit. 132 Epistemologia e clinica plina, che nessuna disamina filosofica complessiva può trascurare di valutare e comparare. A questa constatazione fattuale si aggiunge poi, certo, anche la convinzione che alcune di queste alternative fondazionali emerse in passato sollevino ancora, almeno in parte, questioni teoriche rilevanti ed aperte, e che di tali questioni non si dovrebbe sottovalutare l’effetto, diretto o indiretto, anche sulla pratica terapeutica. 3. La componente categoriale non naturalistica Sembra esistere, però, anche una caratteristica di grande rilevanza che in certa misura accomuna le molteplici tradizioni di tipo psicodinamico. Si tratta di un aspetto estremamente generale e quasi preliminare alla costruzione della disciplina stessa: vale a dire, il tipo di apparato concettuale e di livello di analisi che storicamente contraddistingue il discorso della psicologia dinamica, facendo di essa, su un piano epistemologico, un sapere non (interamente) naturalistico o naturalizzato. Scrive Freud nel saggio L’inconscio del 1915: è chiaro che la questione se gli irrefutabili stati latenti della vita psichica debbano essere concepiti come stati psichici inconsci o come stati fisici rischia di risolversi in una contesa verbale. È quindi consigliabile mettere in primo piano ciò che di questi stati problematici sappiamo con certezza. Orbene, per ciò che si riferisce ai loro caratteri fisici, gli stati latenti ci sono del tutto inaccessibili; non esiste rappresentazione fisiologica né processo chimico che ci possa trasmettere la più vaga nozione relativa alla loro natura. D’altro lato è certo che essi hanno numerosissimi punti di contatto con i processi psichici coscienti [mit den bewussten seelischen Vorgängen die ausgiebigste Berührung haben]; a patto di svolgere un certo lavoro, possiamo trasformarli e sostituirli con processi coscienti; possiamo descriverli usando tutte le categorie che applichiamo agli atti psichici coscienti (rappresentazioni, tendenze, decisioni e così via) [und sie Können mit all den Kategorien beschrieben werden, die wir auf die bewussten Seelenakte anwenden, als Vorstellungen, Strebungen, Entschliebungen u. dgl.]. Anzi, di alcuni di questi stati latenti dobbiamo dire che si distinguono da quelli coscienti proprio soltanto per l’assenza della coscienza87. 87 S. Freud, L’Inconscio, (1915), in Id., Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti, cit., pp. 47-88: p. 51. Gli inserti dell’originale tedesco sono tratti da Das Unbewusste, in Id. Gesammelte Werke. Zehnter Band, Werke aus den Jahren 1913-1917, Fischer Verlag, Frankfurt 1967, pp. 264-303: p. 267. Epistemologia e psicologie dinamiche 133 In questo passo, assai noto e rilevante, Freud non ci dice solo qualcosa di importante circa la propria concezione dei processi psichici inconsci, ma, di conseguenza, anche qualcosa circa il tipo di vocabolario e il livello di analisi che la psicoanalisi può, e anzi deve, fare propri. Infatti, Freud prima, implicitamente, accetta le categorie della cornice concettuale di senso comune riferite all’esperienza cosciente, e poi, esplicitamente, legittima una estensione dello stesso genere di categorie anche per designare i fenomeni inconsci. Egli, del resto, suppone qui che vi sia una sorta di prossimità strutturale tra gli elementi, i processi, i fenomeni psichici coscienti e inconsci, al punto che, in certi casi, potrà trattarsi dello stesso tipo di processi, ma dotati, oppure sprovvisti, della proprietà di essere coscienti88. Naturalmente, come è noto, per Freud le regole di funzionamento costitutive dei processi inconsci sono ben diverse e irriducibili rispetto a quelle ordinarie di elaborazione cosciente: di conseguenza, il modo di operare, le regole logiche e di associazione, i fattori spazio-temporali di tipo inconscio andranno sempre compresi iuxta propria principia89. Tra i processi inconsci, però, in base a questa prospettiva, vi sarebbero pur sempre tipi di processi e contenuti psichici che, secondo Freud, possiamo e dobbiamo catalogare come rappresentazioni, tendenze, decisioni etc. Alla luce di questa opzione categoriale, si è potuto rimarcare come quel Freud che ha così ristretto i confini e la signoria dell’io cosciente, abbia, però, al contempo ampliato l’ambito di applicazione del vocabolario con il quale descriviamo l’attività psichica dell’io cosciente, «estendendo i concetti di intenzione, credenza, desiderio e simili fino a includere l’inconscio»90. 88 «Dalla prospettiva freudiana, le idee e i desideri inconsci non sono sostanzialmente diversi da quelli consci, se non per il fatto che manca loro la proprietà della coscienza [...] In una tale ottica il contenuto che la coscienza illumina proiettando la sua luce è solo un piccolo campione dei contenuti e dei processi psichici nel loro complesso» (M.N. Eagle, Da Freud alla psicoanalisi contemporanea, cit., pp. 43-44). 89 «assenza di reciproca contraddizione, processo primario (mobilità degli investimenti), atemporalità e sostituzione della realtà esterna con la realtà psichica sono i caratteri che possiamo aspettarci di riscontrare nei processi appartenenti al sistema Inc.» (S. Freud, L’Inconscio, cit., p. 71; corsivi nell’originale). 90 D. Davidson, First Person Authority [1984]; in Id., Subjective, Intersubjective, Objective, Clarendon Press, Oxford 2001; trad. it. Soggettivo, intersoggettivo, oggettivo, Raffaello Cortina, Milano 2003, p. 8. Cfr. anche Id., Two Paradoxes of Irrationality, in R. Wollheim-J. Hopkins (eds.), Philosophical Essays on Freud, Cambridge University Press, Cambridge 1982, 289-305; trad. it. Paradossi dell’irrazionalità, in D. Meghnagi (a cura di), Studi freudiani, Guerini e Associati, Milano 1989, pp. 17-41: pp. 20-21 e 40. 134 Epistemologia e clinica Questa, che abbiamo sommariamente richiamato, è una opzione di Freud che, comprensibilmente, è stata molto discussa sia nelle sue dimensioni storiche, che teoriche. E della quale si è anche messo in discussione la portata e/o la tenuta. Si è osservato, in primo luogo, che la scelta di trattare la vita psichica conscia e inconscia servendosi di concetti puramente psicologici pare costituire, per Freud, una opzione pragmatica e provvisoria, dovuta ai limiti che era stato costretto a riconoscere nella neurologia del proprio tempo, abbandonando il Progetto del 1895. Egli per primo, però, avrebbe auspicato e desiderato che quanto viene qui dichiarato «inaccessibile» su un piano chimico e fisiologico potesse essere presto studiato assai meglio per via naturalistica, e, dunque, divenisse ragionevole anche una categorizzazione e una disamina propriamente neurofisiologica dei processi psichici inconsci e coscienti. Di fatto, poi, si dice, oggi noi avremmo già molte risorse utili a questo scopo91. Inoltre, si è rimarcato come, proprio in un tale spirito, questa opzione concettuale di Freud si accompagnerebbe, però, anche al tentativo di una costruzione metapsicologica, pur provvisoria, che iniziasse a restituire, in termini scientifico-naturalistici, l’eziologia sottostante ai vari processi e contenuti mentali categorizzati entro la cornice concettuale ordinaria92. Da ultimo (a conferma del ruolo controverso della lezione freudiana nella storia della psicologia dinamica), si è ricordato come, in molti casi, la psicoanalisi contemporanea non abbia accettato l’idea di una sorta di isomorfismo tra processi o elementi psichici coscienti e inconsci. In particolare, come ha ricordato Morris Eagle, è stato contestato quello che si è definito modello della «realtà nascosta» (H. Fingaret91 Si cita a questo proposito il passaggio (in realtà assai problematico) nel quale Freud, valutando la attendibilità delle proprie ardite «speculazioni» sulla pulsione di morte, formulate nei «termini scientifici» della psicoanalisi, afferma tra l’altro: «Probabilmente le carenze della nostra esposizione scomparirebbero se fossimo già nelle condizioni di sostituire i termini psicologici con quelli della fisiologia o della chimica. È vero che anche questi ultimi fanno parte soltanto di un linguaggio immaginifico, ma si tratta di un linguaggio che ci è familiare da tempo e che forse è anche più semplice» (S. Freud, Al di là del principio di piacere, (1920), in Id., L’io e l’Es e altri scritti 1917-1923. Opere Volume IX, Boringhieri, Torino 1977, pp. 193-249: p. 245). Cfr. anche E.R. Kandel, Psichiatria, psicoanalisi e nuova biologia della mente, cit., pp. 454-456; Id., L’età dell’inconscio, cit., pp. 72-75; M. Solms-O.H. Turnbull, What Is Neuropsychoanalysis?, cit.; F. Tramonti, Psicoanalisi e Neuroscienze, cit. 92 Cfr. M.N. Eagle, Da Freud alla psicoanalisi contemporanea, cit., pp. 49-51. Contro la tesi di una “provvisorietà” delle categorie cliniche rispetto ad una futura metapsicologia evoluta A. Grünbaum, I fondamenti della psicoanalisi, cit., pp. 119-121. Epistemologia e psicologie dinamiche 135 te), in base al quale i contenuti inconsci sarebbero processi già perfettamente formati e analoghi a quelli coscienti, che aspettano soltanto di essere rischiarati dal faro di una coscienza soggettiva93. L’opzione freudiana solleva, poi, in stretta connessione, anche delle significative questioni di tipo filosofico. Potremmo, infatti, chiederci chi sia il titolare di questi stati inconsci analoghi a quelli coscienti94. E se sia legittima l’applicazione di nozioni intenzionali a simili processi inconsci95. Oppure, come sia possibile estendere le categorie che applichiamo a stati coscienti anche a dei processi inconsci, preservandone immutato il significato. Si tratta di questioni centrali, che però non sarà possibile affrontare in questa sede (se non per alcune precisazioni, che faremo più avanti). Infatti, quanto qui più ci interessa dell’opzione freudiana è un aspetto che, in certa misura, prescinde dalle ragioni contingenti di essa, così come dalle successive critiche alla sua legittimità e fondatezza. Ad interessarci, in questa sede, sono, cioè, gli effetti oggettivi che essa 93 Cfr. ivi, specie pp. 121-148 e 286-287; ma vedi anche M. Buzzoni, Operazionismo ed ermeneutica, cit. § 4.3; A. Pagnini, Filosofia della psicoanalisi, cit., pp. 273-274. Per la critica wittgensteiniana a questo modello R. Brigati, Le ragioni e le cause, cit., pp. 94-99. 94 Di per sé, una estensione delle categorie mentalistiche proprie dei vissuti coscienti e del livello personale a processi che (almeno in un dato momento) sono inconsci (appartengono all’inconscio dinamico) non implica la negazione dell’idea che stati mentali come gli atteggiamenti proposizionali debbono essere attribuiti solo a persone, e non a loro parti o subagenzie. Essa, infatti, lascia aperta la possibilità di sostenere che sono le persone ad avere stati inconsci che, entro una data cornice, sono etichettati con categorie intenzionali, e non l’inconscio (personificato, o ipostatizzato). 95 Si potrebbe, ad esempio, ipotizzare che le persone abbiano dei tipi di processi psichici inconsci che, in un certo contesto e per certe finalità, può avere senso designare con categorie intenzionali come quelle della psicologia di senso comune, solo nella misura in cui ne hanno anche di coscienti: non tanto nel senso che questi processi inconsci siano frutto di ablazione della proprietà di essere coscienti da stati coscienti, quanto nel senso che solo per un soggetto che ha desideri, intenzioni, timori etc. coscienti, può avere senso, per estensione, in via derivata e analogica, anche parlare di stati intenzionali inconsci ai quali si applicano categorie di una psicologia di livello personale. Gardner ha notato: «psychoanalytic theory allows a wholly acceptable conceptual dependence of unconscious on conscious mentality […] psychoanalytic theory has no need to deny that, if there were no phenomenon of consciousness, or even of self-consciousness, there would be no unconscious, or that – for a wide range of mental states – the feature of consciousness is highly causally significant (indeed, the efficacy of psychoanalytic therapy requires such a supposition)» (S. Gardner, Irrationality and the Philosophy of Psychoanalysis, Cambridge University Press, Cambridge 1993, p. 211). Cfr. anche I. Dilman, Intentions and the Unconscious, P. Clark-C. Wright (eds.), Mind, Psychoanalysis and Science, Blackwell, Oxford 1988, pp. 169-185; M. Marraffa-A. Paternoster, Sentirsi esistere, cit., cap. 1. 136 Epistemologia e clinica ha avuto sul costituirsi della psicologia dinamica. Perché sembra indubbio che, almeno su questo piano, la psicologia dinamica si è fin qui ampiamente conformata come minimo all’indicazione di Freud secondo cui essa doveva lavorare con «concetti ausiliari di natura meramente psicologica», e non di tipo fisico o fisiologico96. Vale a dire che Freud e anche la tradizione psicodinamica a lui successiva hanno trovato legittimo, e, anzi, di fatto necessario, che la psicologia dinamica facesse ricorso ad un tipo di cornice categoriale mentalistica: ovvero, quello stesso tipo di cornice categoriale una cui istanza è incorporata nei linguaggi ordinari e viene impiegata quotidianamente da tutti in riferimento alla nostra esperienza di soggetti agenti, esprimendo quella che (più o meno adeguatamente) viene denominata “psicologia di senso comune”. Quanti hanno rimarcato questo aspetto della psicoanalisi e la sua importanza hanno allora sostenuto che essa si caratterizzerebbe proprio come una «estensione» della cornice categoriale di tipo ‘mentalistico’ e della nostra psicologia di senso comune97. “Estensione” non sarà qui da intendere solo nel senso di applicazione a nuovi domini di una cornice concettuale esistente, già completa ed immutabile in tutte 96 S. Freud, Introduzione alla Psicoanalisi, cit., lezione 1, p. 204. Pur diversamente declinata, l’idea è ampiamente attestata. Hopkins ha parlato della psicoanalisi come «sound extension of commonsense psychology», in risposta alle tesi di Grünbaum (J. Hopkins, Epistemology and Depth Psychology: Critical Notes on The Foundations of Psychoanalysis, in P. Clark-C. Wright (eds.), Mind, Psychoanalysis and Science, cit., pp. 33-60: pp. 49-50; cfr. anche la III parte del volume). Una tesi analoga si ritrova in R. Wollheim, Desire, Belief, and Professor Grünbaum’s Freud, in Id., The Mind and Its Depths, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)-London 1993, cap. 6, §§ 1-3. Sulla scia di Wollheim, è da vedere soprattutto S. Gardner, Irrationality and the Philosophy of Psychoanalysis, cit. E Marcia Cavell afferma: «I think it is true that Freudian interpretation depends generally on the everiday reason-explanation model - sometimes called ‘folk psychology’ which it then expands in various ways, and that precisely this is one of its strengths» (M. Cavell, The Psychoanalytic Mind. From Freud to Philosophy, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)-London 1993, p. 57, cfr. cap. 9). Alla stessa conclusione sui rapporti tra psicoanalisi e psicologia di senso comune giunge, ma in base a una ricostruzione alternativa a quella di Cavell, anche D. Snelling, Philosophy, Psychoanalysis and the Origins of Meaning. Pre-reflective intentionality in the psychoanalytic view of the mind, Ashgate, Aldershot etc. 2001, specie cap. 1. Secondo Lear: «La psicoanalisi rappresenta un’estensione del modo in cui normalmente interpretiamo le persone in base alle loro convinzioni, aspirazioni, speranze e paure» (J. Lear, Open Minded, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1998; trad. it. La psicoanalisi e i suoi nemici, McGraw Hill, Milano etc., 1999, p. 8). La centralità di questo aspetto è stata ben riconosciuta anche da chi vi vede soprattutto un limite, cfr. M. MarraffaA. Paternoster, Sentirsi esistere, cit., pp. 20-21. 97 Epistemologia e psicologie dinamiche 137 le sue categorie e i suoi significati. Starà anche a significare come, per applicarla a nuovi ambiti e a nuove dinamiche, la psicoanalisi possa arricchire di nuove categorie e di nuovi significati una cornice concettuale che rimane, però (e qui sta il punto), dello stesso genere: vale a dire, che continua ad essere la cornice categoriale di livello contenutistico e non scompositivo, che già troviamo nella psicologia di senso comune. Il punto rilevante non starà, allora, necessariamente nel preservare integralmente immutati i vecchi significati dei termini quando li si applica a processi inconsci, ma nel fatto che per designare, analizzare e categorizzare quei processi, si fa appello ad una estensione critica dello stesso tipo di cornice concettuale che già ordinariamente impieghiamo (e, in base al testo freudiano, ad un uso estensivo e derivato di categorie presenti in essa). Questo rende possibile, per usare le espressioni di Gardner, guardare alle teorie psicoanalitiche «as supplementing», e non «as supplanting» le nostre spiegazioni intenzionali98. In altre parole, sempre per citare Gardner: psychoanalytic states have none of the scientific character of cognitive-psychological attributions. Psychoanalytic states extend ordinary psychology, as cognitive-psychological predicates do not [...] Psychoanalytic states participate intimately in the persons’s mental, particularly emotional life, transmit their content to the propositional network, count as a form of activity, and provide the well-springs of motivation, receiving expression in intentional action [...]99. In ragione di questa caratterizzazione della psicologia dinamica, giocherà, quindi, un ruolo cruciale il fatto che essa mantiene la gran parte dell’apparato della psicologia del senso comune, e soprattutto l’idea che il contenuto sia centrale per le spiegazioni psicologiche: gli stati mentali sono individuati mediante il loro contenuto (e cioè tramite ciò su cui vertono), e il loro contenuto determina (o esprime) il loro ruolo causale (e cioè quello che fanno alla mente e nella mente)100. 98 S. Gardner, Irrationality and the Philosophy of Psychoanalysis, cit. p. 119 (corsivo nell’originale); sui concetti della psicoanalisi e i rapporti tra questa e la psicologia di senso comune, specie §§ 4.9-4.11 e 8.4. 99 Ivi, p. 202. Per questo la psicoanalisi potrà essere considerata una forma di «personal psychology» e non di «sub-personal psychology», quale sarebbe invece la psicologia cognitiva (cfr. pp. 55-57; §§ 7.5- 7.6). Su questi temi anche J. Haldane, Psychoanalysis, Cognitive Psychology and Self-Consciousness, in P. Clark-C. Wright (eds.), Mind, Psychoanalysis and Science, cit., pp. 113-139. 100 A. Pagnini, Filosofia della psicoanalisi, cit., p. 269, e più ampiamente § 5. 138 Epistemologia e clinica Quali che ne siano la ragione e il fondamento, tale opzione categoriale comporta, dunque, che in psicologia dinamica processi psichici consci e inconsci siano trattati con l’approccio contenutistico e sintetico che è proprio del cosiddetto «livello personale di analisi». Con l’espressione livello personale di analisi si è soliti designare un livello non scompositivo e non intrascientifico di individuazione, descrizione e caratterizzazione (analisi) dei processi psichici, in quanto contenuti unitari, passibili di esperienza soggettiva, e portatori di proprietà qualitative e intenzionali101. Molto si è discusso e si discuterà sulle categorie mentalistiche e sul livello personale di analisi: ad esempio, per comprendere se esistono tipi di fenomeni che solo tali categorie e tale livello di analisi permettono di individuare e conoscere, o se, invece, non si tratti solo di una modalità peculiare e diretta di riferirsi a fenomeni e processi che anche la conoscenza scientifica individua e caratterizza, sia pur per altre vie. Senza voler approfondire la questione in questa sede, credo si possa dire, attenendosi a un piano epistemologico, che la cornice concettuale di tipo mentalistico e di livello personale mostra di avere caratteristiche strutturali, referenziali e di uso che non solo la differenziano significativamente da quelle scientifico-naturalistiche102, ma ci consentono processi di individuazione, inferenza e giudizio che, almeno al momento, rimarrebbero preclusi in sua assenza, visto che non hanno un equivalente entro l’attuale framework naturalistico. Solo per fare un esempio, come ha osservato Donald Davidson: Degli eventi concepiti soltanto nei termini delle loro proprietà fisiche o fisiologiche non possono essere giudicati come ragioni, o come in conflitto, o come concernenti un certo soggetto103. L’aspetto epistemologicamente centrale sta, allora, nel fatto che 101 Il termine analisi non ha, dunque, qui niente a che fare con il significato tecnico che esso riveste nell’ambito della psicologia dinamica. Su questo tema e la relativa bibliografia, si veda il precedente saggio in questo volume, § 3.1. 102 Tra le caratteristiche più frequentemente candidate a marcare le differenze tra il framework concettuale di tipo mentalistico-personale, e quello scientifico naturalistico ricordo: il riferirsi ai caratteri contenutistici e qualitativi del dato psichico, invece che ai soli aspetti strutturali e funzionali, la dipendenza della conoscenza dall’esperienza soggettiva del tipo di dato cui ci si riferisce, la presenza di componenti normative (in senso ampio) e assiologiche, l’impossibilità di procedure esatte, formali e non metaforiche di quantificazione dei fenomeni individuati, la non pertinenza di quei principi e di quei vincoli dei quali, in ambito naturalistico, i livelli più basilari sembrano imporre il rispetto ai resoconti esplicativi situati alle scale superiori, etc. 103 D. Davidson, Paradossi dell’irrazionalità, cit., p. 32. Epistemologia e psicologie dinamiche 139 l’opzione per le categorie mentalistiche, e per il «livello personale di analisi» cui esse pertengono, colloca la psicologia dinamica entro la sfera, per lei decisiva e distintiva, nella quale è possibile attribuire ai processi psichici (coscienti e, per estensione, inconsci, della veglia e del sogno) significati, intenzionalità, qualità, nessi di senso, valenze simboliche, componenti proattive etc. Essa permette, così, di accedere a pratiche interpretative, esplicative e di giudizio che non sarebbero (neppure oggi) disponibili sui livelli subpersonali dello studio solo naturalistico del cervello. Tali pratiche sono proprio quelle che hanno maggiormente caratterizzato la teoria e la pratica psicodinamica lungo la sua storia. È forse per questo che, anche quanti recentemente, in ambito psicodinamico, hanno contestato l’idea di Freud secondo cui gli stati mentali inconsci sarebbero analoghi a quelli coscienti e, per così dire, semplicemente in attesa di essere illuminati dalla coscienza, in genere non hanno invocato l’abbandono della intelaiatura concettuale di tipo contenutistico e sintetico (magari in favore dell’adozione di una cornice categoriale di tipo esclusivamente sub-personale e/o neurobiologico). Ad esser enfatizzzato è stato, semmai, proprio il ruolo del linguaggio, in quanto esso consentirebbe, nell’interazione tra terapeuta e soggetto in analisi, di dare un’espressione esplicita e articolata, un’interpretazione più significativa e personale a quei contenuti inconsci che potranno così, opportunamente “tradotti”, divenire coscienti in grado maggiore104. D’altra parte, in ottica revisionista (quando non eliminativista), si è invece obiettato che proprio il fatto di estendere l’approccio della psicologia di senso comune, adottando un simile livello non naturalistico di categorizzazione, rappresenterebbe il limite principale per la affidabilità della psicoanalisi. Un limite inevitabile al tempo di Freud, si aggiunge, ma che sarebbe superabile al presente, o almeno in futuro. Si 104 Tra le molte opzioni in questa direzione, mi limito qui a richiamare la discussione che Eagle (Da Freud alla psicoanalisi contemporanea, cit., cap. VI) fa della proposta teorica di Donnel B. Stern, centrata sull’idea di «unformulated experience»: «Da questa prospettiva, rendere conscio l’inconscio non significa portare alla luce contenuti psichici completamente formulati, bensì formulare il non formulato, articolare il non articolato e dar forma con le parole a ciò che non è verbale e solo abbozzato […] Lo strumento principale di questa transizione è, secondo Donnel Stern, il linguaggio, il dare parole a ciò che non è espresso» (p. 128). Il riferimento è a D.B. Stern, Unformulated Experience: From Dissociation to Imagination in Psychoanalysis, The Analytic Press, Hillsdale (NJ) 1997 (ove si assume esplicitamente una prospettiva interpretativa, costruttivista ed ermeneutica, richiamandosi a Gadamer). 140 Epistemologia e clinica tratti o meno di una obiezione fondata, essa, comunque, presuppone, e non nega, il ruolo epistemologicamente decisivo svolto di fatto dalle categorizzazioni di livello personale nella psicologia dinamica, per come si è sviluppata fino ad oggi. Ad ogni modo, poi, l’analisi qui svolta pare avvalorare la tesi che una naturalizzazione integrale della psicologia dinamica avrebbe come precondizione necessaria la naturalizzazione integrale (cioè, in definitiva, la dissoluzione) della cornice categoriale di livello personale. E, quand’anche una intelaiatura categoriale integralmente naturalistica venisse un giorno sostituita a quelle mentalistiche, rimarrebbe da capire come, nel quadro di essa, sarebbero poi possibili quelle pratiche esplicative, ricostruttive, interpretative, motivazionali e normative che hanno caratterizzato essenzialmente sia la teoria, che la pratica psicoanalitica nelle sue più diverse declinazioni e tradizioni. Tali pratiche, infatti, sembrano intrinsecamente connesse alla presenza anche di quella componente categoriale di livello personale che in ottica naturalista si vorrebbe abbandonare, attraverso riduzione e/o eliminazione. Che poi una simile difficoltà costituisca di per sé una obiezione rispetto alla possibilità di un integrale superamento naturalistico della cornice mentalistica, oppure suggerisca che in una cornice esclusivamente naturalizzata e scientifico-sperimentale le psicologie dinamiche, per come le conosciamo, difficilmente sopravviverebbero in forme riconoscibili, si tratta comunque di qualcosa che indica quanto stretto e rilevante sia il legame tra la psicoanalisi e il livello categoriale e di analisi di tipo personale105. Tutto questo, ovviamente, non significa in alcun modo che la psicoanalisi non debba beneficiare dei progressi nell’ambito neuroscientifico, o delle scienze cognitive e che i nuovi metodi e le nuove conoscenze naturalistiche emersi in questi ambiti non abbiano, anzi, già portato ad arricchire, e ampliare, nonché modificare e correggere, in modo significativo e legittimo la psicologia dinamica, in alcuni suoi aspetti106. Abbiamo, del resto, già ricordato come questo contributo 105 A questo proposito, Civita ricorda un passaggio nel quale Glen Gabbard sottolinea come mente e cervello «parlano lingue differenti» e la lingua della «psichiatria dinamica» sia quella della mente (A. Civita, Neuroscienze e malattina mentale, in A. Civita-D. Cosenza (a cura di), La cura della malattia mentale I Storia ed epistemologia, Bruno Mondadori, Milano 1999, p. 45). Sviluppando questa prospettiva, Civita afferma: «A ciascuno di essi [mente e cervello] corrisponde un sistema conoscitivo con caratteristiche sue proprie. I concetti, il vocabolario, le regole argomentative e dimostrative, i metodi di indagine e di verifica sono del tutto diversi nei due sistemi, i quali non sono riconducibili l’uno all’altro» (p. 87). 106 Una posizione epistemologica di cooperazione nella distinzione tra entrambi i punti Epistemologia e psicologie dinamiche 141 rappresenti uno dei fattori nuovi decisivi per lo status della psicoanalisi, rispetto all’età di Freud. Ma, un conto è ritenere che essa si alimenti di questa indispensabile correlazione e cooperazione tra livelli distinti di analisi (quello sintetico, personale, in prima persona e quello neuroscientifico, sub-personale, in terza persona), tutt’altro è arrivare a pensare che il livello neuroscientifico e sub-personale di analisi e spiegazione possa costituire da solo una cornice categoriale adeguata per le pratiche conoscitive e terapeutiche della psicologia dinamica107. Certo, il problema che concerne i modi in cui sia possibile articolare la distinzione e al contempo la correlazione tra questi livelli di analisi e spiegazione (dunque «interfacciarli», per usare l’espressione di José Luis Bermúdez) è forse uno dei problemi più ardui e discussi della filosofia della mente di oggi: ma la tensione tra questi due livelli (analogamente a quella tra singolarità e generalizzazioni, che abbiamo incontrato nel primo saggio di questo libro) sembra essere una tensione costitutiva dello spazio di sapere del quale parliamo, e, perciò, abitarla è probabilmente più proficuo che tentare di dissolverla, col rischio che un rasoio di Ockham inaccurato elimini con essa la disciplina stessa che si intendeva rendere più rigorosa ed essenziale. La caratteristica categoriale della psicologia dinamica che abbiamo ora cercato di far emergere può, forse, contribuire anche a una migliore analisi della questione, assai complessa, del ruolo delle spiegazioni di vista è saggiamente favorita da Solms e Turnboll (What Is Neuropsychoanalysis?, cit.): non credo, però, che essa tragga alcun giovamento dalla fondazione metafisica che essi sembrano volerle dare, facendo appello a un «dual-aspect-monism», che attribuiscono anche a Freud (pp. 136-138). L’assunto che gli stati/processi psichici dei quali parliamo entro la cornice mentalistica, e ai quali accediamo in prima persona, siano identici a occorrenze di stati/processi cerebrali dei quali parliamo nella cornice naturalistica, e ai quali accediamo in terza persona, mi pare sia di dubbia intelligibilità, privo di giustificazioni adeguate e, comunque, non utile allo scopo. Infatti, da esso di per sé non segue la necessità epistemica di far ricorso ad entrambi i “modi di accesso”, e, soprattutto, tale assunto non ci aiuta ad affrontare le questioni e i problemi epistemologici posti dalla distinzione e correlazione tra queste due cornici categoriali e questi due livelli di analisi (rischia, anzi, di complicarli). 107 Perfino Kandel sembra contrario a questo riduzionismo concettuale: «Un problema spesso sollevato è il seguente: un approccio neurobiologico promuoverebbe la riduzione dei concetti psicoanalitici a concetti neurobiologici. In tal caso, la psicoanalisi verrebbe privata della sua essenza e complessità, e verrebbe stravolto il senso della terapia. Una riduzione di questo tipo non solo non è desiderabile, ma è impossibile: i programmi della psicoanalisi, della psicologia cognitiva e delle neuroscienze si sovrappongono, ma non sono affatto identici» (Psichiatria, psicoanalisi e nuova biologia della mente, cit., p. 110). 142 Epistemologia e clinica causali entro questa disciplina108. Ritengo che Grünbaum sia nel giusto quando critica la tesi di una separazione dicotomica tra ragioni/motivi e cause, nonché l’idea connessa secondo cui il proprium della psicologia dinamica sarebbe l’interpretazione basata su ragioni, in quanto contrapposta alla spiegazione basata su cause. Al contrario, lo stesso rilievo esplicativo dei fenomeni dei quali tratta la psicoanalisi (e quindi l’importanza di questa) sembra dipendere proprio dal ruolo anche causale che essi svolgono109. Come egli scrive: La tesi che a fondamento della spiegazione psicoanalitica vi siano ragioni e non cause si rivela inaccettabile […] Tale tesi poggia su una concezione errata della relazione di rilevanza causale tra un antecedente X e il risultato Y; essa trascura il fatto che X può essere fisico, mentale o psicofisico purché esso sia rilevante per l’occorrenza di Y e abbia effetto sulla sua incidenza110. Ha di conseguenza ben ragione Grünbaum nel sostenere che l’idea secondo cui qualcosa, per avere un ruolo causale, debba avere natura fisica (non psichica, o psico-fisica) è un «errore fisicalistico ontologicamente riduttivo»111. Sarà, invece, lecito ritenere, ad esempio, che una data occorrenza di un dato contenuto psichico, nella coscienza di un dato soggetto, in una data circostanza possa costituire, oltre che una ragione, al contempo anche una causa di quella data azione del soggetto (ferma restando la distinzione concettuale tra le due categorie e i vocabolari connessi)112. 108 Per una (opinionated) tassonomia ragionata delle varie posizioni circa il ruolo di ragioni e cause nella psicoanalisi e il conseguente statuto di questa R. Brigati, Le ragioni e le cause, cit., cap. IV. 109 Ad esempio: «la giustificazione ermeneutica acausale amputa la teoria dell’etiologia delle psiconevrosi basata sulla rimozione, in modo tale da rendere inutilizzabile quella etiologia in quanto teoria della psicopatologia» (I fondamenti della psicoanalisi, cit., p. 84). 110 A. Grünbaum, Psicoanalisi. Obiezioni e risposte, cit., p. 28. Si veda analogamente Id., I fondamenti della psicoanalisi, cit., p. 99, dove si respinge come «mito» l’idea che «una causa debba essere un agente fisico» e si parla di «neutralità ontologica» rispetto alla natura delle cause; cfr. più ampiamente pp. 73-75, 96-114. Circa le radici filosofiche di questo errore fisicalista, mi permetto di rimandare a C. Gabbani, The Causal Closure of What? An Epistemological Critique of the Principle of Causal Closure, «Philosophical Inquiries», I (2013), n. 1, pp. 145-174. 111 A. Grünbaum, I fondamenti della psicoanalisi, cit., p. 99. 112 Nelle parole di Donald Davidson (Paradossi dell’irrazionalità, cit., p. 23): «non vi è alcun conflitto inerente tra le spiegazioni di ragione e le spiegazioni causali. Dal momento che credenze e desideri sono cause delle azioni di cui costituiscono la ragione, le spiegazioni Epistemologia e psicologie dinamiche 143 Se Grünbaum è nel giusto, mi pare, però, che non si debbano sottovalutare le conseguenze (e forse anche gli equivoci e le aporie) che possono derivare dal fatto che quelle spiegazioni psicodinamiche che Freud riteneva naturalistiche e causali, sono, però, in effetti spiegazioni articolate con le categorie mentalistiche delle quali abbiamo parlato fin qui, e nelle quali le cause possono essere viste anche come ragioni e motivi o, comunque, come contenuti soggettivi rilevanti per l’azione. Marcia Cavell, ad esempio, ha suggerito che il fatto che le spiegazioni causali siano al contempo anche reason-explanations impedirebbe in principio alle spiegazioni psicoanalitiche di attingere gli standard nomologici di una scienza come la fisica113. In questa sede, vale la pena soprattutto di evidenziare come il ricorso essenziale della psicologia dinamica alle categorie mentalistiche nell’articolare spiegazioni di tipo causale significhi che essa, di fatto, fa propria una trattazione della causalità mentale non naturalistica, o comunque non naturalizzata, da un punto di vista epistemologico114. Accordare un ruolo essenziale e insostituibile a spiegazioni così formulate equivale, infatti, ad attribuire un ruolo genuinamente causale nella nostra vita psichica anche a contenuti psichici che non solo categorizziamo con un linguaggio come quello della psicologia di senso comune, ma che, in virtù delle caratteristiche essenziali attraverso cui li individuiamo e caratterizziamo, risultano presenti e “osservabili” solo sul livello personale di analisi cui tali categorie appartengono (ferme restando, poi, le possibili correlazioni con dati di livello neurofisiologico). Dunque, quelle psicoanalitiche costituiranno, sì, «una particolare di ragione includono un elemento causale essenziale» (cfr. anche P. Engel, Philosophie et psychologie, Gallimard, Paris 1996; trad. it. Filosofia e psicologia, Einaudi, Torino 2000, pp. 127153). In Davidson, però, questa tesi non si coniuga con una «neutralità ontologica», ma con un «monismo anomalo». 113 «The so-called hermeneutics are wrong in saying that interpretations do not uncover links that are causal in nature; but they are right in insisting that our explanantions of actions are interpretations, and that as such they can be incorporated only in a ‘softer’ science than physics» (M. Cavell, The Psychoanalytic Mind., cit., p. 74). Cfr. anche J. Hopkins, Epistemology and Depth Psychology, cit. 114 Le considerazioni che svolgo a questo proposito prescindono da ogni questione e da ogni opzione di livello metafisico circa il rapporto mente/cervello, muovendosi su un piano puramente epistemologico: quello, cioè, relativo a ciò che possiamo conoscere e dire a proposito di essi. Dubito, però, che le aporie che qui emergeranno, rispetto ai progetti di naturalizzazione della psicoanalisi e alle aspirazioni freudiane, possano essere chiarificate e risolte da particolari opzioni metafisiche sul rapporto mente/cervello (comprese quelle alle quali ho fatto cenno in note precedenti). 144 Epistemologia e clinica specie di spiegazioni causali», ma anche una specie non naturalistica di spiegazioni causali, almeno da un punto di vista epistemologico115. Un simile, rilevante profilo non naturalistico, ovviamente non è esorcizzabile semplicemente stipulando che ogni sapere, in quanto si occupa di cause, è già, di per sé, per questo solo fatto, scienza naturale. Sarebbe, invece, necessario mostrare come, in linea di principio, sia possibile trattare in termini puramente naturalistici tutti fenomeni e le cause psichiche cui la psicoanalisi fa riferimento. Il che significherebbe, poi, darne una trattazione compiuta, applicando ad essi solo il genere di categorie non mentalistiche e non contenutistiche che sono caratteristiche dei frameworks concettuali di tipo naturalistico, nonché quei vincoli, quelle metodologie scompositive e quantitative che caratterizzano la conoscenza entro tali cornici di riferimento116. E, ovviamente, bisognerebbe che questo abbandono del livello personale di analisi consentisse, al contempo, di preservare tutte le identificazioni, le inferenze e le possibilità epistemiche che riteniamo degne di essere conservate, e che, in ogni caso, sono necessarie alla conoscenza e alla pratica psicodinamica. Si noti come questo tipo di requisiti abbia carattere puramente epistemologico, e non ontologico; essi, anzi, appaiono necessari proprio per dare un significato plausibile, e comunque non vacuo, all’aggettivo “naturale” (in “scienza naturale”), senza dover compiere assunzioni ontologiche improprie117. È poi plausibile che almeno una parte del dibattito e dei travisamenti connessi allo status epistemologico della psicoanalisi e delle sue spiegazioni si leghi proprio alla presenza di questa componente categoriale non naturalistica. Si può, ad esempio, ritenere che sia perché la 115 La citazione è tratta da: A. Grünbaum, I fondamenti della psicoanalisi, cit., p. 74. Si noti che, in sede epistemologica, questo è tutto ciò che rileva, essendo ininfluente e preclusa (ancor più se si opta per la «neutralità ontologica»), la possibilità di affermare che, nonostante una irriducibilità epistemologica vicendevole, vi sarebbe però una qualche identità metafisica tra i processi di cui parlano le scienze naturali e quelli di cui parlano i linguaggi mentalistici. 116 Cfr. anche supra, nota 102. Questo non significa assumere che la naturalizzazione della psicologia dinamica richieda la sua riduzione ad una qualche disciplina naturalistica esistente. Implica solo che, per essere naturalizzata, essa operi esclusivamente entro una cornice logico-concettuale di tipo analogo a quello delle varie scienze sperimentali della natura (come si richiede nel caso di una epistemologia, o di una scienza della mente naturalizzate). 117 Non credo, dunque, che possano applicarsi a queste osservazioni le critiche che Grünbaum riserva a chi ritiene, erroneamente, che mostrare il carattere di scienza naturale della psicoanalisi richiederebbe la sua «riduzione ontologica alle entità fisicalistiche delle scienze naturali generalmente accettate» (I fondamenti della psicoanalisi, cit., p. 116). Epistemologia e psicologie dinamiche 145 psicologia dinamica ha di fatto accordato questo ruolo centrale alla cornice categoriale alla quale appartiene anche lo «spazio delle ragioni», che alcuni interpreti hanno potuto ritenere (per quanto erroneamente) che la psicoanalisi trattasse propriamente di ragioni e dunque non di cause118, o hanno almeno potuto giudicare (non altrettanto erroneamente) che Freud avesse, in certi casi, sovrapposto in modo troppo immediato e indiscriminato quanto pertiene alla sfera delle ragioni, del senso, e ciò che, invece, riguarda nessi determinati da cause119. In definitiva, è possibile che l’opzione che porta la psicoanalisi a categorizzare e trattare nel modo che abbiamo visto contenuti coscienti e inconsci che sono anche cause dei dinamismi psichici sia uno dei suoi punti di forza distintivi, e spieghi quello che molti, in forme diverse, hanno caratterizzato come il suo statuto anfibio, o «ibrido» (Ricoeur). Non sembra, tuttavia, del tutto privo di fondamento scorgere un aspetto epistemologicamente problematico (più che un compromesso pragmatico) nella specifica scelta freudiana di adottare un simile impianto categoriale (e, di conseguenza, un simile livello esplicativo), ritenendo però, al contempo, di muoversi entro l’orizzonte di un trattamento naturalistico della causalità psichica120. In altre parole, mentre Freud di fatto ha creato uno spazio logico-concettuale con una significativa componente categoriale non naturalistica per studiare (e curare) i dinamismi psichici, non la convinzione in sé che la psicoanalisi miri a 118 Davidson, che pure rifiuta la critica alla psicoanalisi basata sulla dicotomia ragioni/cause, ha però ben sintetizzato la contraddizione che vari filosofi hanno ritenuto di trovare nella metodologia di Freud: «Da un lato egli voleva estendere l’area dei fenomeni soggetti a spiegazioni di ragione, e dall’altro trattare questi medesimi fenomeni come vengono trattati stati e forze nelle scienze naturali. Ma nelle scienze naturali le ragioni e gli atteggiamenti propositivi sono fuori luogo, e regna invece la causalità cieca» (D. Davidson, Paradossi dell’irrazionalità, cit., p. 21). 119 Come è noto, Wittgenstein parlerà a questo proposito di un «abominevole pasticcio» (cfr. Lectures in 1930-1933, in «Mind», LXIII (1954), pp. 1-15 (part I); pp. 289-316 (part II): p. 316); si veda anche L., Wittgenstein, Lezioni e conversazioni, cit., specie pp. 119-138. Tra i molteplici studi su Wittgenstein e Freud, dopo quelli di Aldo Giorgio Gargani (ad esempio, Lo stupore e il caso, Laterza, Roma-Bari 1985, cap. 7), ricordo almeno J. Bouveresse, Philosophie, mythologie et pseudo-science. Wittgenstein lecteur de Freud, Éditions de l’éclat, Combas 1991; trad.it. Filosofia, mitologia e pseudo-scienza. Wittgenstein lettore di Freud, Einaudi, Torino 1997, specie cap. IV; R. Brigati, Le ragioni e le cause, cit., che rileva la presenza nella psicoanalisi di «un dispositivo metaforico che identifica o meglio traduce sistematicamente l’intelligibilità del senso in determinazione causale» (p. 22). 120 Ossia, entro l’orizzonte di una pura scienza naturale, quale Freud riteneva che la psicoanalisi già fosse. 146 Epistemologia e clinica spiegazioni causali, ma la pretesa che tali spiegazioni causali abbiano e/o possano avere carattere naturalistico, sembra introdurre un elemento di tensione e, se consequenzialmente condotta in porto, potrebbe mettere a rischio la legittimità di quello stesso spazio e le pratiche ad esso connesse. 4. Un sapere sui generis e la sua epistemologia Abbiamo cercato fin qui di mostrare: – come e in che senso, dal punto di vista epistemologico, la psicologia dinamica non si sia sviluppata al modo di un sapere unitario ed unanime al proprio interno, tanto che sarebbe opportuno parlare di psicologie dinamiche al plurale (§ 2); – come la psicologia dinamica, in genere, faccia ricorso essenziale anche a una componente categoriale di tipo “mentalistico”, e dunque dia spazio ad un accesso alla mente di livello sintetico e contenutistico; il che farà sì, al contempo, che la psicoanalisi non costituisca un sapere interamente naturalistico/naturalizzato, dal punto di vista epistemologico (§ 3); Vale la pena di aggiungere, ora, qualcosa circa i nessi tra questi due aspetti, anche per meglio cogliere il carattere e le conseguenze più rilevanti della non unitarietà che è stata evidenziata. Abbiamo detto di non voler qui arrischiare previsioni circa il persistere o meno della mancanza di unanimità attestata dalla storia della psicologia dinamica, almeno nel suo primo secolo di vita. Senza dubbio, a tale pluralità può contribuire, in certa misura, anche lo sviluppo ancora parziale delle ricerche effettuate in un ambito disciplinare relativamente giovane, e potrebbe trattarsi anche del frutto deprecabile di una insufficiente cultura del confronto, della valutazione e del controllo empirico, che non ha permesso che emergessero e si imponessero argomenti ed evidenze capaci di corroborare o squalificare alcune delle opzioni alternative tutt’ora in campo121. E, però, alcune divergenze di fondo/fondazionali che abbiamo cercato di iniziare a far emergere sembrano, almeno in parte, anche un tratto profondo che difficilmente il solo procedere cumulativo della ricerca empirica permetterà di superare. Ciò significa che tale pluralismo sembra legarsi, tra l’altro, al fatto che le psicologie 121 Cfr. M. Ponsi, Il cammino della psicoanalisi, cit., pp. 719-720. Epistemologia e psicologie dinamiche 147 dinamiche incorporano anche delle componenti rilevanti che difficilmente potranno trovare una trattazione puramente scientifico-tecnica, condivisa da tutti gli specialisti: pensiamo all’immagine complessiva che si ha dell’uomo e delle relazioni tra gli uomini, all’idea di salute e di benessere della persona, alle dimensioni normative, ai presupposti e alle opzioni filosofiche, alle convinzioni circa le finalità, le possibilità e il successo della terapia etc. Rilevare questo non vuol dire ridurre la psicoanalisi a Weltanschauung (cosa che, molto giustamente, Freud intendeva evitare), bensì riconoscere come nell’ambito della psicologia dinamica possano giocare un ruolo peculiare anche componenti che, per comodità, potremmo chiamare irriducibilmente “non paradigmatiche”: e ciò per il semplice fatto che essa, attraverso una relazione interpersonale diretta, si fa carico della condizione psichica delle persone, nel senso più ampio e nei tratti più distintivi122. Da questo punto di vista, agli aspetti che difficilmente consentono una trattazione esaustiva in termini scientifici e oggettivi, si assommano, sul versante terapeutico, anche tutte quelle componenti che attengono alla relazione irripetibile che si crea tra quel terapeuta e quel soggetto in cura. L’ulteriore tratto per noi estremamente rilevante consiste nel fatto che gli aspetti di non unanimità entro la psicologia dinamica che abbiamo ora evidenziato sembrano strettamente connessi al ruolo e allo spazio che hanno in essa le categorie mentalistiche e il livello personale di analisi. Del resto, pare che tutti i saperi collocati su questo livello portino sempre con sé degli aspetti di insuperabile non univocità. Questo potrebbe dipendere anche dal fatto che solo su questo livello trovano propriamente senso ed emergono in pienezza quelle opzioni interpretative, normative, proattive e di significato alle quali facevamo cenno e che possono essere irriducibilmente divergenti, o, comunque non trovano, in ragione del loro contenuto, procedure standardizzate di controllo, corroborazione, o confutazione. Una simile non unitarietà, inoltre, interessa in un duplice senso l’epistemologia. Da un lato, essa dipende (anche) dall’epistemologia: nel 122 Già Ellenberger (La scoperta dell’inconscio, cit., pp. 55-56), osservando questa molteplicità di «scuole, ciascuna delle quali ha la sua dottrina, i suoi insegnamenti, il suo training», si chiedeva se ciò significasse che la psicologia dinamica si trovava «un passo indietro» nel proprio sviluppo «oppure piuttosto che il modo scientifico di affrontare i problemi si è dimostrato insufficiente a coprire tutta la personalità di un uomo e quindi che esso deve farsi dare una mano da altri tipi di approccio». 148 Epistemologia e clinica senso che, come abbiamo visto, le tradizioni alternative che troviamo entro le psicologie dinamiche si differenziano tra l’altro per le opzioni e gli assunti epistemologici diversi che fanno propri (pluralismo dell’epistemologia nella psicologia dinamica). D’altra parte, questa condizione di non unitarietà della psicologia dinamica sembra avere conseguenze decisive anche quando si passa ad una analisi epistemologica di questo campo disciplinare (pluralismo dell’epistemologia della psicologia dinamica). Infatti, una non unitarietà dovuta ai fattori che abbiamo fin qui richiamato sembra rendere plausibile l’esigenza di una epistemologia della psicoanalisi che sia plurale. Plurale, sia nel senso che non si limita a riproporre categorie, metodi, questioni e strumenti di analisi tipici dell’epistemologia delle odierne scienze sperimentali della natura, sia anche nel senso di sapersi declinare in modi che tengono conto delle differenti (e alternative) prospettive teorico-terapeutiche che è possibile incontrare entro l’ambito delle psicologie dinamiche. Questo secondo punto sta a significare che il pluralismo non è soddisfatto semplicemente esaminando le proposte teorico-terapeutiche di vari autori, invece che quella del solo Freud, ma richiede che si cerchi anche di accostarsi ad essi senza avere già assunto un unico modello, valido in assoluto, di ciò che deve essere una scienza, di ciò che deve essere la psicologia dinamica, di quali criteri possono garantirne la validità e l’efficacia etc. In caso contrario, infatti, non si avrebbe un esempio di analisi realmente pluralista, ma solo l’applicazione di una forma mentis riduzionista a molteplici tradizioni o scuole, invece che a una sola. Naturalmente, approccio epistemologico plurale non significherà compiacente, o ad hoc: non si tratterà, dunque, di accettare passivamente le pretese e le autorappresentazioni che una tradizione o un autore offrono di loro stessi, ma di vagliare presupposti, teorie, metodi e obiettivi specifici, attraverso analisi altrettanto specifiche e mirate. Entro un quadro simile, in ogni caso, non sarebbe opportuno pretendere di applicare in modo sistematico alle diverse proposte teoriche e cliniche storicamente attestate in psicologia dinamica i criteri di caratterizzazione e valutazione epistemologica messi a punto con riferimento alle scienze sperimentali della natura (ammesso e non concesso che ve ne siano di generali). In molti casi, infatti, il genere di conoscenza cui queste impostazioni mirano, le categorie e il livello di analisi che privilegiano, la componente non solo efficiente e meccanica, ma anche finalistica che pongono al centro del lavoro interpretativo iscrivono il loro progetto teorico (e anche terapeutico) entro una cornice Epistemologia e psicologie dinamiche 149 concettuale che non può essere solo, o primariamente, quella scientifico-naturalistica. Ignacio Matte Blanco ha espresso questa idea di fondo in termini recisi: «La filosofia della scienza che è valida per i fenomeni fisici non può essere applicata alla ricerca psicoanalitica. Per quest’ultima si richiedono nuove formulazioni»123: nuove, potremmo dire, perché diverse dalle formulazioni messe a punto per rendere conto dei fenomeni studiati dalla fisica, ma nuove anche perché non si limitano a ricalcare i sentieri di quanti hanno cercato un’alternativa semplicemente negando che i fenomeni dei quali la psicologia dinamica si occupa abbiano un genuino rilievo causale. Resterebbe da mostrare come molte delle questioni e delle esigenze epistemologiche che abbiamo cercato di sottolineare si ritrovino, e perfino potenziate, quando si passa, in concreto, al tema della valutazione di efficacia delle psicoterapie psicodinamiche: una tematica complessa che, proprio per questo, richiederebbe una trattazione ampia ed autonoma, impossibile in questa sede. La necessità di controlli di tipo sistematico e intersoggettivo degli effetti terapeutici rappresenta una esigenza cruciale per la psicologia dinamica, con una storia complessa e tormentata alle spalle124. Attualmente, disponiamo di un ricco bagaglio di strumentazioni specifiche, disegni sperimentali (tra gruppi, o single-case), ricerche e meta-analisi, volti a valutare le dinamiche (il processo) e il risultato (l’outcome) delle psicoterapie in rapporto ai diversi tipi di disturbi (e con focus monotratto, o multitratto), a testare l’efficacia generale dell’approccio psicoterapeutico e quella specifica dei vari orientamenti di fondo (anche tramite confronti comparativi tra questi, e con i protocolli farmacologici di cura), a stabilire la preferibilità dell’uno o dell’altro genere di psicoterapia in rapporto ai diversi tipi di patologie (e/o di persone in cura), nonché a stimare il rilievo che hanno nei risultati conseguiti da un dato tipo di intervento i fattori specifici e quelli aspecifici125. 123 I. Matte Blanco, The Unconscious as Infinite Sets. An Essay in Bi-Logic, Duckworth, London 1975; trad. it. L’inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla bi-logica, Einaudi, Torino 2000, p. 170 (corsivo nell’originale). 124 Per una dettagliata ricostruzione in materia M. Ponsi, Il cammino della psicoanalisi, cit. 125 Una amplissima trattazione sistematica dei modelli e degli strumenti di ricerca sull’efficacia delle psicoterapie è N.Dazzi-V. Lingiardi-A. Colli (a cura di), La ricerca in psicoterapia. Modelli e strumenti, Raffaello Cortina, Milano 2006, e il primo capitolo costituisce una chiara introduzione al tema. Si veda anche P. Vineis, Eterogeneità in medicina: metodo clinico e psicoanalisi, in Id., L’osservazione medica, Garzanti, Milano 1991, cap. 7. 150 Epistemologia e clinica Tra le molte questioni di interesse epistemologico connesse a quest’ambito, converrà qui limitarsi a sottolineare la necessità di prestare sempre attenzione, anche su questo piano, alle peculiarità distintive dei diversi tipi di intervento psicoterapeutico, e, ancor più (o preliminarmente), a ciò che li distingue tutti rispetto ad interventi medici di altro genere, nonché rispetto a dei normali esperimenti scientifici (una necessità ben chiara, ovviamente, per chi si occupi in modo specialistico della questione). Sarebbe erroneo, infatti, immaginare che sia possibile valutare l’efficacia delle diverse modalità di intervento terapeutico sulle patologie psichiche prescindendo dalle loro differenze specifiche, e dando per scontato che i traguardi prestabiliti siano gli stessi per tutte le impostazioni. I diversi tipi di intervento su una stessa patologia psichica possono, in realtà, differire programmaticamente sotto molto punti di vista influenti: circa le finalità generali e gli obiettivi specifici che attribuiscono alla terapia, e/o per le concezioni che propongono riguardo alla guarigione, alla salute e a ciò che costituirebbe un esito favorevole dell’intervento clinico126, o, ancora, per il tipo di relazione, di adesione, di frequenza e di competenze che richiedono ai soggetti in cura, nonché con riferimento alla stessa possibilità di standardizzare e rendere riproducibile il trattamento. Inoltre, un processo di valutazione integrale non sarà interessato soltanto ad appurare e confrontare le percentuali di successo di un genere di trattamento o di un altro, in un certo periodo e rispetto a un dato tipo di patologia, ma anche ad esaminare quali fattori possono concorrere al risultato ottenuto da un certo genere di approccio (ad esempio, quello psicoterapeutico, invece che farmacologico), e a stabilire se certi generi di approccio terapeutico possiedano fattori peculiari e distintivi che influiscono sul loro grado di efficacia. Da questo punto di vista, la psicoterapia presenta delle caratteristiche specifiche, nel senso che la sua efficacia sembra coinvolgere più variabili di quante ne chiamano in causa, di norma, le prove di efficacia delle ipotesi e delle previsioni, delle sperimentazioni e delle pratiche connesse alle principali scienze sperimentali della natura, e perfino alla gran parte 126 Come ha ben colto Nino Dazzi, si tratta di un aspetto «che influenza non solo la scelta degli strumenti, ma anche la lettura dei risultati delle ricerche», ricordando come autori con orientamento diverso in materia «siano giunti a conclusioni diametralmente opposte rispetto all’efficacia della psicoanalisi, nonostante abbiano compiuto le loro valutazioni sul medesimo campione di studi» (in N. Dazzi-V. Lingiardi-A. Colli (a cura di), La ricerca in psicoterapia, cit., p. 9). Epistemologia e psicologie dinamiche 151 delle altre specialità cliniche. Tra tutti questi fattori, non si può non rimarcare, ancora una volta, il ruolo peculiare giocato in questo caso dal lavoro della persona in cura. Scriveva, ad esempio, Jung, valutando retrospettivamente l’efficacia della propria opera di clinico: Anni fa compilai una statistica sui risultati dei casi da me trattati. Non ricordo più esattamente le cifre; ma facendo una stima prudenziale, posso affermare che un terzo dei casi effettivamente guarì, un terzo migliorò notevolmente, e solo sul rimanente terzo non influii in modo essenziale. Ma sono proprio i casi non migliorati i più difficili da giudicare, perché di molte cose i pazienti non si rendono conto e non le capiscono se non dopo anni, e solo allora possono risentirne l’effetto127. Si tratta di una valutazione assai artigianale e vaga rispetto agli standard cui possiamo aspirare oggi. Ma quelle di Jung sono comunque considerazioni interessanti, al punto che chi volesse potrebbe, forse, estrarne una sorta di vero e proprio argomento. Vale a dire: “Il lavoro psicoanalitico è efficace (ha effetto) solo nella misura in cui la persona in cura lo comprende (o, addirittura: lo fa proprio)”. Come notavamo, questa caratteristica sembra marcare una differenza significativa tra la psicologia dinamica ed altri saperi scientifici, e perfino altre specialità cliniche, nelle quali il protocollo sperimentale o coinvolge entità che per natura non possono essere chiamate a giocare alcun ruolo attivo, o, comunque, assegna ai soggetti coinvolti un compito molto più circoscritto e definibile in termini oggettivi. Una interpretazione psicodinamica, invece, per essere efficace richiederà anche ciò che nessun altro tipo di intervento clinico richiede nella stessa misura (non un intervento chirurgico, non un protocollo farmacologico, etc.): una certa dose di comprensione e di adesione della persona in cura a quanto emerge in quel lavoro, un suo riconoscersi, con il passare del tempo, nel quadro d’insieme che il lavoro di analisi restituisce (si noti che l’accento qui non è sull’assenso come prova di validità dell’interpretazione, bensì sul consenso come fattore della sua efficacia). Ma c’è un altro aspetto, che abbiamo toccato (sempre in riferimento all’opera di Jung), e che sembra centrale anche per diverse prospettive psicodinamiche attuali. Esso si lega al tipo di autocomprensione al quale mirerebbe principalmente la terapia. Infatti, in varie 127 C.G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, cit., p. 183. 152 Epistemologia e clinica prospettive psicodinamiche attuali, la riuscita dell’intervento terapeutico sembra legarsi in particolare alla capacità che esso suscita nel paziente di collocare il proprio disagio in una più ampia cornice significante ed evolutiva. Una cornice interpretativa che analista e analizzando contribuiscono a costruire, e che quest’ultimo può giungere ad accettare e fare propria quale nuovo quadro adeguato e sensato della condizione che vive, anche al di là della quantità di dati e fatti biografici che sono per la prima volta disseppelliti grazie ad essa, per così dire128. Non si tratta di un congedo della terapia psicodinamica dal perseguimento di un ideale veritativo, ma, come ha osservato Morris Eagle, di un modo di spostare l’attenzione «dall’accuratezza del contenuto dell’interpretazione alla questione della veridicità e autenticità dell’autocomprensione che genera»129. Ci si muove, così, su un terreno certo più sfuggente, ma forse anche più coerente con la finalità propriamente terapeutica ed evolutiva della psicologia dinamica. Al contempo, è chiaro che il lavoro richiesto al soggetto in cura per cooperare a costruire l’interpretazione, comprenderla, farla propria, integrarla e trasformare la sua vita anche alla luce di essa, diviene, in questa prospettiva, sempre più significativo e si configura come un fattore sempre più essenziale per l’efficacia del percorso e dell’“esperimento” psicoterapeutico. In effetti, proprio la necessità di aspetti cooperativi di questo genere potrebbe perfino accrescere gli scopi e gli interessi della valutazione di efficacia delle psicoterapie. Sembra, infatti, che (come già Freud ben sapeva) le condizioni, l’età, le abilità, gli orientamenti, e le competenze personali del soggetto in cura incidano in modo significativo sugli effetti di psicoterapie di genere diverso (psicoanalitica, cognitivocomportamentale, sistemica etc.), e addirittura sulla possibilità, nel caso dato, di ricorrere ad un certo tipo di terapia. Ma, allora, le ricerche sull’efficacia in quest’ambito potranno anche contribuire a farci comprendere in modo più esatto quanto grande è il ruolo giocato dai vari fattori di questo genere e, eventualmente, quali tipologie di persone (e perché) siano più indicate per un genere di trattamento (psicodinamico, poniamo), e quali, invece, per altri generi di psicoterapie (e/o trat128 Non sarà irrilevante a questo proposito il fatto che, come ha notato Eagle «Il concetto cardine di rimozione è praticamente scomparso dalla letteratura psicoanalitica contemporanea ed è stato sostituito da un enfasi sulla dissociazione» (M.N. Eagle, Da Freud alla psicoanalisi contemporanea, cit., p. 286). 129 M.N. Eagle, Da Freud alla psicoanalisi contemporanea, cit., pp. 255-258. Epistemologia e psicologie dinamiche 153 tamenti farmacologici)130. Dunque, nel caso della psicoterapia, assai più che in altri casi, alla valutazione di efficacia possiamo e dobbiamo chiedere non solo se un trattamento è (probabilmente) efficace per un certo tipo di malattia, ma anche se è (probabilmente) efficace per un certo tipo di malato. Certo, anche queste considerazioni mettono ancora una volta in luce le peculiarità epistemologiche delle psicologie dinamiche, i loro caratteri distintivi e la difficoltà di inquadrarle entro cornici precostituite. Ma, come ha scritto Adam Phillips: Non c’è bisogno di idealizzare la vaghezza, o l’improvvisazione per pensare che il fatto che la psicoanalisi sia di difficile collocazione – diversamente da un sacco di cose cui somiglia – possa essere una delle sue virtù distintive131. 130 Ha evidenziato giustamente l’importanza di queste differenze A. Civita, Psicoanalisi e psicoterapia cognitiva, cit. 131 A. Phillips, On Kissing, Tickling and Being Bored, Harvard U.P., Cambridge (Mass.) 1993; trad. it. Sul baciare, il solleticare e l’essere annoiati. Saggi psicoanalitici sulla vita inesplorata, Il Pensiero Scientifico Editore 1995, p. 3. Indice dei nomi Adachi, J., 30n Adler, A., 11, 112n, 124 Andreasen, N.C., 85n Ankeny, R.A., 13, 18n, 20n, 21, 22, 22n, 28n, 30n, 32n, 34, 34n Antiseri, D., 16n Aragona, M., 53n, 54n, 55, 55n, 56, 56n, 58n, 59n, 63n, 67n, 71n, 72, 72n, 73n Armezzani M., 74n Aversa, L., 116n, 119n, 126n Balint, M., 49n, 50n Barron, J.W., 89n, 90, 92n Bella, A., 75n Bergson, H., 119n Bermúdez, J.L., 84n, 87n, 141 Bert, G., 48n, 50n Berto, G., 88n Bion, W., 11 Blagov, P., 90, 90n Blanco, I.M., 149, 149n Bleuler, E., 91, 91n Borrell, F., 48n Borri, M., 13 Bouveresse, J., 145n Breuer, J., 26, 26n, 30, 30n Brigati, R., 93n, 135n, 142n, 145n Buzzoni, M., 93n, 107n, 135n Byrne, D., 18n Cagli, V., 16n Campaner, R., 13, 70n Canali, S., 37n, 38n, 45, 46n Canguilhem, G., 38n, 48n Caniglia, G., 30n Capantini, L., 13 Carotenuto, A., 113n, 120n, 122n, 126n Casonato, M., 75n Castellani, E., 13 Castiglioni, M., 74n, 93n Cavell, M., 136n, 143, 143n Charon, R., 50n Chong, J., 30n Cioffi, F., 106n Cionini, L., 110n Civita, A., 13, 53n, 75n, 89, 89n, 107, 107n, 110n, 140n, 153n Clark, P., 135n, 136n, 137n Colli, A., 31n, 129n, 149n, 150n Conforti, R., 93n Cooper, A.M., 98n, 128n Copernico, N., 95 Corbellini, G., 37n Cosmacini, G., 48n Corradini, A., 74n, 93n Cosenza, D., 53n, 75n, 107n, 140n Creager, A.N.H., 16n, 30n Crnĉević Ž.., 73n Cummings, M.R., 37n 156 Epistemologia e clinica Darwin, C., 95 Davidson, D., 133n, 138, 138n, 142n, 143n, 145n Davies, M., 8, 84, 85, 85n Davison, G.C., 58n Dazzi, N., 31n, 55n, 90n, 129n, 149n, 150n De Monticelli, R., 50n, 86n Dennett, D., 83, 83n Di Benedetto, V., 52n Dilman, I., 135n Di Paola, F., 35n, 38n, 46n, 71n Eagle, M.N., 131, 131n, 133n, 134, 134n, 139, 152, 152n Ellenberger, H.F., 97n, 111, 112n, 119n, 120n, 147n Engel, G.L., 47n, 48n Engel, P., 143n Epstein, R.M., 48n Fairbairn, W.R.D., 102 Fantini, B., 12 Federspil, G., 18n, 25n, 44n Feyerabend, P.K., 96 Fingarette, H., 134 Fischer Servi, G., 16n Forrester, J., 16n, 18n, 109n Freud, S., 11, 26, 26n, 30n, 95, 95n, 97, 97n, 98, 98n, 99, 100, 101, 101n, 102, 102n, 103, 103n, 104, 105, 105n, 106, 106n, 107, 107n, 108, 111, 112, 112n, 113, 113n, 114, 114n, 115, 115n, 116, 116n, 117, 117n, 118, 118n, 119, 119n, 120, 120n, 121, 121n, 122n, 123n, 124, 124n, 125n, 126n, 128, 131, 131n, 132, 132n, 133, 133n, 134, 134n, 136, 136n, 139, 139n, 141, 141n, 143, 145, 145n, 147, 148, 152, 152n Friedman, M., 96n Fulford, B., 53n, 67, 67n, 88n Fulford, K.W.M., 93n, 97n, 103n, 106n Gabbani, C., 7n, 66n, 69n, 84n, 86n, 142n Gabbard, G.O., 90, 90n, 128n, 140n Gadamer, H.G., 139n Galletti, M., 86n Gardner, S., 135n, 136n, 137, 137n Gargani, A.G., 16n, 145n Garrod, A.E., 37n, 42n Gazzillo, F., 55n, 90n Geddes, J.R., 85n Gelder, M.G., 85n Gensini, G. F., 12, 42n Giaretta, P., 12, 13, 18n, 25n, 27n, 42n, 44n Ginzburg, C., 16n, 44n, 45n Gleitman, H., 62n Gleitman, L.R., 62n Glover, E., 119n Goble, L., 16n Good, J.B., 49n Gorovitz, S., 15, 16n, 17, 17n, 37n, 39n, 42, 43, 43n Graham, G., 53n, 67, 67n, 88n, 93n, 97n, 103n, 106n Greenhalgh, T., 19n, 32n, 38n, 39n, 44n, 50n Griffiths, F., 18n, 48n Grmek, M., 52n Grünbaum, A., 101, 101n, 102, 102n, 103n, 104, 104n, 105, 105n, 106, 106n, 107, 108n, 114n, 134n, 136n, 142n, 142, 143, 144n Guyatt, G., 30n Hacking, I., 16n, 67n, 70n, 74, 74n, 75, 75n, 76, 76n, 77n, 78 Haldane, J., 137n Hanson, N.R., 96 Harris, H., 37n Heller, T.C., 74n Hempel, C.G., 53n Hoey, J., 43n, 49n Indice dei nomi Hornsby, J., 83, 83n, 84 Hook, S., 97n Hopkins, J., 133n, 136n, 143n Horty, J.F., 16n Howlett, P., 20n Hubbard, J.P., 19n Hurwitz, B., 19n, 22n, 32n, 39n, 50n Innamorati, M., 93n, 107n, 108n, 113n, 128n Ippocrate, 42n, 52n Jablensky, A., 65, 65n, 66, 67, 67n Jakovljević, M., 73n Jenicek, M., 16n, 18, 18n, 19n, 24, 24n, 31n, 43n, 44n, 46, 46n Jervis, G., 93n, 111, 111n, 129n Johnson, S.L., 58n Jonsen, A.R., 17n, 18n, 44n, 45n Jouanna, J., 52n Jung, C.G., 11, 75n, 112, 112n, 113, 113n, 114, 114n, 115, 115n, 116, 116n, 117, 117n, 118, 118n, 119, 119n, 120, 120n, 121, 121n, 122, 122n, 123, 123n, 124, 124n, 125, 125n, 126, 126n, 128, 128n, 151, 151n 157 Lalumera, E., 54n, 61, 61n Lambrichs, L., 12, 13 Lanfredini, R., 13 Langholf, V., 52n Laplanche, J., 119n Laurence, S., 61n, 62n Lauro-Grotto, R., 13 Lear, J., 136n Lees, J., 22n Lingiardi, V., 31n, 55n, 89n, 90n, 92n, 129n, 149n, 150n Linneo, C., 67n Liotta, E., 113n, 115n Livet, P., 16n, 30n, 34n, 44n, 45n Loÿ, R., 125n Lunbeck, E., 16n, 30n Kahneman, D., 85n Kandel, E.R., 42n, 74n, 114n, 129n, 134n, 141n Keller, J., 30n Kempster, P.A., 22n Kendell, R., 65, 65n, 66, 67, 67n Kernberg, O., 102 Kidd, M., 19n Kihlstrom, J., 85n, 129n Kranefeldt, W.M., 117n, 125n, 128n Kring, A.M., 58n Kuhn, T.S., 32, 32n, 55, 96, 96n, 109, 109n, 110n MacIntyre, A., 15, 16n, 17, 17n, 37n, 39n, 42, 43, 43n Macnaughton, R.J., 19n, 34n, 44n, 49n, 50n Maglione, G., 74n Maj, M., 72n, 73n Mayr, E., 37n Margolis, E., 61n, 62n Marinker, M., 32n, 47, 47n, 48n Marraffa, M., 13, 85n, 129n, 135n, 136n Marshall, B.J., 31n McGuire, W., 113n Mecacci, L., 93n Medawar, P.B., 17, 33n Meghnagi, D., 133n Meyer, U.A., 42n Mill, J.S., 17n Millon, T., 92n Moja, A., 49n Montgomery Hunter, K., Moore, T.E., 61n Moretto, A., 12, 42n Morgan, M., 13, 20n La Forgia, M., 119n, 122n Nagel, T., 94, 94n 158 Epistemologia e clinica Neale, J.M., 58n Nisbett, R.E., 85n, 129n Osler, W., 42n Pagnini, A., 9n, 12, 13, 37n, 53n, 93n, 95n, 108n, 135n, 137n Palliccia, D., 113n, 114n, 117n, 123n Palombi, F., 93n Pancheri, P., 58n Pappenheim, B., 26 Parkinson, J., 22, 22n, 23, 28 Parrini, P., 13, 93n, 103n Passeron, J.C., 16n, 20n, 27n, 40n Paternoster, A., 84n, 85n, 129n, 135n, 136n Pera, M., 101n Person, E.S., 128n Peruzzi, A., 7n Phillips, A., 153, 153n Pieri, P.F., 117n, 118n, 119n, 121n, 122n, 123n, 124n Pirazzoli, A., 42n Ponsi, M., 129, 129n, 130n, 146n, 149n Pontalis, J.B., 119n Popper, K., 108n Portioli, C., 93n Ragin, C., 18n Recchia, G., 42n Repetti, P., 93n, 101n Revel, J., 16n, 20n, 27n, 40n Ricoeur, P., 97n, 145 Roazen, P., 114, 114n, 115n Roberts, R., 30n Robinson, P., 107n Rosenbloom, D., 30n Rosch, E., 61, 61n, 62n Rossi, P., 16n Rothstein, A., 98n Sachs, D., 106n Sackett, D., 30n Sacks, O., 48n Sartorius, 67 Scandellari, C., 13, 18n, 25n, 28n, 38n, 44n, 49n Schaffner, K.F., 29n, 32n, 39, 40n, 42, 43n, 70n Schopenhauer, A., 119n Sellars, W., 7n Setaro, M., 13 Shamdasani, S., 75n, 115n, 116n, 117n, 118n, 119n, 120n, 121n Sirgiovanni, E., 12, 13 Skidelsky, L., 85n Skultans, V., 50n Snelling, D., 136n Solms, M., 128n, 134n, 141n Stanghellini, G., 66n Stern, D.B., 139n Stoljar, D., 94n Suchman, L., 48n Sulloway, F., 113, 114n Tallis, F., 129n Thagard, P., 22n, 24n, 25n, 29, 29n, 31n Thornton, T., 53n, 66n, 67, 67n, 68n, 88n, 90n, 93n, 97n, 103n, 106n Toulmin, S., 17n, 18n, 44n, 45n Trabucchi, M., 12, 42n Tramonti, F., 129n, 134n Trevi, M., 128n Turnbull, O.H., 128n, 134n Valdés, L., 18n van Fraassen, B.C., 67, 67n Vandenbroucke, J.P., 19n, 24n, 30n Vassallo, N., 93n, 110n Vegetti, M., 52n Vegni, E., 49n Vella, G., 54n, 56, 56n, 58n, 63n, 73n Verdi-Vighetti, L., 120n Villanueva, D., 18n Vineis, P., 149n Indice dei nomi Wakefield, J.C., 58, 58n, 89n Wallerstein, R.S., 105n, 112n, 130, 130n, 131n Warren, R., 29, 29n, 31n Weinberg, S., 91, 91n Wersterståhl, D., 18n Westen, D., 90, 90n Whitehead, A.N., 39n Windelband, W., 16, 16n Winnicott, D., 102 Wittgenstein, L., 65, 65n, 93n, 121n, 145n Williams, B., 67 Wilson, T.D., 85n, 129n Wise, M.N., 16n, 30n Wollheim, R., 133n, 136n Wright, C., 135n, 136n, 137n Yin, R.K., 16n, 19n, 27n Zannini, L., 44n, 48n, 49n, 50n 159 Edizioni ETS Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa [email protected] - www.edizioniets.com Finito di stampare nel mese di ottobre 2013