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Sconfitta di Dio?

2011

Per una rilettura di Sergio Quinzio Introduzione (sulle ultime parole di Ludwig Wittgenstein) Dare inizio ad una ricerca è sempre un'operazione difficile da compiersi anzi, spesso si è sospinti a desistere proprio perché diviene veramente complesso trovare l'espediente che giustifichi un principio. Queste brevi ed incerte riflessioni d'esordio non vogliono essere per nessuna ragione fuorvianti, ma suggerire una via d'uscita al dilemma. Così, anche per dare avvio ad una dissertazione che dovrà condurre all'elaborazione di una tesi finale, è vitale trovare il giusto aggancio che, in questo specifico caso, può essere rinvenuto in mezzo alle complesse ed articolate motivazioni che possono invitare alla speculazione tra tutte le quali una emerge: la passione del sapere, il gusto dello scoprire, dell'illuminare l'oscurità che sempre circonda l'intelligenza. La passione deve essere sostenuta, poi, dalla meraviglia, altrimenti rischia di scadere in un patire senza frutto alcuno, in una esanguità, mentre la sua accidentalità non è costretta fare altro che germinare dal terreno in precedenza dissodato dallo stupore di scoprire. Solo così, le parole che di sotto seguono assumono quel senso che devono possedere e trasmettere al lettore. Proviamo a cominciare usando un espediente. "Dite loro che ho avuto una vita meravigliosa". Questa frase, mormorata da Ludwig Wittgenstein ormai abbandonato sul letto di morte alla signora Bevan, sua ospite, poco prima di esalare l'estremo respiro, esprime a fondo il senso della passione che spinse un uomo ad indagare dal di dentro le inquietudini che lo hanno scosso ed accompagnato per tutta la lunghezza della sua vita. Come può il tormento di un'esistenza raminga assumere i toni del meraviglioso e, di conseguenza, dello straordinario? Da parte nostra, e lo spirito che anima questa ricerca tenterà di sviscerarlo, riconosciamo e crediamo nella forza originaria del meraviglioso espresso nella capacità di lasciarsi affascinare da tutto quanto, in quest'universo mondo, merita ancora di essere pensato (e chi, se non Dio può detenere il primato?). Certamente, alle orecchie dei più, un'affermazione come quella scelta per aprire la corrente dissertazione, consegnata ai posteri come emblematico testamento spirituale ed intellettuale, potrebbe benissimo venire scambiata per una boutade pronunciata nel tentativo di stemperare quell'umana disperazione che sprigiona dall'emotività di coloro che assistono impotenti al trapasso di un essere umano PAGE 1

Sconfitta di Dio? Per una rilettura di Sergio Quinzio Introduzione (sulle ultime parole di Ludwig Wittgenstein) Dare inizio ad una ricerca è sempre un’operazione difficile da compiersi anzi, spesso si è sospinti a desistere proprio perché diviene veramente complesso trovare l’espediente che giustifichi un principio. Queste brevi ed incerte riflessioni d’esordio non vogliono essere per nessuna ragione fuorvianti, ma suggerire una via d’uscita al dilemma. Così, anche per dare avvio ad una dissertazione che dovrà condurre all’elaborazione di una tesi finale, è vitale trovare il giusto aggancio che, in questo specifico caso, può essere rinvenuto in mezzo alle complesse ed articolate motivazioni che possono invitare alla speculazione tra tutte le quali una emerge: la passione del sapere, il gusto dello scoprire, dell’illuminare l’oscurità che sempre circonda l’intelligenza. La passione deve essere sostenuta, poi, dalla meraviglia, altrimenti rischia di scadere in un patire senza frutto alcuno, in una esanguità, mentre la sua accidentalità non è costretta fare altro che germinare dal terreno in precedenza dissodato dallo stupore di scoprire. Solo così, le parole che di sotto seguono assumono quel senso che devono possedere e trasmettere al lettore. Proviamo a cominciare usando un espediente. “Dite loro che ho avuto una vita meravigliosa”. Questa frase, mormorata da Ludwig Wittgenstein ormai abbandonato sul letto di morte alla signora Bevan, sua ospite, poco prima di esalare l’estremo respiro, esprime a fondo il senso della passione che spinse un uomo ad indagare dal di dentro le inquietudini che lo hanno scosso ed accompagnato per tutta la lunghezza della sua vita. Come può il tormento di un’esistenza raminga assumere i toni del meraviglioso e, di conseguenza, dello straordinario? Da parte nostra, e lo spirito che anima questa ricerca tenterà di sviscerarlo, riconosciamo e crediamo nella forza originaria del meraviglioso espresso nella capacità di lasciarsi affascinare da tutto quanto, in quest’universo mondo, merita ancora di essere pensato (e chi, se non Dio può detenere il primato?). Certamente, alle orecchie dei più, un’affermazione come quella scelta per aprire la corrente dissertazione, consegnata ai posteri come emblematico testamento spirituale ed intellettuale, potrebbe benissimo venire scambiata per una boutade pronunciata nel tentativo di stemperare quell’umana disperazione che sprigiona dall’emotività di coloro che assistono impotenti al trapasso di un essere umano consapevole di avere ormai raggiunto il limite dell’esistenza terrena: invece, dalla pacata serenità di una simile constatazione sorge ben altro assieme alla capacità di sopportare fino all’impossibile la tragicità di una vita. Non è per nulla una frase costruita, pensata e trascritta a guisa di un biglietto da visita dal basso e facile sentore filosofeggiante che vorrebbe disciogliere il dramma della fine in una slavata atarassia. Dall’ordito di queste poche parole erompe, in tutta la sua umana forza, la struggente capacità di stare che un essere umano acquisisce esclusivamente e solo attraverso la coraggiosa pratica dell’esistenza accolta nell’intimo di se stessi quando si affrontano le alterne fortune sorretti da una passione totalizzante …e la filosofia è una passione totalizzante, un eroico furore.. Ed è proprio nell’attimo in cui la passione è di tale portata ed intensità che si rende necessario saltare il baratro ed andare oltre senza volgersi indietro ad ammirare l’orrido crepaccio lasciatosi alle spalle Chi ama la montagna, conosce bene l’insana tentazione di tornare ad ammirare gli strapiombi ed i dirupi inseguendo quell’etereo sapore che provoca il sentire le vertigini assalire il corpo per indurlo a pericolosamente caracollare sull’orlo del precipizio troppo confidando negli slabbrati scivolosi bordi di crepacci e seracchi. L’esperienza dell’alpinista è simile a quella di colui che pensa ed è mirabilmente giocata sul tempo, sulla pazienza e sulla lentezza.. In ogni modo, non dimentichiamo che la parabola esistenziale di Wittgenstein fu costellata da intense sofferenze mentali ed intellettuali, tormentata da privazioni d’ogni genere, inflessibili applicazioni razionali, acute scissioni interiori causate da un’omosessualità vissuta con lacerazione, contrapposte ad un sincero bisogno d’affetto al quale era accompagnata una ruvidezza tale da respingere ed annichilire l’affetto stesso. Una simile personalità indurrebbe chiunque, amici intimi inclusi, a riconoscere nell’uomo che l’ha sopportata l’icona vivente e gemente del pessimismo. Eppure, come possiamo tacciare di pessimismo, ricadendo in quella perversa logica che vorrebbe sistematizzare tutti gli ismi, un uomo che ha amato la vita fino al punto di coraggiosamente scommetterla? A tale proposito non possiamo dimenticare l’abbandono ad un destino di imputato pessimismo riservato al genio poetico e filosofico di Giacomo Leopardi. Certamente, un uomo normale sarebbe indotto a definire un’esistenza come questa un mare di crudele infelicità, invece…la meraviglia riesce a compiere autentici miracoli e nel caso specifico, mirabili miracoli razionali riassunti in quel consegnare la ricerca di Dio ad un’eloquentissima poetica del silenzio. Questo lungo preambolo deve essere motivato, come le ragioni che legittimano lo sforzo di una ricerca. Proviamo. Sergio Quinzio, nel complesso della sua opera speculativa e spirituale, induce ad un’affiancamento, magari per alcuni ardimentoso e spericolato, con le poche idee sopra accennate, come tenendo conto delle debite proporzioni. Vorremmo principiare, innanzi tutto, con la passione speculativa che caratterizza l’opera del nostro autore, ed insieme questa ricerca, talvolta spinta all’eccesso oltre che spesso fatalmente ignara dei limiti stessi entro i quali si muove: solo un uomo patetico Da intendersi, uscendo dalle maglie del linguaggio comune, come un individuo in grado di vivere con passione estrema la vita e tutto quanto con essa entra in relazione, incluso il rapporto con il trascendente. Per un approfondimento di questo concetto sono illuminanti le riflessioni scritte da Andrè Neher in L’essenza del profetismo, Marietti, 1984 Casale Monferrato, alle pagg. 80 – 84.è in grado di spendere la propria esistenza rincorrendo i fantasmi che il pensare evoca e con essi, il desiderio di parlare di Dio nel tentativo di rimescolare le carte di un gioco speculativo che stenta ad essere ripreso. A questo esister appassionato segue il concetto, romanticamente sfruttato, dell’”errare ebraico” ovvero, quell’essere raminghi, o riconoscersi tali, che immediatamente rinvia all’idea del nomadismo e dell’esodo S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, pag. 48 – 52, Adelphi, Milano 1992. Viene proposto un approfondimento dei concetti di esodo e nomadismo. Interessanti i paralleli con l’errare ellenico, anche se un corretto approccio andrebbe rifondato per evitare facili conclusioni., quando il peregrinare assume i toni di una mistica ricerca tesa con drammaticità alla scoperta della propria identità creaturale. Ad un primo sguardo, sembra che le figure di Ulisse ed Abramo ( Mosè ) accompagnino lo sviluppo esistenziale dell’umanità, sempre rivolta alla difficile ricerca di un fondamento in grado di conferire senso alla storia individuale e collettiva, fornendo due prospettive complementari, contrapposte, ma unite come un’erma bifronte, anche se Quinzio preferisce tracciare una linea di confine tra i due mondi. Un accenno a quella che potrebbe essere un solco interpretativo: Abramo rappresenterebbe l’errare religioso mentre Ulisse quello civile, poiché aprirebbe a considerazioni di carattere antropologico e sociologico estremamente stimolanti.In ogni caso, i due nomi sopra menzionati, appartengo ad universi speculativi che hanno fatto dell’umana erranza Nel caso del panorama filosofico greco, spesso una costante interiore volta alla tensione verso la continua ricerca nell’esplorazione dello scibile umano lasciandosi trasportare dal thauma. Per esplicitare: anche la platonica “seconda navigazione” può essere letta come una viaggio, autentico), verso i lidi di una sempre rinnovata conoscenza che mirabilmente coniuga in mistiche nozze fede e ragione ancora prima dei tentativi cristiani attraverso la patristica. I filosofi greci, soprattutto quei pensatori “aurorali”, seppero vivere appieno la vocazione all’erranza, talvolta esistenziale, quando costretti a vagabondare a causa dell’ilarità popolare che la loro in usualità seppe suscitare nelle menti già al tempo, ormai consegnate alla consuetudine della quotidianità. una tragica costante. Wittgenstein fu un autentico “ebreo errante”, proprio come Quinzio desidera essere considerato Quinzio definisce il modo ebraico stesso di essere un come il perenne peregrinare sublimato nell’errare del nomade. Sarebbe opportuno non dimenticare che il senso della peregrinatio assume una notevole importanza anche presso il cristianesimo primitivo quando l’ansia di andare a rivisitare e riscoprire i luoghi della vita di Cristo animò viandanti raminghi quali Girolamo ed Egeria. Sopra questa instabilitas loci, spesso confusa con un febbrile stato d’irrequietezza giovanile, potremmo dire parecchio, basti, per quanto andremo a dire, il riferirsi ad una inquietudine che dovrebbe condurre ad abbracciare il significato profonda della sfuggevolezza dell’esistenza. A tale riguardo, tanti scritti cristiani delle origini sono eloquenti (Ad Diognetum, le Confessiones di Agostino)., una volta giunti alla conclusione della suo vagabondare speculativo anche se l’orizzonte che ci vuole restituire, non scevro da una certa efficacia che trova nel buon terreno della post – modernità ragioni necessarie e sufficienti per attecchire, risulta diverso e talvolta sfuggente. Andando oltre le considerazioni legate alla fugacità del piacere più o meno, quelle che contano sono le domande che conferiscono un pondus alla necessità di una ulteriore ricerca nel tentativo di raccordare le sue interessanti intuizioni, benché sostenute da una passione esistenziale che lo ha condotto verso la scelta di una cattolicità ortodossa ed intransigente, ad un adeguato approfondimento che fa della philosophia crucis il legittimo punto di riferimento, il firmamentum, verso il quale volgere lo sguardo per ritrovare lo spasimo della speranza anche laddove le umane coordinate dell’esistere s’aggrovigliano inestricabilmente. Pensare la croce, con tutte le sue implicanze, rimane il fondamento che esige un chiaro ritorno alla filosofia nel progetto, rinnovato, di interrogare la religione nell’epoca della dimenticanza di Dio, quando il sottrarsi da un impegno doveroso, assume i toni di una leggerezza esistenziale che sconfina nell’insostenibilità per eccesso d’approssimazione. La scelta di un testo di Quinzio non è per niente casuale. L’invito rivolto da un libro come La sconfitta di Dio rimane espresso fin dal titolo stesso, poiché richiama in circolo idee che sono prepotentemente tornate attuali soprattutto tra i non direttamente addetti ai lavori teologici come lo sono i filosofi ( anche se tutto rimane da dimostrare ). Eppure, la teologia risulta estremamente debitrice nei confronti di questo richiamo all’opera che emerge dalla parte della speculazione. Dalla stagione del pensiero debole possiamo realmente trarre quanto necessita ad una solerte riapertura dei dibattiti non dimenticando quel rinvio alle radici ebraiche che il nostro autore ha accortamente scandagliato, quando sostiene che: “Non è importante far nomi, e se ne dovrebbero comunque far troppi, ma senza Marx e il marxismo, senza Freud e la psicoanalisi, senza Einstein e la relatività e senza Kafka, senza Wittgenstein, il mondo contemporaneo non sarebbe ciò che è. La giudaizzazione del mondo, che culmina nel nostro secolo (il XX°, nota del red.), consiste nell’affermarsi delle categorie ebraiche le quali, anche quando assumono vesti non ortodosse e persino esasperatamente lontane dalla tradizione, restano pur sempre riconoscibili come filiazioni o metamorfosi di una vocazione risalente, nella sua origine, alla rivelazione biblica.” S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, op. cit., pag. 17 – 18. Viene da aggiungere, all’incompleta lista sopra trascritta, il nome di un ebreo marginale, lo sconfitto per eccellenza, ma l’unico in grado di conferire senso anche laddove attecchisce il germe della contraddizione: Gesù di Nazareth, il Cristo. A lui guarderemo espressamente nel tentare di dipanare, con pazienza, un’aggrovigliata matassa di pensieri. 1 La legittimità di una domanda Sergio Quinzio apre il suo provocatorio saggio “La sconfitta di Dio” S. Quinzio, La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano 1992. invitando il lettore a riflettere su una questione drammatica e cruciale ancora ai nostri giorni: possiamo azzardare il pensare Dio dopo i terribili avvenimenti che hanno funestato il secolo da poco tramontato? Siamo ancora autorizzati a chiamarlo in causa e, per alcuni, scomodarlo? A tale proposito esordisce richiamando un’osservazione che altro non può fare che stimolare ad un sano ripensamento nel tentativo di formulare correttamente la questione: “E’ stato detto, da Martin Buber, che Hitler ha costretto ebrei credenti e non credenti a parlare di Dio , e questa non è una delle sue minori scelleratezze: perché o Dio parla, e allora lo si ascolta, o si parla a Dio, pregando, ma non si parla di Dio. Per noi comunque, e certo non soltanto da oggi, il divino non può più essere l’orizzonte, ma tutt’al più il problema.” Ibid, pag. 13. Da questa inquietante apertura, possiamo cominciare ad articolare alcuni fondamentali quesiti principiando con una sottolineatura grammaticale che la citazione lascia intelligentemente emergere quando viene affermato che non si parla di Dio. Il parlare al quale sottende Quinzio, non è il semplice quotidiano disquisire quando, addirittura, alcuni argomenti soggiacciono alle fugaci leggi della moda intellettuale, piuttosto la faticosa ricerca del concetto secondo un artigianale lavorio razionale al quale la cibernetica ci vuole sottrarre. Ma è ancora possibile azzardare un concetto di Dio dopo Auschwitz? Per approfondire il tema si veda: H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz (Una voce ebraica), trad. it. di Carlo Angelino, Il Melangolo, Genova 1991. E se il tristemente celebre campo di sterminio nazista rischia di essere rammemorato, oggi, come uno tra i tanti “luttuosi episodi bellici”, quante soluzioni finali la malata contemporaneità sta tramando alle spalle di coloro che ancora osano percorrere i sentieri del pensiero e non solo? Da questo evento Carlo Angelino, nell’introduzione a Il concetto di Dio dopo Auschwitz (vedi sopra), pag. 9, scrive: “Auschwitz non è un episodio fra gli altri, sia pure il più tragico e spaventoso, della seconda guerra mondiale; non è, come si è cercato di far credere affiancandolo ad Hiroshima un fatto bellico. Come afferma giustamente Jonas, Auschwitz è un Evento della storia del mondo. Solo se lo si intende in questo modo, si può parlare di un prima e di un dopo Auschwitz”., come viene definito dall’ebraismo sopravvissuto alla Shoà, Dio viene chiamato direttamente in causa, ma non come nei desolanti deliri che il folle nietzschiano declama per annunciare il suo inesorabile trapasso; l’urlo strozzato che si eleva dal campo di morte nazista ci obbliga a ripensare radicalmente L'Eterno e così a riconsiderare il concetto stesso di Dio ereditato attraverso una bimillenaria tradizione filosofica e religiosa. Quest’operazione, da intendersi come previa pars destruens, corrisponde alla vocazione più autentica e profonda del pensiero che, proprio nel pensare Dio, ha da sempre riconosciuto la sua originaria e fondamentale istituzione. A proposito diviene interessante rinviare al pensiero aurorale tematizzato da Heidegger, nel riconoscere la fontalità della filosofia presocratica.Questo recupero ebraico, per Quinzio irrinunciabile, almeno sul versante della riflessione, dispiega quesiti tremendi evocando un coraggio speculativo che pretende l’affermazione di una responsabilità del pensare che dovrebbe invitare all’opera ogni contemporaneo ed onesto indagatore della verità. Vedremo che un concetto di Dio è ancora possibile anche se deve transitare attraverso la notte del Venerdì Santo dei filosofi per restituire alla speculazione quella drammaticità che solo un Dio in divenire e crocifisso riesce ad evocare annullando una scissione che ha reso caduca ogni possibile metafisica modernamente intesa. Un secondo risvolto, non meno importante del primo, è quello suggerito dal definire Dio non più come un orizzonte, ovvero una meta, ma un problema. Insomma: Dio fa ancora questione, turba ed ingombra, anche se sembra ormai appartenere al tramonto di una cultura quando al chiassoso vociare dell’opinabile ed al frastuono del contingente, qualcuno comincia a prediligere la scomodità del silenzio e del nulla materiale da contemplare. Poi, il solo fatto di accompagnare il pensare Dio alla spettrale possibilità di una sua definitiva sconfitta, oltremodo inquieta ed invita all’onestà della speculazione. Le tesi che Quinzio sostiene sono stimolanti anche se da raccordare con una sapientia crucis che la pretesa ebraicità dell’autore vuole estromettere a favore di un’anticristicità edonistica sospesa in un’attesa senza escathon e tanto meno apocalittica nel senso pieno. Queste scomode radici ebraiche, sempre secondo Quinzio, sono la chiave di lettura idonea per meglio cogliere i tormenti che affliggono i nostri giorni. Infatti, sostiene che: “Il pensiero ebraico religioso o laico, direttamente o attraverso i fermenti sparsi ovunque dalla sua eresia cristiana, ha avuto un ruolo assolutamente decisivo nella formazione e nello sviluppo della modernità, fino ai suoi esiti contemporanei” S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, op. cit., pag. 11. Parole legittime, anche se per ora non conviene soffermarsi sopra ogni singola espressione per favorire un adeguato inquadramento della problematica. Ed ancora: possediamo un linguaggio adeguato per almeno accennare un discorso oppure le nostre lingue si sono abbandonate in un’esanguità che prelude ad una rinnovata babelica confusione? Il pluralismo linguistico, o l’imporsi di un unico idioma, rischiano di cancellare irrimediabilmente quella ricchezza semantica della quale necessitiamo per accennare un discorso che non sappia di ripetuto e stentoreo. Se non sappiamo più parlare, non possiamo più nemmeno cogliere l’importanza dell’attimo che invita al mistero, quando l’umana saggezza del limite induce a serrare la bocca dinanzi alla disarmante verità che inesorabile ci trascende. Solo cogliendo il fascino di questa sproporzione salutare, ci mettiamo nella possibilità di sentirci, finalmente, accanto alla patria spirituale, dove l’intimità che sgorga dal Da-sein accende la speranza di una autentica possibilità salvifica. Dunque, è ancora possibile parlare di Dio? E’ legittimabile la domanda filosofica attorno a Dio? Possiamo pensare Dio? Che cosa, la filosofia, può dire sul problema di Dio? Anche se sconfiniamo per un breve tratto dal terreno d’indagine di Quinzio per carpire qualche lume al dominio dell’argomentare teoretico, significativo si dimostra il citare un’affermazione usata da Sofia Vanni Rovighi:“La filosofia non può fare a meno del problema di Dio.” S. Vanni Rovighi, La filosofia ed il problema di Dio, Vita e Pensiero, Milano 1986, pag. 11.Questa frase, quasi un proclama, uno slogan, inoltre, consente di premettere quello che cercheremo di aggiungere a quanto il nostro autore ha cercato di sostenere raccordando la sua tesi alla paradossale vittoria della croce, tenendo presente un fatto: la cogitatio crucis rinnova un imbarazzo antico, lo scandalo per i greci di paolina memoria, anche se lo scandalo, come vedremo, permette di essere messi in crisi obbligandoci, finalmente, a discernere tra tutte le voci che prepotenti ci assalgono. Il pensiero ha semplicemente scacciato Dio dal mondo oppure è Dio che si è lasciato gettare fuori? La morte di Dio è una blasfema affermazione oppure un dato di fatto? Dobbiamo sostenere la tesi, spesso impugnata, di un mondo fondato etsi deus non daretur, tentando di evitare una facile banalizzazione dell’assioma? Le domande di Quinzio, poi, assumono i toni di una tragedia lasciata incompiuta ovvero, senza quel finale che dovrebbe condurre lo spettatore alla catarsi. In ogni caso, sono interrogativi che vanno ascoltati, riletti ed anche accettati, poiché una sfida come questa potrebbe venire tranquillamente evitata a scapito di un possibile, quanto faticoso, arricchimento speculativo. Un’attenzione è da premettere. Tra le righe del testo in questione il fantasma del sensazionalismo s’intreccia sapientemente alle maglie di un procedere narrativo arruffato, comunque efficace, che trova scaturigine da una questione antica come l’essere umano: il problema del male, l’unico che ancora oggi scuote le stagnanti discussioni teologiche ravvivando un mondo che ha smarrito nello stentoreo il diletto che la vertigine del filosofare provoca, sistematizzandolo oppure cancellandolo. Proviamo a seguirlo: “Quando si parla di male, non si parla della persona che invecchiando si indebolisce e poi muore: beh, questo è un male molto relativo, che possiamo paganamente considerare. Ma c'è un eccesso di male appunto, c'è il bambino che sprofonda in un cunicolo e muore dopo giorni di agonia…dinanzi a questo eccesso di male che c'è nel mondo - dice Jonas - i casi sono certamente due: o Dio è totalmente inconoscibile e quindi non possiamo dire perché e come si concilia Dio con l'esistenza del male nel mondo, non conosciamo Dio e non sappiamo le ragioni, non possiamo conoscere nessuna ragione dei suoi comportamenti. Però il Dio biblico è un Dio che si rivela, è un Dio grande che si rivela come un Dio di misericordia, Dio di pietà, Dio di tenerezza, di giustizia, allora a questo punto ci troviamo di fronte al fatto che o Dio vedendo il male che c'è nel mondo può consolarlo, può evitarlo, può fermarlo, ma non lo fa; oppure vorrebbe ma non può ... come dice ancora Jonas, vista la conoscibilità di Dio e vista l'esistenza di un eccesso di male nel mondo, i casi sono certamente due: o Dio non è perfettamente onnipotente, per cui non può ovviare all'enorme male che accade; oppure Dio non è perfettamente buono, non è perfettamente misericordioso e tollera che il male accada. Certo a questo punto la soluzione di Jonas a me sembra molto convincente, anche perché è molto conforme alla tradizione ebraica. L'unico modo che abbiamo per uscire da questa contraddizione fra l'esistenza di Dio e il male del mondo, è quello di ammettere che in qualche modo Dio non sia perfettamente onnipotente. Se Dio è onnipotente può anche abdicare alla propria onnipotenza. Allora ci sarebbe stato - ma naturalmente qui sono cose che non si sanno, sono cose che si balbettano all'interno di una speranza, di una fede - ci sarebbe stato un atteggiamento di Dio il quale, anziché scegliere la potenza, anziché scegliere la forza, anziché scegliere il dominio e la vittoria, sceglie la debolezza, cioè annichilisce se stesso. E il Tzim-tzum sarebbe poi dopo la fase in cui, avendo scelto questa sottrazione di potenza, crea, rendendo possibile la vita. Quindi prima però Dio è un Dio - e qui direi che siamo all'estremo opposto di quello che è la posizione per esempio di uno Schelling o di un Pareyson, in cui effettivamente Dio nel momento in cui pone se stesso, pone la pienezza della potenza, pone il bene: con questo atto di libertà originaria Dio, ponendo se stesso, pone il bene. In realtà, paradossalmente, si potrebbe dire che la Bibbia piuttosto dice che, ponendo se stesso, pone la possibilità del male, pone la debolezza, che è quella che culminerà poi nella Croce. Tratto da: Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche. Immagini del pensiero 1 ottobre 1998, “La sconfitta di Dio”, intervista a Sergio Quinzio. Questo frammento, anche se confuso e disarticolato, poiché tratto da un’intervista, ci pone di fronte alla ruvida e dura parete che le domande di Quinzio ergono improvvisamente. Cercando di costruire un ordine tra le idee gettate sulla tavola della discussione, quanto colpisce è la forza passionale dell’interrogarsi unita al partire dal basso ovvero, dagli interrogativi dell’uomo singolo, che, insoddisfatto, comincia a scavare con la forza delle proprie mani. I risvolti esistenziali di una tale impostazione sono pregnanti anzi, tradiscono una personale esposizione al mondo della quotidianità dove gli assiomi tornano inesorabilmente ad ingarbugliarsi. Siamo d’accordo sul fatto che la sofferenza dei bambini induce a gridare allo scandalo e spesso troppi innocenti soccombono alla truculenza di una vita che li annienta. Anche il credente più osservante prova un brivido guardando i morti per fame, gli sterminati, i percossi. Allora, quale miglior inizio per un dibattito che vorrebbe chiamare Dio a rispondere nel tentativo di difendere il suo eterno operare, perché quello che Quinzio ingaggia non è solamente una disputa teologica, ma un vero e proprio processo alle intenzioni della giustizia stessa. Anche se pare dimenticare il fatto che Dio è ormai abituato a questo genere di trattamenti umani.Ecco, dunque, che le tematiche improvvisamente erompono dispiegando il problema in tutta la sua forza: è inutile cercare di scorgere un orizzonte quando le tenebre sono ancora fitte. Dio è un autentico e tragico problema e lo rimarrà fino a quando avremo l’ardire di essere noi uomini a tessere le logiche del sua agire piuttosto che tentare l’impresa di comprenderle così come ci vengono offerte. Ma questa non è la strada che Quinzio vuole battere. Le sue pagine non ci permettono di essere rapiti al cielo dalle volute di un pensare etereo anzi, ci costringono a rimanere invischiati in un gorgo esistenziale dove la notte impera e l’aurora appare sempre più come una lontana ed ormai flebile speranza: in questa dimensione la domanda su Dio sembra apparire come l’ultima delle preoccupazioni tra gli innumerevoli naufragi. Come riconoscere, in questo mondo aggrovigliato il volto di Dio e prima ancora interrogarsi sulla sua esistenza? Un interessante suggerimento si può trarre dalle pagine del romanzo La notte dove Elie Wiesel Elie Wiesel, La notte, Giuntina, Firenze 1980, pagg. 66 – 67., dove l’autore racconta l’impiccagione a Birkenau di due uomini ed un bambino. La descrizione è glaciale: “I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole. I tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi. - Viva la libertà! – gridarono i due adulti. Il piccolo, lui taceva. - Dov’è il Buon Dio? Dov’è? – domandò qualcuno dietro di me. A un cenno del capo del campo le tre seggiole vennero tolte. Silenzio assoluto. All’orizzonte il sole tramontava. Scopritevi! – urlò il capo del campo. La sua voce era rauca. Quanto a noi, noi piangevamo. Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora… Più di una mezz’ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti. Dietro di me udii il solito domandare: - Dov’è dunque Dio? - E io sentivo dentro di me una voce che gli rispondeva: - Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca… Questa pagina possiede una forza evocativa folgorante. Due dei tre impiccati gridano, poco prima della fine, la loro indefessa fede nella libertà ovvero nell’uomo che è in grado di auto determinarsi nella conoscenza del bene e del male e di liberamente operare l’uno e l’altro. Solo il terzo, il bambino, l’innocente, rimane in silenzio. Alla domanda di uno tra i disperati prigionieri che chiede dove sia Dio in quell’istante, Dio stesso risponde nel cuore indicando la giovane vittima appesa al patibolo. Non è affatto una risposta blasfema anzi, un fugace indizio, un seme sparso nella bufera per permettere di penetrare il mistero di Dio riconoscendo quella dimensione di bene infinito che solo la contraddittoria provocazione della sua assoluta bontà induce a scoprire. La catastrofe umana che si consuma ad Auschwitz costruisce un monte di crudele ingiustizia che rimanda al Golgota. Dalla parte ebraica notiamo il fatto che il bambino rimane pietrificato nel suo silenzio mentre Gesù grida sulla croce la disperazione del suo fallimento divino nella mancata rivendicazione della sua umanità. A seguito di quest’osservazione, qualcuno potrebbe cedere alla tentazione di credere d’individuare una cifra dell’impotenza del Padre accompagnata dalla sua impossibilità di intervenire nel mondo e nella storia umana. Possiamo esserne oltremodo sicuri? Quinzio segue questo solco interpretativo. Comunque, Gesù, dopo il grido inarticolato Mt 27, 50; Mc 15, 37; Lc 23, 46, anche se inscrive nel grido a gran voce l’affidamento totale al Padre.si consegna al silenzio, come ogni essere umano, che consegue alla morte fisica. Solo questo abbandonarsi alla sepoltura ed all’oltretomba, sanando lo sconvolgimento della discesa agli inferi, accompagna verso la comprensione di quanto la risurrezione non sia una temporanea rianimazione Lazzaro, il figlio della vedova di Nain, la figlia di Giairo, sono tutti ri-morti nell’attesa della futura risurrezione, mentre Gesù, dopo la risurrezione , non è più morto, ma trapassato una volta per tutte. accentuata nella questione legata al riconoscimento del discepolo che Gesù amava., un prodigio, ma uno stato di vittoriosa glorificazione Vedi 1 PT 3, 18 – 20. altrimenti poco o nulla distinguerebbe Cristo dalle mummie parlanti del dottor Federico Ruysch di leopardiana memoria. G. Leopardi, Dialogo di Federico Ruysch e delle sue Mummie, in Operette morali, Feltrinelli, Milano 1976, pagg. 150 - 155.In ogni caso, un rilievo prevale determinante: “Né il bambino né Dio conoscono il male, privilegio e dannazione della libertà umana” Il concetto di Dio dopo Auschwitz, op. cit., pag. 12. Un ulteriore spunto. Sempre nel brano citato da La notte, lo scrittore afferma che il sole stava tramontando. Un particolare non indifferente! Con la morte di Dio tramonta definitivamente un’intera epoca, un eone si conclude, per adottare il lessico di Jonas. Non dimentichiamo che sul Golgota viene consumato, sublimato, rammemorato ed anticipato nella carne del Figlio ogni genocidio, come anche ogni singola umana morte. Dobbiamo essere concordi sul fatto che all’occasus segue sempre la terribile notte oscura nella quale tutti inermi giacciamo. Ebbene, senza il tramonto che cala inesorabile sul Crocifisso esangue, la nostra sarebbe una notte senz’alba invece, l’aurora incede diradando i fumiganti veli delle tenebre. Come tratteremo dopo, un disquisire sull’onnipotenza di Dio deve trovare esplicitazione nel fatto che solo in virtù dalla morte di Cristo, e solo di quella morte, consumata in quella maniera, ogni singolo può essere riscattato: siamo soliti, purtroppo banalizzare il concetto di onnipotenza confondendola con effimere doti da illusionista quando non con crudeli rappresentazioni oscure che altro non provocano che ulteriori confusioni e conflitti. Una trattazione sui lati oscuri di Dio occuperebbe troppo spazio e condurrebbe lontano dalle tematiche che si vorrebbero trattare. Basti un accenno. Di fronte a queste complicate problematiche la contemporanea esegesi si trova ancora a dibattere e, dopo immani sforzi, rimangono ancora tremendamente aggrovigliate anche se alcuni importanti intuizioni sono state donate alla teologia da una certa corrente speculativa che ha principiato a fermentare dal secondo Schelling per giungere ai fondamentali lumi di Pareyson.La contraddittorietà della vicenda cristica, oltre a rivitalizzare la legittimità della domanda su Dio, riporta in discussione problematiche sulle quali abbiamo il dovere di non inciampare. Interrogarsi significa, per estensione, il voler riconoscere il volto di Dio nel tumulto della quotidianità quando non il rischiarne il successivo misconoscimento per eccessivo zelo speculativo. Inutile negare il fatto che quelle sopra sfiorate sono questioni cruciali. La legittimità della domanda deve essere accompagnata dalla nostra capacità umana di riconoscere il Dio che stiamo incessantemente cercando fino ad ammettere che spesso, le spire del ragionamento altro non fanno che disegnare alcuni sbiaditi contorni di quel Volto amato che vorremmo tracciare sempre secondo un nostro piacere e comodo. Insomma, troppe volte dimentichiamo che l’iniziativa rimane sempre presa da Dio e che la Parola viene proferita quando l’uomo non cerca proprio nulla al di fuori di una propria identità nel marasma degli io che lo assediano. La domanda acquisisce un proprio senso, nell’oggi, se riformulata seguendo la traccia di questa intonazione quando mettiamo in gioco la ricerca di una nostra identità lasciandoci chiamare da Dio. Questa è la condizione che vive Mosè quando viene esiliato dall’Egitto e, traversato il deserto, trova rifugio in Madian, sentendosi straniero in terra straniera, gustando quella spaesatezza che dovrebbe stimolare a progettare la propria vita. Sembra la medesima condizione che vive Quinzio tessendo la sua personale ricerca ed esponendosi al rischio di misconoscere il Volto tanto bramato evitando il viso sfigurato del Crocifisso. Ed è proprio da questa condizione di apparente apatia che la domanda acquisisce corpo e peso specifico. Il bambino impiccato ad Auschwitz, tragica immagine di Dio, espone Dio stesso al rischio di non essere riconosciuto, dunque misconosciuto perché questa è la logica che regola il cammino di Dio verso l’uomo. Una domanda legittima corre il pericolo di delegittimare tutta una ricerca se la consegna al Cristo non avviene nella totalità più disarmante, quando rinunciamo alla legione degli io per lasciarci assorbire dall’identità di Dio. Questa è la via del riconoscere, via che deve porre nella condizione di sapere che Dio può sempre e nuovamente tornare a ri – velarsi, come la poetica sottesa dal Cantico dei Cantici insegna: amato e amata si inseguono, si trovano, si perdono per tornare a cercarsi nuovamente secondo le regole di un gioco che nasconde un fascino profondo e tremendo allo stesso tempo.uesta Una questione rimane aperta: perché alcune riflessioni abbozzate non hanno ricevuto la dovuta attenzione? Le conclusioni sull’onnipotenza di Dio non sono poi così lontane da quanto la cristologia ha dibattuto riguardo l’onnipotenza di Cristo. La così tanto reiterata sconfitta della quale Quinzio vuol dare accurata dimostrazione permette anche a coloro che vivono un’esistenza di fede di mantenere acceso il problema di Dio malgrado l’immaturità sconcertante che affligge coloro che dovrebbe saper rendere ragione del loro credo stesso. Un’immagine sbiadita del Crocifisso accompagna troppi all’incontro con la Sua verità. Certo, la rassicurante dolcezza di una lettura gesuologica e medicinale macchiano la comune sapienza cristologia per risvegliare in tutta la sua forza l’insormontabilità della Croce. Quinzio riesce mirabilmente a calarci in un mondo angora magmatico, selvaggio, un ambiente appena uscito dalle mani del Creatore. Il rinvio al racconto biblico della creazione si affaccia solenne e misterioso sulla nostra scena, e dopo Auschwitz appare tutt’altro che inappropriato. Come non richiamare, permanendo nell’economia del settenario, il sesto giorno, quando Cristo muore trafitto ad una croce? La creazione si compie attraverso di Lui e per Lui ed è una ri - creazione totale dell’essere umano finalmente redento nella sua stessa carne. Forse, e lo vedremo, nella passione del problematizzare, Quinzio si dimentica di quanto sostennero i Padri della Chiesa: quod non est assumptum non est redentum. Ma così dicendo, siamo già transitati oltre l’orizzonte che Quinzio rinuncia di scorgere preferendo guardarsi alle spalle, poiché abbiamo cristologicamente legittimato la domanda. Quanto sopra abbiamo definito con l’improprio termine di ri – creazione, corrisponde al concetto di redenzione, universalmente intesa. Dobbiamo allora ammettere che ci soffermiamo placidamente sulle comodità del “credere” (praticare) per disdegnare le insidie del pensiero incoscienti della verità evangelica che la fede deve essere scommessa fino al rischio di smarrirla. Sicuramente la tecnologizzazione dell’esistenza umana pretende insegnare che la libertà del pensare spaventa a causa della temerarietà che segna le volute razionali. Eppure, se riconosciamo l’imperativo teologico di dover capire Cristo, perché rinunciare all’impresa che rende possibile il pensare Dio? Dalla parte del versante filosofico la domanda su Dio ha sempre rappresentato un problema come se ci dovessimo sempre chiedere: possiamo pensare Dio? Ed una volta che siamo stati messi in grado, attraverso un virtuosismo razionale, di sistematizzarlo in un’angusta gabbia di concetti, lo abbiamo capito? Quinzio insiste: “Di Dio siamo condannati a parlare, perché non è facile nemmeno parlarne più, come prescriverebbe Wittgenstein. Parlare di Dio è possibile – e forse, finora almeno inevitabile – per il credente come per il non credente che pensino.” La sconfitta di Dio, op. cit., pag. 13.. L’attualità della domanda, come la sua legittimità, è testimoniata dalla fecondità che la contemporanea filosofia della religione sta vivendo. Prima ancora di scivolare sul complesso problema del credere in Dio, dobbiamo soffermarci sulla forza che un tale quesito ancora è in grado di evocare, forza che invita alla speculazione. Urgenza che traspare dalla disperazione di coloro, uomini e donne di tutte le età, che tentano in tutti i modi di negare Dio soffermandosi sull’assurdità dell’esistenza, ignari che l’assurdo, il paradossale, sono le costanti che regolano l’agire di Dio, altrimenti, che Padre sarebbe e, soprattutto, quale Salvatore, se solo lasciasse prevedere la trama dei suoi interventi nella storia dell’uomo? Eppure esistono persone che con caparbietà e zelo continuamente attentano alla legittimità osando in tutti i modi di cancellare Dio dall’orizzonte umano. Un’osservazione dal punto di vista squisitamente esistenziale permette di focalizzare la questione anche da una differente angolatura, insomma: la domanda è presente e legittima perché proprio quando si tenta di ridurre al silenzio ogni possibile richiesta tacendo sulla questione si verifica il polso di una condizione che implora onestà e verità sull’argomento. 2 Le promesse di Dio Promesse, pro – mettere: riscoprire un senso caduto nell’ovvio come pre – messa. Prima ancora di domandarci e discutere sulla consistenza che ancora posseggono queste promesse, ritorna utile, alla luce di una migliore comprensione di quanto si andrà dibattendo di seguito, chiarire il senso che attribuiremo al sostantivo promessa. Solo attraverso questo recupero etimologico acquisiamo quella necessaria prospettiva di lettura che rende appieno la pregnanza di questa proposta speculativa altrimenti, non accordandoci previamente sul significato da conferire ad ogni parola, rischieremmo di vanificare ogni sforzo. Promessa, come sostantivo evoca un qualche cosa che viene manifestato, un non ancora che deve venire, comunque non irraggiungibile e sul quale si è chiamati a fondare le proprie umane speranze. Promettere, designa l’azione di colui che promette. L’origine affonda le sue radici nella lingua latina, nel verbo pro-mitto (misi, misum, ère): mandare avanti, innanzi, fuori, ma ancora; lasciar crescere. Mettere innanzi, è interessante come etimologia. In verità, quanto noi definiamo come “promessa/e di Dio”, viene sempre configurato al modo di un qualche cosa dato in anticipo su un capitale (bene) finale. A tale riguardo si dimostra fortemente fondato quanto Jurgen Moltmann definiva con la fortunata espressione già e non ancora. Per questo è interessante approfondire gli argomenti che Quinzio riesce a pensare riguardo il tema della promesse di Dio attraverso un excursus biblico costruito con abilità combinatoria nel tentativo di rendere caduca una simile verità per carenza di quella speranza che dovrebbe sostenere l’apertura a quel totalmente altro da me in grado di salvare. Quella che viene sapientemente dispiegata è una richiesta di giustizia che domanda di non andare delusa, per questo anche sul concetto di giustizia, siamo invitati a non fraintendere, dato che negli usi linguistici contemporanei il termine giustizia viene associato a tutto quanto rientra in una trattazione legalistica e forense. La giustizia biblicamente intesa, definisce la volontà Dio, il suo progetto, la consistenza della sua promessa, tanto per non allontanarci dalla nostra trattazione. A tale riguardo, noteremo come spesso Quinzio confonda il concetto di giustizia, con quello di giustezza reclamando un’applicazione di un intervento divino atto a dare quello che all’uomo sembra essere pretenziosamente dovuto. Degno di menzione, per tornare alla promessa, è il significato lasciar crescere. Se ben osserviamo, la promessa, o le promesse di Dio, sono una realtà dinamica, non una granitica verità, ecco il motivo per il quale risulta stimolante leggere la promessa come un qualche cosa che si deve lasciar crescere, un seme, evangelicamente parlando, che deve essere seminato, morire per poi germogliare. Inoltre, la promessa, anche se intravista nell’economia del tempo escatologico del compimento, detiene la forza di determinare il presente che viviamo così come conferire senso al passato chiarificandolo. La ricerca della fede è un atteggiamento che va lasciato prolificare nell’umiltà dell’attesa e che cos’altro non è l’attesa, recuperandola attraverso la sua radice latina ad – tendo, se non un tendere a, un principio direzionale sotto la guida del quale mettersi nel silenzio dell’affidamento totale? Interessante risulta, allora, cercare di scorgere come Quinzio, nell’economia di un’indagine esegetica condotta con l’attitudine di uno scrittore religioso, riesce ad evocare, attraverso la filigrana delle pericopi scritturistiche che hanno sicuramente reso fecondo il suo meditare quotidiano, un’autentica, anche se evitata, crux speculativa. La consistenza di una Promessa. Il libro di Quinzio si apre con un intero capitolo dedicato alle promesse di Dio. Già sopra questa scelta, essenziale e pregnante nella sua profonda significanza, possiamo soffermarci per riflettere attorno al motivo per il quale l’autore ha scelto di rendere al plurale il sostantivo promessa. Analizzando con attenzione il dispiegarsi della Rivelazione da Genesi ad Apocalisse non troviamo un proliferare di promesse, ma un unicum articolato che, con i tempi di Dio, lentamente si dipana dal misterioso groviglio dell’in principio (che non coincide con l’inizio, ma lo segue) fino all’amen che conclude il dramma biblico. La promessa è unica, anche se graduale nella sua attuazione per accorta pedagogia divina, e solo la successiva caduta dell’umanità, in Genesi 3, la polverizza nella miriade di promesse che vorremmo, per umana debolezza, illuderci di scorgere. Se nel principiare l’esplorazione dei testi che l’autore si propone, ponesse davanti al suo sguardo indagatore, comunque acuto, il complesso sconvolgente del mysterium paschale, quanto viene espresso dalla molteplicità verrebbe ricondotto, attraverso lo spettro della fede cristica e trinitaria, all’unicità dello sforzo divino: l’incarnazione, la passione, la morte e la risurrezione. Riprendiamo. Il cammino tracciato, uno scosceso sentiero riflessivo, trova scaturigine da un breve passo desunto dal vangelo secondo Luca. L’analisi che ne consegue è serrante, profonda, costruita, nella scelta delle citazioni, con una sottile abilità combinatoria. La riflessione trova inizio in un rimando, per altro complesso, al difficile tema della giustizia. Lo spunto è intelligente, perché, nel comune e quotidiano vivere, spesso ci appelliamo alla giustizia di Dio invocando un suo repentino intervento nel fossato della storia per dirimere e placare l’oceano di ingiustizie nelle quali l’uomo da millenni rimane irrimediabilmente imprigionato. Eppure, chiamando questo intervento, dimentichiamo di non avere affatto le idee chiare riguardo quanto Dio ha promesso, insomma: non conoscendo in particolare la consistenza del suo progetto per l’uomo, rischiamo di chiedere quanto non è lecito domandare. Questo indizio rimane fondamentale per la comprensione di un fatto che deve essere recuperato nel tentativo di adeguatamente fondare un discorso che, oltretutto, serve per ri-centrare la legittimità della domanda della quale sopra abbiamo discusso. La promessa di Dio rimane eloquentemente racchiusa nel progetto e come tale va posta nella condizione di poter parlare nuovamente all’uomo. Con quest’affermazione non intendiamo affatto paventare la possibilità che, questa promessa, abbia perso la sua efficacia scolorendosi nella storia che la separa dal suo compimento nella Pasqua. Lo iato che si è aperto, permette di comprendere in che misura spetti all’uomo lo sforzo di rimettersi in sintonia con quanto Dio ha disegnato lasciandosi interrogare. A proposito, diviene utile l’utilizzo di una metafora. Dio ha composto una partitura strumentando con sapienza il tessuto musicale, dosando l’applicazione delle regole armoniche ed osservando una arte del contrappunto che da se stessa funziona. L’uomo, davanti a questa sublime opera, si ritrova come un musicante che deve principiare accordando lo strumento del quale dispone (la ragione), tornando a ripassare i rudimenti della musica fin dalla decodificazione della notazione stessa. Se il nostro orecchio non è ancora stato assordato dalle disarmonie cacofoniche dell’approssimazione intellettuale, abbiamo la possibilità di tornare a godere il piacere di riascoltare un canto antico che ancora oggi è in grado di scuotere le sensibili corde dell’interiorità speculativa. Torniamo all’origine, dunque. Prima delle ripercussioni, tentiamo almeno di capire se abbiamo conoscenza delle premesse necessarie. In che cosa consiste la promessa, allora? Quinzio procede bene nel tentativo di riscoprire questa consistenza, malgrado le conclusioni raggiunte. La parabola della vedova importuna, narrata dal vangelo secondo Luca Lc 18, 1 – 8., come sopra abbiamo accennato, offre un presupposto: seguiamolo. “Questa giustizia, è stata davvero resa, da duemila anni a questa parte?” La sconfitta di Dio, pag. 10. La domanda risulta pertinente poiché, nell’abitudine, chiunque, prima di acconsentire alla fede, chiede ragione della sua fiducia riposta, mentre nella meccanica evangelica viene arditamente richiesto l’opposto. Riprende: “Ma possiamo dire che Dio ha reso o non ha reso giustizia, che ha esaudito o non ha esaudito le millenarie richieste di quelli che, confidando nella sua parola, hanno gridato a lui giorno e notte, se non sappiamo che cosa Dio ha promesso di darci?” Ibid., pag 10. La parabola di Luca, infatti, pone l’attenzione su un dato determinante: l’idea umana di giustizia, non ha nulla ha a che spartire con quanto viene evangelicamente inteso e ripetuto. Infatti, all’uomo non viene concesso quanto di cui ha astrattamente diritto, ma quanto, in virtù del patto con Abramo e con il suo popolo, Dio promette come ricompensa alla fedeltà accordata Intendiamo, esplicitamente, quanto viene espresso con il verbo “accreditare”, oggi malamente impiegato nel lessico economico e giuridico anche se non con un significato così differente. . Ecco svelata la questione! Prima delle nostre misere pretese, viene quanto Dio ha promesso. In che cosa consiste, allora, questa promessa? Seguire il cammino di Quinzio è determinante per la nostra tesi, fin da questo momento, per comprendere a quali prime affermazioni ci vuole condurre. Una serie di promesse vengono descritte a partire dall’alleanza noachica nel segno dell’arcobaleno, patto stipulato nella realtà della carne L’insistenza sulla dialettica carne e spirito è continuamente sottolineata come a voler ribadire un dualismo che troverà esplicitazione nell’assunzione del platonismo da parte dei Padri della Chiesa anche se questo sospetto di platonizzazione deve essere tenuto sub iudice per correttezza teoretica nei confronti del pensiero greco., come viene sottolineato ribadendo che ogni alleanza non riguarda per nessuna ragione lo spirito, ma la terrestrità e la sarcità dell’essere umano Le citazioni bibliche impiegate si riferiscono a: Genesi 9, 17; 9, 13.. Simili conclusioni vengono desunte quando l’attenzione si concentra su Abramo attraverso la promessa della posterità per giungere a Giacobbe, con l’interpretazione mistica della scala che sale fino al cielo. Interessante l’evidenziare come il tenore della promessa sia vincolata ad un qui ed ora inequivocabile infatti, oltre ad una copiosità di beni essenzialmente materiali, null’altro si riesce ad evincere, anche se, nel caso del racconto del sacrificio di Isacco, un velo di speranza sostiene il patriarca nella triste ascesa al monte Moria dove dovrà compiere il penoso sacrificio del figlio della promessa. E’ proprio l’aura di luminosità che rinvia all’abbandono totale nell’affidamento a Dio che sfugge all’indagine, e vedremo successivamente il perché. Il dramma dell’uscita dall’Egitto viene letto da Quinzio come centrale anche se, la sottolineatura che ne propone rimane ancorata alla terra dove scorrono latte e miele Esodo 3, 8.. Insomma, le promesse che vengono rubricate sono sempre promesse di fecondità, esenzione da ogni forma di malattia, felicità, supremazia, benedette dall’osservanza di una legge che sembra non avere altro scopo. “Osserva le sue leggi e i suoi comandamenti che oggi ti prescrivo, al fine di avere, tu e i tuoi figli, felicità e lunga vita sulla terra che JHWH tuo Dio ti dà per sempre” Deuteronomio 4, 40. Seguendo la logica di questo ragionamento, per altro desunto da una visione letterale della scrittura senza minimamente lasciarsi guidare da una seppur minima traccia di teologia biblica, la conclusione appare scontata: “E’ facile dire che queste promesse sono superate, che appartengono ad un momento remoto della pedagogia divina attraverso la quale Dio innalza il popolo dei suoi fedeli alle verità spirituali, di cui i beni temporali sarebbero soltanto un simbolo. Ma sebbene tanti antichi Padri della chiesa l’abbiano detto, è difficile trovare, nella Bibbia, sostegni per una simile interpretazione platoneggiante.” La sconfitta di Dio, pag 17. Interessante l’idea che Quinzio elabora, nel tentativo di estirpare dalla sua lettura biblica ogni possibile contaminazione greca. Per giustificare una simile operazione ermeneutica, circoscrive, con piglio critico, le interpretazioni avvenute alla luce di una qualsiasi tentativo d’ellenizzazione, rifacendosi a quanto sostenne Lévinas proclamando l’antagonismo greco – ebraico con l’espressione “Gerusalemme contro Atene”. L’insistenza su questa intonazione continua aggiungendo che le stesse scritture ebraiche, dalle quali secondo il nostro autore abbiamo distillato i più profondi significati spirituali, rimangono irrimediabilmente ancorate al materialismo del Pentateuco. E’ curioso notare come, nel vano sforzo di districare le proprie radici culturali e spirituali da quello che si considera una intrusione soffocante, rischia di cancellare quegli elementi essenziali che al senso profondo dell’intrusione stessa conducono. Una non corretta impostazione del dualismo materia e spirito, anima e corpo, risulta fuorviante anche alla luce di una coerente lettura antropologica che, al contrario, mette costantemente sotto inchiesta il dualismo ellenico, sbrigativamente attribuito a Platone, mancando di scorgere come sia, piuttosto, di origine neoplatonica una tale interpretazione. Su questo fatto, ed in altra sede, andrebbe approfondita la spiegazione. Il culmine, secondo questa interpretazione, sarebbe raggiunto con il libro di Giobbe, quando il discorso viene costruito sull’insopportabile scandalo della sofferenza con l’irrimediabile ed inspiegabile cancellazione dei beni terreni, dello sterminio della prole e dalla privazione della salute fisica. Se il nostro autore avesse avuto a disposizione un approfondimento esegetico, gli sarebbe stato possibile cogliere, già nel sitz in leben veterotestamentario, quella lettura sapienziale che permette di leggere la parola biblica come parola performante. Il libro di Giobbe, così sprofondato nelle caligini della quotidianità quando le riflessioni sull’assurdo dell’esistenza imperversano, correttamente inserito in un contesto di lettura canonica, apre ad una serie di considerazioni ed interpretazioni folgoranti. Innanzi tutto si tratta di un testo filosofico, nella sua strutturazione, quasi un autentico dialogo “socratico”, dove la sapienza del protagonista riesce ad annientare le deboli argomentazioni degli amici. In questi frangenti non conta nulla la proverbiale pazienza di Giobbe, piuttosto la capacità di un uomo di mantenersi coerente con se stesso e le sue umane scelte. Il richiamo al meraviglioso, nel contesto dei discorsi di JHWH Giobbe 38 e ss., sembra voler invitare il protagonista ad una riscoperta dell’immenso progetto così come della Promessa. Malgrado la casualità che regna nel mondo, a causa del peccato, ed ancora in Quinzio manca una impostazione cristologica della materia, solo la comprensione dell’obbedienza, lo stare dell’individuo davanti a Dio, permette all’essere umano di non smarrire la direzione. Sotto il cielo non c’è nulla di nuovo, ma se nel cielo scorgo il firmamentum, l’orientazione del proprio cammino rimane ancora possibile. Vedremo, allora, in quale maniera la croce, letta come asse cardinale, possa realmente permettere di non confondersi nella moltitudine vociante che vaga senza meta per le strade del mondo. La parabola del giusto sofferente rinvia a quanto le parole e le azioni di Cristo insegneranno nell’economia del mistero incarnato. Un aspetto rimane da sottolineare riguardo alla lettura che Quinzio ci offre di Giobbe: manca totalmente un qualsiasi, anche minimo, riferimento alla cruciale tematica dell’unde malum In Radici ebraiche del moderno, op. cit. pag. 3, Quinzio elabora una personale interpretazione della problematica, sempre forzandola nella sua griglia esegetica, come scrive alle pagg. 34 – 35: “Il male è ciò che danneggia l’uomo nel corpo, nella vita, nella proprietà. Anche i piuttosto recenti libri di Giobbe e di Qoèlet restano in questo solco, nel quale resterà il giudaismo, sostanzialmente fino ai nostri giorni. Che cos’è il male per Giobbe? La perdita dei figlie e dei beni e, soprattutto, la piaga maligna dalla quale è colpito (Gb 2, 7). E che cos’è il bene per Qoèlet (ammesso che per lui ancora qualche cosa di buono resti nella vanità della vita), se non mangiare e bere e godersela (Qo 2, 24)?”. Sulla base di questo accenno il discorso sarebbe lungo, ma per chiarezza teoretica possiamo azzardare che solo una certa filosofia ha saputo fornire alla teologia elementi temerari sopra i quali edificare un rinnovato speculare. Senza una domanda sul male, rimane esclusa ogni riflessione sul tema della caduta così come su quegli aspetti oscuri di Dio attorno ai quali l’ebraismo stesso ha ampiamente dibattuto, ma in questo caso, è la caduta (sconfitta) di Dio, che allo scrittore interessa, prima ancora di quella dell’uomo. L’incontro con il libro dei Salmi produce analoghe riflessioni. La selezione che il nostro autore propone tiene conto di quei versetti ove il rimando ai beni terreni rimane espresso con fermezza. Buono il continuo richiamo al momento della liberazione dall’angoscia e dalla disperazione nel dispiegarsi di una benedizione divina che elargisce doni e consolazioni. L’indagine serrata, per altro accattivante sulle tematiche che vengono continuamente riproposte, dovrebbe sfociare in un riconoscimento del volto paterno di Dio anziché rimanere irrisolta. “Il mio cuore esulta, le mie viscere giubilano, e la mia carne riposa al sicuro, perché non abbandonerai la mia vita al sepolcro, né lascerai che il tuo amico veda la fossa” Salmi 15, 9 – 10. Questo versetto dovrebbe condurre ad un’intuizione che erompe la circoscritta temperie delle sole scritture ebraiche a favore di uno squarcio improvviso nel pesante cielo della desolazione che attanaglia coloro che non riescono a cogliere la gioia che si gode all’ombra della croce. “Perché non abbandonerai la mia vita al sepolcro” è un versetto che trova senso nell’affidamento cristologico al Padre, non un vago sentore d’immortalità nel tenue ricordo di coloro che rimangono e piangono i cari ormai discesi nel seno di Abramo. Una lettura canonica della scrittura ebraica pone nella condizione di comprendere come tra il libro dei Salmi e Giobbe esiste una connessione redazionale estremamente intelligente: perché non viene riconosciuto nell’uomo abilitato a cantare i salmi il tormentato saggio della terra di Uz? L’eroismo jobico è quello caratteristico del sapiente e non si incontrano frontiere, in tale caso, tra oriente ed occidente quando un uomo arriva a scommettere se stesso, la sua vita, le sue umane capacità pur di non distogliere lo sguardo dal cielo stellato per cedere all’ascolto della Parola di Dio con “orecchio di uomini”. Certo, solo la rivelazione nel compimento della promessa è in grado di placare l’arsura della sete. Se Quinzio avesse dato inizio alla sua meditazione dal salmo numero uno avrebbe colto nel segno. L’apertura del libro dei Salmi, dove l’esegesi consiglia di leggere i primi due componimenti come contigui a guisa di una porta che apre al senso dell’intero salterio, tratteggia con vigore e precisione la fisionomia dell’uomo che può dedicarsi alla lode e questo attraverso riuscite metafore botaniche. Alberi, corsi d’acqua, attesa, dipingono l’atteggiamento paziente del fedele così come del ricercatore. E più ancora il simbolismo delle radici che affondano nel terreno e giungono a succhiare la linfa fino a dove la siccità e l’arsura dei capovolgimenti stagionali ed esistenziali, non riescono ad infierire. I frutti verranno a tempo debito! Dunque, non solo stagioni feconde, ma carestia, privazione quando l’interrogare Dio con piglio inquisitorio viene facile alle labbra bruciate dalle amarezze. Quinzio coglie a fondo questi temi tessendo con sapienza un elogio alla povertà umana che rimane ostinatamente abbarbicata ai miseri beni terreni implorando clemenza. Quest’esplorazione riesce appieno al nostro scrittore anche se manca della luce che solo una affidante pietas eucaristica riesce ad accendere. La domanda, sembra ruotare attorno al ritardo del realizzarsi della promessa: ma è poi così? Conoscere il Cristo richiede la rinuncia ad attaccamenti troppo terrestri e per Quinzio ad un ebraismo culturaleggiante, non privo di importanti scoperte: l’incontro con l’ebreo Gesù di Nazareth, l’uomo capace della lode sincera e senza interferenze d’umani interessi. Forse, minori cedimenti alla dialettica materia/spirito gli avrebbero permesso di cogliere negli scritti dei Padri quell’elemento fondamentale che viene espresso con un termine al quale il nostro lessico occidentale ancora non si è abituato ovvero, cristificazione, quando anima (spirito) e corpo vengono sublimati nel miracolo dell’incarnazione, passione, morte e risurrezione. Per quanto riguarda l’esplorazione dei libri profetici l’intonazione delle deduzioni così come l’angolazione della lettura non muta. “I libri dei profeti, che siamo soliti leggere come la testimonianza della avvenuta “spiritualizzazione” delle rozze aspettative materiali tramandate da tempi remoti insieme a saghe e leggende, insistono in realtà sulle stesse note.” La sconfitta di Dio, pag. 20. Insieme ad un’attenzione alla predicazione di una benedizione ancorata al qui ed ora, con una nota contraddittoria colta tra i vaticini di Isaia quando, nella tragica previsione di guerre, pestilenze, sciagure e carestie, avviene un accenno allo shalom. Dobbiamo ammettere che la lettura profetica eseguita è altamente selettiva e giustificata dalla critica, ormai ripetitiva, nel momento in cui chiude con l’esame dell’Antico Testamento per approdare al Nuovo: “I passi che, in questo senso, si potrebbero citare dalle Scritture ebraiche sono centinaia. Ma fin dai primi secoli della Chiesa, di tutti questi passi e di ciascuno isolatamente venne fatta una lettura allegorica, secondo la quale i beni “materiali” promessi nell’antico Testamento (come se fosse solo materiale vivere senza angoscia sulla propria terra e vedere nella pace la propria sposa, i propri figli e figli dei propri figli!) non sono che il simbolo dei beni spirituali promessi ai beati nell’eternità celeste. Questa interpretazione ellenizzante è prevalsa nella tradizione ecclesiastica sia d’Oriente che d’Occidente, sebbene i Padri apostolici, più vicini alle origini neotestamentarie – ed in particolare sant’Ireneo, considerato l’iniziatore della teologia cattolica – fossero ancora pienamente consapevoli che la redazione cristiana riguardava non le realtà interiori e spirituali invisibili, bensì la concretezza dell’esistenza storica e della corporeità. Ma i vangeli, e in generale il nuovo Testamento, sono stati ben presto letti secondo una precomprensione di tipo neoplatonico, e il loro significato è stato trasposto.” La sconfitta di Dio, op. cit., pag. 21. L’insistenza con la quale si ricorre ad un continuo rinvio allo spettro dell’ellenizzazione presentato quasi come una condanna, dunque forzato secondo scopi ecclesiologici ed ecclesiocentrici, induce a sospettare che tutto il dibattere voglia nascondere un’operazione sapientemente costruita per sostenere una tesi, accattivante, per alcuni aspetti anche se debitrice di onestà ermeneutica nei confronti del pensiero greco. Questa “sgrecizzazione” è troppo artificiosa per essere passata inosservata. Certo, le spire della scrittura di Quinzio riescono ad ammaliare, a distogliere l’attenzione da quei punti dolenti del cristianesimo che, in altro modo, pretendono una differente attenzione speculativa, piuttosto che la negazione in toto. Senza le strutture razionali elleniche non avremmo mai potuto avere una teologia scientifica ed organizzata, tanto meno la possibilità di fondare un credo sopra il quale i primi concili ecumenici hanno gettato le fondamenta, solide, di una fede oramai millenaria. Privati della “gabbia concettuale” ellenica, alcune eresie non sarebbero state sconfitte e perché ancora scandalizzarsi, se l’espressione omoousios non è desunta dalla sapienza lessicale biblica? Secondo il pensiero di Quinzio il transito al nuovo Testamento concede di cogliere una continuità tra la prima e la seconda scrittura. Nessuna frattura viene messa in evidenza, intuizione cristianamente e biblicamente corretta, anzi, la realtà da comprendere è che quanto seguirà sarà da intendere come un unico ed esteso capitolo conclusivo alla grande parabola precedentemente narrata anche per far si che l’orizzonte della salvezza intravisto rimanga sempre il medesimo ovvero: ancorato all’empiricità dei beni. La lettura delle “Beatitudini” viene impostata affinché non cadano nella possibilità di essere travisate, come esplicita il nostro scrittore, interpretandole alla maniera di categorie spirituali in atto e, ancora una volta, come una nuova ed aggiuntiva sequenza di promesse da mettere in coda a tutte quelle precedentemente proferite. Anche l’evidenza irrinunciabile che improvvisamente si erge a questo punto, la Croce di Cristo, capita, finalmente e non esclusivamente, come una beatitudine in atto, cede ad uno svuotamento teologico e questo per avvalorare la tesi della sconfitta, del fallimento divino ed umano del profeta di Galilea perché le promesse immediate, sono state da lui rinviate, da quanto si desume, definitivamente. Corretta risulta l’analisi sociologica dei bisogni essenziali espressi delle miserevoli torme che hanno accompagnato il Maestro nel suo vagabondare terreno anche se, purtroppo, rimangono bisogni senza cedere il passo ai desideri che possono alimentare l’attesa del compimento della Promessa. L’accento marcato sulla condizione dei poveri esalta la materialità dell’indigenza piuttosto che indugiare in quella categoria di povertà che evoca il termine ebraico anawim, i poveri, al gruppo dei quali Quinzio ammette di voler appartenere. Questa povertà, evangelica nella sua essenzialità, esprime una particolare condizione esistenziale prima ancora dell’indigenza oggettiva. Un’inedia intellettuale che dovrebbe stimolare al lasciarsi sfamare dalla comprensione che la kenosis del Figlio non necessita di ulteriori spogliazioni per essere umanizzata, ma che è già tale nella sua essenza. Riabbassare i termini espone al rischio di dipingere un ritratto del Figlio dove la Croce assume una posizione marginale rispetto al progetto della predicazione umanitariamente intesa. Anche se una certa corrente di pensiero vorrebbe lavare dalle piaghe sanguinanti del Crocifisso la tragedia della Morte di Dio per concedere all’uomo solo un suo possibile potenziamento fino al raggiungimento di un’illusoria auto consapevolezza, riduce Gesù il Cristo, il Risorto, ad uno sbiadito santino della New Age. Secondo una simile interpretazione, la categoria di “Regno di Dio” rischia un travisamento temporalizzante dove l’unico scopo sembra essere quello del provvedere esclusivamente a delle necessità quotidiane alle quali già dovrebbe sopperire una carità cristianamente impostata e rivitalizzata. “Se i poveri, gli umili, gli afflitti, gli affamati e gli assetati di giustizia, i misericordiosi, i perseguitati devono rallegrarsi, è perché stanno per essere consolati, stanno per ricevere la terra in eredità (Mt 5, 4), stanno per essere saziati in quel “regno dei cieli” che nei vangeli è espressione intercambiabile con “regno di Dio”, ebraicamente evitata per non pronunciare il Nome?” La sconfitta di Dio, pag. 22. Compare ancora l’attesa tradita, il mancato compimento: il fallimento? Per rinvigorire questo pensiero, Quinzio estrapola l’espressione “Regno dei Cieli” per sostenere che l’ennesimo fraintendimento provocato, anche in ambito ellenistico, sarebbe potuto essere stato evitato per permettere interpretazioni analoghe a quelle maturate in seno alla cultura ebraica. D’accordo sul fatto, esegeticamente corretto, che le Beatitudini contengono espressioni verbali che le avvicinano alle accorate implorazioni contenute nei Salmi come ad altre scritture ebraiche anche se, lo scenario che viene preparato schiude all’interpretazione che viene resa dal vangelo secondo Marco, dove Gesù sarebbe descritto, secondo Quinzio, a guisa di un potente mago in grado di compiere prodigi e portenti come guarigioni, rianimazioni di defunti, moltiplicazioni di pani e pesci. Sempre seguendo questo solco, il medesimo modello viene applicato nell’esposizione del mandato conferito ai dodici quando Cristo ordina loro: “…guarite i malati, risuscitate i morti, , mondate i lebbrosi, cacciate i demoni.” Matteo 10, 7 – 8. Così, sempre adottando lo schema interpretativo sopra descritto, a Giovanni Battista che langue nelle segrete di Erode Antipa, vengono riferite non parole di consolazione e speranza, ma nudi e crudi dati di fatto, elementi tangibili ed inequivocabili. Questa riduzione del messaggio ai minimi termini viene giustificata dal nostro scrittore con queste parole: “In una società in cui per guarire il cieco Gesù gli mette sugli occhi il fango che impasta con la propria saliva (Gv 6, 9), e in cui Gesù ripropone tante e tante volte come immagine della salvezza messianica il banchetto di nozze, proprio come avevano fatto i profeti, nessuno fra coloro che lo ascoltavano avrebbe potuto intendere che si trattava di figure allegoriche, che “banchetto” e “nozze”, così come ciechi che vedono e morti che risuscitano dovevano significare tutt’altro di ciò che da sempre avevano significato. A meno che Gesù non avesse insistentemente detto e spiegato il capovolgimento, cosa che dai vangeli non risulta. Le sue insistenze sono ben altre. Il linguaggio dei sinottici, e specialmente quello di Marco e di Matteo che sono i più antichi è inconfondibilmente più concreto.” La sconfitta di Dio, pag. 23. Valide le considerazioni svolte a riguardo della concretezza linguistica dei vangeli sinottici, comunque sempre non ermeneuticamente impostata. Così giusto rimane ammettere una profonda matrice ebraica per Marco e Matteo, anche se il tentativo di comprendere dal di dentro di una cultura le strategie narrative che un idioma riesce a mettere in atto avrebbe permesso di non semplicisticamente tacciare di materialità una lingua che viene paratatticamente costruita. Un'altra considerazione. Non sorvoliamo sul fatto che ben due evangelisti, o tradizioni, hanno pensato in ebraico e scritto in greco insomma: l’operazione letteraria messa in campo non sa per niente di una ingenua scelta linguistica, ma di un’autentica strategia narratologica dispiegata in tutta la sua finezza . A tale proposito andrebbero ricordate le importanti speculazioni in merito dovute al pensiero di Paul Ricoeur che tanto hanno donato alla scienza ermeneutica come alla teologia biblica ed all’esegesi. Una teoria della narrazione permette di non banalizzare la lettura dei vangeli anzi, aiuta a non cedere alla facile tentazione di un’interpretazione letterale e fondamentalistica come ad ogni possibile tentativo di selezione dei passi nel tentativo di sostenere tesi che poco hanno di rigoroso ed ortodosso.Una nota curiosa è legata a come Quinzio abbia poco preso in considerazione il vangelo secondo Giovanni, particolarità che invita a compiere alcune considerazioni interessanti. E’ ormai appurato dalla più recente ad accreditata esegesi come la struttura narrativa e semantica del quarto vangelo, spesso definito come il vangelo maggiormente teologico e filosofico, impregnato di categorie speculative greche Idea, per altro, erronea e dovuta ad una superficiale vox populi., sia, al contrario l’espressione profonda di quanto il pensiero ebraico possa aver elaborato in merito alla storia della salvezza colta nel compimento della Promessa: la predicazione di Gesù Cristo orientata alla glorificazione nel momento del sacrificio supremo della Croce. Sicuramente, un vangelo staurocentrico, non può essere facilmente piegato ad un’operazione selettiva e di gusto combinatorio, poiché implicherebbe un riconoscimento della Croce come elemento irrinunciabile e centrale, scandalo e stoltezza, ma sempre scaturigine di una riflessione che muterebbe radicalmente l’idea di sconfitta nella mancata attuazione e realizzazione di tutte le promesse fino a questo momento enucleate e descritte. Quale ebraismo, allora? Come parlare di un radicale ritorno alle origini ed alla purezza di un pensiero che risente di un’accurata ricerca intellettuale. L’edonismo speculativo, precedentemente svelato, in questi frangenti emerge dispiegando tutta la sua potenza evocativa. Non possiamo negare, dunque, che la fatica redazionale di Quinzio funziona egregiamente soprattutto quando riesce a rimettere in circolo idee ed intuizioni che riaccendono dibattiti considerati ormai chiusi. Le intuizioni raccolte in Radici ebraiche del moderno, op. citata pag. 4, aiutano ad avvalorare questa tesi anche se non devono per nessuna ragione essere assolutizzate. Certo è un fatto: un cammino come quello intrapreso permette di cogliere, in superficie, il travaglio e l’onestà della sua ricerca, poiché l’anima profonda dei suoi interrogativi, che conducono a scelte esistenziali, rimane ancorata ad un singolare itinerarium mentis in Deum, che in sé racchiude i germi di una kenosis personale e spirituale (anche se palesemente taciuta, ma sperimentata e vissuta). Infatti, per giungere alla conclusione di questo viaggio attraverso le scritture ebraiche, dobbiamo sostare sulla soglia del passo estremo che il nostro autore ci richiama a compiere. Permanendo fedeli alla sua impostazione, che ci siamo permessi di criticare laddove necessario, alcune espressioni contenute nei vangeli, una volta trasferite fuori dall’ambiente palestinese ed ebraico, sono state considerate come l’esplicitazione palese del transito di senso avvenuto dal passaggio tra Antico e Nuovo Testamento, da una lettura materiale ad una spirituale. Da non sottovalutare la sottigliezza che viene concertata nel continuo e ripetuto rifiuto della rivelazione e del suo compimento. Lo spunto viene suggerito attraverso un riferimento diretto desunto dal vangelo secondo Luca con l’espressione entòs ymon, tradotta con “dentro di voi”. Per allontanare il rischio di ogni possibile interiorizzazione Quest’espressione, al contrario, mostra quanto una condizione di apertura interiore alla conversione sia fondamentale per l’essere umano. Portare nel profondo del cuore il germe del regno permette di mettersi in relazione anche con un mondo tremendamente ostile senza smarrire la speranza nella salvezza., Quinzio propone differenti soluzioni, accettabili, anche se apportate solo ed esclusivamente per provare la sua tesi e non per principiare da esse con un’articolata riflessione, presupposto che viene glissato per rimettere in campo un armamentario che, con una certa confusione, prepara ulteriori grandi rifiuti. Interessanti, nonostante le conclusioni, alcune intuizioni quando viene tentata una tematizzazione della risurrezione, momento attraverso il quale riconosce e proclama il Cristo senza nemmeno rendersene conto. L’ombra della sconfitta, già sopra queste prime acquisizioni, comincia ad essere avvertita anche se non ancora sistematizzata, se mai sarà possibile, più avanti. In che cosa consiste, per ora, quest’immane fallimento divino? Le motivazioni vengono riassunte nel fatto che l’elargizione copiosa dei beni tanto agognati non è ancora avvenuta così come la risurrezione dei morti. Questi temi costituiranno l’ossatura, assieme al problema del male, del romanzo che Quinzio abbozzerà immaginando il pontificato di un futuro papa Pietro II, intitolato Mysterium iniquitatis, Adelphi, Milano 1995.Proprio sopra queste radicali domande dobbiamo focalizzare la nostra attenzione. Come poco sopra accennato, Quinzio sfugge la risurrezione di Cristo per attardarsi su come potrà essere, ed in che cosa consistere, la risurrezione degli uomini. I presupposti sono vari e differenti, ma le conclusioni sempre le medesime: la carne stessa attende una sua redenzione e questa non disgiunta dall’anima. Lo scandagliare queste problematiche conduce a riflessioni su quale consistenza potrebbe avere il post mortem e sulla qualità della vita relazionale della quale si potrà disporre. L’inserimento di tematiche sessuali viene impiegato per sradicare ulteriormente ogni possibile interpretazione spirituale ed encratita. L’accenno al farsi eunuchi, come il racconto della vedova di sette mariti, consente a Quinzio di raccordare le complesse implicanze legate alla rinuncia compiuta direttamente da parte di tutti coloro cha hanno seguito il Maestro. “Non c’è ragione, tuttavia, per pensare che coloro che hanno lasciato tutto per seguire Gesù, il Messia finalmente venuto, non debbano ritrovare “nella rigenerazione quando il Figlio dell’uomo siederà sul suo trono di gloria” e i dodici “siederanno anche loro su dodici troni, per giudicare le dodici tribù d’Israele (Mt 19, 28), la propria sposa insieme a tutti i beni che avevano abbandonato” La sconfitta di Dio, pagg. 24 – 25. Come nel caso di Giobbe, i beni quali mogli e figli devono essere restituiti in eguale misura. Tutta quanto riguarda rinunce radicali, viene sapientemente criticato attraverso ponderate citazioni tratte da scritti provenienti dal cenacolo essenico di Qumran. Il Rotolo della guerra fornisce elementi essenziali dove l’astensione dai legittimi rapporti coniugali assume carattere rituale, da intendersi come temporanea ed alla luce di un senso pratico di purità legale. I riferimenti all’angelologia ebraica, serve per meglio evidenziare questo fatto: l’essere come angeli, nella risurrezione, viene capito non come una sorta di indifferenziazione sessuale, piuttosto come un uscire definitivamente dall’osservanza della Torà. Per questo, la citazione desunta dal vangelo secondo Luca, dove viene definita la condizione angelica dei risorti, è atta a confermare la novità che i corpi non dovranno più morire. Per questo, Quinzio afferma: “La centralità della risurrezione, nei vangeli e in tutto il nuovo testamento, costituisce in realtà, di per sé, una conferma dell’orizzonte della Bibbia ebraica: Implica infatti come ha ben chiarito Oscar Cullmann nel suo libretto “Immortalità dell’anima o risurrezione dei corpi?”, che alle origini cristiane non c’è nessuna contrapposizione fra anima e corpo, spirito e materia. Alla carne è promessa la vita senza fine.” La sconfitta di Dio, pagg. 25 – 26. Ancora lo strenuo abbattimento di una barriera anche se, da notare, per edificare questa lunga riflessione sulle promesse non esaudite, Quinzio non cita quei passaggi evangelici, presenti in Giovanni, dove il Risorto si manifesta ai discepoli in anima e corpo e con i segni vividi della passione consumata, conversa con loro, consuma del cibo e rivela ad essi la condizione glorificata della sua intera persona. Interessante notare la differenza che intercorre tra apparizione e visione. Nell’apparizione il divino discende nel mondo mentre nella visione è un essere umano ad essere elevato fuori dal mondo fenomenico. In entrambe i casi, comunque, l’iniziativa rimane sempre soprannaturale. Naturalmente, questo privilegio, per ora, è concesso esclusivamente a Gesù, primizia dei risorti. Il peso che assumono ora le domande è determinante, malgrado il tentativo estremo che l’autore compie chiudendo la sua peregrinazione con un ampio accenno tratto dalle lettere di Paolo. D’accordo che tra i discorsi paolini emergono affermazioni simili a quelle sopra compiute e che queste vengono solennemente conclamate in più luoghi Atti 17, 31 – 33; Atti 23, 6; Atti 24, 15; Atti 26, 6 – 8; Filippesi 3, 11.e che la definizione della morte come ultimo nemico di Dio Anche in questo caso particolare, Quinzio seleziona le citazioni. Corretto il rinvio che compare nel testo a 1 Corinzi 15, 26, benché quest’affermazione sia preceduta, nella lettera, dai fondamentali discorsi relativi alla risurrezione avvenuta di Cristo posta in relazione con quella che sarà la nostra risurrezione. Una svista? Non crediamo proprio, perché il capitolo di 1 Corinzi 15 viene inserito in ogni riflessione teologica sulla risurrezione e come riferimento irrinunciabile alla sua veridicità, come testimoniano i tecnicismo dialettici di origine rabbinica che Paolo impiega per trasmettere il frutto della rivelazione. Anche la successiva discussione sul corpo che avranno i risorti, getterebbe lumi sull’intricata questione, anche se muovono da presupposti scomodi per il nostro autore, quando viene affermato che prima della risurrezione accorre abbandonarsi alla morte: “E il seme che metti in terra, quello di grano o di qualche altra pianta, è solo un seme nudo, non la pianta che nascerà. Dio gli darà poi la forma che vuole,a ogni seme corrisponderà una pianta” (1 Corinzi 15, 37 – 38).è autentica, ma perché non proclamarne di questa anche l’avvenuta sconfitta e la sua fine nel lago di fuoco? Al contrario avviene un rimarcare: “Nella più drammatica delle lettere a lui attribuite, l’apostolo, giunto alla fine della sua vita, identifica i falsi dottori che l’ostacolano, l’abbandonano, lo perseguitano, nei credenti paganeggianti che “si sono allontanati dalla verità pretendendo che la risurrezione ha già avuto luogo” (2 Tm 2, 18), interpretando cioè la risurrezione in senso puramente spirituale, mistico, come già pienamente operata dal battesimo.” La sconfitta di Dio, pag. 26. Queste domande, queste riflessioni, sono giustamente considerate drammatiche. Le diatribe teologiche alle quali si accenna, per il tempo cruciali, forse andrebbero riproposte nella contemporaneità, dove un fideistico caldeggiare sogni di reincarnazione frammisti ad un cristianesimo edulcorato, fanno rimpiangere la robustezza di questi ragionamenti. In fondo, dovremmo essere sempre pronti per rendere ragione della nostra fede sapendo che questo compito, oggi, deve essere espletato modulando il pensare con la debolezza del pensiero stesso. La conclusione avviene su un passo dalla lettera ai Romani (8, 19 – 26), celeberrimo, ma marcato da Quinzio con le medesime conclusioni imperniate sull’immediata realizzazioni delle aspettative terrene nell’attuale esistenza naturale e mondana. 3 L’urgenza della salvezza Secondo il metodo argomentativo seguito da Quinzio, la “sconfitta di Dio” è da riconoscersi nel fatto che il compimento delle promesse tarda a raggiungere l’essere umano. Quest’inaspettata dilazione dell’attesa conduce alla messa in discussione di tutta una serie di precetti e raccomandazioni che hanno fondato e sostenuto le comunità primitive. Certamente il morire dei primi credenti provocò scandalo e sconcerto, ma fino a che punto, dato il successivo fiorire della stagione dei martiri? Sotto il nome di un’urgenza, Quinzio, assumendo le ingiustizie che stravolgono il mondo, invoca il ristabilirsi dell’originaria giustizia di Dio. La passione che dispiega nel formulare questa domanda, conduce, inevitabilmente, ad una radicalizzazione del suo pensiero. Ed ancora. Il ritorno alle origini, a quella pax aedenica, un paradiso terrestre letto ed interpretato come un giardino delle delizie piuttosto che un luogo, una dimensione (condizione) di glorificazione e gloria, può condurre ad una errore fondamentale. Il ritorno, come tematica speculativa, è di chiaro sapore ellenico, piuttosto che ebraico e qui il nostro scrittore cede ad una contraddizione, lui che ha saputo così chiaramente distinguere la differente concezione del tempo che le due grandi correnti culturali ebraica e greca hanno elaborato. Così argomentando cade la tensione escatologica che anima l’attesa cristiana confondendo il compimento con il ristabilire una condizione ormai passata e consegnata all’origine del dramma divino ed umano riducendo il paradiso stesso ad un’utopia Sarebbe interessante approfondire il concetto. Non possiamo rischiare di ridurre la promessa della salvezza ad un progetto religioso storicamente irrealizzabile per ragioni strutturali. Tanto meno comparare il paradiso terrestre ad un’isola che non si trova in nessun luogo (questo è il significato etimologico del termine, coniato nel XVI° secolo da Tommaso Moro). Se realmente volessimo ricercare il significato profondo, chiedendo soccorso ai greci ed imparando che è erroneo definire progetti politico – sociali quali quelli teorizzati nella Repubblica di Platone con l’aggettivo utopistici, ma cogliessimo l’ideale che li sostiene e struttura quale paradigma che si pione come modello o norma da realizzare, avremmo acquisito importanti spunti per meglio inquadrare il complesso problema dell’Eden. Allora, azzardando, potremmo anche affermare il passaggio dal un’u – topia ed una eu – topia, con tutto quanto ne potrebbe conseguire.. Per questi motivi, l’idea che evince dalla lettura del frammento tratto dalla lettera ai Romani, riconduce agli stessi temi anche se sorretti da domande sulle quali è giusto reclamare una repentina risposta: “Il brano della Lettera ai Romani che abbiamo riportato mantiene intatto l’orizzonte della salvezza come orizzonte concreto, visibile e tangibile, riferito alle creature, all’esistenza, alla corporeità; ma consente nello stesso tempo di misurare un drammatico allontanamento. Dio ha concretamente benedetto Abramo, Isacco e Giacobbe, e la Legge data per mezzo di Mosè stabiliva, in virtù del patto fra Dio e il suo popolo, una stretta correlazione tra fedeltà e felicità. La lunga storia successiva, come documentano già gli antichi profeti, il salmista, Giobbe, ha contraddetto questa aspettativa.” La sconfitta di Dio, op. cit., pag. 28. Il tema dell’urgenza procede parallelamente a quello, taciuto, dell’immane quesito riguardo la presenza del male nel mondo che il nostro autore identifica con l’allontanarsi sempre di più dallo scioglimento delle promesse, dal divaricarsi orrifico del baratro delle ingiustizie in un panorama esistenziale dove Dio sembra sempre meno presente. Senza anticipare il contenuto di argomentazioni che saranno elaborate di seguito, siamo in grado di abbozzare un primo riferimento: nell’ostinazione di voler tracciare il ritratto di un Dio debole, Quinzio rischia di cadere inciampando nella debolezza stessa del suo pensiero. Certo è un fatto: questioni quali quella del proliferare dell’empietà pongono sotto costante critica l’onestà di coloro che tentano di credere con fermezza così come la limpidezza di chi si applica con responsabilità all’attività del pensare. Queste affermazioni, purtroppo laconiche, non devono affatto invitare al disimpegno rassegnato. Siamo d’accordo nel sostenere che la sofferenza di un bambino innocente induca a gridare allo scandalo, ma se Quinzio avesse letto Giobbe con lo sguardo libero dalle lenti deformanti di un giudaismo personale usando attenzione nei confronti del senso profondo del testo e facendo seguire a questo libro, secondo la logica di una lettura canonica ebraica dell’Antico Testamento, l’abbandono delle desolanti riflessioni del Qoelet, avrebbe compreso come la semantica introdotta da espressioni quali sotto il sole e sopra il cielo Questa dialettica produce una diversificazione di vedute. Il mondo che permane sotto il sole rimane ancorato ad una solipsistica visione umana della realtà pertanto, quando viene affermato che non c’è nulla di nuovo sotto il sole, si intende l’assurda ripetitività dell’esistenza sulla terra dove anche le cose di maggior valore tendono a perdere il loro significato oltre che una dimensione dove impera la teoria della retribuzione, quel fare per avere che la logica della gratuità divina, dunque la scoperta del vero volto di Dio, tende a far implodere in se stessa. Sopra il cielo allude precisamente a questa lettura, dove oltre il cielo si situa la dimora di Dio. assumono i riferimenti di una costante attraverso la quale leggere la storia dell’umanità non esclusivamente in senso metafisico, ma fortemente empirico e quotidiano. L’evidenziare queste due logiche avrebbe permesso di applicare nella concretezza del ragionamento quelle intuizioni riguardo la temporalità presso gli ebrei in maniera costruttiva. Applicare i risultati di simili riflessioni avrebbe dato la possibilità a Quinzio di evitare la radicalizzazione alla quale si è esposto oltre che abbozzare idee sopra le quali ritornare in un secondo tempo. Dal momento della Creazione il rotolo della temporalità comincia a dispiegarsi nella storia, in quel divenire di Dio accanto agli uomini che prepara l’evento dell’incarnazione, anche se fin dalle origini possiamo azzardare l’idea di una graduale incarnazione di Dio attraverso i livelli di una sua discesa. Questo fatto non deve in ogni caso escludere un’osservazione: esisterà sempre un tempo di Dio così come un tempo degli uomini, tempi che si possono intrecciare come anche rimanere avulsi l’uno dall’altro. In ogni caso, il tempo di Dio viene scandito dai rintocchi dell’eternità. La signoria di Dio, allora, si manifesta con la possibilità di poter irrompere nella storia degli uomini impiegando modalità e tempi suoi e con una logica dei fatti che l’uomo deve cercare di decifrare e comprendere per cominciare ad adeguare se stesso all’universo di segni che viene dispiegato attraverso il disegno della salvezza. Il merito che dobbiamo a Quinzio, allora, rimane legato alla sua corretta intuizione riguardo alla differente concezione della temporalità che sussiste tra cultura ebraica ed ellenica. Nonostante questo fatto, le tematiche delineate non vengono adeguatamente approfondite. Come abbiamo già accennato, la linearità del tempo, secondo la concezione ebraica, è tesa da un inizio verso una fine, quel compimento che secondo Quinzio tarda a venire lasciando trasparire, tra le righe dei suoi scritti, un’ansia apocalittica S. Quinzio, La speranza nell’apocalisse, Paoline, Cinisello Balsamo 2002. assai originale anche se ogni tempo si presta benissimo a farneticanti previsioni catastrofiche. Quello che sfugge al nostro autore è la comprensione che la linearità del tempo ebraica trova esplicitazione nella centralità che la caratterizza. E’ vero che il tempo si sta dispiegando verso un’eschaton, ma questo tempo stesso rimane fondato e determinato da eventi che creano un prima ed un dopo nella linearità stessa. L’evento cristico si inserisce in un momento preciso della storia. Questo avvenimento, come sopra accennato, genera un prima ed un dopo in grado di ridimensionare la storia intera. Questa lettura apre alla dialettica del già e non ancora, alla logica di una escatologia che trova il suo principio nel presente e questo non tanto in un domani reso incerto dalle nebbiose aspettative umane. Pensare la fondamentale differenza tra la circolarità (o ciclicità) e linearità, anche se sarebbe maggiormente corretto parlare di centralità, permette di introdurre il concetto di memoriale, lo zikkaròn ebraico, realtà elaborata ed adottata in ambito liturgico per fare memoria dell’evento fondatore Interessante notare quanto la liturgia cristiana abbia adottato questa impostazione nel rituale eucaristico.in tutta la sua dirompente forza. Così ragionando possiamo cogliere come l’ebraismo stesso sia dovuto transitare attraverso una mutazione d’orizzonte comprendendo in quale maniera le promesse sono state realizzate e poi revocate per umane mancanze. Una lettura meno letterale, e per certi aspetti fondamentalista della Bibbia, avrebbe consentito a Quinzio di non smarrirsi in una maniacale ricerca delle promesse non mantenute anzi, gli avrebbe permesso di cogliere una stratificazione di significati che solo la voluta debolezza umana rischia di non far scoprire. Per esemplificare. L’Esodo rappresenta l’evento fondatore, la centralità attorno alla quale ruota il concetto di Pasqua, l’avvenimento che l’intero Pentateuco cerca di non perdere di vista anche nel dopo, quando ormai Israele brancola nel deserto alla ricerca della sua identità di popolo Come nel caso specifico di Mosè, accennato a pag. 8 di questo testo., smarrita perché ha dimenticato la centralità che determina la sua storia. Questi rilievi devono essere tenuti presenti dato che se confondiamo il riferimento al quale costantemente guardare per non perdere l’orientamento, la centralità di cui sopra, rischiamo realmente di non cogliere la realizzazione delle promesse di Dio a favore di una confusione intellettuale e spirituale che alienano ogni speranza di luce. Riconoscere il volto di Dio significa il non levare più da Lui lo sguardo anche se la sua radiosità è accecante come il sole. Vero che le ingiustizie che macchiano il mondo fanno reclamare il giudizio e l’intervento del Padre anche se questo desiderio di giustizia non deve transitare verso quel concetto di ecpirosi, che non ha nulla di cristiano, solo per la volontà di vedere finalmente puniti gli empi. Interessante notare come anche le formule linguistiche che vengono impiegate aiutano a meglio configurare l’uso liturgico del memoriale attraverso preghiere facilmente memorizzabili. Il ricordati risuona fino all’ossessione e questo non per pedissequa ostinazione piuttosto perché l’uomo, strutturalmente, troppo spesso dimentica il bene conseguito attraverso promesse mantenute e realizzate. Questo impegna l’uomo a tentare di rompere i suoi egoistici fini per meglio aprire la ragione all’intelligenza della scrittura. Un altro rilievo è importante. L’urgenza della quale Quinzio continua a disquisire deve essere necessariamente rapportata all’urgenza che ogni individuo deve avvertire quando viene chiamata in causa la sua stessa vita ed il peso che si vuole riconoscere alla salvezza. L’esodo sopra citato, il viaggio che permette di fuoriuscire dall’Egitto non senza fatica e sofferenza, l’urgenza dovrebbe renderlo ancora oggi possibile in quanto permetterebbe all’uomo che lo intraprende di lasciare definitivamente un modus vivendi per niente salutare. La doverosità di tale impresa, nonostante i buoni propositi che potrebbero sostenerla, trova la sua chiarificazione in un evento in grado di rifondare completamente la propria esistenza fornendole un senso finalmente compiuto. Solo comprendendo la meccanica di questa verità possiamo capire il senso profondo del pro – mettere, del mettere innanzi un qualche cosa che appartiene ad un passato in grado di fondare un futuro, così come un futuro, che per realizzarsi, necessita di un legame attivo con un passato divenuto centralità. Rimane da ammettere un particolare: quanto siamo ancora in grado, oggi, di comprendere un evento capace di fondare, quando la contemporaneità ci sta allontanando da un universo segnico e simbolico atto a correttamente esprimerlo? La questione è pregnante, dato che richiama a sé la stessa legittimità della domanda che sostiene questa digressione ovvero, la possibilità di pensare Dio. Possibilità che, date alcune premesse, diviene volontà. L’urgenza, spesso, si tramuta in fretta, approssimazione, superficialità, da un già e non ancora (o se non ora quando?) si transita con ignavia ad un consumistico tutto e subito, dove il tempo viene letteralmente fagocitato nell’ansia di esistere piuttosto che centellinato nella lentezza del vivere. Non è, allora, questione di quantità, ma di qualità, l’urgenza della salvezza. Carnalmente posso anche soffrire, ma se come punto di riferimento ho il Crocifisso, la mia sofferenza, da egoismo stucchevole si tramuta in condivisione. Come possiamo fare memoria quando il mondo rimane consegnato all’alienazione del caso, alle leggi del mercato, al revisionismo storico? Fare memoria anche quando si tratta di memoria civile, implica il soffermarsi dandosi al silenzio della contemplazione prima ancora di accedere al ricordo. Dio ha sempre mantenuto le sue promesse e l’Esodo ne è la conferma come la grande tradizione profetica che segue, dove l’evento fondatore, la centralità, viene costruita sul dramma dell’esilio: la morte del popolo e la sua risurrezione nel panorama di una escatologia realizzata. La cattività babilonese non è un fallimento di Dio tanto meno una dilazione delle promesse, piuttosto un realizzarsi, da parte umana, di quanto i profeti hanno annunciato raccordando la storia dell’uomo alla rivelazione divina. Anche nel dolore Dio mantiene fede alle sue promesse poiché trasforma tutto a favore della sua creatura. Forse sarebbe corretto parlare di una sconfitta degli idoli, quei tanti dei che ci ostiniamo ad adorare, quelle caricature del Padre, che inducono all’errore. Quanta carnalità nella promessa del ritorno in patria del resto d’Israele. Invece, Quinzio, si sofferma sul fatto, storicamente ed esistenzialmente incontestabile, che troppo spesso sono gli empi a prosperare mentre i giusti appaiono come condannati a languire in un patimento senza significato. Certo, l’osservazione è acuta, reale anche se sconcertante. Come negare una simile affermazione quando nel mondo impera la sofferenza dei più deboli! Eppure, a ben guardare, anche un’argomentazione come questa, sovente brandita dai detrattori della fede, potrebbe conoscere collocazione adeguata nell’economia di una riflessione teologica e filosofica in grado di fare della croce il fulcro sopra il quale agire per risollevare gli ultimi dall’assurdità della loro esistenza. Al contrario, proseguendo ed insistendo sulla linea del nostro autore, anche la sfolgorante vittoria della risurrezione, così come viene interpretata e successivamente compresa definendola al modo di un allarmante e risolutivo rinvio del mantenimento della promessa oltre il muro della morte fisica, rischia di allontanare e confondere. Questa impostazione permette certamente di tratteggiare ed inserire nella visione d’assieme un paesaggio apocalittico e desolato dalle tinte forti e perentorie, trasudante, per alcuni aspetti, una sottile disperazione nella quale lasciarsi crogiolare. Scrive Quinzio: “Quella che doveva essere una retribuzione immediata, una giustizia che si attua nella normale storia del popolo, passa così attraverso una vicenda catastrofica, la quale mette fine alla storia che si allontana sempre di più dalla giustizia di Dio e vede le generazioni dei suoi fedeli inghiottite dalle sofferenze e dalla morte. La realizzazione della giustizia di Dio si profila solo al di là della morte e di un terribile tempo della fine.” La sconfitta di Dio, op. cit., pag. 29. Possiamo essere d’accordo sul fatto che l’attesa della risurrezione dei morti compare nelle Scritture ebraiche in un preciso momento storico, quando la follia di Antioco IV° Epifane rischia di cancellare la fede dei padri a favore di un esangue ellenismo. Questo viene attestato attraverso le parole di Daniele, dove un trionfo della giustizia viene fatto accadere solamente dopo un lungo periodo di tribolazione e dispersione: “…un grande numero di quelli che dormono nel paese della polvere si sveglieranno, gli uni per la vita eterna, gli altri per l’obbrobrio e l’orrore eterno.” Daniele 12, 1. In ogni caso e malgrado l’ulteriore rinvio, definito come un tragico procrastinarsi dei tempi della salvezza, non muta il significato della salvezza stessa. Purtroppo, ed ancora una volta, il tentativo di fondare e sostenere la necessità di quest’urgenza conduce a confondere due differenti modi di pensare il cosmo circostante infatti, pur venendo definita come una caratteristica eminentemente ebraica, altro non serve che ad essere contrapposta in netta alternativa con la struttura greca del cosmo. Insistere nell’inserire, a questo punto della trattazione un ennesima critica al pensare ellenico, risulta totalmente fuori luogo anche perché le conclusioni alle quali conduce appaiono irrimediabilmente infondate. E’ errato affermare, per essere espliciti, che non esiste salvezza per l’uomo nell’orizzonte speculativo greco quando si possono riconoscere concrete attese di salvezza da rintracciare attraverso un accorto ed imparziale esame principiando da un irrinunciabile presupposto: la filosofia stessa è una costante ricerca di salvezza con modalità originali ed uniche nel loro genere. Sarebbe grave non riconoscere, inoltre, una spiritualità intrinseca alla speculazione stessa poiché l’applicazione filosofica presupponeva, e presuppone, un coerente adeguamento esistenziale. Per un approfondimento risultano illuminanti alcune pagine redatte da Pierre Hadot e raccolte nel testo Esercizi spirituali e filosofia antica, Filosofica Einaudi, Torino 1988. Tornando alla Bibbia. Un episodio deve a questo punto essere menzionato: la pericope del buon ladrone. L’episodio è descritto esclusivamente da san Luca (23, 39 – 43).Se leggiamo con attenzione il passo in oggetto, ci accorgiamo di come la salvezza per il condannato redento venga promessa ed attuata immediatamente, hic et nunc, come attestano le parole proferite da Gesù “oggi sarai con me nel paradiso”. L’elemento fondamentale, per configurare questo procedimento salvifico, rimane racchiuso nel fatto che il ladrone riconosce nel Crocifisso il salvatore chiamandolo Signore. Questa professione di fede rompe il funesto rinvio del quale Quinzio perora la sostenibilità: la salvezza raggiunge anche la carne percossa e trafitta. L’urgenza, allora, si risolve nell’umana adesione al progetto di Dio accogliendolo nell’umiltà del silenzio, anche là quando l’ultimo respiro è annunciato dagli spasimi della morte imminente: questa è onnipotenza. Comunque, dobbiamo essere d’accordo nel riconoscere un restringersi dell’urgenza nell’economia degli scritti che compongono il Nuovo Testamento malgrado questo risvolto, inequivocabile, debba essere letto e capito alla luce dell’impellente necessità della conversione. Le citazione neotestamentarie servono a Quinzio per dimostrare le sue tesi a scapito del riconoscimento della glorificazione verso la quale viene elevato il Figlio di Dio: la via dolorosa che conduce al Calvario ha sempre un suo costo! Forse per questa ragione il nostro autore scivola sull’evento della morte preferendo il dopo, quando la debolezza dei discepoli è spinta all’estremo. Il non cogliere lo sconvolgimento della risurrezione induce ad osservare: “Il tempo trascorso dopo la morte e la risurrezione di Gesù senza che nulla di decisivo avvenisse, costrinse le prime comunità a differire l’attesa.” La sconfitta di Dio, pag. 32. Queste considerazioni portano a definire come contorte ed oscure alcune profezie contenute nei discorsi escatologici di Gesù, confondendo la distruzione di Gerusalemme che accadrà nel 70 d.c. con la fine dei tempi da Quinzio così tanto attesa. Sarebbe oltremodo interessante comprendere il perché questa distruzione salvifica venga così tanto invocata. Implorare il giudizio di Dio sembra apparire come l’unica ed ultima strada da percorrere per verificare, alla fine, la consistenza della promessa fatta. Tutto questo non risulta eccessivo quando il volto di Dio che gli scritti neotestamentari, come la Bibbia intera, ci invitano a ricercare è quello del Padre misericordioso, di colui che non giudica nessuno, ma perdona sanando ogni sorta di colpa? Al contrario, il mistero e l’attesa della parusia, cedono alla medesima interpretazione assumendo le spoglie di una spasmodica speranza, contrappuntate dalle delusioni vissute dalle prime comunità cristiane. Porre il ritorno di Cristo come il compimento dell’attesa e, di conseguenza, della promessa, equivale a voler ostinatamente individuare un ulteriore rinvio. Certamente, le citazioni che a riguardo Quinzio sfodera con sicurezza, indurrebbero, dopo una lettura estrapolata dal contesto, ad una condivisione d’opinioni inoppugnabile. Le immagini letterarie si susseguono con suggestione, ma sembra essere solo letteratura, quando vengono così raggruppate e non teologia. Spesso, la già citata abilità combinatoria, svuota del senso i versetti chiamati in causa. Certamente la morte dei primi cristiani suscitò un umano e comprensibile sconcerto anche se da nessuna parte del Vangelo rimane scritto che i credenti non sarebbe mai dovuti morire gustando l’amarezza del trapasso. Lazzaro stesso, l’amico per il quale Gesù pianse lacrime fraterne, dovette ri – morire fisicamente. Sopra questa ri – morte le deduzioni rimangono ancora confuse. Una linea interpretativa interessante scaturisce dalle righe del vangelo secondo san Giovanni laddove si tratta del discepolo amato. Questa figura, spesso enigmatica e confusamente identificata con l’evangelista stesso, potrebbe essere applicata a Lazzaro. L’episodio chiave è descritto al capitolo 20 del vangelo stesso. Normalmente si arriva a dire che sono Pietro e Giovanni a correre al sepolcro trovato vuoto da Maria di Màgdala: è un errore. Citando: Uscì, allora Simon Pietro insieme all’altro discepolo, quello che Gesù amava. Nulla permette di affermare che si tratti di Giovanni. Il fatto interessante è che questo discepolo, che giunge per primo al sepolcro, dopo aver scorto le bende per terra, si ferma senza entrare all’interno della tomba. Perché attende? potremmo congetturare che l’attesa si giustifica con il fatto che egli già conosce quello che il segreto della sepoltura nasconde agli occhi dei sopravissuti, già sa che quella visione sconcertante prelude alla gloria della risurrezione poiché è transitato prima per l’orrido sentiero della morte. Per cui, se anche fosse dovuto morire, conosceva in anticipo l’onnipotenza dell’amico – maestro, colui che è in grado di strappare chiunque agli artigli della morte. Sono solo idee per nulla vincolanti teoreticamente anche se possiedono la forza di condurre oltre nella riflessione. Non dimentichiamo che gli unici personaggi biblici per i quali non si parla di morte, ma di rapimento al cielo sono Enoch ed Elia. Il perché di questo privilegio rimane oscuro e s’intorpidisce maggiormente quando si affianca al fatto che il Figlio unigenito dovette sottostare alla dura legge della morte. Inoltre, Maria stessa, la madre, transitò attraverso il mistero della morte conducendo a compimento la sua straordinaria dedizione umana. Azzardiamo una domanda. Se la promessa mantenuta, per un gruppo sparuto di fedeli fosse consistita nel non morire mai, quale senso avrebbero le sofferenze provate e subite così come tutte le ingiuste morti, se la vita eterna consistesse in una incredibile perennità? Lo spirare di Cristo in croce, proprio quella fine atroce, ha conferito significato ad ogni umano trapasso. Nel continuo gioco delle deduzioni e riflessioni compare, finalmente, la domanda che ancora oggi troppo frequentemente viene gridata come sfida umana e culturale. La citazione nella quale rimane inclusa è tratta dalla seconda lettera di Pietro. Le tinte sono fosche e minacciose, ma quale mondo senza Dio non lo sarebbe? Comunque, l’aspetto consolante perdura racchiuso nel fatto che pure questo spunto contribuisce a rendere legittima la domanda attorno alla quale abbiamo precedentemente discusso. Gettando Dio fuori dal mondo, getteremmo fuori ogni possibilità di poterlo fondatamente pensare, lasciando come ombra lo spettro del dio proclamato morto dal folle di Nietzsche. “Verranno, negli ultimi giorni schernitori beffardi, i quali si comporteranno secondo le proprie passioni e diranno: Dov’è la promessa della sua venuta? Dal giorno in cui i nostri padri hanno chiuso gli occhi tutto è rimasto come al principio della creazione” 2 Pietro 3, 3 – 4. In fronte ad un passo come quello qui di sopra citato non occorre essere precipitosi nelle riflessioni. Nulla è cambiato, in verità, dal giorno quando l’umanità cadde perché, malgrado l’incarnazione del Figlio, permaniamo ostinatamente immersi in una cecità sconvolgente. Se così non fosse, non dimostreremmo la necessità di vedersi realizzare un evento che si è già compiuto, ma comprenderemmo che lo scopo è quello di partecipare al compimento stesso. Questo non elimina affatto la drammaticità di ogni epoca storica anzi, permette di restituirle un senso fissando l’evento fondatore della fede. Quanto abbiamo smarrito, alla luce dei ragionamenti condotti, è la capacità di saper leggere i segni che la provvidenzialità dello Spirito continuamente scolpisce sulla nuda roccia della verità. La questione è che dobbiamo tornare, usando immane pazienza, ad imparare l’alfabeto di un linguaggio lasciato confondere per negligenza, riscoprendo un lessico che s’incarna nelle esperienze sensoriali della quotidianità. Allora, non solo promesse materiali scorgeremmo, ma un articolarsi della promessa in una dimensione dalle coordinate umane. Questo è l’orizzonte della speranza verso il quale invita il cristianesimo: un risorgere che principia nella sordina delle trame esistenziali quando mutiamo prospettiva e ci concediamo all’altro da noi. Questo orizzonte,oltre la sua ancora impercettibile linea, ancora nasconde la luce di un amore che non conosce rappresaglia, lo sfolgorio di un giorno non segnato dalla vendicativa e perorata giustizia ma dalla fraternità che sprigiona dalla Gerusalemme celeste: non è, purtroppo, l’orizzonte di Quinzio, poiché preferisce rimanere ancorato al problema che Dio rappresenta per la contemporaneità. Se così non fosse, il tracciato che segue non sarebbe possibile. Per correttezza teoretica proviamo ad accompagnarlo riprendendo con un ulteriore rilievo. Possiamo notare, rimanendo nell’alveo delle fonti bibliche, come già abbiamo compiuto nel precedente capitolo esaminando la fondatezza scritturistica della promessa, quanto emergesse una chiara ed insistente preoccupazione moralistica. Questo fatto viene rafforzato con una serie di citazioni paoline dal forte e marcato sapore encratita. Proprio per questo, dobbiamo pensare che la salvezza, sulla scorta del continuo rimando del compimento, non può e non deve essere solo ed esclusivamente concepita come la retribuzione di uno sforzo etico ultimato dall’uomo, ma come una atto gratuito compiuto dalla volontà divina. Il modo di procedere appena sopra accennato, in verità, permette a Quinzio di mantenersi in sintonia con la sua pretesa ebraicità sulla quale sarebbe opportuno cominciare a compiere qualche chiarimento concettuale. In che senso? Iniziamo con il definire l’ebraicità vantata dal nostro autore come una tra le tante ebraicità vissute, da non confondersi con l’autentico spirito ebraico che le scritture lasciano trasudare. Usiamo un esempio concreto. Dalle stesse parole di Quinzio emerge una preoccupazione costante, che lui medesimo pare energicamente nascondere: quella della resa della giustizia nell’economia del compimento della promessa. Per quale motivo Dio deve forzatamente rendere giustizia? Ma ancora. Di quale giustizia trattiamo? Se le premesse stanno come le abbiamo rintracciate, tra le righe di Quinzio emerge l’ombra della teoria della retribuzione, quel do ut des, che la Bibbia stessa tende a far implodere. Sarebbe come dire: io mi comporto bene nell’attesa del Tuo ritorno, rispetto tutte le tue leggi, osservo i tuoi precetti, faccio pure l’elemosina. Tu mi devi dare il premio tanto agognato, la salvezza, perché la vita eterna, a questo punto è un mio diritto! Dove sono finiti amore e misericordia? La croce ha annullato questo modo primitivo e barbaro di ragionare sopra il quale l’uomo ancora oggi pone troppa attenzione. Quando il calcolo prepotentemente si sostituisce alla riflessione, ogni ricerca del sapere diviene impossibile. Comunque, anche se le osservazioni condotte potrebbero risultare lesive per l’imperante perbenismo benpensante, rendono a loro modo, il polso della cristianità contemporanea, ancora immersa in una preoccupante infanzia religiosa: è il tributo che dobbiamo a Quinzio. “Non c’è bisogno di essere schernitori e beffardi – come è scritto nella seconda lettera di Pietro – per accorgersi che le promesse non sono state mantenute, che i miti non hanno mai posseduto la terra, che Dio non ha reso ai suoi fedeli pronta giustizia, come Gesù invece ci assicurava dopo aver raccontato la parabola del giudice iniquo e della vedova importuna. Di fronte a questo fatto, se non si vuole chiudere gli occhi e far finta di niente, al credente non resta che una scappatoia. Potremmo sempre dire che sta a noi affrettare la venuta del giorno di Dio nella santità della condotta e nella pietà, che la nostra conversione è quindi condizione stessa perché possano giungere i tempi della consolazione da parte del Signore ed Egli mandi quello che vi aveva destinato come Messia, Gesù. Dopo duemila anni è una meschina scappatoia, perché se la potenza dell’incarnazione e della passione del Signore non ci ha resi capaci finora, in venti secoli da quando è scoccata l’ultima ora del mondo, di convertirci alla santità ed alla pietà, è insulso pensare che ne diventiamo capaci adesso che abbiamo addirittura dimenticato il senso delle promesse in cui avevamo creduto. Vogliamo giocare per altri millenni al gioco di Dio che non ci aiuta perché non lo meritiamo e dell’uomo che non è in grado di meritare senza il suo aiuto? La sconfitta di Dio, pagg. 37 – 38. La forza, di queste parole, alle orecchie dei più, risulta folgorante anche se andrebbero correttamente motivate e giustificate, ma non dimentichiamo che Quinzio non è né teologo né filosofo, infatti queste frasi risuonerebbero perfettamente inserite nella trama di un’apologia post – moderna in favore del cristianesimo agonizzante, con quali esiti, poi, sarebbe da discutere. Sono, ad una prima lettura, una potente esortazione, un urlo nella notte profonda anche se appena sotto, torna a rimescolare le carte da poco dispiegate sulla tavola. Insomma, coglie qualche lume per, poi, nasconderlo prontamente sotto al moggio, per rileggerlo nel dopo della sua sistematizzazione. E’ vero e giusto parlare delle scappatoie che i cristiani tiepidi amano imboccare per fingere l’impegno nel disimpegno totale, ma non basta un tuonare in lontananza, quando il cielo è ancora sereno, per assicurare che l’acqua della benedizione cadrà. Per questo, alla domanda “ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà forse la fede sulla terra?” Luca 18, 8., risponde: “La risposta non può essere che questa: egli dovrà venire, se verrà, malgrado la nostra mancanza di fede. E non sarà tutta colpa degli uomini se la fede sarà andata perduta. Noi siamo qui soltanto perché siamo figli di questo immane, insostenibile ritardo.” La sconfitta di Dio, pag. 38. Una chiara provocazione, perché un Dio ritardatario non sarebbe salito sulla croce, ma avrebbe umanamente rimandato. 4 “Il” o “un” Dio debole? Abbiamo concluso il precedente capitolo tentando di diradare l’atmosfera corrusca preparata con abilità da Quinzio affinché potesse definire l’umanità intera come figlia di un immane ed inesorabile ritardo. Certamente, parlare di un Dio ritardatario permette di riaprire discussioni estremamente feconde malgrado la forte provocazione lanciata. Una tale definizione non deve per nessuna ragione spaventare, né tanto meno trarre in inganno, in quanto sembra debitrice della più fortunata, ed oltremodo provocatoria, dovuta alla mente di Martin Buber, quando tratta del Dio tappabuchi. Interessante anche l’analoga definizione usata per descrivere un’immagine di Dio superficiale ed affrettata: il Dio cromosomico. L’urgenza così tanto invocata e supplicata appare come una realtà tradita attraverso uno stolido rinvio nel tempo che altro non tende a svelare che lo spettro di un fallimento incipiente. L’ammissione di questa sconcertante possibilità permette, senza troppi problemi, di cominciare a tracciare le coordinate di una debolezza di Dio che dovrebbe ritornare utile per configurare in una dimensione di senso l’universo intero ed ogni singola vita umana. Naturalmente, questo conferimento di senso altro non è che un immagine minoritaria e triste di un’esistenza che rischia di essere tramutata in ingiusta condanna. La materia, lo dobbiamo ammettere, è estremamente complessa ed una trattazione superficiale rischierebbe oltre che una confusione delle acque, il rischio di inverare, a favore di un facile sensazionalismo, ogni legittimo guadagno apportato dalla riflessione filosofica fiorita in seno alla post – modernità. Per questo, anche se il sentiero risulterà contorto, partiremo con una messa sub iudice delle riflessioni condotte sul tema da Quinzio, per transitare ad una comparazione con i risultati teoretici ottenuti da Gianni Vattimo in materia di debolezza proponendo, infine, una sintesi della questione. Ancora una premessa. L’intestazione apposta a questo capitolo non segue fedelmente, come fino ad ora osservato, i titoli scelti da Quinzio per la scansione del suo testo, ma lo modifica aggiungendo un punto interrogativo finale e, tra parentesi, l’articolo indeterminativo, poiché adottare l’articolo determinativo il, potrebbe risultare vincolante per due ragioni. Una prima è che non possiamo essere certi che il ritratto che otterremo alla fine sarà quello di Dio piuttosto che quello di un dio, uno tra i tanti, ma non rispondente ai tratti paterni del Dio di Gesù Cristo conclusione che in maniera sconcertante, rischierebbe di cancellare anche ogni possibile accenno al Dio dei filosofi. Una seconda, e non meno fondamentale, intende chiarire quale significato vogliamo attribuire al concetto di debolezza. Tra le spire del discorso, così come viene articolato, sembra emergere un concetto di debolezza atto a motivare una impotenza divina d’agire come d’intervenire nella storia umana, piuttosto che l’idea della debolezza come attimo della fuoriuscita dalla malattia, attraverso un periodo di necessaria convalescenza. Per questo, senza una previa chiarezza metodologica, correremmo il pericolo di smarrirci, nel nostro piccolo e per faciloneria speculativa, nella notte nera quando le vacche sono tutte nere. 4.1 Il Dio debole La ripresa sull’argomento fatta da Quinzio è forte poiché consegue alle premesse fino a questo punto costruite. L’inizio spiazza il comune lettore sfoderando una definizione delle promesse come irrimediabilmente fallite. La durezza non deve trarre in inganno, come facilmente potrebbe accadere, ma invogliare ad una discussione non semplice da decifrare dato il continuo richiamo di categorie filosofiche, teologiche ed elementi desunti dalla tradizione mistica ebraica. Il fascino rimane intatto, se si evita lo scontro, inevitabile per chi ha il dovere di non accontentarsi di un bello dalle risonanze false, e non manca di scuotere dal sonno quelle anime ormai abituate alla ruotine della fede consegnata alla quotidianità poiché, forse, proprio a costoro Quinzio intende rivolgersi con le sue sferzanti invettive. “Le promesse procrastinate per millenni sono dunque, di per sé, delle promesse non mantenute, delle promesse fallite. Resterebbero tali anche se dovessero compiersi in questo istante poiché manterrebbero comunque al loro interno, anche se venisse cancellata la consapevolezza, un abisso di delusione, di stanchezza. Il Messia, come ha detto Kafka, sarebbe arrivato un solo giorno dopo il proprio arrivo, quando l’attesa si è consumata.” La sconfitta di Dio, pag. 39. Se dovessimo seguire letteralmente queste parole altro non dovremmo fare che annunciare l’inevitabile, a questo punto, sconfitta dei credenti conseguente a quella, fondamentale ed originaria La consideriamo originaria permanendo nel solco tracciato da Quinzio perché, come analizzeremo in seguito, riguarda l’in principio.di Dio. Quello che sarebbe il dopo, rimarrebbe da discutere, anche se l’ombra di un non ancora ben qualificato nichilismo sembra funestare un futuro sempre più incerto e perché no, ormai privo di salvezza, addirittura inutile. Volendo mantenersi sul sentiero dell’obbiettività, queste sono conseguenze in un certo senso già consegnate alla nostra attualità. Un’osservazione preliminare occorre muoverla. Se partiamo dal fatto che il Dio che emerge dalla lettura della Bibbia è il Dio della vita, qualora il fallimento dovesse consegnare l’umanità all’orrido vuoto della morte, la sconfitta sarebbe pienamente da imputarsi a Dio stesso. Usiamo il condizionale per lasciare aperto uno spiraglio poiché la chiusura dimostrativa alla quale si concede Quinzio non permette appello alla sentenza, almeno formulata secondo questi termini. Insomma: se in differenti momenti fino ad ora rintracciati abbiamo dedotto che nell’universo speculativo di Quinzio è assente anche un minimo appellarsi alla speranza, lo dobbiamo riferire alla logica di una personale metodologia ermeneutica applicata alla realtà che lo circonda e di conseguentemente interpretare i segni che la sostengono. Per questa ragione, dunque, non lo possiamo definire un cammino ebraico e tanto meno cristiano perché anche nell’abbandono e nel tormento dell’esilio, nella lugubre notte di Auschwitz, un baluginare di speranza mantiene accesa la volontà di sopravvivere alla catastrofe. Alla morte di dio (o degli dei/idoli), dopo la notte, segue sempre l’aurora. Stimolante, invece, risulta l’itinerario che viene seguito per fondare il concetto di debolezza divina. Il fondamento arriva rintracciato nei meandri della mistica ebraica del XVI° secolo, precisamente nella speculazione del cabalista Ytzchaq Luria (1534 – 1572), secondo il quale la creazione del mondo è resa possibile dallo Tzimtzùm, il contrarsi di Dio. Il singolare accenno proposto a questa dottrina è complesso anche se manca di un corretto approfondimento teoretico dato che alcuni semplici rimandi possono risultare confacenti allo scopo, ma allo sesso tempo fuorvianti. La dottrina mistica dello Tzimtzùm rappresenta il vertice del pensiero di Luria, ovvero: “una delle idee mistiche più sorprendenti, e più ricche di implicazioni, che siano mai state concepite nella storia della Qabbalà. Tzimtzùm vuol dire realmente concentrazione o contrazione, ma – se si vuole intendere esattamente il significato della concezione di Luria – sarebbe da tradursi assai meglio con ritiro o ritorno. Luria, così come la fonte diretta – un piccolo trattato, del tutto dimenticato, della metà del XII° secolo – partiva da un’idea talmudica che, per dirla in breve, egli aveva però rovesciata. In un passo della Midrash è detto che Dio avrebbe concentrato la sua Shekhinà, la sua presenza, nel Santo dei Santi, nel luogo dei Cherubini, e così Egli al tempo stesso avrebbe concentrato tutto il suo potere, e lo avrebbe contratto in un solo punto. Da qui deriva il termine Tzimtzùm; ma il suo contenuto è trasformato si da divenire proprio l’opposto dell’idea che prima esprimeva: infatti il cabalistico Tzimtzùm non significa la concentrazione di Dio in un luogo, ma il suo ritirarsi fuori da ogni luogo. Che significato ha tutto questo? Detto brevemente, significa che l’esistenza dell’universo fu resa possibile da un processo di contrazione di Dio. Originariamente Luria parte da un pensiero assolutamente razionalistico. Come può esistere un mondo, quando l’essere di Dio è dappertutto? Come può esistere in questo luogo concreto qualche cosa di diverso da Dio, dal momento che Dio è tutto in tutto? Come può Dio creare dal nulla, se non può esservi un nulla, dato che il suo Essere penetra ogni cosa? E Luria risponde con un pensiero che – nonostante la forma grossolana e per così dire rude con la quale è espresso – ha dato prova di essere uno dei più fruttuosi e fecondi per la riflessione dei mistici ebrei posteriori. Luria intende dire che Dio - per garantire la possibilità del mondo – dovette rendere vacante nel suo essere una zona, dalla quale Egli quindi si ritrasse; una specie di mistico spazio primordiale, in cui Egli potesse ritornare nell’atto della creazione e della rivelazione. Il primo di tutti gli atti dell’Essere infinito, dell’ En – Sof, non fu pertanto un movimento verso l’esterno, ma verso l’interno, un movimento entro se stesso, un restringersi in sé – se posso usare questa ardita espressione – di Dio, da sé in sé stesso. Quindi invece di produrre una prima emanazione del suo essere o della sua forza fuori di sé, l’En - Sof al contrario si sprofonda giù nel fondo di se stesso, si concentra in se stesso; ed ha fatto sempre così fin dal principio della creazione. Questa concezione fu considerata quasi blasfema anche da coloro che le diedero una formulazione teoretica. Ciò nonostante essa, attenuata da un fiacco per così dire o quasi, fu costantemente ripresa”. Gershom Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, trad. it. di Guido Russo, il Melangolo, Genova 1986, pagg. 270 – 271. Questa dottrina necessita di un inquadramento attraverso alcune osservazioni. La maniera attraverso la quale Luria ha espresso la sua idea risente, comunque a sua insaputa, dell’influenza di antichi miti gnostici anche se aiutano a gettare una luce interessante sulla elaborazione ed il significato della creatio ex nihilo essendone, inoltre, una tra i tentativi più concreti mai provati per poterla adeguatamente pensare. La lunga citazione tratta da Scholem serve per approfondire quello che il testo di Quinzio non sfiora, infatti gli spunti che ne emergono sono differenti ed utili per fare luce sulle conclusioni che saranno esplicitate in seguito. In ogni modo, anche senza chiamare in causa una dottrina ostica ed abissale come quella dello Tzimtzùm, dobbiamo ammettere che la creazione intera, colta nel suo atto, da quel momento in poi, implica la sussistenza e l’esistenza di qualcosa e qualcuno che si distinguono da Dio e che non possiedono la sua pienezza di vita. La questione, inevitabilmente, si complica e necessita di una lucidità speculativa tale per non scadere in troppo semplicistiche conclusioni correndo il pericolo di lasciare sospese domande cruciali ancora ai nostri giorni. Per questo, Quinzio, abilmente glissa sugli interrogativi che s’infittiscono perché piuttosto che accendere una discussione costruttiva, preferisce mantenersi concentrato sulla tesi che desidera dimostrare attraverso i suoi punti di vista. Infatti, dopo aver compreso, e correttamente illustrato, che il mondo creato è un altro da Dio, anziché approfondire, salta, letteralmente, ad altre questioni, in ogni modo interessanti. Così avviene che l’attenzione viene immediatamente dedicata alla coppia dei progenitori edenici presentati e descritti dalla Sacra Scrittura come liberi di sottrarsi all’obbedienza dei comandamenti divini. Questo rilievo è interessante per differenti ragioni. La prima è caratterizzata e costruita sulla complessa problematica rappresentata dalla libertà (nella Bibbia ancorata alla verità, l’unica in grado di rendere effettivamente liberi) Da intendersi anche come libertà intellettuale, possibilità che nemmeno la più disumana delle coercizioni riesce ad annullare in toto nell’essere umano., al contrario e comunemente sempre concepita, ed intellettualmente svenduta, come il poter compiere quello che si desidera a scapito o nel pedissequo rispetto di regole e compromessi. In questo caso specifico, rimane legata alla possibilità di sottrarsi, a seguito della caduta, dall’osservanza delle leggi di Dio anche se in realtà all’uomo non viene mai prospettato il dilemma della scelta, prerogativa espressamente divina, come di sotto tenteremo di specificare. L’osservazione, nella sua essenza pertinente, apre a tutto un corollario di questioni che risultano fondamentali se inscritte nel tentativo di correttamente inquadrare il problema della libertà stessa nonostante la vexata queastio possa essere di ben altra e maggiormente drammatica portata: all’uomo è consentito aspirare ad essere libero oppure deve comprendere che la sua libertà acquisirà senso solo nella maniera e nell’intensità con la quale sarà capace di partecipare alla libertà stessa? Scorrendo la Scrittura non possiamo non capire che la capacità di esprimere atti di libertà incondizionata è riservata esclusivamente a Dio. Cos’altro sarebbero la creazione, l’incarnazione, la passione e la morte di Cristo e la risurrezione se non altro che libere scelte alle quali Dio avrebbe potuto anche decidere di rinunciare? In fondo, a noi esseri umani, non è concesso di non morire biologicamente. Dobbiamo desumere che la potestà di scegliere è solo una prerogativa divina mentre quella umana, dato che risponde ad un’usurpazione senza precedenti, rimane quella di sottrarsi. Ecco perché, se ben osserviamo, non saremo mai in grado di possedere la libertà, così come l’essere, ma di potervi partecipare nel mistero più assoluto. Così vivere il mistero, allora, si presenterà come lo stare accanto alla verità lasciandosi assorbire, lentamente, da essa. Inoltre, il sottrarsi può funzionare esclusivamente per l’individuo, essendo espresso attraverso una forma verbale riflessiva in quanto io mi sottraggo. La collettività, in questo caso, diviene tale solo sulla scorta di individuali assensi, dove e sempre solo il singolo è chiamato a più o meno consapevolmente rispondere. Grazie a queste premesse, possiamo concordare sul fatto che la creazione, proprio in quanto altro da Dio, comporta la vertiginosa possibilità di opporsi alla volontà di Dio con la conseguente irruzione nella vita della colpa e del baratro della morte. Infatti, e questa volta la costruzione che Quinzio erige regge sulle sue fondamenta, dopo la ribellione dei progenitori, la Bibbia fa seguire lo scarno racconto dell’assassinio di Abele per mano del fratello Caino. La morte, che Dio non ha creato, come si legge in Sapienza 1, 13, ma che creando il mondo ha reso possibile, irrompe tremenda nella storia delle origini folgorando ogni aspettativa umana, realizzando quella condizione esistenziale, esclusivamente umana, in grado ci cancellare ogni progetto attraverso l’esperienza psicologica dell’inciampo nel cadavere. Questa condizione è ampiamente approfondita da Martin Heidegger, quando tratta, nell’economia della sua parabola speculativa, dell’essere per la morte.Consequenziale a questo triste precedente, scaturisce forte, ancora oggi, la domanda sul perché della morte alla quale non siamo in grado di nemmeno laconicamente rispondere scivolando verso un rinvio della risposta, questa volta nostro, ad un dopo che sempre di più si preannuncia come incerto: la speranza, come la ragione si devono fondare su stabili e verificabili presupposti. Per questo non possiamo concordare pienamente con quanto viene commentato a proposito da Quinzio: “E la reazione che la Scrittura attribuisce a Dio dinanzi alla disobbedienza dei progenitori è di paura (Gen 3, 22), la stessa che avrà di fronte ai costruttori della torre di Babele (Gen 11, 6).” La sconfitta di Dio, op cit., pag 41. Una simile affermazione potrebbe incappare nella più recisa delle disapprovazioni, se non cercassimo di apportarle il giusto soccorso. La nostra idea di Dio, quella corrente ed alla quale abbiamo già accennato, sembra rifuggire la passionalità divina, anche se, lo dobbiamo ammettere, un Dio timoroso non avrebbe per nulla scommesso sulla bontà finale della creazione anche se occorre rintracciare nella Scrittura quei passaggi, per altro ardui ed oscuri, attraverso i quali si mostra una partecipazione passionale di Dio senza confini. Una parsimoniosa cautela suggerirebbe parlare di una sorta di preoccupazione per l’avvenire dell’umanità intera, ormai proiettata verso un lento e costante allontanamento da Dio sottraendosi al Padre e rimanendo gettati fuori, a nostra comune insaputa, dal progetto stesso di Dio. Per chiarezza, se leggiamo con attenzione i versetti del vangelo secondo Matteo dove è descritta con sobrietà la fuga in Egitto della Sacra Famiglia, quella che trasuda dalle scarne parole è un’autentica paura, quella di un Dio che ha scelto la precarietà, e spaesatezza, della condizione umana esponendosi alla possibilità della morte, all’essere profugo in terra straniera ed ostile, come fu Mosè in Madian, abbandonato nella spasmodica ricerca di un senso. Interessante, inoltre, e avvincente, si presenta l’affermazione che conduce ad ammettere che dal momento della creazione s’instaura proprio questa stupefacente condizione di estrema precarietà, per altro sapientemente pennellata dagli agiografi attraverso le descrizioni del mondo dei patriarchi, dove l’unica costante rimane aggrappata alla benedizione che Dio accorda alla vita permettendo il perpetrarsi nella storia della fecondità umana malgrado le colpe e le inevitabili deviazioni extra Patrem. Così ragionando, la debolezza di Dio potrebbe essere identificata come un evento inesorabilmente legato all’in principio. Per questo la giustizia di Dio appare incompatibile con l’esistenza degli uomini e del mondo così che la promessa della ricompensa altro non può che susseguire differita nel tempo ovvero, incatenata ad uno stucchevole ritardo. Se Dio si è ritirato per fare posto, atto che prevede sempre – secondo il nostro punto di vista - una bontà alla sua origine, lo porrebbe, rispettando la logica decifrata da Quinzio, nella successiva impossibilità di amministrare giustizia perché per poterla esercitare dovrebbe irrompere nel creato riprendendosi quello spazio che ha deliberatamente ceduto all’altro da sé: per questo motivo Dio deve rinunciare alla giustizia così invocata dagli uomini. Certo è un fatto: se in questo terrificante teorema immettessimo l’idea o il sospetto, che la creazione intera sussiste a seguito di un atto d’amore incondizionato, le equazioni speculative comincerebbero a non fornire più lo stesso risultato. A questo punto, oltre a quanto in precedenza dedotto, nell’universo di pensiero che Quinzio traccia, l’amore sembra non esistere e questo a scapito dell’idea di Spirito insomma: se avesse letto, come pretende di avere fatto, le scritture ebraiche lasciandosi ammaliare dall’irruenza della ruah, avrebbe colto la forza triturante che lo Spirito è in grado di dispiegare per lasciarlo così irrompere nella sua vita. Le considerazioni effettuate permettono a Quinzio di soffermarsi su una delucidazione che dovrebbe sostenere e motivare il perché, seguendo la sua personale riflessione, nella storia religiosa dell’uomo sono comparsi i riti sacrificali cruenti. Questo fatto, secondo il nostro autore, avviene a causa di un meccanismo di compensazione dovuto al motivo che Dio non può assolutamente esercitare la sua giustizia. Il ricorrere a questi espedienti è descritto come una prassi sempre insufficiente e rimarchevole anche se rispondente ad un ruolo fondamentale, assurdo agli occhi della modernità. Questa interpretazione sottende, perciò, ad una concezione antropologica tesa a giustificare questo disequilibrio originario. Gli atti sacrificali dovrebbero possedere il potere intrinseco di espiare ogni volta una colpa, di compensare l’ingiustizia e di ristabilire un equilibrio continuamente infranto in ogni caso sempre principiando da un’iniziativa umana poiché se i sacrifici fossero pretesi da Dio per placare la sua ira, saremmo ricaduti nella logica del dio faraone, quello stesso contro il quale apertamente combatte JHWH. Anche se spesso una lettura superficiale della Bibbia possa cogliere nello svolgersi della narrazione di contraddizioni lampanti, il Dio della vita, non può contraddire se stesso pretendendo sacrifici. Questo fatto sottende alla lotta ingaggiata contro i rituali sacrificali cananaici ove era largamente praticato il sacrificio umano. Possiamo essere d’accordo? Siamo sicuri che la meccanica sacrificale antica sia da intendersi come un continuamente ovviare ad una impossibilità di Dio? Queste conseguenze ci hanno condotti lontano perfino dall’impianto creazionistico messo in piedi da Luria. Inoltre: tali premesse possono condurre, e lo studieremo, ad una scorretta concezione cristologica dove riappare l’ombra del castigo vicario come titulus appeso sulla croce di Gesù di Nazareth. Dobbiamo allora ammettere che la lettura che Quinzio opera sulla Scrittura, non usando una competenza esegetica adeguata, accompagna ad una conseguenza inevitabile, quella attraverso la quale un universo negativo e pessimistico prende forma inaudita. Certo, possiamo dire che questa rimane una visione, inquietante, comunque, perché descrive sempre la possibilità di un mondo nel quale la realtà umana sembra non essere poi così tanto distante. Questo modo di pensare Dio, in effetti, fa realmente problema perché non può assolutamente essere un orizzonte. E’ un problema che stimola ed avvince oltre che spaventare allo stesso tempo, ma che implica un continuo ripensamento. Quali potrebbero essere le conseguenze teoretiche ed esistenziali? Quando abbiamo accennato ad un possibile debito gnostico di Quinzio non abbiamo affatto esagerato. Una simile visione cosmologica e cosmogonica, desunta pur anche dalla mistica ebraica, mantiene forti influenze neoplatoniche probabilmente all’insaputa del nostro autore. Lo Tzimtzùm partorisce un creato fortemente negativo, così come viene letto ed impostato, dove solo il sapiente riesce a cogliere gli elementi necessari per progettare il cammino della salvezza ed ecco perché, inoltre, non erriamo nel voler trattare di un dio debole Usiamo la minuscola poiché un dio così concepito e descritto sembra non poter nemmeno rivendicare pienamente i tratta della divinità. e non del Dio debole, dato che un dio che riesce a salvare solo alcuni privilegiati, e non un santo resto, è da considerarsi tale. Dunque, senza cedere all’esagerazione, siamo in grado di affermare che tra le volute speculative di Quinzio s’annida un pensiero dal vago e lussureggiante sapore eretico E’ necessario, in questo preciso frangente non assolutizzare il significato del termine eresia. L’impiego che ne facciamo è esclusivamente per scopi teoretici e speculativi anche se, per correttezza, quando ci permettiamo di intervenire sulla fede liberamente selezionando quanto meglio possa rispondere alle nostre personali esigenze culturali, compiamo un’eresia ovvero, una scelta, una suddivisione. Senza enfatizzare, di piccole eresie quotidiane, in materia di conoscenza e chiarezza teologica siamo spesso tutti colpevoli. Forse proprio per questo il pensare assume sempre nuove sfaccettature nell’ordine del meraviglioso. Fare filosofia è cedere a quest’umana debolezza, poiché spesso si diviene eretici nei confronti di un pensiero verso il quale siamo debitori, ma questo è il privilegio di chi si assume la responsabilità del pensare, la teologia, laddove nella quotidianità si tramuta in dedizione pastorale non concede possibilità d’errore, in questo senso, anche se può, con stupore, spesso abbeverarsi a quelle sorgenti filosofiche che hanno pagato il fio di un lungo travaglio speculativo dove non sono mancati cedimenti eretici. Ecco perché, talvolta, un pensiero in sé eretico, nasconde una fecondità inaudita ed inaspettata. soprattutto nel momento in cui, elaborando la sua teoria sacrificale, scorgiamo l’assenza di ogni minimo accenno alla pietas che contraddistingue il sacrificio della croce. Per questo, e di conseguenza, anche questo snodo importante e complesso, necessita di alcune osservazioni critiche: “La teoria sacrificale sembra del resto appartenere a tutte le culture umane che ci hanno preceduto, ed essere scomparsa soltanto dopo aver toccato il suo culmine nell’uccisione dell’unica vittima perfetta, Gesù Cristo, il quale, dice la Lettera agli Ebrei, “adesso, una volta per tutte, alla fine dei tempi, si è manifestato per abolire il peccato per mezzo del suo sacrificio” (9, 26). Non solo le realtà terrestri ma le stesse realtà celesti devono essere purificate per mezzo del sangue e, “senza effusione del sangue non c’è nessun perdono” (9, 22). Già con la creazione, dunque, Dio è costretto ad allontanarsi dal mondo, e la sua giustizia, per quel tanto che cerca di coesistere con il mondo, è costretta a farlo applicando la terribile legge dell’espiazione per mezzo del sangue, la quale giungerà a coinvolgere, nella croce, Dio stesso.” La sconfitta di Dio, op. cit., pag. 42 Possiamo essere certi del fatto che la teoria sacrificale, intesa come espiazione compensatoria sia da ritenersi oggigiorno totalmente scomparsa? Il sacrificio di Cristo sulla croce deve essere riconosciuto e vissuto alla luce della conversione, in altro modo rischia di essere confuso con altri sacrifici annullando, e consegnando all’oblio, tutte le morti che ad esso hanno guardato. Oltretutto, pretendere l’allontanamento di Dio dal mondo implica il non riconoscere la sua costante presenza laddove impera la contraddizione. Non dimentichiamo, allora, un fatto spiazzante: ancora oggi l’uomo costantemente sacrifica ad un assoluto quanto di meglio possa disporre per tentare, a prezzo del proprio sangue, di mantenere disperatamente extra Patrem un mondo in delirio. Solo comparando a questa visione la croce di Cristo, siamo in grado di conferirle il giusto senso. Eppure, l’essersi spinto fino a questo punto a Quinzio ancora non basta se non esita a descrivere la creazione come un agglomerato di orrori, eliminando ogni nostra possibile riserva nel definirlo vittima cosciente, come detto sopra, di uno gnosticismo sapientemente rivisitato. Certo, usando questi toni, si rende possibile una retorica della sconfitta che altro non può che ammaliare tutti coloro che cedono allo sconforto della quotidiana lotta e si sottomettono al fatalismo. Quello che coglie, comunque, dietro gli scenari apocalittici che riesce a costruire, è un elemento antecedente al fiat da identificare, con il linguaggio tipico dei filosofi, nell’atto di libertà originaria attraverso il quale Dio pone se stesso. Naturalmente, questa operazione, pur nella sua pregnanza teoretica, non viene approfondita, poiché l’attenzione cede posto alle tematiche del go’el, il vendicatore - riscattatore. Senza voler essere ripetitivi, questo scivolare da un’interessante intuizione alla sua giustificazione antifilosofica, allontana i necessari e chiarificatori approfondimenti. Quello che viene osservato è un procedere per contrapposizioni attraverso dialettiche ardite. Vediamole. La categoria ebraica del go’el viene anteposta alla concezione aristotelica del dio – essere, allo scopo di voler marcare l’aspetto vendicativo del creatore: ma stanno realmente in questi termini, le cose? Sono pertinenti le osservazioni che ne conseguono, quando si mette in discussione la cattura di Dio nell’orizzonte dell’essere fino al punto di divenire un mito metafisico. Siamo d’accordo sul fatto che la Scrittura non cede, almeno in maniera esplicita, a descrizioni mitologiche di JHWH. Anche se queste premesse non acconsentono affinché la figura del go’el, proprio perché recuperata non attraverso la mediazione cristologica, venga espressamente caricata poiché colui che deve vendicare, spesso, o sempre, lo fa affogando le sue vittime nel sangue della violenza repressiva abusando della violenza stessa. Gesù, al contrario, vendica, e definitivamente libera, applicando l’esercizio dell’amore senza rappresaglia perché la punizione, che vorremmo sempre imputare a Dio, nella norma è già contenuta nella colpa commessa e nelle conseguenze esistenziali che da essa vengono generate nella casualità alla quale, per umana incapacità ed inconsapevolezza, ci si consegna. Dove potranno condurre queste distorsioni? Fino a questo momento, Quinzio ha dipinto le sembianze di un dio che minaccia di cedere definitivamente al suo lato oscuro: un dio che deliberatamente non sceglie il bene delle sue creature e del creato: ma è debolezza, questa o un arrendersi al fascino di dottrine che imputano a JHWH una malvagità che solo il Dio paterno di Gesù porrà definitivamente in crisi? Nonostante tutte le contorsioni speculative, il percorso si presenta estremamente ricco e fecondo così come attuale, dato che ancora oggi, spesso ci sottomettiamo ad immagini di Dio che troppo hanno le caratteristiche di vaghi simulacri. Sono stimolanti, invece, le osservazioni desunte dalla speculazione di autori ebrei contemporanei, attraverso le quali altro non possiamo fare che cominciare a rendere onore ad un debito che la cultura occidentale detiene nei confronti di alcuni di questi pensatori. E’ vero che il concetto di un dio – essere, che viene rappresentato come motore immobile permeato di assoluta immutabilità, ed indifferenza, stride se messo a confronto con la pateticità, della quale abbiano già discusso, del Dio biblico. Gershom Scholem ha notato come la concezione biblica di un Dio vivente non è per nessuna ragione compatibile con il principio che imprigiona Dio all’immutabilità. Hans Jonas tratta di un Dio diveniente, capace di mutare nel tempo piuttosto che allontanarsi nella sua perfezione e completezza, sempre identico a se stesso, confuso nell’eternità. Siamo in fronte a concezioni interessanti, anche se non dobbiamo capitolare alla tentazione di porle in tensione dialettica ed antitetica con l’interpretazione metafisica: perché non possiamo cominciare a parlare di complementarietà infrangendo le barriere di un’incomunicabilità culturale che storicamente non hanno tralasciato di creare conflitti senza vie d’uscita ragionevoli? Lo dobbiamo ammettere! Se Quinzio avesse letto, capendolo Hegel, forse avrebbe intercettato la questione della sconfitta di Dio usando altri toni speculativi. Nonostante le provocatorie conclusioni, rimane da notare, comunque, l’accostamento, seppur furtivo, all’indicibilità del mistero trinitario, quando recisamente critica ogni goffo tentativo di razionalizzazione di questa ineffabile trascendenza parlando di una dinamicità endodivina che annulla ogni limitazione metafisica nell’essere e che rende possibile quel dispiegarsi nell’eternità che allontana Dio da ogni vago incarceramento concettuale. L’attingere alle fonti dalla parte ebraica, permette a Quinzio di rintracciare nuove tematiche per affermare la sua tesi di debolezza e sconfitta. Vengono rinvenuti quegli autori che trattano della finitezza, dell’impotenza, della sofferenza di Dio che non esita a comparare con quella che la cabala descrive come autolimitazione. Anche l’ennesimo richiamo allo spettro di Auschwitz, ripreso ed amplificato attraverso le parole di Neher, Wiesel e Jonas, contribuisce a rafforzare le conseguenze alle quali vuole giungere. Sembra, che se Dio è buono e si rende comprensibile, questo nel senso di come ne parla la Storia sacra, allora non lo possiamo considerare onnipotente. Se, invece, è buono ed onnipotente allo stesso tempo, non siano più in grado di comprenderlo, soprattutto dopo l’ecatombe che Auschwitz rappresenta. Infatti Quinzio così argomenta: “Gli attributi buono, onnipotente e comprensibile non possono stare insieme: Dio è buono solo se non è onnipotente, unicamente a questa condizione possiamo affermare , nonostante l’esistenza del male nel mondo, che Dio è comprensibile e buono. L’attributo dell’onnipotenza deve dunque sparire. D’altra parte, se nessuna onnipotenza si mai data, se Dio non è mai stato e non sarà mai onnipotente, sembra disfarsi il senso stesso del Dio unico: qualcosa o qualcuno, allora, lo limitava o lo limita fin dall’origine, e forse a questo qualcosa o qualcuno dovremmo allora attribuire il nome di Dio” La sconfitta di Dio, op. cit., pag. 44. La citazione è oltremodo interessante poiché schiude orizzonti verso i quali abbiamo il dovere di cominciare a guardare mettendo a fuoco gli strumenti razionali dei quali possiamo disporre. Tutto il discorrere e dibattere fin qui fatto attorno alla questione dell’onnipotenza rappresenta uno dei nodi critici sopra i quali avere l’accortezza di lasciarsi interrogare ed interrogare a nostra volta. Questa domanda, se accolta in tutta la sua portata, può realmente aprire alla possibilità di tornare a pensare Dio rimettendo in circolo questioni che si credevano ormai riposte nel silenzio dell’oblio. Riprendiamo, allora, con un pensiero di Jonas dove sostiene che Dio ha scelto di consegnarsi all’avventura dello spazio e del tempo ed ha rinunciato alla propria divinità per tornare a recuperarla alla fine. Dobbiamo dunque ammettere che questa maniera di pensare ci espone realmente all’avventura riproponendo il gusto di scommettere che la filosofia deve tornare ad assaporare prima di affidarsi alla vertigine della speculazione. Così recuperiamo la passionalità che ha contrassegnato questa ricerca fin dal suo principiare. Senza la passione della scoperta, magari inciampando nel solco dell’errore, Quinzio non si sarebbe esposto osando pensare una debolezza di Dio, che merita di essere rintracciata. Dopo la ripida discesa lungo gli strapiombi di un pensiero che rischia la collisione con la gnosi e lo smarrimento consolatorio dell’apocalittica rivisitata, Quinzio comincia ad arrancare lungo la risalita affidandosi al pensiero dell’ultimo Schelling nel tentativo di teoreticamente fondare la sua idea di debolezza e conseguente sconfitta. Dobbiamo previamente avvisare che il tracciato che sarà seguito risente di una temerarietà non indifferente anche se quest’ultima rappresenta l’unico appiglio sul quale fare forza per uscire dalle difficoltà che l’idea di onnipotenza comunemente concepita rischia di ricreare con prepotenza. Dunque, seguendo il filo rosso del ragionamento apriamo affermando assieme a Schelling che l’onnipotenza implica la possibilità della rinuncia all’onnipotenza stessa. Certo, la rinuncia all’onnipotenza intesa sull’eco delle tentazioni di Cristo nel deserto comincia a diradare le nebbie della confusione poiché Gesù stesso s’appresta ad incominciare la sua predicazione pubblica scegliendo la via cum Patre nell’obbedienza ad un disegno. Il problema rimane ancorato al fatto che siamo noi uomini a ricercare le scuse per parlare di onnipotenza tradita poiché non siamo in grado di rinunciare alla pretesa originaria di sentirsi come Dio. Perché abbiamo scritto arrancare piuttosto che risalire è chiarito dal fatto che la polemica antifilosofica riprende questa volta insistendo sulla povertà della lingua quando cerca di spiegare il mistero di Dio. Che questa inadeguatezza sia vera, è risaputo, anche se non può divenire l’espediente attraverso il quale tacciare di approssimazione ogni discorso su Dio. Spesso, nell’economia della storia del pensiero, i garbugli hanno ingenerato autentiche dispute, ma come si dovrebbe sapere, la filosofia non disdegna quell’accuratezza terminologica che rende possibile il confronto intellettuale fino ad ammettere la necessità del silenzio ove e quando se ne rende necessaria l’invocazione. Ecco perché il linguaggio, anche quando si fa mitico, mantiene una pregnanza tale da non ostacolare la possibilità di pensare. Non dimentichiamo che alcuni pensatori hanno coniato personali lessici per meglio esprimere con forza inaudita, il loro guadagni teoretici. Schelling rimane relegato ad un accenno, una sorta di ponte che conduce a Luigi Pareyson, chiamato in causa appena dopo. Il filosofo torinese ha trattato di un Dio prima di Dio nel tentativo, riuscito e provocatorio, di indicare che c’è un atto di libera volontà originario nel quale Dio pone se stesso. Infatti: “non è quella di Dio, la libertà di scegliere fra due alternative, ma una libertà che proprio nel darsi pone l’alternativa in quanto tale. Ponendo se stesso, Dio pone, insieme, la scelta fra bene e male, e, in quel medesimo atto, sceglie il bene: il male è così da sempre in lui, ma in lui è vinto, soggiogato e superato. Proprio per questo il male è una possibilità che si rende poi disponibile alle scelte di ogni uomo” La sconfitta di Dio, op. cit., pag. 45. Ma può scegliere l’uomo, a questo punto, o già nell’opzione della scelta s’annida la peste della caduta dei progenitori? Se Dio sceglie il bene, alla creatura l’unica strada che si propone è quella che conduce al bene stesso e, di conseguenza, alla vita. Il fatto di intravedere due possibili piste da battere, riservandosi la prerogativa della scelta più o meno, già sconfina nelle desolate lande di un mondo ormai extra Patrem dove l’assioma etsi Deus non daretur, si tramuta in una agghiacciante e sperimentabile realtà. Ecco che, dopo aver ripreso aria respirando l’ossigeno del pensiero che osa caricarsi di una simile responsabilità speculativa, Quinzio ritorna sui suoi passi, cedendo a quel secondo me che comincia a sapere di arbitrario ed approssimato scrivendo: “Le Scritture offrono, invece, secondo me, un quadro diverso da questo, in cui la scelta originaria di Dio non è il bene: e Dio stesso, in definitiva, non mi pare troppo diverso dall’essere, se la scelta, da sempre, del proprio essere Dio, della propria vittoria sul male, in una parola della propria onnipotenza, è necessariamente destinata, per quante vicende di ribellione gli uomini possano tentare, a trionfare, imponendo alla fine il castigo degli empi.” Ibid., pagg. 45 – 46. Sono parole pesanti, parole che offuscano i lumi intravisti e che non riconoscono la bontà originaria della creazione. I toni sono biblici poiché dalla Bibbia traggono la passione della ricerca della fede anche se a quella fede, che deve mettere in crisi, Quinzio rinuncia pretendendo un trionfo sugli empi che Dio già pregusta nell’eternità. Questo facile giustizialismo non paga anzi, spaventa, perché riecheggia la barbara aritmetica della legge del taglione. Ancora una volta la fallimentare debolezza è imputata alla mancata esecuzione del castigo dei malvagi e della conseguente ricompensa dei giusti: così argomentando, Dio rimane misconosciuto. Manca ogni accenno al Dio gratuito, quello che Gesù Cristo ci vuole far conoscere, ma che rimase sconosciuto a Mosè e ad Elia sull’Oreb, quel Dio che non disegna di farsi chiamare Abbà, che fa piovere sui giusti e sugli empi, che perdona e che rincorre la pecorella smarrita. E’ il Dio sconosciuto ed imprevedibile delle parabole che Gesù racconta, ma contemporaneamente l’inconosciuto che si nasconde appeso alla croce e si dona nella luce della risurrezione. Questo è il Dio che spiazza e mette in crisi invitandoci alla conversione con voce incessante. Così possiamo affermare che la colpa originaria dell’uomo si riassume nella mancanza di affidamento, conseguenza che, seguendo l’idea di Quinzio, soggiace ad un processo intellettuale che ha “confuso le carte” della verità di e su Dio. A questo punto della trattazione, viene introdotta la riflessione sull’inno cristologico di Filippesi 2, 5 costruita come ampia critica nei confronti dell’atteggiamento cristiano giudicato fuorviante nei confronti di questa composizione dossologica. La traduzione, personale dell’autore, inasprisce la già spigolosa profondità delle parole intessute da san Paolo tramutandole in autentico linguaggio duro, merita di essere menzionata per intero poiché fornisce la base per considerazioni che pretendono un adeguato approfondimento: “Cristo Gesù, essendo in forma di Dio, non tenne lo stato d’uguaglianza con Dio come una preda, ma si vuotò di se stesso assumendo la forma di uno schiavo, diventando simile agli uomini; ed essendo stato trovato come un uomo per il suo aspetto, si umiliò obbediente fino alla morte, e a una morte sulla croce. Così Dio lo ha esaltato e gli ha il Nome che è al di sopra di ogni nome” La sconfitta di Dio, op. cit., pag 46. Gli accenni filologici, illuminanti perché espongono questo brano ad una serie di punti di vista, meritano un’adeguata menzione visto il fatto che vengono accortamente individuati per sostenere una tesi volta verso una radicalizzazione estrema delle tematiche. La presenza la versetto 6 della parola morphè, forma, consente di interpretare la kènosis, dal greco ekènosen termine derivato dal verbo kenòo - rendo vuoto – come effettivo svuotamento nella privazione totale dell’apparenza nella gloria di Dio. Inoltre, gli echi che ridondano, evocano ancora la dottrina dello Tzimtzùm ereditata da Luria. Tornando al passo in esame, l’analisi si concentra sulla manifestazione esterna del Verbo incarnato nel mondo piuttosto che ad un qualche cosa che accade nell’intimo del divino Vivente. Di conseguenza, secondo Quinzio, il supremo mistero dell’incarnazione rimane concepito quoad deum, come esclusivamente formale, senza ogni minimo rapporto con l’altro grande mistero cristiano della Trinità, dimenticando il principio della communicatio idiomatum seguendo il quale quanto si afferma di Gesù lo si afferma a proposito di Dio stesso. Allora, seguendo questo tracciato dobbiamo giungere ad ammettere che anche il Padre soffre e muore con Cristo sulla croce? Lo spettro del modalismo sembra aleggiare sopra questo cammino di radicalizzazione. Senza una problematica esposizione come quella sopra eseguita, l’affermazione che segue perderebbe il suo principio corrosivo: “E’ Dio stesso che, in Cristo, percepisce come una presa, e cioè come se fosse il frutto di una rapina, il proprio essere Dio. Dio è Dio e l’uomo è uomo, debole, pieno di dolorose limitazioni: che giustizia c’è in questo? La scelta originaria di Dio non è perciò la scelta di ciò che è nei confronti di ciò che non è, di ciò che ha valore nei confronti di ciò che non ha valore, della vita nei confronti della morte, della gloria e della libertà nei confronti dell’umiliazione e della schiavitù, ma è proprio la scelta opposta. Come ha detto Paolo, Dio “ha scelto ciò che non è” (1 Cor 1, 28)”. La sconfitta di Dio, op. cit., pag. 47. E’ oltremodo stupefacente notare come Quinzio prima costruisce per poi demolire e per tornare ad estrarre dalle macerie quei mattoni che egli riutilizzerà in una successiva opera di riedificazione. Questo andamento altalenante, dove talvolta il meccanismo s’inceppa in garbugli concettuali, lo abbiamo già anticipato, coinvolge ad una lettura superficiale perché ha il grosso pregio di scuotere gli animi intiepiditi, anche se, ad un esame attento delle fonti, alcune preoccupazioni sulle conseguenze devono essere caricate della giusta e necessaria attenzione. Per sostenere la tesi della debolezza e della sconfitta, le cadute in sacche oscure del pensiero intaccano addirittura i concetti stessi che si vorrebbero dimostrare provocando inevitabili fraintendimenti. In merito, un caso degno di nota è dato sulle tenui accuse di adozionismo che si possono muovere alla cristologia di Quinzio, lettura che egli stesso sospetta essere contenuta in nuce nei versetti di Atti 2, 36. E’ vero che ancora oggi, quando la catechesi sembra aver raggiunto una diffusione di massa segnata da un conseguente indebolimento, troppi credenti inciampano in simili arruffate definizioni del mistero cristologico, ciò non toglie che coloro che si arrogano la potestà di essere di riferimento al prossimo tentino di non sposare gli errori delle persone che dovrebbero accompagnare nella correzione. Non sembra il caso di Quinzio, dato che l’adozionismo giustificherebbe appieno la sua teoria spostando la glorificazione di Gesù di Nazareth in Gesù il Cristo, solo nel momento estremo della morte sulla croce, ovvero nell’attimo dell’adozione a Figlio da parte del Padre. Se non altro, confidiamo nella possibilità che simili interpretazioni generino dibattiti accesi come accadde durante i primi secoli del cristianesimo, quando le migliori menti ingaggiarono dispute che non risparmiarono vittime illustri. Allora, speriamo che la debolezza, quella teoreticamente fondata, possa fornire nuove prospettive verso nuovi orizzonti speculativi. Nonostante i pericoli, spostare sul lato umano il mistero cristologico, torna utile ad una contestualizzazione del divenire di Dio sulla terra e nella storia. Ecco come questo procedere arruffato e faticoso permetta di esternare alcune considerazioni sulla stato di salute della dimensione religiosa a noi contemporanea nel proposito di giustificare un’approssimazione che, a questo punto, non è più esclusivamente divina, ma diviene umana nell’impossibilità di comprendere con chiarezza il dato che ci viene rivelato. Se emerge un’incapacità epistemologica, a cosa potrebbe tornare utile l’azzuffarsi in discorsi che, alla fine, non troveranno riscontri? Questo nulla approssimativo non presenta niente di un concetto definito e stabile, non lo possiamo ancora definire un chiaro nichilismo teoretico. Quello che viene ritratto è un dio debole, incapace di agire nella storia dell’uomo e che si consuma in rinvii che danno senso al nulla lasciandolo, però, appeso all’indeterminatezza della non dimostrabilità. Rimangono comunque vere le considerazioni dove si sostiene che la dimensione del limite e della finitezza, della debolezza, del dolore e della sofferenza sono le coordinate attraverso le quali Dio si è rivelato e che contrassegnano tutta la parabola biblica. Questo fatto è riscontrabile anticipato nel racconto esodico della vocazione di Mosè quando Dio gli parla dal roveto ardente, dunque, permanendo in un cespuglio di spine, immerso nella sofferenza. Ma come abbiamo ormai più volte ripetuto, la caduta avviene nell’attimo in cui da una visione giudaizzante si transita all’interpretazione cristiana: tutto quanto viene pensato ed elaborato e che dovrebbe raggiungere compimento nell’intercettazione di una cristologica sapientia crucis, crolla nell’ennesima e consunta critica rivolta all’ellenizzazione colpevole di aver strappato la verità della sofferenza e passibilità di Dio per consegnare la teologia alle calme acque della ragione dell’Essere. Questa rimessa indebita, nasconderebbe il Dio che ha scelto la sofferenza e la debolezza, ciò che non è nei confronti di ciò che è, il Dio separato in se stesso, lacerato nei confronti di quanto costituisce la pienezza della propria divinità, permette a Quinzio di concludere: “e questa originaria lacerazione in Dio, che solo alla fine conquisterà il trono della sua potenza e della sua gloria, è il mistero (ossia, nel linguaggio del nuovo Testamento, la verità svelata e rivelata, nell’attesa del suo perfetto compimento escatologico) della Trinità divina.” La sconfitta di Dio, op. cit., pag. 49. Che cosa siamo in grado di riconoscere, ora, in questo procedere? Un discorso che tiene con il fiato sospeso, ma che paga un pesante dazio in contraddizioni anche se, come abbiamo scritto, la potenza della proposta cristiana permane nell’economia e nella logica della contraddizione. Prima viene menzionato Schelling, anche se non appieno compreso, poiché un Dio lacerato in sé non avrebbe mai scelto di permanere cum Patre. Dopo transita a Pareyson considerando il suo discorso temerario, dove, nell’esaltante prospettiva, comunque Dio con forza, e non con debolezza, detiene in sé il principio del male al quale non viene dato seguito. Quinzio propende, al contrario, per un Dio che il male lo permette nella storia attraverso la non applicazione della giustizia. L’inghippo rimane aperto finché non oseremo trattare della giustizia non tanto in termini legalisitici cedendo ad una casistica che Cristo in primis radicalizza per poterla superare nel comandamento dell’amore e della misericordia. Il salto è possibile nel momento in cui cominciamo a pensare la giustizia di Dio nel senso del fare la sua volontà. E se la sua volontà è stata tracciata nella strada dell’esperimentare la lacerazione che Lui stesso a sopportato, e sopporta in sé già nella vittoria finale, all’uomo rimane la comprensione dell’obbedienza che si dovrebbe a tale proposta. Le lacerazioni delle quali si tratta, acquisiscono un peso se vengono mantenute su un piano umano ed esistenziale, nella scissione che l’uomo vive nella perenne lotta immerso nella sua creaturale condizione ed un senso, finalmente, se raccordate con la lacerazione vissuta da Cristo sulla Croce. A questo punto occorre una sana ricapitolazione nella domanda cruciale: come Quinzio fonda la sua idea di un Dio debole? Tornando e costruendola sulla questione del mancato compimento delle promesse, al continuo rinvio di queste teso verso un incerto futuro non sostenuto da una chiara escatologia, ma confuso in un’apocalittica visione consolatoria e nella conseguente impossibilità di amministrare giustizia. Tutte le buone intuizioni, compresa quella sulla sofferenza, anziché sfociare in una valida proposta speculativa ontologicamente modulata, rimangono un nostalgico discorso, una solenne geremiade cantata sugli scogli di un volontario esilio speculativo. Siamo all’opposto di un discorso teoreticamente impostato e strutturato sulla debolezza di Dio, dove avremmo potuto trattare della malattia che Dio stesso ha contratto per amore dell’essere umano e della quale ha contagiato alcuni uomini coraggiosi e responsabili. Un Dio malato è un Dio convalescente, indebolito dalle prove, ma ancora speranzoso della fiducia che all’uomo, malgrado la storia, concede affinché possa scovare l’espediente o l’azzardo, per affidarsi totalmente ad una fede, che è conoscenza, ma che rimane sempre appesa alla scomodità della croce. Non crediamo sia blasfemo diagnosticare una malattia di Dio, perché se tale non fosse, da tempo la storia sarebbe stata chiusa dietro l’ombra del giudizio e non potremmo trattare del soffrire per amore di un Dio costantemente innamorato delle sue creature infedeli. In fondo, e Quinzio non l’ha colto, la Bibbia, ma soprattutto l’Antico Testamento, sono pervasi da una logica matrimoniale in grado di sorreggere i beccheggiamenti della storia umana sul cammino verso l’alleanza e la salvezza. Non abbiamo tanto un etica matrimoniale, piuttosto un modus essendi capace di trasformare nel profondo ogni esistenza creaturale, di fondare uno stare accanto all’immenso mistero dell’Essere che trascende se stesso, imparando l’arte del custodire l’indicibile nella dicibilità del quotidiano esistere. Allora, sarebbe stato prudente scrivere che la debolezza di Dio rimane rinchiusa nella sua stessa capacità di “frantumarsi” fino in fondo per l’uomo, debole anch’egli, quando s’accorge che senza questo incondizionato darsi, certamente descrivibile come rinuncia e contrazione, non sarebbe in grado di riconoscersi convalescente a sua volta e bisognoso propriamente di quel donarsi in grado di conferirgli l’energia utile per iniziare la cura adeguata. 4.2 Il pensare Dio nella sua debolezza: Quinzio (ad)versus Vattimo? Quinzio conclude la sua tematizzazione della debolezza di Dio proclamando che la lettura del libro dell’Apocalisse ci pone davanti ad affermazioni che la ormai defunta, secondo il suo punto di vista, teologia di ispirazione aristotelica non è mai riuscita a cogliere ed a prendere seriamente in considerazione. Potremmo aggiungere che l’aver dichiarato la morte di Dio, inevitabilmente, ne rende attualizzabile la risurrezione nella trasfigurazione dei concetti e secondo rinnovate prospettive ed orizzonti, dunque oltre quella problematicità che ha conferito, e conferisce, legittimità alla domanda. Questa logica, sempre di chiara matrice biblica, rinnova l’attenzione su un debito, come già abbiamo preannunciato, che il pensiero occidentale detiene nei confronti dell’ebraismo. Ma, se talvolta non si contraggono dei debiti, la prosecuzione di una ricerca diventa impossibile, osteggiata dalle ormai anguste riserve speculative delle quali possiamo disporre. Riprendendo: Quinzio riconosce nell’Apocalisse la proclamazione della vittoria di Dio tra inni, scenari costruiti con una sapienza poetica carica di drammaticità evocativa anche se, questa vittoria finale, rimane un dato profetico contenuto nella struttura della fede, in quella promessa delusa per millenni. Così, il nostro sguardo rimarrebbe rivolto verso un futuro sperato, ma abbandonato nella totale assenza di Dio dal mondo, un Dio che deve pervenire alla conquista della sua divinità attraverso la lacerazione e la sconfitta. Giunti a queste conclusioni, il profilarsi all’orizzonte di Quinzio del nichilismo, ci invita ad una necessaria critica attraverso il recupero del pensiero post - metafisico. Quest’operazione ci permetterà di saggiare la consistenza che il nichilismo prospettato dal nostro autore riesce ad assumere quando messo in tensione con l’intercettazione del pensiero religioso attuato dalla contemporaneità. Innanzi tutto è necessario principiare con il definire l’idea di debolezza che siamo in grado di intercettare attraverso la post – modernità per cominciare a delineare una comparazione critica. La scaturigine di una simile impostazione viene fatta risalire ad Heidegger colto nella sua ultima fase speculativa, quando il debito impensato Per un approfondimento di questa tematica torna fondamentale il testo di Marlène Zarader, Il debito impensato. Heidegger e l’eredità ebraica, trad. it. a cura di M. Marassi, Vita e Pensiero, Milano 1995. nei confronti dell’ebraicità si configura appieno ed in tutta la sua vitalità. E’ interessante notare come due autori differenti per sensibilità e formazione incappino nell’incontro con l’ebraismo colto nella sua drammatica eredità. Ancora più determinanti sono le conseguenze di una tale intromissione debita. Il culmen che al nostro scopo torna rilevante, è rappresentato dall’evoluzione teoretica di simili idee nel momento in cui si prospetta un accedere all’essere delle cose secondo un senso declinante, “depotenziando ed indebolendo le categorie forti della modernità, e alleggerendo il soggetto dai fondamenti che hanno indebitamente sovradeterminato il pensiero dell’occidente. Accedere all’essere in questo senso declinante e debole rappresenta l’unica chance per i postmoderni, per un pensiero che voglia mantenersi nella Verwindung”. P. Ferrari, Philosophia Crucis, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2002, pag. 135. Il pensiero che sgorga da questo modo di procedere è in grado di scalzare il fondamento metafisico atto ad esprimere la stabilità inamovibile rappresentata dalla sistematica speculativa contro la quale Quinzio si è scagliato a più riprese. Quest’idea trova esplicitazione nella possibilità ermeneutica di poter risalire all’infinito come pensiero della ram – memorazione, non dunque solo come una semplice presentificazione del passato, ma soffermandosi sull’apertura che rimane assicurata all’essere stesso. Solo sulla base di queste prime considerazioni, notiamo come lo spessore teoretico sia differente e maggiormente in grado di giustificare e sostenere posizioni provocatorie e fervide di conseguenze speculative. Non abbiamo un ricorrere al passato con un senso di nostalgia e rimpianto, ma per avvistare la possibilità, attraverso la memoria, di determinare il presente su un evento in grado di essere fondante. E’ una chiara eredità ebraica, questa, espediente che pone nella possibilità di ri - determinare l’intera temporalità malgrado l’apparenza delle sconfitte che si vogliono imputare a Dio. Anche se gli autori che hanno decodificato questi pensieri spesso si sono dichiarati non credenti, le premesse ci mettono davanti ed un pensare religioso a tutti gli effetti. Ram – memorare, così, permette di cominciare a pensare l’essere come differenza, come un qualche cosa che differisce in molteplici sensi: “anzitutto, nel senso che, nel dare, non si dà come tale, e quindi differisce come ciò che sfugge, che è stato, e da cui la provenienza, nel suo provenire, anche sempre prende congedo; ma differisce anche sempre come ciò che è diverso, che nel suo non ridursi all’apertura aperta differisce in quanto la disloca, la sospende (la fa dipendere, la appende) nel suo perentorio carattere di presenza”. G. Vattimo, Le avventure della differenza, Garzanti, Milano 1980, pag. 138. E’ un pensiero sfuggevole, che scivola rimanendo appeso, un pensiero che erompe dalle geometrie entro le quali si è ripetutamente tentato di rinchiuderlo contraendolo nel fondamento. Questo legittimare dal punto di vista teoretico l’idea che sottostà alla dottrina di Luria, per estensione, comincia a gettare alcuni lumi sul dramma interiore che si consuma nell’intimo dell’essere, un dramma che genera debolezza, a seguito della lotta immane che si combatte, ma che non desiste nell’abbandono alla sconfitta: non abbiamo, allora, un semplice contrarsi, un fare posto per liberare l’altro da sé nella conseguente impossibilità di riprendersi lo spazio ceduto pianificando quegli interventi salutari dei quali l’umanità ha sempre una tremenda necessità. Questo contrarsi è, piuttosto, uno stare ad osservare che cosa e come l’altro da sé tenti da conferire un senso al suo esserci nell’esistenza in quanto letteralmente gettato fuori dall’essere stesso. Questa gettatezza, caricata dello spaesamento che contraddistingue la creaturalità umana, riesce a guardare verso il fondamento, in grado di irrompere nella storia attraverso la forza dell’evento, quando si libera dai pregiudizi della sicurezza epistemologica per cedere all’incapacità di dire dandosi al silenzio della contemplazione attraverso un linguaggio fatto di segni e simboli. Piuttosto che una irrimediabile perdita, la debolezza, deve cominciare ad apparire come un arricchimento speculativo quando, oltre alla affaticata lingua della quale possiamo disporre, riusciamo ad acquisire una ricchezza semantica che trascende i limiti del segno grafico e grammaticale. Allora, scorgere la realtà esistenziale circoscritta da queste coordinate, permette di comprendere quanto l’essere si dia nella differenza insomma: la creatura, l’uomo, esiste, ma differisce dall’essere, del quale può essere solo custode e diligente operaio. Se guardiamo al mito edenico, troviamo anticipate queste affermazioni dove l’adam appena plasmato viene posto nel giardino per averne cura. Ram - memorare correttamente questo evento, quello della creazione come irruzione di Dio in quello spazio che ha lasciato dietro di sé, alle sue spalle, permette di risignificare la nostra stessa contemporaneità riposizionando l’uomo all’interno del grande meccanismo che regola l’universo intero. Si pensi, solo di sfuggita, a quanto avremmo ancora da dire sulla realtà del lavoro umano, se raccordassimo la speculazione al compito originario affidato all’uomo, quale dignità dovremmo ricercare e comprendere! Procedendo lungo questo sentiero, comprendiamo perché siamo in grado di precisare la figura formale del pensiero debole come un sapere che ram – memora esercitando quella pietas che: “si limita a lasciar parlare i messaggi che la tra – ditio invia. Pietas evoca soprattutto finitezza e caducità: attenzione verso le tracce di ciò che è già vissuto, apertura possibile di ogni orizzonte”. Philosophia crucis, op. cit., pag. 135 – 136. Concepita secondo questi termini la Pietas descrive appieno la finitezza e la caducità dimostrando un’attenzione accesa verso i segni di quanto e ciò è già stato vissuto attraverso l’apertura resa possibile verso ogni orizzonte. Dunque, la debolezza, non è chiusura nell’isolamento dell’impotenza, ma una dinamica attesa, dove l’ad – tendere acquisisce senso nella tensione “a” che lo sorregge. Quest’attesa, che non osiamo definire esclusivamente umana, ma inizialmente divina, esprime nell’intimo il seme della progettualità, quel gettare avanti che può assumere i tratti della comunionalità quando Dio e uomo si ritrovano affiancati nell’unico intento. Allora, la debolezza, permette nell’silenzio dell’humilitas di cominciare a discernere trasformando il quotidiano guardare nell’attenzione del vedere, quando gli assiomi veritativi s’aprono lentamente alla comprensione. Non dobbiamo confondere, inoltre, la debolezza come una sospensione del giudizio per incapacità o limitazione, poiché la dimensione dell’ascolto, in questo specifico caso, assume connotati irrinunciabili conferendo la capacità di leggere ed intendere linguaggi e segni oppressi da un’eccessiva ingombranza metafisica. Pertanto, questo ascoltare, dona, infine, la sensibilità necessaria affinché un canto speculativamente monodico e, talvolta, monotono, venga contrappuntato in una polifonia dai toni sommessi e minimali che appena osa infrangere il necessario silenzio, utile affinché un orecchio ormai assordato dalle cacofonie raziocinanti ricominci a percepire i differenti suoni e le diverse armonie. Tutto questo richiama un saper stare che all’uomo non sembra congeniale, anche se solo in questa direzione il pensiero riscopre quella dimensione religiosa in grado di intessere legami. E sono proprio i legami a contraddistinguere e motivare la Pietas: “questa delinea, insieme ad una logica – retorica della verità “debole”, anche le basi di una possibile etica, nella quale i valori supremi…sono le formazioni simboliche, i monumenti, le tracce del vivente…in tutto ciò, nella concezione ‘retorica’ della verità, l’essere concepisce l’estremo del suo tramonto…vive fino in fondo la sua debolezza”. G. Vattimo – P.A. Rovatti (a cura di), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1983, pagg. 25 – 26. Vivere fino in fondo la debolezza richiede un coraggio tale da arrivare addirittura a scommettere sopra una simile condizione. Ecco perché possiamo trattare non di un pensiero della rinuncia, dove il ritorno al passato viene sempre vissuto con nostalgia e rimpianto, dove spesso ci si concede a manie antiquariali percorse da un edonismo fine a sé stesso che nell’estraniazione trova la sua massima espressione come nel vagheggiamento di un’età dell’oro originaria ed escatologica, cedente alla consolazione piuttosto che alla meraviglia del fare filosofia e, perché no, teologia. Al contrario, questo modo di procedere è, come sostiene Pier Aldo Rovatti, “un atteggiamento,…un esercizio, una condotta, una sperimentazione, un viaggio controcorrente. Qual è la meta? Possiamo solo sapere qual è la direzione o forse soltanto qual è il modo, lo stile di ogni tratto. Quali sono, a ogni momento le condizioni minime ma necessarie per tenere la rotta. O soltanto: quali possono essere le correzioni continue, i salti, i piccoli scarti da chiedere alla nostra esperienza…Possiamo imparare una specie di ‘attenzione’, esercitarci in uno stato di allerta, in un’arte del sospetto, in una modulazione attiva all’inquietudine. (…) C’è dunque qualcosa di transitorio e di intermedio nell’espressione ‘pensiero debole’. Essa si situa provvisoriamente tra la ragione forte di chi dice la verità e l’impotenza speculare di chi contempla il proprio nulla. Da questo nesso può funzionare, per noi, come un indicatore”. Il pensiero debole, op. cit., pagg. 50 – 51. Nella sua essenza, questa citazione è fervida di osservazioni utili al nostro scopo. Principiamo dalla percezione del nulla, non una condizione di abbattimento ed annientamento totale, ma una cosciente situazione, un esser – ci che si schiude alla possibilità, insomma, usando un linguaggio ossimorico, un nulla che possiede un suo spessore! Da ammettere è che percepire il proprio nulla, nella quotidianità, risulta una delle operazioni più difficili quando non irrealizzabili, almeno in condizioni ordinarie. Rimane, comunque, un’operazione che l’essere umano pensante può realizzare principiando dalla sua dimensione esistenziale, dunque dall’esperienza e sull’esperienza. Un Dio capace di annullarsi secondo queste coordinate, dobbiamo anticiparlo, anche se non sono conclusioni formulate dal pensiero debole, è un Dio onnipotente, in grado di scendere al livello dell’uomo rimanendo Dio allo stesso tempo, assaporando l’umanità in tutta la sua bassezza: non è sconfitta, questa, ma un mettere nuovamente in crisi l’uomo nella sua strutturalità. Quinzio comprende la natura stupefacente della kènosis, la assapora con toni poetici, ma non si lascia accompagnare nella risalita lungo il sentiero del ad- tendere, perché alla fine, gli manca l’humilitas necessaria, poiché cede al grido che invoca giustizia, lo stesso, profetico, di Elia sull’Oreb, quando per ben due volte proclama il suo zelo per JHWH misconoscendo la verità nuda della teofania, dell’onnipotenza che si disvela nella donazione totale. Nonostante questo, lo ammiriamo per la potenza veemente, per il richiamo alla veglia, per la consegna d’essere sentinella anche se, come appare, la gravità di questo compito scema nella speranza, sottaciuta, che il nemico mai arrivi, per non rinunciare alle comodità di uno ruolo. Ancora un accenno alla citazione. Interessante il rinvio alle tematiche del viaggio da compiere, alla necessità di fuori uscire dagli ozi offerti dalle sicure metropoli esistenziali per un dove che ancora non assurge a meta, quando il rinvenire una direzione assume importanza fondamentale. All’inizio di questo faticoso cammino abbiamo accennato al viaggio che l’uomo deve compiere richiamando alla memoria le figure di Abramo e Ulisse. E’ un tema coinvolgente, anche se esula dal solco di queste riflessioni, ma che per un particolare andrebbe rubricato: il fatto di costruire o rinvenire quelle condizioni minime ma necessarie per mantenere la rotta. Abbiamo accennato allo sguardo rivolto al firmamentum, ad una verità stabile e non ondivaga, ma per guardare il cielo ci dobbiamo, a nostra volta, abbassare, ed affidarci alle condizioni meteorologiche favorevoli, alla lungimiranza della nostra vista, magari provata dalla fatica della ricerca, ma accesa ancora. Dobbiamo precisare e comprendere, per non cedere alla consuetudinarietà della lingua parlata, come la debolezza non affermi, primariamente, stanchezza, malattia, infiacchimento, ma assuma un senso compiuto solo quando posta in tensione dialettica con la fortezza, divenendo la goccia che, con un lento lavorio di corrosione, cava la monoliticità di una roccia. Così, “la metafora infelice del ‘pensiero debole’ può allora diventare felice se indica uno stile possibile per il pensiero, un atteggiamento di prospettiva. In tale senso la debolezza pretende l’esercizio di un pudore nei confronti delle pretese teoretiche veritative: il pudore come discrezione dell’esercizio di quella necessaria discrezione che accompagna la metafora dell’abitare la dimora, come luogo della possibilità della dischiusura dell’esserci. Questa discrezione si pone come etica, ma non nel senso di un sapere normante, quanto invece di un abitare indebolito, chiaroscurale, l’esperienza umana”. Philosophia crucis, op. cit., pag. 137. E’ appunto su queste intuizione che dobbiamo riconoscere una relazionalità con quanto Quinzio pensa a proposito, idee presso le quali non mancano accenni ad un rigorismo etico come necessario lungo la preparazione verso l’apocalisse anche se è differente l’impostazione. Nel caso del pensiero debole l’atteggiamento prepara la possibilità dello speculare proponendo una polisemia di significati, mentre per il nostro autore la richiesta etica si presenta come normativa ai fini del giudizio finale. Inoltre, mentre l’esistenza viene rintracciata al modo di un’esperienza chiaroscurale, imprecisata, ma non negativa, le descrizioni del nostro autore sono all’opposto, abbandonate alla tragedia consumata piuttosto che consegnate al dramma della quotidianità. Concepire il pudore come momentanea sospensione etica, aiuta a ri - vitalizzare il dinamismo della kènosis, quando riconosciamo di essere ebbri, e principiamo la lenta opera dello svuotamento per ripristinare una condizione umbratile nel soggiorno umano. Inevitabilmente, il pudore schiude alla pazienza, quella stessa necessaria come atteggiamento fondamentale ed irrinunciabile nel disporsi di fronte all’altro. Colui che è patiens è, in primis, un individuo che è in grado di patire, di sopportare senza sottrarsi ad una condizione che significa scomodità, nonché di patire con quanti altri odano la medesima responsabilità, provando il sano gusto del cum – patire. Di conseguenza, l’impaziente è da identificarsi con una persona che non vuole avere pesi sulle spalle, un uomo che sfugge sottraendosi allo sforzo che è invitato a sostenere. Rinunciare alla pazienza, allora, sarebbe come giustificare la totale assenza di compassione che contraddistingue la contemporaneità, dato che gli esseri umani in grado di avere pazienza sono sempre meno da quando impera l’etica del tutto e subito. Questo si aggrava nell’attimo in cui si scivola nell’impazienza escatologica che, di contro, viene messa letteralmente in scacco da un proporsi secondo le coordinate del patire, quando, in un certo senso, si viene invitati a vivere l’attimo della comprensione che determina l’apertura nei confronti del differente, soprattutto qualora siamo in grado di scorgere dietro il momento, il kairòs, il tempo opportuno che irrompe nella temporalità quotidiana come possibilità; questa è l’eternità che feconda la perennità non riprendendosi lo spazio concesso, ma significandolo nel suo profondo. Quante opportunità eliminerebbe l’impazienza, allora? La pazienza è la stessa del custode posto a coltivare il giardino che sa non essere suo, ma dal quale può trarre e godere i frutti del suo lavoro. Questo è l’atteggiamento dell’uomo che abita la dimora custodendo gelosamente le cose che gli sono state affidate nonché conservando il senso del mistero dalle infinite ed inesauribili possibilità. Cosa potrebbe significare una affrettare i tempi senza lasciarli maturare? Invitare Dio a rinunciare alla Pietas che mantiene nei confronti dell’uomo affinché la maggior parte possa comprendere preferendo, a questa misericordia, una folgorante giustizia distributiva, non ha nulla di religioso ne tanto meno di cristiano. Dio lascia essere perché l’uomo impari a compiere altrettanto: ed anche questa è onnipotenza, dato che l’individuo che lascia essere oltre ad accettare la differenza, abita la quotidianità dimenticando l’usurpazione della padronanza che crede di poter esercitare sul mondo delle cose. Occorre fermarsi un attimo per cominciare a riordinare le idee tratte fuori dalla speculazione. E’ interessante notare come il procedere ci abbia condotto a mettere sub judice le conclusioni di Quinzio usando le sue stesse idee e rafforzando il nostro sospetto in merito ad una nostalgia gnostica dispersa tra le sue pagine. L’impazienza escatologica che si ripropone sempre con maggior vigore, denota un’incapacità a compatire la condizione umana così come si propone nella quotidianità e questo non voler stare ad ogni costo, conduce a sottrarsi dal compito al quale l’uomo è chiamato: l’aver pazienza per motivare l’attesa. Solo così la passionalità, più volte sottolineata, avrebbe fornito i suoi migliori frutti. Ma il sottrarsi di Quinzio sembra apparire come strutturale, dato che lo invita a ricercare motivazioni consolatorie ricuperando miti e dottrine che continuamente lo espongo al fraintendimento. Abbiamo visto come attraverso il semplice accenno ad una maggior pertinenza ed osservanza teoretica siamo riusciti a porre letteralmente in crisi un idea di debolezza senza fondamento ed un consequenziale nichilismo chiuso nella sua autocontemplazione. Inoltre, aver avuto l’accortezza di raccordare la dottrina dello Tzìmtzum con l’idea del lasciar essere, non avrebbe gettato Dio nell’abisso della sua lontananza confinandolo in quell’impossibilità d’intervenire che gli viene imputata. Al contrario, proprio perché Dio ha lasciato essere l’altro da sé nella creazione, si rende capace di vivere dal di dentro l’esperienza quotidiana dell’essere umano che, paradossalmente, nella sua personale esperienza può anche negare il lasciar essere a Dio dentro la sua interiorità e nella sua esteriorità. Anche se potrebbe non piacere, questa passività estrema indica un’onnipotenza in grado di scardinare ogni comune modo di pensare. In questo senso riconosciamo in Dio quel pudore, quella riservatezza che esprimono un ritiro, un retrocedere che potrebbe arricchire la significatività della kènosis, realizzata nell’estrema segretezza della gestazione e della vita neonatale, quando l’esposizione alla precarietà si esprime alla massima potenza. Questo consente al pudore di assumere il detto dalla mitezza, l’espresso dalla non violenza, l’apertura infinita della tolleranza. Un modo d’essere nel mondo al quale possiamo partecipare riconoscendo un percorso fortemente etico fin dal suo fondamento, ove l’espressione stessa di una moralità avviene già nell’atteggiamento con il quale ci poniamo davanti al mistero che si dischiude nella sua polisemica siginficanza. Proviamo, dunque, a dire Dio cogliendolo nella sua debolezza cercando di circoscrivere il significato nichilistico che si rintraccia comparandolo con le soluzioni elaborate da Quinzio. Dobbiamo principiare ammettendo l’originalità del sentiero tracciato dal pensiero post - metafisico nell’atto di congedare la perentorietà della modernità, espresso nel dire evocato dal nichilismo. Quest’operazione, che ad un esame superficiale potrebbe apparire lesiva per alcune sensibilità, al contrario ci permette di intercettare il cammino tracciato dalla tradizione religiosa dell’Occidente. Questo connubio prevede una presa di coscienza irrinunciabile affinché la proposta ermeneutica non smarrisca il suo intento originario ovvero, quello di non rinnegare la propria vocazione nichilistica, onde evitare ricadute in una fermezza teoretica eccessiva, dove la fissità degli enunciati impedisce ogni possibile messa tra parentesi del giudizio aprendo al lasciar essere l’altro nell’espressione della sua ricchezza speculativa. Dunque, costruita secondo queste linee fondamentali, l’ermeneutica acconsente ad essere intesa come l’elemento di raccordo con la religione e le sue forme espressive e ed esistenziali. A questo punto, cogliere come quest’operazione possa condurre verso la fecondità sperata, aiuta a leggere l’apporto ermeneutico importante laddove, attraverso la serrata critica dell’idea di verità intesa come elemento sempre verificabile, spesso soggettivo, intacca le basi razionalistiche che hanno prodotto l’impossibilità di pensare la religione, ma anche di viverla nella sperimentazione esistenziale della quotidianità. Questo non vuole affatto significare che da una tale metodologia potranno nascere argomentazioni atte a raccomandare una concezione ed impostazione religiosa della vita, proprio perché rinuncia alla stabilità della scienza, quella stessa che ha condotto alle più drastiche interpretazioni ateistiche. Non dobbiamo percepire questa via come una rinuncia alla ragione, un abbandonarsi alla fatalità dell’essere gettati e basta, ma come una tentativo di riprendere fiato durante una scalata che fino a questo momento è stata tecnica pura, preparazione ferrea, per cominciare a seguire l’estro dell’improvvisazione, quella capace di carpire al silenzio le adeguate armonie. Il ritorno della religione, secondo la proposta di Vattimo, può avvenire secondo questo itinerario e per questo, allora, non sarà un episodico riaffacciarsi sul mondo con andamento altalenante in coscienze intiepidite dalle continue frantumazioni del senso dell’essere. Ed è sulle rovine delle certezze ormai crollate, che questo cammino muove il suoi passi, osservando con pudore quanto sta attorno, accogliendo ogni minima movenza. Per questo il ritorno della religione si presenta in sintonia con l’annunciarsi del post – moderno appoggiandosi, ormai senza reticenze, alla propria appartenenza biblica e cristiana. Anche questo andare verso il testo biblico, appare importante coglierlo nella sua intima accezione, ovvero, secondo la prospettiva di Vattimo, riconoscendo come nella nostra specifica esperienza religiosa sono offerti e consegnati nel tempo attraverso la catena di una tradizione che, con sapiente opera di mediazione, non li lascia sussistere come oggetti intangibili ed immodificabili. Osserva Ferrari, a tale riguardo: “La tracimazione teologica del senso va quindi riguardata come strutturalmente interpretativa, come tra – mando e mediazione continua di significati, come deiettività permanente di ciò che si da e si tra – manda nella storia” Philosophia crucis, op. cit., pag. 140. Capire il luogo della provenienza di una concezione, aiuta a rintracciare il significato positivo da attribuire alla religione stessa, finalmente leggibile come ritornante, allontanandola da ogni possibile ricaduta nel semplice ed esangue accadere socio – politico e culturale. Intesa sotto questa nuova prospettiva, la religione permette di abbassarsi per incontrare i livelli della radicalità esistenziale, accogliendoli passando attraverso i suoi versanti indeducibili razionalisticamente. Quali sono questi nuovi orizzonti? La morte, il dolore, la preghiera, la malattia, dimensioni “cruciali, filosoficamente inespugnabili”. Ibid., pag. 140. Si conceda, a proposito, un’osservazione sull’aggettivo cruciale. Le croci vanno vissute in tutta la loro durezza, non evitate perché ancora fanno scandalo mettendo in scacco la ragione. Proprio perché sono scandalo, pretendono un approccio maturo nella consapevolezza dei limiti che segnano il pensare umano, ma,lo abbiamo già scritto, dire limite non vuol dire rinuncia, piuttosto consegna al silenzio dell’epochè, dove si incomincia ad osservare l’altro senza pretese previe.In questo senso, il pensare riesce a scovare nuovi orizzonti abbandonando l’eccessiva ansia problematizzante ormai assolutizzata nella pretesa di un’impossibilità speculativa che solo nella totale apertura e donazione riacquista quel significato e quello spessore che riempiono di possibilità il nichilismo stesso. Dobbiamo notare, comunque, che questi significati positivi perché fondanti, non discendono dalla riflessione e produzione intellettuale, ma assumono peso grazie ad un linguaggio, evocativo e polisemico, che la tradizione biblica e cristiana ha codificato ed offerto. Quando, all’inizio, abbiamo accennato alla possibilità, più o meno, di adottare un linguaggio consono ad una rinnovata capacità umana di dire Dio, sulla base di quanto accennato, siamo in grado di cominciare a balbettare una lingua ritrovata, dove la potenza semantica dell’evocazione, della suggestione e della partecipazione emozionale alla giusta foga della ricerca salvifica, perché fondante un senso per l’esistenza nella quotidianità, si decifra nella realtà. Infatti Vattimo motiva questa novità debolmente annunciata sostenendo che: “L’ermeneutica filosofica moderna nasce in Europa non solo perché qui c’è una religione del libro che concentra l’attenzione sul fenomeno dell’interpretazione; ma perché questa religione ha alla sua base l’idea dell’incarnazione di Dio, che concepisce come Kenosis, come abbassamento e, tradurremmo noi, indebolimento.” G. Vattimo, Oltre l’interpretazione, Laterza, Roma – Bari 1994, pag. 60. Anticipiamo un’osservazione. Mentre Quinzio riconosce una debolezza che si traduce nell’impossibilità totale, a scapito, dunque, di una corretta impostazione teoretica di problematiche teologiche e cristologiche con pesanti ricadute sull’economia storico – salvifica, ma annunciandosi come cristiano – osservante ed intransigente; Vattimo si consegna come un uomo religioso secondo una prospettiva cristiana autentica, pur permanendo nella sua debolezza. Anche questo è un paradosso della Croce, in grado di assurgere a sigillo di un sapere maturo che tenta di risalire la china della verità. E non dimentichiamo che la paradossalità della croce, non si sublima nell’annullamento totale, ma in quell’evento che dischiude alla luce sfolgorante della risurrezione, quel ritorno che Cristo ha già preannunciato e vissuto come meraviglioso anticipo, e non fuorviante e consolante rianimazione di un defunto. Ma Quinzio, rifiutando ogni contaminazione filosofica, ed appellandosi ad un ebraicità che, a sua volta non ha mai rigettato la sfida della speculazione svuotandola della sua carica filosofica, si è consegnato ad un mondo dove, dato il problema che Dio ancora pone, anziché mettersi in cammino, ha scelto l’abbandono. Riprendendo la ricerca, il legame che viene riconosciuto ed approfondito è quello che si tende tra ontologia nichilistica e Kenosis di Dio evitando le secche delle pure e semplicistiche associazioni mentali. Il fondamento, anche per coloro che credono, è autorevole in quanto legittimato dalla Scrittura stessa. Non siamo, dunque, davanti, ad una via d’uscita che si snoda attraverso le comodità d’un atteggiamento compromissorio, piuttosto ad un autentico ri – conoscere. La scienza ermeneutica, essendo posta come sapere filosofico, non si costruisce sulla secolarizzazione dei contenuti della rivelazione cristiana ed in primis del dogma dell’incarnazione di Dio. L’interpretazione è, innanzi tutto, e lo ribadiamo, un ascolto delle altre voci, un autentico ob – audire dove cessa la prepotenza saccente di quanto fortemente fondato. Quest’autorità ingombrante è quella che Quinzio rifugge cedendo alla generalizzazione di chi, per mancanza di pazienza, rischia di unire il grano al loglio, anziché separare. Vattimo, al contrario capisce a fondo la religione avvicinandola come struttura declinante. Così argomentando siamo finalmente in grado di leggere l’Incarnazione, come una struttura di indebolimento dell’Essere nella dismissione di ogni pesantezza perentoria per consegnarsi alla debolezza della storicità finita. Allora, la Kenosis si trasforma in una vicenda interpretativa, un evento fondante al quale guardare nei momenti quando le ricadute negli smarrimenti di senso minacciano la sperimentabilità dell’esistenza. Questo processo si esplicita in un continuo tramandarsi di significati liberati da ogni egoistica riduttività, finalmente consegnati all’economia del dono continuo. Così anche il concetto stesso di Kènosis acquista una chiarezza teoretica laddove, per eccesso di prudenza, non si è mai voluto andare a trafficare razionalmente. Non è dunque blasfemo, tanto meno fuorviante, parlare di affinità tra un’ontologia nichilistica così pensata e costruita e la storia della salvezza, quando si comprende che l’abbassamento equivale al non voler trattenere nulla in sé e su sé stessi rinunciando, di conseguenza, ad ogni possibile autoritarismo. Questa è la poetica, mirabile, del divino che si immerge nell’umano senza pudori e reticenze, ma abbandonandosi totalmente. L’essere si dispone nella miglior condizione possibile a tale proposito, accogliendo la Kènosis alla stregua di un ulteriore arricchimento. Tutto l’Evangelo possiede una simile intonazione, soprattutto laddove gli accenni ad una carità incondizionata assumono, per una ragione congelata nella freddezza dell’assoluta assiomaticità, i connotati di un autentico spiazzamento, quando la crisi si mostra inevitabile. Non dobbiamo cadere nell’errore di arrenderci per concepire questo fatto come una mera sconfitta, ma un aggiuntiva possibilità che ci viene conferita nella gratuità dell’esserci nel tentativo di mutare angolazione alla visuale. Solo colui che si concede alla messa in crisi, può accedere al discernimento, e questa appare come una delle prerogative fondamentali del pensare debole, quando le voci si fanno troppe e prepotenti. Infatti discernere, dal latino cernere ovvero scegliere posposto al suffisso dis, due volte, dà facoltà di cominciare a selezionare con estrema attenzione ed attitudine, quando torna utile confermare che il discernimento è possibile solo per coloro che si lasciano mettere da parte, senza sconfinare nell’atteggiamento passivante, gettare fuori per osservare. Le ricadute esistenziali son forti ed evidenti anche perché trasmettono all’abbandono quella carica coscienziale che rende consapevole un simile darsi, che è il darsi stesso dell’essere, nella Kènosis. Comprendiamo, allora, perché seguendo la pista battuta da Vattimo, la solidarietà speculativa che sorge tra cristianesimo e metafisica deve essere necessariamente posta da parte con coraggio speculativo. Certo, lo dobbiamo ammettere, questa operazione pretende la rinuncia ad un bagaglio concettuale che, in effetti, ha sempre giocato la sua forza sulla esigenza di possedere esclusivamente l’accesso veritativo sul reale così come la possibilità del correttamente pensare. E’ singolare notare come da questa stessa pretesa, accusata anche da Quinzio, scaturisca tutta la violenza che il cristianesimo ha esercitato sulle singole cose e sugli uomini, facilmente osservabile attraverso un veloce excursus storico e culturale. “Il sapere dei primi principi non lascia spazio alla libertà di poterli interpretare nella dinamica storica, perché, in tal caso, smetterebbero di essere primi. Proprio da questa hybris originaria discenderebbe quella traiettoria nevrotica che Nietzsche imputò all’uomo cristiano, coinvolto in quella morale del risentimento e della schiavitù tipica di chi, non riuscendo a vivere senza immutabili, ha continuamente bisogno di metafisiche rassicurazioni” Philosophia crucis, op. cit., pag. 142. Sembra che la condizione esistenziale dell’uomo pensante sia quella di mantenere desta la propria attenzione speculativa attraverso un vivere costantemente esposto all’inquietudine ed all’ansia dello scoprire. Questa, inoltre, è un’ulteriore mettere in crisi quella concezione del sapere edificata sulle sicurezze interpretative, sui fondamenti irrinunciabili, dimenticando che una certa sapienza, anziché poggiare sulle strutture di un monolitico pensiero, rimane appesa a quelle esili sporgenze che alla realtà umana vengono concesse. Allora, mettendo in crisi, dubitando, perché non dirlo, questa concezione dove il rigore teoretico soppianta il pluralismo delle osservazioni, autorizza ad ammettere un rispetto totale della libertà consentendo il non precipitare in fondamentalismi accecanti e reazionari comportanti inevitabili rischi quali l’allontanamento da ogni possibile umanizzazione del pensiero in virtù di una scientificità fredda ed impersonale. Ebbene, il sentiero più volte storicamente interrotto, rimane quello della Kènosis, nella volontaria sottrazione all’assolutezza percettiva dell’Atto puro e come consegna, inoltre, alla libertà del divenire storico stesso. Questa chiarezza aiuta a scorgere quanto la ricostruzione di Vattimo avvenga dal di dentro la stessa filosofia accogliendo nuovi linguaggi ed accettando la continua rimessa in circolazione di idee rilette ed appropriatamente elaborate. Quinzio, invece, si libera dalla pesantezza metafisica da lui giudicata in eccesso, ma, una volta depauperatosi d’ogni fondamento teoretico, non ricostruisce per soffermarsi a contemplare il vuoto, non il nulla da vivere e capire. Una prospettiva debole, per di più, accondiscende a rintracciare, anche se non lo fa, il volto di un Dio amorevole che si rende libero da ogni necessitante e necessitata immutabilità, un Dio che non coincide assolutamente con il dio tratteggiato da Quinzio, quel dio che si ritira per ritrovarsi incapace di reintessere un dialogo con il mondo che ha creato come altro da sé. Il Dio amorevole, al contrario, si dona completamente all’altro da sé, poiché questo altro da sé è già in sé stesso accolto come suggerisce la dinamica trinitaria. Così comprendiamo assieme a Vattimo quanto ogni possibile assolutizzazione non giovi a Dio ed all’uomo che si allontana mentre è allontanato. Potrà sembrare paradossale, eppure, nell’economia di una ricerca, occorre incappare nelle secche dell’assolutizzazione per comprendere quanto anche un momento di stanca possa apportare di nuovo alla analisi stessa. Così ci spostiamo verso la constatazione che l’idea che emerge di caritas, debolmente pensata, sovrasta e vince l’ombra della croce aprendo ad un’eccedenza di pietas che si oppone alla logica della sequela Christi, dunque nel segno di una rinuncia alla dimensione comunitaria dell’esperienza religiosa per scendere nella solitudine della ricerca modulata sulla ram – memorazione che esclude, non lasciandoli esprimere, tutti i messaggi forti della tradizione. A questo procedere consegue, inevitabilmente, una preminenza della morte, da intendersi come caducità e finitezza dell’essere, sulla radiosità della risurrezione, seguita dalla presenza kenotica, intesa attraverso la sua accezione etica, espressa nella tragicità cristiana della dedizione totale e incondizionata. La fisionomia dell’uomo pensante che sottende a queste premesse è interessante poiché sospinge verso una riscoperta della vita solitaria e contemplativa nella ricerca costante di un silenzio, di per sé rassicurante, per aprirsi alla ricerca, attraverso una prospettiva circolare, ad un sapere che non riconosce confini d’appartenenza previi, ma accoglie ed accetta tutto quanto rappresenta l’altro. Naturalmente, un simile metodo presenta dei limiti intrinseci. Laddove Quinzio cade nella totale assenza d’amore nello sprofondare nichilistico della sconfitta, Vattimo si rinserra in un solipsismo speculativo dove l’individuo, che cessa d’essere sub – jectum, si pone come massimo in relazione con altri individui immersi nella loro solitudine. Non dobbiamo sorvolare sulla sensazione che un tale proposta rappresenta osservandola da un versante esistenziale ovvero: una sorprendente condizione di attesa, di precarietà desta, dunque sollecita nel mantenersi aggrappata ad uno stato di veglia speculativa e perché no, emozionale, attraverso la quale rendersi atti “a”, costruendo la possibilità dell’accoglienza. Ecco perché siamo in grado di giudicare buono il primato della carità così inteso dal pensare debole in quanto non risulta improprio nei confronti di una lettura religiosa anche se, per chiarezza, necessita essere compreso entro quali posizioni si muove, vale a dire, come rimane inserito nell’economia di un pensiero che non si sofferma sulla preoccupazione, necessaria, di formalizzare il vincolo che si tende tra l’in sé di Dio ed il suo pro me. Infatti, non siamo in grado di affermare che nella parabola speculativa di questo pensare compaia, anche in forma germinale, un abbozzo di tematizzazione cristologica malgrado sia presente la necessità di capire e riconoscere l’identità di chi si consegna alla Kènosis. Questo fatto rappresenta un aggiuntivo stimolo speculativo perché invita ad abbandonare le consuete rassicuranti conclusioni per una ricerca del volto che si rende urgente compiere. La logica biblica stessa afferma questa verità, per altro gravida di ripercussioni esistenziali proprio perché invita a quella condizione di nomadicità che altro non è che l’originaria condizione dell’uomo che si muove alla volta di un ignoto che chiama incessantemente. Allora, nonostante quanto il pensiero debole inaspettatamente dona alla speculazione filosofica e teologica, manchi una chiara e convinta tematizzazione cristologica, questo non deve pre – occupare, non deve rappresentare ragione d’anticipate conclusioni escludenti, le quali altro non farebbero che farci tornare sotto la minaccia di quella perentorietà tradizionale che annulla ogni possibile germe. Al contrario, la carenza, che non è sconfitta o incapacità di rivelazione, da una parte, e di ascolto e discernimento dall’altra, possiederebbe i requisiti necessari per abitare nella precarietà, la stessa nella quale Cristo si è abbandonato, per riprendere un cammino interrotto. Non vorremmo scadere nella ripetitività, ma la poetica dei sentieri interrotti torna con tutta la sua significanza semantica ed evocativa. Evangelicamente parlando, il cammino di Cristo nella storia ha occupato uno spazio esistenziale tracciando un sentiero orientato alla volta della salvezza e della verità. Questo sentiero è stato interrotto dalla croce, ma non cancellato e tanto meno disorientato: solo aggiungendo a questi passi, che Cristo può compiere attraverso l’uomo che alla sua proposta di affidamento, saremo capaci, addizionando tanti sentieri interrotti dalla nostra umana caducità, ad orientarci, sul fondamento, come ad orientare il futuro raccordandolo con il passato. Insomma: solo colui che confida nell’alba di un nuovo giorno, sarà in grado di riprendere il sentiero interrotto a causa della tenebre precocemente calate. Dunque, norma rimane la carità, da leggersi anche nel sostenere l’altro da me che ha smarrito il sentiero e geme nella solitudine, quando la condizione vissuta è la medesima per ogni uomo sveglio e cosciente della sua condizione. L’orientamento Da intendersi come orientare, ovvero, guardare ad oriente, poiché ad oriente, luogo dell’aurora e dell’alba, per la spiritualità cristiana , sorge il sole di Cristo. Anche in questo caso è una questione di direzione. Nell’aprire questa dissertazione abbiamo accennato al volgere lo sguardo alla volta del firmamentum quando diventa necessario trovare una stabilità alla quale affidarsi. La verità cristiana, quando diviene capace di visitare ed abitare la precarietà, diventa il punto fermo, il geometrale necessario per cominciare a porre ordine nella selva esperienziale della quotidianità., quel fissare lo sguardo verso dove indugerà l’aurora, solo nella comunionalità assume i connotati della condivisione di un destino collettivo, ma questo ci spinge oltre quanto il filosofo riesce a pensare. Infatti, non dobbiamo chiedere a colui che pensa quanto non gli compete, ma rendergli giustizia per le poche indicazioni che ci ha saputo dare. E questo dare intellettuale è già una alta forma di carità. Compito nostro è imparare a riconoscerla per accoglierla ed usarla ridonandola. “Norma, quindi, la carità, vincolo e perfezione che non può disperdersi come tale. Anche se poi ribattuta prevalentemente sul suo essere funzionale in ordine alla finitezza, insuperabile nella sua caducità strutturale (altro vincolo). Si tratta di vedere, poi, se la misura della sola finitezza, della pura circoscrizione storica, sia pareggiabile, in termini di volume di donazione, alla gratuità sovrabbondante che l’in sé di Dio (trinitario) da sempre possiede. D’altro canto, il raccordo carità – verità, non può essere sospeso nei suoi termini teologici, solo perché si sospetta che ogni vero sia sempre e comunque abuso di assolutezze. Occorre ponderare a fondo se la carità, sottratta alla sua verità, e alla sua verità cristologica, posta restituirsi in termini di una liberale carità interpretativa o nelle proposte democratiche della solidarietà contingente. Forse, a partire da quella carità come verità, è possibile riaprire un efficace capitolo di confronto anche con la possibile e ritrovata mitezza del pensare metafisico.” Philosophia crucis, op. cit., pag. 143. Questa osservazione, che ci dovrebbe invitare ad una adeguata conclusione, suggerisce un aspetto importante e da non sottovalutare. Anche la novità del pensare debole non deve scadere nel vizio formale accusato dalla sistematicità metafisica, anzi, invita ad aprire un rapporto rinnovato nel tentativo di non spegnere ogni possibile afflato speculativo. Purtroppo, anche il pensare non si mantiene esente da ricomparse fondamentalistiche per eccesso di timore ed attaccamento indebito ad una posizione che necessita di aggiunte e revisioni possibili, spesso, solo accogliendo l’altro nonché cogliendolo nella sua diversità. L’estremizzazione di una posizione filosofica e teologica, produce un irrigidimento automatico, una levata di scudi che esclude ogni possibile confronto. Ma non dimentichiamo che anche l’eccesso inverso, mosso in nome di una apertura incondizionata, conduce ad un lento smarrimento. La via, il sentiero, invita ad attraversare le radure della mitezza scongiurando ogni esanguità, poiché debolezza non significa arrendevolezza, ma cosciente impegno. 4.3 Conclusione Il lungo percorso filosofico condotto alla luce dell’interpretazione ermeneutica conferisce alla nostra proposta speculativa interessanti spunti anche se, come si è verificato lungo l’iter della trattazione, necessitano di adeguati ripensamenti proprio per rispondere alla necessità di immettere nuove idee nell’economia di una rinnovata prospettiva di ricerca. Quello che conta, sulla base di queste premesse, è il poter confrontare tra loro due approcci deboli, al problema di Dio; due differenti punti di vista che posti in relazione e tensione, stupiscono entrambe anche se con conseguenze speculative differenti. Le riflessioni che elabora Quinzio, come abbiamo dimostrato, sono analoghe a quelle di Vattimo per intonazione malgrado non approdino alle stesse conclusioni nichilistiche. Seguendo la pista tracciata da Vattimo, come preludio alla questione, dobbiamo costatare che il nichilismo che giunge a proporre in forma di nuovo speculativo orizzonte, allude ad un cristianesimo inconsapevolmente compreso fin nella sua difficile accezione cattolica nonostante l’abbassamento kenotico non venga colto nella sua esplicitazione cristologica dunque nel raggiungimento di una paradossale pienezza, ma solo come assoluto svuotamento ed esanguità. Dobbiamo osservare che la figura della caritas, per altro coinvolgente, rimane dedotta senza sfociare in una comprensione personificante, anche se questa figura non raggiunge una sua strutturazione dal punto di vista cristologico. Il nichilismo di Quinzio, all'opposto, si complica in un nulla che rischia di scadere nella disperazione dell’horror vacui. Del resto, lo svuotamento kenotico, come già anticipato nelle pagine precedenti, sembra non aprire ad un orizzonte verso il quale fissare lo sguardo in attesa dell’aurora, per incancrenirsi nel problematizzare senza uscita. Inoltre, la mancanza d’amore, che giustifica la sete giustizialistica, determina la conseguente carenza caritativa nel rifiuto totale di ogni mediazione tra debolezza e rinnovamento metafisico in quanto la filosofia stessa, sempre letta come ellenizzazione, posta costantemente sub judice, quando non condannata, viene estromessa a favore di un preteso pensiero ebraico, ma non tale in tutti i suoi risvolti ermeneutici. Quinzio, come Vattimo, riesce a percepire la stanchezza linguistica che affligge la modernità cogliendo quel senso di interruzione che abbiamo rilevato pur anche muovendoci all’interno di un linguaggio, fortemente evocativo, ma sempre filosofico nella sua essenza. Da parte sua, il nostro autore recupera abilmente una possibilità speculativa nella ricchezza babelica lasciandosi assorbire da un’operazione intelligente, ma non scevra di conseguenze, in questo specifico caso, fuorvianti, concedendosi alla riscoperta del complesso speculativo ebraico. La sua proposta, nonostante le osservazioni che siamo andati conducendo, rimane sempre stimolante dato l’invito che permane rivolto verso una continua penetrazione intellettuale ed esperienziale di un mondo che ha contribuito fortemente alla nascita di una cultura come quella dell’occidente moderno e contemporaneo. Queste radici ebraiche Quinzio le individua e riconosce senza troppi cedimenti. L’ebraismo, come viene letto, si dimostra rifiutare ogni possibile fondamento sul logos in virtù di uno stabile e garantito ordine cosmico, concedendo alla realtà di storicizzarsi completamente ed inesorabilmente. Per questo, siamo in grado di affermare che l’avanzare lungo le tracce di questo sentiero, inevitabilmente, espone all’oltrepassare un punto di non ritorno oltre il quale s’accende l’incognita della confusione teoretica. Il culmen della giudaizzazione descritta è da individuarsi nella nomadicità, nella peregrinazione esistenziale ed intellettuale che distrugge i confini di ogni possibile appartenenza umana e culturale: questo è l’effetto spaesante, quel ritrovarsi deboli, autentico nella sua vocazione, che Quinzio fa transitare da una posizione umana che intuisce, ma non approfondisce e tematizza, al problema di dire e capire Dio. La debolezza che intercetta e costruisce, è una debolezza che detiene la sua origine nella contrazione di Dio, mentre all’uomo rimane ascritta un’atavica insoddisfazione legalistica crocifissa ad un’attesa del compimento che sempre scivola verso un’escatologia che costantemente permane in via di realizzazione sospesa in una condizione dove la speranza sembra annullata in una rassegnazione che non concede nemmeno l’uso della ragione in tutte le sue possibili espressioni poiché talune previamente rifiutate. Certo, la giudaizzazione rimane l’esito inevitabile di aspettative deluse dalla modernità stessa, conseguenza che pesa sulla contemporaneità mettendo in scacco ogni possibile tentativo di fuga da una simile prigionia concettuale. Siamo di fronte ad una forte lettura metaforica dell’esodo spaesante che grava sulla condizione esistenziale di ogni essere che sperimenta la gettatezza in nessun luogo, quella stessa limitazione che Abramo visse e sopportò. Questo nomadismo sradicante viene concettualizzato, dalla parte dell’ermeneutica, come la vicenda di una continua interpretazione e, secondo Quinzio, la parabola kenotica dell’itinerario interpretante. Dobbiamo notare come, anche nel suo porsi previo, una tale impostazione, ceda irrimediabilmente ad una radicalizzazione spesso ossessiva, della realtà, insomma: mentre il pensiero debole apre ad una carità, pur non riuscendo, come abbiamo chiarito, a personificarla, comunque sempre concedendosi all’ascolto, in questo caso l’ascolto sembra addirittura rifiutato all’origine, prima ancora che concepito come impossibilitato, perché un abisso separa Dio dalla sua creazione. Questo procedere rafforza il distanziarsi polemico da ogni possibile cedimento verso forme di pensiero oggettivante ed intellettualmente rassicurante. Per questo, può ammettere che la cosiddetta custodia ebraica dell’ermeneutica permane sempre in vantaggio nei confronti di ogni possibile tentativo di costruzione, in tale senso, da parte del pensiero moderno e contemporaneo giudicati anzi, responsabili di ogni consequenziale indebolimento indefinito delle interpretazioni. La cosa interessante è che Quinzio riconosce come unica ed autentica interpretazione possibile quella messianica e finale, l’unica in grado di cancellare tutte le precedenti, poiché deboli, caduche ed approssimative. L’ebraismo ci suggerisce, al contrario del moderno come nella molteplicità interpretativa scorge un incremento ontologico e del modo in cui interpretare questa sovrabbondanza necessaria come tragica e sostenuta da una sottile maledizione piuttosto che da una sottesa benedizione vivificante, per cui questa verità ebraica, dunque, non rimane inoggettivabile ed infinita, ma rimane tale fino a quando permane in un mondo premessianico quando non immersa nell’anticristicità. Questo motiva l’instaurarsi di un movimento dialettico in grado di motivare la stessa ermeneutica. Da questo presupposto, Quinzio dichiara che il nesso tra dialettica ed ermeneutica viene previamente modellato a partire proprio dalla Scrittura sulla scorta della lettura personale che la sostiene. Questa custodia biblica, la stessa che Lutero adotterà facendosene fenomenale propositore riconoscendo nel fulcro di questo stesso pensiero la contraddizione come luogo privilegiato della rivelazione di Dio colta nella sua accezione più propria. Questo tragitto ci suggerisce come una simile impostazione dialettico – ermeneutica non deve per nulla appoggiarsi per potersi sostenere ad un logos necessitante per dischiudersi verso una specie di affidamento che rimane ancora da intercettare, dato che, come sopra accennato, si aggrappa ad una speranza tutta da intravedere comunque sprofondata nell’opacità lacerante dell’esistenza. Occorre riprendere alcuni temi, a questo punto, nel tentativo di una sintesi. Anche se potrebbe non apparire, la mancanza di un compimento nella giustizia, conduce la realtà ad uno sprofondamento nella nulla più tetro: ma quale consistenza possiede, questo nulla? Quale messianismo si può fondare su questa tipo di nulla? La storia della salvezza è un susseguirsi di compimenti che permangono tali proprio perché in costante tensione verso quello già in atto, l’unico che possiamo considerare pienamente escatologico. Determinante, da parte di Quinzio, allora, il cogliere la contraddizione proprio nel suo tramutarsi in passaggio ermeneutico fondamentale mentre apre ad una intercettazione messianica che, purtroppo, rimane abbozzata. Infatti, la possibilità lasciata all’uomo di affidarsi ad una speranza soterica, rimane possibile solo verso un Dio che, nel suo divenire, transita continuamente al fianco dell’essere umano, in questo senso possiamo parlare di un riconosciuto Dio ebreo, errante, come la radice “br” del termine ebraico stesso suggerisce; un Dio personale che, come tale, chiede di essere riconosciuto lungo il suo camminare e divenire al fianco dell’uomo. Questo, dunque è il Dio – con – noi, l’Emmanuele evangelico e, prima ancora, profetico. Un Dio che transita è un Dio che si lascia immergere totalmente nella condizione umana, nella quotidianità e forse in questo senso possiamo azzardare l’idea di una paradossale sconfitta. E’ una condizione battesimale alla quale l’uomo stesso viene invitato per comprendere il senso abissale dell’abbassamento che Dio sopporta sopra su di sé ed in sé. Seguendo questa impostazione, allora, siamo capaci di trattare della storia di Dio come una storia di sconfitte senza incappare in fraintendimenti inutili, poiché queste sconfitte sono quelle che imprigionano Dio stesso nella turris eburnea delle ingiustizie ontologiche, da identificare con i classici attributi che la teodicea gli ha ascritto intendendolo come Essere Sommo. Siamo d’accordo che l’evento della Kènosis non è mai stato scandagliato fin nel suo più intimo recesso al punto di poterlo concepire come fallimento e perdita a causa dell’ellenizzazione delle categorie teologiche, procedimento colpevole di avere sbiadito la forza dirompente della discesa così come viene tracciata dall’inno cristologico della lettera ai Fileppesi. Questo congelamento in un complesso concettuale giustifica il mantenimento ossessivo dell’immutabile metafisico come momento perentorio ed irrinunciabile. Il rinvio che ne consegue, provvidenziale se colto in alcuni suoi aspetti, ha fatto attecchire conseguenze che, secondo la visione di Quinzio, conducono a quella desolante anticristicità che macchia ed avvelena la modernità stessa, da leggersi come avversione mondana e speculativa che tende a sospingere oltre una semplice absentia Christi. Quando sopra, concludendo la comparazione con il pensiero debole così come Vattimo ce lo consegna, accennavamo ad una mancanza d’identificazione del Dio verso il quale rivolgere l’affidamento, ci troviamo nella medesima situazione, anche se sostenuta da tragitti, presupposti e conseguenze differenti. Il problema, allora, rimane quello di riconoscere il Chi è in grado di abbassarsi fino al nulla, ad immergersi nel battesimo nella caducità, nella precarietà, a vivere la spaesatezza e la mancanza dell’abitare dimorante, sopporta addirittura l’essere gettato fuori dal mondo, quel mondo stesso che ha amato assieme agli uomini e per il e i quali ha donato la sua stessa vita: ma il pensare la morte di Dio, diventa possibile solo quando siamo messi nella possibilità di approcciarla senza preconcetti e reticenze intellettuali inscrivendola nel venerdì santo dei filosofi, dato che la croce non smette ancora di fare scandalo proprio attraverso la sua perentorietà. 5 La vittoria nel Mysterium Paschale 5.1 Capire la “vittoria nella sconfitta” Giunti a questo punto della nostra trattazione, e non senza difficoltà, data la gravità delle questioni attorno alle quali abbiamo dibattuto, per evitare spiacevoli smarrimenti nella complessità delle tematiche che un simile argomento riesce a muovere, procederemo tentando di mantenere l’attenzione accesa sulla domanda che ci deve accompagnare fino all’esposizione della nostra tesi: come avviene la paradossale vittoria nella sconfitta della croce di Gesù Cristo, il suo attraversare la morte per andare incontro ai morti che riposano nel profondo dell’Ade? Per chiarezza metodologica esporremo le conclusioni alle quali approda Sergio Quinzio per compararle e, dove possibile e necessario, dovutamente criticarle attraverso la via d’uscita che si deduce dalla speculazione di Hans Urs von Balthasar proposta proprio attraverso un sapiente ripensamento della sconfitta della croce nell’ottica di una rivisitazione filosofica dei tre giorni che hanno segnato lo sconvolgimento delle attese di salvezza umane nonché il nostro modo di poter pensare lo scandalo e la stoltezza, per risignificare un percorso speculativo che dia ragione alla problematicità contemporanea legata al pensare la religione. Non sarà un cammino semplice, anche se nell’intimo della philosophia crucis risiede l’opportunità di legittimare una domanda che rischia l’esposizione al germe del dubbio così come dell’eccessiva radicalizzazione. In ogni caso, per comprenderla, dobbiamo avere la pazienza di seguire ancora Quinzio attraverso alcuni tortuosi passaggi, prima di poter debitamente ricostruire il percorso che ci siamo proposti. 5.2.1 Una storia di fallimenti? La ripresa sul tema che Quinzio adotta dopo il suo tentativo di giustificazione riguardo la definizione di debolezza che attribuisce alla sua personale visione teologica, lo sospinge a voler individuare, ed elencare, una lunga rubrica di fallimenti che, inanellati tra loro, dovrebbero rendere l’idea di una storia effettivamente fallimentare. La domanda che ci muove, a questo punto, diventa estremamente importante, dato il fatto che dovremmo chiederci quali sono le ragioni che soggiacciono al porre Dio come problema quando lo si è accusato di fallacità fin dall’atto della creazione. Proprio nell’esplicitazione di queste visioni, troviamo il “nichilismo” di Quinzio messo interamente a nudo anche in quelle che sono le sue stesse, intrinseche, debolezze. Perché, allora, se Dio ha letteralmente fallito ogni tentativo di avvicinamento all’uomo, ancora sono molti coloro che oggi raccolgono la sfida di provarlo a pensare e credere? Ancora una volta, Quinzio, rimane prigioniero delle sue stesse argomentazioni ripetendo affermazioni già sostenute in precedenza e dalle quali non riesce a distaccarsi nel tentativo di motivarle ed elaborarle adeguatamente. La catena dei fallimenti proviene dalla struttura stessa che sorregge l’impianto della Bibbia definendo la storia che viene raccontata come una continua caduta “nei confronti della quale gli eventi che testimoniano Dio sono momenti puntiformi, eccezioni che consentono di misurare il fallimento”. La sconfitta di Dio, op. cit., pag 50. Precisiamo la correttezza del concetto di caduta impiegato nella costruzione di questa affermazione anche se, nel caso specifico del termine kènosis, l’abbassamento di Dio consegue ad una atto libero e volontario, le ragioni del quale rimangono complesse da comprendersi a causa del mistero che le vela, sostenuto da un non tanto casuale abbandonarsi all’avventura incarnazionistica che così prospettata, sembra non manifestare nessuna possibilità di ritorno. Sarebbe da sottolineare la fondamentale pedagogicità della kènosis del Figlio come esempio per l’uomo, sentiero da seguire nella cosciente imitatio Christi. Certo, quello che viene portato all’attenzione è la difficoltà di lettura di quegli accadimenti che determinano il dispiegarsi continuo di una divina provvidenza che sostiene gli umani sforzi quotidiani, così come di una pedagogia tesa alla formazione degli uomini affinché possa giungere alla piena coscientizzazione e collocazione di sé stesso nell’immenso panorama della creazione. Non così incede Quinzio, preferendo all’esistenza di un progetto di Dio da decodificare nella giornaliera fatica esistenziale, un’approssimazione che rende Dio stesso un impacciato improvvisatore vittima delle circostanze ed al concatenarsi delle quali ha dato maldestramente inizio. Anche se non appare conforme, come definizione, il Dio di Quinzio, è un dio minore, un creatore che avvia il meccanismo di una macchina che non consoce e che tenta di dominare con un’estrema approssimazione. Non è nemmeno un’immagine deistica, poiché il Dio del deismo possiede caratteristiche ben definite e forse troppo razionali per il nostro scrittore, rifuggite e negate, poiché pare desideri non tanto capire Dio ed attraverso di Lui il mondo, ma giustificare il mondo, nella sua malefica degenerazione e corruzione, per mezzo di una non pertinente condanna di Dio all’impotenza. Malgrado queste imprecisioni, il quesito che giunge a porre è la sfida che sorregge la problematicità del pensare oggi, ma anche in passato, Dio. Un primo appiglio viene fornito evitando di cadere nelle secche dell’ateismo di facile estrazione, ricorrendo alla non semplice sostenibilità di questa ipotesi per altro affrontata anche da Heidegger attraverso la domanda, radicale sul versante speculativo, “perché l’essere e non, piuttosto, il nulla?”. Perché questo mondo? Perché il silenzio del Creatore, malgrado le sofferenze immani nelle quali langue l’umanità e l’ingiustizia delle innumerevoli circostanze che macchiano ogni esistenza? “Per chi prende sul serio il male, per chi pensa quindi che rispondere alla vita ed alla morte che ci interpellano negli altri ed in noi stessi non vuol dire rispondere a un rebus e a una sciarada, cercando cioè il gioco di parole che “risolve”, che “funziona”, le cose appaiono meno insensate se si osa sperare che ciò che accade, - in cielo, in terra, fra gli uomini – procede da Dio, ma da un Dio che non ha il dominio assoluto su ciò che ha creato.” La sconfitta di Dio, op. cit., pag 51. La citazione riconduce il fuoco dell’attenzione sulla crucialità delle domande che da sempre affliggono l’uomo anche se, ormai, questo sistema non ci deve trarre in inganno poiché la fondazione della questione rimane sempre la stessa e ridondante. La palese rinuncia ad ogni possibile riferimento filosofico e cristologico getta nell’impossibilità di cominciare a costruire una risalita dall’infero terrestre che abbiamo più volte descritto attraverso le coordinate speculative del nostro scrittore. Secondo le conclusioni alle quali approda Quinzio, la Bibbia stessa dovremmo cominciare a considerarla come la puntuale registrazione di tutte le vicende fallimentari per gli uomini ed, innanzi tutto, per Dio. L’ombra della sconfitta apparirebbe già nel terzo dei cinquanta capitoli che compongono il libro della Genesi, laddove viene raccontata la caduta dei progenitori e la loro conseguente condanna alla tribolazione ed alla morte. Volendo rimanere aderenti alle analisi condotte, rimangono solo i primi due capitoli a descrivere la bontà originaria del creato, immediatamente dopo comincia una vertiginosa degenerazione che conduce a ripercorrere la storia dei primordi come una rovina verso un mondo che, dopo il diluvio, sarà inevitabilmente considerato di un ordine più basso. Questa concezione della realtà creata come di infimo valore suggerisce nuovamente quanto accennato in precedenza riguardo una presunta ricaduta gnostica del nostro autore. Questo rilievo non farebbe scandalo se si trovasse al difuori di una indagine di carattere teologico di impostazione cristiana e cattolica. Il pericolo del dualismo che, per altro grava anche su autori canonici, rimane una forte tentazione quando diviene complessa la trattazione delle tematiche sul male e sul peccato. Un ulteriore interessante aspetto della sconfitta risiede nel fatto che da un progetto universale di salvezza Dio, progressivamente, si concentri sulla liberazione di un popolo sparuto che langue schiavo nell’Egitto dei faraoni. Inoltre, annullando l’epopea fondatrice dell’Esodo, la morte della generazione che lasciò le sponde verdeggianti del Nilo alla volta delle insidie del deserto e lo stato di guerra continua che opprimerà il popolo una volta giunto nella terra promessa, sembrano aggravare ulteriormente il fallimento. Per questo, possiamo sostenere che anche il superficiale giudizio applicato alla scrittura risente della medesima intonazione. “Ogni genere di violenza – bellica, sacrificale, giudiziaria – riempie le pagine della Bibbia e ne fa un testo oggi poco comprensibile, che suscita orrore in chi tenta di leggerlo.” La sconfitta di Dio, op. cit., pag. 52. L’obiezione è intelligente e risente di tutta la lontananza abissale che separa ancora troppi credenti dal testo che fonda il credo stesso. Così, anche la domanda che ne consegue: quale rapporto siamo capaci di ravvisare tra tutte le violenze riferite e la tenerezza di Dio, come emerge dall’intimo di alcuni passi che, a dispetto delle tragedie, si leva come controcanto? Tutta la storia degli Ebrei, il popolo che Dio ha eletto, conosce terribili e ripetuti disastri. “Nel 587 avanti Cristo, Gerusalemme cade nelle mani dei nemici, la città ed il tempio vengono distrutti, e in seguito a ciò sarà smarrita la lingua sacra e all’interno del popolo eletto si creerà una nuova Babele. Ma già intorno all’ottavo secolo avanti Cristo i profeti avevano annunciato il peggio. Amos per primo aveva parlato di un miserabile resto che si sarebbe salvato nel crollo del paese: <Così parla JHWH. Come un pastore strappa dalla gola del leone due zampe o il lobo di un orecchio, così saranno salvati i figli di Israele>” La sconfitta di Dio, op. cit., pag 52. La riflessione che viene condotta sul termine resto, per altro abilmente costruita attraverso un’accorta sequenza di citazioni scelte secondo la personale metodologia dell’autore, come abbiamo in precedenza dibattuto, prepara le descrizione di Gesù, quando sarà reso come colui che carica pienamente su di sé il giogo della sconfitta presentandosi povero tra i poveri, l’ultimo di un resto. Nel modo in cui sopra abbiamo abbozzato, già il precedente rappresentato dallo scadere da un prospettiva salvifica universale all’elezione di un popolo di miserabili prigionieri, rappresenta il preludio della sconfitta. Avanzando secondo questo criterio, Quinzio, improvvisamente, rovescia testualmente la sua teoria ermeneutica della scrittura per preordinare la pista alla definizione stessa di sconfitta che intende applicare a Cristo come un ulteriore titolo assieme ai tre conferiti dalla tradizione: re, profeta, sacerdote e sconfitto. Premettiamolo, a questo punto, poiché dobbiamo riconoscere questa via come un percorso irto di pericoli soprattutto per coloro che non dispongono di chiare categorie cristologiche per fondare una corretta riflessione. Lasciarsi trasportare dalle maree del dubbio che sconvolgono l’economia di questo scritto, lo può fare solo chi riesce ad esercitare un controllo laddove le emozioni cominciano a travolgere gli umani equilibri. Seguiamolo, comunque, anche questa volta, fino alla risoluzione verso la quale ci vuole condurre. “Gesù ripeterà le parole del libro di Isaia: “Lo spirito del Signore JHWH è su di me, perché JHWH mi ha consacrato con l’unzione. Mi ha mandato a portare la buona notizia ai poveri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati” (Is 61, 1; Lc 4, 18). Se la ricchezza appare in numerosi libri biblici, segno di benedizione di Dio, e la povertà spesso segno della pigrizia, della colpa, nei profeti, restando ferma la prospettiva delle promesse di benedizioni materiali, lo spirito di povertà è il segno paradossale della predilezione di Dio, dal momento che il mondo è divenuto preda degli empi che hanno usurpato il suo potere. Il piccolo resto degli ‘anawim, di coloro che sono poveri e hanno lo spirito di povertà, ripete così in sé il gesto originario di Dio: quello il cui significato Simone Weil ha espresso come la scoperta della “parentela del male con la forza, con l’essere, e del bene con la debolezza, il nulla”” La sconfitta di Dio, op. cit., pag. 53. Lo sbocco dell’argomentazione è inequivocabile, seguendo questo solco. Gli sconfitti sono dalla parte di Dio così come la parte di Dio è la sconfitta. Nonostante la durezza delle affermazioni che abbiamo letteralmente citato e trascritto, le riflessioni che le seguono sono interessanti prima ancora di poter essere da stimolo per una speculazione sull’esistenza umana da intendersi nel segno della debolezza ovvero: in signo infirmitatis. Così, davanti all’infelicità dei poveri, dei cuori spezzati, viene a mancare in Dio la stessa giustizia E’ interessante notare come Quinzio, nel caso della scelta operata da Dio nei confronti dei poveri, eviti di citare la lettera di Giacomo dove, al contrario, Dio stesso difende la giustizia assumendosi il ruolo di avvocato dalla parte dei deboli. mentre procede, in suo luogo, la misericordia. Infatti: “Il povero, l’infelice, può essere spinto dalla sua povertà e infelicità a cercare in Dio il salvatore, a osservare la sua legge. Ma Dio ha pietà di lui e lo vuole salvare non perché il povero sia giusto, ma proprio perché è povero ed infelice. Così anche nei vangeli, i pubblicani e le prostitute precedono i giusti perchè hanno lo spirito di povertà, perché sanno, cioè di non possedere nessuna ricchezza spirituale, di non poter contare sulla propria giustizia” La sconfitta di Dio, op. cit., pag 54. Non possiamo non ammettere la radicalità di queste asserzioni, non dimenticando che spesso, l’andare alla radice, implica il sacrificare la pianta che già si è sviluppata ed ha, magari, principiato a dare i propri frutti. L’impegno morale che si desume da una tale lettura ed interiorizzazione delle problematiche soteriologiche e cristologiche permettono di capire quanto fosse serio e fondato l’impegno di Quinzio, anche se per poterlo mantenere, intellettualmente, ha forzato non poco categorie teologiche estremamente delicate e sulle quali occorre premettere un dovuto pudore prima di andare a dibattere. Riprendendo. E’ proprio nel salvare non tanto coloro che compiono opere giuste, ma quelli che suscitano pietà, che Dio subisce una nuova sconfitta. Chiamare un'altra volta alla memoria un racconto tradizionale ebraico, aggiunge del materiale di profonda intonazione mistica alla trattazione. Secondo l’ispirazione che sostiene questa narrazione, Dio, dopo aver creato in successione diversi mondi secondo la natura della giustizia ed essendo stato costretto a distruggerli, decise di creare un mondo secondo la misura della misericordia: questo mondo minore sarebbe il nostro nel quale, secondo Quinzio, il male, venendo tollerato, cresce e dilaga. Transitando dalla giustizia alla misericordia, Dio si accontenta dell’essere umano così come è ovvero, condannato a non poter non commettere il male promettendogli di offrirgli, per pietà, quanto non potrebbe conseguire secondo la giustizia. Grazie a queste premesse aggiunge che, malgrado nell’azione del perdono sia presente il seme della gioia, il perdono rimane una delusione ed una aggiuntiva sconfitta di Dio. Con un presupposto di tale natura e concezione, le osservazioni che si approssimano ad essere effettuate in materia di cristologia, non possono che inquadrare il mistero di Gesù in una riduzione di prospettiva. Scrive, Quinzio: Nell’incarnazione, passione e morte di Gesù Cristo, la più terribilmente inflessibile giustizia e la più arrendevole misericordia si confondono, non hanno più confini. Il Padre fa cadere sul Figlio, il perfetto innocente, tutto il peso della sua giustizia. Anche se è così lontano dalla nostra moderna sensibilità, questo dicono le scritture cristiane, seguendo il modello veterotestamentario del servo sofferente di JHWH (Is 52, 14 – 53, 12). Gesù Cristo è l’agnello che prende su di sé i peccati del mondo (Gv 1, 29), è colui che pende dal legno essendo stato fatto peccato e maledizione per noi (2Cor 5, 21; Gal 3, 13), colui che ha pagato il nostro debito al nostro posto (Col 2, 14). Per questo, in questo, nel fatto che è lui a subire il castigo da noi meritato, noi veniamo perdonati. In questo terribile modo si congiungono , in Gesù Cristo, la giustizia e la misericordia di Dio.” La sconfitta di Dio, op. cit., pag. 55. Per questo, l’unione ipostatica in Gesù di Dio e dell’uomo, viene definita paradossale, senza esporsi a riconoscere, dietro il velo del miracolo dell’incarnazione, il sapiente esplicitarsi del disegno della salvezza: Quinzio, lo ripetiamo, non riconosce un Dio onnipotente secondo tale senso ed ordine, dunque un Padre capace di salvare. La motivazione, e giustificazione, di questa deriva viene costruita, secondo il nostro scrittore, sul fatto che la Bibbia ebraica esprime un inveterato orrore per gli ibridi Lev 19, 19., dunque per Gesù Cristo stesso, che non rinuncia a definire come l’ibrido supremo. Appunto per questo, se l’antico dogma determina Maria Madre di Dio e non soltanto Madre di Cristo, lo stesso farsi uomo di Dio nel suo nascere da donna significa con certezza, per le scritture cristiane e per la tradizione intera, un abbassamento totale. Le affermazioni che seguono si fanno pesanti anche se gravide di questioni. Incarnandosi, Dio, perderebbe in Gesù la sua stessa coscienza di essere Dio. “Un evento – quello dell’incarnazione (ndr) – mai pensato fino in fondo, perché le categorie greche della teologia non lo consentono, ma sentito tale dalla pietà dei fedeli che, con san Francesco, hanno pianto di commozione e di pena dinnanzi al bambino nella mangiatoia di Betlemme, povero, inerme, predestinato alla croce, mentre gli angeli riempiono il cielo con l’annuncio dell’evento gioioso della nascita del Salvatore. Il primo effetto di questa nascita straordinariamente salvifica sarà la strage degli innocenti.” La sconfitta di Dio, op. cit., pag. 56. Non volendo insistere sull’approssimazione, più volte accusata, questo genere di pianificazione muove alla riflessione. L’intento parenetico è evidente anche se non si dimostra sufficiente per rendere leggibile e comprensibile il mistero che il cristianesimo, nella quotidianità, continua a riproporre sempre rinnovato, per il fatto che il “Dio con noi” non cessa di affiancarci lungo le strade della nostra peregrinazione terrena. Sarebbe stato maggiormente opportuno scrivere che Dio, rendendosi conoscibile in noi, abbassandosi fino a confondersi nella miseria della condizione umana, ha dato, mirabilmente e definitivamente, prova della sua onnipotenza, invece…tutto cede alla riduzione, allo stesso modo dell’interpretazione fornita agli scritti di Paolo, da intendersi, esclusivamente, come lo strenuo annunciatore della morte di Dio. Propugnando questa tesi, Quinzio recupera una vaga ispirazione speculativa, quella stessa dalla quale è partito interrogandosi sul peso della legittimità della domanda, sulla consistenza della problematicità, ma a quale prezzo? Perché non rovesciare la questione domandandosi se non è l’uomo a rappresentare un problema nei confronti e per Dio? Un fastidioso essere che ancora non ha schiacciato? La costante, ed ormai esangue, polemica antiellenistica, incentrata sull’accusa di aver operato un’eccessiva astrazione del pensiero sradicandolo dalla realtà esistenziale, seguita dalla sconfessione ai danni di Nietzsche, accusato di non aver scoperto né detto nulla di nuovo - comunque sempre operata nell’ambito del ripudio totale della modernità -, ormai non reggono più. Quinzio deve giungere, per non cadere nell’ossessiva ripetitività, alle domande che vuole muovere al cristianesimo attraverso le sue personali tesi. Per pervenire a questo, mancano ancora alcuni passaggi. Il recupero delle tematiche espresse a proposito della teoria sacrificale pronunciata nella sua logica, diradano le nubi della passionalità che talvolta rischia di dimostrarsi accecante. Sia apprezzabile, comunque, un’affermazione, per cominciare a salvare quanto sarà scaturigine di opportuni ragionamenti nel dopo: “La Lettera agli Ebrei parla del sacrificio perfetto in cui la vittima, il sacrificatore e colui al quale si offre il sacrificio coincidono, sono l’unico Dio. La logica sacrificale si è spinta al di là dei suoi confini, coinvolge totalmente Dio, e perviene all’assurdo.” La sconfitta di Dio, op. cit., pagg. 56 – 57. Malgrado la struttura del percorso che Quinzio traccia non sia tra le maggiormente consone, ci preme sottolineare, ed anticipare, quelle ripercussioni teoretiche che ci aiutano ad orientare la nostra proposta speculativa, questo lasciando crescere ed emergere la stoltezza della croce in tutta la sua paradossalità attingendo alla tormentata partecipazione paolina al sacrificio estremo nel quale Dio muore. Solo da una simile profondità, si cede lentamente a quella speranza che solo un bilanciato esame critico, oltre ad un umano e fiduciale abbandono, riescono a donare. “Alla croce è stato appeso e sulla croce è morto Dio, diventato peccato e maledizione, e si può solo sperare che la morte di Dio sia più sapiente e più forte della vita degli uomini.” La sconfitta di Dio, op. cit., pag. 57. Non lo possiamo più negare: a Quinzio preme l’umanità di Gesù e di Dio, infitta nella drammaticità dell’esistenza, il nostro stesso dramma, quello che siamo chiamati a vivere senza reticenze. Per questo, il linguaggio antropomorfico dell’Antico Testamento aiuta ad individuare il vertice speculativo verso il quale tende. Dobbiamo partire dal grido di Gesù morente sulla croce, per trovare ed aggiungere quest’ultimo essenziale segmento alla nostra riflessione non dimenticando che quanto egli vuole rimarcare è la tragedia espressa in quella morte ed in ogni morte. L’apice della lunga riflessione di Quinzio è racchiuso nei due quesiti che lacerano l’umanità così come chiunque, con coscienza, si espone alle domande ed alla speculazione: il senso della sofferenza, il dolore, e la morte. Seguendolo, questo grido, liberato nelle parole aramaiche “Elì, Elì, lema sabactani”, così come ci vengono tramandate dai vangeli più antichi Mt 27, 46; Mc 15, 34., afferma che oramai gli stessi teologi hanno rinunciato ad interpretarle, elusivamente, come l’incipit della devota e rassegnata recitazione del Salmo 22 Questione che, cristologicamente, rimane ancora sub judice., terminante con fiduciose parole di affidamento a Dio nel segno di una serena accettazione dell’inevitabilità della morte, come i due vangeli più tardi Lc 23, 46; Gv 19, 30.cercheranno di fare emergere, ma esponendo il Cristo stesso all’angoscia del trapasso e dell’abisso, conformandolo completamente all’uomo attraverso una solidarietà senza precedenti. “Un vecchio gesuita della Pontificia Università Gregoriana, Xavier Tilliette, dopo aver raccolto autorevoli consensi cattolici, ha concluso alcuni anni fa, in un suo scritto intitolato Le cri de la croix, che quel grido è la pura espressione del gorgo. Dio entra nel terrore e nel freddo della morte, subisce la caduta vertiginosa nel tartaro profondo, è la preda dell’angelo dell’abisso…Dio è morto, quale grave parola, dice Hegel. Ha conosciuto le angosce della morte. La discesa agli inferi (Ef 4, 9; 1 Pt 3, 19), che è stata sempre rappresentata come una trionfale vittoria, prima di essere del tutto dimenticata, appare l’esito dello sprofondamento e dell’annichilimento di Dio crocifisso.” La sconfitta di Dio, op. cit., pagg. 58 – 59. Questa conclusione, faticosa, ci conduce ad un nuovo lasciarci sprofondare nel personale abisso che Quinzio dipinge come un mondo che si apre dopo il dramma della croce, per poi schiuderci a quanto vorremmo dimostrare di seguito nel segno della teologia dei tre giorni. 5.2.2 Dopo la croce il nulla dell’anticristicità? Oltre lo sconvolgimento della croce a permanere è solamente la fede che fonda la sua legittimazione nella risurrezione di Gesù Cristo dai morti. Questo accade, secondo Quinzio, malgrado con l’ascensione, il Risorto sia scomparso appena dopo un brevissimo periodo di permanenza, celandosi alla vista terrena degli uomini. Per questo, la stessa fede “crede, anche se la risurrezione è avvenuta nella notte e non sotto gli occhi di tutti come la morte, e se dunque nessuno, a rigore, ne è testimone, nessuno l’ha vista, ma ci sono, secondo il racconto del nuovo Testamento, solo testimoni del sepolcro vuoto o delle apparizioni di Gesù ad alcuni, per alcuni giorni. E comunque quei testimoni non sono più fra noi da duemila anni , sicché più che credere alla loro testimonianza crediamo nel fatto che, allora si sia creduto sulla base di quella testimonianza, e si sia poi continuato a credere.” Ibid., pag. 60. Così osservando, Quinzio non considera affatto la tecnica retorica che sottende alla trasmissione aurale di un dato di fede, come se può leggere in 1 Corinzi 15, 3. A causa di questi presupposti, Quinzio arriva a sostenere che, come nel caso specifico della giustizia del regno dei cieli, ormai anche la risurrezione di Cristo può essere intravista solo al modo di una sparuta speranza. Aggiunge, oltre a ciò, che anche l’eucaristia, la realtà cristiana che, sempre a suo giudizio, è rimasta senza eccezione al vertice della religione è, ancora per la critica di Lutero, il rinnovamento mistico della passione e della morte di Gesù, ma non della sua risurrezione. In seguito, aggiunge che, tenendo dietro alla testimonianza di Paolo, l’argomento decisivo per credere oppure non credere alla avvenuta risurrezione di Cristo è la risurrezione dei morti. 1 Corinzi 13 – 19. “Se non c’è risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato. Ma se Cristo non è risuscitato, allora il nostro annuncio è vano, vana anche la nostra fede. Risultiamo, allora, dei falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato il Cristo, mentre non l’ha risuscitato, se è vero che i morti non risuscitano. Se infatti i morti non risuscitano, neanche Cristo è risuscitato, è vana la nostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. Allora anche quelli che sono morti in Cristo sono periti. Se è per questa vita soltanto che noi abbiamo messo la nostra speranza in Cristo, noi siamo i più miserabili tra tutti gli uomini”Nella lettura della celeberrima pericope paolina tratta dal capitolo quindicesimo della prima lettera ai Corinzi, riconosce lo scacco del differimento che ha segnato tutta la storia della salvezza, come abbiamo fatto risaltare già in precedenza. Così discute: “La risurrezione di Cristo già avvenuta e futura risurrezione dei morti si implicano strettamente, sono, al limite, la stessa cosa. Anche se Gesù non fosse risorto allora (risorto non secondo il vago simbolo di una presenza nella comunità pasquale, ma nel modo in cui la risurrezione è contemporaneamente espressa nelle Scritture ebraiche e cristiane), se i morti risusciteranno sarà manifesta la potenza di Dio che risuscita e che risuscita per primo Cristo. Ma se i morti non risusciteranno, allora non ha senso la risurrezione di Cristo, giacché la risurrezione di Cristo ha senso solo se è la primizia della risurrezione dei morti. Ebbene, dopo duemila anni i morti non sono risuscitati e lo spazio per la fede è mostruosamente diminuito. E’ una sconfitta di Dio la mancata risurrezione dei morti, e lo è tanto più in quanto la stessa risurrezione, tardivo rimedio a quello che è il destino fallimentare del dover morire, ha già il sapore della sconfitta.” La sconfitta di Dio, op. cit., pagg. 61 – 62. Ecco, allora, come compare nella linea di Quinzio il tarlo del dubbio e dell’inquietudine che, secondo consuetudine, estrae dalle Scritture riversandoli nell’esistenza di ogni essere umano. Il duro primo finale del vangelo di Marco, con la descrizione scarna delle donne che fuggono atterrite dal sepolcro vuoto, presenta Gesù risorto irriconoscibile per Maria di Magdala e per gli sgomenti pellegrini di Emmaus, fornendo esempi forti ed inequivocabili, secondo l’autore, utili e sufficienti per dire che “il cadavere rianimato che esce dalla tomba – e questo, per quanto si cerchi di non leggere quello che c’è scritto, dicono le Scritture – ha sentore di morte, come nell’episodio di Lazzaro (Gv 11, 1 – 44). La gioia della risurrezione conserva una macchia cadaverica. Il Cristo risorto è rappresentato vincitore, ma il suo trionfo non ha mai cancellato, nel cuore dei fedeli, l’immagine del Crocifisso. Anche la finale risurrezione dei morti – nella quale una fede che non sia disposta ad abdicare al proprio senso continua ancora a sperare contro ogni speranza (come del resto aveva sperato contro ogni speranza Abramo, nostro padre nella fede, Rm 4, 18) – porterà con sé un sentore di sepolcro: anche se venisse cancellata la memoria (Is 65, 17; Ap 21, 4), il tragitto percorso resterebbe orribile ugualmente.” 24 La sconfitta di Dio, op. cit.., pagg. 62 – 63. Si comprende, dopo l’esame di questa citazione, come l’aver anticipato un’ardita equiparazione della condizione del Risorto, rimanendo dalla parte di Quinzio, con le mummie del dottor Federico Ruish, non sia solo un accenno erudito alla celebre operetta morale Leopardiana. Cfr. pag. 12 e nota 23. Attraverso questi pochi passaggi, la serenità dell’affidamento viene gettata nel tartaro dello sgomento che si apre davanti all’insormontabilità della morte. Quanto sopra scritto è sufficiente per dichiarare la sconfitta dato il fatto che anche la prima generazione di credenti è stata inesorabilmente inghiottita dalla morte: questa è la terribile domanda che grida la contemporaneità quando la verità sembra irrimediabilmente cedere verso questa straziante conclusione. Ecco perché anche gli irriducibili occhi della fede dovrebbero ormai vedere irrompere ed affermarsi la sconfitta di Dio. Quinzio sospetta sempre che vi possa essere un sordido inganno dietro i racconti che giungono a noi dall’aurora del cristianesimo, quando rifulse la stagione dei martiri, ma cosa scriverebbe oggi, sapendo che i martiri dell’ultimo secolo forse superano in numero tutti quelli della gloriosa antichità? Possiamo annotare, non senza tristezza, che non comprende nemmeno il senso autentico della consapevolezza che anima e sorregge coloro che stanno per versare il sangue nell’atto della testimonianza estrema, annacquandola con stolida gioia? Possiamo accettare l’osservazione che quando tutto sembra compiuto nel perfetto sacrificio di Cristo, la pretesa della salvezza esige ancora del sangue - poiché la realtà appare essere così - anche se Quinzio non capisce il perché di una tale e terribile necessità? Per avvalorare questo osserva: “Se ci fosse anche un solo dannato,o si dovrebbe negare l’intenzione salvifica di Dio (Tt 2, 11), o si dovrebbe inevitabilmente concludere che tale intenzione, fondamentale per la comprensione del Dio che si rivela agli uomini come salvatore, no viene realizzata, fallisce. Qui, il fallimento di Dio non si verificherebbe soltanto nella storia, ma anche nell’eternità. Se c’è l’inferno, allora Dio non può salvare le sue creature: la centesima pecora, per la quale il pastore è disposto ad abbandonare nel deserto le altre novantanove e a dare la propria vita, non si può salvare. E la dannazione, non importa se di molte o di poche creature, aprirà nella giustizia di Dio una non più sanabile contraddizione, perché ci sarà comunque, per coloro che non si salveranno - e visto che nessuno è esente dalla sofferenza nella sua vita – un residuo di dolore inutile, senza consolazione e verosimilmente senza frutto.” La sconfitta di Dio, op. cit., pagg. 65 – 66. Messi davanti all’ipotesi, poiché di questa si tratta visto che non possiamo con certezza fornire prove a sostegno, di una sconfitta di Dio formulata sul sostegno di una simile lunga serie di sconfitte tanto disastrose da far spuntare un compassionevole sorriso, la soluzione rimarrebbe facile ed alla portata: non credere e non pensare più a Dio. Il mondo, secondo questa visuale, sembra muoversi da ormai da secoli. Siamo concordi sul fatto che un’avanzata di tal genere spesso sia stata letta come una serie di inequivocabili ed inappellabili vittorie all’insegna di una progressiva conquista della libertà verso nuovi spazi vitali alla luce di un progressivo consolidarsi della consapevolezza. Se le cose restano messe in questo maniera, Dio con tutte le sue sconfitte, a che cosa può servirci? Inaspettatamente risponde: “Ma l’ipotesi che non sia così mi sembra almeno alquanto legittima, ed è anzi impossibile negare che le punte più acute del pensiero contemporaneo, come pure molte manifestazioni del costume, testimonino in favore di quest’ultima. In tal caso, il Dio delle sconfitte può servirci, perché è il nostro modello, l’unico modello di cui possiamo ancora disporre.” La sconfitta di Dio, op. cit., pag. 66. Questo nuovo tracciato, fondato come un’ulteriore ipotesi, poiché rimane da dimostrare come quanto affermato sopra riguardo l’opportunità di non credere e pensare più ad un Dio sconfitto, se vogliamo - coerentemente - rimanere fedeli all’indagine speculativa che stiamo cercando di costruire, riapre una partita che sembrava irrimediabilmente perduta. Per non uscire dalle linee guida che ci hanno condotto fino a questo momento, quello che abbiamo inseguito, le osservazioni squisitamente teologiche e moralistiche, le lasciamo alla libera lettura, preferendo un agile approdo ad una doverosa conclusione prima di presentare la proposta che identificheremmo come pars construens, senza voler nulla togliere, come accennato e sottolineato, alla legittimità delle domande verso le quali Quinzio con coraggio ci sospinge turbando i nostri quieti sonni teoretici. Il tema attraverso il quale vorremmo transitare potrebbe apparire troppo parenetico, ma si manifesta come quello più sferzante, da un punto di vista filosofico, data la provocatorietà che reca in nuce. Quinzio introduce il concetto di anticristicità transitando attraverso uno scenario apocalittico nel quale sembra muoversi con una certa famigliarità. Quello che emerge con prepotenza è il pensiero del male, quel mysterium iniquitatis Quinzio approfondisce questi temi nel già citato testo (nota pag. 31), Mysterium iniquitatis, alquanto singolare, dai lui stesso definito romanzo nella sua struttura, composto da due grandi sezioni che corrisponderebbero alle uniche due immaginarie encicliche scritte dall’ipotizzato ultimo romano pontefice della storia, Pietro II°. I temi che ingaggia sono quelli ormai consueti e che nel nostro scritto abbiamo ampiamente focalizzato: il problema del male e la questione della risurrezione dei morti. che tanto lo affligge al punto di renderlo cieco anche quando messo davanti alla chiarezza speculativa così come alle verità che la fede tenta di far riemergere dal labirintico mondo che tutto vorrebbe confondere. “La condizione del mondo dopo Cristo – come la rivela e la profetizza l’Apocalisse, che ha ormai di fronte lo scenario delle persecuzioni e delle seduzioni – è l’anticristicità, la contraffazione (e cioè il più profondi capovolgimento) dell’intenzione salvifica di Dio.” La sconfitta di Dio, op. cit., pagg. 71 – 72. La catastrofe apocalittica, piuttosto che essere rintracciata da Quinzio, come la rappresentazione liturgica, profetica e sapienziale di una logica che sorregge e regola il mondo, viene restituita alla maniera del tremendo e sospirato finale di una tragedia. Il trionfo giustizialista, secondo un’impostazione tradizionale, appare come la grande vittoria di Dio sull’iniquità che, distruggendo finalmente gli empi che hanno imperversato rende, finalmente, il dovuto delle promesse ai giusti innocenti. Questa catastrofe, che periodicamente torna ad atterrire l’umanità, sarebbe presentata dalle Scritture come la grande vittoria, nell’esplodere dell’ira Il concetto di ira di Dio andrebbe specificato secondo una corretta prospettiva ermeneutica. Già nell’economia dell’indagine biblica che abbiamo precedentemente condotto evidenziando la metodologia interpretativa che Quinzio applica alla sacra pagina, le forzature caricate sull’atto esegetico sono state individuate nelle conseguenze che producono nell’ottica dell’interpretazione stessa. Purtroppo, comunemente e fondamentalisticamente, l’ira è sempre stata letta come una condizione divina. Vero che l’immagine di Dio adirato seduce ed atterrisce e forse, incute quel timore che viene interpretato con le categorie proprie della paura. L’indagare i cosiddetti lati oscuri di Dio, quelli che per pudore non osiamo osservare, non deve scadere nella fideistica superstizione – cosa che il cristianesimo in sé rifugge ed aborrisce – piuttosto richiamare ad un rigore teoretico in grado di animare un’adeguata ricerca teologica: il conoscere aiuta a circoscrivere la paura, ma questo deve avvenire nella progettualità dell’esistenza, nel tentativo di comprendere l’uomo intero che interroga e si lascia interrogare. Cosa sarebbe, altrimenti, della reciprocità dialogica alla quale la rivelazione di Dio ci invita? di Dio, quella della quale avevano parlato gli antichi profeti descrivendola come la vendetta di Dio stesso, dunque di uno sterminio che travalica il senso stesso della giustizia e della misura. Quella che emerge è una violenza eccessiva, un tracimare spaventoso che pare non conoscere limiti, ma che Quinzio mette in relazione, facendolo coincidere, con un eccesso di paradossale misericordia. Non è affatto un passaggio semplice, poiché mancano le corrette categorie teoretiche, lo abbiamo già detto. “Non è un Dio che trionfa nella sua potenza quello che infierisce contro il carnefice per strappargli la vittima, e che ha bisogno di vendicarsi su di lui, ignorando la magnanimità della clemenza. Come già nella croce, così nell’Apocalisse la vittoria di Dio si distingue appena dalla sconfitta, e questo accade perché la scelta originaria è stata la scelta di ciò che non è nei confronti di ciò che è, quella cioè di abbandonarsi alla debolezza ed alla possibilità della morte.” La sconfitta di Dio, op. cit., pag. 72. L’assenza di una limpidezza cristologica produce questo genere di azzeccate confusioni, nel senso che, nonostante la grossolanità, evincono quelli che sono i nodi importanti da riconoscere, ma sopra in quali non indugiare con inadeguata timidezza. Non appare nemmeno come un andare a tentoni, dato che proferisce soluzioni senza nemmeno prefigurarsi i possibili esiti. Infatti scrive: “Quella di Dio non è una scelta fatta in base alla previsione dei suoi effetti, perché allora ogni conseguenza, ogni esito sarebbe voluto, sarebbe dunque un’affermazione della sua volontà, di se stesso, di ciò che è nei confronti di ciò che non è, della forza nei confronti della debolezza; è invece uno scegliere senza prefigurarsi le conseguenze della scelta, è la libertà dell’assunzione di un rischio totale.” La sconfitta di Dio, op. cit., pag. 72. Quinzio insiste, citando ancora una volta Andrè Neher, considerando che un tale procedere ed intervenire di Dio nella storia dell’uomo come in quella del mondo creato sia un andare per tentativi, un autentico improvvisare, come sopra accennato, dovuto ad una radicale impreparazione. Certo, il solco ebraico, quello che conduce a formulare simili conclusioni, affascina il virtuosismo speculativo malgrado il fatto che, per sostenere tesi di questa portata, manchino sempre le prove inconfutabili essendo dicibile sempre il tutto ed il contrario di tutto. La fatica del concetto viene abilmente evitata. Come potrà mai essere affidabile un Dio che improvvisa? Certamente dovremmo trattare di un Dio estroso, che non si sofferma a contemplare gratuitamente l’opera del creato per solipsisticamente goderne. E questo estro di Dio Un testo interessante a proposito è quello dedicato al tema della bellezza dell’arte suggerito dal libro di Pierangelo Sequeri, L’estro di Dio, Glossa, Milano 2000. Anche se la trattazione si muove nell’alveo di una riflessione estetica ed artistica. altro non può essere sostenuto che da una consapevolezza infrangibile data dalla capacità divina di modellare il progetto della salvezza in itinere. Solo un Dio viator, che cammina al fianco dell’uomo lasciandosi coinvolgere nella storia fino ad infangare la sua purezza, può tenere saldamente in pugno la situazione. Insomma: coloro che sono afferrati nella difficile arte dell’improvvisazione musicale, devono avere una solida conoscenza dell’armonia al punto di liberamente dominarla nella libertà dell’improvvisazione stessa, dove un metro, una misura sono sempre tenute costantemente presenti, per evitare pietose e stantie volute che altro non sanno che di puerile abbandono o scolastico impegno. Un’estasi controllata? Certo, un lasciare spazio sapendo come tornare a riprendere quanto lasciato all’oblio della caduca improvvisazione umana. Un Dio con noi, conosce tempi e ritmi dell’uomo e mirabilmente si adatta sorreggendoci sempre anche quando pare cedere prima di noi. Questa è la forza della kènosis, altrimenti avremmo vaga apparenza, docetismo. Di tal genere, però, è un Dio che sa scommettere sull’uomo cosciente, allo stesso tempo, della fallacità umana, ma che continua a dare fiducia chiamandoci alla sequela per mettendoci in cammino alla sue spalle, dato che, ancora, non siamo pronti per contemplare il suo volto. Inevitabilmente, possiamo capitolare solo alla tentazione dell’anticristicità, giustificata dalla terribili visioni catastrofiche, dato come scrive Quinzio: “Il giorno del compimento della salvezza promessa è il giorno in cui tutta la terra sarà divorata, sterminati tutti gli abitanti delle terra (Sof 1, 18). Questo è il giorno che gli uomini, e Dio (Rm 8, 26 – 27), dovrebbero desiderare ed invocare. L’orrore come estrema, unica possibilità, di salvezza. Un’invocazione necessaria e impossibile insieme.” La sconfitta di Dio,, op. cit., pag. 74. Ha senso mettere in tensione la propria umana esistenza nell’attesa di un compimento che non ci è dato sapere quando avverrà, se non già principiato? Vivere la vita interrogandosi ogni istante non presume questo vagheggiare apocalittico, ma un carpire al dispiegarsi del tempo ogni attimo riempiendolo di senso compiuto anche laddove il significato risiede nell’abbandono dell’incapacità, ma dove si profila la coscienza dell’affidamento. Attendere e vivere, prima che attendere e struggersi nel rammarico che il giudizio sembra tardare a venire. Per questo, l’anticristicità storica va vissuta, pensata, subita, senza cedere ad essa nella resa incondizionata, al contrario saremmo condannati a vivere l’amarezza della delusione, ma qui siamo già oltre perché cominciamo ad intravedere il paradosso come unica via d’uscita, quando per affermare diventa necessario negare. Occorre comunque comprendere, a questo punto, come Quinzio costruisca l’interessante concetto di anticristicità, anche se per farlo smentisce nuovamente il peso che dobbiamo dare alla modernità proprio perché paradossale e contraddittoria: proprio perché umana. L’incipit gli viene suggerito riflettendo sulle speculazioni di due padri della Chiesa, Cipriano ed Agostino laddove intravedono, nel lento allontanarsi temporale della cristianità dall’evento fondatore, il motivo che li rendeva coscienti di vivere ormai la senectus mundi. Pensavano questo sulle orme della stanchezza pagana, osservando un mondo in lento disfacimento dove la secolarizzazione e l’idolatria apparivano come imperanti. Non dimentichiamo che Cipriano ed Agostino, nella finis Africae, vissero quel tremendo passaggio epocale che fu la finis imperii, per tanto, le loro riflessioni non sarebbero potute essere che queste alla fredda luce di una possibile congedo della cultura latina travolta dal diluvio barbarico. Mettendo da parte ogni possibili enfasi retorica, quel transito rappresentò un’autentica crisi di valori oltre che uno smarrimento di punti di riferimento: una malattia mortale, per usare un linguaggio esplicito. La disperazione che assale coloro che vivono queste rivoluzioni spesso acceca annullando ogni credibile obbiettività nella delusione di veder irrimediabilmente tradite le proprie umane aspettative. Quinzio, sopra questi temi, procede a suo agio, non è una novità. Purtroppo, questa famigliarità insolita lo torna a tradire lasciandolo solo a contatto con le sue personali attese tradite. Ecco, allora, come sorge il rifiuto, la non accettazione. “Mi rendo chiaramente conto, nel momento stesso in cui le cito, che le parole della Bibbia, da secoli venerate senza essere più comprese, non comprese perché divenute inaccettabili, e inaccettabili anzitutto per il loro mancato compimento, l’uomo contemporaneo non può più ascoltarle.” La sconfitta di Dio, op. cit, pag 76. Il fatto di giudicare lontano l’autentico significato delle scritture giustifica la conclusione che non possiamo più credere ad un Dio che esige un infinito prezzo di sangue e di lacrime per donare una salvezza che nessuno è ancora riuscito a scorgere. Il fallimento della pretesa cattolicità della Chiesa, che non si è realizzata, appesantisce la sconfitta. Lentamente comincia a prendere consistenza l’idea che la fede è un cieco affidarsi che tradisce ogni possibile orizzonte sapienziale e razionale, ma che appartiene solo alla croce, infatti scrive: “che tutta la storia e tutte le cose abbiano un senso solo all’interno di questo unico evento è un’affermazione estremamente rischiosa, ma è un rischio insensato solo per chi presume di possedere criteri di verità che garantiscono l’affermazione contraria erigendola a conoscenza evidente , inevitabile, necessaria. L’uomo moderno è abituato a pensare che l’evento che si compie in Cristo è un caso particolare che si è dato all’interno della storia; ma, sebbene sia certamente un caso particolare, ogni esperienza che da allora abbiamo fatto e ancora facciamo non può essere compresa se non come ulteriore caso particolare all’interno di quello.” La sconfitta di Dio, op. cit., pag. 78. Queste parole svelano un’inaspettata grande comprensione, un elemento che irrompe nella storia umana fornendole un senso compiuto anche se svuotandola del suo stesso valore, poiché se Dio è disceso nella valle della storia, anch’essa detiene un significato che invoca la corretta comprensione, ma quello che viene perseguito, in questo preciso caso, è la condanna della storia stessa in quanto triste catalogo di sconfitte ed attese tradite L’evento dell’incarnazione impone un’ulteriore conferimento di senso alla storia stessa dell’umanità in quanto evento centrale in grado di costruire un prima ed un dopo in u n concetto di storia aperto dove storia e meta - storia interagiscono nella tensione escatologica. Quinzio non può sostenere una simile lettura in quanto protese verso una visione apocalittica della storia dove la centralità dell’evento cristico assume senso solo se proiettato nel giudizio finale.. Con queste affermazioni Quinzio sfiora la paradossalità e la contraddizione di un pensare che trova la forza necessaria per progredire assumendo se stesso dal profondo. “La fede cristiana, per quanto sconfitta, anzi proprio perché sconfitta, ha ancora quel briciolo di forza residuale che rende possibile una lettura della storia di sconfitte e delusioni alla quale apparteniamo.” La sconfitta di Dio, op. cit., pag. 79. Nonostante questo, il giudizio sulla storia umana rimane sempre invischiato nell’impossibilità di coglierlo come vittoria dell’uomo che costruisce il proprio domani in armonia con l’ambiente: nemmeno più il domani rimane pensabile fino a giungere all’indicibilità. Così osservandolo, il mondo moderno si propone come l’estrema tragica conseguenza, l’opaco sordido riflesso della sconfitta di Dio nella storia. Per cui: “La novità del moderno è la contraffazione della novità annunciata da Dio come salvezza, si dà solo a partire da quella, si dà solo come falsificazione e menzogna. La rinascita del mondo come nuovo, come moderno, e come salvifico attraverso il progresso della storia, lo sviluppo delle scienze e della tecnica, la rivoluzione sociale, è una pseudo – risurrezione; la modernità è lo pseudo – Cristo, l’Anticristo. La sua grandezza, nei confronti di tutto ciò che l’ha preceduto, sta in questo. La sua erroneità, la sua malignità, non sta in nulla di etico, ma nel suo essere scimmia di Dio, nel tentare l’imitazione della potenza salvifica di Dio con strumenti soltanto umani. L’anticristicità è altamente etica, come si legge in Dostoevskij, Soloviev, Sestov ed in altri autori russi, gli unici che abbiano usato questa chiave di lettura.” La sconfitta di Dio, op. cit., pag. 80. Allora, la sconfitta ulteriore, quella tremenda, quella che mette paura è insita nel tentativo da parte umana di porre da se stesso rimedio all’imperfezione costruendo, tassello dopo tassello, l’anticristicità nel tentativo di sostituirsi al Creatore laddove Dio non ha mantenuto le sue promesse: questa altro non è che la diagnosi – anamnesi di un male antico, originario. La seduzione che assale, a questo punto, è grande e potente come lo stesso lasciarsi andare in continui accertamenti secondo la metodologia dell’esame dei dati analitici, procedimento che appartiene ormai alla malattia, alla cattiva infermità. Questa desolazione speculativa, dalla quale pare impossibile disancorarsi, conduce Quinzio a mettere a fuoco una folgorante questione: quella del male. A suo parere, la pseudo – redenzione anticristica ha addirittura operato lo svuotamento ontologico e teologico del male attraverso un espediente magico, per questo non è più possibile prendere sul serio la domanda: unde malum? Il lento stemperarsi di questa tematica è evidente soprattutto colà ove la domanda razionale viene meno per eccesso di pudore. Non dimentichiamo un fatto: l’autentica sconfitta di Dio avviene laddove e quando l’uomo comincia a non pensare più beandosi di un affidamento fiduciale e fideistico, quando scansa la responsabilità di porsi in fronte alla vita per osservarne l’intrinseca problematicità. Infatti, se Dio è il problema, la vita, in quanto creazione e dono di Dio, è un regalo problematico, una faccenda che tiene desti.Inoltre, non dimentichiamo che l’inferno si apre quando la ragione viene ridotta all’impossibilità. Ecco perché l’autentica sconfitta di Dio si profila all’orizzonte di un’umanità che ha ceduto alla rinuncia della faticosa ricerca di un senso costruendo un mondo dove l’uomo non pensa più. Questo, almeno, Sergio Quinzio lo ha evitato, grazie alla sue domande. Leggiamole ancora una volta. “Ma se Dio sarà sconfitto? Se Dio non salverà mai più? Se i morti non risusciteranno? Se le ingiustizie e le sofferenze continueranno per sempre? Cose come queste può la fede pensarle E’ ancora fede quella che si vede precipitare verso un esito più catastrofico per la fede stessa, di qualunque catastrofe?” La sconfitta di Dio, op. cit., pag. 96. La catastrofe è un uomo che rinuncia alla sua stessa natura d’essere umano, negando a Dio stesso la possibilità di umanizzare. 5.3 Pensare Dio nel paradosso della croce La via d’uscita, se così possiamo chiamarla, malgrado Quinzio abbia prospettato un mondo dove sembrano non esserci più vie d’uscita praticabili se non quella dell’annientamento nella disperazione, ci viene offerta ripercorrendo l’itinerario speculativo descritto da Hans Urs von Balthasar nell’opera Teologia dei tre giorni. H. U. von Balthasar, Teologia dei tre giorni, Queriniana. Brescia 2003. Il testo nasce da un’esigenza ben delineata ed allo stesso tempo dichiarata con fermezza: la necessità di esaminare più a fondo e con proprietà ermeneutica il delicato problema della kènosis del Figlio di Dio nella sua incarnazione e, soprattutto, nella sua passione. Il fatto di trattare questo mistero dovrebbe aiutare ad evitare malintesi troppo grossolani ed indebite approssimazioni. Questa affermazione serve ad introdurre la risposta propositiva che tenteremo di fornire alle provocazioni che il libro esaminato di Sergio Quinzio ha lanciato proprio tentando di stimolare un doveroso ed attuale approfondimento. Inoltre, tenuto conto del tenore dello scritto criticato sopra, della sua stimolante approssimatività enunciata con vigore attraverso malintesi, una puntuale risposta diviene necessaria.Anche se lo spazio di questa dissertazione non ci permetterà di indugiare nella lunghezza della trattazione, basteranno alcune essenziali idee per rispondere sistematicamente agli interrogativi lasciati in sospeso da Sergio Quinzio, ed attorno ai quali abbiamo ampiamente dibattuto nel tentativo di districarli. Da anni, l’idea di un Dio che soffre è ormai diventata una costante nell’universo speculativo filosofico e teologico. Kitamori K. Kitamori, Teologia del dolore di Dio, Queriniana, Brescia 1975. Questo testo aiuta ad approfondire la tematica in questione permettendoci di superare l’ostacolo che l’impassibilità e l’imperturbabilità di Dio hanno da sempre rappresentato. Inoltre, permette di rispondere al quesito su come pensare il dolore di Dio. l’ha posta in circolazione in maniera autorevole ed ufficiale, l’americana teologia del processo, ha alimentato notevolmente questa nuova linea di ricerca sostenuta dalla polemica contro la prescritta impassibilità divina - dimostrata ampiamente dai padri della Chiesa -, negata attraverso alcuni passi desunti dall’Antico Testamento, unita al grande apporto giunto dalla parte della filosofia hegeliana nel tentativo di superare Impieghiamo il non facile verbo, ermeneuticamente parlando, superare da intendersi, in questo preciso frangente, in senso hegeliano (aufhebung).l’impasse nel quale la dogmatica è andata, per tranquillità teoretica, a ristagnare. Il pensiero si supera con il pensiero, non cedendo per estrema faciloneria, rifiutando in toto una teoria speculativa. Insomma: un conto è mantere sub judice una prospettiva conoscendola, un conto il cancellarla, per questo abbiamo criticato l’aprioristica infondatezza dell’antiellenismo più volte richiamato da Quinzio, anche se “la kènosis del Figlio rimarrà senza dubbio, sempre un mistero non meno insondabile della trinità delle ipostasi del Dio unico. Ma ponendo l’accento, nella dottrina della kènosis, unicamente sulla natura umana assunta dal Figlio, o sull’atto di assumerla – poiché la natura divina è inaccessibile ad ogni divenire o cambiamento perfino ad ogni relazione reale con il mondo –, si rischiava di sottovalutare il peso delle asserzioni bibliche e di rasentare al tempo stesso il nestorianesimo e il monofisismo: non soffrirebbe che il Gesù storico, o forse le facoltà interiori della natura del Cristo, mentre la sua punta fine rimarrebbe, anche nell’abbandono, unita al Padre in una visione beatifica che non poteva interrompersi.” Teologia dei tre giorni, op. cit., pagg. 21 – 22. Questa citazione vuole essere una prima risposta alle questioni costantemente riproposte non evitando di precisare, da parte nostra, che quello che, fondamentalmente interessa, è l’intrecciare un discorso su Dio, dato il fatto che poter ancora pensare Dio è stato assunto come problema. 5.3.1 Il nodo centrale della questione Il luogo di partenza di questa nostra proposta risiede nell’indicare il delicatissimo punto sopra il quale si sorregge l’intero impianto speculativo della Teologia dei tre giorni, identificandolo in quel nodo cruciale che, nel senso proprio del termine, aveva fatto dichiarare a Quinzio, senza troppi ambagi, la sconfitta definitiva di Dio. Questo cardine è l’esperienza della morte di Cristo letta non esclusivamente come morire in se stesso, ma come morte effettiva ed inequivocabile, condizione estrema e tragica di solidarietà con i morti discesi nello sheol, smarritisi nell’Ade Una precisazione è doverosa, per chiarire la geografia dell’oltretomba. Con questi termini si tende a descrivere quello stato post mortem nel quale viene compreso sia il paradiso che la geenna. : dunque come descensus ad inferos. Infatti, Cristo fu solidale con tutti i morti prima di lui e sperimentò la disperazione della morte seconda E’ interessante l’accenno che ritroviamo nel Cantico delle creature di san Francesco di Assisi, resa con chiara intonazione esistenziale. In ogni caso, Balthasar stesso sostiene questa tesi, il tema della discesa agli inferi, attraversando il medioevo cristiano ha lasciato la sua chiara traccia mistica., pertanto tutta la profondità e l’abisso di quella immane condizione nella quale si trova precipitato, dopo la fine della propria umana esistenza, ogni singolo peccatore privo della redenzione. Per questi motivi l’evidente sottolineatura che effettua Balthasar, lungo il corso della trattazione, è da intendersi come la dimostrazione di quanto quest’evento, svuotato della sua drammaticità, non opportunamente trattato o forzato con categorie improprie, rischi di essere interpretato mitologicamente, pericolo al quale Quinzio, contrariamente, si espone. La consapevolezza dell’autore in merito, si esprime nell’equilibrio che adotta per decodificare la formulazione tradizionale che viene fornita distinguendo nel suo intimo tre differenti stratificazioni che espliciteremo poiché ci offrono l’opportunità di definire il tracciato che viene seguito. Il primo è eloquentemente rappresentato dall’evento cristologico e trinitario allo stesso tempo, dove incarnazione e passione esprimono un unicum inscindibile per configurare con fermezza l’ampiezza dell’evento kenotico, oltre alla sua estensione che deborda dall’eternità. Il secondo coincide con la rappresentazione di questo evento che all’origine non la possiamo definire né mitica né, tanto meno, scientifica, ma corrispondente al nudo sentimento del mondo che percepisce ed esprime l’uomo naturalmente inteso secondo il quale la luce sta sopra e la morte e l’oscurità stanno al di sotto come, del resto, le antiche cosmologie insegnano, sopratutto quella ebraica. Il terzo, per concludere e con una caratterizzazione secondaria, la cosiddetta rappresentazione mitica Per mitiche si intendono tutte quelle letture che debordano dalla scarna cronaca che i vangeli canonici restituiscono, quando si narra di lotte sotterranee tra Cristo e potenze occulte che avrebbero come posta in gioco la liberazione di prigionieri. Nonostante questo nostro inciso, la contemporanea esegesi comincia a concedere spazio ad una tale linea ammettendo di trattare, soprattutto per quanto concerne i primi undici capitoli del libro della Genesi, di racconti mitologici. Questo, in ogni caso, non si addice ai duri racconti della passione mentre sull’evento risurrezione la discussione è ancora aperta. . Il tema della discesa agli inferi, nel nostro caso, è stimolante per il fatto che offre quell’approccio esistenziale che Quinzio ha sempre sostenuto e preteso nel tentativo di prestare voce alle sue domande anche se, nel caso in questione, l’esistenzialità va applicata all’esperienza di Cristo, alla quale possiamo rivolgerci e partecipare, ma che ancora pienamente non ci spetta. L’evento, in ogni caso, è di assoluta disperazione, la stessa che la seminagione della sconfitta che abbiamo seguito, ci vorrebbe imporre come tragico raccolto di un universo di promesse, attese e speranze tradite. La solitudine di questa prospettiva è assoluta, impenetrabile per chiunque, quasi capitolante in un egoismo sfrontato e fuori luogo. Eppure, nonostante questa cruda consapevolezza, l’incanto silenzioso del sabato santo consiste proprio nel nuovo inizio che segna, un inizio differente da quello di Dio che pone eternamente se stesso, differente ancora da quello della creazione. Allora, l’incanto silenzioso del sabato santo si definisce come un’autentica nuova creazione, ancora germinale, non tanto un’impossibile riprendersi il mondo creato per ristabilire la giustizia inapplicabile, secondo il teorema di Luria poiché, inoltre, quello che il Padre ha donato, non se lo riprende più per nessuna ragione, ma è sempre l’uomo che se lo gioca. Dunque, la solidarietà di Gesù con la misera condizione di coloro che vivono nella lacerante lontananza da Dio, quando non nell’abbandono totale, risulta essenziale per capire come il rapporto dell’essere umano con l'Eterno va teso proprio dove, all’apparenza, potrebbe sembrare impossibile, ovvero: nei luoghi dove Dio non parla, dove incontrastata domina la negazione. E quale negazione se non la morte, lo spettro della sordida sconfitta, assurge a luogo indicato, se non predetto, affinché possa sorgere un’analogia La dottrina dell’analogia sarà il cardine sopra il quale Balthasar farà ruotare tutta la sua ricerca. tra Dio e l’uomo, dove si è legittimati a parlare di Dio proprio nel luogo in cui si sperimenta, in tutta la sua durezza e disumanità, l’assenza di Dio stesso. E non dimentichiamo che l’essere assenti non coincide con il non essere, piuttosto con un non esser - ci, che si presume temporaneo, dunque coincidente con l’esser - ci in un altro luogo. Non è un gioco concettuale, ma un voler configurare la questione ancora una volta permettendo di collocare, esclusivamente da parte umana, il mondo etsi Deus non daretur, spalancando una dimensione dove Dio si lascia deliberatamente dichiarare assente per stare ad osservare l’immane precipitare, nella dissoluzione, della libertà Spesso la libertà pretesa si trasforma in ideologia libertaria, dunque in liberalismo, assolutizzano una categoria che poco ha di umano. umana. Il centro nevralgico di questa tematica, non di pura deduzione balthasariana, anche se il teologo svizzero dimostra quanto sia congeniale alla sua impostazione teoretica, rivela una chiara derivazione dalla patristica greca ed in particolar maniera dall’opera di Massimo il Confessore. Siamo davanti ad un evidente incontro mistico, ma sarà proprio attraverso questo singolare sentiero, che prenderà letteralmente forma quell’intuizione, genial paradossale, che ci permetterà di costruire laddove nulla sarebbe più possibile. Inoltre, di non secondaria importanza, è l’avvenuta complicità spirituale con la mistica tedesca Adrienne von Speyr quando, attraverso gli stati di desolazione vissuti da questa donna durante il sabato santo, condizione che possono conoscere solo i peccatori abbandonati nello sheol, Balthasar scriverà che questa com - passione mistica con il Cristo sarebbe sfociata nella oggettivazione teologica del descensus ad inferos. La decisione di porsi alle spalle di una evidente esperienza mistica ovvero, dentro la pregnanza di una forma concreta della vita cristiana, impregnata di materialità oltre ad essere caratteristico di Balthasar, propone una delineata impostazione volta ad un critico rifiuto della pura trascendentalità umana. A questo punto è utile ricordare la famosa polemica che contrappose Balthasar a Karl Rahner. Il nucleo della diatriba risiede nelle differenti impostazioni adottate dai due teologi. Rahner costruì la sua speculazione sulla riflessione trascendentale assumendo come punto di partenza il soggetto con le sue intrinseche possibilità. Balthasar, al contrario, scelse la forma, unica, indissolubile, organica, ma che si sviluppa. Questo rilievo ci permette di comprendere come, ragionando sulla forma, potremmo arrivare a trattare di una autentica bellezza della croce, caricando ulteriormente il concetto di paradossalità che desideriamo sostenere.Assumendo il sabato santo come nodo centrale, siamo in grado di riconoscere, e prevedere, dove un possibile discorso su Dio potrebbe andare ad inciampare ovvero: laddove non rintracciamo che assenza, smarrimento del simbolo, annullamento della forma che potrebbe ricondurci al Signore. Al contrario, dove tutta la fatica della trattazione non potrebbe che ripartire solo ed esclusivamente dalle effettive possibilità dell’uomo da intendersi come soggetto, abbassato, gettato sotto, ebbene, proprio questa prospettiva allontanerebbe indebitamente Dio confinandolo in un orizzonte quale cifra di una trascendenza che il soggetto stesso ritrova infitta nella sua stessa interiorità. Questa è una prospettiva che Quinzio stesso ha criticato e sulla quale ha edificato il concetto di sconfitta: un Dio che non partecipa, ma si allontana sempre, un Dio che rinvia il mantenimento delle promesse, è un Dio sconfitto.Diversa intonazione reperiamo quando Dio stesso abita (e vivifica) il nulla, quando sceglie di soggiornare nel niente. Quando la forma può, proprio in conseguenza alla discesa che Dio intraprende dentro l’abisso dell’assenza, sorgere anche dall’informe, dalla lacerazione. Quando questo processo non principia dal e nel soggetto, ma procede come evento esclusivo operato da Dio stesso. Tutto questo, a partire dall’oggettività della manifestazione di Dio nella forma della sua autorivelazione. In quanto scritto di sopra, permanendo nell’accortezza speculativa di Balthasar, l’esperienza mistica richiamata non viene assunta come scaturigine, piuttosto come illuminazione di un inizio che la precede. Grazie a questo baluginio possiamo risalire all’evento rivelativo per eccellenza: la morte di Cristo sulla croce. Quello che emerge dall’intreccio di queste prime battute, è un calare nella quotidianità esistenziale umana la fondazione di una possibilità che parte dal mondo stesso, che si lascia invischiare nella complessità dell’esistenza risignificandola senza mutarne la forma, ma assumendola: l’uomo così come è, è l’oggetto, il salvato e, prima ancora, colui il quale, attraverso la sua forma, può comprendere il mondo e l’umanità, così come disarmantemente si presenta. Per operare tutto questo, l’impianto trascendentale è decisamente insufficiente poiché avrebbe esposto agli strali di Quinzio il suo debole fianco. Il sabato santo, configurato nel cammino di Cristo verso i morti, questo “andare presso le anime in carcere” , non è da intendersi come un semplicistico essere presso i defunti azione che, seguita e completata dalla predicazione dell’annuncio della redenzione, attivamente patita attraverso la croce dal Gesù vivente, non si disgiunge e distingue affatto come una nuova attività, diversa dalla prima. Inoltre, il sabato santo muove la logica stessa dell’incarnazione andando a scandagliare le sue radici fino nell’intimo della vita trinitaria. Infatti la morte, che a causa del peccato ha fatto tragicamente irruzione nel mondo, ha scisso l’immagine umana e pertanto, questa immagine frantumata, spezzata, può essere ricostruita solo nel punto di rottura stesso ovvero: la morte, l’Ade, la perdizione nella lontananza da Dio. Questa è l’esperienza estrema e dura dalla quale nessun essere umano riesce a sfuggire dovendo accettare la mortalità dell’uomo stesso. “L’immagine dell’uomo quale ci viene presentata dalla rivelazione è radicalmente differente dal concetto di animal rationale, mortale suggeritoci dall’esperienza empirica.” Teologia dei tre giorni, op. cit., pag. 24. Proprio per questo fatto, il tragitto che dobbiamo seguire può assumere i toni della credibilità, poiché direttamente sperimentabile e non iscritto in un ipotizzazzione astratta dalla realtà, anche se non procede da un antitetico rifiuto, ma si muove attraverso la fatica del superamento. Infatti: “nessuna filosofia o religione è in grado di ricondurre ad un tutto significativo il frammento che la vita terrena in cammino verso la morte rappresenta; e nessuna religione o filosofia può ritrovare al di là della morte il pezzo di completamento (immortalità dell’anima, migrazione delle anime o chissà quale altra cosa). L’immagine dilacerata può essere ricostruita solo da Dio, dal secondo Adamo che proviene dal cielo. Ed il centro di ricostruzione è necessariamente il punto di rottura stesso(…). Un luogo che sta quindi ai confini o al di là dell’antropologia corrente e che non può essere colto nemmeno dall’adagio filosofico cui vivere significa imparare a morire.” Ibid., pag 25. La critica alla filosofia è possibile solo alla Filosofia stessa, non ad un parlare per approssimazioni non dimenticando che la critica, inoltre, produce sempre un andare oltre nel tentativo di chiarire. Nessuno riesce a spiegare il mistero senza l’apporto della rivelazione, e questo riconoscimento permette di pensare ancora quanto giudicheremmo, per fretta, ormai impensabile. L’accostamento potrà apparire ardito, ma, una volta accertata l’apparente dissoluzione della salvezza nella pseudo rivelazione anticristica con la quale conclude Quinzio la sua parabola, alla luce di queste prime affermazioni possiamo dire, implicitamente citando Heidegger: soltanto un Dio ci potrà salvare. E questo Dio è quello che si lascia sconfiggere, senza perdere il contatto con la sua stessa natura per tornare a costruire senza riprendersi nulla, ma accogliendo nella partecipazione. In ogni caso questo implica l’accettazione di una condizione di debolezza, di abbandono, di spaesamento che spesso, l’orgoglio dell’intellettualismo rifugge preferendo ordinati freddi assiomi. Questo aiuta a considerare il peso dell’incarnazione nel senso profondo della kènosis. A tale proposito, Balthasar accoglie con estrema serietà la posizione dell’esegesi neotestamentaria quando sostiene che i vangeli sono sostanzialmente narrazioni della passione con estese, ed in alcuni casi, particolareggiate introduzioni. Per questo sostiene che l’incarnazione appare ordinata alla passione ed alla conseguente morte di croce, dunque in un annientamento senza riserve. Nonostante la crudezza di questo avvilimento, la kènosis stessa, a sua volta, è la forma che meglio esprime la vita trinitaria di Dio stesso fin dentro la concretezza della storia umana. Il riferimento fondamentale di questa impostazione viene tratto dalla potente speculazione di Cirillo laddove si erge contro la teologia nestoriana, lettura che noi oggi non esiteremmo a definire come un’antropologia dinamico – trascendentale Ritorna la polemica adversus Rahner. infatti, per Cirillo il punto di partenza non risiede nella struttura aperta dell’uomo, in grado di auto - trascendersi, ma nell’auto - rinuncia di Dio espressa attraverso il suo amore discendente, nella passività, quando l’ultimo presupposto, seguendo le intuizioni di Bulgakov, è lo sconcertante altruismo delle persone divine. Questo ci consente, ascoltando ancora i Padri, di veder risplendere nell’impotenza e nella debolezza del Figlio incarnato, l’onnipotenza di Dio. La possibilità della salvezza, pur nella sconfitta di Dio, non apparentemente Come abbiamo già accennato per evitare ogni ombra di patripassianismo o docetismo., ma realmente consumata sul Golgota, risiede nel fatto che quando Cristo non ha più in pugno la situazione poiché morente appeso al patibolo, Il Padre, attraverso lo Spirito, detiene salda la presa sul mondo, sulla situazione. Così il Figlio può soffrire veramente e veramente morire come ogni uomo lasciandosi inghiottire dall’abisso morendo la morte, negando la negazione. La radice trinitaria presente nella Kènosis è per Balthasar importante al livello del sabato santo stesso. La cosa straordinaria è che non teme affatto di ergersi in tenzone con tutta la grande tradizione scolastica che riconosce il senso della morte di Cristo, con un certo esclusivismo, nell’obbedienza incondizionata, insita nella forma determinata di solidarietà con i peccatori fino all’esperienza della morte, come secondaria e conseguente rispetto all’umanamente incomprensibile obbedienza che lo costituisce ed afferma proprio come persona divina. “Se da una parte la persona che si abbassa fino alla forma di servo è la persona del Figlio divino, e perciò tutta la sua esistenza come servo rimane espressione della sua libertà divina - e quindi di unanimità con il Padre -, d’altra parte l’obbedienza che contrassegna tutta la sua esistenza non è solo funzione di ciò che Egli è divenuto…, ma anche di ciò che Egli volle divenire annientandosi ed abbassandosi: colui che obbedisce in maniera unica ed irripetibile al Padre, abbandonando la sua forma divina (e quindi l’autonomia divina), ed in maniera tale che la sua obbedienza rappresentasse la traduzione kenotica del suo amore eterno di Figlio davanti al Padre sempre più grande.” Teologia dei tre giorni, op. cit., pag. 85. Dobbiamo precisare che lo sconfinamento trinitario che stiamo seguendo risulta necessario per comprendere l’insistenza balthasariana su questa specifica dimensione oltre che indispensabile per ordinare che ciò che accade nel Cristo e individuare la base oggettiva di raccordo tra la realtà di Dio e la realtà dell’uomo concreto: tutto questo avviene già in Gesù. Un simile procedere rende ragione alle affermazioni bibliche che descrivono sia il carattere reale e personale della sofferenza di Cristo Evitando l’inciampo nelle letture fondamentalistiche che abbiamo accusato nella metodologia ermeneutica di Sergio Quinzio., senza relegarla nelle facoltà interiori insite nella sua natura, lasciando oltre il coinvolgimento trinitario. Una tale impostazione preserva da ogni inutile contaminazione gnostica, come abbiamo notato, anche laddove il proposito di sostenere ad oltranza una tesi ha obbligato ad attingere giustificazioni dalla tradizione mistica ebraica. Al contrario, risulta fondamentale collegare l’evento della Kènosis del Figlio di Dio a quanto, per analogia, può essere descritto come l’evento eterno delle processioni divine. Dunque non tanto un ritirarsi per fare spazio, ma un continuo dare.Per di più, all’uomo non è possibile restituire in tutta la sua abissalità la continua auto – donazione del Padre, se non trattando di una eterna sovra – kènosi, ed inoltre, dato che occorre concepire l’onnipotenza divina non secondo una norma astratta, piuttosto come onnipotenza dell’amore assoluto, ben sapendo che questo amore contiene anticipatamente tutte le sfaccettature della compassione implorate dall’amore stesso: ecco come la sofferenza di Dio non pretende nessun altro cambiamento. E’ inevitabile confermare quanto l’effettiva fonte d’ispirazione della teologia della Kènosis sia da ricercare nell’esperienza mistica, quando il mondo viene vissuto, dall’esistenza umana, come un agire diretto di Dio attraverso l’uomo ed un riconoscerlo dietro ogni minimo segno o simbolo che lo circonda. Del resto, anche l’antico adagio latino - primum vivere, deinde philosophari - segnala, attraverso il filtro della quotidianità, la direzione del cammino che la riflessione umana dovrebbe assumere per legittimare le domande che ancora la scuotono. Ecco perché non è improprio parlare di una filosofia che sappia restituire il fare, quando l’essere è implicitamente accolto nella sua essenza previa. La croce, malgrado la passività alla quale condanna il Figlio trafitto, esprime un agire che può principiare esclusivamente dalla constatazione che anche nella morte è contenuto un agire per nulla in grado di annullare l’essere stesso, poiché anche un uomo appeso al patibolo svolge, riflessivamente, il suo essere paradossale. Per condurre alla volta della sua naturale conclusione questa nostra peregrinazione, dobbiamo ancora accogliere una forte affermazione, paradossale, nel modo della croce ovvero: come la forma è in grado di offrirsi ossia, intuendo la concreta presenza di Dio in ciò che è senza forma, immerso nella desolazione e nell’abbandono assoluto. Questo, nella sua estrema misura, è possibile solo a Cristo, dato il fatto che solamente colui che può godere della presenza può misurare la tragicità dell’abisso dell’assenza. Infatti, immerso nell’infinto onnipotente amore del Padre si riconosce una rinuncia assoluta ad essere Dio solo per se stesso, un lasciar correre dell’essere divino e, secondo questo senso, una divina a – teità (nell’amore), che non autorizza a confonderla per nessuna ragione con l’ateismo intra - mondano, ma che fonda, superandola, tale possibilità. Per questo Dio rimane il problema e deve essere pensato, non solo come Ente perfettissimo, ma come colui che attraverso il Figlio, si abbassa nel perfettissimo ni – ente. Ecco perché solo un discorso analogico rende possibile costruire un dialogo che non scada nel teorizzare ritrito quando spesso si cede alla diatriba autodistruttiva. Metodologicamente è importante capire come Balthasar intenda ed imposti la dottrina dell’analogia. Certo prende le distanze da quegli autori che, come il riformato Barth ed il suo diretto maestro, Erich Przywara Per ogni approfondimento, l’opera alla quale riferirsi, di questo autore è: Analogia entis, Vita e Pensiero, Milano 1995., i quali lo hanno preceduto ed affiancato lungo questo sentiero. Premettiamo che l’analogia, per la teologia cattolica, è il luogo deputato dove costruire un discorso su Dio. Per noi, affrontare in poche battute un accenno a questa metodologia, rafforza la visione della rotta che abbiamo tracciato per riconoscere la paradossale vittoria della croce. Procediamo. Tra Dio e l’uomo non riconosciamo un’assoluta differenza, ma assieme anche una qualche timida somiglianza ammettendo che una comunicazione tra l’uomo e Dio è dunque possibile per alcuni versi e degli uomini attorno a Dio per altri. Nell’economia del discorso analogico, dobbiamo riconoscere un duplice e fondamentale registro. Il primo è espresso sul piano conoscitivo astratto. Il secondo si esplicita sul piano della partecipazione reale, del modo secondo il quale la creatura partecipa all’essere di Dio. La distanza da Przywara viene presa da Balthasar nel cammino che si delinea alla volta della partecipazione dell’uomo a Dio, laddove il maestro insiste sul momento della dissomiglianza. Ogni fase quando l’uomo si avvicina a Dio diventa autentica nella misura in cui riconosce l’alterità sempre più grande di quanto gli viene donato. Il momento della somiglianza si identifica quasi con il riconoscimento della dissomiglianza, come se la somiglianza possa essere raggiunta solo al prezzo di essere negata. Siamo di fronte ad un sistema dell’analogia teso al riconoscimento dell’alterità di Dio e dove ciò che di positivamente simile è ricevuto dalla creatura, trova la sua funzione nell’apertura di se stesso verso l’altro. Dalla parte di Balthasar è determinante, al contrario, l’effettiva corrispondenza espressa nella capacità di rappresentazione della forma. Anch’egli prende accortamente sul serio la distanza dell’uomo da Dio. Infatti, estendendo lo spettro della teologia della croce a quello della discesa agli inferi, accoglie con primaria considerazione uno stato di alterità rispetto a Dio che non può essere superato da nessun altro stato di eguale distanza ed assenza allo stesso tempo. Allora proprio qui occorre situare, ai fini di una redenzione reale e non abbandonata all’apparenza ed alla promessa, l’inaudita autentica presenza di Dio. Per questo è opportuno che quanto è abbandonato e distante da Dio riceva la forma di Dio stesso. Quest’operazione diviene realizzabile solo se unus de Trinitate si assimila alla condizione di chi è separato da Dio. Questo si fa concreto atto redentivo solo se nell’essere così del Figlio incarnato è realmente presente il Dio sempre più grande qualora l’atto eterno nel quale si disvela e costituisce la Trinità può essere coinvolto nella condizione di degradazione massima che la creatura possa sperimentare. L’assunzione di ciò che giace senza forma, si trasforma in espressione tangibile dell’amore di Dio, palesamento della sua gloria, forma plausibile, dotata di evidenza interna, che si realizza nell’accordo con il mistero trinitario ed incomparabilmente più elevata di ogni altra forma. In conclusione, nessun luogo, condizione, esperienza dell’uomo è dunque irrimediabilmente estraneo a Dio e può ritrovare una sua analogia nella misura in cui rimane investito dalla forma cristiana. Su questo rilievo, Balthasar giustifica l’importanza data alla teologia dell’imitazione, giacché la vita cristiana consiste, principalmente, nel partecipare alla forma di Cristo alla luce di una accoglienza nella libertà, quando diviene pensabile l’esempio. 5.3.2 Conclusione: “in hoc signo vinces” Non vuole assolutamente apparire come uno sfoggio erudito la scelta di questo motto come titolo da apporre alla conclusione verso la quale desideriamo finalmente giungere. La peregrinazione è stata lunga, ma costruttiva, dato il fatto che la questione conosce una sistematizzazione che non possiede nulla di definitivo, ma sopporta i toni della provvisorietà che contraddistingue l’esistenza umana. Abbiamo incominciato con una provocazione, la meraviglia, e terminiamo con un paradosso o meglio: con il paradosso. La croce rimane saldamente piantata con tutta la sua sconvolgente siginficanza e, nonostante gli umani sforzi contro, non possiamo nemmeno scinderla dalla sfolgorante e trasfigurata immagine del Risorto, poiché le piaghe del martirio sono aperte nelle sue membra a guisa di silenziosa anamnesi. Questa è la nostra umana condizione, calata nel segno della debolezza, segnata dalla sconfitta e provata nell’attesa, smarrita nella lontananza da Dio poiché di tutto questo si tratta. In ogni caso, non un cieco lasciar correre, ma un disporsi all’ascolto, dal basso della nostra umanità, aspettando quella voce che costantemente chiama dal gravare dello Spirito sulla terra dis - creata dall’uomo. Quinzio ci ha offerto la possibilità di scandagliare l’abisso che si spalanca oltre l’abisso, non eludendo luoghi ove l’inciampo non è stato eludibile, ma quando si tenta di fare della filosofia, anche un momentaneo sviamento è concesso, purché sia porta d’accesso, stretta, per nuove questioni e la rimessa a problema di domande che l’accademica severità ha abilmente sostituito con una meno pericolosa ricapitolazione (spesso necessaria). L’idea di debolezza che ci ha consegnato non permette nessun ritorno se non nella folgorazione dell’ecpirosi apocalittica che egli stesso invoca per temerariamente mettere alla prova Dio, attendendolo sull’estremo gradino del dissolversi escatologico. E’l’umano cedere alla seduzione di tentare Dio per vederlo finalmente all’opera. Il guadagno in signo infirmitatis abbandona in una desolazione assoluta, in un nichilismo che rischia di auto - determinarsi sul cammino verso una disperazione senza uscita. Certo, le riflessioni di intonazione esistenziale sono la fredda diagnosi di un mondo, e di una umanità, che sembrano irrimediabilmente consegnate alla deriva in una dimensione dove pietà e misericordia affatto non possono entrare. Dio muore sulla croce senza poter ritornare, perché sembra che dopo di lui nessun morto ancora sia risorto, mentre si narra solo di cadaveri rianimati. La domanda è tremenda, soprattutto quando sulla base della fede si tenta la strada dell’altrui consolazione. Presenta un cammino confortante in tono minore, tingendo di rassegnato pessimismo ogni possibile tentativo di riscatto, esclusivamente umano e sempre dal basso, dato che l’alto pare essersi deliberatamente lasciato escludere da ogni possibile gioco cosmico. La croce che ci racconta è solo uno strumento di tortura tra i tanti, quelli che il cattivo gusto ha ridotto ad orride macchine da museo poiché soppiantate da logiche di sterminio di massa e, prima ancora, culturale. E’il mondo della meccanica, regolato dalla tecnica, dalla cibernetica, il luogo in cui la schiavitù viene vissuta sotto raffinate forme, ma pur sempre tale quale quella dell’Egitto biblico ovvero, propria di ogni imperialismo politico ed intellettuale. Vattimo, teoreticamente più intrigante, scandaglia la debolezza riconoscendo la forza che la pietas riesce ancora a ritrovare pur nella lunga convalescenza. Sono due tracciati differenti, piste che, talvolta, sembrano sfiorarsi, pur rimanendo distinte. Lo spessore speculativo è pregnante e le indagini acute. La filosofia è vissuta, nelle sue domande, pagata con il dolore delle comprensioni. E’un mondo pienamente umano, non senza speranza, ma senza una forma definita, per dirla con Balthasar. Nonostante questo, la forma indistinta viene lusingata in un vagheggiare edonistico e, spesso, estetizzante. Se Quinzio intercetta, e fonda, l’anti - cristicità del moderno e del post – moderno, Vattimo tocca l’a – cristicità della pietas che tratteggia, vagamente cristiana, quando non cattolica, ma pur sempre una redenzione, futura, senza redentore, nella frantumazione e senza Dio, poiché senza Figlio che muore. Della morte non si parla, per eccesso di prudenza, e non esiste, vivendo un’eterna malattia alla quale troppo ci si affeziona. Inoltre, non riconosce tutta quella poetica dell’essere servi, del donarsi agli altri se non sfiorandola nel pudore dell’ascolto, ma rimane sempre un accogliere, non tanto un dare senza porre condizioni previe e permanendo solidali con sé stessi nel vago ricordo della soggettività. Balthasar riesce ad andare oltre, ma la sua indagine non parte dall’uomo, lo accoglie attraverso l’umanità trafitta del Figlio. Dio muore negando la negazione, morendo la morte, per dirla alla Hegel (che sempre si ritorna a criticare perché incute paura, come tutti gli uomini d’intelletto, del resto). Il passaggio è questo, nel segno della croce, dove Cristo vince vivendo la sua morte come ogni essere umano e così significandola. L’apparenza vede un Dio sconfitto, l’intelligenza lo scandalo, il paradosso, il dare forma all’urlo del folle di Nietzsche: dio è morto, Cristo risorge. L’uomo, pensando e lasciandosi interrogare, come Dio nel suo silenzio, può, a partire dalla desolata quotidianità, imparare a riconoscere i segni, i simboli, le forme di un vivere che anche nell’assenza riconosce la muta presenza, l’eloquenza della visione, non dimenticando che alla croce si rimane appesi, che la verità è scomoda. Questa è una conclusione, quanto è stato scritto è sopra. Bibliografia P. Ferrari, Philosophia Crucis, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2002. P. 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