Andrea Dini
CALVINO, HEMINGWAY E «PER CHI SUONA LA CAMPANA»*
1. «Caro Mario […], tutte le volte che mi sono messo a scrivere di questo
dannato uomo mi sono venute da dire cose diverse e certo quando mi metterò a scrivere questo saggio scriverò cose ancora diverse, e adesso bisogna
che conservi la brutta copia di questa lettera se no dimentico tutto»1: conclude così Italo Calvino, il 16 gennaio 1950, un lungo paragrafo dedicato a
Hemingway nella replica a Mario Motta, direttore di «Cultura e realtà», che
gli aveva chiesto un articolo per la rivista. D’istinto, Calvino aveva proposto
il riesame a tutto tondo dello scrittore americano, uno dei suoi «pallini» in
dagli esordi2, termine di un rapporto idiosincratico marcato da tentativi
di deinizione interrotti (è il caso di Classe e sesso in Hemingway, ipotizzato
per «Dàrsena Nuova» di Silvio Micheli, al maggio 1946, di cui non si farà
niente)3, da letture polemiche (appare su «l’Unità» Hemingway burbero beneico, su Addio alle armi, quattro mesi più tardi, nel settembre)4 e, soprattutto,
dallo studio del recìt, di cui avrebbe indicato il ruolo d’esempio per la sua
prosa5. D’altronde, ammetterà Calvino, il tirocinio narrativo passa di neces* Il presente articolo è parte di un più ampio studio, in corso di elaborazione, sul ruolo di Hemingway nella prima narrativa di Calvino, in cui il rapporto con Hemingway (anche a livello formale,
qui escluso per ragioni di spazio) è indagato da vicino.
1 Italo Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di Luca Baranelli con introduzione di Claudio Milanini, Milano, Mondadori, 2000, p. 267. (D’ora innanzi ogni lettera citata dal volume sarà solo
indicata col nome del destinatario seguito dalla data e dalla pagina.)
2 A Alfonso Gatto, 23 novembre 1947, p. 204 (cui promette per il quindicinale «Pattuglia» «un
racconto, un proilo di Conrad e d’altri autori ancora: Hemingway, Nievo e altri miei pallini»).
3 A Silvio Micheli, 22 maggio 1946, p. 158.
4 Italo Calvino, Hemingway burbero beneico, in «l’Unità» (Torino), 15 settembre 1946, adesso
in Id., Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, ii, Milano, Mondadori, 1995, pp. 2115-2117 (d’ora
innanzi, Saggi, seguito dal numero del tomo e della pagina).
5 «Hemingway è stato uno dei miei primi modelli, forse perché era più facile, come moduli stilistici, di Faulkner, che è molto più complesso» (Italo Calvino, La mia città è New York, in Ugo
Rubeo, Mal d’America. Da mito a realtà, Roma, Editori Riuniti, 1987, p. 157, adesso in Italo Calvino, Sono nato in America… Interviste 1951-1985, a cura di Luca Baranelli, Introduzione di Mario
Barenghi, Milano, Mondadori, 2012, p. 585; d’ora innanzi Interviste, seguito dalla pagina). Oppure:
«Ho cominciato a pubblicare dopo la Liberazione racconti d’azione ispirati alla vita della Resistenza
italiana. Erano scritti à la Hemingway, di cui ammiravo la rapidità dello stile» (Intervista concessa a
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sità attraverso i libri degli altri: «ogni esperienza di vita per essere interpretata
chiama certe letture e si fonde con esse»6; «quando ho cominciato a scrivere
[storie] […] andavo a sfogliare tutti i narratori contemporanei e passati, per
imparare il miglior modo di raccontarle»7. I libri degli americani tradotti o
raccomandati dai numi tutelari Pavese e Vittorini, sue «guide», gli fanno da
scuola8; e tra essi svetta, fascinosa, l’opera di Hemingway.
All’inizio del 1950, però, dopo anni di frequentazione e discepolato, il
nodo del rapporto è tutt’altro dall’essere risolto (teste quell’impulsivo, «dannato uomo» che spunta a epiteto di Hemingway dall’epistola a Motta). Anzi:
nonostante la fedeltà sbandierata a una prosa riprodotta nelle sue «prime
cose» scritte9, che ne rileva il debito, una deinizione conclusiva di chi sia
l’uomo Hemingway, cosa ne rappresenti il mondo poetico (al di là del linguaggio) e come le due siano valutabili assieme rimane tutta da scrivere. «È
un afar serio – riconosce Calvino – non ho ancora le idee chiare»10.
La diicoltà a illustrare la funzione di questo appassionante rapporto
autoriale («non ho amato mai nessun scrittore quanto Hemingway»11) diventa un invito stimolante a indagarne gli addentellati. Rileggere l’Hemingway
del biennio 1946-1947, precisa Calvino, signiica ripercorrere le modalità
dell’incontro storico che un’intera generazione di giovani, uscita dal conlitto
mondiale, ha avuto con i suoi libri. Non soltanto l’appropriazione fatta da un
“io” aspirante scrittore, ma un più corale “noi” (come sottolineerà del resto,
tornando sull’argomento, con il saggio Hemingway e noi del 195412, i cui
Claude Couffon, Calvino à Paris, in «Les Lettres Françaises», 1131, 12-18 maggio 1966, p. 6, adesso
in Interviste, p. 121).
6 Italo Calvino, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, in Id., Romanzi e racconti, a cura
di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Prefazione di Jean Starobinski, i, Milano, Mondadori, 1991, p.
1194 (d’ora innanzi, Romanzi e racconti, I, seguito dal numero della pagina).
7 Id., Nota introduttiva a Pesci grossi, pesci piccoli, in «Inventario», iii, 3, autunno 1950, pp. 62-63,
adesso in Romanzi e racconti, i, pp. 1267-1269.
8 «La letteratura americana ha sempre avuto per me grande familiarità e importanza, sia per la mia
evoluzione di scrittore sia per il mio lavoro. […] Quanto alla mia personale formazione di scrittore,
appartengo a quella generazione italiana che è cresciuta nell’ammirazione e nel culto di scrittori come
Hemingway, Faulkner e Fitzgerald. Le mie guide, sia nella scrittura letteraria sia nel lavoro editoriale,
furono allora Cesare Pavese e Elio Vittorini. Sono loro due che per primi tradussero i narratori americani degli anni ’30 e ’40 e li fecero conoscere in Italia, proponendoli come modelli stilistici ai nostri
scrittori di quel periodo» (Intervista concessa a Costanzo Costantini, Ogni giorno la ine del mondo,
in «Il Messaggero», 21 febbraio 1982, p. 3, adesso in Interviste, pp. 488-495. La citazione è a p. 491).
9 «[…] per quanto riguarda le prime cose che ho scritto, certamente sono stato inluenzato da Hemingway» (Italo Calvino, La mia città è New York, cit., p. 157).
10 A Mario Motta, 16 gennaio 1950, p. 266. Corsivo nostro.
11 A Franco Lucentini, 20 marzo 1964, p. 788: «Se tutte le volte che mi capita ho sempre ripetuto
che sono nato alla letteratura attraverso quell’America là […], vorrà dire che quell’immagine per me
continua a contare, pur sottoposta a tutte le critiche. E lo stesso si dica del fatto che continuo a sostenere che non ho amato mai nessun scrittore quanto Hemingway, con tutto che il suo personaggio sia
possibile d’involgarimenti».
12 Italo Calvino, Hemingway e noi, in «Il Contemporaneo», 13 novembre 1954, p. 3, adesso in
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Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
semi sono contenuti nella lettera del 16 gennaio). Il riesame di Hemingway
– circoscritto all’impiego fattone dall’intellettualità italiana a partire dalle
traduzioni circolate a ridosso della guerra e nell’immediato dopo-guerra
–, dovrà appunto vertere «sul nostro incontro con Hemingway, della nostra
generazione italiana, sulla utilità di Hemingway (e utilizzazione, uso) per
noi»13. Si tratta insomma di stabilire il ritratto di un Hemingway tutto
italiano, non americano; e, inquadrandolo, aidarsi alla storicizzazione della
sua igura.
In quanto scrittore appartenente a due mondi (quello d’origine, l’America; e quello della sua fortuna critica, l’Italia), continua Calvino, «bisognerà
introdurlo con un discorso esauriente sul signiicato dell’America per gli
intellettuali antifascisti italiani cresciuti dentro il fascismo»14. Una premessa necessaria, questa, per evitare le contaminazioni ideologiche che per
l’intellettualità di sinistra già a partire dal 1947 (se non prima) avevano
trasformato l’America dal bastione ideale della democrazia progressiva rooseveltiana (issata nella sua coscienza collettiva durante gli anni dell’alleanza
con l’Unione Sovietica per battere il nazi-fascismo)15 nel paese della guerra
fredda e del conservatorismo culturale e politico anti-marxista, che iniva per
cancellarne l’immagine d’origine.
«Sono venuto un po’ pensando queste cose, sull’America, su “quella”
America, leggendo e discutendo gli scritti di Giaime Pintor […]. È forse un
argomento che meriterebbe un saggio apposta, per spiegare tanti fatti [Pavese, Vittorini, Balbo (della “tecnica” e degli “eroi senza gloria”), Pintor (di
Americana), e poi tutto il fenomeno di “Politecnico”]». Quest’ampio saggio
e ambizioso sui «tanti fatti» della vita letteraria italiana recente inirà per
non essere scritto. La spinta rinnovata ad afrontare un discorso sull’America
«allegoria politica»16 delle vicende italiane tra gli anni ’30 e ’40 si concretizzerà invece con ben altra urgenza, di lì a pochi mesi, a seguito del suicidio di
Pavese (agosto 1950), come introduzione alla raccolta dei suoi scritti letterari,
La letteratura americana e altri saggi, un terzo dei quali è dedicato a autori
americani.
Saggi, i, 1312-1320.
13 A Mario Motta, 16 gennaio 1950, p. 266. Corsivo nostro.
14 Ivi, pp. 265-266.
15 Sul «sogno americano» e la sua ine si veda almeno la sintesi nel volume di Gino Tellini, Il
romanzo italiano dell’Ottocento e Novecento, Milano, Bruno Mondadori, 1998, pp. 348-458. Uno studio approfondito su quest’argomento è nel volume di Bruno Pischedda, Due modernità. Le pagine
culturali dell’«Unità»: 1945-1956, prefazione di Vittorio Spinazzola, Milano, Franco Angeli, 1995.
16 Italo Calvino, Introduzione a Cesare Pavese, La letteratura americana e altri saggi, a cura di
Italo Calvino, Torino, Einaudi, 1951, p. xiv.
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L’America. I periodi di scontento hanno spesso visto nascere il mito letterario
di un paese proposto come termine di un confronto […]. Spesso il paese scoperto è
solo una terra d’utopia, un’allegoria sociale che col paese esistente in realtà ha appena
qualche dato in comune. […] la letteratura americana fu […] «il gigantesco teatro
dove con maggior franchezza che altrove veniva recitato il dramma di tutti», […]
«noi scoprimmo l’Italia – questo è il punto – cercando gli uomini e le parole in
America, in Russia, in Francia, nella Spagna».
E davvero, quest’America dei letterati, calda di sangui di popoli diversi,
fumosa di ciminiere e irrigua di campi, ribelle alle ipocrisie chiesastiche, urlante di
scioperi e di masse in lotta, diventava un simbolo complesso di tutti i fermenti e le
realtà contemporanee, un misto d’America, di Russia e d’Italia, con in più un sapore
di terre primitive –una incomposta sintesi di tutto ciò che il fascismo pretendeva
di negare, di escludere17.
Il cuore duro del discorso di Calvino (qui rivolto alla funzione di Pavese
come fabbricatore del mito americano) era già tutto nell’epistola a Motta,
incollato all’immagine di Hemingway e dell’America precisata a «terra d’utopia», «allegoria sociale» «mito letterario di un paese proposto come termine
di un confronto» con la storia stessa italiana e ispirazione a un suo nuovo
racconto, a un suo nuovo corso, in cui entrava anche l’idea della Russia
sovietica (che sommata all’America produceva «il grande paese d’utopia»
obiettivo della Resistenza).
L’alleanza Russia-America è stata la condizione fondamentale per la «comunistizzazione» degli intellettuali italiani d’avanguardia, e la sua ine ha contato pure
molto. Ora sia «Russia» che «America» erano un insieme di dati e aspirazioni italiane, erano due paesi di utopia, due utopie incomplete e complementari, e l’addizione
«Russia» + «America» («quella» R. + «quella» A.) dava il grande paese d’utopia
che fu, io credo, per molti, e certo non solo intellettuali, il «vero» obiettivo della
Resistenza. (Fu un fenomeno ine a se stesso, o conteneva una verità storica di cui
bisogna continuare a tener conto?) Quello che si intendeva per «America» c’è un po’
tutto in H[emingway, n.d.r]. La verginità di storia, la tecnica (sapere fare le cose),
la libertà e pienezza dell’amore, l’aria aperta, la democrazia immediata nei rapporti
umani, il coraggio. E, come scrittura, l’ultimo risultato d’approfondimento tecnico:
tecnico-funzionale è il linguaggio di H., in cui nulla è senza utilizzazione razionale immediata, nulla è astrattismo, solipsismo o belluria (come già nel grande ma
fumoso Faulkner)18.
L’analisi estemporanea fatta per Motta («bisogna che conservi la brutta copia di questa lettera se no dimentico tutto») illumina i perché di un
Hemingway eretto a sineddoche dell’America intera. Calvino pone al centro
17 Ivi, p. xiii, passim. Corsivi nostri.
18 A Mario Motta, 16 gennaio 1950, pp. 266-267.
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Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
ispiratore dell’esperienza hemingwaiana una serie di valori («di dati») che la
identiicano con tutte le «aspirazioni italiane» da realizzarsi (quali antitesi
del fascismo e sintesi «di tutti i fermenti e le realtà contemporanee»): America e Hemingway sono sinonimi di democrazia e libertà, di re-invenzione
continua della propria storia (che non la fossilizza e la fa rimanere vergine)
e, suo punto più rilevante, di una coscienza del «sapere fare bene le cose»
(l’attualizzazione delle potenzialità dell’individuo nelle opere), attraverso
la concretezza funzionale del linguaggio, suo risvolto («il più limpidamente
realistico della prosa moderna»)19. È chiaro come la ricezione dell’uomo e
dell’autore, portavoce primo di valori americani tutti italiani, appaia sotto
il diretto rilettore politico, prima che letterario. Diviene allora necessario
procedere al districamento dei due per comprendere, di Hemingway, l’entusiasmo (letterario) della sua accoglienza in Italia e le conseguenti, spinose
polemiche della valutazione (politica) dell’opera.
2. Quello per Hemingway era stato, da parte di Calvino e di molti suoi
sodali, un innamoramento fulmineo. La novità impetuosa del suo linguaggio spontaneo, rapido e scandito, tutto-fatti, coi «piedi per terra»20, incarnatosi nelle battute di un «dialogato» secco a fotograia di un parlato antiretorico e anti-accademico (persino secondo Cecchi, tutore del formalismo
italico, «il miglior regalo ch’egli fece alla letteratura»)21, si era saldata con la
rivelazione di «uno dei pochi scrittori contemporanei che siano stati sempre
e decisamente contro il fascismo, sempre per la democrazia progressiva»22.
Lo aveva presentato così Vittorini, suo principale sponsor italiano, ai lettori di
«Politecnico» settimanale il 29 settembre 1945, segnandone il campo dell’appartenenza ideologica e sdoganandone il novero dei racconti e dei romanzi
19 Italo Calvino, Hemingway e noi, cit., p. 1319. Ma al 1950, sono «cose diicili da dire» come
l’America tanto sognata e l’Hemingway tanto amato portino (e abbiano portato) con sé aspetti deteriori, da riiutare oggi con fermezza, e come l’idolo della giovinezza sia forse superato. Il riesame della
sua storia conduce alla sensazione della perdita di un padre. Si cfr. ancora la lettera a Motta del 16
gennaio, pp. 266-267, passim: «Ma H. è un’“America” che non trova la sua “Russia”. Trova invece (e il
guaio è che la cerca) la sua “Europa”. Questo è il decadentismo di H. E la trova in base (come diversivo e spiegazione) agli elementi d’America deteriore (e reale almeno quanto l’altra) che ci sono in lui:
alcolismo, ignoranza, vuotaggine. E intuisce, lui barbaro, cose inissime sulla civiltà-barbarie europea;
entra nell’olimpo del nostro irrazionalismo squisito, lui il “tecnico”: ma a noi che ce ne importa più?
[…] Altro era che volevamo da lui, altro ora che sempre più ci tornano agli occhi, ino a coprire gli
aspetti che cercavamo e amavamo in lui e cerchiamo e amiamo, ci tornano dico agli occhi gli altri
aspetti (il contrasto barbarie-civiltà ora superato […]) di cui sempre meno c’importa, altro dunque ora
al di là di lui […] (dove?) ora cerchiamo. Come vedi, cose diicili da dire».
20 Ivi, p. 1313.
21 Emilio Cecchi, Ernest Hemingway, in Id., Scrittori inglesi e americani. Saggi, note e versioni, vol.
ii, Milano, Il Saggiatore, 1964, pp. 217-228 (la citazione è a p. 224).
22 Elio Vittorini, Nota a Ernest Hemingway, Per chi suonano le campane [sic], in «Il Politecnico»,
n. 1, 29 settembre 1945, p. 3 (riprodotta nella n. 1, pp. 385-385, in Id., Letteratura arte e società. Articoli e interventi 1938-1965, a cura di Rafaella Rodondi, Torino, Einaudi, 2008).
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(una scoperta ritardata al dopoguerra «perché quasi tutti i suoi libri avevano
un contenuto apertamente antifascista»23 e erano stati proibiti durante la dittatura). Una ricetta irresistibile. Non solo: si trattava di leggere uno scrittorepartigiano, rappresentante di un «antifascismo attivo, in contrapposizione
all’antifascismo della pura intelligenza»24. Il primo numero della rivista
vittoriniana aveva proposto la lettura serializzata di Per chi suona la campana, romanzo della guerra civile spagnola che proietta repentino la fama di
Hemingway in Italia (consolidatasi poi nel 1946 sotto la felice costellazione
delle molte traduzioni uscite25).
L’origine del discepolato hemingwaiano da parte dell’ex garibaldino Italo
– come racconterà lui stesso nel 1964 a proposito della genesi del romanzo
Il sentiero dei nidi di ragno (1946) – ha per oggetto proprio quel libro crudo,
scomodo, anti-ideologico, polo di un confronto prima letterario (a causa della
relativa paucità di romanzi dedicati alla guerra civile e alla lotta contro il nazifascismo allora circolanti in Italia) e di identiicazione biograica poi, per chi
una guerra l’aveva davvero combattuta: «Appena finito di fare il partigiano
trovammo (prima in pezzi sparsi su riviste, poi tutto intero) un romanzo
sulla guerra di Spagna che Hemingway aveva scritto […]. Fu il primo libro in
cui ci riconoscemmo; fu lì che cominciammo a trasformare in motivi narrativi e
frasi quello che avevamo visto sentito e vissuto, il distaccamento di Pablo e di
23 Intervista concessa a Jean A. Gili, Italo Calvino et le cinema des annees Trente, in «Positif», 303,
maggio 1986, pp. 46-48, adesso in Interviste, p. 519.
24 Italo Calvino, Hemingway e noi, cit., p. 1313.
25 Intricata è la questione dei diritti di traduzione dell’opera di Hemingway in Italia, con versioni
che si accavallano. Già a liberazione di Roma avvenuta, nel 1944, l’editrice Jandi Sapi pubblica una
antologia della raccolta Uomini senza donne (Men Without Women, 1927) e Nel nostro tempo (1925)
col titolo L’ invincibile, dal racconto eponimo: il volume contiene i racconti L’ invincibile (he Unvanquished), Cinquantamila dollari (Fifty Grand), Il mio vecchio, Il villaggio indiano (Indian Village), Il
campione, I sicari (he Killers). Per la stessa casa editrice esce ancora nel 1944 E il sole sorge ancora (he
Sun Also Rises, 1926), tradotto da Rosetta Dandolo, e nel 1945, tradotti da Bruno Fonzi, Un addio alle
armi (A Farewell to Arms, 1929) e Chi ha e chi non ha (To Have and Have Not, 1937). Addio alle armi
uscirà per i tipi Mondadori, in una traduzione a più mani di Dante Isella, Giansiro Ferrata e Puccio
Russo, con 8 illustrazioni originali di Renato Guttuso, nel 1946. A cura di Giorgio Monicelli esce
per Einaudi Avere e non avere (1946) e, col titolo Fiesta, la traduzione di Giuseppe Trevisani di he
Sun Also Rises. Sempre nel 1946 escono Verdi colline d’Africa (Green Hills of Africa, 1935), per Jandi
Sapi, nella traduzione di Gaetano Carancini, il dramma La quinta colonna (he Fifth Column, 1938)
per Einaudi con Trevisani e la raccolta integrale di Uomini senza donne per i tipi Elios, tradotta da
Angela Salomone. Ma l’opera che causa più controversie, anche nel campo dei diritti, è Per chi suona
la campana (For Whom the Bell Tolls, 1940), che appare con tagli prima su «Politecnico» di Vittorini
nella traduzione di Bruno Zevi e Vittorio Foà (come Per chi suonano le campane, sic), e poi tra il 1945 e
il 1946 esaurisce sei edizioni per Mondadori, nella traduzione di Maria Napolitano Martone. Sulla vicenda editoriale di Per chi suona la campana, si cfr. la n. 1, pp. 385-385 in Elio Vittorini, Letteratura
arte e società. Articoli e interventi 1938-1965, cit. I racconti Il ritorno del soldato Krebs (traduzione di
Carlo Linati) con Vita felice di Francis Macomber, per poco (he Short Happy Life of Francis Macomber)
e Messicani, la monaca, la radio (he Gambler, the Nun, and the Radio, entrambi su traduzione di Elio
Vittorini) erano apparsi nell’antologia Americana (Milano, Bompiani, 1941).
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Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
Pilar era il “nostro” distaccamento»26. Il romanzo dell’intellettuale Robert
Jordan che, abbandonate le ragioni della penna, sceglie le ragioni della lotta
armata e combatte a ianco della resistenza repubblicana contro Franco ino
al sacriicio della vita nel tentativo di far saltare un ponte, diventa un irresistibile viatico per la «didassi»27 narrativa del giovane Calvino. Attraverso gli
occhi di questo Hemingway si osserva la realtà della guerra che lo ha formato
e «messo al mondo, anche come scrittore»28, il cui «mondo avventuroso e
tragico»29 gli ha dato «la giustiicazione per scrivere»30. Attraverso romanzi
come Addio alle armi (letto nell’estate del 1946) e Per chi suona la campana
(seguìto su «Politecnico» settimanale tra il settembre 1945 e l’aprile 1946,
nonché, si presume, letto nella versione integrale Mondadori) si ritrovano e
soppesano le ragioni (politiche e umanitarie) dell’antifascismo, dell’antimilitarismo e dell’impegno liberatore, individuale prima, e collettivo poi, della
Resistenza. Queste opere di Hemingway, in cui «la realtà si conigura come
un gran massacro»31 (il «gran massacro» sperimentato in prima persona con
la lotta partigiana), sono ricondotte nella lettura di Calvino a uno slancio
civile: al fare (sinonimo di costruire o ri-costruire) e all’imperativo morale
che richiede allo scrittore di testimoniare la sua condizione di uomo storico
che si adopera, al suo meglio, per «l’integrazione dell’uomo nel mondo, nelle
cose che fa», «in armonia con l’umanità» attraverso «le operazioni del precise del suo lavoro»32. Il salto originario nello scrivere è legato a processo di
immedesimazione con l’autore americano: «Avevo conosciuto e sperimentato il
mondo che vedevo descritto nei libri di autori americani come Hemingway
e Dos Passos, che leggevo in quel periodo»33. Col suo linguaggio, i suoi
personaggi, e i suoi contenuti anti-retorici l’Hemingway circolante in Italia
nel dopoguerra incarna agli occhi di Calvino l’ideale di una «letteratura dei
fatti» scelta «come primo appiglio polemico nello scrivere» contro «la letteratura dell’intellettualismo»34, che non s’interessa d’incidere sulla realtà del
mondo, «di quel mondo che era per noi il mondo»35; e, «nella polemica let26 Italo Calvino, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1195. Corsivo nostro.
27 Intervista concessa a Marco D’Eramo, Italo Calvino, in «Mondoperaio», xxxii, 6, 1979, pp.
133-138, in Interviste, pp. 283-298 (la citazione è a p. 283).
28 Intervista concessa a Enzo Maizza, La giovane narrativa, in «La Discussione», v, 210, 29 dicembre 1957, pp. 8-9, in Interviste, pp. 33-34 (la citazione è a p. 34).
29 Intervista concessa a Alexander stille, An Interview with Italo Calvino, in «Saturday Review»,
xi, 2, marzo-aprile 1985, pp. 37-39, adesso in Interviste, pp. 604-609 (la citazione è a p. 605).
30 Ibidem
31 Italo Calvino, Hemingway e noi, cit., p. 1316.
32 Ivi, p. 1319.
33 Intervista concessa a Alexander stille, in Interviste, p. 605. Corsivo nostro.
34 A Carlo Cassola, 12 febbraio 1958, p. 248 (in Italo Calvino, I libri degli altri. Lettere 19471981, a cura di Giovanni Tesio, con una nota di Carlo Fruttero, Torino, Einaudi, 1991).
35 Italo Calvino, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1187.
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teraria» dal fronte interno italiano (sull’impegno etico-civile degli scrittori),
prima che la guerra fredda ne spostasse i termini, il valore degli scrittori
nordamericani (e quindi, per translato, di Hemingway stesso), derivava dal
porsi come «l’antitesi ideale al clima della prosa d’arte e dell’ermetismo»36
che Calvino condanna come perdenti a rappresentare i destini storici degli
uomini37.
Sarà a Per chi suona la campana, romanzo della guerra civile spagnola,
che converrà tornare per l’esame di alcuni snodi tematici e ideologici del
Sentiero, che l’assume a palinsesto, ma non a quest’opera soltanto: il primo
romanzo di Calvino, concepito e scritto tra l’agosto e il dicembre 1946, tiene
presente il furioso dibattito politico che a sinistra, nell’arco di quell’anno,
accoglie il libro di Hemingway (accusato di un ritratto alquanto critico delle
Brigate Internazionali, operanti in Spagna sotto il comando sovietico)38, e
di cui Calvino riutilizzerà il vocabolario e le pezze critiche come spina del
testo stesso. L’immagine carismatica di Hemingway, giunta a Calvino come
«una suggestione poetica e politica assieme» («l’antifascismo internazionale,
il fronte della guerra di Spagna»)39 viene presto ridotta con suo rammarico
all’esempio della vita dissipata dell’uomo (un alcolista) e dell’impegno politico dello scrittore (antifascista, ma non marxista). Per questo gli addentellati
del rapporto Calvino-Hemingway hanno contorni diicili: essi esulano da
36 Id., Introduzione a Cesare Pavese, La letteratura americana e altri saggi, cit., p. xiv.
37 Si cfr. Id., Umanesimo e marxismo, in «l’Unità», 22 giugno 1946, adesso in Saggi, i, pp. 14701471: «Quest’atteggiamento trovava la sua giustiicazione storica nel desiderio, vivo in tutti gli uomini
di cultura, d’opporsi alla società e al costume corrente, posizione che in Italia acquistava il particolare
signiicato di repulsione al fascismo: ma prendeva vie sbagliate, astoriche […]. Era la via dell’evasione, evasione dal tempo e dalla logica […]», oppure: «La letteratura della testimonianza interiore,
della confessione individuale […] assegnava all’indagine dello scrittore una zona ben delimitata della
coscienza, […] difendendosi il più possibile dalle sollecitazioni esterne. Ma il bilancio di questa letteratura, che ha pure avuto una sua logica interna e una sua giustiicazione storica, era inevitabile che
minacciasse di chiudersi in perdita» (in Inchiesta sul realismo, a cura di Carlo Bo, «Quaderni della
Radio» - xiii, Eri, Torino, 1951, adesso in Interviste, p. 3).
38 Uno scoglio di cui Cecchi, prima che si scatenassero in Italia le polemiche sul libro, avrebbe
dato un’interpretazione anticipata discutendo le «querele» che da parte spagnola avevano accolto il romanzo: «Non escluderei che, all’origine di quelle querele, sia un senso di delusione perché il libro non
ha una decisa impostatura propagandistica: da una parte tutto il bene, e il male tutto da quell’altra
parte. Ma è artista di gusto troppo realistico, Hemingway, per concedere a tali sempliicazioni. […]
Vilipende falangisti e loro capi; benché […] siano igure da lui trattate con piena dignità e umanità. E
d’altro canto non sorvola sulle atrocità e sugli eccidi comandati e commessi da Pablo. […] Si capisce
che, da un angolo visuale rigorosamente propagandistico, un simile ritratto di capo partigiano non
potesse incontrare unanimi approvazioni». Per questo, conclude Cecchi, nel farne il ritratto critico
c’è chi giudica Hemingway «politicamente, di dubbia fede democratica, e pericolosamente antiprogressista», deinizione tacciate subito come «semplicistiche d’uno scompenso che non pertiene poi allo
scrittore, quanto a tutta l’epoca; e che con un po’ di rettorica ad uso corrente, non gli sarebbe stato
diicile dissimulare. Noi dobbiamo essergli grati d’essersi risolutamente astenuto da cotesta qualità di
rettorica» (Emilio Cecchi, Ernest Hemingway, cit., pp. 226-228, passim).
39 Italo Calvino, Hemingway e noi, cit., p. 1313. Corsivo nostro.
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Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
una fruizione soltanto estetica della sua opera e si scontrano con valutazioni
puramente ideologiche dell’operato dell’uomo. «Quell’ideale d’una cultura
che fosse tutt’uno con la lotta politica ci si delineava in quei giorni come
una realtà naturale»40, ricorderà Calvino riesaminando il mondo letterario
dell’immediato dopoguerra («gli elementi extraletterari stavano lì tanto
massicci e indiscutibili che parevano un dato di natura; tutto il problema ci
sembrava fosse di poetica, come trasformare in opera letteraria quel mondo
che era per noi il mondo»41); ma aggiungerà, subito: «Invece non era afatto
così: coi rapporti tra politica e cultura dovevamo romperci la testa […]»42.
3. La rilessione a voce alta sulla storicizzazione della fortuna di
Hemingway in Italia, tentata nella lettera a Motta, arriva – va di nuovo
ricordato – dall’interno di una contingenza storica non sottovalutabile.
Siamo all’inizio del 1950, in piena guerra fredda in Italia: l’intellettualità è
saldamente barricata su due campi opposti, marxista e anti-marxista, con la
costrizione (almeno teorica) dello zdanovismo a vigilare sull’ortodossìa degli
scrittori di sinistra. Calvino ricorderà il «tentativo d’una “direzione politica”
dell’attività letteraria» in cui «si chiede allo scrittore di creare “l’eroe positivo”, di dare immagini normative, pedagogiche di condotta sociale, di milizia
rivoluzionaria» in «funzione celebrativa e didascalica»43, di cui nel 19461947 si avvertivano sonori i prodromi44. La polemica sull’interdipendenza di
cultura e politica costeggia già con forza quel biennio. Come ha ben delineato Manacorda, tale litigiosissimo dibattito poneva al suo centro il «continuo
rafronto e misurazione del fatto letterario col fatto politico, e dello scrittore
con l’uomo», errando non tanto per l’esigenza stessa del rafronto, «ma in
quanto troppo rapido e supericiale passaggio dall’uno all’altro campo di
giudizi, in quanto […] non si poneva prima in chiaro quali dovessero essere i
retti rapporti tra fatto letterario e fatto etico-politico, sicché i giudizi avevano
spesso un po’ l’aspetto dell’accusa […]. Sicché ci sarebbe stato da lamentare non già l’eccessiva e continua intrusione del termine politico, quanto la
maniera in cui questo veniva introdotto e la mancanza o l’insuicienza di
un’elaborazione critica dei rapporti politica-letteratura […]»45.
40 Id., Autobiograia politica giovanile, in Saggi, ii, p. 2753 (apparso in origine nel volume collettivo
La generazione degli anni diicili, a cura di Ettore A. Albertoni, Ezio Antonini e Renato Palmieri, Bari,
Laterza, 1962)
41 Id., Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1187.
42 Id., Autobiograia politica giovanile, cit., p. 2753.
43 Id., Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1193.
44 Ibidem: «Cominciava appena, ho detto: e devo aggiungere che neppure in seguito, qui in Italia,
simili pressioni ebbero molto peso e molto seguito. Eppure, il pericolo che alla nuova letteratura fosse
assegnata una funzione celebrativa e didascalica, era nell’aria».
45 Giuliano Manacorda, Le polemiche letterarie del dopoguerra, in Id., Storia della letteratura
81
Andrea Dini
Il giornalista comunista Calvino, classe 1923, marxista neoito e agit-prop,
rivendica anch’esso, com’è da aspettarsi, il legame strutturale («naturale») tra
il fatto politico-sociale e quello artistico-culturale; ma i suoi giudizi letterari
di questi anni, anche quando riecheggiano riserve di stampo ideologico,
reclamano forme autonome di giudizio che lo portano spesso a combattere su «due fronti»46. Contro, per esempio, «quelli di “La Fiera Letteraria”
che pretendono che i letterari siano letterati e basta, e non prendono parte
in questioni politiche. E non s’accorgono che anche il dire “Non prendo
posizione politica” è già un prendere posizione, un parteggiare per gli uni
piuttosto che per gli altri»47; ma anche formulando all’interno dello schieramento di sinistra «a pelo ritto, a unghie sfoderate contro l’incombere di
una nuova retorica»48 inviti perentori a evitare pericolo che «molti compagni
scrittori […] s’abbandonino a un pietismo sociale che non è né letterario né
rivoluzionario. Cercar di capire il perché dei sentimenti dell’uomo, dei mali
dell’uomo. E se tutti avranno capito, allora che il mondo cambierà»49.
Coincidentalmente, il caso della prima apparizione nell’epistolario edito
del nome di Hemingway come autore letto e studiato avviene sotto il segno
di una discussione «tra fatto letterario e fatto etico-politico»50. L’idea di un
saggio sullo scrittore americano prende forma al 22 maggio 1946, come
attesta una lettera al sodale Silvio Micheli 51, di cui Calvino, il 12, aveva
recensito con favore il romanzo Pane duro (Einaudi, 1946)52. Alla nota
spedita da Micheli – che inizia uno scambio epistolare tra i due rilevantissimo per capire chi sia il Calvino di questo periodo – è inclusa l’offerta di
collaborare alla rivista «Darsena Nuova». Calvino conferma «tutto contento»
che manderà «certo qualche articolo, forse uno intitolato Classe e sesso in
Hemingway che ho cominciato ma mi rincresce un po’ inire perché mi rincresce scrivere di autori che conosco solo in parte»53. Giustiicando la scelta
della particolare angolatura critica, Calvino ci avverte come «gli articoli su
temi generali come “vita e letteratura” non sono il mio forte; mi piace partire
italiana contemporanea (1940-1975), Roma, Editori Riuniti, 1975, pp. 14-15.
46 Italo Calvino, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1192.
47 Id., Comisso sentimentale, in «l’Unità», Torino, 6 ottobre 1946, adesso in Saggi, ii, p. 2121.
48 Id., Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1193.
49 Id., Comisso sentimentale, cit., p. 2123.
50 Giuliano Manacorda, Le polemiche letterarie del dopoguerra, cit., p. 14.
51 A Silvio Micheli, 22 maggio 1946, pp. 158-160. Per l’epistolario edito, è questa la prima corrispondenza nota (almeno tra quelle incluse dal curatore) in cui si fa esplicita menzione di Hemingway.
52 Italo Calvino, Adesso viene Micheli, l’uomo di massa, in «l’Unità», Torino, 12 maggio 1946
(adesso in Saggi, i, pp. 1170-1175).
53 A Silvio Micheli, 22 maggio 1946, p. 158. Una idiosincrasia così spiegata da Calvino stesso: «Io
poi di fronte a un libro non sono contento se non lo sviscero ino in fondo. Sono iglio di scienziati,
padre e madre, e per quanto negato a tutto quello che è scientiico, m’è rimasta in letteratura quest’esigenza d’analisi completa» (a Silvio Micheli, 1 luglio, 1946, p. 161).
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Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
da un argomento deinito e poi divagare e arrivare a conclusioni generali. È
anche più marxista, credo»54. Il rimando va commentato; perché, da un lato,
a quest’altezza cronologica (il maggio 1946), Calvino si spinge all’annuncio
della propria insuicienza a cogliere la quidditas di quest’autore per incompletezza informativa (teste l’ancora scarsa lettura e l’acerba frequentazione di
Hemingway, che si intensiicherà tra l’estate e l’autunno); dall’altro, il soggetto proposto rivela immediato l’interesse suo – almeno nel dominio delle
dichiarazioni pubbliche (pur nell’apparente privacy di questi scambi) – verso
una valutazione «marxista» del fatto letterario, in cui la «validità estetica» di
un testo va a coincidere con la «validità politica»55. Con un fondamentale
caveat (che ne sottrae l’applicazione meccanica). Come ripete pieno di lodi a
Micheli in merito a Pane duro, «mai in te si sente il peso della tesi, non scrivi
per dimostrare, ma parti dall’esperienza e in un secondo momento l’analizzi
- e in ciò appunto sta il tuo essere marxista»56 (castigandogli però un recente
racconto in cui si avverte invece «il peso della tesi sociale»57). In altre parole,
Calvino ribadisce nella lettera quanto aveva delineato dieci giorni prima su
«l’Unità»:
Micheli è uno scrittore marxista, marxista quanto può esserlo uno scrittore, e
non perché ogni tanto, come in un coro che sottolinea l’azione, personaggi o igure
irreali s’abbandonano a vere e proprie dissertazioni dottrinarie, che se non possono
mai essr dette retoriche, pure son sempre gratuite e non necessarie. Marxista perché
la sua umanità si muove in una zona dove vale solo la prepotenza dei richiami economici, dove ogni mutamento d’ordine morale trova ragione in un mutamento d’ordine
economico […], dove anche il sesso non è che un richiamo opaco e sordo e Freud
non è più il demiurgo delle azioni umane58.
Lo scambio di vedute sul fantomatico metodo marxista di lettura continua con Micheli a luglio, con un altro capitale chiarimento: commentando
la recensione di un romanzo, Calvino protesta come ci «si fermi a analizzare
54 Ibidem.
55 Ivi, p. 159. È, questo, il metodo di lettura in atto su «l’Unità» di Torino con Gente nel tempo, la
sua «rubrichetta di spunti culturali analizzati marxisticamente» (come speciica a Micheli nella stessa
lettera).
56 Ibidem.
57 Ibidem.
58 Italo Calvino, Adesso viene Micheli, l’uomo di massa, cit., pp. 1172-1173 (corsivi nostri). Di
Classe e sesso in Hemingway, per quanto si sappia, non rimane traccia. Il titolo, alla luce delle considerazioni su Freud nell’articolo su Micheli, è tutto un programma. Congetturalmente, si potrebbe pensare
alla lettura critica di Avere e non avere (coniugata, magari, a altri racconti letti): ma è il romanzo di
Harry Morgan che presenta più che in ogni altra opera di Hemingway uscita in quel periodo il fallimento, o la problematizzazione, dei rapporti tra i sessi, considerati nel loro meccanismo economico e
di classe. L’angolatura apparentemente ristretta del tema si scontra però in Calvino con la coscienza
che sia necessario conoscere di più dell’opera dell’autore, prima di azzardare «conclusioni generali».
83
Andrea Dini
marxisticamente il contenuto del libro, senza considerare l’atteggiamento
umano dell’autore che è quello che conta» (e di conseguenza gli sembra che
questo tipo di marxismo «sia appiccicato con la saliva»59). Non basta cioè
una valutazione marxista del contenuto di un’opera per identiicarne i pregi
(etici, politici, civili in senso generale) se, a far questo, viene persa di vista
la persona dello scrittore, la sua disponibilità verso la materia narrata, le sue
ragioni umane. Questo il nòcciolo della questione (anche un po’ tautologico): «Bene, per essere marxista credo che importi ino a un certo punto aver
letto poco o tanto. Quel che importa è l’atteggiamento, la mentalità, il saper
impostare i problemi marxisticamente. E questo è il frutto d’una sensibilità
che si può acquistare in tanti modi: anche nell’organizzazione cospirativa o
di partito, anche leggendo tutt’altri libri e interpretandoli da sé»60.
Di questi giudizi calviniani bisogna subito rilevare tutti i “distinguo”, leggervi il riiuto di un’applicazione pedissequa di ricette normative. E questo
in particolare quando si tratti di valutare l’impegno di scrittori le cui opere
rappresentano la «denuncia» delle contraddizioni della borghesia senza che si
compia il passo ideologico ulteriore dello schieramento verso il proletariato.
(Che sarà l’accusa principe dei suoi compagni di sinistra, come vedremo,
per squaliicare il maestro Hemingway.) Il caso di George Bernard Shaw
«bastian contrario» (portatosi a «dimostrare […] nella commedia Fra gli
scogli, che all’Inghilterra occorreva un dittatore di tipo fascista»), proposto il
18 agosto 1946 è lampante:
Ecco il difetto fondamentale di Shaw in politica: il non sapere uscire dalla
borghesia, il non aver abbastanza iducia nel proletariato. Difetto in politica che
forse è anche difetto in poesia […] Conoscere la crisi della borghesia senza credere
nel proletariato è un grave pericolo. […] Shaw è il iglio di una società piena di contraddizioni, è la voce e la denuncia di queste contraddizioni, ma, nato e cresciuto
in mezzo a esse, non può ragionare che per via di contraddizioni e di paradossi61.
L’insuicienza ideologica si trasforma «forse» in insuicienza estetica (ne
limita cioè lo scopo e i risultati); ma rimane valida nell’opera «la voce e la
denuncia» della «crisi della borghesia». Lo scrittore «iglio di una società
piena di contraddizioni» non può che ragionare «per via di contraddizioni
59 A Silvio Micheli, 1 luglio 1946, p. 161. Corsivo nostro.
60 A Silvio Micheli, 29 luglio 1946, p. 163.
61 Italo Calvino, Shaw «bastian contrario», in «l’Unità», Torino, 18 agosto 1946, adesso in Saggi,
ii, pp. 2114-2115.
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Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
e paradossi»: se la sua demistiicazione del ruolo reazionario della classe
borghese non inisce coll’inserirsi in un processo dialettico (in cui appaia, a
sintesi risolutiva, il passo successivo della «iducia nel proletariato» a rivelare
la possibilità di una nuova, libera, più compiuta società) non si può però
tacere la funzione positiva di quell’autocoscienza, anche se limitata. La nota
su Shaw va ricordata perché il suo nucleo rimane in linea con la lettera a
Micheli del primo luglio, che invitava a cogliere (cioè: a storicizzare), degli
scrittori, la posizione morale, senza anatemi nonostante i “difetti” (in politica, in poesia); e che nell’ottobre sarà così compendiata: «Prima di tutto non
sono gli scrittori a determinare la storia e la società, ma la storia e la società a
determinare gli scrittori. Gli scrittori possono essere araldi e profeti di nuovi
aspetti della società non ancora manifesti ma già latenti; non di più»62.
L’opinione che Calvino si forma di Hemingway durante questi mesi
rimane sempre al di qua del settarismo: ne propone con puntualità una
lettura utilitaristica che mai riiuti lo scrittore con l’uomo: «Una lezione di
pessimismo, di invidualistico distacco, di supericiale adesione alle esperienze più crude» c’era in Hemingway, ammette Calvino nel 1954, «ma o non
sapevamo leggerlo o avevamo altro per la testa, sta di fatto che la lezione che ne
ricavavamo era di un’attitudine aperta e generosa, d’ impegno pratico – tecnico
e morale insieme – nelle cose che si dovevano fare»63. Vero, questo scrittore
«iglio della civiltà borghese» coglie la realtà di massacri della guerra «come
la realtà normale del mondo borghese nell’età imperialista»64 – e di questo
dobbiamo essergliene grati per il sincero atteggiamento umano e la volontà di denuncia dei mali storici dell’uomo– ma al pari di Shaw rimane poi
incapace di trovare una via (dialettica) da intraprendere per contrastare tale
realtà. Il nodo del contendere rimane insomma «il grave pericolo», la mancata adesione di Hemingway a una visione rivoluzionaria della storia, il suo
scettico individualismo di fondo che mostra di non credere alla liberazione
derivante dal cambiamento del sistema economico, dalla ine della lotta di
classe, con l’esperimento del mondo nuovo sovietico: «L’eroe di Hemingway
– chiarirà apertis verbis Calvino nel 1954 – che pure ha visto aprirsi la grande
alternativa dell’Ottobre, accetta il mondo dell’imperialismo e si muove tra i
suoi massacri, combattendo anch’egli, con lucidità e distacco, una battaglia
che sa perduta in partenza perché solitaria»65. È questo un limite su cui già
Calvino aveva posto l’accento nel 1946 a proposito di Micheli, traducendolo
da termine politico a letterario: «Noi vorremmo che Micheli diventasse il
62 Id., Comisso sentimentale, cit., p. 2122.
63 Id., Hemingway e noi, cit., p. 1312. Corsivo nostro.
64 Ivi, p. 1317.
65 Ibidem.
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Andrea Dini
Dostoevskij italiano, con tutto il suo bagaglio di soferenza quotidiana, il
suo peso di gerarchie ingiuste, […] un Dostoevskij il cui travaglio […] non
sbocchi in un epilettico, individualistico grido d’umiliazione o di rivolta, ma
continui la strada iducioso di far cambiare il sistema, un Dostoevskij che ha
capito perché si è umiliati e ofesi»66.
Se il «pessimismo», «l’individualistico distacco» di Hemingway è d’ostacolo al giudizio tout court positivo sull’opera, per Calvino rimane il fatto
fondamentale che come uomo e come scrittore egli non ofra mai sterili
soluzioni intellettualistiche alle domande storiche sul posto dell’uomo nel
mondo (e questo costituisce il suo principale merito): riconosce e misura
«l’uomo nelle sue azioni, nel suo essere o no all’altezza dei compiti che gli si
pongono»67 nell’ hic et nunc della sua esperienza storica, identiicando con
rigore «la realtà dell’uomo coi paradigmi del suo comportamento»68 come
primaria posizione ontologica e stilistica. La validità morale è esplicita, nonostante manchi a Hemingway «iglio della civiltà borghese» «la prospettiva
generale»69, collettiva e rivoluzionaria (questo il refrain del ritornello accusatorio da sinistra) che la inquadri e la raforzi. È, del resto, questa enfasi del
«fare» (e del fare bene le cose), la lezione che identiica Calvino stesso nel
suo impegno marxista, spiegata di nuovo a Motta, l’11 luglio 1950 («come
“vedo” la rivoluzione, il socialismo, la società che auspico e per attuare la
quale […] lavoro»70):
Ciò che mi spinge in questa direzione […] è la soddisfazione a vedere le cose
che a poco a poco si mettono a andare nel loro verso, il sentirsi in una posizione più
adatta per risolvere i problemi man mano che si presentano, per «lavorare meglio»,
l’aver più chiarezza in testa e il senso di essere sempre più al proprio posto tra gli
uomini, tra le cose, nella storia.
Ora io credo che questa sia la conquista dell’uomo moderno (o meglio: a
cui l’uomo moderno deve tendere): aver perso il mito d’un «paradiso» teleologico
(metaisico o terreno) come vera patria dell’uomo, e ritrovare questa patria umana
66 Id., Adesso viene Micheli, l’uomo di massa, cit., p. 1175.
67 Id., Hemingway e noi, cit., p. 1319.
68 Ivi, p. 1315.
69 A Mario Motta, 11 luglio 1950, p. 283. Dalla parte degli uomini «che hanno per patria le cose
che fanno e che vedono, – patria continuamente contrastata e da riconquistare» nel mondo tangibile «delle proprie opere e dei propri giorni» Calvino cita a esempio i nomi di Conrad, Cecov e Hemingway. Dalla sua «nera visione dell’universo» scaturisce però «la […] iducia nell’uomo» del conservatore Conrad, a Cecov che sotto il piccolo-borghesismo umano scopre come in ognuno «c’è l’uomo
da salvare», per cui reclama «l’utilità storica di ogni uomo – al di là dei singoli fallimenti – unica
dignità umana e salvezza», a Hemingway «non ostante (anzi forse proprio per questo) la fondamentale
vuotaggine americana che egli avverte intorno a sé e di cui lui stesso fa parte-, Hemingway che sente il
bisogno di rifarsi ai rapporti fondamentali dell’uomo con le cose, pescare bene, accendere bene i fuochi,
stabilire bene i rapporti da uomo a donna, da uomo a uomo, far saltare bene i ponti (solo che gli manca
la prospettiva generale, e s’infutilisce, s’annoia; cosa ce ne importa delle corride, anche ben fatte?)».
70 Ivi, p. 280.
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Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
nel cuore delle proprie opere e dei propri giorni, in un rapporto dialettico diicilissimo
da raggiungere e da mantenere tra sé e tutto il resto. Questo è possibile solo a chi
ha delle idee ben chiare sulla direzione nella quale deve muoversi, a chi sa – sempre
meglio- quello che vuole, quello che si deve volere; ma più dei successivi punti d’arrivo
conta vedere il mondo trasformarsi per quel tanto che ognuno fa, che ognuno s’ inserisce nel processo per trasformarlo. Per questo il socialismo è uscito dall’«utopia» (dal
«paradiso») quando ha cominciato a essere «scienza» e quindi «pratica»; per questo
il comunista lotta anche se sa che i risultati dei suoi sacriici saranno goduti solo
dalle generazioni future; per questo non si può immaginare un marxista «contemplativo» […]71.
Della concreta, storica esperienza umana va dunque privilegiata la fondamentalità del processo dialettico, dell’itinerario nell’impegno personale («per
quel tanto che ognuno fa») per la trasformazione del mondo, visto tramite il
suo punto di partenza e di sviluppo, più che per il risultato in sé: una lotta
personale che va oltre il soggetto che ne fa esperienza, a investire le «generazioni future», e il sacriicio come responsabilità ultima derivante dall’avere
raggiunto «delle idee ben chiare» anche volontaristicamente («a chi sa…
quello che si deve volere») sulla direzione della trasformazione.
È attraverso questa enfasi sul fare, sull’inserirsi in un «processo per trasformarlo» con la chiarezza delle idee su «quello che si deve volere», «sulla
direzione nella quale [l’individuo] deve muoversi» che Calvino leggerà la
vicenda di Per chi suona la campana, con un’interpretazione che costituirà
poi il corno più importante del dialogo del suo stesso libro, il Sentiero, con
quello di Hemingway, al di là delle critiche sull’opportunità o meno di leggere il punto di vista di un autore non marxista sulle lotte resistenziali nella
guerra civile spagnola.
4. La divulgazione di Hemingway, araldo di un nuovo linguaggio e di
un inedito modo di leggere la realtà, fatta da Vittorini con Per chi suona la
campana, si meriterà un corsivo severissimo per la penna di Mario Alicata (dalla cui ombra spunta il segretario del PCI stesso, Palmiro Togliatti)
sul numero doppio n. 5-6, del maggio-giugno 1946, di «Rinascita»72.
Hemingway è soltanto il casus belli, la punta dell’iceberg, dell’inizio di una
polemica, tutta interna allo schieramento di sinistra, sul rapporto culturapolitica e sul ruolo degli intellettuali scrittori nell’organizzazione di partito
(di cui la rivista «Politecnico» fa da parafulmine). Dobbiamo tenere presente
il linguaggio delle accuse a Hemingway e al suo romanzo per apprezzare il
tipo di operazione (di fatto, una risposta) che Calvino si troverà a gestire alla
71 Ivi, pp. 280-281, passim. Corsivi nostri.
72 Mario Alicata, La corrente «Politecnico», in «Rinascita», n. 5-6, maggio-giugno 1946, p. 116.
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Andrea Dini
scrittura del Sentiero, dalla ine dell’estate. Secondo Alicata, è «intellettualismo giudicare “rivoluzionario” e “utile” uno scrittore come Hemingway, le
cui doti non vanno al di là d’una sensibilità da “frammento”, da “elzeviro”,
e “rivoluzionario” e “utile” un romanzo come Per chi suona la campana che
rappresenta la riprova estrema dell’incapacità di Hemingway a comprendere
e a giudicare (cioè, poi, a narrare) qualcosa che vada al di là d’un suo quadro
di sensazioni elementari e immediate: egoistiche». Per ben due volte Alicata
calca la mano sull’inutilità – per il pubblico italiano, e in specie dei nuovi
lettori proletari – dell’autore e del romanzo, a seguito della mancanza di un
contenuto rivoluzionario nell’opera (e nella vita). Anzi: l’accusa è che le doti
letterarie di Hemingway (della misura corta dei racconti, per esempio, nonché del romanzo) non lo possano portare oltre un formalismo intellettualistico, in quanto l’invenzione del linguaggio col quale vuole parlare agli uomini
«ha sì una presunzione di maggiore “umanità”, ma, in pratica, è risultato
quando mai “astratto” ed “esteriore”»: «lavorare per una cultura “nuova”,
signiica riuscire a creare e a difondere un “linguaggio” nuovo, attribuendo
al termine “linguaggio” (come è chiaro) non un valore puramente formale,
ma di intima espressione, di “atteggiamento”, di “gusto”, di “mentalità”».
L’atteggiamento di Hemingway squaliica il suo impiego pedagogico, perché
riiuta «una conquista di verità», l’incontrovertibile esempio del socialismo
sovietico. Alicata conclude così la nota: «in che misura è viva e moderna, cioè
“nuova” e “utile”, per noi, una letteratura che ha, fra gli altri come portabandiera, uno Hemingway? Ci può essere un’arte “umana” che non abbia come
obiettivo una conquista di verità? E che bisogno abbiamo noi, oggi, d’un arte
che non sia “umana”, cioè non aiuti gli uomini in una lotta conseguente per
la giustizia e la libertà?».
Fa eco alle riserve di Alicata il ritratto di Hemingway scritto dal traduttore di Fiesta Giuseppe Trevisani, che esce su «Politecnico» in agosto73. Il
pezzo – che ripercorre la biograia letteraria dello scrittore – è in verità una
requisitoria contro l’uomo prima e l’autore poi, confuso coi suoi personaggi
narrati, e le cui ragioni narrative si confondono con quelle biograiche (anzi:
l’intellettuale Robert Jordan, protagonista di Per chi suona la campana, è
visto punto e basta come un ritratto dello scrittore medesimo, di cui assumerebbe i pregiudizi politici). Sono obiezioni espresse con lemmi e argomentazioni che, come vedremo, Calvino terrà a mente. Trevisani presenta la
vicenda di Hemingway come «l’avventura di un individuo che dalla propria
73 Giuseppe Trevisani, Storia breve di Ernest Hemingway, in «Politecnico», n. 31-32, luglio-agosto
1946, adesso in Il Politecnico. Antologia critica a cura di Marco Forti e Sergio Pautasso, Milano, Lerici
Editori, 1960, pp. 567-574. Il testo è altresì reperibile nell’edizione anastatica Il Politecnico, Torino,
Einaudi, 1975.
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Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
individualità non ha voluto uscire»74, in linea con Alicata. In tempi che
richiedono agli scrittori l’impegno diretto sociale e civile, e il riconoscimento di un assetto alternativo alla civiltà borghese imperialista, Hemingway
riiuta invece di trovare per i suoi eroi un via ideologicamente positiva perché
«rassegnato nella propria impotenza che il mondo esterno determina», tale
e quale come quell’«impotenza dei [suoi] personaggi di fronte alla vita dalla
quale non riescono a trarre che la conoscenza astratta del piacere»75. Già a
partire da Fiesta si farebbe portavoce di quest’edonismo borghese sterile il
Jake Barnes protagonista del libro, evirato di guerra. Il tema immanente
dell’impotenza e dell’infelicità esistenziale (nonché sessuale) dei personaggi
di tutti i racconti e dei romanzi è giudicato con asprezza. L’azione raccontata
nelle storie hemingwaiane, sintomaticamente, ha per risultato la sconitta
dell’eroe, impossibilitato a cambiare le sue condizioni mentali (prima che
sociali) e gli altri. Ai personaggi hemingwaiani manca una dialettica sociale
e, per rilesso, esistenziale: non vedono alternative al loro dramma storico.
All’uomo è tolta la possibilità ultima di un costruttivo fare e dell’ottenere
una qualsiasi felicità. Addio alle armi stessa – opera in cui è chiara l’accusa
dell’autore alla guerra e al militarismo – non raggiunge un’alternativa positiva, perché «si chiariscono la vita e la morte come necessità indipendenti
dalla scelta dell’uomo»76 per cui sorge spontanea la domanda «Serve fare?».
Non a caso l’abile titolo dell’intervento di Trevisani è Storia breve di Ernest
Hemingway, che parafrasa il famoso he Short Happy Life of Francis Macomber (la «breve vita felice di Francis Macomber»), un racconto in cui, come
ci ricorda Trevisani, «la logica consequenza di ogni situazione»77 è la morte.
Di fatto, la storia di Hemingway non può essere, nella duplice accezione
di storia biograica e di storia dei suoi personaggi, felice. La conclusione di
Trevisani s’appaia a quella di Alicata: il nichilismo dello scrittore condanna
le sue opere all’insuicienza politica perché continua a rappresentare l’uomo
uti singulus, astratto dalle ragioni e lotte di una società composta da classi
tra loro in guerra, determinata nel suo essere dalla materialità dei rapporti
economici, che vengono accettati come immodiicabili dallo scrittore americano. Il tentativo rappresentato da Avere e non avere (il cui titolo sarebbe già
un programma) conferma l’insuiciente elaborazione ideologica dello scrittore. Nei racconti del contrabbandiere Harry Morgan, Hemingway sì «cerca
di rintracciare le ragioni o almeno la realtà del contrasto sociale sforzandosi
di uscire dall’io letterario, dando la parola ai personaggi ed alle classi»78 ma
74 Ivi, p. 567. Corsivo nostro.
75 Ivi, p. 568. Corsivo nostro.
76 Ivi, p. 570.
77 Ivi, p. 571.
78 Ibidem.
89
Andrea Dini
tutto si esaurisce in una descrizione d’impotenza: «la classe contro la classe,
il marito contro la moglie, la lotta per l’esistenza»79 rimane su un piano individuale. Di conseguenza « per questo riiuto di aderire a una dialettica, per
questo sgomento di uomo maturo dinanzi all’impotenza lungamente temuta
e prossima ormai, per questo estremo tentativo di evadere dalla propria storia, l’individuo ricade in se stesso, nel proprio egoismo […]»80. I corollari che
permettono l’accusa di irresponsabilità politica a Per chi suona la campana
fanno presto a venire: «Sarebbe sciocco afermare che a Hemingway sfuggisse il signiicato sociale di quella guerra: troppo spesso si chiarisce nella sua
pagina che il suo ostinato individualismo non muove da ignoranza. Ma certo
egli dovette vedere in quella lotta soprattutto un mezzo di liberazione individuale […]»81. Lo scrittore, secondo Trevisani, pur sentendo «generosamente
la necessità dell’impegno politico», non ne comprende la necessità dialettica:
«la rivoluzione, la repubblica non sono uno scopo: sono soltanto cose volute a
suo tempo, con forza e ferocia», senza una giustificazione storica che riscatti
la «guerra dei lavoratori contro il fascismo»82, la conquista di una libertà di
classe. Ecco perché la storia dei libri di Hemingway coinciderebbe con la
storia dello scrittore: è «la vita di un uomo […] dalla negazione dell’uomo
in terra all’afermazione di una libertà dell’individuo che non riesce a comprendere la libertà altrui»83. Trevisani conclude tacciando Hemingway di
incomprensione classista.
Con una buona dose di sano tatticismo, il giovane giornalista comunista
Calvino si tiene lontano dall’occhio del ciclone che investe l’idolo americano, Per chi suona la campana e «Politecnico». Tuttavia, risponde di fatto a
Trevisani, a «Rinascita» e alla posizione di Alicata sull’(in)«utilità» o meno di
leggere Hemingway – o quell’Hemingway di Per chi suona la campana, accusato di intellettualismo – dall’insospetta tribuna del quotidiano di partito,
orientando la discussione su di un romanzo critico del militarismo italiano
(e per questo antifascista ante-litteram) quale Addio alle armi. Lo qualiica
come «libro pieno di giudizi crudi sugli italiani, sulla mentalità della società
italiana» e, lemma non innocente in questo contesto di attorcigliati rimandi
sulla stampa di partito e prese di posizioni polarizzanti, «lettura utile soprattutto per noi, che non siamo abituati a analizzarci, a criticarci, a caricaturarci
a fondo»84. Un Hemingway appunto burbero (demistiicante) e, per noi suoi
79 Ibidem.
80 Ivi, p. 572. Corsivo nostro.
81 Ibidem. Corsivo nostro.
82 Ivi, p. 573. Corsivo nostro.
83 Ibidem.
84 Italo Calvino, Hemingway burbero beneico, cit., p. 2116.
90
Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
lettori italiani, beneico (taumaturgico per i mali dell’italiano medio, da sempre alieno dall’autocritica e incline piuttosto al qualunquismo)85.
Addio alle armi è, per il Calvino del settembre 1946, «lettura adatta al
momento», la travagliata età presente. Quel libro, sdegnato fustigatore della
classe dirigente italiana militarista – la quale aveva facilitato, o non ostacolato, la dittatura a venire –, si proietta come specchio di una congiuntura
temporale in cui si riafacciano allarmanti i pericoli derivati dalla risorgente
«retorica imperialista di cui è imbevuta la piccola borghesia intellettuale»
del nostro paese. Il libro è «utile», è «adatto» perché dimostrazione di una
protesta politica e civile.
L’urgenza di questa lettura hemingwayiana risalta decisa quando si consideri dall’interno della complessiva produzione giornalistica e narrativa calviniana. S’aggancia sintomatico a queste cogitazioni critiche, infatti, il racconto Ragionamento del cugino (pubblicato su «l’Unità» stessa il 29 settembre, e
cartone del più tardo Chi ha messo la mina nel mare?)86, le cui immagini di
ordigni bestiali che tornano a galla, e di morti di cui è ancora pieno il mare
alludono a una paciicazione nazionale non ancora avvenuta, al pericolo di
una nuova guerra civile (di classe), e alla minaccia dello scoppio di una terza
guerra. I colpevoli delle mine riaiorate dal mare appartengono al complesso
militar-industriale e dell’alta inanza (sono generali e gallonati dell’esercito,
industriali, banchieri), ma l’accusa si estende alla piccola borghesia dell’utile
(i bottegai), ai proitattori di guerra (i borsaneristi) e, elemento da non sottovalutare in quest’insieme di letture e scritture militanti di Calvino, agli
intellettuali. Al pari del rinvio esplicito nella nota su Addio alle armi (là
rivolto, nel contesto della Grande Guerra, agli interventisti della prima ora),
Calvino pone sotto accusa in Ragionamento sia coloro che negli anni della
dittatura fascista «hanno detto troppo» facendosi scudo e strumento della
propaganda militare, sia gli omertosi o i neutrali, «quelli che non hanno
detto nulla», ugualmente colpevoli per il silenzio meschino, attendista o
auto-assolutorio87. Il tanto bistrattato Hemingway, ci dice Calvino per vie
traverse, avrebbe insomma da assolvere col suo coraggio denunciatore all’in85 Ivi, p. 2115: «Siamo fatti così, noi italiani: niente ci dispiace come sentir parlare male di noi
stessi. E dire che siamo abituati a incassare colpi più duri: abbiamo incassato bombardamenti aerei,
occupazioni militari, am-lire. Ma a sentir parlar male di noi non c’eravamo ancora abituati, perché
allora di noi si parlava sempre bene, e anche i gerarca sentendo Radio Londra si convinceva d’essere
una vittima del fascismo. Invece adesso s’è cominciato con i giudizi severi, con le parole dure, talvolta
meritate, talvolta no. Noi siamo sempre stati un popolo privo di autocritica, sempre pronto a incensare
e a romantizzare se stesso e le sue cose; perciò queste dure parole, giustre e ingiuste, sono i colpi che
più ci dolgono».
86 Italo Calvino, Ragionamento del cugino, in «l’Unità», Torino, 29 settembre 1946, adesso in
Romanzi e racconti, iii, pp. 840-844.
87 Ivi, p. 843.
91
Andrea Dini
grato ruolo di scrittore alleato, non di nemico (nonostante i limiti ideologici),
almeno per Addio alle armi, romanzo ostile al militarismo italiano e all’Italia
uscita da Caporetto.
Non solo: a sèguito significativo di queste posizioni sul militarismo e
sulla responsibilità della cultura, il 6 ottobre Calvino scrive la nota Rosenberg
dannato, dedicata a un altro argomento del giorno, i processi di Norimberga e a quello per il teorico del nazismo Alfred Ernst Rosenberg (impiccato
di lì a poco, il 16). In essa, Calvino castiga la complicità col nazi-fascismo
degli «uomini di cultura che hanno fatto della loro cultura uno strumento
di oppressione e d’ingiustizia»88. A Rosenberg è appaiato Giovanni Gentile,
«il panciuto appaltatore di ilosoie su misura per “stati etici”» cui Calvino
augura «un inferno speciale […] perché la sua cultura più profonda e più solida lo rende maggiormente responsabile»89 della tragedia italiana. Il ilosofo
era stato giustiziato dai partigiani nel 1944 in una controversa iniziativa che
Calvino qui indica «tra i non ultimi vanti della resistenza italiana, anzi della
cultura italiana nella resistenza» perché ha «fatto giustizia di propria mano
[…] del maggiore esponente e responsabile della nostra trahison des clercs,
che magari qualche compiacente Norinberga locale avrebbe assolto perché
il fatto non costituisce reato»90. Data la cornice storica presente, il secco
rimando fatto da Calvino tramite Addio alle armi alla non spenta «retorica
imperialista» della borghesia, nonostante il disastro mondiale appena alle
spalle, va allargato alle coeve, accesissime discussioni politiche invocanti la
necessità del riarmamento tedesco e occidentale in funzione anti-sovietica,
con lo spettro di un nuovo conlitto di cui Calvino considera appunto
complice col suo silenzio (o tacito assenso) la casta dei letterati, «la piccola
borghesia intellettuale» anti-marxista.
Le rubriche del 15 settembre e del 6 ottobre su Hemingway di Addio alle
armi, la letteratura antimilitarista e sul tradimento degli intellettuali che
credono che cultura non sia politica, insomma, si fanno da pendant; siamo
all’interrogazione esplicita, urgente e polemica di come esercitare appieno il
potere della penna e alla delineazione di uno strettissimo rapporto tra cultura e politica che in questi mesi ha occupato riviste e giornali letterari. Ma è
altrettanto chiaro che un punto speciico del contendere, il giudizio negativo
su Hemingway uomo, e scrittore, sia ribaltato da Calvino per il ruolo beneico che la lettura dell’opera può rivestire per l’Italia, quando si consideri come
la letteratura mondiale antimilitarista nata dal primo conlitto abbia prodotto un Remarque, un Arnold Zweig o un Wiechert mentre in Italia i letterati
88 Id., Rosenberg dannato, in «l’Unità», Torino, 6 ottobre 1946, adesso in Saggi, ii, p. 2119.
89 Ibidem.
90 Ibidem.
92
Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
abbiano evitato qualsiasi giudizio sulla carneicina e si siano auto-assolti da
qualsiasi responsabilità. (Inutile dire come l’applicazione di questo giudizio
sulla Prima guerra sia valido per estensione alla Seconda.)
La mossa riabilitatoria di Calvino, compiuta dall’organo di partito (seppure dalla periferia dell’edizione torinese) appare per quello che è: abile,
soisticata (e diplomatica al contempo). La risposta a Alicata e Trevisani
sul valore del romanzo hemingwaiano, e del suo autore (anzi, nonostante
il suo autore), agisce su un altro punto estetico e politico: Addio alle armi è
«una rappresentazione sretorizzata della Prima guerra mondiale sul nostro
fronte»91 (quindi non falsata, non intellettualizzata). Il testo «scritto nel
1929, quando già l’esperienza bellica s’era decantata e approfondita nell’animo dell’autore» fornisce «un giudizio non solo sull’Italia di quel periodo,
ma su quello che all’Italia sarebbe accaduto poi, c’è la cattiva organizzazione
della guerra, l’incoscienza con cui le classi dirigenti mandano al massacro il
popolo italiano […]»92. Merito della trama è osservare «una solidarietà non
detta a parole» (esplicitamente non didascalica, didattica) «ma per questo
più profonda, col popolo che non sa perché lo mandano a morire, che vuol
ragionare di testa sua, con il mondo dei soldati diviso da quello degli uiciali da una barriera come tra caste indiane»93. È l’istantanea dell’Italia della
rivoluzione risorgimentale tradita: la frattura tra il mondo del popolo («dei
soldati» precettati) e il mondo della classe dirigente borghese militarista, coi
suoi interessi opposti a quel popolo, di cui l’intellettuale Hemingway, osservatore esterno dall’occhio neutrale, coglie nel romanzo i tratti reazionari, a
profezia di una dittatura a venire: «Questo c’è in Hemingway, e il libro letto
all’estero può far capire il perché del fascismo, e il perché della resistenza
popolare al fascismo»94.
Libro «utile», libro necessario, libro rivoluzionario, anche se caso-limite:
l’esempio di Addio alle armi serve a Calvino per smontare l’accusa totalizzante di intellettualismo rivolta al suo autore95; fa altresì leva sugli aspetti del
91 Id., Hemingway burbero beneico, cit., p. 2116. Corsivo nostro.
92 Ibidem.
93 Ivi, pp. 2116-2117.
94 Id., Dante qualunquista, in «l’Unità», Torino, 15 settembre 1946, adesso in Saggi, ii, p. 2117 (la
conclusione su Hemingway apre il primo paragrafo della parte su Dante, il qualunquismo italiano e
la letteratura antimilitarista).
95 Anche il giudizio cautelamente negativo di Calvino che investe l’uomo Hemingway, antifascista
sì, ma non marxista, anzi, «pessimista» (in linea con la critica uiciale di sinistra allo scrittore americano –una posizione su cui Calvino rimarrà fermo nel tempo, ogni volta che si occuperà di questo
«dannato uomo») limita ma non pregiudica il signiicato da attribuire all’opera: «Un pessimista è
sempre stato in fondo Hemingway. Che cosa ha portato lui e il suo protagonista a combattere sul fronte
italiano, per una guerra che non sentivano? È stato quel suo estremo scetticismo di iglio della civiltà
borghese che comprende la crisi della sua civiltà, che vuole guardare la realtà qualunque essa sia, per poi
ritirarsene annoiato quando la vede. È la noia, la caratteristica noia di Hemingway, di questo Cechov
93
Andrea Dini
libro in cui si esprime la sintonia tra lo scrittore e le classi lavoratrici (si pensi
alle discussioni tra il tenente protagonista del libro, Fred Henry, e gli operai
socialisti emiliani suoi attendenti)96 col riiuto delle vuote parole d’ordine
che chiamano alla guerra («onore», «gloria», «sacriicio»)97 e al suo condono.
L’accenno all’assenza di retorica nella rappresentazione del conlitto porta
in campo, è naturale, il convitato di pietra di queste pagine stampate, la
tanto dibattuta Per chi suona la campana, altra storia di guerra e racconto
sretorizzato di una guerra civile che echeggia, per gli italiani, la propria.
5. L’esempio dei libri di Hemingway fa da sponda al convincimento
di Calvino che sia giunta l’ora di un romanzo suo che racconti le ragioni
dell’impegno partigiano nella Resistenza. Il Sentiero ne incapsula le posizioni
etico-politiche, al lume delle delusioni della storia contemporanea in cui la
resa dei conti col fascismo sembra interrompersi e le necessità di riattivare
i princìpi morali partigiani farsi più urgenti (se considerate dall’interno di
un progetto di ricostruzione socio-economica della nazione che – in nome
della solidarietà nazionale e di un partito operaio classe di governo – richiede
al proletariato di accettare nuovi sacriici e un ordinamento statale ancora
borghese-capitalista)98. L’ideazione e la scrittura del Sentiero avvengono tra
l’agosto e il dicembre del ’46, vìs-a-vìs il quadro politico agitato dai recentissimi tentativi di insurrezione al nord degli ex-partigiani (che riprendono le
armi tra il luglio e l’agosto), a seguito della crisi economica e delle epurazioni
fasciste mancate (l’amnistia Togliatti, controversa, è del giugno)99. A cartina
travestito da Bufalo Bill, la stessa noia che lo farà vagabondare per le iestas spagnole, che porterà il
suo Robert Jordan di Per chi suona la campana a combattere per una grande causa, ma quasi solo per
entusiasmo sportivo, noia che si risolverà in qualcosa di più positivo forse solo nel Philip della Quinta
colonna» (Id., Hemingway burbero beneico, cit., p. 2116).
96 Ernest Hemingway, Addio alle armi, a cura di Fernanda Pivano, con un’introduzione di Fernanda Pivano, Milano, Mondadori, 2014: si cfr. il capitolo ix, in particolare pp. 55-61, passim.
97 In particolare al capitolo xxvii: «Ero sempre imbarazzato dalle parole sacro, glorioso e sacriicio
e dall’espressione invano. Le avevamo udite a volte ritti nella pioggia quasi fuori della portata della
voce, in modo che solo le parole urlate giungevano, e le avevamo lette su proclami che venivano spiaccicati su altri proclami, da un pezzo ormai, e non avevo visto niente di sacro, e le cose gloriose non
avevano gloria e i sacriici erano come i macelli a Chicago se con la carne si faceva altro che seppellirla.
C’erano molte parole che non si riusciva ad ascoltare e si iniva che soltanto i nomi dei luoghi avevano
dignità. Anche certi numeri e certe date, e coi nomi dei luoghi erano l’unica cosa che si potesse dire che
avesse un signiicato. Parole astratte come gloria, onore, coraggio o dedizione erano oscene accanto ai
nomi concreti dei villaggi, ai numeri delle strade, ai nomi dei iumi, ai numeri dei reggimenti e delle
date» (Id., Addio alle armi, cit., p. 128).
98 Si cfr. a questo proposito Romano Luperini, Gli intellettuali di sinistra e l’ ideologia della ricostruzione nel dopoguerra, Roma, Edizione di Ideologie, 1971.
99 Per un quadro storico di questo periodo, si cfr. Giorgio Candeloro, La fondazione della Repubblica e la ricostruzione. Considerazioni inali (1945-1950), Milano, Feltrinelli, 1986, e in particolare
pp. 107-114 e Enzo Piscitelli, Da Parri a De Gasperi. Storia del dopoguerra 1945/1948, Milano,
Feltrinelli, 1975, in particolare le pp. 168-175 sulla ribellione partigiana. Si veda anche Mimmo Franzinelli, L’amnistia Togliatti. Colpo di spugna sui crimini fascisti, Milano, Mondadori, 2006
94
Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
di tornasole di queste tensioni, di cui il Sentiero si fa collettore, si torni a
Ragionamento del cugino, ma si rilegga anche E il settimo si riposò100: in questo racconto, col suo protagonista ex-partigiano ora muratore, appare per la
prima volta a indice dell’esperienza partigiana il lemma «furore» (termine di
una rabbia, di una rivolta interiore individuale da convogliare concretamente
in azione positiva), usato a segno di una spinta al «fare» della Resistenza che
va ora recuperata – letteralmente “ricostruita” ex-novo – nel dopoguerra101.
Le diicili circostanze politiche e civili in cui versa l’Italia tra il primo anniversario della Resistenza e l’autunno 1946 segnano il morale di chi aveva
combattuto e sono così rammentate nella Prefazione 1964 a premessa del
disegno del romanzo:
a poco più d’un anno dalla Liberazione già la «rispettabilità ben pensante»
era in piena riscossa, e approittava d’ogni aspetto contingente di quell’epoca – gli
sbandamenti della gioventù postbellica, la recrudescenza della delinquenza, la dificoltà di stabilire una nuova legalità – per esclamare: «Ecco, noi l’avevamo sempre
detto, questi partigiani, tutti così, non ci vengano a parlare di Resistenza, sappiamo
bene che razza d’ideali…»102.
Lo scrittore pone a protagonisti del racconto, «quasi per paradossale sida ai
detrattori della Resistenza»103, infatti, i «declassati del lumpenproletariat»104,
usati come meccanismo tale da scoprire, di quell’esperienza, l’«elementare
spinta al riscatto umano operante anche in chi s’era gettato nella lotta senza
un chiaro perché»105. Un proposito sincero e machiavellico al contempo106,
nato per smascherare il «carattere primario», «la vera essenza»107 della lotta
sempre più nascosta da «una retorica che s’andava creando»108, «contro tutte
le immagini mitizzate»109, e riportare invece la coscienza partigiana a quello
100 Italo Calvino, E il settimo si riposo, in «l’Unità», Torino, 9 giugno 1946, ora in Id., Racconti
e romanzi, iii, pp. 833-839.
101 Come è riportato dalla versione manoscritta cassata «sull’idea del lavoro […] come prolungamento in altre forme dell’esperienza partigiana» (Bruno Falcetto, Racconti esclusi da «I racconti», in
Racconti e romanzi, iii, p. 1321).
102 Italo Calvino, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1192.
103 Id., Nota introduttiva 1954 al Sentiero dei nidi di ragno, ora in Racconti e romanzi, i, p. 1206.
104 Ibidem.
105 Ibidem.
106 Questa la pertinentissima presa di posizione nella recensione al Sentiero di Enzo Giachino,
Il primo della classe, in «Mondo nuovo», Torino, a. i, n. 247, 20 novembre 1947, p. 3: «ci si chiede se
la retorica adottata dall’autore non sia una presa di posizione politica, un tipo di propaganda, certo
ben più abile e a prima vista più eicace di quello abitualmente usato dai suoi compagni, che troppo
spesso paion ricalcare gli schemi dei raccontini educativi di Cuore. La bravura sempre vigile di Calvino
appare allora una forma inesorabile di machiavellismo» (adesso in Andrea Dini, Il Premio Nazionale
«Riccione» 1947 e Italo Calvino, Cesena, Società Editrice Il Ponte Vecchio, 2007, p. 325).
107 Italo Calvino, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1197.
108 Ibidem.
109 Ibidem.
95
Andrea Dini
che si sentiva fosse stato il suo nucleo originario, «un quid elementare»110
(in sostanza personale e soggettivo: non ideologico)111. Il disegno polemico
crea una tensione apparentemente irrisolvibile nel romanzo, tra la rappresentazione oggettiva di chi non sembra appunto essere consapevole delle
ragioni ultime del suo coinvolgimento nella Resistenza e l’esigenza autoriale
di discuterne le radici. A questo scopo Calvino introduce, com’é noto, un
punto di vista esterno alla brigata, il commissario politico Kim, in un capitolo (il ix) che avrebbe la funzione di provvedere al lettore quella «chiarezza» sulle cause che mancherebbe ai personaggi stessi. Calvino chiamerà in
seguito il capitolo «quasi una prefazione inserita in mezzo al romanzo», «per
soddisfare la necessità dell’innesto ideologico», in un testo che rimane, così,
«spurio», «impostato in tutt’altra chiave»112.
L’arrivo del deus ex-machina Kim sulla scena del romanzo, però, non è
una forzatura: va visto quale preciso contraltare del capitolo viii, in cui gli
uomini stessi del distaccamento hanno parlato tra di loro, col linguaggio loro
110 Ibidem. Si cfr. anche l’intervista concessa a Maria Craipeau, Entretien avec… Italo Calvino, in
«France-Observateur», xi, 526, 2 giugno 1960, pp. 21-22: « Ho scritto quel libro contro i borghesi che
dicevano che con una smoria di disgusto: “I partigiani? Tutti criminali”. Ma io non descrivevo certo
l’ “eroe socialista”. Della Resistenza ho preso quello che c’era di più basso, un gruppo di sottoproletari, di reietti: sono loro che ho mostrato, e con loro quello che c’era di buono in tutta la Resistenza»
(adesso in Interviste, p. 49). E: « Era anche un programma morale, fare una letteratura non ediicante,
ma che toccasse veramente la realtà dei problemi umani che la Resistenza aveva posto in gioco» (Italo
Calvino. «Il gusto dei contemporanei», Quaderno 3, Banca Popolare Pesarese, Pesaro, 1987, adesso in
Interviste, p. 549).
111 È chiaro il caso di come avvenga il salto nella lotta nel racconto autobiograico La stessa cosa del
sangue, in cui i due fratelli, il maggiore e il minore (da identiicarsi nei due fratelli Calvino) si trovano
a fronteggiare l’arresto della madre. La scelta è posta prima, apprentemente, in termini anti-ideologici
(in quanto la politica rimane «fuori di loro»), ma viene mostrato anche come l’ofesa personale renda
tangibile ciò che prima era astratto, solo studiato nei libri: «Il fratello maggiore […] era capace di
spiegare cos’è la democrazia, il comunismo, sapeva storie di rivoluzioni, poesie contro i tiranni: cose
utili anche a sapersi, ma che c’era tempo a imparare dopo, inita la guerra. […] Ma ora i due fratelli
avevano una cosa in comune, qualcosa era cambiato in loro, l’interesse a quella vita che facevano, la
posta in gioco, non più qualcosa fuori di loro, ma nel fondo di loro, nel sangue. La lotta, l’odio per i
fascisti non erano più come prima, […] una cosa imparata sui libri […], erano ormai la stessa cosa del
sangue, una cosa profonda in loro come il senso della madre, una cosa decisa una volta per tutte, che
li avrebbe accompagnati per la vita» (Italo Calvino, La stessa cosa del sangue, in Id., Ultimo viene il
corvo, Torino, Einaudi, 1949, p. 104).
112 Id., Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1189. In una lettera del 1947 a Franco
Fortini, però, Calvino rivendica questo tipo di narrazione: «in fondo io credo che il vero romanzo sia
sempre qualcosa di un po’ spurio, in cui conluiscono interessi diversi e in cui la poesia è una cosa che
si deve scoprire e conquistare a fatica, senza paura d’infangarsi» (a Franco Fortini, 3 dicembre 1947,
p. 206, a seguito della recensione sull’«Avanti!» del Sentiero, in cui lo scrittore era invitato a «mettersi a fuoco»). Il problema del racconto-saggio causa anche una polemica con Elio Vittorini: «Fin da
principio, Vittorini pensava che nei miei racconti tutto dovesse essere espresso nella rappresentazione
narrativa, e non nel commento o in una costruzione dettata da ragioni intellettuali, che erano a quei
tempi i famosi doveri politici che credevamo di doverci imporre. Nel mio apprendistato, i giudizi di
Vittorini, anche negativi, mi hanno molto aiutato» (intervista concessa a Maria Craipeau, Entretien
avec… Italo Calvino, cit., ora in Interviste, p. 49). A questo proposito, si rimanda anche a Andrea
Dini, Il Premio Nazionale «Riccione» 1947 e Italo Calvino, cit., pp. 222-224.
96
Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
(«sono parole che capiscono bene tutti», viii 136)113 delle cause della guerra
e «del perché fanno il partigiano e di cos’è il comunismo (viii 135)»114. Il
capitolo ix semmai reinquadra, e problematizza, le loro vedute soggettive e
pregiudiziali di personaggi senza coscienza di classe che riiutano in blocco
le spiegazioni astratte della politica (per esempio, della guerra mondiale come
espressione ultima della guerra contro il proletariato, oferta dall’iperpoliticizzato Mancino, il cuoco estremista)115. I due capitoli sono legati assieme, si
fanno da necessario pendant (l’uno non esclude l’altro): la struttura ideologica del romanzo richiede questo dibattito. È chiaro che per questi personaggi
«un’idea rivoluzionaria […] non può nascere, legati come sono alla ruota che
li macina. Oppure nascerà storta, iglia della della rabbia, dell’umiliazione,
come negli sproloqui del cuoco estremista […] (ix 153)». La domanda rimane: «Perché combattono, allora? (ix 153)». Il punto di vista intellettuale di
Kim – che ha formato tale gruppo a privato «laboratorio d’esperimenti» (ix
147) – ha il compito di enucleare per il lettore in che cosa consista il «riscatto» dei personaggi, e perché questa loro liberazione, da cui bisogna partire
per comprendere le ramiicazioni etico-politiche della Resistenza (in specie
per salvarne l’eredità nel dopoguerra), vada considerata a priori per il suo
valore catartico, esistenziale, d’essenza morale (non di classe). L’intervento di
Kim, infatti, ha il carattere di spiegazione complementare, non di correzione
ortodossa e “politica” (si licet) del loro punto di vista. La sua è certo una
consapevolezza di stampo superiore (la sintesi provvista da un intellettuale
borghese ora col popolo) rispetto alle preoccupazioni immediate e alle storie
private cui danno voce i personaggi del distaccamento: ma invita a considerare lecite come ragioni del loro coinvolgimento (anche se solo come punto di
partenza e sviluppo di una coscienza) i motivi semplici, concreti, individuali,
113 Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Torino, Einaudi, 1947. Le citazioni dal testo del
romanzo date in corpus verranno d’ora innanzi accompagnate dall’indicazione del capitolo e del numero della pagina in cui la citazione ha inizio.
114 «Sono discorsi che non durano a lungo perché a pochi degli uomini piace discutere e ragionare:
tanto non si risolve mai niente mai niente ed è meglio stare attenti a non farsi sparare e a procurarsi delle
armi e cercare di sparare agli altri, senza tanti ragionamenti (viii 129)»: la posizione anti-intellettualistica della brigata è qui chiaramente espressa.
115 Mancino identiica correttamente, da un punto di vista marxista, le forze all’opera contro il
proletariato, ma sia per i suoi atteggiamenti che per l’astrattezza dei riferimenti, le sue contestazioni
alle piega qualunquista presa dal dibattito politico nel distaccamento non hanno seguito: gli uomini
«non sanno niente e bisogna che lui spieghi loro tutto. […] – Il capitalismo! –grida ogni tanto. –La
borghesia sfruttatrice! (viii 131)» o: «La borghesia imperialista … la borghesia che fa la guerra per
la spartizione dei mercati!(viii 132)». La spiegazione dell’avversione a Mancino viene pianamente
spiegata: «Mancino è antipatico a tutti loro perché sfoga la sua rabbia a parole e ragionamenti, non a
spari: a ragionamenti che non servono a nulla perché parla di nemici che non si conoscono, capitalisti
e inanzieri (viii 134)». Per un’analisi completa di come incide la igura del comunista «troschista»
Mancino nell’economia del romanzo, si cfr. Andrea Dini, Il Premio Nazionale «Riccione» 1947 e Italo
Calvino, cit., pp. 279-291.
97
Andrea Dini
pertinenti alle loro vite (e al loro livello) che essi sanno identiicare116, e che
dalla loro individualità particolare, quando presi assieme, compongono il
quadro di un’esigenza collettiva di «riscatto umano» (che coinvolge tutti: si fa
anonimo, cioè risposta non più determinata da un’ofesa, una ‘umiliazione’
personale). Il linguaggio di Kim non lascia spazio a esitazioni:
Questo è il signiicato della lotta, il signiicato vero, totale, al di là dei vari
signiicati uiciali. Una spinta di riscatto umano elementare, anonimo, da tutte
le nostre umiliazioni: per l’operaio dal suo sfruttamento, per il contadino dalla
sua ignoranza, per il piccolo borghese dalle sue inibizioni, per il paria dalla sua
116 È questo il primo nucleo testuale di Uomini e no, il più palese, a cui Calvino fa riferimento nella
sua lettura del partigianesimo: riguarda la ricerca di quel «quid elementare» dell’impegno nella lotta (il
«senso», suo lemma chiave; «il perché … delle cose»; «l’ultimo perché» che reclama l’uso della violenza
e l’accettazione del sacriicio nella morte), intrapreso nel romanzo partigiano di Vittorini dal partigiano Gracco, il quale assolve lo stesso ruolo che sarà di Kim nel Sentiero: è il continuo interrogatore delle
ragioni individuali degli uomini. Gracco è «curioso» dei «perché» (al plurale) gli uomini del Gap si
trovano a combattere, i motivi per cui hanno scelto la violenza: «Perché quei due giovani avevano a che
fare con dei mitragliatori? I loro interessi erano semplici, paciici; né era accaduto loro personalmente
nulla che li spingesse alla disperazione. Perché prendevano parte a una lotta che esigeva di combattere
con la forza della disperazione? Il Gracco era curioso (xxxiv 44)». Si tratta di un punto importante: e
il lettore è sempre nell’attesa di una rivelazione uiciale (si lotta per la liberazione del paese dal fascismo, si lotta per il comunismo, si lotta insomma per una giustiicazione politica e una parola d’ordine)
che invece non viene mai. Allo stesso tempo, anche se la «lotta» esige di combattere «con la forza della
disperazione» (tradotta da Calvino nel lemma «furore»), chi combatte non è stato in verità spinto da
egoismo, da episodi capitati individualmente che lo hanno portato a reagire perché toccato nel vivo
della sua storia privata. Le domande che Gracco fa a se stesso e ai compagni («Perché, ora, lottavano?
Perché vivevano come animali inseguiti e ogni giorno esponevano la loro vita? […] Perché lanciavano
bombe? Perché uccidevano?») generano solo imbarazzate risposte reticenti, che in apparenza insistono
sul non-sapere, sulla non-consapevolezza del personaggio interrogato: «Disse Coriolano nella casa del
bastione: «Io non so. Mi sembra che non sarei capace di nulla se non avessi mia moglie con me» | […]
«Non sai! Non sai! » Mambrino disse. «Tu sempre non sai. » | «Io non so,» disse Coriolano. | […] Il
Gracco era curioso, e se lo domandava. | Perché, se non erano terribili, uccidevano? Perché se erano
semplici, lottavano? Perché, senza avere niente che li costringesse, erano entrati in quel duello a morte
e lo sostenevano? (xxxviii, 51). La domanda viene rivolta a Gracco stesso: «E dai! » disse Orazio. […]
«Tu non lo sai perché tu lo hai scelto?» | «Io lo so,» il Gracco disse. «Io ho il mio motivo.» «E lo stesso
motivo abbiamo noi» (xxvi, 47). I motivi sono da riscontrarsi proprio negli «interessi» elementari degli
uomini, che non vanno «molto più in là» della coscienza di avere un famiglia, un luogo dove dormire,
un compagna: «Essi avevano, ognuno, una famiglia: un materasso su cui volevano dormire, piatti e
posate in cui volevano mangiare, una donna con cui volevano stare; e i loro interessi non andavano
molto più in là di questo, erano come i loro discorsi. Perché, ora, lottavano? […]» (xxvi, 46). Interessi
e discorsi, personaggi e motivazioni personali diventano una cosa unica con la lotta (come per Calvino
in La stessa cosa del sangue); l’indagine di Gracco, che « domandava sempre, ma mai trovava l’ultimo
perché delle loro cose» se si rivela insuiciente a cogliere il quid esplicito di questi uomini è forse per
la riluttanza di Gracco a accettare, e a accogliere, quanto d’elementare e irriducibilmente individuale
appare nei loro discorsi (che non riportano nessuna motivazione uiciale del perché rischiano la vita)
Anzi se ne vergognano quasi, come se la retorica della guerra (di liberazione della patria, per alcuni;
di liberazione dal nazifascismo; di mutamento delle strutture economiche di classe, per altri) debba
far tacere le più intime, più pratiche, più spicciole ragioni, non necessariamente in contrasto con un
grande disegno politico inale. Per le citazioni del romanzo vittoriniano, si cfr. Elio Vittorini, Uomini e no, Milano, Mondadori, 1986, con l’indicazione del capitolo e della pagina in cui la citazione
ha inizio.
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Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
corruzione. Io credo che il nostro lavoro politico sia questo, utilizzare anche la
nostra miseria umana, utilizzarla contro se stessa, per la nostra redenzione, così come
i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo (ix
152, corsivi nostri).
Innanzitutto, Calvino ammette l’esistenza di «vari signiicati uiciali» (già
al tempo, individuati: la guerra di liberazione nazionale dall’occupazione
tedesca, la guerra civile – contro la dittatura fascista – e appunto la guerra di
classe, l’ipotesi rivoluzionaria). Ma l’analisi si concentra sulla prima tappa,
sul primo gradino (il più «elementare», e trascurato) di quella lotta, come
condicio sine qua non per la realizzazione degli altri signiicati, tutti derivanti da essa: l’individuazione di una liberazione umanitaria, interclassista
«di ognuno, nella sua vita» come già l’aveva delineata Vittorini in Uomini
e no, ainché sia del «nostro paese, e il mondo» («Che sia di ognuno, e sarà
maggiore nel mondo»)117. Nella storia dell’uomo diviso dalla violenza dello
scontro di classe, i partigiani della Resistenza sono «dalla parte del riscatto», i nazi-fascisti «dall’altra»: come spiega Kim a Ferriera, «Da noi, niente
va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? va
perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri igli, a costruire
un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L’altra
è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se
vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e
perpertuare quel furore e quell’odio (ix 152, corsivi nostri)» in una catena
ciclica: «noi per redimercene, loro per restarne schiavi» (ix 152). Il discorso
politico di Kim (in cui tutte le «umiliazioni» di classe sono dichiarate: lo
sfruttamento borghese-capitalista dell’operaio, l’ignoranza e l’isolamento
del contadino chiuso nel proprio egoismo, l’inibizione piccolo-borghese che
porta alla rivalsa sul proletariato) richiede qui, in prima istanza, per arrivare a concreta soluzione, l’individuamento personale, soggettivo, di quelle
117 Il secondo nucleo testuale del dialogo di Calvino con Vittorini si trova all’interno della famosa
sequenza dei morti di Largo Augusto. Le domande individuali di Gracco trovano inalmente soluzione – e la trovano proprio partendo da quanto il sacriicio personale, l’impegno dell’uno nella guerra di
resistenza a quanto il nazifascismo rappresenta, diventa automatica risposta per tutti, per l’umanità:
se il nazifascismo, come nell’assioma vittoriniano, fa parte dell’uomo e delle sue miserie, allora la
lotta diventa anche marchio esistenziale di «redenzione» (questo è il lemma calviniano). I morti nella
guerra –sia che combattano come partigiani, siano che vengano uccisi, inermi – insegnano per che
cosa sono morti: non tanto per la letterale «liberazione» del paese e del mondo dalla piaga nazifascista,
ma per la liberazione (leggi: redenzione, il riscatto) «di ognuno nella sua vita», che sarà poi del paese
e del mondo: «“Oh!” il vecchio rispose. “Dobbiamo imparare.” | “Imparare che cosa?” disse Berta.
“Cos’è che insegnano?” | “Quello per cui” il vecchio disse, “sono morti.” | Berta chiese al vecchio che
cosa intendesse dire, e il vecchio disse che intendeva dire quello per cui accadeva ogni cosa, e per cui
si moriva, disse, anche se non si combatteva. | “La liberazione?” disse Berta. | Il vecchio sembrava cercasse la risposta migliore, guardava davanti a sè con occhi lieti. “Di ognuno di noi” rispose. | “Come,
di ognuno?” | “Di ognuno, nella sua vita.” | “E il nostro paese, e il mondo?” | “Si capisce” il vecchio
rispose. “Che sia di ognuno, e sarà maggiore nel mondo”» (lxvii-lxviii, 98).
99
Andrea Dini
umiliazioni e lo scatto che permette di usare la propria «miseria umana», la
propria «impotenza» contro se stessa, per spezzare la catena. Ma anche senza
la consapevolezza politica del perché si combatte, quel gesto di furore che si
sfoga in spari contro i fascisti, da solo, non è inutile, bisognerà saperlo incanalare in attività socialmente utile (col conseguente lavoro politico).
[…] Kim è afezionato a questi uomini. C’è il riscatto umano che si muove in
loro. Quel bambino del distaccamento […] Dicono che sia fratello di una prostituta. Perché combatte? Non sa che combatte per non essere più fratello di una prostituta. E quei quattro cognati «terroni» combattono per non essere più dei «terroni»,
una gente disprezzata che parla uno strano dialetto. E quel carabiniere combatte
per non sentirsi più carabiniere, sbirro alla costole dei suoi simili. Poi Cugino […]
dicono che sia impotente perché odia le donne e vuole sempre esser lui a uccidere
quelle che fanno la spia…Tutti noi abbiamo un’ impotenza segreta per riscattare la
quale combattiamo (ix 155, corsivi nostri).
«Tutti noi», nessuno escluso; ma il mettersi in gioco contro quella miseria
e impotenza, da un senso storico alle azioni di ognuno. Così Calvino compendierà nel 1964 la propria posizione, polemizzando contro l’attendismo,
la neutralità e la non-compromissione (anche intellettuale): «Anche in chi si
è gettato nella lotta senza un chiaro perché, ha agito un’elementare spinta di
riscatto umano, una spinta che li ha resi centomila volte migliori di voi, che
li ha fatti diventare forze storiche attive quali voi non potrete mai sognarvi di
essere!»118. Infatti, a capo del testo calviniano rimane il processo attraverso
cui si può arrivare alla consapevolezza esplicita delle vere ragioni personali e
collettive: «Che ce ne importa di chi già è un eroe, di chi la coscienza ce l’ha
già? È il processo per arrivarci che si deve rappresentare! Finché resterà un
solo individuo al di qua della coscienza, il nostro dovere sarà di occuparci di
lui e solo di lui!»119. (Il riferimento al processo dialettico dell’acquisizione di
una coscienza, snodo capitale di questo primo Calvino, è illuminato nella
lettera dell’11 luglio 1950 a Motta: «più dei successivi punti d’arrivo conta
vedere il mondo trasformarsi per quel tanto che ognuno fa, che ognuno s’inserisce nel processo per trasformarlo»)120.
Il pericolo semmai – per chi non possiede una visione della lotta di classe
e inisce per ignorare come la Storia gli abbia camminato accanto durante la
Resistenza – è il pericolo di un nichilismo di ritorno, in cui si è dimenticato
«il sistema […] per continuare […] la lunga lotta sempre diversa del riscatto
umano», o si è ricaduti nell’egoismo privato, «individualista, e perciò sterile»,
118 Italo Calvino, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1192.
119 Ivi, p. 1193.
120 A Mario Motta, 11 luglio 1950, p. 281.
100
Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
fallendo nell’adattamento a un dopoguerra in apparenza paciicato del «furore» che aveva sostenuto la Resistenza:
Cosa faranno «dopo», per esempio? Riconosceranno nell’Italia del dopoguerra qualcosa fatta da loro? Capiranno il sistema che si dovrà usare allora per continuare la nostra lotta, la lunga lotta sempre diversa del riscatto umano? […] Ci sarà invece
chi continuerà col suo furore anonimo, ritornato individualista, e perciò sterile:
cadrà nella delinquenza, la grande macchina dai furori perduti, dimenticherà che
la storia gli ha camminato al ianco, un giorno, ha respirato attraverso i suoi denti
serrati. Gli ex fascisti diranno: i partigiani! Ve lo dicevo io! Io l’ho capito subito! E
non avranno capito niente, né prima né dopo (ix 158, corsivi nostri).
L’esame fatto da Kim, tuttavia, non si arresta a scoprire solo quel «quid»
degli uomini «senza coscienza di classe» con la possibile risoluzione dei loro
conlitti individuali – il «riscatto», la «redenzione» esistenziale e storica di
cui c’è la speranza che rimanga presente agli uomini del dopoguerra (riconosciuta, in tempo di pace, in una lotta da condurre con altri mezzi). L’esame
dell’intellettuale Kim è anche un auto-esame.
Di Kim, Calvino mostra gli snodi (dialettici) dell’itinerario verso la piena
coscienza, di come il personaggio stesso assunto a soggetto-esempio, possibilmente universale, di un processo storico concreto arrivi alla «chiarezza»
e sicurezza del suo ruolo all’interno della lotta partigiana. Di Kim vengono
mostrate le «nebbie», i dubbi e le paure interiori, e come essi siano sconitti
dal raggiungimento di una sicurezza operativa sui «perché» ultimi121, a
modo di inale pregresso valido per l’intero romanzo.
L’appello (retrospettivo – del ’54 e ’64) all’elementarietà e alla chiarezza
logica delle cause del combattimento va dunque tenuto in mente (e veriicato) quando si legga, del Sentiero, questo suo cuore duro, il capitolo ix. È lì
che l’argomentazione dimostrativa di Calvino insiste su lemmi quali logicità,
«sicurezza sulle cause e gli efetti (ix 142)», dialettica e evidenza; è lì che si
importano le parole-chiave delle accuse a Hemingway (l’individualismo,
l’impotenza e l’egoismo dei suoi personaggi e dell’autore) al fine di offrirne
una risoluzione costruttiva, mostrando come la memoria della lettura di
Per chi suona la campana – che enfatizza, dell’antifascista Robert Jordan, il
tentativo di arrivare alla giustiicazione persuasiva delle sue azioni – entri
cospicua nel capitolo. Di Robert, infatti, Hemingway traccia più volte i
ragionamenti che sempre lo portano a richiedere a se stesso la massima chia121 Sul percorso «kipliniano» di Kim commissario di Calvino, e la raggiunta sua autocoscienza (che
rilette la raggiunta autocoscienza del personaggio di Kiplin nel romanzo eponimo), si veda Andrea
Dini, Il Premio Nazionale «Riccione» 1947 e Italo Calvino, cit., pp. 231-239 e in particolare le p. 234235; e pp. 252-262, in particolare le pp. 259-262.
101
Andrea Dini
rezza, a bandire i dubbi e le paure tentando di osservare la propria situazione
più oggettivamente possibile, con la consapevolezza che, dall’interno della
guerra partigiana, l’“io” non è mai declinato da solo, è sempre un “noi” che
ha conseguenze collettive:
Senti, disse a se stesso. […] Devo preoccuparmi che le tue idee siano assolutamente chiare. Perché se le tue idee non sono assolutamente chiare, non hai diritto di
fare tutte le cose che fai; poiché sono tutti delitti e nessun uomo ha diritto di togliere la
vita a un altro a meno che non sia per impedire che qualcosa di peggio accada ad
altri uomini. Perciò cerca di avere le idee chiare e non mentire a te stesso (PCSLC
xxvi, 370, corsivi nostri)122.
Quegli ordini lo irritavano per quello che rappresentavano per lui stesso, e
per ciò che rapprensentavano per il vecchio [Anselmo]. Ordini maledettamente
scomodi per quelli che dovevano eseguirli. «Non è questo il modo di pensare» disse
a se stesso; «tu come gli altri, e non esistono persone alle quali queste cose non
debbano capitare. Tu e questo vecchio non contate niente; siete solo strumenti per
fare il vostro dovere. Ci sono degli ordini necessari, di cui non avete colpa, e lì c’è
un ponte, e quel ponte può diventare una svolta deinitiva per il futuro di tutta la
razza umana. Come ogni cosa che accade in questa guerra. Tu hai una cosa sola da
fare, e devi farla. Una cosa sola, sì, perdio (PCSLC iii 95).
«Ma tu dovrai far saltare quel ponte» egli sentì a un tratto con convinzione
assoluta. «non avrai contrordini. Perché per un minuto tu hai visto le possibilità
dell’attacco come le vedono quelli che l’hanno ordinato. Sì, tu dovrai far saltare il
ponte: egli sentì ora con piena chiarezza. «Qualunque cosa accada ad Andres, non
importa.» Mentre discendeva solo, al buio, il sentiero con la convinzione consolante
che tutto quello che bisognava fare era a posto per le prossime quattro ore, e con
la iducia venutagli dall’aver pensato a fatti concreti del suo passato, la certezza che
avrebbe dovuto far saltare il ponte quasi lo confortò. L’incertezza, quella sempre
crescente sensazione di dubbio […] era adesso completamente sparita. «[…] È molto
meglio essere sicuri» pensò. «È sempre molto meglio essere sicuri» (PCSLC xxx, 408,
corsivi nostri).
Con il commissario di brigata Kim (il quale «studia gli uomini» e confrontandosi con loro ne «analizza le posizioni», le ragioni) Calvino mostra
il percorso intellettuale che dagli «interrogativi irrisolti» sugli individuali
«perché» porta alla piena rivelazione (la «chiarezza») del «signiicato vero»,
unico, irriducibile a altro, della lotta: l’accettazione di un destino storico di
«riscatto umano (ix 155)» testimoniato dalla volontà di combattere il nazi122 Ernest Hemingway, Per chi suona la campana, traduzione di Maria Napolitano Martone
[1945], Milano, Mondadori, 1985. Ogni citazioni dal romanzo sarà accompagnata dall’abbreviazione
PCSLC, dal numero del capitolo e della pagina in cui la citazione ha inizio.
102
Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
fascismo, che va inteso come una posizione morale esemplare anche senza
una piena coscienza dei suoi addentellati politici – in altre parole, perché
scommessa attiva contro ogni «impotenza» e «miseria» alla radice dell’uomo. È per questo «antifascismo attivo», concreto, contro «l’antifascismo
dell’intelligenza»123 di chi non ha messo in gioco la propria vita, che Calvino
riconosce a Hemingway un ruolo beneico.
Nel capitolo ix, Calvino non discute solo il processo possibile (e il suo
approdo) esaminando i vari personaggi del distaccamento. Tramite Kim e
i suoi monologhi, lo scrittore mostra il movimento dialettico nelle tappe di
un itinerario che coinvolge il commissario stesso, che lo porta dai momenti
di incertezza e dal dubbio sulla verità delle proprie convinzioni intellettuali e
umane, dall’interno della violenza della guerra, al sentimento certo di serenità interiore inale (una cauta, ma raggiunta «sicurezza sulle cause e gli efetti»
che vince sugli «interrogativi» prima «irrisolti»), con un andamento narrativo
che ci ricorda da vicino le risoluzioni di Robert Jordan, il suo conseguimento
di una chiarezza mentale nell’analisi della guerra e del suo ruolo in essa.
Per arrivare a una «deinizione di cos’era stata la guerra partigiana»124 per
darne un giudizio morale e precisare il «senso storico delle azioni»125 di chi
aveva combattuto, sta infatti l’universo della letteratura, che all’«esperienza
di vita» si appaia: «ogni esperienza di vita per essere interpretata chiama certe
letture e si fonde con esse. Che i libri nascano sempre da altri libri è una
verità solo apparentemente in contraddizione con l’altra: che i libri nascano
dalla vita pratica e dai rapporti tra gli uomini»126. Le cogitazioni calviniane
sui libri di guerra di Hemingway vanno infatti a innestarsi nell’ossatura concettuale del Sentiero. Alla lettura di Per chi suona la campana, ci si riconosce
non soltanto nel distaccamento poco ortodosso, certo non propagandistico, di Pablo e Pilar, tradotto dal Sentiero nell’indisciplinato «reparto tutto
composto di tipi un po’ storti» comandato da Dritto127 quale opportunità
per un ritratto non edulcorato delle dinamiche interne, personali dei gruppi
partigiani128. Bensì – e fondamentalmente- ci si rispecchia nel protagonista
123 Italo Calvino, Hemingway e noi, cit., p. 1313.
124 Id., Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1197.
125 Ivi, p. 1198.
126 Ivi, p. 1194.
127 Ivi, p. 1192.
128 Che poi la scelta di una brigata poco ortodossa sia anche rilesso biograico di un’esperienza
fatta sul campo, e non solo artiicio letterario, è palese alla lettura del racconto Cinque dopodomani,
guerra inita!, pubblicato il 7 novembre 1946 per l’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre: Calvino
compara il proprio distaccamento di gente sporca, indisciplinata, litigiosa, «che non sa bene perché è
da questa parte e non dall’altra, e pure si batte a morte, carica di furore», con i soldati sovietici della
Squadra Internazionale, esemplari, «un mondo sereno che ha già deciso tutto». Cfr. Romanzi e racconti, iii, p. 846. Per come questo raconto entra nella composizione del romanzo, si cfr. Andrea Dini, Il
Premio Nazionale «Riccione» 1947 e Italo Calvino, cit., pp. 249-262.
103
Andrea Dini
Robert Jordan, personaggio simbolo dell’accettazione di una missione e di
un destino che gli richiedono di porre la propria vita al servizio degli altri,
nonostante si disinteressi di rivoluzioni e coscienze di classe129. (La lettura
di Robert fatta da Calvino, viste le sue premesse, inisce per essere divergentissima da quella di Alicata e Trevisani.) Per questa ragione Robert diviene
complicato termine d’identiicazione per lo scrittore stesso, col suo passato
partigiano, nonché per il suo alter ego cartaceo Kim, entrambi giovani
intellettuali borghesi che hanno scelto la lotta armata come espressione di
un imperativo morale. Il Sentiero stabilisce dunque un dialogo diretto con
Hemingway, inserendosi con la particolare scelta dei personaggi «negativi»,
«i peggiori possibili», anche nelle polemiche (sollevate dalla stampa di sinistra) sul ritratto poco glorioso dei partigiani di Per chi suona la campana,
attraverso le cui azioni senza pàtina retorica o parole d’ordine uiciali sono
indicate le ragioni private, anche scomode, del coinvolgimento alla difesa
della Repubblica contro i falangisti.
La deinizione di cosa sia la guerra partigiana per chi la combatte, data da
Kim, è da ritrovarsi in una appropriazione, rielaborazione e condensazione
originale dei monologhi di Robert Jordan, sommata alle allusioni al dibattito
che nei mesi recenti ne aveva accolto la ricezione. I punti di un serrato dialogo Calvino-Hemingway ci sono tutti: la risposta ai perché della Resistenza
degli uomini; il ruolo (riiutato) all’eroe didascalico, integralmente positivo,
eloquente nel richiamo alle parole d’ordine ideologiche; il signiicato personale della violenza, e il trauma del combattimento; la mancanza di una
«prospettiva dell’Ottobre» che dà soluzioni certe (per Hemingway) e, al pari,
la mancanza di una coscienza di classe già sviluppata nei personaggi combattenti (di Calvino, che gli serve per dimostrare la virtù comunque morale di
chi si è gettato nella causa pur senza la certezza degli uomini di un mondo
nuovo e «sereno»). La parentela tra il libro di quasi cinquecento pagine di
Hemingway che descrive i tre giorni di Robert Jordan prima dell’assalto a
un ponte (e ne tiene saldo il punto di vista intellettuale su tutta la vicenda)
e le duecento del Sentiero con la storia del bambino Pin e del quasi delinquenziale reparto del Dritto (col punto di vista dei personaggi ben al di
sotto della materia narrata), certo, non potrebbe essere più dissimile. Ma la
129 La posizione anti-ortodossa di Robert Jordan è presentata nettamente: «E che ne pensava veramente del nuovo ordine sociale e di tutto il resto? Questo toccava agli altri. Lui, dopo la guerra, aveva
ben altro da fare. Faceva questa guerra perché era scoppiata in un paese che amava, perché credeva
nella Repubblica ed era convinto che la sua caduta avrebbe resa impossibile la vita a tutti quelli che ci
credevano. Per la durata della guerra egli si era sottoposto alla disciplina comunista. Qui in Spagna i
comunisti erano la gente più disciplinata e facevano la guerra nel modo più intelligente e sano. Egli
accettava la loro disciplina per la durata della guerra perché, nella condotta della guerra, il partito
comunista era l’unico il cui programma e la cui disciplina egli potesse rispettare. Quali erano dunque
le sue opinioni politiche? Non ne aveva, disse a se stesso» (PCSLC, xiii 222, corsivi nostri).
104
Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
lettura del romanzo partigiano di Hemingway porta in campo un numero
di interferenze tematiche non secondarie per l’economia concettuale del libro
di Calvino. L’identiicazione calviniana con Per chi suona la campana («fu
il primo libro in cui ci riconoscemmo») si può avanzare non solo perché lo
scrittore stesso ci autorizza a ritroso (con la Prefazione 1964), ma perché, al
1946, fanno capo al Sentiero una serie di ‘problemi’ relativi alla narrazione
della guerra civile che ino allora (con l’eccezione di Uomini e no) non erano
stati afrontati dalla letteratura italiana; e certo non erano stati afrontati nel
modo crudo e anti-retorico del romanzo hemingwaiano.
Per chi suona la campana è, in essenza, la storia dell’intellettuale borghese
Robert di fronte alla violenza della guerra: tra i temi cruciali afrontati vi è la
discussione dei problemi di disciplina, di rendimento militare e di sviluppo
di una coscienza politica dei membri dei gruppi resistenti (un esercito che
non è un esercito), assieme alla meditazione sulla violenza (franchista, ma
anche partigiana) e sulle responsabilità personali che Robert ha verso gli
altri uomini del distaccamento (la cui sopravvivenza, o morte, dipende dal
successo della sua impresa).
Quest’aspetto è immediatamente palese nella rielaborazione fattane da
Calvino nel capitolo ix, che ha al centro l’obiezione del comandante Ferriera
a Kim sul rendimento militare di un distaccamento, da quest’ultimo voluto,
«di sottoproletari» senza coscienza di classe, formato «tutto da uomini poco
idati, con un comandante meno idato ancora». Alla vigilia di una battaglia
critica per la sopravvivenza dei gruppi partigiani («sarà la decisiva», ix 145)
Calvino fa appunto discutere i due personaggi di rendimento militare e
disciplina inquadrandoli in una conversazione sul lavoro politico da portare
avanti con gli uomini che combattono. L’operaio Ferriera – dalla sua posizione avvantaggiata di proletario che comprende sia il valore della guerra di
liberazione nazionale al nazi-fascismo che gli efetti della sconitta di quello
(in quanto alle radici dell’imperialismo e del militarismo si trova l’oppressione di classe e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo) – echieggia nel Sentiero
le posizioni del sovietico Karhov in Per chi suona la campana. Il quale spiega
a Robert il ruolo essenziale della disciplina militare e dell’esigenza dell’osservanza di un’ortodossìa ideologica nei gruppi partigiani ainché lo sviluppo
di una salda coscienza politica rinnovi negli uomini l’entusiasmo della lotta.
Una coscienza politica matura, si osserva, fa da pieno supporto al rendimento militare delle brigate in guerra, perché solo essa rivela il ine ultimo per
cui si combatte. L’educazione politica del partigiano permette al singolo di
comprendere le motivazioni sociali della lotta, contemplarne le inalità generali: ha per suo scopo la misurazione del più ampio impatto civile, collettivo
(e non soltanto individuale, d’utilità personale, che ne diventa, in questo
105
Andrea Dini
contesto, ragione secondaria). Per questo, ricorda Karhov a Robert, «un esercito che è fatto di elementi buoni e cattivi non può vincere una guerra. Tutti
debbono essere portati a un certo livello di sviluppo politico, tutti devono
sapere perché stanno combattendo e l’importanza della lotta. Tutti debbono
credere nella battaglia che debbono combattere e tutti debbono accettare la
disciplina (PCSLC xviii 312». L’argomentazione causale è stringente: tutti,
nessuno escluso; ogni individuo deve sapere, credere, combattere, accettare; e
l’unico modo è dimenticare le ragioni private, proprie (tattiche, se si vuole) e
abbracciare i ini ultimi (strategici) dimenticando se stesso. È una posizione,
questa, che Robert accetta da un punto di vista militare («per la durata della
guerra, egli si era sottoposto alla disciplina comunista»), ma da cui esclude,
anzi, rifiuta, un processo a senso unico di sviluppo della sua coscienza
politica. Nel suo romanzo, per bocca di Kim, Calvino riiuta la posizione
totalitaria di Karhov, se «l’importanza della lotta» e dei suoi perché non tengono di conto l’orizzonte concreto, individuale, del combattente, dell’uomo
da cui si deve partire (non dalle teorie). Per questo si capovolgono i capi del
ragionamento: la ricerca di una felicità personale (tema alquanto americano
del pursuit of happiness) va fatta sposare al dovere sociale e civile «verso gli
oppressi di tutto il mondo», «contro ogni tirannìa» (PCSLC xviii 301) per
il ruolo trasformativo che ha la lotta per l’uomo impegnato a combatterla.
La ricerca della felicità (di sè) è vista inanche nell’atto dell’amore dell’altro
– tutti elementi che danno chiarezza (lemma chiave) ai perché di quest’impegno resistenziale, i quali hanno come risultato la spinta dell’individuo al
pragmatico fare (e fare bene) a nome di un dovere morale che va al di là del
proprio tornaconto (non è ine a se stesso)130.
130 Il terzo nucleo testuale di Uomini e no che ha un impatto decisivo sul Sentiero si trova ai capitoli
viii-ix, ed è di nuovo nella forma di un’interrogazione, questa volta di Selva, la vecchia compagna
che ofre rifugio a Enne 2 e Berta durante un rastrellamento. Selva pone al centro del senso della lotta
partigiana, come suo ine ultimo, la ricerca della felicità dell’uomo: «Noi lavoriamo perché gli uomini
siano felici. […] Bisogna che gli uomini siano felici. Che senso avrebbe il nostro lavoro se gli uomini
non potessero essere felici? […] Avrebbero senso i nostri giornaletti clandestini? Avrebbero un senso le
nostre cospirazioni? […] E i nostri che vengono fucilati! Avrebbero un senso? Non avrebbero un senso.
[…] C’è qualcosa al mondo che avrebbe un senso? Avrebbero un senso le bombe che fabbrichiamo?
[…] Bisogna che gli uomini possano esser felici. Ogni cosa ha un senso solo perché gli uomini siano
felici. Non è solo per questo che le cose hanno un senso? (viii, 12-13, passim)». La «felicità della gente» passa dalla necessità dell’amore: nella sua accezione, qui, di conoscenza concreta, anche sessuale,
dell’altro. Dell’avere, cioè, una compagna –come condizione di partenza per comprendere quello di
cui gli uomini hanno bisogno (ricordiamo, dunque, il legame che si stabilirà con l’afermazione di
Orazio sulla lotta come mezzo per afrettare il matrimonio, o per Coriolano la necessita di portarsi
dietro la moglie nella clandestinità – l’avere con sè la moglie gli ricorda il perché della lotta, altrimenti
non ‘saprebbe’ perché fa quello fa): «[…] Noi per questo lottiamo. Perché gli uomini siano felici. […]
È molto semplice,” disse Selva. “Un uomo che lotta perché gli uomini siano felici deve sapere tutto
quello che occorre agli uomini per essere felici. E deve avere una compagna. Dev’essere felice con la
sua compagna (lx, p. 84)».
106
Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
In Per chi suona la campana è infatti l’amore che Robert sviluppa per
Maria che lo porta alla chiarezza: fa parte del suo processo di auto-coscienza,
gli fa accettare il proprio destino, lo rende consapevole che quel destino è
un destino di liberazione umana, individuale e poiché individuale, maggiormente collettivo. Maria è l’altro-da sé, esempio concreto per la cui felicità (di
donna, di essere umano) bisogna lottare e che nella lotta gli fa raggiungere
il grado di certezza di dove si deve e si vuole andare (per parafrasare ancora
una volta il Calvino del 1950, che sottolinea nella lettera a Motta le tappe
dell’impegno pratico di uomo soggetto storico attivo):
[…] il suo cervello pensava ora al problema del ponte e ogni cosa era chiara
e dura e nitida come quando la lente di un apparecchio è messa a fuoco. Egli vedeva
i due posti di guardia e Anselmo e lo zingaro che li sorvegliavano. Vedeva la strada
vuota e la vedeva piena di truppe. Vedeva dove avrebbe messo le due mitragliatrici
per ottenere un campo di fuoco più livellato che fosse possibile. […] Collocava le
cariche, le incastrava e le legava, afondava le capsule e le comprimeva, tendeva i ili,
li issava fermamente e poi tornava al posto dove aveva lasciato la vecchia scatola
dell’esploditore e cominciava a pensare a tutte le cose che potevano succedere e che
potevano andar storte. «Basta!» disse a questo punto a se stesso. «hai fatto l’amore
con questa ragazza e adesso il tuo cervello è chiaro, veramente chiaro, ed ecco che
cominci a preoccuparti. Altro è pensare a quello che devi fare, e altro è preoccuparti. Non ti preoccupare. Non devi preoccuparti. Sai quello che potrai fare e sai
quello che può accadere» (PCSLC xiii 220, corsivi nostri).
[…] e, dimmi, faccio bene ad amare Maria? «Sì» rispose a se stesso. Anche
se una cosa come l’amore non può essere ammessa in una concenzione puramente
materialistica della società? Quando mai hai avuto una simile concezione? Egli
stesso si domandò. Mai. E non avresti nemmeno potuto averla. Tu non sei un vero
marxista e lo sai. Tu credi nella Libertà, nell’Eguaglianza e nella Fraternità. Credi
nella Vita, nella Libertà e nella Ricerca della Felicità. Bada a non confonderti troppo con la dialettica. La dialettica va bene per certuni, ma non per te. Bisogna intendersene, per non essere messo nel sacco. Tu hai messo temporaneamente molte cose
in second’ordine per vincere la guerra. Se questa guerra sarà perduta, tutte quelle
cose saranno perdute. Ma in seguito potrai scartare le cose nelle quali non credi.
Ci sono una quantità di cose in cui non credi e una quantità di cose in cui credi.
Un’altra cosa. Non prendere mai alla leggere l’amore. La verità è che la maggior
parte della gente non ha mai avuto la fortuna di amar qualcuno. Tu non l’avevi mai
avuta sinora, questa fortuna, e ora l’hai. Quello che tu e Maria avete, che duri solo
oggi e una parte di domani, o duri tutta una lunga vita è la cosa più importante
che può capitare a un essere umano. Ci saranno sempre persone che diranno che
non esiste perché non possono averla. Ma io ti dico che è vero, che tu la possiedi e
che sei fortunato, anche se domani morrai (PCSLC xxvi 370).
107
Andrea Dini
È questa «primordiale dialettica di morte e di felicità»131 che raforza lo
scopo dell’impegno di Robert nella guerra, della sua missione: proprio attraverso delle ragioni che si fanno individuali, personali (l’amore dell’altro) s’illuminano e si chiariicano le ragioni della lotta che, di conseguenza, diventa
una «cosa esatta», in cui ogni elemento deve stare al suo posto per la sua
risoluzione a buon ine. Non solo: questa chiarezza porta anche a eliminare
le paure (di cui si riconosce la natura irrazionale, immaginaria); e a conoscere
e accettare il proprio destino, qualsiasi esso sia («Sai quello che potrai fare e
sai quello che può accadere»), nella consapevolezza che l’agire individuale, in
questo contesto, non si ferma all’individuo (che compie le azioni), ma ha una
risonanza collettiva: anche la morte propria («sai quello che può accadere») è
soltanto «una cosa da evitarsi, solo perché avrebbe ostacolato l’adempimento
del proprio dovere».
«Sai che fino a che ti ho incontrata non avevo mai chiesto nulla? Né desiderato
niente? Né pensavo a niente tranne al movimento e a vincere questa guerra? Sono
veramente stato un puro. Ho lavorato molto e ora ti amo» diss’egli abbandonadosi
completamente a tutto ciò che non sarebbe mai stato, «ti amo come amo tutto ciò per
cui abbiamo combattuto. Ti amo come amo la libertà e la dignità e il diritto di tutti gli
uomini di lavorare e di non aver fame. Ti amo come amo Madrid che abbiamo difesa e
come amo tutti i miei camerati che sono morti. E ne sono morti molti. Molti. Molti.
Tu non puoi sapere quanti. Ma io ti amo di più. Ti amo molto, coniglietto. Più che
non possa dirti. Ma ti dico ora questo per dirtelo un poco. Non ho mai avuto una
moglie ed ora ho te per moglie e sono felice» (PCSLC xxxi 416, corsivi nostri)
L’amore per Maria re-inquadra dunque la lotta, la rende più urgente e ne
palesa le ragioni («Ti amo come amo la libertà e la dignità e il diritto di tutti
gli uomini di lavorare e di non aver fame»). La felicità che deriva dall’amore
(un amore personale, e concreto: conoscenza intima, anche sessuale, dell’altro; e più forte, nei fatti, all’amore ideale per i compagni del movimento o
per Madrid e il paese per cui si combatte) però raforza, non diminuisce, la
sua determinazione a «vincere questa guerra»: quell’amore (privato) ha diritto
completo di vita e cittadinanza solo all’interno del paese (collettivamente)
liberato. Un aspetto palese già nelle rilessioni sulle sue pesanti responsabi131 È l’espressione con cui nella sua Prefazione 1964 Calvino saluta, appropriatamente, Uomini e
no, il romanzo più hemingwaiano di Vittorini (Italo Calvino, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi
di ragno, cit., p. 1191). Ma tutti gli interrogativi di Selva andranno a cadere dritti anche nel Sentiero,
dove attraverso Kim si da una risposa analoga alle ragioni del combattere, che sono anche le ragioni
dell’amore: amore di sé (la propria redenzione personale), e amore dell’altro, che letteralmente diventa
l’operare per l’amore della compagna, per la felicità del prossimo (l’inserimento all’interno del suo monologo del richiamo «Ti amo Adriana», che chiude anche il capitolo, ha senso solo in questo contesto).
Per Uomini e no e la parentela con Per chi suona la campana, si veda almeno Sergio Pautasso, Guida
a Vittorini, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1977, p. 169.
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Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
lità di partigiano, alla vigilia di un attentato che avrebbe causato più aspri
combattimenti nella zona (e più persecuzioni per la gente schierata con la
Resistenza a Franco):
Qualunque cosa facciano, i partigiani portano, alla gente che ofre loro asilo
e collabora con loro, nuovi pericoli e sventure. Perché? Perché un giorno ogni pericolo sia vinto e il paese sia un posto dove si viva bene. Questo era vero anche se
suonava banale. Se la Repubblica avesse perduto la guerra non ci sarebbe stato più
posto in Spagna per quelli che ci avevano creduto […] poiché sapeva quello che era
accaduto nelle regioni già prese dai fascisti (PCSLC xiii 222).
6. Non si tratta quindi di stabilire una tassonomia di corrispondenze
e misurare scarti e identità tra i due testi, quanto piuttosto di leggerne la
provenienza con l’occhio rivolto a due variabili: i fatti del giorno (la cronaca
dell’autunno 1946, con la crisi politico-economica che accompagna l’azione
ritardata delle sinistre nel governo di coalizione, durante la ricostruzione
nazionale, testimoniata dalle disillusioni degli ex-partigiani); e il dibattito di
natura politico-letteraria, impossibile da ignorare, accesosi tra il maggio-giugno e l’agosto 1946 su «Rinascita» e «Politecnico» in merito a Hemingway e
ai doveri degli scrittori, che spiega l’utilizzazione particolare di Per chi suona
la campana nel Sentiero. Come già delineato in precedenza, l’Hemingway
scrittore e uomo è assolto per l’incontrovertibile antifascismo del suo coinvolgimento nella lotta spagnola, ma condannato (in una lettura riduttiva)
perché i suoi personaggi (e lui stesso) stanno al di là di un esplicito impegno
rivoluzionario: sono mossi, si argomenta, da un impegno “individualista”,
un operare solo a proprio vantaggio, dunque per egoismo personale (che è
sterilità storica perché l’esempio che si provvede con il personaggio rimane fuori dall’alternativa posta dalla realtà sovietica, con la sua enfasi sulla
responsabilità sociale, alla società borghese del singolo). Si chiede insomma
a Robert Jordan di possedere una coscienza (marxista) già formata; e cosa
risponda Calvino a questa richiesta propagandistica, è palese dalla scelta dei
suoi personaggi nel Sentiero, commissario politico Kim incluso.
La «doppia polemica»132 calviniana – a destra, contro la «rispettabilità
benpensante»133 a proposito degli sbandamenti dei partigiani nel dopoguerra; a sinistra, contro la «direzione politica»134 della letteratura – non deve
però far perdere di vista il tentativo sincretico attuato. Col Sentiero siamo
infatti di fronte al notevolissimo esperimento di un romanzo che salvi la
132 Italo Calvino, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1193.
133 Ivi, p. 1192.
134 Ivi, p. 1193.
109
Andrea Dini
capra (socialista) coi cavoli (dell’impegno «individuale»). O, in altre parole,
coniughi la iducia in un paese forse senza miseria umana, dove la vittoria
del proletariato e la ine della lotta di classe hanno annullato le ragioni socioeconomiche dell’infelicità individuale (in un processo tutto da costruire per
l’Italia) con la più elementare, anche a-ideologica scelta di campo contro
ciò che il fascismo rappresenta per l’uomo. Il tentativo calviniano è di non
escludere come «forza storica attiva» chi ancora la coscienza non ce l’ha,
se l’individuo si è comunque gettato nella lotta scegliendo l’impegno antifascista, primo gradino di una ricostruzione morale (e poi politica).
Di Robert e di Per chi suona la campana Calvino tiene presente i punti di
forza irriducibili: l’etica del fare e la coerenza morale, che tengono presente
«il senso storico delle azioni di ognuno di noi»135.
Per valutare appieno il modo in cui Calvino rielabora di Hemingway tutta
la controversia sulla sua “utilità” giova tornare, a nostro parere, al numero
5-6 di «Rinascita». Poche pagine dopo la sezione in cui compare l’attacco
di Alicata, è trascritta la lettera-testamento di Giaime Pintor136, giovane
intellettuale borghese antifascista (classe 1919), in cui sono giustiicate le
ragioni dell’impegno partigiano (la scelta delle armi, della violenza sopra le
tradizionali ragioni della penna). La lettera rintraccia il «senso morale…della
mobilitazione» armata, nella quale risulta chiarito il perché del «sacriicare
tutto a un’unica esigenza rivoluzionaria»:
È questo il senso morale, non tecnico, della mobilitazione: una gioventù che
non si conserva «disponibile», che si perde completamente nelle varie tecniche, è
compromessa. A un certo momento gli intellettuali devono essere capaci di trasferire
la loro esperienza sul terreno dell’utilità comune, ciascuno deve sapere prendere il suo
posto in una organizzazione di combattimento. Questo vale soprattutto per l’Italia.
[…] Oggi in nessuna nazione civile il distacco fra le possibilità vitali e la condizione
attuale è così grande: tocca a noi di colmare questo distacco e di dichiarare lo stato
d’emergenza. Musicisti e scrittori dobbiamo rinunciare ai nostri privilegi per contribuire alla liberazione di tutti. […] Oggi sono riaperte agli italiani tutte le possibilità
del Risorgimento: nessun gesto è inutile purché non sia ine a se stesso137.
Subito prima, riepilogando la sua parabola biograica e ideologica, Pintor
aveva spiegato:
[…] la guerra, ultima fase del fascismo trionfante, ha agito su di noi più
profondamente di quanto risulti a prima vista. La guerra ha distolto materialmente
gli uomini dalle loro abitudini, li ha costretti a prendere atto con le mani e con gli
135 Ivi, p. 1198.
136 Giaime Pintor, L’ultima lettera, in «Rinascita», n. 5-6, maggio-giugno 1946, p. 120.
137 Ivi, p. 119. Corsivi nostri.
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Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
occhi dei pericoli che minacciano i presupposti di ogni vita individuale, li ha persuasi che non c’è possibilità di salvezza nella neutralità e nell’isolamento. […] Senza
la guerra io sarei rimasto un intellettuale con interessi prevalentemente letterari: avrei
discusso i problemi dell’ordine politico, ma soprattutto avrei cercato nella storia
dell’uomo solo le ragioni di un profondo interesse, e l’incontro con una ragazza o
un impulso qualunque alla fantasia avrebbe contato per me più di ogni partito o
dottrina. […] Altri amici, meglio disposti a sentire immediatamente il fatto politico, si erano dedicati da anni alla lotta contro il fascismo. Pur sentendomi sempre
più vicino a loro, non so se mi sarei deciso a impegnarmi totalmente su quella strada: c’era in me un fondo troppo forte di gusti individuali, d’ indiferenza e di spirito
critico per sacriicare tutto questo a una fede collettiva. Soltanto la guerra ha risolto la
situazione, travolgendo certi ostacoli, sgombrando il terreno da molti comodi ripari
e mettendomi brutalmente a contatto con un mondo inconciliabile138.
Due gli aspetti qui da rimarcare: una «fede collettiva» trovata dopo la scelta delle armi, combattendo per la «liberazione di tutti», scartando i privilegi
di classe e appartenendo inalmente a «un’organizzazione di combattimento»
dopo la timidezza e i riiuti individualisti; un’«utilità comune» individuata
al di là della miopia della propria esperienza personale e il fatto che nessun
gesto, nessun impegno concreto di chi combatte sia da scartare «purché non
sia ine a se stesso» (operato esclusivamente per il sè, il proprio tornaconto).
Sta forse qui, in questa lettura, la chiave di volta dell’interpretazione (e
riabilitazione) calviniana dei gesti di Robert Jordan accusato, con il suo
autore, di egoismo, invidualismo, impotenza, di non essere rivoluzionario,
ecc. (dunque, della fondamentale inutilità pedagogica dell’esempio); una
riabilitazione che può avvenire, per quel personaggio, pur nell’assenza del
raggiungimento di «una fede collettiva» (passo ulteriore, non condizione
essenziale dell’impegno partigiano). Il sacriicio di Robert, che deve fare
saltare un ponte con la piena coscienza che «quel ponte può diventare una
svolta deinitiva per il futuro di tutta la razza umana» (PCSLC iii 95), avviene di fatto per una causa accettata (la sopravvivenza della Repubblica). La
quale va, letteralmente, oltre se stesso, in quanto Robert si riiuta di mettere
la propria salvezza personale per prima e venire meno al proprio dovere.
L’individualismo apparente di Robert trova cittadinanza nella teorizzazione
dell’impegno partigiano del Sentiero perché il suo atto di combattere non ha,
al contrario di quanto sottolineato da Trevisani o Alicata, radici egoistiche
o irresponsabili (come non è atto d’irresponsabilità prendere a protagonista
del romanzo un personaggio che si allontana dalla concenzione del personaggio positivo di allora). Nonostante mostri disinteresse per le teorizzazioni
sul nuovo ordinamento sociale di una vittoriosa Repubblica, il personaggio,
grazie a questo atto altruistico, diventa redimibile. Una volta alle prese col
138 Ibidem. Corsivi nostri.
111
Andrea Dini
suo romanzo, Calvino salva anche l’individualismo non rivoluzionario, se
«scende sul terreno dell’utilità comune», in quanto, come sottolineato da
Pintor, «nessun gesto è inutile purché non sia ine a se stesso». La liberazione
individuale dai propri complessi, umiliazioni e dubbi, insegnata dal combattimento, porta alla «redenzione» perché in sé è un’azione qualiicatrice
che inisce per divenire liberazione di tutti. Ha un signiicato sociale, per
translato, perché anche chi si è messo nella lotta senza consapevolezza ultima
contribuisce al suo successo.
Questa ragione resistenziale – e esistenziale – coincide con quella di
Robert che Hemingway così sottolinea, senza ambiguità, in Per chi suona la
campana:
Uno sentiva, a dispetto di tutta la burocrazia e l’incapacità e le liti di partito,
qualcosa come il sentimento che uno si aspettava di avere e che non aveva avuto
quando aveva fatto la prima comunione. Era il sentimento di consacrarsi a un dovere
verso gli oppressi di tutto il mondo, di cui era diicile e imbarazzante parlare, così
come di un’esperienza religiosa; e tuttavia era autentico come il sentimento che si
prova ascoltando Bach, o quando nella cattedrale di Chartres o nella cattedrale di
Leon si vede la luce penetrare attraverso le grandi inestre, o quando uno guarda i
Mantegna, i Greco e i Brueghel al Prado. Uno aveva la sensazione di partecipare a
qualche cosa in cui poteva credere interamente, completamente e nella quale sentiva
un’assoluta fratellanza con tutti gli altri partecipanti. Era qualcosa che non aveva mai
conosciuto prima, ma ora la provava, e uno dava tanta importanza a quel sentimento
e ai suoi motivi che la sua stessa morte gli sembrava assolutamente irrilevante; una cosa
da evitarsi, solo perché avrebbe ostacolato l’adempimento del proprio dovere. Ma la
cosa migliore era che quel sentimento e quella necessità si potevano esprimere in qualche
modo: combattendo (PCSLC xviii 299, corsivi nostri).
A romanzo pubblicato, nel dicembre 1947, Calvino riassumerà i termini
del nodo-Hemingway come «il problema della responsabilità dell’uomo di
fronte alla storia, il problema che è quello vero di noi oggi»139, da inquadrare in una «enunciazione di una moralità nell’impegno, d’una libertà nella
responsabilità che mi sembrano l’unica moralità, l’unica libertà possibili»140.
È questo il nòcciolo messaggio hemingwaiano del Sentiero, la ragione per cui
Per chi suona la campana può diventare libro in cui Calvino e gli altri scrittori
usciti dalla Resistenza si riconoscono immediatamente, prima di ogni altro
(astratto, ortodosso) signiicato uiciale.
139 A Elio Vittorini, 12 dicembre 1947, p. 209.
140 Ibidem.
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