SULLA FILOSOFIA ITALIANA
RECENTE
DI
ERIK OLOF BURMAN
___________
Annuario dell’Università di Uppsala, 1879
______________
TRADUZIONE DI INGE-BERT TÄLJEDAL
ii
iii
Sulla filosofia italiana recente
di Erik Olof Burman
iv
© 2017 Inge-Bert Täljedal Text och Bild
Umeå
[email protected]
v
E. O. Burman, circa 1875.
Fotografo: Henri Osti.
Frontespizio del saggio
sulla filosofia italiana.
vi
vii
Prefazione
Erik Olof Burman (1845–1929) fu professore di Filosofia Pratica all’Università di
Uppsala negli anni 1896–1910. Il suo allievo e giovane amico Axel Hägerström
(1868–1939), successogli alla cattedra, sarebbe poi diventato uno dei più noti
filosofi svedesi. Laddove Burman era esponente dell’idealismo che predominava a
Uppsala da decenni, Hägerström è protagonista di una radicale trasformazione del
clima filosofico svedese all’inizio del XX secolo: dall’idealismo al realismo
antimetafisico e scientifico.
Burman non rinunciò mai all’idealismo. Nonostante questo, sembra plausibile che la
svolta realistica di Hägerström abbia ricevuto impulsi, per lo meno indirettamente,
dall’impegno di Burman su problemi ontologici fondamentali. La sua tesi di
dottorato, Om kunskapens möjlighet (“Sulla possibilità del sapere”, 1872) è fedele e
conforme al cosiddetto ”Boströmianismo”, il sistema idealistico sviluppato dai
predecessori Christopher Jacob Boström (1797–1866) e Carl Yngve Sahlin (1824–
1917). Quasi berkleyanamente, il dogma centrale di questa scuola afferma unità tra
coscienza e realtà: esse est percipi.
Per ragioni di salute, Burman soggiornava periodicamente in Italia negli anni
settanta del 1800. Si confrontò così con un ambito filosofico diverso da quello
incontrato fin ad allora. Questa esperienza sarebbe risultata nella sua prima opera
dopo il dottorato, il saggio qui tradotto in italiano: Om den nyare italienska
filosofien (“Sulla filosofia italiana recente”, 1879). Quasi metà di questo lavoro si
concentra sul sistema di Antonio Rosmini (1797–1855); la seconda parte verte
anzitutto invece su quello di Vincenzo Gioberti (1801–1852). Il testo è
principalmente descrittivo, ovviamente mirante a informare filosofi svedesi sulle
posizioni attuali in Italia. Vi si trovano anche però commenti sparsi indicanti il
razialismo-idealismo soggetivo di Burman stesso e considerazioni riguardo a come
egli consideri l’ontologia di Rosmini troppo oggettiva e l’idealismo di Gioberti
insufficientemente coerente.
viii
Questo saggio è interessante quale testimonianza della filosofia di Burman nella
prima fase del suo sviluppo; getta inoltre luce sulla distanza presente al tempo tra
l'Europa erudita settentrionale e quella meridionale. Inoltre, riflettendo l’immagine
della filosofia italiana del IX secolo in uno specchio straniero, il lavoro può essere di
un certo valore informativo per moderni filosofi e storici italiani.
Figlio di un topografo, Burman nacque in una parrocchia nelle campagne di Umeå,
nella Svezia settentrionale, cioè alla periferia della civiltà europea. Da generazioni i
suoi antenati provenivano da questa regione e dalla Finlandia svedese. Uno dei suoi
nonni fu parroco rinomato a Ragunda in Jämtland, l’altro fu segretario del generale
von Döbeln durante la fatale guerra contro la Russia nel 1808–1809.
Burman esemplifica il margine geografico dell’istruzione avanzata nell’Europa del
tempo: infatti la sua generazione scolastica fu la prima a sostenere l’esame di
maturità a Umeå nel 1865. In precedenza Härnösand, circa duecento chilometri a
sud, era la città più settentrionale nella Svezia dove era possibile sostenere questo
esame. Dato che l’università di Umeå non esisteva ancora, per i suoi studi superiori
il giovane Burman si trasferì a Uppsala, la più vicina, la più settentrionale e la più
antica università nella Svezia.
Là si specializzò in filosofia e, dopo anni di lavoro coscienzioso, difese la sua tesi di
dottorato. Questa fu accolta favorevolmente cosicché Burman fu assunto come
docente. Finalmente ottenne risorse economiche sufficienti per sposare sua cugina
Carolina in quello stesso anno. Il futuro si prospettava brillante. Proprio allora la
sorte però lo colpì: cominciò a tossire sangue.
Sicuramente si trattava di tubercolosi, anche se viene descritta come polmonite
cronica da Burman stesso. Questa malattia viene favorita da tensione e spossatezza:
forse Burman pagò care le sue forti ambizioni accademiche. In ogni caso era ovvio
che rischiava la vita senza un intervento terapeutico.
Rendendosi conto del carattere potenzialmente mortale della sua malattia, Burman
seguì i consigli rigidi di tre medici, lasciò a Uppsala la moglie recentemente sposata
e si imbarcò nel suo primo viaggio verso l’Italia. Da là scriveva molte lettere a casa,
spesso alla sua cara mamma a Skellefteå. In queste lettere il suo stile letterario è
ix
piacevole, vivido ed espressivo, molto diverso dalle frasi astratte e pesanti delle sue
opere filosofiche.
Veramente complicato, e a volte arcano (caratteristica osservata già dai suoi colleghi
contemporanei), lo stile di Burman filosofo presenta problemi per la traduzione. Per
quanto possibile ho provato a mantenere il suo modo di esprimersi senza
semplificarlo oltre misura. Ci terrei ad avvertire però che eventuali stranezze non
dovrebbero essere attribuite in primo luogo a Burman, bensì quasi sicuramente
piuttosto alla mia insufficiente conoscenza della lingua italiana. Citazioni da
Rosmini e Gioberti sono date senza aggiornamenti dell’ortografia. Burman non si
dedicò in un modo sistematico ad uniformare e rivedere la redazione delle note a piè
di pagina. Ho lasciato i riferimenti bibliografici come si presentano nelle note
originarie, ad eccezione di alcuni isolati interventi di correzione della punteggiatura
e del numerare le note in maniera progressiva per tutto il saggio invece per pagina.
Inoltre qualche appunto del traduttore è stato aggiunto alle note.
Commenti sulla traduzione e correzioni linguistiche da parte di chiunque trovi
interessante questo progetto saranno accolti con gratitudine (
[email protected]).
Umeå, febbraio 2017
Inge-Bert Täljedal
x
Sulla filosofia italiana recente
Di
Erik Olof Burman
_______
L’Italia dei nostri giorni mostra lo spettacolo educativo di una gente che si sveglia
da un sonno di secoli e prova a riprendere il suo rango antico tra i popoli di cultura
in Europa. È facile rendersi conto che una nazione, il cui sviluppo fu impedito da
così lungo tempo, potrà partecipare solo con difficoltà nel rapido progresso che
avviene ora in tutti gli ambiti. Gli avanzamenti materiali e sociali sono tanto più
importanti perché lo sviluppo spirituale della nazione presuppone un più alto grado
di ordine e di libertà in riguardo esterno. Tuttavia il vero metro per giudicare lo stato
di un popolo è la condizione delle scienze presso di esso. Per sua natura, certo la
scienza non è vincolata a confini nazionali, quindi può essere facilmente acquisita
come un lavoro compiuto. Però, un popolo che non vuole stare dietro agli altri in
quanto a cultura, non deve accontentarsi di riprodurre opinioni altrui, bensì deve
contribuire in modo indipendente al lavoro culturale comune. Compare qui però un
rapporto strano tra le scienze. Come le altre forme di vita, fintantoché rimangono a
un basso livello di sviluppo, presentano poche differenze, però si distinguono per
individualità tanto più spiccate quanto più perfette sono, così le scienze basse presso
diversi popoli fanno la stessa comparsa in genere, mentre le più alte offrono
differenze caratteristiche per ogni gente. Se la filosofia è la più alta delle scienze,
allora essa deve essere la migliore misura del grado di formazione di un popolo. Di
questo ci si può accorgere anche dal fatto che ogni altra scienza prova a spiegare un
certo ambito limitato dell’esperienza, mentre la filosofia ambisce a essere
un’espressione scientifica per l’intera cultura in esame. La sua sorgente si trova,
infatti, nel bisogno dell’uomo pensante di acquisire una lucida comprensione del suo
mondo in tutto.
Questo bisogno non può apparire finché la cultura nell’insieme non è
avanzata a tal punto da costituire una visione del mondo. Come ogni popolo
Erik Olof Burman
2
possiede una certa cultura caratteristica, anche l’espressione scientifica che ne deriva
deve avere un’impronta originale. Ciò non esclude però un certo grado di
conformità, giacché i problemi astratti sono gli stessi. La verità infinita è di per sé
sempre la stessa; nel caso contrario non si avrebbe nessun metro per giudicare o
comprendere opinioni diverse; ma questo non esclude che tipi diversi di formazione
possano cercare di chiarire aspetti diversi della verità infinita, esibendo quindi una
divergenza nell’insieme nonostante la conformità quanto a certe domande generali.
Dunque, un popolo può prendere in prestito da un altro certi principi e cercare di
applicarli per la propria formazione. Per giudicare la filosofia che ne deriva, allora
diviene necessario distinguere con cura tra i mezzi presi in prestito e quel tipo di
cultura che costituisce il modo di vedere per cui si cerca una forma scientifica.
All’inizio di questo secolo la filosofia italiana ha ripreso il suo lavoro
dopo un riposo di un paio di secoli. La grande potenza della chiesa cattolica fu uno
dei più forti ostacoli alla libera ricerca. Con tutti i mezzi disponibili provava a tenere
fermo il popolo a dottrine ecclesiastiche medievali. Di conseguenza la concezione
comune in Italia non poteva attraversare quegli stadi di sviluppo che nei paesi vicini
caratterizzavano i nuovi tempi. Quando la rivoluzione francese svegliò aspirazioni
per la libertà e per una nuova prosperità ovunque, anche l’Italia ruppe il proprio
giogo con l’aiuto della Francia, ma non poté sbocciare immediatamente nessuna
cultura nazionale. La novità era straniera oppure comportava scioglimento
dell’esistente senza contenuto positivo. Vediamo dunque nella filosofia come il
sensualismo francese fa il proprio ingresso con Gioia e Romanosi. Tramite Galuppi
l’influenza di Kant comincia ad affermarsi. Galuppi cerca una mediazione tra Kant e
Locke, da un lato ammettendo un elemento aprioristico nella conoscenza, dato
tramite le leggi che hanno origine nell’unità metafisica dell’io, e dall’altro
sostenendo che le cose esteriori sono immediatamente presenti nelle sensazioni.
Contrariamente a Kant dimostra che l’esperienza immediata è data come un tutto
tramite una sintesi reale, e che la prima mossa della conoscenza allora è analitica;
l’esperienza paragonata, invece, è una sintesi di elementi soggettivi e oggettivi.
Galuppi si ferma alla dimostrazione della realtà della conoscenza senza costruirci
alcuna compiuta visione del mondo. Dal grembo della chiesa cattolica emerse la
filosofia nazionale, con Rosmini e Gioberti. Già questo fatto si riferisce
Sulla filosofia italiana recente
3
inequivocabilmente a quel punto di vista generale che assumono nella spiegazione
del mondo e nei lavori preliminari da cui partono. La chiesa cattolica cerca ancora,
infatti, il suo sostegno nella scolastica, e Tommaso d’Aquino, “Angelus Ecclesiae”,
è il suo rappresentante più illustre in Italia.
Dovrebbe essere appropriato, dunque, gettare qui uno sguardo alla
visione generale della scolastica e alla sua soluzione ai problemi fondamentali della
filosofia. È caratteristico della scolastica suddividere il campo della conoscenza
umana in due regni: il regno della natura e il regno della grazia. La conoscenza che
l’uomo possiede riguardo a ognuno di questi regni è di genere opposto. Certo,
l’uomo per sua natura aspira a conoscenza, perciò secondo i presupposti della
scolastica il germe della cognizione ha sede nell’uomo. Ma la conoscenza per
esperienza non ha applicazione alcuna sul soprasensibile. La conoscenza del regno
della grazia attinge a un’altra fonte del tutto differente, ossia la rivelazione. Vediamo
dunque presso Tommaso la ragione “naturale” afferrare l’assoluto così come l’essere
puro o indeterminato che si realizza in una serie di gradi, mentre al contrario la
ragione “infusa” afferra Dio quale persona. La possibilità della conoscenza non è
investigata, poiché la rivelazione è un fatto. Allora, l’incombenza della filosofia
diventa quella di sistematizzare la dottrina, servendosi dalle forme che furono date
dalla filosofia greca e di preferenza da Aristotele. Il metodo che viene così seguito è
quello analitico-disgiuntivo. Sotto un concetto più generale sono sistemate le loro
deduzioni con le loro determinazioni secondo il grado di concordanza, ottenendosi
una classificazione formale (“arbor Porphyrii”). Per maggiore chiarezza proveremo
qui a seguire le due idee fondamentali della scolastica: che la conoscenza
dell’assoluto abbia una causa esterna, e che l’assoluto in relazione con il relativo sia
parimenti una causa esterna, o crei sia l’uomo sia il suo mondo.
A questo proposito riteniamo di poterci soffermare esclusivamente su
Tommaso d’Aquino, dato che i filosofi che sono l’oggetto effettivo della nostra
ricerca hanno affermato la loro conformità a questo scolastico come una prova della
correttezza delle proprie opinioni. Secondo Tommaso è evidente che è data una
verità. Non ricade al di fuori dell’essere, perché ciò che è, è vero. Così, il grado di
essere deve corrispondere al grado di verità. L’essere assoluto quindi è anche la
verità assoluta. La verità sta in una relazione necessaria alla ragione di Dio, ma in
Erik Olof Burman
4
una relazione accidentale alla ragione dell’uomo. La verità nel reale consiste nella
sua forma essenziale, per mezzo della quale è intelligibile. Questa forma ha la sua
causa in Dio. È lo stesso atto tramite il quale Dio fa reale e vero l’ente. Quest’atto è
uno spostamento dell’ente da possibilità a realtà. Per l’uomo è mediata tramite il
giudizio tutta verità nella veritas prima o i primi principi di pensiero, che sono
emanati da Dio. Nella comprensione di questi e dei concetti sensibili non può
succedere nessun errore, ma ciò può ben accadere nel giudizio che segue. La
conoscenza è un’attività, per mezzo di cui il soggetto, tramite un’immagine dentro di
sé, rappresenta qualcosa che è nella realtà. Essa implica, dunque, che il soggetto si
faccia simile all’oggetto, creando dentro di sé la forma di quest’ultimo senza
cambiare la sua propria. Perciò il soggetto deve comprendere potenzialmente tutto
dentro di sé e quindi essere spirituale. La conoscenza presuppone un principio
immateriale che oltrepassa l’individuale e include tutto. Per quanto questo principio
sia legato al materiale, comprende solo le differenze particolari delle cose; per
afferrare i concetti universali occorre una forza indipendente del materiale. Una tale
forza è l’anima raziocinante dell’uomo, che tramite i concetti è tutto “in un certo
modo”, e attraverso tutti i gradi e le classi si solleva all’assoluto, che “in un modo
perfetto” comprende e produce tutto. La conoscenza sensoriale si appoggia su
percezioni sensoriali. Prima dell’ingresso di queste, la ragione è pura potenzialità, un
intellectus possibilis. È messa in movimento tramite le immagini dalle cose,
afferrate dalla forza immaginativa, e ricava dalla rappresentazione sensoriale il suo
concetto universale e in questo modo si fa simile all’oggetto. Questa seconda
potenza dell’intelletto, è intellectus agens, che è un’emanazione di una rivelazione
divina. Ogni alta conoscenza presuppone, dunque, la conoscenza sensoriale.
Quest’ultima a sua volta è possibile per il fatto che le specie delle cose possono
essere in modi diversi, quindi anche in un modo (materialmente) nelle cose e in un
altro (immaterialmente) nell’intelletto, “sicut forma hominis non habet tale esse in
statua aurea, quale esse habet forma hominis in carnibus et ossibus.”1La prima
causa del mondo non può essere compresa tramite nessun genere che sia comune
1
De veritate, qu 10, art. 4. [Appunto del traduttore. La citazione è da Quaestiones
Disputatae de Veritate di Tommaso d’Aquino; questione 10, articolo 4: «…proprio come
non è necessario che la forma umana di una statua d’oro esista nello stesso modo che la
forma umana in carne e ossa.»]
Sulla filosofia italiana recente
5
con le cose create, soltanto indirettamente. Il suo “quid” è ignoto all’intelletto
naturale. Il sapere sorge mediante riflessione da species intelligibiles ma queste
forme devono essere ricondotte a una forma altissima, il logos divino. Il reale è
afferrato tramite un concetto universale nell’intelletto potenziale; però ogni
concezione presuppone un illuminare, quindi l’intelletto attivo deve possedere una
forza illuminante che è una partecipazione alla luce divina. Tuttavia, questa forza
illuminante innata non è sufficiente per comprendere il “quid” di Dio, per quello
occorre rivelazione esterna; la conoscenza che l’uomo così guadagna è la fede.2
È notevole quanto da vicino corrisponda Tommaso ad Aristotele per
quanto riguarda la spiegazione della conoscenza. Come noto, secondo quest’ultimo
l’intelletto comprende solo le forme delle cose, e così capisce i loro concetti
universali. L’intelletto non può avere nessun altro contenuto che il sensoriale, o ciò
che sta in relazione essenziale con esso. Tuttavia, non è interamente passivo in
relazione alle cose, bensì possiede un contenuto potenziale. L’intelletto passivo non
può costituire base sufficiente per la conoscenza sviluppata, la quale, quindi,
presuppone un intelletto attivo. Questo, a sua volta, non può avere la propria base
nell’anima umana, poiché essa è una forma unita alla materia; dunque deve riferirsi
alla forma pura, come una partecipazione in questa, esterna all’anima stessa. Ci si
rende facilmente conto di quanto poco si lasci unire questa dottrina con la posizione
cristiana. Più precisamente, se si comprende la vera realtà come data tramite la
personalità, anche quelle determinazioni che sono essenziali per la personalità
devono essere comprese come interiori e originarie. Qualunque cosa si richieda alla
personalità per il resto, tutti saranno nondimeno d’accordo che coscienza e realtà
appartengono alla personalità, ossia coscienza completamente determinata da
sensazioni. Quel punto di vista, che comprende l’essenza dell’uomo come una forma
che riceve la coscienza dall’assoluto e il contenuto dal sensoriale, vale a dire ciò che
e opposto alla coscienza, rende impossibile la comprensione dell’uomo quale
persona. Ne segue che anche l’assoluto deve essere compreso come una forma, il
che abolisce il pensiero fondamentale del cristianesimo.
2
Cfr. Der Heilige Thomas von Aqvino von K. Werner, II:ter Band, Regensburg
1859, pp. 93–175.
Erik Olof Burman
6
La determinazione dell’essenza di Dio è, infatti, molto strettamente
collegata alla ricerca della conoscenza. In altre parole, per trovare ciò che è Dio di
per sé, si deve guardarlo come appare nella nostra conoscenza. L’uomo deve trovare
una realtà vera dentro se stesso per potere decidere qual è realtà perfetta. Egli deve
esaminare che è la sua essenza e quale rapporto tra questa essenza e i suoi attributi
sia adeguato per l’essenza stessa. Se in questa ricerca si arriva a quel risultato che
Dio sta in relazione esterna alla capacità di conoscere, e che questa nel suo concetto
è forma, di conseguenza anche Dio deve essere compreso come una forma e il suo
rapporto con gli enti finiti come qualcosa di esterno. In questa convinzione la teoria
scolastica della creazione ha il suo fondamento. Per questo faremo notare
brevemente le difficoltà che ne seguono, per mostrare che la concordanza della
recente filosofia italiana con la scolastica non comporta nessuna valutazione
favorevole.
Dio include, secondo Tommaso, le perfezioni di tutte le cose, e le
pensa quando pensa se stesso, e le pronuncia nella sua parola, il figlio. L’attività
creativa di Dio può essere paragonata a quella dell’artista, come una realizzazione di
idee, però non produce solo la forma ma anche la materia. Dio crea dal nulla. Deve
esserci una causa suprema dell’essere. Questo è detto, infatti, di tutte le cose, quindi
non può competere ad esse come caratteristico ed essenziale a ognuna. La causa
dell’essere è la più generale e, dunque, la più alta causa. La creazione è un passaggio
da non essere a essere. Non si può dimostrare che il mondo ha un inizio nel tempo,
poiché è un atto della libera volontà di Dio, ma certo si può trovare che un mondo
sorto nel tempo è una testimonianza più rivelatrice della potenza di Dio di quanto
non lo sarebbe un mondo eterno.3 Senza dare importanza ai dettagli della dottrina di
Tommaso sulla creazione, osserviamo solo generalmente che se la creazione è
compresa come un’attività da parte di Dio, allora si attribuiscono a Dio stati diversi
che non possono essere ugualmente perfetti, poiché in tal caso non sarebbero diversi
l’uno dall’altro, e la transizione mancherebbe totalmente di fondamento. Si deve
prescindere completamente da tempo e cambiamento in Dio, poiché queste forme
sono possibili soltanto in enti finiti. Dio deve essere interamente autodeterminato,
3
Cfr. K. Werner, Thomas ecc. pp. 255–260; 380–386.
Sulla filosofia italiana recente
7
poiché oltre a lui non vi è nessun altro ente capace di dargli una determinazione che
non possieda il suo fondamento ultimo in lui stesso. Però, se Dio è davvero
interamente autodeterminato e infinito, ossia se comprende la tutta realtà vera, non
può possedere nessuna volontà libera nel senso, da un lato, di essere in grado di
scegliere arbitrariamente, dall’altro di essere attivo attraverso la realizzazione delle
sue idee al di fuori di sé. Se, d’altronde, la creazione è compresa in modo tale da non
comportare nessun’attività o nessun cambiamento in Dio, essa costituisce solo un
rapporto concettuale tra Dio e il finito. Il creato ha la sua realtà tramite Dio, e lo
sviluppo di esso come un passaggio da non-essere a essere ha il suo ultimo
fondamento in lui. È però chiaro che se la creazione è intesa come un rapporto
immediato tra Dio e il finito, allora Dio riceve un contenuto finito quando, quale
persona assoluta, è determinato dal sensoriale. La dottrina sulla creazione diviene
libera da contraddizioni solo a condizione che tutto il sensoriale sia riferito
indirettamente all’assoluto come suo ultimo fondamento. Come abbiamo visto,
secondo Tommaso Dio da vita immediatamente al sensoriale (l’opera dei sei giorni).
Per quanto la filosofia italiana recente ne sia d’accordo con lui, si fa impossibile.
Riguardo alla filosofia naturale in Italia intorno al XVI secolo, questa
non sembra aver esercitato alcun influsso pertinente su problemi essenziali, come
sarà evidente dall’esposizione che segue. Prima di procedere a questa, diamo le
notizie biografiche che possono essere di tipo informative. Rosmini nacque il 24
marzo 1797 a Roveredo (il Tirolo). Apparteneva a una ricca famiglia aristocratica e
riceveva un’educazione raffinata in una casa colta. All’università a Padova studiava
soprattutto teologia, filosofia e matematica, e per di più leggeva molto. Aveva un
debole per libri. Le sue proprie opere costituiscono una collezione di almeno 30
volumi, di circa 6–700 pagine ciascuno. La sua disposizione religiosa apparve presto
e, contro la volontà della famiglia, lo determinò a entrare nello stato clericale (nel
1821). I pensatori che studiava, sviluppando il suo sistema, erano principalmente
Tommaso d’Aquino e Sant’Agostino, Platone, Malebranche e Kant. Per la
realizzazione pratica della sua dottrina, con il suo grande capitale fondò un nuovo
ordine monastico, il cui impegno principale era insegnare e prendersi cura dei
poveri. Una volta vicino al cappello cardinale poi cadde in disgrazia del Papa. Morì
a Stresa il 1 luglio 1855.
Erik Olof Burman
8
Rosmini basa il suo sistema su un’indagine dettagliata della
conoscenza. Esprime il problema della conoscenza così: l’uomo ha idee o
conoscenze (queste espressioni sono ritenute sinonime); da che cosa sono create?
Come principio per il metodo della ricerca stabilisce la proposizione che segue:
«Spiegando i fatti dello spirito umano si deve supporre né meno né più di ciò che è
necessario per la spiegazione. »
La difficoltà nella soluzione del problema risiede nel fatto che il
giudizio presuppone concetti universali; il predicato deve essere compreso come
separato dal soggetto, ma allora è universale, o può essere attribuito a un numero
infinito di soggetti possibili. Un concetto universale può essere formato mediante
astrazione o mediante giudizio. L’astrazione vuol dire scioglimento di un’idea
particolare (un’idea fissata a una cosa individuale) nei suoi elementi, il comune e il
particolare, e, ignorando quest’ultimo, il riflettere sulle determinazioni universali.
Questa operazione presuppone però che il concetto è già dato in noi. Rappresenta
questo libero da elementi eterogenei (l’individuale), ma non mostra come nasce.
Così come poco possono idee universali essere formate tramite giudizi, poiché sono
un requisito per questi ultimi. Si deve pertanto presumere che l’uomo
originariamente ha un’idea universale, tramite la quale può formare giudizi e tutte le
oltre idee.4
Questa visione meccanica del problema non sembra promettere una
soluzione felice. In realtà la spiegazione dell’origine o dello sviluppo dei concetti
appartiene all’antropologia, dove i concetti sono ritenuti attributi o aspetti dello
spirito umano, ma Rosmini considera lo spirito umano il palco neutrale per i
concetti. L’impegno per lui è trovare la loro causa tramite una dimostrazione
formalmente soddisfacente. Critica Platone, Leibnitz e Kant per essersi fatti
colpevoli dell’errore di presupporre più del necessario nella spiegazione delle idee.
Mostrano però un progresso nel senso che il successore riduce una parte dell’eccesso
del suo predecessore. Kant era il più riuscito usando un’antica decomposizione delle
idee in materia e forma, mantenendo solo le forme come innate e lasciando
4
Nuovo Saggio, p. 10–11. Rinnovamento, p. 165.
Sulla filosofia italiana recente
9
all’esperienza sensoriale a procurare la materia per le idee.5 Proponeva però non
meno di 17 forme, il che è un’assurdità, se si tiene presente che la forma di una cosa
è ciò che costituisce l’essenza della cosa, oppure ciò tramite la quale la cose è quello
che è; ma una cosa non può avere più di un’essenza. Se la conoscenza è qualcosa
determinato, dunque ha solo una forma.6 Evidentemente, per quanto riguarda il
concetto della conoscenza Rosmini ha meramente tirato le conseguenze della
dottrina di Tommaso che essenza è forma. L’uomo afferra le essenze delle cose in
concetti universali, quindi ogni essenza è anche in sé un concetto astratto. Il
problema della conoscenza dunque ha come scopo quello di provare a trovare quella
determinazione universale che è inclusa in tutta la conoscenza, oppure quella idea
che è l’essenza e la forma della conoscenza; nell’esperienza è già dato il contenuto.
Rosmini riduce le forme di Kant a una sola. Poiché dimostra prima che le tre idee
della ragione non sono coordinate, ma c’è solo un’idea veramente assoluta: l’ente
degli enti. Ma questa non è forma, bensì oggetto del nostro pensare. Così come poco
possono tutte le categorie rivendicare la stessa validità. Si può, per esempio, pensare
una cosa possibile o reale senza pensarla con le forme della quantità, qualità e
relazione. Queste quindi non sono forme essenziali e necessarie dell’intelletto.
Anche quanto alla categoria dell’esistenza vale lo stesso, poiché si può pensare
l’idea di una cosa senza pensare la cosa come esistente. Così come poco la
possibilità di una cosa implica la sua necessità. Solo la possibilità è forma necessaria
per la nostra coscienza ed è l’idea di una qualunque cosa, cioè l’idea dell’essere
indeterminato. A questa forma si lasciano ridurre le altre categorie (senza
l’esistenza, la realtà e la necessità, che non sono formali, oppure elementi della
forma della possibilità) e anche lo spazio e il tempo. Le idee di spazio e tempo
implicano due elementi: lo spazio e il tempo dati nell’esperienza, e il pensiero alla
possibilità di uno spazio o un tempo infinitamente crescente, ripetentesi e senza
contenuto. Il formale dunque di queste idee è la possibilità. Tolta l’idea di una cosa
in genere, conoscenza e coscienza saranno impossibili. Da questo elemento innato,
5
Secondo Rosmini la concezione delle idee come gli elementi formali della
conoscenza c’era in Italia indipendentemente da Kant già in Genovesi. N. S. I. p.
282 et 324.
6
N. S. I. p. 2; III: 10–12.
Erik Olof Burman
10
ridotto al suo minimo, è spiegato però l’origine di tutte le nostre idee.7 Secondo
Rosmini, il merito principale di Kant risiede nel suo essersi reso conto della
differenza essenziale tra sentire e comprendere e nell’aver dimostrato che pensare è
sempre giudicare. La sua esposizione del problema tuttavia è infruttuosa: «Come
sono possibili giudizi sintetici a priori». Rosmini dimostra che sono analitici tutti
quei giudizi sintetici che Kant dà quali esempi. La difficoltà non risiede nel trovare
come un predicato può essere unito a un concetto soggetto, ma nel formare il
concetto del soggetto, oppure nel pensare il soggetto quale esistente. Comprendere
una cosa oggettivamente è comprenderla di per sé, cioè in quella esistenza che essa
può avere; il predicato in quel giudizio che forma un concetto dunque è l’esistenza.
Il soggetto è quella cosa che è oggetto per i sensi, quindi qualcosa che non è già
compreso ma solo una sensazione. La chiave d’oro della tutta filosofia dello spirito
umano risiede nell’osservazione semplice che originariamente ci sono soggetti per i
nostri giudizi, dei quali non abbiamo concetti, solo sensazioni. La formula per un
tale giudizio è questa: «ciò che sento è». Il problema generale della filosofia quindi è
questo: «Come sono possibili quei giudizi originari, tramite i quali formiamo le idee
o i concetti delle cose». Questi giudizi originari sono sintetici, perché il predicato
non è dato nel soggetto, e a priori poiché, sebbene la materia sia data tramite i sensi,
la forma è data tramite l’intelletto.8
Guardando più da vicino la chiave d’oro per la soluzione del problema
della conoscenza, troviamo che consiste della scoperta che i concetti nascono
mediante l’unirsi del concetto dell’essere, che è originario, a sensazioni tramite
giudizi. La forma o l’essenza della conoscenza è l’essere, e il suo contenuto è le
sensazioni, e la prova di questo è il fatto che le sensazioni diventano coscienti
mediante l’articolazione della loro esistenza. Dando, dunque, alle sensazioni la
forma di conoscenza, l’essere stesso deve essere l’essenza della conoscenza.
L’oggettività della conoscenza è data mediante l’oggettività dell’essere o
dell’esistenza. Resta da trovare come l’essere può essere unito alle sensazioni senza
essere contenuto originariamente in loro. Come ben noto, Kant dimostrò come le
sensazioni, accolte nelle forme a priori dello spazio e del tempo, diventano intuizioni
7
8
N. S. I: p. 329, 335.
N. S. I. p. 294–315.
Sulla filosofia italiana recente
11
e poi percezioni coscienti tramite essere portate sotto l’unità della coscienza
mediante un’attività sintetizzante secondo le categorie. La sua difficoltà risiede nel
fatto che le sensazioni basse, quali potenziali, appaiono come esterne e dunque non
possono stare in rapporto interno con i concetti assolutamente attuali e interni
dell’intelletto. Anche non riuscì a risolvere la questione, poiché non cercò nella
coscienza stessa il fondamento sia della forma sia del contenuto. Rosmini prova a
spiegare come l’inconscio può diventare conscio e suppone che il coscio quale
forma è aggiunto sinteticamente o dall’esterno all’inconscio, vale a dire al
contenuto. Nella soluzione della questione tiene però una posizione principalmente
diversa di quella di Kant, non ritornando alla capacità di conoscenza quale il
fondamento della conoscenza, bensì cerca in un momento della quest’ultima, oppure
in un concetto, il fondamento sia del conscio stesso sia del suo altro contenuto.
Derivando il conscio dall’essere si mette in opposizione con la filosofia più recente,
il cui pensiero fondamentale è derivare l’essere dal conscio. Nell’essere come
espressione della copula del giudizio risiede un riferimento al conscio come
l’insieme che include soggetto e predicato. Se l’essere stesso è posto come
predicato, anche questo implica un riferimento al conscio, poiché, come dimostrò
Kant, l’essere non è una determinazione del soggetto di per sé, bensì solo stabilisce
il rapporto di quest’ultimo con il conscio. L’opinione di Rosmini è in conflitto anche
con l’esperienza, quando pensa che il primo giudizio su una cosa sia quello che
pronuncia la sua esistenza. Secondo la legge di tutto lo sviluppo, cioè andare senza
salto dal basso all’alto, la prima sensazione cosciente, benché quale cosciente
distinta da altre sensazioni, è tuttavia così concreta che i suoi momenti non sono
tenuti separati. Il concetto dell’esistenza presuppone astrazione di un grado
superiore. Secondo Rosmini la questione dell’origine delle prime idee coinvolge
quella difficoltà che formano concetti ma presuppongono un concetto già dato.
Questa difficoltà però sparisce quando si osserva che l’attività dello spirito umano
sta analizzando e sintetizzando anche come inconscio, e il giudicare è la stessa
attività come conscio. La differenza pertanto è solo graduale. Già qui si può
osservare che la differenza, anche se riguarda anzitutto la forma, presuppone tuttavia
un contrasto tra due tipi di contenuto, così che una forma alta presuppone in genere
un contenuto alto.
Erik Olof Burman
12
Rosmini parte dal fatto che possiamo pensare l’essere in genere. L’idea
dell’essere non è un’immagine sensoriale. L’idea di una cosa deve essere distinta dal
giudizio dell’esistenza della cosa, poiché secondo la loro natura (sebbene non
riguardante la loro origine da noi) le idee sono indipendenti dall’esistenza reale delle
cose corrispondenti. L’esistenza della cosa non aggiunge niente alla sua idea. Al
contrario, il giudizio dell’esistenza della cosa presuppone la sua idea e implica
un’affermazione che non deve essere confusa con l’intuizione dell’idea. L’idea
presenta le cose meramente come possibili. L’idea dell’essere quindi comporta solo
una possibilità ed è l’astrazione estremissima; se essa è pensata via, non rimane
niente pensiero; quest’idea però non presuppone nessun’altra per essere capita. Che
il concetto dell’essere non nasce dalle sensazioni si può trovare nel fatto che ha
caratteri che non possono essere spiegati dalle sensazioni. Il primo carattere di
questo concetto è l’oggettività. Pensare una cosa è guardarla come è in sé. Ma
«essere in sé» ed «essere sentito» sono concetti contrari. Le sensazioni sono soltanto
le nostre modificazioni; al contrario l’idea della cosa comporta una comprensione
della cosa come esistente indipendentemente dalle modificazioni di un’altra cosa.
L’altro carattere dell’idea dell’essere è la possibilità o l’idealità. Il concetto
dell’essere non è una cognizione di un esistente, bensì intuizione di qualcosa
possibile. Il possibile però non può creare la sensazione, pertanto questo concetto
non proviene dalle sensazioni. Inoltre il possibile è l’essere come semplice, uno e
identicamente l’opposto delle sensazioni che sono distese, molte e distinte. Ogni
sensazione è unica e limitata; l’idea è universale. Il possibile è necessario, poiché
non può essere pensato come impossibile; la sensazione è casuale, vale a dire può
essere e non-essere. La possibilità e la necessità non sono i criteri ultimi della
conoscenza a priori, come presunse Kant, bensì sono derivate dall’idea dell’essere,
che è la fonte di questa conoscenza. Ogni idea è universale e necessaria, poiché è
l’idea dell’essere con ulteriori determinazioni. Dai caratteri di queste idee Platone fu
indotto a comprenderle come innate, giacché non possono nascere dalle sensazioni.
Si lasciò sfuggire però che le idee possiedono un elemento immutabile comune a
tutte, e uno variabile, vale a dire le determinazioni che sono aggiunte all’idea
dell’essere. Solo l’elemento immutabile è innato; il variabile è causato dai sensi e
non deve essere compreso necessariamente come innato. Inoltre, come
Sulla filosofia italiana recente
13
indeterminato l’essere possibile è opposto alle sensazioni completamente
determinate. Questa idea indeterminata non può essere ottenuta mediante astrazione
dalle sensazioni, poiché queste, se afferrate puramente senza intervento di idee,
contengono solo particolari. Poiché, per essere comprese consapevolmente, devono
essere congiunte con l’idea, e per trascuratezza quest’ultima può essere capita come
appartenente alle sensazioni stesse. 9 Altrettanto poco si può ottenere l’idea
dell’essere dal sentimento della propria esistenza, poiché il sentimento ha le
caratteristiche delle sensazioni, o è una sensazione interna. Si deve distinguere però
l’idea o la percezione cosciente dell’io dalla sensazione interna dell’io, poiché
questa sensazione e semplice; l’idea dell’io o il concetto dell’io è composto della
sensazione (come contenuto) e l’idea dell’essere (come forma). L’io o il soggetto è
interamente individuale; per essere capito deve essere compreso oggettivamente,
cioè in relazione alla misura di tutto: l’essere; la sensazione dell’io è la mia stessa
esistenza e pertanto innata, ma il concetto dell’io è acquisito mediante l’idea
dell’essere che precede quindi l’idea dell’io.10 Allo stesso modo Rosmini rifiuta la
supposizione di Locke che l’idea dell’essere nasce dalla riflessione o dalla capacità
del nostro spirito di fissare la sua attenzione alle sensazioni esterne, o alla
sensazione interna, senza aggiungere qualcosa. Questa riflessione stessa è
impossibile, altrimenti solo un uso dell’istinto. Il concetto dell’essere non nasce
dalla percezione cosciente. Reid ritiene che la nostra conoscenza dei corpi comporti
tre momenti diversi che si seguono immutabilmente senza collegamento:
impressione sensoriale, sensazione e percezione dell’esistenza delle cose. Secondo
Rosmini la sensazione è solo una modificazione dell’anima, però comporta tre
elementi: il passivo, l’attivo e la passione stessa.11 Azione e passione sono la stessa
cosa in relazioni diverse. La sensazione dunque comporta una relazione al soggetto
senziente e una relazione che ha la sua determinazione da qualcos’altro. Il primo si
9
N. S. II: p. 16–37.
N. S. II: 37–41, cfr. Rinnovamento p. 306.
11 [Appunto del traduttore. Burman probabilmente fa riferimento a questa frase: «La
sensazione è una passione, e l’analisi della passione dà sempre tre elementi: 1°ciò
che patisce, 2° ciò che far patire, 3° e la passione stessa.» Nuovo Saggio II, p. 47,
nota.]
10
Erik Olof Burman
14
chiama sensazione (il soggetto come sentendosi stesso); il secondo si chiama
percezione sensitiva corporale. Ci sono quindi una percezione sensitiva e una
percezione intellettiva dei corpi.12 Reid si lasciava sfuggire questa distinzione e
perciò negava le idee. Solo nella percezione sensitiva corporale, però, non ci sono
idee, e mediante questa non è percepito in senso stretto il corpo, bensì una passione
causata dal corpo; al contrario la percezione cosciente (intellettiva) comprende i
corpi come oggetti. Queste due percezioni sono contrarie come attiva e passiva, ma
l’intelletto vede la loro unità. La percezione sensitiva è un elemento della percezione
cosciente: la materia di quest’ultima. Tramite tutte e due si percipisce la stessa cosa,
però in relazioni diverse. La conoscenza intellettiva capisce in genere, aggiungendo
una causa (un ente) all’effetto percepito dal senso.13
Tramite questa indagine della relazione tra la percezione potenziale e
quella attuale Rosmini ha indubbiamente confutato la gnoseologia sensista di cui
Locke è uno dei più noti sostenitori. Già Platone dimostrò, come risaputo, che i
concetti hanno una forma che non è spiegabile dalle sensazioni è pertanto riferiscono
a un contenuto nella mente più alto del sensoriale. Però fece ogni contenuto
particolare tanto direttamente dipendente da una forma corrispondente che inferisce
egli immediatamente da una bassa forma a un basso contenuto. Così si lasciò
sfuggire che una differenza tra conoscenze quanto alla forma può avere la sua causa
nella capacità stessa di conoscenza, tale che una forma bassa riferisce a un contenuto
basso solo indirettamente. Anche Rosmini commette lo stesso errore. Certo trova
che la forma alta non può essere spiegata dal contenuto basso, però non ritorna alla
capacità stessa di conoscenza, bensì pone la forma come indipendente contro sia il
contenuto sia la capacità conoscenza. Che, nell’aspetto reale, egli prende così un
punto di vista più basso di quello di Platone, è evidente dal fatto che la forma più
12
[Appunto del traduttore. Nuovo Saggio II, p. 47, nota: «Noi riserberemo la parola
sensazione a segnare con essa unicamente il soggetto senziente in quanto sente sè
stesso; e useremo la frase di percezione sensitiva de’ corpi per segnare la sensazione
medesima in quanto essa è una passione, che, come tale, ha necessariamente una
relazione con qualche cosa di estraneo e diverso dal soggetto senziente.
Ciò posto, le percezioni de’ corpi sarebber due: cioè 1.o vi avrebbe una
percezione sensitiva de’ corpi, e 2.o una percezione intellettiva.»]
13
N. S. II: 41–48; 384–386.
Sulla filosofia italiana recente
15
alta non comporta un contenuto più alto, oppure non può essere considerata in sé
una realtà diversa dal sensuale. La sua analisi della percezione cosciente è meritoria
però per quanto dimostrò la differenza tra forma e contenuto nelle percezioni, così
confutando il sensualismo che vuole spiegare le determinazioni della coscienza da
qualcosa opposto alla coscienza.
Il modo di Rosmini di comprendere la relazione tra forma e contenuto
nella conoscenza è chiarito dal suo insegnamento sull’anima umana. Per trovare in
che cosa consiste l’essenza dell’anima, dobbiamo partire dal nostro sentimento di
questa, perché senza sentimento non è possibile percezione, neanche dei corpi. Si
sentono i corpi però come qualcosa estraneo e l’anima come cosa propria. L’anima
si sente da e mediante se stessa; la sua essenza dunque è sentimento, poiché è
l’unico sentimento che si sente mediante se stesso, e da esso si sente le cose.
Pertanto l’anima è «un principio di sentire insito nel sentimento». Però l’anima
percepisce anche intellettivamente; quindi è alla stessa volta principio sensitivo e
intellettivo. Pronunciando se stessa, l’anima si chiama Io. Così l’Io non esprime
l’anima pura, ma l’anima in certe relazioni con se stessa, a un certo grado di
sviluppo. Per acquisire il concetto dell’anima pura si deve perciò meditare il
contenuto dell’Io senza considerare quella parte che ci è stata aggiunta con le
operazioni dell’anima. In questo senso l’Io è il principio della psicologia. Con
l’aiuto dell’ideologia si acquisisce una definizione più compiuta: «L’anima umana è
un principio (o soggetto) intellettivo e sensitivo, per la sua natura dotato
dell’intuizione dell’essere e di un sentimento, il cui termine è esteso, e di certe
attività dipendenti dall’intelligenza e dalla sensitività».14 Che l’anima è semplice si
prova dal fatto che è sopra lo spazio, perché è lo stesso identico principio che sente e
intende; inoltre dal fatto che l’attività del sentire, quale opposto al sentito esteso,
esclude l’estensione; e infine perché il principio intelligente ha la forma dall’idea,
14
Sist. filos. §§ 117–123. L’anima umana è un soggetto o principio intellettivo e
sensittivo che ha per sua natura l’intuizione dell’ essere, e un sentimento il cui
termine è esteso; e certe attività conseguenti all’intelligenza ed alla sensitività. Ib. §
124. [Appunto del traduttore. La citazione è testuale, eccetto che Rosmini scrive
«sensitivo». Burman dà la citazione in italiano nella nota a piè di pagina, ma in
svedese nel corpo del testo. Per riflettere la scelta delle parole svedesi di Burman, la
ritraduzione in italiano differisce un po’ dall’originale in Rosmini.]
Erik Olof Burman
16
che è sopra lo spazio e il tempo. Per natura l’anima ha l’intuizione dell’essere, ma
questo è indeterminato. Tramite il sentimento, il cui termine (cosa determinante) è
esteso è subisce diverse modificazioni, l’anima ottiene la prima materia di tutte le
sue operazioni intellettive. Il corpo dunque non è, come supponeva Platone, un
impedimento, anzi uno strumento dello sviluppo e del perfezionamento dell’anima.
Il termine esteso del sentimento è duplice, ossia lo spazio e il corpo, che è una forza
che si diffonde in una parte limitata dello spazio. Lo spazio considerato per sé è
immobile, semplice, indivisibile e illimitato, ma il corpo è mobile, composto e
limitato. Dalla variazione continua del corpo, consegue la variazione continua del
termine del sentimento, la molteplicità delle sensazioni e così via. Qui nasce però la
questione come l’anima, che è un principio semplice, possa avere qualcosa esteso
come termine del suo sentire. L’uomo sente due tipi di corpi, il proprio e gli estranei,
che modificano il proprio corpo. L’anima sente il suo proprio corpo mediante una
passività mescolata di molta attività. Il sentimento è una manifestazione del
principio senziente, incessante rispetto al proprio corpo che è così continuamente
modificato. Se in questo corpo, che è sotto il potere dell’anima, nasce un
cambiamento indipendente dell’anima e opposto alla sua continua azione, ella sente
un contrasto, cioè sente un corpo estraneo. Da questo si capisce che un principio
senziente, senza perdere la sua semplicità, può sentire e ricevere in sé una forza
opposta. Rimane da vedere però come l’anima, essendo un principio semplice, può
avere per il suo termine l’estensione. L’esteso continuo può esistere soltanto in un
principio semplice, come termine della sua attività. Poiché nelle parti non risiede
nessun fondamento del continuo, e come divisibili all’infinito svanirebbero queste
stesse. Ci deve essere dunque un principio semplice che include tutte le parti, così
l’insieme continuo è dato mediante un solo atto nel semplice che lo sente. Così
l’anima umana è nello stesso tempo principio sensitivo e intellettivo e ha per termine
il corpo come sentito o inteso, in quanto è sensitiva o intellettiva. Questi due principi
formano uno nella percezione cosciente, unendosi l’uno con l’attività dell’altro
come termine.15
È facile trovare che nell’insegnamento di Rosmini sull’anima umana
15
Sist. filos. § 124–144.
Sulla filosofia italiana recente
17
ritorna lo stesso opposto che appare nella conoscenza tra percezione inconscia e
conscia, ossia tra il sentire e l’intendere. Kant pensava che la sensualità e l’intelletto
fossero di generi contrari, in modo che nessuna sensazione potesse diventare
concetto
mediante
sviluppo,
comprendeva
però
questo
opposto
solo
gnoseologicamente. Tuttavia faceva notare la possibilità che potessero avere una
radice comune dalla prospettiva ontologica. Ciò che è un mero suggerimento in Kant
viene fatto un principio di base da Rosmini nella sua spiegazione degli elementi
contrari della conoscenza, nel suo trovare la loro necessaria sintesi nella semplicità
metafisica dell’anima. Questa semplicità però è meramente quantitativa; l’anima non
è complessa ma quale senziente e intendente ha qualità contrarie. Questo opposto
non scompare a causa di che le qualità contrarie sono portate da un sostrato non
complesso. Con il suo insegnamento sulla semplicità dell’anima dunque Rosmini ha
meramente dimostrato come gli elementi contrari, cioè concetti e sensazioni, sono
uniti in uno e lo stesso soggetto, ma la contraddizione in questa unione rimane
ancora irrisolta. Mediante il giudizio il sentimento, di per sé cieco, è unito con
l’intuizione dell’essere. La possibilità di questa unione è data, secondo Rosmini,
mediante la semplicità dello spirito umano. È lo stesso identico essere che da un lato
si rivela all’uomo come comprensibile e da un altro come attivamente creante il
sentimento. Finché il sentimento è separato dalla percezione dell’essere, è inconscio;
ma non può rimanerne separato a causa della semplicità del principio intendente e
senziente. Così l’uomo vede in sé l’essere agente. Il sentimento è intelligibile
mediante l’essere, perché costituisce l’attività dell’essere. Questa attività è compresa
come potenziale per la manifestazione determinata (il sentimento), perciò l’essere
ideale si chiama essere indeterminato. Quel giudizio, con cui l’essere è compreso
come realizzato in un sentimento, crea il proprio soggetto (logico), poiché il
sentimento per sé è cieco, quindi non può formare un termine nel giudizio, tuttavia
può essere compreso dalla riflessione come un termine particolare nel giudizio già
formato. Questo giudizio dunque non è formato dall’intelletto, ma dalla nostra
natura, e l’unione tra l’essenza dell’essere e l’attività senziente dipende dall’unità
del soggetto e dall’identità tra l’essere intelligibile e l’essere attivo (sentito). Questo
giudizio originale, con cui è formato il soggetto, può essere chiamato una sintesi
originale. In questa il sentimento è soggetto e l’esistenza predicato; si può anche,
Erik Olof Burman
18
però, considerare l’essenza dell’essere soggetto e la sua realizzazione predicato,
giacché il giudizio è identico ossia forma un’equazione tra il sentimento e l’essenza
dell’essere mediante l’idea. Con ciò, dunque, la questione dell’origine delle idee è
risolta. L’idea dell’essere è la condizione per la nostra capacità conoscenza ed è
originale, cioè innata. Nasciamo con l’intuizione dell’essere possibile, sebbene tardi
ci facciamo attenzione. Mediante questa idea sono creati i giudizi originali e sono
comprese le cose reali sentite. La relazione di questa idea con le cose sono i concetti
o le idee specifiche per le cose particolari. Queste idee sono composte di positivo e
negativo, di realizzazione e limitazione, e sono meramente l’idea dell’essere
guardata in relazione con un certo grado di realizzazione. In senso stretto dunque c’è
solo una idea, che è il fondamento della nostra conoscenza di cose particolari e in tal
modo si trasforma in altrettanti concetti. Le cose finite sentite da noi sono
contingenti è così opposte all’essere, che si intuisce come immutabile e necessario.
Nella percezione e conoscenza conscia comprendiamo però la loro identità. Così,
aggiungendo l’essere all’attività sentita la coscienza contribuisce a creare la cosa
compresa. Per quanto l’essere è mezzo o fondamento conoscenza, è chiamato essere
ideale. Non è rivelata così la sua essenza, bensì la sua capacità di dare conoscenza
delle cose reali. Questa essenza è intelligibile per sé e fondamento di ogni altra
conoscenza. È pertanto la luce della ragione e la forma che dà l’intelligenza, poiché
con forma si intende «ciò per cui un ente ha un atto proprio originario, che lo fa
essere quello che è». L’essenza comprensibile per se stessa è chiamata la forma
dello spirito conscio, poiché questa dà allo spirito quell’atto mediante il quale è
cosciente.16 Allora il nostro spirito è meramente ricevente, non reagente. In contrasto
con le forme soggettive di Kant, l’essere ideale è una forma oggettiva, poiché
l’essenza dell’essere è semplice e immutabile e non può essere unita con nient’altro;
lo spirito, che lo intuisce, e l’intuizione rimangano fuori la stessa, che, come
16
La parola forma si prende a significare «cio per cui un ente ha un atto suo proprio,
che lo fa essere quello che è». Cosi l’essenza dell’essere conoscibile per se stesso si
dice forma dell'anima intelligente, perchè ella è cio che dà all’anima quell’atto pel
quale ella è intelligente. Sist. filos. § 35. [Appunto del traduttore. Tutta la nota è una
citazione da Sistema filosofico. È testuale eccetto che manca una parola; dovrebbe
essere: «…ha un atto suo proprio primitivo, che lo fa…» Burman dà la citazione in
italiano nella nota, ma in svedese nel corpo del testo.]
Sulla filosofia italiana recente
19
contrapposta allo spirito intuente, si chiama oggetto. Facendosi intelligibile per lo
spirito, l’essere crea la facoltà di intendere, poiché tutto il comprendere si riduce a
intendere l’essere realizzato in una data forma, con certi limiti. Nel rapporto con le
sue realizzazioni, l’essere ideale si chiama anche ente possibile. La possibilità non è
una proprietà interna dell’ente, poiché l’essere è un’essenza vera, non una possibilità
di essenza, bensì esprime che può essere realizzato. Nel rapporto ai diversi enti reali,
l’ente possibile è la loro idea o, per dire meglio, il loro concetto. I concetti, le idee,
gli enti ideali, gli enti possibili quindi sono tanti quanti come le forme, nelle quali
l’essenza dell’essere si può realizzare.17 Data l’idea dell’essere, non rimane nessuna
difficoltà a spiegare le idee acquisite, poiché la mente dà le modificazioni
particolari. La materia della conoscenza umana è data dal senso, ma non la sua
forma; questo è il significato della frase scolastica: «Nihil est in intellectu, quod non
ante fuerit in sensu». Nel significato di avere originariamente l’idea indeterminata
dell’essere, l’intelletto può essere considerato una «tabula rasa», che poi viene
determinata dalle sensazioni. L’idea dell’essere, quale oggetto del nostro spirito, è
fondamento dell’intelletto, ossia la capacità di vedere l’essere indeterminato, e della
ragione, ovvero la capacità di giudicare e concludere (cioè vedere l’essere in
rapporto con i suoi modi particolari dati tramite le sensazioni). Quale percepente
dell’essere comune, la nostra coscienza può essere chiamata mente intellettuale (il
nostro spirito come passivo in rapporto con l’essere); come giudicante però il nostro
spirito è attivo. A rigor di termini, la nostra intuizione dell’essere è tuttavia un’idea,
poiché prima intuiamo l’essere come oggetto e poi come agente, e, seguendo l’idea,
questa nostra intuizione di essere determinati dall’idea è il sentimento intellettuale.18
Sarebbe troppo circostanziato dimostrare qui come Rosmini spiega in
dettaglio i particolari tipi di idee dal suo principio di conoscenza. Analisando
l’essere ideale si ottiene le idee pure; determinando questo essere mediante
sensazioni si ottiene le idee complesse. Di per sé tutte le idee sono eterne, sebbene
non siano sempre vedute dal nostro spirito. In relazione alle idee di Dio le nostre
sono imperfette, perché hanno un elemento soggettivo nelle sensazioni. Se agisse sul
sentimento di diverse essenze razionali e senzienti, la stessa essenza darebbe causa
17
18
Sist. filos. §§ 28–52 passim.
N. S. II: p. 58–124.
Erik Olof Burman
20
ad altrettante idee diverse, perché lascerebbe in esse altrettanti segni della sua
attività. Le sensazioni non sono copie, ma segni o forme dell’attività di un’essenza, e
le idee degli enti particolari dicono solo che c’è un’essenza adatta a creare in noi un
tale sistema di effetti che proviamo. Le idee particolari dunque non sono false,
benché comportino un elemento soggettivo.19
Prima di andare a esaminare la spiegazione analitica di Rosmini della
conoscenza, per facilitare la visione dell’insieme sarà appropriato osservare
brevemente il suo modo di spiegare sinteticamente la conoscenza dai suoi
presupposti metafisici.
Come vere ed eterne tutte le idee sono in Dio, però infinitamente più
perfette che in noi. Come onnisciente Dio intende però le idee anche nelle forme
imperfette in cui appaiono a noi, poiché ha dato a ogni essenza la sua
determinazione e con ciò il suo modo determinato di riprodurre gli influssi di altre
essenze. Come abbiamo veduto, tutte le idee sono diverse forme o limitazioni
dell’idea dell’essere. Allora nasce la questione da dove in Dio queste limitazioni
vengono. Qui si deve fare una distinzione. Dio comprende tutto che è possibile,
ovvero la possibilità infinita, ma senza differenze: appena intende qualcosa come
distinto o determinato, questo è immediatamente reale o creato. Il fondamento delle
idee determinate quindi sono nell’atto di creazione di Dio, e questo ha il suo
fondamento nella sua volontà. Così risiedono nello spazio infinito infinitamente
molte figure possibili, ma le figure determinate sono limitate. Dio è semplice, quindi
esclude ogni differenza. Distinguendo tra il fondamento delle idee, l’essere ideale e
le determinazioni, Rosmini prova a unire la molteplicità creata con l’unità assoluta.
Come lo spazio puro non subisce nessun cambiamento a causa dalle molte figure,
così anche Dio quale il fondamento delle idee è immutato dalle determinazioni. Se
davanti a una superficie liscia (per esempio un muro bianco) si mette una statua o
altre cose, allora tramite l’immaginazione si può determinare questa superficie in tal
modo che una relazione nasce tra ogni cosa e una certa parte della superficie, senza
che questa superficie sia determinata in sé. Nell’uomo le determinazioni vengono
dal sentimento, in Dio dal suo atto creativo. «Col suo volere crea le cose finite, e
19
Rinnovamento p. 593–608.
Sulla filosofia italiana recente
21
volendole crearle le conosce, e conoscendole le crea.»20 Le cose create, nella loro
propria sussistenza, sono il determinato termine della sua attività e questo si riferisce
all’essenza di Dio in modo simile a quello che le suddette statue alla superficie pura;
la relazione è esteriore. Sebbene l’intuito segua l’azione, l’atto creativo però non è
cieco, poiché in realtà costituiscono una e la stessa azione. In Dio tutte le cose sono
illimitate e la limitazione accade nella luce divina. «E anco ponendo la mano in un
cassone pieno di monete d’oro, senza badare dove la si metta, non se ne potrebbe
cavare che dell’oro.»21
Se ora esaminiamo più attentamente l’insegnamento di Rosmini sulla
conoscenza, troviamo che quello che è dato nella conoscenza secondo R. è
un’unione tra concetti e sensazioni. Ciò che poi deve essere spiegato è la
contraddizione che ha luogo tra le sensazioni, che sono buie e inconsce di per sé, e la
coscienza, che ha la sua vera espressione nel concetto dell’essere, perché le
sensazioni divengono consce essendo comprese come esistenti. La difficoltà della
spiegazione risiede nel fatto che i contrari non sono uniti originariamente, bensì
sono legati dall’anima umana. Il concetto di essere non può essere creato dalle
sensazioni, altrettanto poco si trova le sensazioni per alcuna analisi dell’essere. La
conoscenza e l’esperienza dunque risultano da una sintesi a priori di elementi
completamente distinti. Il fondamento della sintesi risiede nella semplicità
dell’anima umana. L’anima è essenzialmente sentimento e ha due capacità: senso e
intelletto. Il senso si procura il suo contenuto tramite un’azione di potenze estranee,
in se stesso ha come determinazione o termine lo spazio. L’intelletto ha la sua forma
mediante l’idea dell’essere e si procura il suo contenuto tramite la sintesi di questa
idea con le sensazioni. L’anima in sé, dunque, non è capacità di conoscenza ma solo
una capacità senziente, che per la sua determinazione ha uno spazio indeterminato.
Essendo influsso da potenze estranee questa capacità senziente si procura un
contenuto, ma questo è non-ente, non è oggetto o cosa. Dando la sua forma alla
capacità di conoscenza, l’essere illumina sia l’anima stessa sia le sensazioni di
questa, e così l’anima diviene capacità di conoscenza. Con questo insegnamento
20
21
[Appunto del traduttore. Rinnovamento p. 627.]
Rinnovamento p. 609–628. [Appunto del traduttore. p. 628.]
Erik Olof Burman
22
Rosmini si considera aver superato quella soggettività che è inerente all’opinione di
Kant. La conoscenza è vera quando ciò che si conosce è; pertanto l’essere, che è
conosciuto, è la verità della conoscenza. L’essere è però la forma della coscienza,
dunque la verità è la forma della nostra coscienza.22 Le cose ricavano la sua verità
dalla conformità alle idee. Fuori dal mondo dei fenomeni non c’è nessun altro
mondo, di cui il primo fosse un’immagine. La realtà percepita è interamente nel
sentimento. Come meramente sentite però, le cose sono fenomeni e in questo è la
loro realtà; come comprese sono noumeni e in questo è la loro essenza e verità,
poiché l’essere che è aggiunto loro è la verità. Da questo appare però che la
conoscenza è limitata al sensibile. L’uomo ha conoscenza del soprasensibile solo
negativamente, confrontando le cose con l’idea dell’essere, trovando che sono
meramente forme finite dell’essere e pertanto riferiscono a un’essenza infinita. Ma
la conoscenza dell’assoluto non dice come questo è, solo che il suo modo di essere
supera l’intelligenza umana. Con l’aiuto della rivelazione si può avere però una
comprensione positiva di Dio.23 È impressionante come questa opinione si accorda
con quella presentata da Tommaso. In Rosmini appare tuttavia un influsso di Kant, il
che si mostra nel suo modo di formulare il problema. Come Kant nella forza di
immaginazione, così Rosmini nel sentimento fondamentale cerca un’unione dei lati
opposti della conoscenza.24 Tuttavia, questa somiglianza è meramente apparente;
perché in Kant la capacità unificatore, ossia il fondamento della conoscenza, risiede
entro il soggetto stesso. Poiché la forza di immaginazione è l’attiva coscienza stessa
nelle sue forme concrete. Ponendo l’insieme unificatore come qualcos’altro della
coscienza, Rosmini occupa una posizione fondamentalmente diversa. Poiché
nell’essere sono compresi sia il soggetto sia gli oggetti, entrambi come realizzazioni
dell’essere. L’essere nella sua generalità e semplicità non è una produzione
soggettiva; anzi l’uomo è meramente una realizzazione ristretta, modale e
contingente dell’essenza dell’essere.25 Il soggetto ricava coscienza, ovvero diventa
intelletto, mediante la presenza dell’essere quale oggetto. Questa presenza in una
22
Sist. filos. § 53.
Sist. filos. § 177, 186.
24
Cfr. Acri, Critica ecc. p. 40–68 & Fiorentino, la filosofia contemp ecc. p. 205–
257.
25
Sist. filos. § 59.
23
Sulla filosofia italiana recente
23
coscienza è tuttavia tanto essenziale per l’essere che questa presenza è una
determinazione costitutiva dell’essere. Questo è quindi essenzialmente relativo,26
ossia è una causa che non può essere senza il suo effetto, come l’effetto non può
essere senza la causa. Quando dunque si è mostrato che la conoscenza ha il suo
fondamento in una causa estranea al soggetto stesso, rimane da lasciare il discorso
gnoseologico e, tramite un’indagine metafisica dell’essere, cercare nel questo
l’insieme che è il fondamento sia di tutta la conoscenza sia di tutta la realtà e del
rapporto tra esse.
Rosmini chiama la sua opinione il sistema dell’identità dialettica.27
Comprendendo l’essere ideale come il principio di tutto, e come semplice e
contenuto in ogni la sua determinazione ma non totalmente, si risolve di fatti il
problema della compatibilità dell’unità e della molteplicità. L’essere ideale è dato
nell’intuizione come semplice, ma poi la riflessione ci scopre determinazioni.
L’essere comprende, infatti, la possibilità di tutte le determinazioni è come tale è
virtuale. Le cose reali o le determinazioni non possono essere pensate senza l’essere;
questo è il loro soggetto precedente, e come tale si chiama essere iniziale.
Includendo la possibilità di tutto, l’essere virtuale è il primo determinabile o la
generica materia dialettica. Infatti, questa può essere determinata mediante relazioni
con le diverse forme reali e quindi corrisponde a τὸ ἄπειρον dei Pitagorei. In quanto
iniziale, l’essere appare nella copula «è» del giudizio ed esprime un atto generico, o
è il determinante comune, corrispondente a τὸ περαἰνον.#28 Tramite il predicato si
pone un limite al determinare; in relazione con questo l’essere iniziale è forma
generica: τὸ πἐρας. Nel giudizio «questo essere è questa cosa» il soggetto è essere
26
Teosofìa II: 29; 48.
[Appunto del traduttore. Teosofia I, p. 218.]
28 [Appunto del traduttore. Nell’originale di Burman: ιὸ περαἰνον, invece τὸ
περαἰνον, probabilmente un errore di stampa. Burman prende per scontato che il
lettore conosca i termini apeiron (lo sconfinato), perainon (ciò che impone confini
sullo sconfinato) e peras (confine). Per quanto riguarda loro significati nella
filosofia antica si veda, per esempio, Martha C. Nussbaum: «Eleatic
conventionalism and Philolaus on the conditions of thought», in Harvard Studies in
Classical Philology, vol. 83 (Albert Henrichs, ed.). Cambridge, MA, USA: Harvard
University Press, 1979, pp. 63–108; Felix M. Cleve, The Giants of Pre-Sophistic
Greek Philosophy. An Attempt to Reconstruct their Thoughts. La Haye: Martinus
Nijhoff, 1965.]
27
Erik Olof Burman
24
virtuale, poiché può essere tutto; tramite la copula l’essere comincia a determinare e
nel predicato questo essere iniziale viene determinato. Come soggetto precedente
l’essere è causa determinabile, come copula o atto unificante tra le cose e l’essere
possibile è causa efficiens e come predicato è causa finale. Mediante questi tre passi
l’essere possibile viene più o meno determinato. Si noti però che questo essere non è
un ente o una cosa reale ma mera possibilità, e che queste relazioni sono meramente
dialettiche.29 L’essere puro appare come iniziale in un’idea ed è l’inizio sia del
conoscibile sia dell’esistente; ma solo nel rapporto al conoscibile è principio, poiché
implicitamente comprende tutto il conoscibile. Il reale tuttavia non può essere
ricavato da questo essere senza un atto che va oltre la sfera dell’idea. Il sentimento
reale esige una causa reale, perché l’essere ideale non può influire sul senso, solo
sull’intelletto; ma quando è dato nell’esperienza, ha, come Dio stesso in questo
essere il suo inizio dialettico. Ci deve esistere qualcosa comune tra Dio e le cose
finite, altrimenti non ci sarebbe alcun fondamento dell’analogia tra Dio e il mondo.
Se l’Io fosse questo principio comune, il panteismo sarebbe inevitabile, giacché l’Io
è il più concreto. L’essere iniziale per contrasto è il meno comune possibile tra due
cose. 30 In relazione con le cose contingenti l’essere non è elemento ma causa
creante, determinante e finale. Queste sono qualcosa solo in unione con l’essere;
questo ancora sta in una relazione di indipendenza assoluta con le cose. L’essere
iniziale non è un’essenza, bensì qualcosa nell’essenza necessaria, poiché è in se
stesso assolutamente necessario. 31 La percezione intellettiva è un’unione di un
momento ideale e un momento reale, cioè l’idea dell’essere e il sentimento. L’analisi
di questi momenti dimostra che il reale, che è dato nel sentimento, non è in sé una
cosa, bensì la diventa mediante un processo, ossia una creazione, dialettico. Come
virtuale e iniziale l’essere è ciò per cui l’ente è qualcosa: il suo fondamento e scopo.
Mediante riflessione si trova queste determinazioni dell’essere che è dato
nell’intuizione. Come virtuale l’essere implica tutte le idee, ma queste sono portate
alla coscienza a causa di che l’essere è compreso in relazione con le cose reali. In
29
Teosofia I: 218–227.
Ib. 227–235.
31
Rinnovamento p. 247 e. q. s. [Appunto del traduttore: «et quod seguitur», ossia «e
ciò che segue».]
30
Sulla filosofia italiana recente
25
relazione con le cose le idee sono archetipi e il loro insieme è l’archetipo del mondo.
Come già dimostrato, l’essere è compreso nella percezione conscia come l’inizio
delle cose, ma non come principio. Il rapporto dialettico tra l’essere e le cose è
infatti un atto, il cui fondamento reale cade fuori della coscienza. La creazione stessa
è di certo compresa nella percezione cosciente, ma solo mediante deduzione può
elevarsi la ragione dall’essere e dalle sue relazioni dialettiche al soggetto infinito, al
quale appartiene l’essere. Il fondamento stesso della nostra coscienza deve essere
soggetto. Quale soggetto l’assoluto ha tre forme, poiché comprende se stesso e
quindi è il comprendente, il compreso e il rapporto tra tutte e due, ovvero l’amore
infinito. Queste tre forme, l’ideale, la reale e la morale non devono essere confuse
con la Trinità Divina, di cui sono un’immagine di ombra, giacché sono
indeterminate e si completano. Mediante queste forme l’assoluto è persona, e
nell’unità assoluta è dato un fondamento della molteplicità. Il fondamento reale del
mondo risiede nell’assoluto, e in riferimento a questo la creazione non è meramente
dialettica ma reale. Forse questo fatto potrebbe essere spiegato con l’immagine che
segue. A cielo nuvoloso la luce penetra di certo dal sole, ma il sole stesso è
invisibile. La luce fa vedente l’occhio e illumina le cose, così da essere sconosciute
diventano reali per il vedente. A causa della rifrazione contro le cose nascono i molti
colori e immagini di luce, che risiedono, sicuramente, quale possibilità nella luce
pura, però per la loro comparsa presuppongono qualcosa di diverso. In relazione con
le cose queste loro immagini di luce sono le loro essenze, perché come non
illuminato il sostrato buio è un non-ente. Per deduzione il vedente può comprendere
che ci deve essere una reale fonte di luce, che è la base non solo della comparsa
delle cose come reali all’occhio ma anche di loro stesse. Le cose, che sono reali per
il vedente soltanto come illuminate, quindi hanno il loro fondamento dialettico nella
luce e il loro fondamento reale nel sole. Secondo Rosmini, dunque, nel mondo si
deve distinguere tra due momenti, l’essere iniziale e l’essere reale. In riferimento a
una cosa reale, l’essere costituisce la sua essenza e l’insieme delle essenze di tutte le
cose è il modello del mondo. L’essere però è semplice e come assoluto non può
ammettere nessuna limitazione. Il primo determinabile, o l’essere come soggetto di
limitazioni, pertanto deve essere qualcos’altro che l’essere assoluto e oggettivo.
L’essere assoluto nella sua forma soggettiva (come percepente) si ama infinitamente
Erik Olof Burman
26
nella forma oggettiva (come percepito) e quindi ama l’essere in tutte le forme, in cui
può essere amato, anche come relativo e finito. Questo amore è l’atto creativo. Per
creare il mondo l’assoluto deve comprenderlo, siccome il principio creativo è
coscienza, e realizzarlo per avere un oggetto del suo amore. Da questo seguono i due
momenti del mondo, l’essenza e il reale. Sebbene la creazione non sia successiva,
ma tutto è fatto dall’eternità, tuttavia l’esposizione della medesima deve considerare
i momenti come distinti e successivi. Il primo atto è l’astrazione divina. Dio
percepisce se stesso come reale, ma percepisce anche questo stesso percepire della
sua realtà. In questa riflessione sulla percezione stessa, Dio astrae dall’essere
oggettivo e in tal modo distingue l’inizio dal termine (dall’intera determinazione) di
questo e così nasce un prodotto mentale: l’essere iniziale. Allora è fatta la prima
limitazione necessaria, perché questa idea infinita è qualcos’altro di Dio stesso,
benché di genere divino. Da questo appare che Rosmini con l’essere iniziale intende
la pura coscienza, che è dato soltanto mediante un’astrazione dal soggetto concreto,
e come concetto generalissimo è la determinazione comune e prima di tutto il reale,
ossia costituisce l’inizio di tutta la sua determinazione, sia reale sia ideale. Come
astratto ammette la possibilità di limitazione. Questo primo atto dunque crea la
conoscenza divina dell’essere finito e la luce comunicabile alla natura cosciente.
Il secondo atto è l’immaginazione divina. Mentre l’astrazione divina
dinstingue nell’oggetto assoluto il principio dal suo termine (determinazione
concreta) e solo pensa l’inizio dell’essere, l’immaginazione divina delimita il
termine reale o lo immagina come limitato. Il termine reale, immaginato dall’attiva e
libera coscienza di Dio come limitato, è la realtà dell’universo, poiché Dio è la
forma soggettiva dell’essere, mediante la quale l’ente esiste in sé. Per potere essere
compreso dalla coscienza divina il termine reale deve esistere di per sé, perché
altrimenti non potrebbe essere compreso come reale. «La coscienza attiva di Dio,
con il suo sguardo libero, può porre in e per sé il reale, che la medesima immagina
limitato. In questo risiede il mistero della creazione, che probabilmente si non può
comprendere completamente, ma che comporta contraddizione se compresa in altro
Sulla filosofia italiana recente
27
modo.»32 Il terzo atto è la sintesi divina, ovvero l’unione dell’essere iniziale con
quello finito reale. Così sono create le cose finite. A un esame più accurato questa
sintesi comporta due conseguenze. Aggiungendo l’essere iniziale, considerato
essenza, ai termini reali, essa fa nascere le cose finite nella loro forma soggettiva (e
a questa si riferisce quella fuori il soggetto), e riferendo i termini reali all’essere
iniziale, considerato oggetto intelligibile, l’intelletto vede in questo le essenze o idee
delle cose finite.
L’ordine logico tra i momenti della creazione è questo: il verbo divino,
l’essere iniziale, il reale finito, il modello del mondo, il mondo. Dopo la creazione
però, riguardo alla comprensione, il modello precede il finito reale. La percezione
intellettiva è analoga alla creazione. I suoi momenti corrispondono a quelli della
creazione: l’essere ideale, il reale sentito, l’essenza, l’ente percepito; ma nella
considerazione analitica l’essenza precede il sentito reale.33
La difficoltà in questa spiegazione del mondo risiede nella deduzione
del finito dall’infinito tramite la limitazione successiva. Limite è «ciò che manca ad
una data entità o di essa si nega.»34. La prima limitazione ontologica è data dal fatto
che l’astrazione divina, dentro l’essere assoluto come percepito, separa la realtà
oggettiva dall’essere soggettivo, così privandolo di quelle caratteristiche che
seguono dall’essere soggettivo, vale a dire l’esistenza in sé e la durata in questa
esistenza, la propria attività e l’intelligibilità dell’affermazione. Il risultato di questa
32
[Appunto del traduttore. Burman dà questa citazione in svedese. Probabilmente
riferisce a un brano a p. 406 della Teosofia I, dove c’è una frase tra virgolette,
purtroppo senza riferimento alla sua fonte. Questa frase in Rosmini però è più breve
della traduzione svedese in Burman. Il senso del seconda metà di quest’ultima
corrisponde a una frase fuori le virgolette nell’originale italiana. Scrive Rosmini:
«Non rimane dunque altra proposizione immune da assurdi se non questa, che la
”Mente divina operante può far sussistere in sè col suo sguardo libero il reale,
ch’essa stessa imagina limitato”.
In questa proposizione sta il mistero della creazione, come abbiamo detto di
sopra…»]
33
Ib. p. 405–416. [Appunto del traduttore. Questa nota a piè di pagina è sbagliata.
Deve essere Teosofia I invece di Rinnovamento.]
34
Limite é [sic] ciò che manca ad una data entità e di essa si nega. Ib. p. 664.
[Appunto del traduttore. La citazione e data in svedese nel corpo del testo e in
italiano nella nota a piè di pagina. Rosmini discute il concetto di limitazione nelle
pagine 661–664 della Teosofia I.]
Erik Olof Burman
28
astrazione è l’idea di Dio, «l’infinito oggettivo possibile». 35 Questo infinito è
virtuale, mediante astrazione separato dalla sua sussistenza36 (il suo sostrato), ma è
un’essenza, che ancora ha i quattro elementi, dai quali appare la forma oggettiva,
vale a dire qualità, intelligibilità oggettiva, quantità e unità. Se si astrahe via anche
queste proprietà, l’essere possibile rimane senza tutta la determinazione. Con ciò
l’astrazione ha raggiunto il suo culmine ed è arrivato alla materia prima o la radice
sia del finito sia dell’infinito. Questo essere possibile è l’oggetto dell’intuito umano.
Per acquisire la più vicina materia degli enti finiti occorre un determinante, ovvero
un’aggiunta di limiti positivi, mediante la quale l’essere diventa radice solo per gli
enti finiti. Comunque, tutte le determinazioni che possono essere aggiunte all’essere
possibile, si riducono alle tre forme supreme: la forma soggettiva, quella oggettiva e
quella morale. Queste forme però sono generiche, ma l’ente completamente
determinato è uno. Mediante l’unione delle tre forme si guadagna una perfetta unità,
ma questa unità è l’assoluto stesso. La forma ideale di per sé non può costituire
un’unità separata dal termine reale dell’essere, poiché presuppone una mente.
Altrettanto poco la forma morale può essere un’unità separata dalle altre, poiché
essa implica la relazione tra queste ultime. Rimane quindi la forma reale o
soggettiva. Di conseguenza gli enti finiti devono essere soggetti reali, poiché il
soggetto è la base dell’unità della cosa. La materia più vicina, o la radice degli enti
finiti, dunque è il reale possibile e puramente indeterminato, che è nell’idea divina
quale termine del suo pensiero libero. Questo reale è un’essenza finita, perché è solo
possibile, indeterminato e manca le due altre forme. Questa radice deve essere il
comune di tutti gli enti del mondo. Questi si dividono in enti che sono principi, o
intellettivi o sensitivi, ed enti che sono termini, o spazio o corpo. Questi due tipi
sono opposti l’uno all’altro e quindi non possono avere altro in comune che l’essere
quale forma dialettica. Per trovare la prima vera realtà si deve lasciare da parte
quegli enti che sono termini, perché presuppongono quelli che sono principi. Tra
35
[Appunto del traduttore. Burman non indica la fonte di questa citazione. Si trova a
p. 695 della Teosofia I, dove scrive Rosmini: «Mediante questo primo limite l’essere
infinito obiettivo è divenuto, come cognito, un infinito obiettivo possibile, che si può
dire in qualche modo ”l’idea di Dio”.»]
36 [Appunto del traduttore. Teosofia I, p. 695. Rosmini scrive «sussistenza» e
Burman traduce con «existens» in svedese.]
Sulla filosofia italiana recente
29
questi però i sensitivi presuppongono gli intellettivi.37
Il primo reale, che è fondamento o materiale ideale per il modello del
mondo, quindi deve essere dato nelle determinazioni costitutive dell’ente intellettivo
in genere. Queste determinazioni sono l’intuizione dell’essere oggettivo, il
sentimento di se stesso come soggetto e la volontà che unisce i due. L’ente
intellettivo finito in genere è dunque il primo possibile reale indeterminato che deve
trovarsi nella coscienza divina come il primo rudimento degli enti finiti. Solo questo
è τὀ ϰαθʹ αὑτό mentre invece tutta l’altra natura è τὸ πρὁς τι.38§ L’ente intellettivo è
unità quale principio e contiene il suo termine; il termine intellettivo contiene quello
sensitivo e questo a sua volta contiene lo spazio e il corpo. Questo principio si
determina diversamente secondo i suoi termini, che si riducono sotto le tre categorie:
l’essere oggettivo, quello sentito, e quello posto dalla volontà. L’intuizione
dell’essere è qualcosa indeterminato, ma è determinata a unità dai gradi dell’attualità
dell’essere. Il sentimento quale principio è uno, ma la base sentita può variare, e
quindi gli enti, che nascono dall’unità tra il senziente e il sentito, possono essere
tanto molteplici quanto i termini sentiti. Infine la volontà può creare con più o meno
attualità permanente, e così si può acquisire una terza classe di enti intellettivi finiti.
La diversità delle cose dunque nasce dalla diversità dei termini, i quali, uniti con il
principio reale e proprio, costituiscono gli enti. Pensato come unico, il primo reale
finito e generico è determinato ente mediante una determinazione quantitativa.
Questo costituisce l’ente vago (perché ancora generico), che poi, come già
dimostrato, viene determinato mediante determinazioni di grado.39 Gli enti finiti
possibili devono essere un numero finito, poiché sono estratti da una prima materia
finita, e il finito non può dare altro che finito. Questa limitazione al numero
comporta la possibilità di ordine, poiché se fossero infinitamente molti, non
potrebbero essere uniti in un insieme. Gli enti intellettivi si distinguono dunque
37
Cfr ib. p. 530.
[Appunto del traduttore. Le espressioni greche si trovano a p. 702 della Teosofia
I. Sia Rosmini sia Burman prendono per scontato che il lettore le conosca, perciò
non indicano la loro fonte nell’antichità, per esempio Il Sofista di Platone e Le
Categorie e La Metafisica di Aristotele. Approssivamente, τὸ πρὁς τι (to pros ti)
significa «ciò che si riferisce a qualcosa», mentre τὀ ϰαθʹ αὑτό (tò kath’ autó)
significa «ciò che è per sé».]
39
Teosofia I: p. 694–704.
38
Erik Olof Burman
30
tramite un limitato numero di differenze quanto alle loro tre basi di classificazione
nella partecipazione fondamentale nell’essere oggettivo, nel sentito fondamentale e
nell’attualità fondamentale della volontà. Questa gradazione finita stabilisce un
ordine gerarchico e questo presuppone un supremo ente finito che capisce, sente e
vuole al grado massimo.40
Per quanto riguarda l’ulteriore sviluppo di questi pensieri di base, basti
osservare che Rosmini ha assimilato l’opinione di Campanella che tutto sia vivo e
che il sentimento sia l’essenza della vita. La materia secondo Rosmini dunque non è
cosa morta, bensì un complesso di elementi senzienti che si avvicinano alle monadi
di Leibnitz. Sentendo solo lo spazio infinito si distinguono però dalle monadi, che
rappresentano l’intero universo.41 Per quanto riguarda lo spazio stesso, l’opinione di
Rosmini sembra concordare essenzialmente con quella di Trendelenburg, secondo il
quale è soggettivo e oggettivo allo stesso tempo. Lo spazio non è infatti niente in sé,
ma esiste solo in e tramite il sentimento: però è così essenzialmente unito con il
sentimento che appartiene anche al sentimento di Dio.42
Dato che non è nostra intenzione fare qui una critica dettagliata del
sistema di Rosmini, ma solo determinare la sua relazione al problema attuale della
filosofia, sarà sufficiente indicare che Rosmini, come osserva egli stesso, non si
distingue essenzialmente da Tommaso. Abbiamo già dimostrato come la conoscenza
è spiegata da una causa esterna alla capacità di conoscenza. Questa causa, che quale
esterna non può essere compresa direttamente dalla mente, è l’assoluto, che è una
causa esterna anche in relazione alle cose ossia il reale. Ritroviamo in Rosmini lo
stesso empirismo che la scolastica prese da Aristotele. Il problema è essenzialmente
lo stesso, vale a dire trovare come i concetti possono essere uniti con la materia. Il
problema della filosofia moderna di trovare l’unità dell’essere e della coscienza è
estraneo a Rosmini, poiché rimane alla posizione oggettiva. Al sacerdote cattolico e
dotto scolastico l’indipendenza e il significato fondamentale che il soggetto
acquisisce in Cartesio e Kant appaiono contrari alle tradizioni della chiesa fedele.
L’essere puro, che dà la forma, ossia l’essenza, alla capacità di conoscenza,
40
Ib. p. 706–708.
Cfr Ferri Essai sur l’histoire ecc t. I: p. 220–223.
42
Cfr Ferri l. c. p. 243. Teos. v. III: 336–8.
41
Sulla filosofia italiana recente
31
corrisponde alla ragione attiva in Aristotele. Tutti e due sono elevati sopra il
soggetto individuale e di origine divina; tutti e due sono il fondamento esterno sia
della capacità conoscenza umana sia dell’intelligibilità delle sensazioni. Rosmini,
così come Aristotele e Tommaso, prima comprende l’assoluto come forza, ma è
spinto a comprenderlo come soggetto per salvare la loro indipendenza. Il pensiero di
base originale di Rosmini risiede nel suo insegnamento sulle tre forme fondamentali
dell’assoluto. Con queste però assimila nell’assoluto quei lati opposti che
nell’esperienza data esigono una spiegazione. La forma reale di Dio è il sentimento,
perché solo un sentimento può in effetti possedere le sue determinazioni. Per
analogia con l’anima umana Rosmini deduce questa forma basale. Egli arriva alla
forma ideale, ossia alla coscienza, mediante deduzione dall’essenza della
conoscenza. Ciò che è il fondamento della conoscenza deve essere coscienza, e solo
questa è indipendente. La forma morale o l’amore segue dal fatto che il sentimento è
gradevole e, coscientemente compreso, amabile; questa forma basale è il
fondamento dell’azione di Dio, ossia della creazione. In Dio dunque il sentimento e
la
coscienza,
nell’uomo
sinteticamente
uniti
mediante
l’essere,
sono
immediatamente uniti. Quale indipendente Dio deve essere coscienza e quale reale
deve essere sentimento; indipendenza quindi non implica realtà e viceversa.
L’assoluto di per sé non è soggetto, poiché la coscienza non ha nessun
contenuto determinato; certo ha contro di sé il sentimento con il suo contenuto
determinante, lo spazio puro, ma nessuno di questi contiene alcuna molteplicità. La
coscienza assoluta acquisisce un contenuto determinato mediante l’amore, che crea
il mondo sensoriale. In relazione con questo l’assoluto diventa coscienza concreta,
poiché ottiene dalle cose la sua determinazione, anche se non direttamente, perché le
cose sono meramente forme di sentimento e quindi contrarie ai concetti, ma
indirettamente la coscienza assoluta è determinata da loro, giacché essa scopre
mediante questi ultimi ciò che prima comprende in sé senza differenza e
inconsciamente. È chiaro che in questo le cose presuppongono le idee e che le idee
presuppongono le cose, ma siccome nessuna differenza di tempo ha luogo dentro
l’attività dell’assoluto, questo implica che sono ugualmente originali e
disparatamente coordinate, come gli attributi della sostanza di Spinoza. Infine è
superfluo far osservare che l’astrazione e l’immaginazione divina presuppongono
Erik Olof Burman
32
finità nell’assoluto. Rosmini provava a spiegare la realtà sensoriale, ponendola con
tutte le sue contraddizioni come un effetto di Dio, che in questa realtà acquisisce la
sua determinazione. In Rosmini la creazione è una relazione immediata tra Dio e il
mondo sensoriale. Senza dubbio prova a capirlo in tal modo che esclude
determinazione temporale e cambiamento, negandogli tutto il carattere di sviluppo.
Con la creazione come pura emissione non è aggiunto niente alla perfezione di Dio.
D’altra parte però l’esistenza ideale del mondo inerente in Dio è possibile soltanto
mediante questo atto.43 La creazione dunque costituisce un rapporto con qualcosa
esterno all’assoluto stesso. Lo spazio e il mondo sensoriale sono introdotti nella
coscienza di Dio, però senza essere divenuti così alcuna realtà più alta o coerente.
Come Rosmini anche Gioberti sostiene che solo una dottrina della
creazione possa risolvere il problema della filosofia in modo soddisfacente. Tra
questi pensatori il rapporto notevole ha luogo di aver elaborato le loro opinioni sia
combattendo l’uno i pensieri di base dell’altro, sia poi modificando i propri. I loro
punti di partenza e procedimenti sono opposti. Como abbiamo visto, Rosmini parte
da un’analisi della conoscenza e si porta da questa alla creazione come il
fondamento estremo. Gioberti invece parte dal concetto di creazione e ne espone il
dato come conseguenza. Chiama perciò il suo punto di vista ontologismo, in
contrasto con lo psicologismo di Rosmini. Nonostante differenze nei dettagli però,
sono d’accordo sia riguardo all’opinione sulla natura della realtà data e sul suo
bisogno di spiegazione, sia nei pensieri di base della spiegazione. Entrambi
appartenevano alla Chiesa cattolica. Vincenzo Gioberti nacque nel 1801 a Torino,
dove studiò teologia all’università. Sospetto di cospirazioni politiche fu mandato in
esilio nel 1833. Era infatti l’anima di un’associazione di giovani uomini che
discutevano argomenti filosofici e politici. Come esule soggiornò per quindici anni a
Bruxelles e si manteneva insegnando privatamente filosofia. Durante questo tempo
pubblicò la maggior parte dei suoi lavori. Dopo gli avvenimenti politici nel 1847 fu
richiamato e fu accolto con entusiasmo generale come il futuro dirigente del destino
di Italia. Per un breve tempo fu primo ministro e dopo il battaglio a Novara fu
43
Teos. I: 313; II: 2; III: 342. Rinnov. 616.
Sulla filosofia italiana recente
33
mandato in Francia quale delegato per mediazione con l’Austria, ma non riuscì nel
suo intento, dopodiché rimase in esilio volontario a Parigi, dove morì nel 1852.
Condivide con Rosmini la preferenza per la scolastica, ma lo sorpassa
nella polemica contro la filosofia recente. Taccia Cartesio pressoché di ciarlatano.
La vera filosofia è da cercare solo nella chiesa cattolica. Tutta la filosofia moderna
da Lutero a Hegel è meramente un’ombra vuota che sparisce senza lasciar traccia.44
Tra le molte opere ampie di Gioberti «Introduzione alla filosofia» e «la protologia»45
sono le più importanti per conoscere il suo parere filosofico. Quest’ultima appartiene
alla sua Opera Posthuma e soffre in larga misura di quegli errori che generalmente
sono inerenti allo stile di Gioberti. Siccome il suo interesse principalmente mirava a
riformare l’Italia e ridarle il suo primato tra le nazioni, portandola alla
consapevolezza della sua posizione e del suo compito, lansciava i suoi pensieri in
una forma calcolata più per lo scopo pratico che per una ricerca tranquilla e
sistematica. Vi è poi da aggiungere che questi lavori non concordano perfettamente.
Nella Protologia Gioberti modifica infatti la sua opinione, mitigando le unilateralità
della sua precedente speculazione più teologica, essendo evidente l’influsso di Hegel
in particolare. Il pensiero di base però è lo stesso in tutte le sue opere, cercando egli
la soluzione delle fondamentali questioni filosofiche nella dottrina della creazione.
Inoltre il metodo dogmatico è comune per entrambe le forme del suo filosofare.
Nella realizzazione dettagliata appariscono però differenze importanti. Nel primo
resoconto l’assoluto è compreso come idea, nell’ultimo invece principalmente come
persona. Con ciò l’intelletto umano si avvicina all’assoluto, in tal modo che si limita
la sopraintelligenza, che prima giocava un così importante ruolo, e l’assolutamente
incomprensibile è dichiarato nulla. Dio diventa oggetto di conoscenza, poiché il
pensiero partecipa di Dio e lo comprende mediante analogia. Di conseguenza il
filosofo ottiene una posizione più indipendente in rapporto con la teologia, e il
diritto della libera ricerca è rivendicato, il che non è il caso nei precedenti scritti di
Gioberti. Dal comprendere la realtà come personale il sensoriale ottiene un altro
44
Cfr. Mariano, la philosophie cont. ecc. p. 86–88.
[Appunto del traduttore. Burman scrive in svedese: «Inledning till filosofien» e
«protologien», intendendo sicuramente Introduzione allo studio della filosofia e
Della Protologia.]
45
Erik Olof Burman
34
significato. È vero che il punto di vista oggettivo rende più difficile il distinguere tra
la capacità di conoscenza sensoriale e quella razionale, e con ciò anche la
spiegazione del contenuto sensoriale, ma le diverse capacità di conoscenza non sono
più poste l’una vicino all’altra senza connessione, bensì il sentimento è posto come
un inferiore grado della ragione e la differenza riguarda sia la forma sia il contenuto.
Nell’introduzione i concetti sono compresi come esterni l’uno all’altro, giacché
l’essenza non cade dentro la capacità di pensare, così la connessione tra loro è
sintetica. Nella protologia invece tutte le verità sono comprese come immanenti
l’una nell’altra, e tutti i pensieri come forme dello stesso intelletto infinito. Così pure
il sensoriale non si riferisce più all’assoluto, bensì tra loro è inserito un nuovo
elemento, vale a dire la metessi ossia la personalità creata. Quanto alla dottrina dello
spazio e del tempo ci sono solo accenni deboli nella protologia. A causa di queste
differenze tra la protologia e i precedenti scritti di Gioberti consideriamo che la
prima costituisce la forma definitiva della sua opinione filosofica, se si possa
chiamare così un tale abbozzo incompiuto. Nel seguito ci interesseremo pertanto
principalmente alla protologia, citando dai precedenti lavori solo ciò che ne è
d’accordo o importante per la comprensione. Infine si deve osservare che anche
nella protologia appare il contrasto tra un inferiore e un superiore punto di vista, al
qual ultimo aspira senza trovare una forma soddisfacente. Perciò, nell’esposizione
vedremo più al pensiero di base che a certe contraddizioni negli dettagli.
«L’oggetto primario e principale della filosofia è l’Idea, termine
immediato dell’intuito mentale.» 46 Idea, secondo Gioberti, significa la verità
assoluta ed eterna per quanto è presente nell’intuizione dell’uomo, ossia l’oggetto in
sé della conoscenza razionale, con un’aggiunta però di una relazione con la nostra
capacità di conoscenza. Questa relazione non tocca la natura dell’idea, ma è solo una
relazione esterna. L’idea è originaria, non un prodotto del pensare, e requisito
indispensabile per ogni pensiero. Ha tuttavia diversi gradi a causa dell’effetto
negativo della capacità di conoscenza. La conoscenza umana dunque ha elementi sia
oggettivi sia soggettivi, ma i questi ultimi sono negativi, o dati mediante la
limitazione del soggetto. Tutto il positivo nella conoscenza viene dall’oggetto
46
[Appunto del traduttore. Introduzione II, p. 3.]
Sulla filosofia italiana recente
35
intelligibile. A causa della finitezza dell’uomo, egli non può abbracciare tutta l’idea,
ne segue l’oltrintelligibile che dunque ha una base totalmente soggettiva.
Dall’evidenza segue la certezza, che è quel modo con cui il nostro spirito acquisisce
la verità e l’evidenza; benché soggettiva tuttavia ha un fondamento oggettivo.47
Tramite la lingua la capacità di pensare trova le determinazioni interne
ed esterne dell’idea. Questa riflessione è la filosofia, che si può definire dunque
come l’esplicazione successiva della prima notizia ideale,48 ossia la riflessione dello
spirito sull’oggetto immediato del primo intuito, per via della parola.49
La capacità di conoscenza dell’uomo consiste di due facoltà, parallele
originali indivise nella loro attività, tuttavia distintissime. La prima è la facoltà di
sentimento, che è l’attitudine della nostra anima per ricevere impressioni ed essere
modificata in un certo modo. La facoltà di sentimento è di due tipi: l’esterna e
l’interna. Le manifestazioni della prima sono le sensazioni, che si riferiscono a un
esterno; quelle dell’ultima sono i sentimenti, che si riferiscono a qualcosa interno;
ma entrambe hanno in comune che appaiono come pure modificazioni della nostra
anima. Questa modificazione è dipendente e incomprensibile di per sé e presuppone
una sostanza che la sostiene e l’illumina. Nella questa relazione risiede la base della
differenza tra sensazioni e sentimenti, che, malgrado ciò, si presuppongono e si
comportano reciprocamente. Dipendenti e cieche di per sé, le manifestazioni della
facoltà di sentimento presuppongono e riferiscono a un’altra facoltà: l’intelligenza
ossia la ragione. Queste due facoltà sono essenzialmente distinte, quindi quel
giudizio che unisce qualcosa sensoriale e qualcosa intelligibile è un giudizio a priori
sintetico. Il sensoriale non può essere l’oggetto immediato della ragione, neppure si
può sentire l’intelligibile. I’oltrintelligibile presuppone una capacità specifica.
L’essere non è completo come intellegibile. Abbiamo anche un’idea astratta
dell’essere che diventa concreta grazie a una fede simile a un istinto, e questa idea è
47
Introduzione II; pp. 3–11.
[Appunto del traduttore. L’espressione in corsivo si trova a p. 11
dell’Introduzione II.]
49
Ibid. p. 48. [Appunto del traduttore. Le parole svedesi che seguono la frase in
corsivo si riferiscono a queste a p. 48: «La filosofia è la riflessione dello spirito
sull’oggetto immediato del primo intuito, per via della parola.»]
48
Erik Olof Burman
36
l’essenza.50
L’oggetto della conoscenza appare nell’intuizione come un insieme,
ma indeterminato. Introducendoci limiti tramite riflessioni, l’intelletto determina
l’insieme compreso nell’intuizione, e queste determinazioni sono fissate tramite il
linguaggio che è l’autorivelazione dell’idea o del contenuto ragionevole. Il
linguaggio abbraccia però solo una parte dell’insieme, quindi l’altra parte rimane
non compresa, ma è afferrata dalla sovrintelligenza51 come qualcosa negativa e
indeterminata per la nostra capacità di conoscenza, però in sé perfetta e concreta,
elevata tanto sopra il sensoriale quanto sopra l’intelligibile.52
Da
questa
prima
opinione
di
Gioberti
sull’incomprensibilità
dell’essenza segue che ogni concetto comporta un elemento sconosciuto che
impedisce la sistematicità completa tra i concetti, così questi non possono essere
derivati l’uno dall’altro mediante analisi. Tutti i giudizi razionali originari sono
sintetici, tranne la legge di identità: «l’essere è l’essere oppure ciò che è, è».53§ Il
legame tra concetti semplici è sintetico, e i concetti composti sono formati da
aggregati o composizioni di moltiplici semplici, e mediante lo scioglimento di un
concetto composto si può avere un altro, ma ogni scioglimento presuppone una
sintesi originale.54
50
Teorica del Sovranaturale pp. 50–58, 345–349. [Appunto del traduttore. Anche se
la bibliografia alla fine del saggio si riferisce alla seconda edizione della Teorica
(Capolago, 1850), sembra che le pagine 50–58 qui specificate si riferiscano anzi alla
prima edizione (Torino, 1849). Inoltre si veda p. 60 della prima edizione:
«L’apprensione della essenza è adunque la fede di una incognita, anzi che la
intellezione di essa, e la facoltà che la produce può essere considerata piuttosto come
un istinto, che come un ramo della facoltà di conoscere.»]
51 [Appunto del traduttore. Il termine «sovrintelligenza» è definito per esempio nella
Teorica (Torino, 1849): «Io chiamo sovrintelligenza questa facoltà che ci sforza a
credere nella realtà delle essenze sconosciute...» (p. 60), «Tornando alla
sovrintelligenza, si deduce dalle cose dette, che questa pellegrina e misteriosa
facoltà ci addita un ordine di cose che non sono sensibilmente e razionalmente, cioè
naturalmente conoscibili…» (p. 66).]
52
Introduzione p. 137. [Appunto del traduttore. Introduzione II.]
53 [Appunto del traduttore. L’espressione tra virgolette è stata tradotta dallo svedese.
Forse accenna a Parmenide.]
54
Teorica d. S. p. 343–345. Introd. II. p. 239–241. [Appunto del traduttore: «Se
niuna idea nasce per via di generaziene [sic] dall’idea dell’Ente, ne segue, che salvo
Sulla filosofia italiana recente
37
L’idea è l’oggetto principale della filosofia. Gioberti chiama formula
ideale una proposizione che esprime l’idea chiaramente, semplicemente e
precisamente mediante un giudizio. Come ogni giudizio questa deve consistere di
due termini uniti tramite un terzo, e inoltre deve contenire tutti gli elementi integrali
dell’idea (così tutti i concetti possono essere redotti sinteticamente a qualcuno tra
loro) ma niente più. Il costruire della formula ideale si connette col ricercare del
primo filosofico, che quale la prima idea è il primo psicologico e quale il primo
oggetto è il primo ontologico, i quali due sono la stessa cosa. Questo principio
assoluto è il solo fondamento di tutto il reale e tutto il conoscibile. Questo principio
è l’Ente.55
Gioberti osserva che in Rosmini l’essere è solo principio psicologico,
poiché egli si ferma alla riflessione psicologica sull’intuizione, l’ente possibile
presentandosi come il concetto supremo. La riflessione ontologica lascia però
l’intuizione come un mero mezzo e prosegue al contenuto dell’intuizione. Il concetto
supremo allora non è l’ente possibile, perché questo implica una relazione con il
reale, bensì l’ente reale è il concetto supremo e quindi anche il fondamento supremo
di tutto il reale. La percezione quale intuizione diretta del suo oggetto afferra questo
come concreto e reale; la percezione della percezione, ossia la percezione riflessiva,
per contrasto non comprende l’oggetto come reale ma come un contenuto pensabile
o possibile della coscienza. Rosmini, che confondeva l’idea riflessiva con la
percezione, perciò era obbligato a prendere gli elementi concreti o individuanti dal
sensoriale.56
L’uomo non comincia con l’astratto. La maggior parte dei filosofi
moderni considerano astratta la conoscenza dell’ente semplice, 57 cioè dell’Ente
reale, dal che proviene la proposizione, ripetuta in cento libri, che l’idea dell’essere è
una mera astrazione. Questo è vero quanto all’essere possibile, ma l’essere vero è il
di replicazione di tal concetto sopra se stesso significata nel primo membro della
formula ideale, tutti i giudizi razionali sono sintetici.» Introd. II, p. 239.]
55
Introd. II : p. 150–157.
56
Introd. 157–175. [Appunto del traduttore: Introd. II.]
57 [Appunto del traduttore. Burman scrive «enkla varat», qui tradotto come «essere
semplice». L’espressione di Gioberti però, cui si riferisce Burman, non è però
«semplice» ma «schietto». Introd. II, p. 176.]
Erik Olof Burman
38
fondamento di tutto e fonte di sia concretezza sia astrattezza. La concretezza e
l’individualità sono il reale senza l’essere; l’astratezza e la generalità sono l’essere
senza il reale. L’essere reale è la sintesi di queste proprietà. Le prime appartengono
alle esistenze effettive, queste ultime all’essere possibile. Dalle prime provengono
gli oggetti creati, dalle ultime l’idee reflessive.58
L’essenza della percezione intuitiva risiede in quell’atto per cui
l’essere è afferrato, e sia l’affermazione sia la capacità stessa dell’intuizione sono
una conseguenza dell’oggetto o l’ente. Questo dice: io sono necessariamente.
Quando, però, l’intuizione iniziale è oggetto di riflessione, il giudizio riflessivo
nasce: l’Ente è. Questo giudizio è soggettivo, ma ha un valore oggettivo quale
ripetizione semplice del giudizio intuitivo. A questo riguardo la ragione dell’uomo è
davvero la ragione di Dio e quindi possiede un’autorità infallibile. In senso stretto
Dio è il primo filosofo e la filosofia umana è la continuazione e ripetizione di quella
divina. La ripetizione del giudizio oggettivo e divino è il primo anello della filosofia
umana, ma questo ha la sua base nella rivelazione, così il lavoro filosofico ha il suo
inizio in Dio. Da questo si realizza la verità dell’ontologismo.
Per mezzo del linguaggio la verità intuitiva è accessibile per la
riflessione. La parola però è una rivelazione dell’Ente stesso, ovvero la forma in cui
l’Ente veste la sua rivelazione originaria. Da ciò si capisce che «il giudizio divino è
espresso da una proposizione egualmente divina, nella ripetizione riflessiva della
quale consiste il principio, e nella esplicazione il proseguimento della filosofia
umana».59
Nel questo giudizio risiede il principio della formula ideale. Questa
deve consistere di tre concetti. Resta da cercare dunque un altro giudizio che, unito
al primo, ci porga i tre concetti e insieme a questo costituisce un solo giudizio con
coerenza organica. Un concetto che sembra essere in rapporto strettissimo con l’ente
è l’esistenza. Esistere significa in effetti che un ente appare ossia diventa attuale.
Secondo il linguaggio moderno questo fare attuale è un produrre o un creare, anche
se la differenza tra essere ed esistere non è sempre rispettata, come per esempio da
58
p. 176, 452.
178–181. [Appunto del traduttore. La citazione è in corsivo nell’originale di
Gioberti. Introd. II, p. 181.]
59
Sulla filosofia italiana recente
39
Cartesio quando dice cogito, ergo sum. Esistere significa inoltre il concetto di una
sostanza che è potenzialmente contenuta in un’altra e che mediante quest’ultima si
trasforma in attualità e comincia a stare da sola, come si capisce dall’etimologia
della parola (ex-sistere). Esistere dunque comporta il concetto della causalità, così
come sussistere comporta quello della sostanza.
Così, esistenza è la propria realtà di una sostanza attuale, prodotta da
una sostanza distinta che la contiene potenzialmente, in quanto è atta a produrla.60 Il
concetto dell’esistenza è inseparabilmente congiunto con il concetto dell’ente, come
un effetto la cui causa è l’ente.
Se, per trovare come l’esistenza è prodotta dall’ente, si va a posteriori
dall’effetto alla causa, si viene per forza alla conclusione che l’effetto è contenuto
nella causa, e che la produzione è uno sviluppo semplice. Ma questa è un’opinione
panteista e emanista. La teoria della creazione invece è necessariamente di a priori,
poiché la causa può virtualmente comportare l’effetto in due modi. O comporta la
sostanza di questo effetto e solo ha a cambiare la forma, o ricava dal niente sia la
forma sia la sostanza. Ce se ne rende conto che se si va dall’effetto alla causa, si non
arriva all’ente come creante, perché la continuità è interrotta nell’annientare
dell’effetto, prima dell’arrivo alla causa. Si deve esaminare quindi come l’ente crea
l’esistente. Evidentemente, la causalità è il legame che li tiene assieme, e l’essere
quale causa è assoluto, cioè causa prima e creante. La causa non sarebbe la prima, se
ritirasse d’altra parte la sostanzialità del prodotto; la causa non sarebbe creante, se la
contenesse in sé e meramente la sviluppasse. La causa assoluta dunque è creante.
Certo, non è possibile comprendere come il nulla può diventare qualcosa, ma il
sovrintelligibile della creazione ha il suo fondamento nel lato sovrintelligibile
dell’essere.61
Il nostro spirito non intuisce l’essere come astratto e raccolto in sé
stesso, ma come concreto e creante e comprende le cose come il termine della
creazione. ”Lo spirito umano è in ogni istante della sua vita intelletiva spettatore
60
l’esistenza è la realtà […] a produrla. ib. 182–186. [Appunto del traduttore. In
questa nota a piè di pagina Burman cita la frase italiana di Gioberti sulla p. 185, però
senza il corsivo originale.]
61
p. 186–192.
Erik Olof Burman
40
diretto e immediato della creazione.”62 Si non può negare questa proposizione senza
o sopprimere le cose esistenti e abbandonarsi all’idealismo assoluto, o comprenderle
come non create e farsi colpevole di naturalismo, panteismo, emanatismo, oppure
concedere la creazione ma negare l’identità tra il processo soggettivo dell’intuito e il
processo ontologico della cosa stessa. Ma allora l’idea è compresa come qualcosa
soggettivo, che non è più un intuito semplice ma un processo spirituale che muta
l’ordine reale delle cose, il che è assurdo secondo le ricerche effettuate dalla
psicologia scozzese. L’idea non è alcuna forma o immagine della realtà esterna, così
non vediamo la verità in sé ma in noi; al contrario, l’idea è l’oggetto come intuito.
Oggettivamente l’ente crea le cose, e il processo ontologico è identico a quello
psicologico dell’intuito.63
L’analisi del concetto dell’esistenza quindi ha portato al trovare quel
giudizio che, legato con il primo, fornisce i tre concetti richiesti nella formula ideale.
Mediante l’intuito immediato comprendiamo infatti l’ente come causante; assieme al
giudizio divino anche un’azione divina. L’ente dice: «io sono» e inoltre: «io creo»,
perché pensare le cose come reali è per Dio in realtà lo stesso che crearle. Entrambi i
giudizi sono oggettivi, ma l’uno è necessario, l’altro libero; l’uno è un giudizio
speculativo, l’altro un pratico; l’uno si riferisce solo all’ente, l’altro a un termine
estrinseco; l’uno è la base della scienza, l’altro della natura; l’uno ci dà
l’intelligibile, l’altro il sensibile; ambedue insieme costituiscono la personalità
dell’ente. La formula ideale pertanto può essere enunciata così: «l’Ente crea le cose»
(l’Ente crea le esistenze).64 Il soggetto della formula contiene implicitamente il
giudizio: «l’Ente è», e il predicato ugualmente un altro: «le esistenze sono
nell’Ente». Ma se le cose sono nell’ente come sostanza assoluta, perché sono effetti
della causa assoluta, allora sono in sé e dipendono da sé come sostanze e cause
secondarie. La creazione comporta il passaggio dall’ente alle esistenze. L’ordine
62
[Appunto del traduttore. La citazione non è esatta. Riferendosi allo spirito umano,
Gioberti scrive sulla p. 198: «…il quale contempla le esistenze prodotte nell’Ente
producente, ed è in ogni istante …della creazione.»]
63
192–199.
64 [Appunto del traduttore. L’espressione tra parentesi è data in italiano nel saggio di
Burman. È una citazione da Introd. II, p. 201, dove l’originale è in corsivo.]
Sulla filosofia italiana recente
41
delle idee è lo stesso di quello delle cose; ne segue che le cose non sono pensabili
senza l’ente. Il pensiero riflessivo comincia con ciò che risiede il più vicino, vale a
dire le cose sensibili, e così è portato dalle cose all’ente, però questo processo
riflessivo sarebbe impossibile, se non fosse preceduto da un processo intuitivo.
Quale creante l’ente forma l’intuito. La percezione diretta, che l'uomo ha del mondo
e di sé stesso, è l’intuito assiduo di una continua creazione.65
Si viene allo stesso risultato mediante un’analisi del concetto del
contingente, poiché è infatti contingente quello a cui manca la ragione intrinseca
della propria esistenza. Il contingente dunque non può esistere senza il necessario,
ma altrettanto poco si può comprenderlo senza il necessario, poiché solo
paragonandolo con il necessario si può comprendere qualcosa come contingente. Il
necessario invece non presuppone il contingente. Ne consegue che l’ente, cioè il
necessario, è precedente e che l’intuito ci rivela le cose esistenti in quanto sono
prodotte dall’ente. Il necessario metafisico è oggettivo, è effettivamente la ragione
intrinseca della realtà, e questa ragione è l’intelligibilità intrinseca della cosa.
Necessario quindi è ciò che è intelligibile per sé medesimo, vale a dire l’ente, la cui
essenza è l’intelligibilità. Il possibile è l’intelligibile, considerato in astratto rispetto
al pensiero nostro; il contingente è ciò che partecipa nell’intelligibile senza esserlo.
Ce se ne rende conto con quale diritto Platone insegnò, contraddicendo Protagora,
che Dio è la misura di tutto. Per mezzo della creazione l’intelligibilità divina si
comunica alle cose. Come prima causa l’intelligibile infatti porta alla realtà i propri
concetti, che rappresentano gli ordini contingenti. L’intelligibile rischiara i sensibili
poiché li produce.66
La creazione è un fatto a priori, ma non un vero a priori. Non si può
dimostrare la realtà delle cose esistenti, perché allora cesserebbero esistere e
sarebbero un' appartenenza intrinseca dell' ente. I fatti non si possono provarli, ma
percepirli e allora la certezza è fisica. Il quesito della realtà delle cose è
fondalmentalmente quello della loro individualità, e questa è collegata con il
65
200–206. [Appunto del traduttore. La frase «La percezione diretta…continua
creazione», in svedese nel saggio di Burman, è una citazione da Introd. II, p. 206,
dove è in corsivo.]
66
206–208, 462–463.
Erik Olof Burman
42
problema della creazione o è uno con questo. Il generale, considerato in e per sé
stesso, è l’ente necessario, infinito, reale, intelligente che in sé ha tutte le idee delle
cose possibili e la capacità di realizzarle. Individualizzare è creare: l’idea generale è
individualizzata mediante essere recata all’esistenza, che, non potendo essere
infinita, concentra la sua realtà in un punto determinato. L’individuo è l’attuazione
dell’idea e viceversa, poiché la realtà individuale è veduta da noi nell’ente. Il
giudizio «questo corpo è» significa oltre la realtà del corpo stesso anche la sua
connessione con la realtà necessaria. Il giudizio «questo corpo esiste» però è più
esatto esprimendo la derivazione dall’ente. Ogni giudizio dell’esistenza importa il
concetto della creazione. La nostra percezione naturale dei corpi è guardarli come
emergenti da un’immanenza eterna che corrisponde alla loro continuità temporale. Il
concetto dell’esistenza è un composto di un intelligibile e un sensibile nell’atto della
creazione e il suo termine estrinseco. «L' esistenza è adunque il termine estrinseco
dell'atto creativo dell'Ente.»67 Si percepiscono le cose esistenti come reali, poiché
prodotte, e non come prodotte poiché reali. Solo per mezzo del dogma della
creazione si può confutare l’idealismo.68
La creazione si deve intendere solo metaforicamente come un
passaggio dal nulla alla realtà. Inoltre non comporta alcuna relazione con un tempo
anteriore, poiché il tempo presuppone cose che durano. Il concetto essenziale della
creazione consiste nella mancanza di ragione intrinseca per la propria esistenza e la
derivazione di questa ragione dall’ente, che è intimamente presente nelle cose finite,
benché distinto da loro. Che l’uomo è spettatore della creazione dunque non vuol
dire l’intuizione del nulla che diventa qualcosa, ma la comprensione dell’esistenza
come l’opera dell’ente e il contemplare dell’ente come il principio e ragione dei suoi
atti.69
Così, secondo Gioberti, il concetto della creazione è ciò che sparge
luce sugli altri quesiti della filosofia. La formula ideale è il principio della filosofia:
l’Ente crea le cose. La prima domanda è quella della validità del principio stesso.
67
[Appunto del traduttore. Burman cita Introd. II, p. 216, in traduzione svedese.
Nell’originale qualche parola è in corsivo.]
68
208–217.
69
224–226.
Sulla filosofia italiana recente
43
Non si può dimostrarlo a posteriori, perché non si passa dalle cose all’ente, poiché
questi due sono divisi dalla nulla. La creazione è infatti atto infinito, quale passaggio
dal nulla a qualcosa. Non si può dimostrare il principio a priori, poiché essere causa
verso l’esterno non risiede nel concetto dell’ente reale. Allora Gioberti si rifugia
all’intuizione, che non comprende l’ente come astratto e chiuso entro se stesso, ma
come concreto e creante.70 Questo modo di agire chiama l’ontologico, in contrasto
con lo psicologico. «L'ontologista si trasporta nel centro e nel sommo dello scibile,
coglie con una girata d'occhi tutte le attinenze delle cose, contemplandole dall'Ente,
che è la cima e il mezzo dell'universo; laddove il psicologista, locato in un punto
della circonferenza, può solamente squadrarne una piccola parte.»71 Per mezzo delle
ricerche dei filosofi scozzesi considera dimostrato che l’idea non è qualcosa
meramente soggettivo, ma l’oggetto stesso, perché, come in Spinoza, l’ordine delle
idee e quello delle cose coincidono. La filosofia deve partire dal necessario e
assoluto, ma non ci arriva nessuna contemplazione soggettiva, poiché tutte le idee
soggettive sono modi dello spirito umano e pertanto finite e contingenti. Resta allora
andare al contenuto dell’idea per trovare là l’Assoluto, non tramite la riflessione,
perché questa riparte it suo contenuto e lo fa finito, ma mediante l’intuizione che
afferra il totale. La sua certezza non la ha il principio dall’intuizione, bensì facendo
una totalità concordante con le conseguenze. Appartiene alla saggezza filosofica
anche di dar importanza all’esperienza, perché tutto è in qualche modo accessibile
per osservazione, poiché il sensibile è un grado dell’intelligibile.72 Contro «i soliti
razionalisti» Gioberti insegna che il principio non deve essere astratto, perché allora
non sarebbe produttivo, ma concreto, essendo universale allo stesso tempo. La
filosofia dunque non può partire dal concetto dell’ente, perché questo non è
fondamento sia di una chiara e netta comprensione del reale sia della realtà stessa,
bensì deve comprendere l’ente come fondamento in questo senso duale, ma quale
fondamento l’ente è creante e concreto. Se si considera la relazione tra i concetti
soggettivamente, è vero che formano serie di superiori e subordinati, il più astratto
70
71
72
cfr. Introd. II: 192–199.
[Appunto del traduttore. Burman cita Introd. II, p. 194, in traduzione svedese.]
Protol. II: 136.
Erik Olof Burman
44
essendo l’altissimo. Con un tale modo di vedere le cose però non si esce dalla sfera
finita del soggetto, poiché allora si vede i concetti come forme dello spirito umano.
D’altra parte c’è un altro ordine tra i concetti, quando se li vede rispetto al loro
contenuto. Allora si va dal più ampio o dal fondamento (reale) al seguito più
limitato, dunque dal più generico oppure più vasto e più concreto al più specifico e
più pieno, poiché le determinazioni negative hanno importanza solo in una
soggettiva considerazione dei concetti. Si può vederne che Gioberti voleva evitare
sia quella tendenza soggettiva che caratterizza il criticismo, sia quella astrattamente
costruente che appartiene alla sua continuazione, in particolare la filosofia di Hegel.
Ma il metodo «ontologico» si lascia sfuggire che i concetti comportano elementi
soggettivi, poiché oltre alla loro importanza come lati di un percepito sono anche lati
o forme di un percepente. All’estremo contrario va la psicologia soggettiva o
empirica, che si ferma al considerare le percezioni come date fattualmente e alle
leggi delle loro connessioni meccaniche. Un tale esame ha valore per la conoscenza
dell’uomo e degli elementi soggettivi della conoscenza, ma non raggiunge il
contenuto o il vero oggettivo. Tra il metodo psicologico (empirico) e quello
ontologico (dogmatico) sta il metodo critico, che nelle percezioni separa il
soggettivo e poi considera il reale nelle sue connessioni interne. Gioberti entra in
conflitto anche con se stesso, lasciando il principio essere dato mediante
l’intuizione, perché dice che l’intuizione è inconscia e compresa solo servendosi
della riflessione. 73 L’intuito quindi ha il suo carattere di principio mediante la
riflessione, nel senso di formare il punto di partenza per la scienza. D’altra parte, il
principio ha la sua certezza e il suo carattere di fondamento dall’intuito. Secondo
Gioberti la riflessione è meramente un mezzo o uno strumento, per cui il pensiero
immanente o l’intuizione diventa conscio, ma questa conoscenza mediata ha la sua
luce da quella non mediata.74 La riflessione è soggettiva rispetto al contenuto, perché
questo e un astratto, però non quanto alla forma, perché la forma del concetto e la
forma propria del reale. L’opposto vale per l’intuizione. Essa è soggettiva per quanto
riguarda la forma, perché questa è buia e confusa, d’altra parte però non così quanto
73
74
Protol. I: 268–9.
Protol. I: 37.
Sulla filosofia italiana recente
45
al contenuto, poiché questo è la cosa concreta stessa.75 Congiungendo il contenuto
concreto dell’intuito con il concetto astratto, contro la tendenza formalistica in Hegel
e altri, Gioberti ha provato a dare al principio della scienza il carattere duale di base
della conoscenza e del reale, senza farsi colpevole di panteismo. Questa intuizione,
elevata alla coscienza dalla riflessione, è una comprensione finita di un infinito. In
questo sta una differenza tra la forma ossia la percezione e il contenuto ossia la cosa.
Presa logicamente la percezione è principio, presa realmente la cosa è principio. Il
concetto dell’ente quale creante, cioè come sostanza, comprende l’assoluto come
vita. Ciò che è senza alcuna limitazione è vita. Questa è data come concreta nel
sentimento. Principio formale però è anzitutto il concetto generale. La vita concreta
o la persona è il principio reale. Gioberti dice che la scienza è il principio realizzato
e perciò una più completa comprensione della cosa. Con ciò voleva dire che la
percezione astratta in sé non può essere principio, ma solo come forma di un
contenuto, però non distingueva sufficiente tra forma e contenuto. Inoltre Gioberti
giustamente fece osservare che la verità è organica e il proprio criterio. La certezza è
fondamentalmente data mediante la concordanza nella cognizione, non per mezzo di
un momento particolare. Chiama questo la monarchia temperata dei principi, in
contrasto alla monarchia assoluta, che prova a dedurre tutto da un concetto astratto,
e alla democrazia, che mette tutte le scienze come uguali.
In conformità all’opinione dogmatica di Gioberti, non c’è in lui
nessuna gnoseologia compiuta, solo singole cose sulla conoscenza, solitamente
come conseguenze di ricerche metafisiche. La conoscenza è una relazione e
comporta un nesso interno tra soggetto e oggetto. Ogni relazione presuppone una
coscienza e quindi è intelligibile; i suoi membri sono coscienza. La relazione
assoluta è l’identità stessa.76 Solo Dio ha la conoscenza assoluta e comprende le cose
in sé. L’uomo invece sta, per così dire, alla periferia e vede solo parzialmente, ma
tuttavia ha conoscenza oggettiva, ovvero afferra l’oggetto in sé, anche se in modo
non adeguato. La conoscenza sensibile afferra l’oggetto solo nella sua relazione al
soggetto. Questa relazione è il sensibile. L’intelligibile è l’oggettivo puro, il
sensibile quello misto. La conoscenza sensibile sta tra la conoscenza soggettiva di
75
76
Protol. II: 225.
Protol I: 303; 372.
Erik Olof Burman
46
Kant e quella oggettiva dei dogmatici. Il sensibile è afferrato indirettamente, perché
è creato dal relativamente intelligibile, come questo è creato dall’idea.77 L’ente
intelligibile crea la capacità della conoscenza umana mediante un’attività immanente
e continua. Come l’effetto è nella sua causa, il pensiero immanente (l’intuizione) è
nell’ente, ma non è identico a esso, come supponeva Hegel. Questa intuizione è una
potenza concreta, oppure l’attività stessa. Limitando se stesso, l’intelligibile relativo
crea il sensibile. Il sensibile è il limite temporario dell’intelligibile relativo, la sua
forma negativa e non sviluppata e infine la relazione dell’intelligibile relativo con
l’intelligente relativo, vale a dire tra la natura e lo spirito umano.78 La sensibilità è la
potenza conscia al suo più basso grado di sviluppo. Ci sono tre facoltà conoscitive:
la sensibilità, la percezione e la ragione.79§ Ma la sensibilità non dà conoscenza
effettiva. Il sensibile diventa oggetto di conoscenza solo in connessione con
l’intelligibile che forma il nesso tra l’oggette e l’essere;80 come l’intuizione è una
cognizione indistinta dell’idea, il senso è una cognizione confusa della coscienza
creata (metessi) e la natura. Questa cognizione difettosa che nasce a causa di che il
senso è un intelletto non sviluppato e lo sviluppo cosmico è imperfetto, crea il
sensibile (mimesi).81
Da questi accenni si può vedere che Gioberti provava a guadagnare
una comprensione razionale della conoscenza, rigettando sia il sensualismo sia il
razionalismo astratto e comprendendo la conoscenza vera e propria come una
relazione immanente tra coscienze. Solo in Dio scompare tutto l’opposto tra
soggetto e oggetto, ma per l’uomo nasce accanto al conscio e al personale un
inconscio e impersonale, che si può comprendere solo mediante la sua base o
ragione. Dentro la conoscenza umana dunque si ha contrari per quanto riguarda sia
la forma sia il contenuto. Contro la cognizione concettuale sta quella buia, e accanto
a un contenuto indipendente sta un dipendente. Sia l’intuito sia il senso sono
cognizioni bui, ma sono opposti per quanto riguarda il contenuto. L’oggetto del
77
Protol II: 24, 132, 248–9.
Protol I: 175. II: 183.
79 [Appunto del traduttore. Qui, nel corpo del testo svedese, c’è tra parentesi questa
espressione italiana: «(sensibilità, percezione e razione o mente)».]
80
Protol. I: 459, 261.
81
Ib. II: 12.
78
Sulla filosofia italiana recente
47
primo è eterno e immutabile, quello di quest’ultimo al contrario è variabile e
passeggero. Nei suoi primi scritti Gioberti si avvicina più a Jacobi, negando
ragionevole conoscenza dell’assoluto; nella protologia ammette però un’oggettiva,
anche se non completamente adeguata, conoscenza di Dio. Nella protologia tuttavia
si avvicina a Jacobi accentuando più fortamente un contenuto non sensibile nella
coscienza e nell’esperienza.
Gioberti stesso dà molta importanza alla differenza tra il contenuto
eterno e quello immanente nell’uomo da un lato e quello successivo e variabile
dall’altro. L’uomo è creato da Dio, ma creare è pensare, quindi egli è un pensiero in
Dio. Questo pensiero è immanente in Dio è penetra se stesso, dunque è
un’autocoscienza che ha Dio come contenuto. In questa coscienza, la coscienza
immanente (oppure il pensiero), che è rivolta verso l’assoluto e più precisamente è
l’attività propria dell’assoluto, è divisa dalla coscienza successiva, che è una
reazione dello spirito in una serie di atti individuali. La coscienza immanente è
totalmente oggettiva; al contrario quella successiva introduce elementi soggettivi.82
Gioberti comprende attività in un senso così vasto che in ciò è inclusa
anche una forma di esistenza che non è discreta o comporta passaggio da una forma
a un’altra. In contrasto con l’esanime e il dipendente, l’attivo ha la qualità di essere
fondamento, ma l’attività è una forma finita della relazione tra il fondamento e le
sue conseguenze, poiché il fondamento attivo si trasforma solo parzialmente nelle
sue manifestazioni. Il fondamento assoluto non può essere attivo. Gioberti non mise
in evidenza sufficientemente il contrasto tra l’attività quale forma difettosa e il
contenuto, sempre in certo qual modo elevato sopra l’attività, anche se egli stesso
sopra Eraclito mette Platone, che dimostra che il fiume universale delle cose
presuppone un costante come fondamento. Inoltre Gioberti dimostrò giustamente
che il pensiero successivo presuppone un’unità originaria e comprendeva questa
come oggettiva e come un contenuto divino nell’uomo, però non accentuò
sufficientemente il contrasto tra questo contenuto invariabile e la successiva
comprensione umana di questo. L’eterno è compreso dall’uomo, ma in forma
variabile, così come comprende l’infinito in forma finita. La base di tutta la vita e
82
Protol. I: 167, 173. II: 308.
Erik Olof Burman
48
coscienza attiva dell’uomo è la sua determinazione totale e invariabile dall’assoluto.
La cognizione di questa determinazione Gioberti la chiama intuizione e la
comprende come inconscia senza assistenza della riflessione, anche se in molti
luoghi la avvinca troppo alla conoscenza concettuale mettendola in contrasto con
quest’ultima. Nella sua prima speculazione, Gioberti rinnega la conoscenza
dell’essenza. L’uomo intuisce la creazione, cioè vede che le cose sono temporanee e
che il finito presuppone un infinito, ma è sconosciuto che sia l’assoluto in sé, e
altrettanto sconosciute sono le cose in sé, quando la loro base è sconosciuta. I
concetti vengono quindi in relazione esterna l’uno all’altro, poiché la loro unità è
inaccessibile alla riflessione. Anche secondo la protologia la conoscenza è
comprensione di relazioni e tutti i giudizi sono sintetici, poiché sono una divisione
dell’idea assoluta, ma che cosa questa è nella sua più semplice unità non può
comprendere l’intelletto finito. 83 La conoscenza dell’ente in sé è un’analogia
indeterminata. 84 Ma tuttavia l’intuizione è un’unità analitica, mediante la quale
l’uomo comprende il tutto e i giudizi sintetici sono possibili, poiché molteplicità
presuppone unità. Allo stesso modo la conoscenza comporta identità almeno relativa
tra soggetto e oggetto, così l’uomo può concludere dalla natura del proprio pensiero
a quello85 di Dio. Evidentemente, per Gioberti la difficoltà qui risiede nella ricerca
insufficiente della relazione tra il principio formale e quello reale della filosofia.
Ammette egli stesso che ogni relazione presuppone un intero e che questo comune è
la coscienza. La coscienza è fondamentalmente intuizione och questa è un’unità
analitica. I concetti dunque hanno la loro unità nella coscienza, e in questa, quale
totalità, sono compresi sia l’assoluto sia il relativo, perché la conoscenza dell’ente
non deve fermarsi ad analogie. In ciò ha ragione però che la conoscenza umana
dell’ente è difettosa, poiché è astratta e perciò solo capisce lati, perché l’uomo si
rende bene conto che l’ente è concreto ma non capisce come è concretamente
costituito. Per il resto Gioberti stesso va all’estremo opposto comprendendo
l’intuizione come puramente oggettiva, poiché l’oggettività si riferisce anche alla
83
Prot. I: 203. cfr. Teorica del Sovranaturale p. 343–345.
ib. II: 42.
85 [Appunto del traduttore. Il testo svedese è ambiguo. “…dalla natura del proprio
pensiero a quello di Dio”, cioè al pensiero di Dio, potrebbe essere invece “…a quella
di Dio”, cioè alla natura del pensare di Dio.]
84
Sulla filosofia italiana recente
49
forma della cognizione e, come amette egli stesso, la forma della intuizione è finita o
soggettiva.
Sicuramente la dottrina di Gioberti dello spazio e del tempo, o del
cronotopo come chiama la loro combinazione, sta in stretta connessione con la sua
gnoseologia, ma solo dando certe presupposizioni metafisiche per la comprensione
razionale della conoscenza, non come ricerca propedeutica per questa. Esamiamo
perché la sua opinione dello spazio e del tempo nel contesto della teoria della
creazione.
Solo a mezzo di ricerche gnoseologiche è possibile una metafisica
razionale. Quale filosofante l’uomo cerca la verità. Verità è, come dice Rosmini, la
comprensione di ciò che è. La filosofia dunque cerche ciò che è l’ente da tutti gli
aspetti, ovvero l’assoluto, per spiegare mediante questo ciò che è nonesistente a
qualche riguardo, vale a dire l’ente affetto da limitazioni. Che qualcosa è per l’uomo
significa che è percepito da egli. Ciò che l’uomo fondamentalmente prova a spiegare
è quella mancanza di sensazioni o di coscienza constante che trova in se stesso.
L’esame delle sensazioni dimostra che presuppongono una coscienza, che il
concetto è la forma adeguata per questa coscienza e, infine, che la realtà afferata nel
concetto anche deve essere coscienza per essere reale. L’ente assoluto dunque è la
coscienza conforme al concetto, elevata sopra lo spazio e il tempo. Se Gioberti
arrivò allo stesso risultato senza ricerche precedenti della conoscenza, e del
riferimento all’ente indipendente che risiede in quest’ultima, questo dipende dal
fatto che partì dalla dottrina positiva della religione. Secondo lui la filosofia deve
adottare e sviluppare quella opinione che la dottrina religiosa indica, allo stesso
modo che la riflessione elabora l’intuito.86 Secondo lui l’osservazione (psicologica)
delle sensazioni non comporta nessun riferimento a un assoluto, perché quel
soggetto che presuppongono è sensuale. L’idea è il pensiero pensato, ma il pensiero
pensante, ossia l’autocoscienza, è sensazione. 87 La coscienza finita non può
comprendere se stessa con il pensiero. Nel sentimento è data la realtà concreta che
essa afferra astrattamente nel concetto. Gioberti parte direttamente dall’intutizione
del dato come dipendente e presupponente un indipendente o l’ente. Questa
86
87
Protol. I: 185.
Protol. I: 245. II: 43.
Erik Olof Burman
50
intuizione lascia la formula ideale: «l’Ente crea le cose», e con ciò egli sta in mezzo
alla metafisica. Consideriamo più dettagliatamente questa presunta intuizione,
l’analisi che Gioberti ne fa appare abbastanza mistica. L’intuizione non è un
giudizio, dice, poiché non comporta coscienza. L’ente afferrato dall’intuito è una
semplice percezione. Nell’intuizione risiede però un giudizio oggettivo, poiché
l’assoluto si presenta allo spirito umano a mezzo del giudizio «io sono». Poi questo
giudizio, come tramite riflessione, è afferrato dall’intelletto, che forma il giudizio
«l’assoluto è». 88 Sicuramente è vero che l’assoluto, che è la base esterna del
percepire umano, appare in questo percepire prima in una forma che non sarebbe un
giudizio, ma tuttavia si distingue dalle sensazioni in quanto alla sua indipendenza.
Così pure si può chiamare questa apparizione dell’assoluto una rivelazione, poiché
in questa l’uomo afferra qualcosa che lo supera infinitamente. Non ne segue però
che un giudizio divino è dato nel sentimento, prima del giudizio in cui l’uomo affera
e pronuncia l’assoluto. Senza dubbio ci risiede nel giudizio «io sono» un’assoluta
posizione di un contenuto assoluto e in tal senso il giudizio è fondamentalmente
possibile per mezzo della rivelazione del divino, ma per l’intelletto umano. Secondo
Gioberti essere = agire e agire = pensare. Che l’assoluto dunque è afferrato come
personale dal sentimento religioso può essere caratterizzato così che l’assoluto
appare
come
giudicante
(pensante)
e
come
pensante
se
stesso,
ossia
fondamentalmente come autocoscienza assoluta, il quale perciò non è messa
dall’uomo nella sensazione di Dio, bensì è data lì per mezzo della identità (relativa)
che ha luogo tra Dio quale causa e la coscienza finita come effetto. Non ha Gioberti
però giustificato il suo principio tramite analisi del sentimento religioso, perché, in
senso stretto, non potrebbe dire più che ci deve essere un ente assoluto, poiché è
dato un relativo, ma che cosa è questo assoluto non è dato con ciò. Secondo Gioberti
anche la riflessione, o l’intelletto, comincia con il giudizio «l’Ente è», e va da questo
al giudizio «l’Ente crea». Ma anche se il principio stesso non dice molto, nel
ragionamento successivo Gioberti prende un più alto punto di vista, comprendendo
tutta la realtà come vivente e autocosciente. «Ogni realtà è coscienza o potenziale o
attuale e compiuta. La realtà infatti non è tale se non possiede se stessa, se in sè non
88
Protol. I: 102, 168–9.
Sulla filosofia italiana recente
51
si riflette, se non è identica a se medesima. Questa medesimezza e riflessione
intrinseca è la coscienza. Dunque coscienza e realtà sono sinonimi.89 Fuor della
coscienza non vi ha nullla, nè nulla può essere. Esistenza, pensiero, coscienza è
tutt’uno. I varii gradi e stati e processi della realtà non sono altro che quelli della
coscienza. E la coscienza è l’anima; dunque l’anima è tutto. Questo psicologismo
trascendente è il vero ontologismo.» 90 Determinando l’essenza del reale come
autocoscienza Gioberti prende il punto di vista idealistico. In quanto alla
determinazione della forma del reale però non è altrettanto fortunato, comprendendo
questa forma come attività.
Comunque, come abbiamo visto sopra, egli comprende questa attività
in tal modo che successione e cambiamento non risiedono nel suo concetto, ma solo
appartengono all’ambito finito, perché Gioberti con questa supposizione non sbarra
la via a una concezione razionalistica del mondo. Per quanto riguarda, in primo
luogo, l’assoluto, è autocoscienza assoluta ossia persona e, quale tale, pura attualità,
intelligibilità e intelligenza.91 La personalità, Gioberti dice, è l’attività pensante che
penetra se medesima e consiste di tre elementi: 1° unità sostanziale; 2° sostanzialità
attiva e pensante; 3° un’attività e un pensiero che penetrano loro stessi. L’attività
primitiva e il pensiero primitivo formano un singolo atto con un termine duale: se
stesso e l’Ente. Rosmini invece giudicava che la coscienza si capisce solo mediante
un atto secondo. Questo vale per la coscienza per quanto si riferisca a oggetti
particolari, ma non per la coscienza primitiva che si riferisce all’ente universale.92
Un’idea impersonale è una contraddizione. Un ideale che è sostanziale e reale deve
avere l’idea di se stesso. Dio è idea e quindi personale. L’idea comporta l’iterazione
di se stessa, tuttavia con identità. La personalità perfetta comporta infinità. La nostra
personalità è finita, perché non come Dio intuisce se stessa, bensì comporta
89
[Appunto del traduttore. La citazione tra virgolette è data in svedese da Burman.
Corrisponde bene al testo di Gioberti, eccetto che Burman qui salta questa
proposizione: «Dio e l’universo son del pari coscienza; l’una infinita attualmente e
l’altra potenzialmente.» Inoltre, nella prima proposizione della citazione, Gioberti
scrive «…o iniziale e potenziale o attuale e compiuta.»]
90
Protol. II: 725 cfr. ib I: 251, 263, 265, 270, 282, 307, 365, 587. ib II: 44, 49, 57,
85–6, 90, 117, 132–3.
91
Protol. I: 163.
92
Protol. I: 172–3.
Erik Olof Burman
52
riflessione (percezione discorsiva). Persona è unità concreta e individuale. Appare
per noi come relazione, poiché è il sostrato concreto di relazioni che formano
l’individuo. Nell’ambito sensibile (mimesi) i membri della relazione sembrano
assoluti, e la relazione stessa pare una connessione astratta tra questi, ma dentro
l’ambito razionale (metessi) la base della relazione è l’assoluto, e i membri sono le
sue determinazioni. Il positivo che risiede nella personalità e nella individualità è
razionale, il difettoso e limitante appartiene al sensibile.93 Considerando l’assoluto
autocoscienza concreta o persona, Gioberti si è elevato sopra il panteismo, contro il
quale si rivolge in molti luoghi. Tuttavia sembra poco fortunato comprendere Dio
come concreto a causa di essere relazione. Perché secondo il linguaggio comune
relazione significa essere in due o più cose in tal modo che ciascuna delle altre è
modificata. Evidentemente però Gioberti intende 94 con relazione una sostanza
concreta, che comprende una molteplicità di determinazioni. Di conseguenza, per lui
la filosofia è una scienza di relazioni. La conoscenza assoluta dell’assoluto è la
filosofia divina. La conoscenza relativa dell’assoluto è la filosofia umana creata.
Questa relatività dell’assoluto consta del fatto che l’assoluto non è afferrato in e per
sé, ma come base del relativo.95 Anche Dio è per sé sostanza concreta, oppure, come
si esprime Gioberti, relazione. Non abbiamo però conoscenza della molteplicità che
è il suo contenuto, a differenza del finito. Nella religione rivelata però la dottrina
della Trinità ne dà informazione. A questo proposito è da osservare però che
all’assoluto si deve riferire tutto il reale così come il suo contenuto, e dentro questo
contenuto non si può distinguere tra due tipi coordinati, un contenuto finito e uno
infinito. Perché tutto il contenuto in Dio è infinito quale la sua determinazione, ma
preso in sé è finito, il che si può esprimere anche in tal modo che ogni momento del
mondo di Dio è infinito quale idea, ma finito quale persona.
Come osservato da Gioberti, relazione presuppone una coscienza
concreta come la totalità, dentro cui cadono i membri della relazione. La relazione
reale è interazione. La relazione tra l’assoluto e il relativo è una relazione sui
generis, che esamineremo più attentamente in seguito. L’assoluto è inoltre, quale
93
Protol. I: 609 II: 208–9.
Protol. I: 279–316.
95
Protol. I: 194, 404.
94
Sulla filosofia italiana recente
53
persona, attualità pura. Ad extra Dio è potenza assoluta. Attualità è, secondo
Gioberti, lo stesso come attività, e attività è pensare. Nella percezione di Dio però
non ha luogo nessun cambiamento, perché non c’è niente di potenziale che potrebbe
essere cambiato. L’assoluto dunque è puro pensare. Che Gioberti comprende
l’assoluto come immutabile appare anche dal fatto che combatte Hegel che
«considerando il processo come l’essenza del pensiero assoluto, è in sostanza
sensista, poichè fa del vero e dell’assoluto stesso una cosa che non è, ma diventa. Le
obbiezioni contro i sensisti sono applicabili al suo sistema.96 Platone e Aristotile
sovrastanno di gran lunga all’Hegel; giacchè l’uno pone l’essenza dell’Ente
nell’immutabilità, e l’altro nell’atto puro. La prima esclude il processo, l’altro
importa la vita. L’Ente agente è la vita immutabile, sola degna di Dio.»97 Che
Gioberti non ha sufficientemente analizzato il concetto dell’attività appare anche dal
fatto che, nel ragione finita (metessi) che è elevata sopra il tempo, presume una
progressione o transizione da potenza in atto che non comporta successione ed è
continua. Questo progresso appartiene all’intelligibile ed è modellato dal progresso
logico. Il progresso sensibile e successivo presuppone questo, perché la successione
è il continuo.98 Sicuramente è vero che la ragione finita, senza essere nel tempo essa
stessa, tuttavia può comprendere una molteplicità di gradi, e che questi, per quanto
razionali, sono continui e simultanei poiché tutti, essendo l’essenza stessa da un
certo lato, stanno in connessione organica o risiedono gli inferiori nei superiori, così
l’altissimo comprende tutti, e che questa relazione è la stessa che la relazione interna
dei concetti. Questo vale però per i gradi considerati dall’altissimo punto di vista, o
dal proprio concetto dell’essenza. Per l’essenza medesima però, afferrata sotto un
grado più basso, i gradi individuali sono contrari l’uno all’altro, l’inferiore
escludendo il superiore, e quindi anche discreti, perché la genesi dell’uno
96
[Appunto del traduttore. La citazione tra virgolette, tradotta in svedese,
corrisponde al testo di Gioberti (Protol. I, p. 383), eccetto che dopo «…al suo
sistema» Burman salta il passaggio che segue: «Platone l’ha combattuto nel Teeteto.
L’Egelianismo per questo rispetto è il sistema di Eraclito e di Protagora. Esso ha
tornato la filosofia al suo stato presocratico.» Nella prima proposizione della
citazione, Burman scrive «empirist» («empirista») invece «sensist» («sensista»)
come Gioberti.
97
Protol. I: 383. [Appunto del traduttore. Protol. I: 382–383.]
98
Protol. II: 247.
Erik Olof Burman
54
presuppone la destruzione dell’altro. Con ciò è dato anche il tempo come la forma
(soggettiva) del progresso da un grado a un altro. Dal punto di vista del grado
inferiore il progresso dal grado inferiore a quello superiore corrisponde al processo
logico, per quanto vada da ciò che è attualmente più astratto a quello più ampio, e
questo progresso è successivo; d’altronde, dal proprio punto di vista dell’essenza la
relazione dei gradi corrisponde al sistema attuale dei concetti. Allo stesso modo che
il concetto, secondo la sua natura, esclude relazioni temporali, ma nondimeno può
riferirsi a gradi inferiori che, da un inferiore punto di vista, stanno in relazione
temporale l’uno all’altro, così può anche quel contenuto che da un certo punto di
vista appare nella forma dell’attività e del tempo, da un altro essere considerato
come costante e immutabile. Nella ragione finita quindi si può pensare la relazione
dei gradi o come discreta e successiva, o organica e simultanea, ma se entrambe le
forme sono considerate attività, allora perde questa parola tutto il proprio significato
e significa solo l’apparizione dell’essenza in certe forme sorgenti dall’essenza
stessa, senza si dice con ciò in che relazione queste forme stanno l’una all’altra.
Comprendendo l’assoluto come attivo, Gioberti dunque non dice niente, poiché
toglie all’attività quella determinazione attraverso la quale è una determinata forma
di esistenza, ma, certo, così si avvicina troppo a una comprensione empirica
dell’assoluto, per il che è indotto ad applicare analogie sensibili direttamente
all’assoluto.
Per sé Dio è persona concreta e individuale. A noi però egli appare
solo in relazione al finito. Secondo Gioberti non abbiamo dunque conoscenza di Dio
come è in sé, bensì solo come appare in relazione con noi, oppure come base
coscienza del finito, vale a dire come Creatore. La creazione costituisce il passaggio
dall’assoluto al relativo è non può essere dimostrata, perché allora non fosse libera.
«Ma che la teoria della creazione è la sola ipotesi che non conduce ad assurdità, è
una verità triviale.»99 Si non può dedurre il relativo dall’assoluto, poiché nell’ente
infinito non risiede nessun riferimento a qualcos’altro. Ma la creazione è un fatto,
99
Introd. II: 195. [Appunto del traduttore. Il riferimento è falso. Non si trova a p.
195 qualcosa di simile alla citazione data da Burman in svedese. A p. 197 Gioberti
scrive che segue: «Che la creazione sia il solo modo, con cui si possa spiegare
l'origine delle esistenze, e che ogni altra ipotesi conduca a manifesti assurdi, è
sentenza troppo nota e triviale… »
Sulla filosofia italiana recente
poiché comprendiamo l’esistente come
55
momentaneo e individuale, cioè
comprendiamo una base e un principio formante per le cose. Nell’assoluto stesso
risiede la sua possibilità, senza che l’assoluto viene in relazione diretta con il finito a
mezzo di questa. Tra l’assolutamente reale e il reale momentaneo e finito Gioberti
inserisce come mediazione la possibilità infinita. Dio è ad extra potentia assoluta. La
potenzialità pura è la capacità semplice di strappare dal niente l’effetto senza
contenere in alcun modo la sua sostanzialità. Questa potenza è infinita, necessaria e
identica all’Assoluto. Nell’uomo potenza è la capacità di riprodurre la caratteristica
dell’intuizione per mezzo della riflessione. Nella natura la potenza è la preesistenza
virtuale che appartiene all’essenza delle cose. Tra la pura potenzialità e la pura
attualità100 che sono entrambe intelligibili, sta il sensibile che è actus incompiuto.101
Dio è la possibilità infinita del mondo; questa possibilità è una realtà necessaria e
infinita. La potenziale infinità del mondo è Dio stesso. La possibilità è la pensabilità
attiva, un intelletto che comprende, e una voglia che può realizzare. Quale la
possibilità del mondo dunque Dio è intelletto attivo. Da un altro lato, questo
intelletto è idea; l’universo infinito è idea, ma quale idea è possibile, non reale.102
Nella spiegazione della relazione tra l’assoluto e il relativo i problemi
si accumulano per Gioberti. Al suo punto di vista precedente mise i due in una
semplice relazione esterna di causalità, in conformità al modo teologico di vedere le
cose. Nella Protologia invece si svela dappertutto l’influenza di Hegel nell’impegno
di dedurre dialetticamente il finito dall’infinito, però sostenendo quest’ultimo come
originariamente concreto. Quando si aggiunge l’analisi insufficiente dei concetti di
cui si serve e l’assenza di metodo logico, la sua opinione è spesso enigmatica e
contraddittoria. Quale fondamento Dio è intelletto attivo. La creazione è un giudizio.
Ma come l’ideale e il reale coincidono in Dio, anche la creazione è simultaneamente
giudizio e atto. Ma il reale, posto o pensato mediante la creazione, non corrisponde
100
[Appunto del traduttore. Gioberti scrive «fra la potenza pura e l’atto puro»
(Protol. II: 409), mentre Burman usa parole svedesi un po’ più astratte:
«potentialiteten» e «aktualiteten». «Potenza» e «atto» corrispondono nello svedese
più esattamente a «potens» e «akt» (o «handling»).
101
Protol. II: 407–9.
102
Protol. I: 440.
Erik Olof Burman
56
all’ideale come ideale, ma come possibile, e in tal modo nasce la realtà temporanea.
Nel concetto della possibilità risiede la mediazione.
Secondo Gioberti la creazione è quel principio dialettico che unisce
l’assoluto con il determinato. La determinazione compiuta è l’atto assoluto;
l’attualità assoluta esclude ogni limite. Ciò che ci dà l’idea dell’assoluto determinato
e personale è l’atto infinito, e questo è la creazione sostanziale. L’assoluto è
indeterminato, se compreso come sostanza pura; ma è determinato, se compreso
come causa.103 La creazione è individuale, concreta e personale, è il Verbo per quem
omnia facta sunt; Cristo è la sua incarnazione. La creazione individuale è il
mediatore necessario tra Dio e l’uomo; così si evita il panteismo.104
Che la creazione, quale attività, solo è una determinazione interna
dell’assoluto, abbiamo visto sopra. L’assoluto è astratto, se non compreso in una
molteplicità di determinazioni. Che questa determinazione interna dell’assoluto,
considerata di per sé, è il Verbo e che questo è dato per emanazione, riteniamo di
non avere bisogno di sviluppare dettagliatamente qui, poiché queste dottrine sono
prese dalla teologia. Resta a vedere però se si possa riferire la realtà finita
all’assoluto come la sua determinazione. Secondo Gioberti, certo l’assoluto
determina il relativo, ma non è esso stesso determinato da quest’ultimo. Questo
dipende dal suo vacillamento tra opinioni diverse, che non sa conciliare. Da un lato
vuole comprendere l’assoluto come concreto, ma d’altro tenerlo sufficiente
incontaminato dal finito, a seguito di che le sostanze finite cadono fuori
dell’assoluto. Senza la creazione Dio sarebbe meramente la sostanza astratta di
Spinoza, ma quale creante non deve stare in relazione immanente con il mondo.
Come Gioberti riesce a conciliare queste pretese vedremo compiendo il suo
ragionamento il più logicamente possibile.
L’assoluto è pura attualità; nella medesima non c’è niente che è
immaturo o permette cambiamento. Ma è inoltre potenzialità assoluta, tuttavia non
nel senso che ha di solito questa parola, bensì nel senso che è fondamento assoluto
del suo contenuto. Il contenuto dell’assoluto non è dato prima e indipendentemente
dell’Assoluto, così questo fosse l’unità astratta delle sue determinazioni. Questo non
103
104
Protol. I: 404, 437. cfr. Acri: Critica p. 94; Fiorentino: Filosofia contemp. p. 297.
Protol. I: 457, 491.
Sulla filosofia italiana recente
57
impedisce però che le determinazioni, nonostante che siano in primo luogo pensieri
di Dio, esistano anche per sé, perché essere autocosciente è nella natura del pensiero.
Sicuramente Gioberti avrebbe potuto far osservare di più questa indipendenza
secondaria del contenuto di Dio, eppure è indicata da lui in molti luoghi. Tuttavia si
avvicina troppo al modo realistico di pensare, comprendendo potentia come la
capacità di dare o non dare realtà a qualcosa. Certo è vero che Dio è libero, però in
quel senso che tutto che egli è ha il suo fondamente in lui stesso, ma non nel senso
di libertà di scelta. In Dio non ci sono basi di determinazione opposte, perché in lui
non c’è nessun contrario, dunque nessuna scelta. Così pure Gioberti si fa colpevole
di inconseguenza, dicendo in un passaggio che potentia pura è identica con actus
purus, dopo aver detto un paio di pagine prima: potentia pura e actus purus sono i
due estremi; quella è il creato al suo più basso grado, questo il creatore. 105
Probabilmente intende però nell’uno luogo la potenza dell’assoluto e nell’altro
quella della natura. Quanto ai concetti potentia e actus Gioberti da poca importanza
alla corrispondenza tra forma e contenuto, ma li vede dal punto di vista dell’attività.
Actus puro è l’essenza, per quanto dia se stesso la sua determinazione e quindi sia
fondamento assoluto per questa o potentia pura. Tuttavia, nel linguaggio comune
l’essenza è potentia, per quanto quella medesima non sia il fondamento della sua
determinazione, ma ha avuto da qualcos’altro una forma più bassa che esige la sua
essenza. Gioberti dice anche che nell’assoluto sono divisi solo ad extra. Si può
infatti considerare il contenuto dell’assoluto come la sua determinazione e in quel
senso è actus puro, ma anche come una realtà posta per sé (le persone finite) e in
relazione con queste l’assoluto è potentia pura. Inoltre l’assoluto è la possibilità del
finito. Che ne intende Gioberti è piuttosto buio. Da un lato parla dall’assoluto come
l’idea semplice, nel qual caso l’assoluto quale determinabile può avere
determinazioni più dettagliate. Questo sarebbe la possibilità logica. Dall’altro
comprende il sensibile come coelemento dell’intelligibile, come quell’elemento per
cui l’intelligibile assoluto diventa relativo.106 In questo caso il sensibile diventa
105
Protol. II: p. 407 e 404. [Appunto del traduttore. Burman scrive «407 o. 404».]
Protol. II: 15. [Appunto del traduttore. Riferendosi alla specie umana Gioberti
scrive: «La specie è perciò una sintesi dei due elementi. Il sensibile è il coelemento
dell’intelligibile, è l’elemento per cui l’intelligibile assoluto diventa relativo.»]
106
Erik Olof Burman
58
grado in relazione al reale assoluto, ma un complementum realitatis§ in relazione
all’idea come la pura possibilità. I gradi individuali non possono infatti risultare
dalla possibilità pura, bensì presuppongono un primo motore, come insegnava
Aristotele. In questo caso l’assoluto fosse la possibilità reale del finito. Oltre a questi
due punti di vista, che sono compiuti in Hegel, Gioberti prova a elevarsi
comprendendo la possibilità come intelletto. Quanto all’intelletto umano vale però
che questo, come relativamente astratto, è in certo qual modo determinabile.
L’intelletto trova effettivamente contro a sé un materiale che non può penetrare
completamente, ma deve essere modificato e determinato nelle sue espressioni da
questo materiale, come si vede dalla mancanza di sistematica nei concetti sensibili.
Se fossero dati interamente dall’intelletto, sarebbero assolutamente sistematici. Il
nostro intelletto dunque è in certa misura la possibilità logica delle sue
determinazioni. La loro possibilità reale certo non è l’intelletto, come percepente in
modo completamente attuale, ma l’intera capacità di conoscenza, per quanto i
pensieri siano gli altissimi gradi della percezione. Come Gioberti stesso fa osservare
però, l’assoluto preso per sé è interamente concreto e attuale; pertanto non può avere
alcune determinazioni di estensione o essere possibilità logica, neppure
determinazioni di grado o essere possibilità reale in relazione con l’infinito. Gioberti
pone la possibilità ora al contrario della realtà ora come una con la medesima.
Che cosa egli intende con la realtà non ha determinato precisamente. In
Dio il reale e uno con l’ideale. Quando l’ideale è ciò che è per una coscienza, ed
essere per sé o essere in genere sempre comporta una relazione con una coscienza,
dopo aver detto una volta che essere è autocoscienza e questa essere-per-sé, la
coscienza stessa rimane quale il reale. Per analogia con il finito si può chiamare atto
la forma della coscienza medesima, quando si comprende la coscienza come
determinante il suo oggetto, e giudizio quando si comprende l’oggetto come
determinante la coscienza o costituente un pensiero. Attraverso l’atto si ha la forma
di qualcosa percepito, attraverso il giudizio la forma di un percepente. Secondo
Gioberti il reale e l’ideale, la coscienza e il suo oggetto, coincidono nell’assoluto,
così come anche l’atto e il giudizio.
L’idea è il concetto concreto del soggetto assoluto o la realtà, e il
concetto è identico alla cosa. Quale pensiero concreto però l’idea è un sistema di
Sulla filosofia italiana recente
59
concetti. Questi devono essere reali o soggetti. Questi soggetti si distinguono però
dal soggetto assoluto in tal modo che sono relativi o hanno la loro realtà per via
dell’assoluto. Dunque, non sono identici all’idea, per quanto siano considerati reali.
Se al contrario sono considerati dal punto di vista formale, come momenti dell’idea
o come pensieri di Dio devono essere forme della Coscienza Assoluta e concordare
con questa. La concordanza del contenuto con una coscienza però è la possibilità
gnoseologica. Dal punto di vista formale, la realtà finita è la propria determinazione
dell’assoluto o l’assoluto stesso compreso formalmente. Il finito considerato come
possibile, cioè dato in una coscienza, quindi è l’assoluto stesso. Come possibilità il
finito è infinito, perché come percezione nella coscienza assoluta non subisce
nessuna limitazione o mancanza; invece, come reale o personale è finito. Ci sono
dunque due tipi di realtà, una alla quale l’idea è identica, e una a cui sta come la sua
possibilità. Come abbiamo dimostrato però, questa possibilità non comporta
determinabilità, perciò non è possibilità logica o fenomenologica (potenzialità) ma
gnoseologica. In Gioberti la creazione è il pensare divino, che afferra sia se stesso
ossia la realtà assoluta, sia la realtà relativa che si può considerare sia come
determinabilità dell’assoluto, in qual caso è infinita, sia come avendo esistenza per
sé o come persona, nel qual caso è finita.
La mediazione tra l’infinito e il finito quindi risiede nel fatto che la
determinabilità dell’assoluto è data sia per l’assoluto sia per se stessa come un altro
insieme. La relazione tra la persona infinita e quella finita Gioberti comprende come
una relazione di immanenza (perché, preso in prestito da Platone, il termine
«metessi» per la persona finita). L’assoluto include e penetra il relativo, senza
confondersi con questo, come il concetto è la sintesi dei momenti senza confonderli
nella propria unità. Un’immagine di questa immanenza è il far parte l’uno dell’altro
del soggetto e dell’oggetto nella conoscenza. Dio è nella nostra coscienza e la nostra
coscienza è in Dio.107
Questa dottrina teistica tuttavia ha una sfumatura panteistica in molti
luoghi nella protologia, la creazione essendo compresa come un progresso
dall’astratto attraverso generi e specie all’individuale. Come noto il panteismo
107
Protol. II: 134
Erik Olof Burman
60
considera il fondamento della conoscenza e quello reale come identici. Secondo
Gioberti ogni cosa è un concetto e ogni concetto una cosa, tranne i concetti negativi
che sono meri mezzi logici. Come in Spinoza l’ordine delle cose è lo stesso come
quello dei concetti. Il primo psicologico (il concetto senza presupposto) crea tutti i
concetti, e il primo ontologico tutte le cose, quindi tutti e due devono essere la
medesima cosa.108 Così pure Gioberti dice: il genere altissimo è l’Essere. Questo è il
puramente assoluto. La creazione è la mediazione tra il genere altissimo e
l’individuo (l’essere e l’esistenza). Genere e individuo, cioè l’astratto altissimo e il
concreto altissimo sono i due estremi attuali nella gerarchia che il cosmo percorre
passando da potentia ad actus. Il genere umano, le razze, le nazioni, comuni, stati,
famiglie sono quei gradi diversi che la nostra natura percorre prima di fermarsi
all’individuo, che è il culmine della concretezza. 109 Secondo Gioberti però, la
generalità non esclude determinazione; al contrario: quanto più alto sta un’essenza
tanto più generale è, poiché comprende in sé una più grande molteplicità di altre
essenze. Questo risulta da passaggi come questo: «L’idea è infinita, e perciò
generale nella individualità sua. All’incontro l’individuità dell’intelligibile relativo
esclude la generalità. L’intelligibile relativo è verso l’assoluto ciò che è l’individuo
verso il genere e la specie.»110 Con generalità Gioberti non intende dunque la
generalità logica, o la qualità del concetto (sensibile) di essere compresa come
determinazione comune in una molteplicità di cose (escludendosi a vicenda), ma la
generalità organica che risiede nel fatto che un principio vivo include una
molteplicità di momenti e fa parte di questi come determinante. A causa della
finitudine dell’intelletto umano il principio del sistema logico è in certa misura
inorganico, poiché comprende una molteplicità di momenti opposti l’uno all’altro. In
molti passaggi Gioberti sottolinea che l’assoluto è idea individuale e persona, che
certo è concreta come creante o pensante un contenuto, però sta in relazione con
questo contenuto come una qualità dipendente o relazione formale.111 L’idealismo
falso (come quello di Hume, dei panteisti ecc.) è quello che dissolve tutto in idee
108
Introduzione II: p. 155.
Protol. I: 475, 486. II: 404, 406.
110
Protol. II: 17. [Appunto del traduttore. La citazione è testuale. Mancano le
virgolette nel testo svedese di Burman.]
111
Protol. I: 436.
109
Sulla filosofia italiana recente
61
impersonali. L’unica razionale è quella che permette soltanto idee, ma individuali.112
L’idea è individuale poiché pensa se stessa; è generale poiché pensata da se stessa;
dunque Dio è sommo genere e individuo.113 Il progresso non è reale ma fenomeno.
Come il tempo e lo spazio è in sé limitazione.114 Il progresso appartiene dunque
all’ambito finito, ma dentro questo sembra come se Gioberti afferri il progresso
come un passaggio da indeterminatezza a determinatezza e questo come equivalente
con il passaggio da unità organiche superiori a quelle inferiori. In ogni caso non si
può però classificare Gioberti tra i panteisti, anche se si possono citare certe
dichiarazioni in favore di questo. Il finito sta in relazione all’infinito come una copia
finita a un modello infinito. La vita delle forze create è un effetto della vita ideale.
La vita cosmica è una partecipazione della vita divina. La vita finita appare sotto due
forme, come non sviluppata e come sviluppata. La prima Gioberti chiama mimesi,
quest’ultima metessi.115 Tuttavia, in contrasto con il suo linguaggio, nel luogo citato
Gioberti usa questi termini in senso inverso.116 Tutte le capacità dello spirito sono
ricondotte alla capacità di pensare. Questa però è non sviluppata o sviluppata. Come
non sviluppata è sensibilità e soggettiva, poiché trasforma soggettivamente l’oggetto
esterno, in conseguenza di che si può applicare alla sensibilità il soggettivismo della
scuola critica. Come sviluppata è ragione (razione)117 e diventa oggettiva, poiché
afferra il più possibile l’oggetto nella sua purità. La sensibilità dunque è
l’intelligente relativo (lo spirito umano) e l’intelligibile relativo (il mondo) in
potentia. La ragione è essi medesimi in actus.118 Parmenide dimostrò che gli oggetti
della conoscenza devono assomigliare al soggetto conoscente, così anche che
l’essere e il pensiero sono la stessa cosa. Questo prova che l’oggetto afferrato è
l’intelligente. Perciò tutti gli enti che sono appresi da noi solo come sensibili, sono
112
Protol. II: 86.
lb. 104.
114
lb. II: 33.
115
Protol. II: 17.
116
Cfr. Ferri l’Essai ecc. II: 172.
117 [Appunto del traduttore. Burman scrive «förnuft» («ragione»), stranamente
seguita da «razione» tra parentesi, sicuramente a causa della prossimità di «ratio» in
latino. La parola «razione» non c’è nella Protologia (I e II), né nell’Introduzione.]
118
Protol. II: 8.
113
Erik Olof Burman
62
intelligenze non sviluppate. Il pensare e la realtà, l’ideale e il reale, sono identici.119
Il sensibile è un relativo non sviluppato. Occorre aggiungere il concetto di
potenzialità a quello di relazione per avere il sensibile.120 Il sensibile non è che la
negazione, cioè l’imperfezione degli intelligibili relativi. Il sensibile, quale sensibile,
è un nulla. Ne segue che Dio non sente niente, benché abbia conoscenza di tutto. Se
il sensibile fosse positivo, Dio o sentirebbe o non conoscerebbe tutto. Il sensibile
deriva in noi dall'ignoranza delle essenze delle cose intelligibili, dunque è un limite
in cui non c’è nulla di reale che l'intelligibile. Dunque, c’è nel sensibile una
cognizione confusa dell'intelligibile, come mostrò Leibniz. Mimesi è fenomeno.121 Il
sensibile nasce in quanto la natura oggettiva e lo spirito soggettivo si limitano
reciprocamente. 122 Il reale e l’ideale, che sono completamente identici in Dio,
costituiscono un contrasto dentro il finito, così sì che tutto l’intelligente è
intelligente, ma non viceversa.123
Da quanto precede appare che, secondo Gioberti, il finito si presenta in
due forme opposte, come sensibile (mimesi) e come razionale (metessi). La realtà
finita però è oggettivamente razionale, la sensibilità non forma nessuna realtà di tipo
particolare accanto a quella razionale, bensì è la realtà razionale non sviluppata.124
Questo contrasto dentro il finitio è dato dal fatto che il finito dentro di sé contiene
una molteplicità di momenti che si limitano reciprocamente. Perché dobbiamo
esaminare in che consiste questa molteplicità.
Il finito deve essere distinto dall’assoluto. La distinzione appartiene
alla natura del finito, perché finitudine comporta limite e il limite comporta
separazione. Creazione è moltiplicare. L’idea è una, ma è divisa in molte idee
attraverso la creazione. Gli intelligibili relativi sono numerosi in modo da
rispecchiare l’idea infinita. Mantenendo le loro individualità, tutte le essenze finite
formano un’unità. Come questo è possibile mostra la natura del concetto. Il pensiero
119
lb. p. 44.
lb. p. 32.
121
Protol. II: 206, 236.
122
Ib. p. 176, 12.
123
lb. 113.
124
Cfr. Protol. I: 476, 497, 557. II: 8, 12, 15, 18, 31, 32, 41, 43–5, 68, 78, 85, 86, 88.
170, 176, 182–3, 206, 217, 219, 227, 236, 409.
120
Sulla filosofia italiana recente
63
umano è uno e molteplice e non può essere solo uno dei due. L’essenza delle cose
finite però è coscienza; ce se ne può rendere conto come i molti, mantenendo la loro
individualità, possono formare un’unità.125 La differenza specifica tra le cose create
risulta dalla più o meno intensità della creazione. Per quanto riguarda la creazione,
la differenza si riferisce solo al grado. L’intensità interna della creazione è una e
attualmente infinita in ogni caso, ma la sua intensità esterna è potenzialmente
infinita e ammette gradi infiniti.126 Le forze creanti comportano una limitazione,
quindi una differenza indelebile. La bestia dunque non mai diventa uomo. Un salto
da una specie a un’altra presupporrebbe l’identità sostanziale di tutti gli essenze.127
La differenza tra l’insieme e le parti non è reale, ma virtuale e
sensibile. Dentro l’ambito razionale non ci sono parti né il tutto (numerico), neppure
collezione (unità formale), ma comprensione (unità reale), cioè genere e individui.
La collezione è una pura astrazione. Genere e specie sono un vivo aggregato
concreto, dal quale gli individui appaiono. In ogni aggregato organico c’è un centro.
Questo è l’individuo più individualizzato, cioè quello in cui il genere è il più attuato.
L’aggregato è ideale, per quanto sia genere. L’aggregato organico dunque è un
genere concreto.128 L’universo sensibile è un aggregato di sostanze diverse, unite
mediante relazioni astratte, che, per sé, non ci sono nelle cose ma solo nella
coscienza. Tuttavia siamo convinti che l’universo in sé non è un aggregato (la cui
unità è meramente esterna), ma unità reale. L’universo razionale è un’unità, che ha
la sua base in una relazione concreta e universale, che è la base per le sostanze e le
relazioni particolari. Questa relazione è sostanziale, poiché è concreta come le
sostanze. Ogni relazione presuppone una coscienza. Il mondo razionale dunque è un
grado o un modo della coscienza, ma non è intelligente come l’uomo. Il nostro
spirito è un grado di sviluppo conscio che supera di gran lunga quello del mondo. Il
cosmo è un’intelligenza principiante.129 La vita, come combinazione di potentia e
actus, genere e individuo, può dare un’idea dell’unità della ragione finita. La vita è
una e universale. Tutte le parti dell’universo hanno una vita comune; ogni parte vive
125
Protol. I: 468, 472. II: 181.
Protol. I: 470.
127
Ib. II: 171.
128
Protol. II: 138, 370.
129
Protol. II: 84.
126
Erik Olof Burman
64
della vita del tutto.130 Dall’altro lato la vita è propria di ogni individuo, dove non è
una mera astrazione e generalità, ma possiede il sommo grado della concretezza.
Abbiamo dunque nella vita quella unione dell’universalità e dell’individualità che
sarà propria della ragione finita nella sua forma finale. La nostra coscienza ci dà
l’esempio di unità legata a molteplicità e del generale all’individuale.131 La ragione
finita (metessi) considerata nella sua generalità è l’essere unico e intelligibile
dell’universo, un’unità intelligibile che contiene un sempre crescente numero di
forze che possono esistere in tre modi: come potenziali, come imperfettamente
attuate (individui sensibili), e come perfettamente attuate (la società metessica e
palingenetica degli individui). Questa essenza è potenziale all’inizio, attuale alla
fine, e un misto di potentia e actus nel mezzo.132
L’unità delle persone è razionale. Il contrasto nell’uomo tra anima e
corpo è sensibile. Così pure è solo sensibile la separazione e lotta tra gli individui
diversi che costituiscono la società umana. Gioberti dice separazione non
distinzione, poiché questa è razionale. Dentro l’ambito razionale i vari uomini
devono fare un singolo uomo, senza finire di essere individui; ma questi individui
devono essere un’unità, come specie e partecipare nella sua unità. La ragione finita
non è qualcosa che ha esistenza fuori e indipendentemente dagli individui, ma è più
degli individui e aggiunge una realtà a quella propria degli individui. Questa realtà è
il totale e il comune degli individui: genere, specie. 133 La specie non è meno
concreta dell’individuo.
134
La concretezza e l’inseparabilità della specie e
dell’individuo costituiscono il vero realismo. Il vincolo tra i due è la ragione
finita.135 Nella monade leibniziana risiede la sintesi di Platone e di Aristotele, cioè
130
[Appunto del traduttore. La proposizione «Tutte le parti…vita del tutto» è una
citazione testuale da Protol. II: 103.]
131
Ib. 103.
132
Ib. 250.
133
Protol. II: 209, 503.
134 [Appunto del traduttore. Gioberti scrive pure viceversa: «La specie non è
meno concreta dell'individuo. In ciò consiste il vero realismo, a cui si oppone il
sensismo, il nominalismo, l'astrattismo, e in gran parte il razionalismo e
l'idealismo moderno. L'individuo non è meno concreto della specie. Errano
dunque i panteisti.» Protol. II: 352.]
135
Ib. 352.
Sulla filosofia italiana recente
65
del generale e dell’individuale. La monade quale forza è individuo, quale percezione
è universale. L’unione dell’individuale e dell’universale si fonda sull’identità del
reale e dell’ideale. 136 L’esistenza individuale della specie appartiene allo stato
razionale; come potentia è preesistente dentro il sensibile. La specie è un’unità
concreta e individuale, che contiene altre piccole unità. L’unità dei rami della pianta
dà un’immagine della concretezza specifica. Questa sparge luce su molti misteri
della fede cristiana come il peccato originale, la redenzione e così via. Ogni forza si
sviluppa e si moltiplica in vari individui, senza perdere la sua unità e individualità
originaria. Il generale non è solo reale e concreto come idea, ma anche come ragione
finita. In questo risiede il vincolo dialettico tra il vero del panteismo e del teismo
ordinario.137
Il finito appare in una moltitudine di gradi, o simultanei o successivi.
Progresso e differenza di grado sono due forme diverse per la stessa cosa. Lo spazio
e il tempo sono i due forme della molteplicità e del finito. La gradazione è il
progresso simultaneo, e il progresso è la gradazione successiva. Tutti e due hanno la
loro unità nel continuo, che è Dio, per mezzo dell’idea. L’idea contiene tutto ciò che
è positivo nel progresso e nella gradazione, poiché abbraccia tutti i tipi nella sua
infinità. Questi costituiscono un’unità perfetta nell’idea. Questa idea è rotta ad extra
attraverso la Creazione, e questa rottura dà luogo al contrasto tra tempo e spazio,
progresso e gradazione.138 Il progresso è l’evoluzione del pensiero e della coscienza.
La legge sovrana del mondo mira al trionfo del pensiero. Ci sono due tipi di
mentalità:139 l’assoluta e la relativa. La mentalità relativa è pura o mista. Quella pura
è la ragione finita (metessi), l’intelligibile puro; questa mista è il sensibile (mimesi),
l’intelligibile misto con il sensibile. La mentalità mista è interna oppure esterna.
Quella esterna è la mentalità cosmologica delle cose esterne, che si riferisce solo alle
loro qualità esterne. Questa interna è la mentalità psicologica, che si riferisce
all’interno dell’anima. L’anima è la sola cosa, la cui mentalità interna è conosciuta a
136
Ib. 357.
Ib. 359–360.
138
Protol. II: 284.
139 [Appunto del traduttore. Burman scrive «medvetande», («coscienza»),
aggiungendo «mentalità» tra parentesi, la parola usata da Gioberti. Protol. II: 300.]
137
Erik Olof Burman
66
noi. La mentalità dunque fa una successione discente in quanto al tipo e al grado. La
divina mentalità oggettiva e assoluta differisce dall’altra per il tipo. La mentalità
creata percorre i gradi seguenti, opposti al puramente sensibile che è
incomprensibile e non comporta nessun tipo di mentalità: 1) la sensibilità esterna,
che è complessi di forze, non ogni forza per sé; 2) la sensibilità interna, che si divide
in gradi diversi: a) forze fisiche, chemiche ecc. b) istinto, c) sensibilità, d) fantasia,
e) intelletto140 (razione); 3) la ragione finita (metessi), che consiste dell’attuazione
completa delle forze.141
Il progresso non è ma passa, quindi non è reale ma apparente, sensibile
e non razionale. Il progresso in se stesso, come il tempo e lo spazio, è meramente la
limitazione. La realtà si presenta come idea, fatto e fenomeno. Il fatto è il razionale
finito, il fenomeno e il sensibile. Il fenomeno è un fatto che si sviluppa nel tempo;
fatto è un fenomeno che è diventato immanente. La ragione finita non ha alcuni
metamorfosi, perché non è nel tempo.142
La comprensione dell’evoluzione come appartenente al fenomeno e del
reale come spirituale e immutabile presuppone un’opinione idealistica della natura
dello spazio e del tempo. Secondo Gioberti, il cronotopo (cioè lo spazio e il tempo
insieme) comporta un elemento soggettivo e uno oggettivo, poiché comporta il
contrasto tra un superiore e un’inferiore, tra il continuo e il discreto. Continuità è
attualità; discrezione è potenzialità. Oggettivamente il cronotopo è continuo, o la
coscienza formalmente compresa. La discrezione è dato dal fatto che l’essenza
creata è una forza che contiene altre forze. L’elemento dell’estensione non è esteso
ma crea l’estensione poiché è una forza. Lo spazio e il tempo dunque comportano un
elemento oggettivo, il continuo, che corrisponde all’autocoscienza pura ed è
compreso da Gioberti anche come idea e ragione finita, per quanto infatti l’idea sia il
tutto che abbracci i sui momenti ideali, e la ragione finita sia un organismo che
comprenda una molteplicità di organi. Comportano anche, però, un elemento
soggettivo, che non è dato da solo mediante un soggetto, perché questo non forma o
140
[Appunto del traduttore. Burman scrive «förstånd» in svedese e «razione» tra
parentesi. La parola «razione» non si trova nella Protologia (I e II), né
nell’Introduzione.]
141
Protol. II: 300, 35–6.
142
Protol. II: 33, 35, 135.
Sulla filosofia italiana recente
67
contiene nessuna discrezione in se stesso, ma mediante l’antagonismo tra forze finite
e sviluppantisi. Gioberti osserva contro a Kant che quest’ultimo certo comprende
giustamente lo spazio e il tempo come forme di una coscienza, ma si è lasciato
sfuggire il loro elemento oggettivo che non si può spiegare dal soggetto solo. La
coscienza comprende il cronotopo ma non è compresa da questo. La coscienza è
quel continuo che tiene unita la molteplicità discreta. Come nel concetto i momenti
fanno parti dell’unità, così l’immanenza eterna è il continuo che comprende la
molteplicità discreta del cronotopo. L’evoluzione è un passaggio da discrezione
(potenzialità) a continuo (attualità), dal che segue che l’evoluzione non riguarda ciò
che è completamente attuale e quindi che l’evoluzione non è forma per il tutto ma
solo per la relazione dei momenti con l’unità. L’evoluzione e la sua forma il
cronotopo cadono dunque dentro il tutto finito.143
Abbiamo visto dunque che oggettivamente l’assoluto è idea infinita e
soggettivamente persona infinita. Inoltre l’assoluto è fondamento di una realtà finita,
che così pure soggettivamente è persona o grado di mentalità, e oggettivamente dal
punto di vista assoluto è momento dell’idea assoluta, ma dal proprio punto di vista
del soggetto finito appare come in certa misura sensibile o affetta da un coelemento
dell’idea pura. 144 Nell’ambito finito il reale e l’ideale, che sono identici
nell’assoluto, si disgregano dunque per quanto il finito non sia per sé ciò che è per
l’assoluto. Il finito sta all’infinito come immagine a prototipo, ma non corrisponde
in sé al suo tipo assoluto. La realtà dipendente che così nasce per il soggetto finito,
Gioberti chiama mimesi (un termine preso in prestito da Platone) per indicare che il
sensibile è solo un’immagine dell’assoluto, mentre invece l’essenza stessa o il
ragione finita si chiama metessi, come partecipante all’assoluto. Gioberti quindi ha
compiuto il suo punto di partenza idealistico a una visione razionalistica del mondo.
Tutto che è, è autocoscienza, e tutto il dipendente, l’asistematico e il variabile è
fenomeno che esiste solo per il finito. L’assoluto non sta in relazione diretta con il
relativo. L’assoluto stesso è base di una relazione che ha solo un termine, vale a dire
il finito. Accanto alla realtà assoluta non sta nessuna altra realtà, ma l’assoluto
contiene in sé una realtà che appare per sé stessa come una realtà accanto a quella
143
144
Protol. I: 509–511, 524–8, 546.
Protol. II: 15.
Erik Olof Burman
68
assoluta. La coscienza finita costituisce in questo caso la base della relazione. Come
in genere il finito può sta insieme all’infinito Gioberti ha dimostrato, sì, però al
contrario non ci sembra aver spiegato completamente soddisfacente la molteplicità
dentro il finito. Determinando la relazione tra unità e molteplicità come un qualcosa
di organico, mediante il quale costituiscono un sistema razionale come il concetto,
sostiene la sua opinione razionalistica. In Gioberti principium individuationis è
vagamente determinato però come risiedente nella creazione. I pensieri di Dio sono
pensanti essi stessi, eccetera. Quali momenti dell’idea assoluta si distinguono per
mezzo del suo rapporto con la realtà spirituale intelligibile, in relazione con la quale
sono tipi. La differenza formale tra i pensieri di Dio, oppure il loro luogo nell’idea
assoluta, quindi si basa sulla differenza reale tra le persone finite. Queste
differiscono per il tipo da quella infinita ma solo per il grado l’una dall’altra. È vero,
sì, secondo Gioberti che l’uno grado non può trasformarsi in un altro, poiché sono
sostanze diverse e i confini di queste sostanze sono indelebili. D’altra parte però la
differenza di grado è una forma del progresso e quale questo comporta discrezione, e
discrezione comporta potenzialità. Ne consegue che la differenza di grado
presuppone potenzialità e dunque non può essere data, né per l’assoluta né per la
ragione finita, come una realtà completamente attuale. A questo proposito Gioberti
dice che sostanza è forza, e forza comporta potenzialità, ma che la forza non può
sviluppare tutto il suo contenuto potenziale, perché allora supererebbe i propri
confini e cesserebbe di essere forza.145
Gioberti ha marcato troppo l’idea assoluta, così la molteplicità è spesso
presentata come qualcosa di finito, che tuttavia ha il suo tipo nell’idea, dato che
questa viene in relazione con il finito per mezzo della creazione, a causa del che
l’idea, combinata con un momento, forma un altro concetto di quello che forma in
combinazione con un altro momento del finito. Se si compie questa tendenza si ha
un’opinione panteistica, ma come abbiamo mostrato, Gioberti prova a evitare il
panteismo comprendendo l’assoluto come completamente determinato in e per sé.
Prova a combinare però la somma generalità e la somma determinazione dei concetti
senza potere evitare oscurità e atteggiamento vago nel compiere la combinazione del
145
Protol. I: 227.
Sulla filosofia italiana recente
69
punto di vista reale con quello formale. Un riferimento alla soluzione del quesito
della base della molteplicità si trova nella differenza che Gioberti fa notare tra
l’intensità interna e quella esterna della creazione. La prima è in ogni caso assoluta,
quest’ultima è graduale. Ne consegue che una differenza di grado è data solo ad
extra o da un altro punto di vista di quello proprio dell’assoluto. Quella molteplicità
che è data dentro l’assoluto come momenti dell’idea assoluta, dunque non
presuppone la molteplicità finita. Determinazione non è limitazione, e quale unità il
concetto presuppone una molteplicità di momenti. L’idea assoluta non si riferisce, in
conformità con l’umano, come astratta a una realtà che è qualcos’altro del concetto.
Come l’idea stessa, dunque tutti i suoi momenti sono individuali. Quali momenti
dell’idea sono analoghi all’insieme, quindi completamente attuali. La molteplicità
dell’idea non è essa stessa una molteplicità di gradi e non può neppure riferirsi a
gradi per così ottenere determinazione, poiché è in sé completamente determinata.
Questo non impedisce però che un momento dell’idea possa quale coscienza
comprendersi come grado nella sua relazione con il tutto e con gli altri momenti.
Partecipa infatti alla vita del tutto ed è, quale una sorta di questa, un grado del tutto.
Il grado risulta dalla determinazione però, non viceversa. Per l’assoluto non è dato
né progresso né differenza di grado, poiché tutti e due comportano potenzialità, ma
in relazione con l’assoluto il mondo è attualmente infinito.146 La comprensione di
Dio del mondo come un tutto attuale, Gioberti la chiama la presunzione assoluta.147
La differenza di grado dunque è data solo dentro il finito ed è in parte
un contrasto fisso tra molte essenze finite, che costituiscono momenti dello stesso
tutto finito. Questo contrasto è l’espressione soggettiva di una distinzione oggettiva
dentro l’assoluto. Per il soggetto finito in se stesso, esso appare infatti come un
contrasto che assolutamente considerato è meramente una differenza individuale,
cioè razionale. Il soggetto finito non può infatti comprendere chiaramente tutta la
sua determinazione, e nella sua comprensione astratta pone l’uno momento come
escludente l’altro, mentre al contrario il comprendere concreto afferra ogni momento
146
Protol. II : 648.
[Appunto del traduttore. Burman scrive «absoluta presumtionen», che
corrisponde testualmente a «presunzione assoluta» o «assoluta presunzione». Non
mi è riuscito trovare la pagina cui Burman si riferisce.]
147
Erik Olof Burman
70
come forma adeguata di un altro. Inoltre però la differenza di grado è vaga o un
passaggio dentro la stessa essenza da una forma inferiore a una superiore. A questa
differenza di grado appartiene il contrasto tra sensibilità e ragione; poiché il
sensibile è il relativo come potenziale, il razionale è l’attuale. La ragione finita
dunque è il risultato, o punto finale, di un’evoluzione. L’essenza dell’uomo dunque
è sensibile, fino a non essere in progresso. Una forza finita però non può svilupparsi
completamente, poiché allora si trasformerebbe in qualcos’altro. Il progresso non ha
nessun inizio e nessuna fine. Solo la presunzione divina comprende il tutto. Ne
consegue che l’uomo per sé non mai esiste come un tutto concluso o come ragione
pura, ma solo come razionale o metessi. Il contrasto tra sensibilità e ragione quindi è
un contrasto di sorta per il finito stesso, sebbene la sensibilità sia solo grado dal
punto di vista ontologico e sparisca da quello assoluto. L’evoluzione è fenomenale e
non riguarda l’essenza stessa, solo la forma delle sue percezioni. Gioberti però non
ci pare di aver distinto sufficientemente tra la forma e il contenuto delle percezioni,
perché sembra spesso come fosse la sua opinione che ogni percezione, che è data in
una forma inferiore, è anche sensibile. Nell’intuizione puramente oggettiva
dimostrò, sì, una percezione che ha un contenuto razionale, anche se è potenziale
della forma, ma diede importanza esclusivamente al suo carattere di oggettività,
senza prendere in considerazione l’ordine dello sviluppo psicologico. La
comprensione di un immanente e razionale è da lui afferrata come immanente essa
stessa. È facile sostituire però l’esame difettoso dalle premesse proprie di Gioberti.
Secondo Gioberti il progresso è un passaggio da indeterminazione
(relativa) a determinazione sempre più ricca. Il razionale è il completamente
individuale, il sensibile invece è relativamente indeterminato. Il variabile e
temporaneo non ha forma necessaria, per quanto come potenziale comporti la
possibilità di molte determinazioni e quindi è esso stesso completamente
determinato. L’indeterminato, dal quale parte il progresso, è genere e specie in
relazione all’individuo, che è lo scopo dell’evoluzione. Questi generi e specie sono
afferrati da Gioberti come unità superiori, che comprendono in se gli individui non
solo come concetti logici, ma come essenze organiche. Si pensa il progresso dunque
come cominciante con gli organi più bassi e finente con il tutto, così entrano nella
sfera di luce prima le essenze inferiori e poi quelle superiori. In conflitto con questo,
Sulla filosofia italiana recente
71
però, le essenze superiori si distinguono da quelle inferiori non per mezzo di un
contenuto particolare ma per la forma o per il grado. Quali soggetti danno infatti alle
loro percezioni una forma che si accorda più con la natura delle essenze percepite
che con quella forma che le stesse essenze hanno nella coscienza di un’essenza
inferiore. Un grado superiore di autocoscienza dunque è un grado superiore di
attualità. Gioberti sembra aver distinto tra l’unità reale e quella totale dell’organismo
in tal modo che l’unità reale è l’individuo sommo o più attualizzato dentro
l’organismo (il suo centro), mentre l’unità totale è ancora relativamente potenziale.
Se si comprende il sommo individuo in un organismo come contenente i suoi organi
o determinazioni, esso è l’organismo stesso come unità reale; se al contrario si lo
comprende come facendo parte dei suoi organi, esso non è una determinazione
completamente attuale di questi, e l’unità totale diventa relativamente indeterminata
e generale dal punto di vista della molteplicità. Dentro il soggetto umano, quale il
tutto che comprende il progresso, quest’ultimo va dall’individuo al genere; al
contrario nel genere stesso va invece dall’unità agli organi. L’osservazione delle
determinazioni negativi del sistema dà un punto di vista diverso, poiché se si dà
importanza a queste come esprimenti limitazioni o quelle determinazioni di
un’essenza che per questo hanno una forma inadeguata, si ha una serie ascendente di
determinatezza e individualità (positiva). Con ciò le determinazioni inferiori hanno
il carattere di generi e specie in relazione a quelle superiori, e allora il progresso
comincia con l’individuo e finisce con il genere. Ma questi generi sono unità
comprendenti solo in senso formale, non reale. Consideriamo che la prima
spiegazione sia più in accordo con le presupposizioni di Gioberti. In ogni caso ci
pare se Gioberti comprendesse le persone o le società morali principalmente dal
proprio punto di vista della molteplicità o delle persone fisiche, dato che appaiono in
certo qual modo come astratte, o come determinazioni comuni del contenuto, e non
sufficiente marcasse il loro carattere di essenze superiori, in relazione con le quali
gli individui inferiori sono organi.
Certo Gioberti si è molto impegnato nella filosofia pratica, siccome lo
scopo principale del suo filosofare è la riforma dello stato e della chiesa e
l’elevazione della nazione italiana dalla decadenza in cui è caduta. Dopo aver
stabilito le questioni fondamentali della filosofia teoretica, ne fa spesso un uso
Erik Olof Burman
72
pratico senza compiere scientificamente «la scienza delle azioni», come chiama la
filosofia pratica.148 Dalla sua posizione alla dottrina positiva della religione, che è la
fonte del tutto il filosofare e la cui autorità è al di sopra di quella filosofica,
consegue che non compì nessuna scienza di religione divergente dalla stessa. Della
dottrina delle comunità pubbliche se ne trova appena traccia in Gioberti. Resta
dunque l’etica che tratta in un’opera speciale: «Del Buono». C’è da notare però che
questa opera appartiene al primo periodo e quindi non concorda con quella forma
che ha la filosofia teoretica nella Protologia. Particolarmente sotto l’aspetto pratico
la differenza tra i due punti di vista di Gioberti ha importanza generale, perché sul
primo il sensibile è compreso come una realtà coordinata con il razionale, sul
secondo come fenomeno; inoltre sul primo punto di vista l’assoluto è principalmente
compreso come idea o sostanza spirituale, sul secondo al contrario come persona.
Gioberti stesso non trasse le conseguenze di questi cambiamenti delle
presupposizioni della filosofia pratica per il proprio compimento di questa ultima. In
tal caso ci accontentiamo menzionando le tesi più importanti della sua etica e le tesi
etiche che si trovano sparse nella sua protologia, senza compierle o esaminarle di
più.
L’etica non è solo la nobilissima parte della filosofia, ma è anche la più
importante delle scienze umane, poiché ha per oggetto il sommo bene dell’uomo,
cioè la virtù. Il bene nel senso proprio è la virtù e quella perfezione che ne consegue.
L’idea del bene è come i concetti del vero, del bello e del santo il principio per una
scienza che ne è l’analisi, e un’arte, che ne è l’applicazione pratica. Come ogni idea
razionale il bene appare in due modi, mediante l’intuizione e per mezzo della
riflessione. L’intuizione è la comprensione semplice dell’idea; la riflessione
comporta inoltre una comprensione dello spirito stesso come intuente ed è da sola
conoscenza completa. Il bene in sé è un’idea semplice, sui generis, che quindi non
può essere ben definita. Esso è sempre presente all’intuizione e accompagna ogni
atto libero. Riguardo alle sue determinazioni esterne, si può definire il bene come
una perfezione divina, a cui partecipano incompletamente l’essenze razionali e
148
[Appunto del traduttore. Del Buono, p. 257.]
Sulla filosofia italiana recente
73
libere mediante la conoscenza della legge assoluta e la libera concordanza
dell’arbitrio con questa.149
Le forze create sono cause secondarie, l’ultimo fondamento risiede nel
Creatore. Le forze che creano il bene sono il libero arbitrio e l’affetto. L’arbitrio
deriva da un fatto psicologico, finora ignorato dai filosofi, vale a dire che la volontà
umana è una forza che non contiene in sé la propria legge. Ogni forza ha un certo
modo di azione e dunque è condotta da una legge che può essere interna o esterna.
Se è interna, la forza è vincolata, perché non può annientare la propria natura.
Questo non è il caso per l’arbitrio, perché la legge morale si presenta come assoluta,
da noi indipendente. Il dovere è morale, non fisico, e presuppone la libertà. La legge
morale è motivo e scopo, ma questi sono oggettivi, poiché presuppongono una
coscienza e questa richiede un oggetto legato con se. Anche facendo se stesso
oggetto della propria percezione, l’uomo comprende, oltre la sua individualità
contingente, anche vagamente la ragione assoluta. La legge morale si presenta come
necessaria ed eterna. Se l’uomo non fosse libero, ma la sua natura identica alla
legge, non potrebbe essere contingente, come anche affermano i panteisti. Una forza
libera presuppone una necessaria e legge viceversa.150
Secondo Kant la libertà è una capacità di cominciare assolutamente
una serie di azioni indipendenti. In tal caso però l’uomo fosse assoluto, poiché non
si può separare l’assoluto dell’agire dall’assoluto dell’essere. Il panteismo
psicologico di Fichte è una conseguenza del criticismo.151
149
Una perfezione divina partecipabile imperfettamente dalle creature razionali e
libere, mediante la notizia della legge assoluta e la conformità elettiva dell’arbitrio
con essa legge. (Del Buono 105–114.) [Appunto del traduttore. La frase in questa
nota è una citazione testuale da Del Buono, p. 112, dove è in corsivo. La versione
italiana in corsivo nel corpo del testo di sopra corrisponde il più vicino possibile a
quella svedese di Burman.]
150
lb. 115, 116. [Appunto del traduttore. La frase svedese di Burman è oscura: «En
fri kraft förutsätter en nödvändig och lag tvärtom.» La traduzione è testuale. Il
significato inteso risulta da Del Buono, p. 116: «Una forza libera arguisce una legge
necessaria, come una legge necessaria importa una forza libera.»]
151
lb. p. 121.
Erik Olof Burman
74
Lo spirito attivo dell’uomo produce come capacità di sensibilità (forza
sensitiva) 152 la sensibilità interna ed esterna, come capacità di conoscenza
l’intuizione e l’intelletto, e come volontà il desiderio (l’affetto) e la libertà di scelta
(l’arbitrio). Il desiderio o cieco e chiamato istinto, o unito con comprensione. Non è
libero, ma è modificato dall’arbitrio e così diventa imputabile. Il libero arbitrio è
sempre buono in sé, ma può essere abusato. D’altra parte ci sono desideri con radici
cattive. Il libero arbitrio è causa efficiens delle azioni dell’uomo, il desiderio è causa
provocante o occasio. La moralità e imputabilità delle azioni dunque sono date
mediante il libero arbitrio. Il desiderio ha una più grande estensione dell’arbitrio.
L’arbitrio dà importanza solo a un oggetto, così può chiamarsi desiderio
individualizzato, mentre al contrario l’uomo non mai dà importanza a un desiderio.
Il desiderio corrisponde all’intuizione e l’arbitrio all’intelletto, che afferra un certo
momento del ricco contenuto dell’intuizione. Inoltre il desiderio precede l’arbitrio.
Lo stesso termine esterno è motivo in relazione con il desiderio e scopo dell’arbitrio.
La scelta non può aver luogo senza motivi diversi, tra i quali lo spirito designa lo
scopo. Il motivo non è una semplice percezione (teoretica) ma un’idea, che,
unendosi con l’osservazione del bene, è tinta del desiderio e vestita di una certa
attrazione, che l’arbitrio abbraccia liberamente ed eleva alla dignità di scopo.
Attraverso l’influenza reciproca della fantasia e del desiderio l’una all’altro, l’arte ha
una certa connessione con la morale e il bello una con il bene.153
Solo la capacità teoretica (l’intelligenza)§ può comprendere la legge
oggettiva del libero arbitrio. La norma dell’arbitrio dunque è lo stesso come
l’oggetto assoluto della conoscenza, che come intelligibile è la determinazione
dell’intelletto, come desiderabile lo scopo del desiderio e come comandante la
regola dell’arbitrio. L’oggetto della coscienza è l’idea con i suoi seguiti. La legge è
un’idea, che comanda con autorità suprema e vuole essere obbedita. In relazione con
152
[Appunto del traduttore. Le chiarificazioni tra parentesi sono date in italiano da
Burman. Nel discorso seguente, Burman ripetutamente scrive «begär» quando
Gioberti usa «affetto». Il significato dello svedese «begär» è più vicino a
«desiderio», o perfino «cupidigia», che ad «affetto». Per riflettere il meglio possibile
il linguaggio di Burman, la parola «begär» è qui tradotta con «desiderio».]
153
Ib. 122–140.
Sulla filosofia italiana recente
75
l’intelletto, che non è libero, l’idea non può essere comandante (imperativa).
L’arbitrio può esercitare influenza sulla realizzazione dell’idea in un caso
individuale, non nel tutto. La legge morale in sé non è separata dall’idea, solo
tramite le sue circostanze esterne. L’idea è la legge in relazione con l’intelletto, la
legge è l’idea in relazione con l’arbitrio. Il libero arbitrio e la legge sono correlati.
La legge morale comporta obbligo. Essa esprime la relazione tra le cose e il loro
scopo. Questo è Dio, poiché se il creato potesse riposare in se stesso, sarebbe
assoluto. Il bene morale risiede nella libera osservanza dell’ordine assoluto; il male
nasce quando l’essenza finita vuole fare se stessa punto centrale. L’essenza del
peccato è l’egoismo. Solo Dio è egoista legittimo. L’uomo è, come parte, mezzo per
il tutto e deve sacrificare i suoi affetti per la famiglia, lo stato, il genere umano,
quando ne è richiesto. Il bene consta dunque nel sacrificio del desiderio cattivo, che
vuole fare di se stesso il centro di tutto, in favore del dovere. Si può esprimere
l’essenza della legge morale così: il libro arbitrio deve usare le cose create
considerando il loro ultimo scopo, che è identico al loro primo fondamento. La
legge è oggettiva e indipendente dallo spirito creato, poiché sostanzialmente il bene
è uno con il vero e si distingue da quest’ultimo solo mediante una relazione esterna
con le capacità dell’uomo. Inoltre la legge è necessaria, apodittica e assoluta; è
infatti l’idea creante. Come assoluta è immutabile. La legge è perentoria e
incondizionatamente comandante, eterna; solo le cose finite sono sottomesse al
tempo. Essa è universale in relazione con tutte le essenze consce, con tutte le azioni
e con tutte le leggi umane; anche se astratto come pensiero, ha il suo fondamento in
un qualcosa concreto, poiché è l’idea che è la base di tutta la realtà; come concreta è
data all’intuito e per mezzo di questo è afferrata dall’intelletto. La legge non è un
concetto generale morto ma una cosa viva e individuale, estremamente personale. Se
non fosse persona non sarebbe concreta e comandante, e se fosse veramente separata
da Dio, non sarebbe assoluta.154 Ciò che distingue la legge morale dalle leggi cui la
fisica e la psicologia si riferiscono, è il dovere. Solo attraverso l’astrazione si può
distinguere dalla legge morale, come il tutto ideale di azioni corrispondenti al tipo
cosmico, quel dovere o quell’obbligo di compierle che si chiama imperativo.
154
del Buono 141–156.
Erik Olof Burman
76
L’imperativo ha tutte le proprietà della legge morale. Non è un abstractum, poiché
tutto l’astratto è nello spirito e in tal caso l’imperativo sarebbe una proprietà del
soggetto e perderebbe la sua autorità. La concretezza dell’imperativo risiede nella
creazione, che è la base di tutto il concreto. La creazione, che è l’individualizzazione
di un’idea, significa un intelletto divino e una volontà divina. La nostra volontà è
buona stando in comunanza con la volontà di Dio, come il nostro intelletto diventa
saggio per mezzo di partecipare della sapienza infinita. Pensare il pensiero di Dio è
la verità e volere la sua volontà è il bene. La logica e l’etica si riferiscono quindi a
un oggetto comune: l’essenza assoluta.155
Come abbiamo visto, gli elementi dell’etica si riferiscono a tre, vale a
dire la causa del bene, il bene stesso e i suoi effetti. La causa del bene è sia primaria
sia secondaria. La prima è Dio, quest’ultima lo spirito umano, per quanto consti di
due capacità: una libera, cioè l’arbitrio accompagnato dalla ragione, e una non
libera, il desiderio, che è subordinato all’arbitrio. Il bene in sé consta della legge e
dell’imperativo, entrambi dei quali sono identici al legislatore supremo. Gli effetti
sono la virtù nella questa vita e la felicità nella prossima. I momenti che uniscono la
virtù con la felicità sono il moralmente piacevole e bello, l’approvazione della
coscienza, il merito e la speranza di una ricompensa corrispondente. La formula
ideale lascia tutti questi elementi e li riporta a un’unità. L’idea dell’essere creante,
che è il principio organico della formula, dà la prima causa del bene, la legge che lo
costituisce, e la relazione che lo accompagna. Come creato lo spirito umano non può
avere in sé la base sufficiente per il suo essere e per le sue capacità, di cui attuazione
presuppone una causa prima, dalla quale esso appare mediante la creazione.
L’attività divina non annulla la libertà, ma la suscita sviluppando la ragione.
Comprendendo tutto il reale l’uomo non solo intuisce Dio e le sue idee, ma afferra
anche la propria relazione con queste idee e con Dio. Egli vede l’atto che
individualizza nel tempo le idee eterne. Le cose create sono buone, per quanto
corrispondano al suo prototipo eterno. L’unità armonica delle loro idee nel tipo
cosmico costituisce la legge morale. Quando l’assoluto presenta il prototipo ideale
all’intuito, mostra anche la sua realizzazione. La legge morale appare dall’intuizione
155
lb. 257–272.
Sulla filosofia italiana recente
77
dell’assoluto come intelligente e comprendente le idee eterne delle cose, e
l’imperativo dall’assoluto come individualizzante queste attraverso la creazione
libera. La legge ha il suo fondamento nell’intelletto divino, e l’imperativo il suo
fondamento nell’arbitrio divino che obbliga la relazione creata a conformarsi
all’ordine ideale. Il concetto della legge dunque è dato mediante il soggetto della
formula, quello dell’imperativo dal soggetto e predicato in combinazione. L’ultimo
termine della formula, l’idea dell’esistenza, dà il concetto del nostro spirito e delle
sue capacità. La formula ideale, spogliata della sua generalità e applicata agli oggetti
dell’etica, dà il principio dell’etica, che unisce sinteticamente i suoi elementi in un
giudizio: L’assoluto crea il bene tramite il libero arbitrio umano. La formula etica
contiene due tesi: l’una contiene la virtù, l’altra la felicità. La prima dice: il libero
arbitrio produce la virtù subordinando il desiderio alla legge. La seconda dice: la
virtù produce la felicità conciliando il desiderio con la legge.156
Nella protologia ci sono solo aforismi dall’etica. La morale è la
trasformazione del contingente ad armonia con il necessario. Quale lo scopo del
mondo essa è la mentalità completamente sviluppata. Inoltre è soggettivamente
un’abitudine, non azioni individuali. Le molte azioni cessano di essere discrete e
formano un singolo atto, che è la forma finale.157 La morale aspira a unire gli uomini
l’uno con l’altro e con Dio mediante il passaggio da mimesi a metessi. Il bene è
assoluto o relativo.158
La virtù consta dell’annientare il sensibile come sensibile, del suo
portarsi ad armonia con la ragione. La virtù è razionale; il suo valore interno risiede
nella trasformazione del sensibile all’intelligibile.159 La virtù è una in se stessa ma
molteplice nelle sue circostanze esterne. È un’unità armonica, di cui le virtù
individuali sono membri che non possono essere staccati senza essere distrutti.
L’unità della virtù corrisponde a quella della scienza.160
La libertà è quella capacità che ha l’uomo di creare se stesso come
essenza morale; è autonomia perfetta. Dio non si crea, poiché egli è necessario;
156
del Buono 366–382.
Protol. I: 473. Il: 492 , 497.
158 Ib. II: 453.
159
Ib. 501.
160
Ib. 486, 500.
157
Erik Olof Burman
78
l’uomo deve creare se stesso, poiché è contingente (ossia presuppone qualcos’altro
che se stesso come il suo ultimo fondamento). La libertà si fonda dunque sulla
divinità iniziale dell’uomo, la quale risiede nel concreare, per cui l'uomo si associa
alla creazione libera.161
Le imperfezioni di queste tesi pratiche sono troppo evidenti per devono
essere segnalate. Le presupposizioni della filosofia pratica ci sono date, sì,
particolarmente nella protologia, ma manca il compimento. Tuttavia, questo può
essere spiegato dal fatto che Gioberti non scrisse alcuna opera dettagliata e
indipendente sulla filosofia pratica, poiché il libro sul Buono fu inteso come
un’enciclopedia, e la protologia è, come abbiamo già detto, solo un frammento.
Per quanto riguarda il posto di Gioberti nella storia della filosofia, le
opinioni sono molto divise. Il professore Vera e il suo allievo R. Mariano gli
disconoscono qualsiasi importanza filosofica. Quest’ultimo dice: – – «Otez les
quelques pensées qui, au premier coup d’oeil, paraissent avoir une valeur
scientfique, mais qui au fond ne sont que des pensées accidentelles, irréfléchies et
dans un état de mélange et de confusion, tout est dans Gioberti pulvis et umbra. – –
– D’un côté le désordre et le vide de la pensée de Gioberti, et d’un autre la vieillesse
et sa langueur, nous autorisent à affirmer que Gioberti n’est pas seulment une
apparition inutile dans l’ordre de la pensée comme dans celui de l’histoire, mais que
c’est la négation de l’histoire et de la science.»162 Questo giudizio è conseguente dal
punto di vista hegeliano ortodosso, poiché con Hegel la filosofia è giunta al suo
culmine, e ciò che non è Hegel è pulvis et umbra. La stessa condanna pronuncia
anche Franchi, dicendo che il merito filosofico di Gioberti non risiede in un nuovo
sistema, ma in un nuovo dizionario, poiché i principi su cui si appoggia, le dottrine
che ne sviluppa, l’uso che ne fa, si riferiscono in fondo al sistema dottrinale che nel
corso di molti secoli regnava in Europa sotto il nome di filosofia scolastica e che
ormai si chiama preferibilmente filosofia cattolica. Rosmini comincia a fare la
filosofia una propedeutica alla teologia, e per mezzo di una dozzina di piccoli
volumi aveva portato il lavoro un buon pezzo avanti quando Gioberti arrivò e ci
161
162
Ib. 483–484.
La philos. contemp. p. 130–1.
Sulla filosofia italiana recente
79
diede gli ultimi ritocchi!163 Questo giudizio Franchi pronuncia dal punto di vista
dello scetticismo e senza conoscere le opere postume di Gioberti. Nell’opinione di
Gioberti i professori Spaventa e Fiorentino non trovano niente che lo Spinozismo.
«La Sostanza, la Natura naturante, la Natura naturata, e le cose particolari, o i modi
dello Spinoza corrispondono puntualmente con l’Idea pura, o l’Ente, con la
creazione, con le esistenze prese universalmente, che Gioberti chiama pure fatto
ideale, e con le singole esistenze particolari.»164
A questo risultato si arriva, secondo questi ultimi, se si distingue ciò
che Gioberti dimostrò quale filosofo da ciò che credeva come cristiano. Nella sua
opinione c’è un contenuto molto più ricco di quella di Spinoza, ma questo non è
scientificamente giustificato. Per quanto dica Gioberti di Dio come persona e
concreto, l’assoluto del sistema gioca solo il ruolo di sostanza attiva, che diventa
concreta mediante le sue manifestazioni. Queste prese di per sé sono finite e
fenomenali, ma la loro sintesi è infinita come natura naturata o i modi infiniti in
Spinoza. 165 Anche se è facile avvicinare Gioberti a Spinoza rilevando le
imperfezioni del compimento scientifico, non ci si deve lasciar sfuggire che Gioberti
è decisamente idealista quando comprende tutta la realtà come autocoscienza.
In Gioberti l’assoluto è persona, mentre al contrario in Spinoza
intellectus infinitus è un modo. Inoltre, in Spinoza determinatio è lo stesso di
negatio, mentre in Gioberti determinazione invece è posizione. E nell’intuizione
dell’assoluto è questo dato come personale, poiché è compreso come un «io».
Determinando la relazione tra l’assoluto e il relativo Gioberti non si ferma come
Spinoza alla relazione causale, ma la comprende come una relazione personale di
immanenza tra prototipo è immagine. Per il resto il resoconto precedente è una
confutazione dell’opinione di Fiorentino.166
Il professore Ferri considera l’opinione di Gioberti nella sua forma
recente una mediazione tra l’idealismo italiano e quello di Hegel. «Le fond de sa
163
La filos. delle scuole ital. append. p. 44, l06.
Fiorentino, Scritti varii p. 26. Cfr. Fiorentino – La filos. contemp. p. 325.
[Appunto del traduttore. La citazione è testualmente da Scritti varii, p. 26. Nel
saggio di Burman è tradotta in svedese.]
165
Fiorentino, la filosofia cont. 260–326.
166
Cfr Acri Critica ecc. p. 58–113.
164
Erik Olof Burman
80
nouvelle doctrine n’est qu’un mélange de platonisme e d’hégélianisme combinés de
manière à former un idéalisme different de l’idéalisme absolu par ses temperaments
et ces contre-poids».167 «Le vrai caractère de ses derniers ouvrages nous semble
consister dans une certaine oscillation entre Hégel, Platon et le Christianisme, qu’il a
cherché à fondre ensemble sans peut-être y parvenir entièrement».168 Gioberti stesso
ci fa notare spesso il contrasto tra il suo proprio punto di vista e quello di Hegel,
particolarmente nel capitolo su l’emanatismo e il panteismo,169 dove rileva come
Hegel applicò la forma finita sull’infinito. Dello stesso errore si fa colpevole eppure
anche Gioberti, comprendendo la continuità nello spazio e nel tempo come forma
dell’assoluto. La continuità è infatti essenzialmente relativa o ha importanza solo
come forma di un contenuto di cui momenti sono in certo qual modo esterni in
relazione l’uno all’altro. Di conseguenza Gioberti non può liberarsi dal pensiero che
l’idea assoluta è concreta corrispondentesi a un contenuto finito. Attraverso la
creazione Dio, quale continuo, viene in relazione diretta con il discreto e così
diventa causa esterna.
Dal punto di vista rigorosamente scientifico dunque Gioberti non riuscì
ad acquisire le idee fondamentali di Cartesio e di Kant, ma rimane al fondamento
della scolastica. Questo non impedisce però che in lui ci sono inizi forti di prendere
un punto di vista interamente idealistico e razionalistico, tanto nelle sue osservazioni
critiche contro il realismo e l’empirismo, quanto negli accenni positivi per il cui
compimento egli stesso non aveva la capacità.
Rosmini e Gioberti sono i fondatori della filosofia italiana recente.
Tutti e due hanno molti sostenitori famosi. Con Rosmini concordavano tra gli altri
anche il poeta Manzoni e lo statista Cavour. In parecchi scritti il professore P.
Paganini ha provato a compiere la sua opinione più dettagliatamente,
particolarmente quanto al problema cosmologico. Tra loro che hanno adottato i
pensieri fondamentali di Gioberti si notano i professori V. Fornari e F. Acri. In
un’opera sulle idee170 quest’ultimo perspicaciamente tira in direzione scettica le
167
Essai sur l’histoire ecc. II: p. 144. Cfr. p. 171 o. 204.
Ib. p. 196.
169
Protol. I: p. 584–616.
170
Abozzo d’una teorica delle idée. Bologna 1870.
168
Sulla filosofia italiana recente
81
conseguenze dalla gnoseologia precedente di Gioberti e rileva certe difficoltà che
sono inerenti all’opinione recente di Rosmini, quasi come orientamento per una
soluzione successiva del problema. Inoltre prova con successo a difendere
l’indipendenza della filosofia italiana contro l’Hegelianismo. Nella direzione
idealistica di Gioberti vanno anche i professori A. Conti, che soprattutto elabora la
storia della filosofia, e V. Sartini, lo storiografo dello scetticismo moderno.171 Più
indipendentemente Bertini sostiene l’idealismo nella sua opera sulla «filosofia della
vita». Il primo posto tra i filosofi che ora vivono in Italia occupa però il celebre
statista, poeta e pensatore T. 172 Mamiani. Anche egli parte quasi da Gioberti,
comprendendo come supremo fondamento della conoscenza e del reale l’Ente, che è
dato nell’intuizione. L’Ente si presenta come assoluto nella legge dell’identità ed è
quasi ideale, sì, ma come assolutamente necessaria questa idealità comporta realtà
assoluta.173 Ugualmente spiega il finito mediante creazione, e nel modo comune
trova nella bontà di Dio il fondamento più vicino del finito, anche se contro Gioberti
nega che la creazione fosse oggetto del nostro intuito. Nella gnoseologia invece si
avvicina più a Rosmini, spiegando la conoscenza razionale presumendo idee che
sono manifestazioni del divino, sí, ma tuttavia sono simboli vaghi più
dettagliatamente determinati dai fenomeni. In conformità con la psicologia scozzese
spiega la conoscenza sensibile presumendo un contatto immediato tra la capacità di
conoscenza e le cose. Come nella conoscenza egli nega però l’identità tra la
percezione e il percepito, e invece pone un’associazione esterna, nega anche
un’unità interna tra l’assoluto e il relativo, così annullando l’unità della scienza.174
Avvicinandosi al fondatore della filosofia recente, ossia Cartesio, Mamiani prova a
superare il punto di vista della scolastica, sì,175 ma per quanto grandi meriti le sue
171
V. Storia dello Scetticismo moderno Firenze 1876. [Appunto del traduttore. La
nota è ovviamente mal curata da Burman. L’opera cui si riferisce non c’è nella
Bibliografia. Sarà questa: Vincenzo Sartini, Storia dello scetticismo moderno,
Sansoni, Firenze, 1876.]
172 [Appunto del traduttore. Nell’originale di Burman l’iniziale è erroneamente
stampata come F.]
173 Compendio e Sintesi ecc. p. 42–50.
174
Cfr. Fiorentino, Scritti varii p. 506 e. q. s. [Appunto del traduttore: «et quae
sequuntur», cioè «e che segue».]
175
Le Meditazioni Cartesiane. Firenze, 1869.
Erik Olof Burman
82
ricerche possano offrire nei dettagli, tuttavia riteniamo tutto sommato che la sua
opinione metafisica non dia qualcosa essenzialmente di nuovo. Dà un’esposizione
sommaria e concludente in Compendio e Sintesi della propria Filosofia.176 Tra i suoi
allievi il professore L. Ferri all’Università di Roma guadagna grande reputazione
tramite la sua opera sulla storia della filosofia italiana nel XIX secolo. Dopo questi
c’è una fila immensa di filosofi che in modi diversi cercano originalità, però senza
guadagnare riconoscimento generale. Infine si deve osservare che accanto a queste
direzioni nazionali anche opinioni straniere sono ripresentate e tra queste soprattutto
l’Hegelianismo, che tramite i professori Véra, Spaventa e Fiorentino esercita una
grande influenza. Anche il positivismo è riuscito a guadagnare diffusione, sebbene
rimanga in secondo piano molto indietro rispetto ai grandi sistemi.
176
Torino 1876.
Sulla filosofia italiana recente
83
Elenco di opere citate in questa trattazione.
A. ROSMINI-SERBATI, Nuovo Saggio sull’ Origine delle Idee. Vol. I—III. Milano
1838–39.
– –, Il Rinnovamento della Filosofia in Italia. Milano 1840.
– –, Teosofia (opera posthuma). Vol. I–V. Torino 1859–74.
– –, Sistema Filosofico, ed. P. Paganini. Lucca 1853.
V. GIOBERTI, Della Protologia, pubbl. per cura di G. Massari Vol. I, II. Torino
1857.
– –, Introduzione allo Studio della Filosofia. Edizione Sec. Vol. I–IV. Brusselle
1844.
– –, Teorica del Sovranaturale. ed. sec. Capolago 1850.
– –, Del Buono. Capolago 1848.
T. MAMIANI, Compendio e Sintesi della propria Filosofia. Torino 1876.
L. FERRI, Essai sur l'histoire de la Philosophie en Italie au IX:éme Siècle. Vol. I, II.
Paris 1869.
R. MARIANO, La philosophic contemporaine en Italie. Essai de philosophie
hégélienne. Paris 1868.
F. FIORENTINO, La Filosofia contemporanea in Italia. Napoli 1876.
– –, Scritti varii di Letteratura, Filosofia e Critica. Napoli 1876.
F. ACRI, Critica di alcune critiche di Spaventa, Fiorentino, Imbriani, lettera al Prof.
Fiorentino. Bologna 1875.
A. FRANCHI, Appendice alla Filosofia delle Scuole Italiane. Genova 1853.