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Vista e visione dell'architetto

This essay deals with the peculiar view of architects. Its relationship with memory and invention. Using Merleau-Ponty, Derrida reflections on vision and blindness.

Michele Sbacchi “Vista” e “VisioNe” Dell’architetto apparentemente semplice e direto, l’ato del vedere, in realtà, cela una sconinata complessità concetuale. Basi pensare che ad esso la nostra cultura aida addiritura il suo stesso fondamento nel sincreismo del termine theoria che ideniica signiicaivamente la vista con la stessa conoscenza. Notoriamente oida signiica “vedo” ma anche “conosco”, ”so”. Di questa complessità intendiamo afrontare, in questo breve saggio, solo due aspei paricolari, che riteniamo adai per riletere sul nostro tema: il fenomeno – invero più speciico – della “vista dell’architeto”. il primo aspeto riguarda la necessità di intendere il vedere come un mero segmento di un molteplice ato di percezione dello spazio. ato che comprende, oltre che la sola “visione”, anche, memoria e immaginazione. il secondo argomento è quello per cui la vista, per essere tale, deve essere intesa anche come “cecità”. come ci avverte MerleauPonty: “si deve comprendere che è la visibilità stessa a comportare una non-visibilità”1. il vedere infai avviene per selezione di pari. Pertanto con esclusione, con gerarchia, con oscuramento di pari rispeto ad altre pari: in breve con cecità e vista contemporanee, o contemporaneamente alternate. sempre Merleau-Ponty ci fa notare come la nostra percezione degli oggei è sempre illusoriamente completa e totalizzante ma in realtà frammentaria: dico di vedere il tavolo ma ne vedo solo una parte e non vedo la restante parte2. con queste due notazioni principali - “visione come segmento della percezione” e “visione come cecità” – mi accingo quindi ad indagare brevemente il fenomeno della vista degli architei3. la frase 1 Maurice Merleau-Ponty, Le visible et l’invisible, Paris Gallimard, 1964 (tr. it Il visibile e l’invisibile, Milano, Bompiani, 1994), p. 259. 2 Similmente si potrebbero citare le osservazioni di Merleau-Ponty su come in realtà si veda “per ellissi” e come si veda in movimento. 3 Nel ricordo di Giovanni Deni, la cui vicenda mi ha spinto, nell’arco di un decennio, a riletere su quesi argomeni. 69 di Derrida “Si può vivere senza vedere, ma non si può vivere senza toccare”, può essere assunta come lo sfondo sinteico di questa mia rilessione4. certamente le due quesioni sono, solo parzialmente e teoricamente, individuabili separatamente. le separiamo, con faica, in apertura, con, in mente, in realtà l’obieivo opposto. e cioè quello di metere in risalto la complessità della visione, ed in paricolare di quella degli architei, piutosto che la sua semplicisica analizzabilità. i due temi sono infai stretamente intrecciai: se “vedere” è, contemporaneamente, “non vedere” ciò succede, almeno in parte, perché la memoria prende il posto della visione e di fato si sosituisce alla vista. Gli arcicitai “occhi che non vedono” di le corbusier alludono anche a questa “cecità”. l’uomo - e l’architeto ancor di più - “non vede” alcuni elemeni della realtà poiché la memoria di essi, già presente nella sua mente, spinge quesi elemeni al margine della visione, se non del tuto fuori da essa. in questo senso la vista è conseguentemente “cieca”: percepisco spazi noi con l’ausilio della memoria di essi. la memoria infai tende a sosituirsi alla vista ogni qualvolta è possibile, rendendomi quindi cieco rispeto ad essi. Percorro gli spazi della mia casa e della mia cità “a memoria”, senza vederli, o vedendone solamente pari. la vista, quindi, possiamo aggiungere, è pigra, oimizza lo sforzo, usando la memoria ove possibile. Visione e memoria si complementano a vicenda. Ma torniamo al ruolo della memoria rispeto alle immagini percepite. la vista, come abbiamo potuto notare, è “storica” cioè è “vista di ciò che è nuovo”, rispeto a dai acquisii, è vista di ciò che si staglia rispeto allo sfondo del “conosciuto”. la memoria, nel suo sosituire, di fato censura la vista. Né si può non notare che la memoria, inoltre, non è né neutrale, né rigorosa. lo sfondo “conosciuto” viene spesso solamente assimilato ad immagini aini. anche in questo processo l’ambito della cecità è ben più ampio di quanto non si possa pensare: crediamo di vedere ma in realtà “non vediamo” elemeni della realtà ma li sosituiamo impropriamente. “occhi che non vedono”, quindi, a causa di una memoria “invadente” e “imprecisa”. Viene alla mente, a tal proposito, l’auspicio di Monet di poter rinascere cieco per vedere il mondo per la prima volta senza i condizionameni dell’esperienza5. Jacques Derrida, Le toucher. Jean-luc Nancy, Paris, Galilée, 2000 (tr. it. Toccare. Jeanluc Nancy, casale Monferrato, Mariei, 2007). 5 Tiziana Andina, Percezione e rappresentazione. Alcune ipotesi tra Gombrich e Arnheim, aestheica Preprint, 73, Palermo, aprile 2015, p. 10. 4 70 Nelle righe precedeni è esplicito il riferimento alle rivoluzionarie elaborazioni degli psicologi della Gestalt6, dal cui substrato culturale si genera il contemporaneo richiamo di le corbusier sugli “occhi che non vedono”. i gestalici avevano evidenziato la fallacità di ogni possibile ipotesi di meccanicismo veriiero della visione. É noto come, secondo quelle teorie, la vista si struturi in modo per nulla neutrale, piutosto con regole di “alterazione” della visione. Per esempio, tendendo a percepire sempre la strutura più semplice (regola della buona forma). o, per accennare ad un altro esempio, come esista una tendenza a raggruppare gli elemeni simili (regola della somiglianza). ciò ha prodoto e produce notevoli risvoli proprio in architetura. Mario Beini, Apiaria Universa philosophiae mathemaicae, Bologna, 1645, p. 24 6 cfr. stanislaus von Moos, Le Corbusier: Elements of a Synthesis, cambridge, Mass., Mit Press, 1979, (ed. or. Le Corbusier Elemente einer Synthese, Frauenfeld, 1968) , p. 265. 71 Ma se la percezione di spazi noi avviene, quindi, con minimizzazione della vista, e ricorso alla memoria il fenomeno non riguarda solo l’esperienza di spazi noi ma si estende, per processo analogico, anche a spazi non noi sui quali leteralmente proieiamo visioni già assimilate. così ci guida Merleau-Ponty, notando a proposito della rappresentazione pitorica: “la pitura allora è solo un ariicio che presenta ai nostri occhi una proiezione simile a quella che le cose stesse vi iscriverebbero, e vi iscrivono nella percezione comune; in assenza dell’oggeto vero, essa ce lo fa vedere come lo vediamo nella vita, e in paricolare ci fa vedere dello spazio là dove non ce n’è”7. cioè vediamo spazi nuovi misi a memorie di spazi conosciui sulla base di una supposta, ed empirica, similarità. la visione “obieiva”, quindi, non esiste ma è signiicaivamente guidata e integrata da memoria e cultura - o memoria culturale, se vogliamo. É una vista storicamente determinata, nel senso fenomenologico del termine – e cioè una vista fortemente indirizzata dal passato visuale del soggeto. ed è geograicamente determinata perché indirizzata dalla cultura del soggeto. Ma la quesione è stata posta anche in termini più radicali. Per esempio da heidegger che subordina la vista non già alla cultura ma al primato del linguaggio: vediamo ciò che diciamo, vediamo ciò che si dice delle cose. Per l’architeto la quesione è, come abbiamo accennato, più complessa in quanto nella percezione interviene anche l’immaginazione intesa come “vista progetuale”. il meccanismo di sosituzione di visioni con memorie inora descrito si complica con l’intervento di altre igure quali quelle prodote dall’immaginazione. sono vista e immaginazione, e non solo vista e memoria, a fondersi vicendevolmente. Ma siamo sicuri che ciò avvenga solo per un paricolare ateggiamento mentale di chi, come l’architeto, opera “professionalmente” sull’immaginazione? la risposta è, sulla base di quanto inora afermato, ovviamente dubitaiva. la separazione neta tra una vista “progetuale” ed una vista, diciamo così, “neutrale”, non è ipoizzabile. in realtà l’immaginazione è già presente nella percezione, a prescindere da un’intenzionalità immaginiica speciica del soggeto - architeto o non architeto che sia. a questo proposito non possiamo non riferisci alle elaborazioni di rudolph arnheim. anche lui, non a caso, profondamente legato alla Gestaltheorie aveva indicato l’immaginazione come “ingrediente della percezione.” Nella sua teoria, cioè, il fenomeno non era coninabile nell’ambito di semplici regole asso7 cfr. Maurice Merleau-Ponty, L’œil e l’esprit, Paris, Gallimard, 1961, (tr. it. L’occhio e lo spirito, Milano, se, 1989), p. 33. 72 lute - quali quelle introdote da Köhler, Koka e Wertheimer - che interverrebbero in maniera universale nella percezione. In realtà la percezione era per arnheim un ato anche immaginiico – e quindi più soggeivo. Da qui le sue elaborazioni condensate con successo negli eicaci appellaivi: visual thinking e creaive eye8. É evidente che, per questa concezione, arnheim prendesse le mosse dallo “schemaismo” di Kant. Dobbiamo, a questo punto, coninuare a rincorrere la genesi di questo pensiero non per moivi ilologici ma perché esso è connesso anche alla quaesio della cecità, posta nel contesto di questo scrito. sappiamo che Kant nella “criica della ragion pura” enuncia la sua concezione dello schemaismo secondo la quale i dai sensoriali si organizzerebbero in schemi9. Quesi ulimi, solo successivamente, diverrebbero immagini. la visione è quindi ampiamente cosituita da una fase che potremmo deinire “interna” se non “cieca”. la vista sarebbe infai un ato ampiamente mentale e paradossalmente poco “visuale”. lo schemaismo kaniano, con il suo rimandare ad una visione interiore, viene ripreso nella materialtheorie dei gestalici, i quali introducono la nozione che la vista si struturi secondo “simboli prevaleni”, un conceto vicino a quello di schema. rené Magrite, Le Faux Miroir, 1929 8 rudolf arnheim, Art and visual percepion a psychology of the creaive eye, Berkeley, Univ. of california press, 1954; id., The Visual Thinking, Berkeley, University of california Press, 1969. 9 immanuel Kant, Criica della ragion pura, riga, hartnoch, 1781: Analiica trascendentale II, I. Dello schemaismo dei concei puri dell’intelleto. 73 arnheim e Gombrich riprendono quesi temi e, di conseguenza, come Kant ed i gestalici, riaidano la visione ad un ambito concettuale. la visione avviene principalmente nel cervello atraverso il pensiero: visual thinking non vision. Viene da pensare alla deinizione di Pollock per il quale, anche nel dripping – quindi in uno dei più estremi informalismi - la vernice non verrebbe a cadere sulla tela casualmente ma secondo “inconsce immagini mentali”10. arnheim non si limita a teorizzare la strutura visiva del pensiero ma parla – di nuovo riprendendo Kant - di “immaginazione produiva”, afrontando così il tema speciico della peculiarità di un supponibile visual thinking degli architei. É uile a questo punto notare come questa idea, venga sviluppata anche da cesare Brandi, segnatamente riguardo il progeto di architetura. Per lui, riprendendo ancora una volta lo schemaismo kaniano, questo iter riguarda anche la fase più propriamente progetuale e puramente immaginiica del pensiero architetonico e traccia un percorso che vede la creazione avvenire atraverso una conformazione che realizza lo schema passando quindi per la tetonica e la ipologia11. si può trarre quindi la conclusione che la visione immaginiica dell’architeto non è una “fase” creaiva che si innesta su un processo assolutamente oggeivo di registrazione di immagini. in questo senso, a nostro avviso è certamente poco signiicaivo, e forse addiritura fuorviante, insistere - come invece spesso si è fato - che esista un design thinking, peculiare di architei - o progeisi in generale. seppur si trai di un fato probabilmente vero, esso risulta di scarsa uilità, se inquadrato solo in ambito pragmaico. certamente risulta più denso di signiicato se riportato nella prospeiva fenomenologica di Merleau-Ponty. e quindi inteso come “modo di essere architetonico dell’esperienza”, secondo il noto contributo di Vitorio Gregoi12. cioè se la mentalità progetuale dell’architeto viene svincolata da una ovvia sorta di deformazione professionale ma viene riportata ad una più complessa esperienza perceiva e contemporaneamente progetuale. Frase citata da Elio Franzini durante il seminario Neuroesteica ?, presso la Università di Palermo, il 31.10.2014. 11 cesare Brandi, Strutura e architetura, torino, einaudi, 1967, p. 39. É interessante notare come Brandi, riprendendo Kant, introduca una fase da lui stesso deinita tetonica, riprendendo ovviamente Boicher ma anicipando le molto successive proposizioni di alexander tzonis, prima, e Kenneth Frampton, dopo. ci permeiamo, a tal proposito, di rimandare al nostro “cesare Brandi: schema e progeto”, in Atraverso l’immagine. In ricordo di Cesare Brandi, a cura di luigi russo, Supplementa, vol. 19, Palermo 2006, pp. 149-156, cfr. p. 152. 12 cfr. il capitolo iii de Il territorio dell’architetura, Feltrinelli, Milano 1966. 10 74 a tal proposito Gregoi chiama in campo esplicitamente Merleau-Ponty fornendo, a mio avviso, la più eicace trasposizione in campo architetonico della fenomenologia della percezione. eppure a nostro avviso è uile a tal proposito estendere la rilessione ad heidegger ed alla sua basilare concezione dell’azione dell’uomo nel mondo come “progeto getato”, inscrita nel più generale Geworfenheit (essere getato). soto tale luce si può comprendere come in realtà il supposto design thinking si enuclei come azione speciica rispeto ad una immanente visione “progetuale” dell’uomo in generale e come ciò sia stretamente legato alla visione. la visione per heidegger, lungi dall’essere un “vedere con gli occhi”, è piutosto l’ato di rendere visibile una intenzionalità. Gli occhi sarebbero una condizione necessaria ma non suiciente. ritorna, come vediamo, l’idea che la vista comprenda un punctum caecitas. É bene però, a questo punto, inscrivere queste rilessioni nella situazione contemporanea, che proprio rispeto a questo fenomeno, si cosituisce con gravissima paricolarità. Non è necessario ricordare come infai viviamo un mondo ipericonico, una realtà caraterizzata da un primato delle immagini senza precedeni, peraltro esponenzialmente crescente. “il mondo è fotocopiato all’ininito”13, come ci avverte Jean Beaudrillard e il pictorial turn, di cui parla Mitchell, è più che ben realizzato14. come dice Beaudrillard ci sono sempre più immagini e sempre meno signiicai. in questo dilagare del ruolo e del potere dell’immagine la vocazione eideica della cultura occidentale trova ulteriore vigore. la nostra cultura è infai, come abbiamo già fato notare, fortemente centrata sul primato della vista che viene assunta non solo come sinonimo di conoscenza ma, ancor di più, come fonte della verità15. Non a caso è orientale - e non occidentale - il deto secondo cui per vedere la canna di bambù devo in qualche modo averla dentro. tracce di questo primato della visione sono ampiamente preseni nella cultura architetonica. abbiamo già visto come questo avvenga sotoforma di deformazione dell’originario visual thinking arnheimiano ino a postulare un design thinking, ma sopratuto bisogna considerare la vasta difusione delle pur valide ed interessani teorie che riducono la cità ad un fato perceivo: lynch ma anche cullen e appleyard, o per altri versi Moholy-Nagy. Jean Baudrillard, Le Xerox et l’Inini, Paris, 1987. cfr. Willam J. t. Mitchell, Pictorial turn, Saggi di cultura visuale, Palermo 2008. 15 a questo riguardo non è forse casuale che il testo incompleto di Merleau-Ponty, initolato Il visibile e l’invisibile, si sarebbe in origine dovuto chiamare L’origine della verità. 13 14 75 abraham Bosse, Moyen universel de praiquer la perspecive sur les tableaux, ou les surfaces irregulieres, Paris, 1653 in forma degradata il fenomeno esplode nella tendenza sempre più difusa per un’architetura spetacolare, un’architetura che, primariamente, si espone allo sguardo supericiale. Paradossalmente l’architetura diventa sempre di più immagine di se stessa, come è stato difusamente già notato. Quello che vogliamo qui sigmaizzare è che il fenomeno avviene sì per difusione dell’immagine ma anche per un impoverimento della nozione di visione. l’architetura si ofre allo sguardo del citadino, ma anche allo “sguardo del turista”, per uilizzare il itolo dell’interessante libro di John Urry16, in virtù di una vista che riiuta sia la memoria che l’immaginazione. come dice Merleau-Ponty, non dobbiamo intendere “l’invisibile come un altro visibile possibile, o un possibile visibile per un altro”17. Scrive a tal proposito heidegger: “il modo di pensare quoidiano vede nell’ombra la semplice assenza di luce, se non addiritura la sua negazione. Ma in realtà l’ombra è la manifesta, anche se misteriosa, tesimonianza dell’illuminazione nascosta”18. 16 The Tourist Gaze, london, saGe Publicaions, 1990 (tr. it. Lo sguardo del turista, Formello (rM), edizioni seaM, 1995). 17 Maurice Merleau-Ponty, Le visible et l’invisible, cit., p. 242. 18 Marin heidegger, Holzwege, Frankfurt, 1950 (tr. it. Senieri interroi, a cura di P. chiodi, Firenze 1968, p. 100 in nota. 76 capiamo quindi che “l’invisibile è ciò a parire da cui vediamo e se non fosse invisibile noi non potremmo vedere afato. così come ciò a parire da cui noi pensiamo è il nostro impensabile”19. Quindi l’invisibile è totalmente dentro il visibile, così come recita una famosa frase di Paul Klee, ampiamente citata da Merleau-Ponty20. A tal proposito non si può non considerare la nozione di “disegno interno” elaborata dai manierisi. con la sua introduzione il progeto si concreizzerebbe atraverso un disegno esterno “comunicaivo” - e quindi visibile - ed un “disegno interno”, appartenente alla sfera dell’invisibile21. ed è signiicaivo notare come il germe di questa concezione venisse da alberi, il quale nel teorizzare la dicotomia lineamenta e materia implicava, come Joseph rykwert ha spesso fato notare, la possibilità di un ediicio pensato. il progeto quindi nasce con un disegno che intreccia con la nozione di rappresentazione un rapporto ambiguo: è un disegno visibile che esplicita la futura forma, ma è anche un disegno interno, astrato e immateriale. la polemica seicentesca tra disegno e colore nella pitura, - iorenini maestri del disegno, da un lato e veneziani maestri del colore, dall’altro, della quale qui, per ragioni di spazio non possiamo occuparci - è un momento ulteriore in cui questa aporia viene in evidenza. Il mancato riconoscimento della condizione esistenziale e complessa della vista, quale quella che abbiamo inora illustrato, è la fonte della criica serrata che Merleau-Ponty muove all’ateggiamento razionale e scieniico nei confroni della vista scagliandosi in paricolare contro il cartesio della “Dyoptrique”22. ciò ovviamente non ci stupisce essendo in linea con il noto radicale riiuto della oggeivizzazione scienista da parte di tuta la scuola fenomenologica. Per Merleau-Ponty la vista non è quella di uno spetatore “puro” ma di un soggeto che è immerso col suo corpo nel visibile. si trata non di vedere ma di “abitare” la vista23, secondo la sua eicace deinizione. similmente, entrando nel campo più speciico dell’immaginazione – e quindi della possibilità di una alberiano “pensiero dell’ediicio” svincolato dalla sua visualizzazione: “a maggior ragione l’immagine mentale, la veggenza che ci rende presente ciò che è assente, non è niente di simile che un varco aperto verso il cuore dell’essere: è anch’essa un pensiero fondato su indici corporei, questa volta insuicieni, ai quali fa dire più di quanto signiichino”24. 19 Marcello Ghilardi, Derrida e la quesione dello sguardo, aestheica preprint, 91, Palermo, Aprile 2011, p. 21 20 Paul Klee: “l’arte non riproduce il visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è.” 21 il cosiddeto inside world, di cui parla Jackson Pollock. 22 Vedi in paricolare Maurice Merleau-Ponty, L’œil e l’esprit, cit. 23 “l’enigma sta nel fato che il mio corpo è insieme vedente e visibile. … si vede vedente, si tocca toccante”. cfr. Maurice Merleau-Ponty, l’œil e l’esprit, cit., p. 18. 24 Ivi, p. 32. 77 Quindi il disegno – elemento centrale del progeto degli architei – si deve estrinsecare all’interno di una complessità perceiva di cui è solo una piega. indiscuibilmente quindi Merleau-Ponty riiuta il “disegno obieivo” di cartesio: “Ma per lui è sointeso che il colore è ornamento, intura, che tuta la potenza della pitura poggia su quella del disegno, e quella del disegno sul rapporto puntuale fra disegno e spazio in sé, quale lo insegna la proiezione prospeica”25. la “materia” alberiana e il “colore” dei veneziani, quindi, potrebbero essere per Merleau-Ponty protagonisi di un disegno che comunque mete in scena l’invisibile. o quanto meno lo comprende. l’architeto disegnatore quindi, aggiungerà Derrida, è cieco. Nel momento in cui guarda il foglio abbandona la visione. “…il disegno, se non il disegnatore è cieco. in quanto tale e nel momento in cui si compie, l’operazione del disegnare avrebbe qualcosa a che vedere con l’accecamento...”26. la cecità del disegno quindi è simmetrica alla cecità della vista e ci richiama la sperimentazione surrealista espressa nella frase di Breton: “Forma i tuoi occhi chiudendoli.” 25 Ivi, p. 33. Jacques Derrida, Mémoires d’aveugle. L’autoportrait et autres ruines, louvre, réunion des musées naionaux, 1990 (tr. it. Memorie di cieco. L’autoritrato e altre rovine, Milano, Abscondita, 2003), p. 12. 26 78