LA TUA PAROLA, LA SPENTA
CELAN TRADUTTORE DI UNGARETTI
Una lettura di
MARIO AJAZZI MANCINI
La poesia – la lirica tedesca, in una precisazione di Paul Celan del 19581 – per una sorta di virata
interna rispetto al canto, ad una melodia come musicalità d’effetto, cerca ora una maggiore sobrietà,
un’attenzione verso i fatti e la storia, «tenta», in una parola, di «essere vera (sie versucht, wahr zu
sein)». Attenua i colori, la deprecata policromia, e si affida ad un linguaggio «più grigio (eine
grauere Sprache)», che riempie la bocca del «duplice silenzio» di una reciproca estraneità, dello
smarrimento della distanza che separa, per così dire, la scrittura, questa scrittura dal proprio fruitore.
È in disparte. Abita un luogo privo d’immagini, le cui connotazioni antropomorfe – residuo
d’umanità desolata – sono consegnate ad inedite composizioni verbali – valga il mirabile
«grigiocuore (herzgrau)» di Sprachgitter2 – che, consentendo un rapporto con la luce, paiono di
continuo filtrarla, smorzarne la luminosità, a tutela di un paesaggio, tanto fisico quanto interiore, in
cui – chissà – «cresce anche ciò che salva (wächst das Rettende auch)».3
0.
Salvezza laica del nome – un Adamo postumo vocalizza l’essenza linguistica (geistlich)
delle cose del mondo, raccogliendo nella voce i segni che vi ha impresso la lingua della creazione –,
slegamento, scioglimento dalla colpa dell’astrazione, dei significati logico semantici e delle
categorie sintattiche. Oltre la «ciarla» – per recuperare la suggestione kierkegaardiana di Benjamin4
– di quella comunicazione consunta che affonda la testimonianza del «vero» in bunte Gerede:
GEDICHTZU, GEDICHTAUF:
hier fahren die Farben
zum schutzfremden,
freistirnigen
Juden.
Hier levitiert
der Schwerste.
Hier bin ich.5
POESIASCURA, POESIACHIARA:
qui portano i colori
verso il disarmato,
ebreo
di libera fronte.
1
PAUL CELAN, Antwort auf eine Umfrage der Librairie Flinker, in Gesammelte Werke in sieben Banden, Suhrkamp (dal 1967
editore di Celan, in sostituzione di Fischer), Frankfurt am Main 2000, Dritter Band, p. 167. Tale edizione è il principale
riferimento di questa riflessione: vi farò menzione, riportando il titolo originale delle poesie e dei testi in prosa tradotti, attraverso
la sigla GW, seguita dall’indicazione del volume in numero romano e dal numero di pagina.
2
PAUL CELAN, Sprachgitter, GW, I, 167.
3
Il verso è di Hölderlin (“Patmos”) e recita: “Wo aber Gefahr ist, wächst / das Rettende auch”, cfr. FRIEDRICH HÖLDERLIN, Tutte
le liriche, “I Meridiani” Mondadori, Milano 2001, p.881, a cura di L. Reitani p. 315, Vv. 3-4 – “Ma dove è il pericolo, cresce /
anche ciò che dà salvezza”.
4
Cfr. WALTER BENJAMIN, Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1976, pp. 5167; nel passaggio richiamato è in gioco una radicale separazione tra “essere” e “conoscenza”, giudizio (Urteil), parola che divide,
che abbandona l’ente, la cosa, fuori di sé. Tale parola è “esteriormente comunicante” e Geschwätz, «nel senso profondo in cui
Kierkegaard intende questo termine» (p. 63). Per una riflessione su questo testo, per lo più impenetrabile, rinvio ai saggi di
BRUNO MORONCINI, in particolare a La lingua muta e altri saggi benjaminiani, Filema, Napoli 2000, pp. 11-34, nonché a La
lingua del Perdono, Filema, Napoli 2007, pp. 7sgg e di VINCENZO VITIELLO, I tempi della poesia, cit., pp. 79-91, in cui discute il
rapporto della concezione benjaminiana del linguaggio con quella di Heidegger.
5
PAUL CELAN, Gedichtzu, Gedichtauf, GW, VII, 201.
2
Qui levita
il più pesante.
Qui sono io.
Una modalità di essere, dell’esser qui del soggetto della scrittura, che nel contesto indica pure il
senso, la direzione spirituale di quella Verjudung – il «farsi ebraico» quale tenuta in carico della
morte nella lingua – che Celan additava come posta, anche teorica. «Scrivere per vivere» e scrivere
«oscuramente» perché:
L’oscurità della poesia = l’oscurità della morte. Gli umani = i mortali. La poesia appartiene a ciò che
dell’umano è più umano, proprio perché continua a tener conto della morte.6
L’ebraicità – in simile accezione – verrà tuttavia, dopo pochi anni da questo brano, a consegnarsi, e
a consegnare la Rettung, ad un incontornabile nördlich der Zukunft, in cui l’attesa è disdetta da una
scadenza imperante che convoca la precedente equazione quasi a bandire la carica utopica7 di un
programma che si voleva generazionale. L’ormeggio al presente – sorta di sein-zum-tode8 – concede
nondimeno un rilancio nel poema:
IN DEN FLÜSSEN nördlich der Zukunft
werf ich das Netz aus, das du
zögernd beschwerst
mit von Steinen geschriebenen
Schatten.9
NEI FIUMI a nord del futuro
butto la rete, indugiando
tu l’appesantisci
con ombre scritte
da pietre.
La figura della rete gettata, gravata, ancorata d’ombre dall’estenuante accortezza dal Gegenüber che
convoca, mostra come la scrittura cui dà luogo costituisca, in un gesto, il compimento della
finitezza soggettiva e, a un tempo, la sua disposizione all’avvenire: lievito per il peso nel poema che
si ultima nella parola dell’incontro, che culmina nel nome – in un nome tanto «vero», per il
momento, da essere conservato, custodito da un raggelato silenzio.
Tief
in der Zeitenschrunde,
beim
Wabeneis
wartet, ein Atemkristall,
dein unumstössliches
Zeugnis.10
In profondità
nell’orrido dei tempi,
presso
PAUL CELAN, Der Meridian. Vorstufen – Textgenese – Endfassung, Tübingen Ausgabe, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1999. La
traduzione del brano riportato proviene da CAMILLA MIGLIO, Vita a fronte. Saggio su Paul Celan, cit., p. 179.
7
Riguardo al tema dell’utopia nella sua ricaduta sulla scrittura poetica cfr. PAUL CELAN, Der Meridian, GW, III, in particolare
189-202.
8
Una discussione sul rapporto con il pensiero heideggeriano è impresa da superare l’accenno di una nota; ritengo pertanto
opportuno, piuttosto che rammentare i nomi abusati di Pöggler e Gadamer, di Vitiello, Moroncini e Samonà nella migliore
tradizione italiana, menzionare un lavoro piuttosto recente, di scuola americana, che con la pazienza filologica della germanistica
documenta sui testi lo svolgimento di un simile rapporto, JAMES K. LYON, Paul Celan and Martin Heidegger: An Unresolved
Conversation, 1951-1970, The John Hopkins University Press, Baltimore 2006, passim.
9
PAUL CELAN, In den Flüssen, GW, II, 14.
10
PAUL CELAN, Weggebeizt, GW, II, 31.
6
3
il ghiaccio a favi
attende, un cristallo di respiro,
la tua testimonianza
senza ritorno
1.
L’eco heideggeriana del passaggio – il nicht-noch-sein della parola che aspetta di scaturire –
si smorza, o meglio si stempera se raccogliamo, sia pure in via d’ipotesi, il risvolto vitale della
testimonianza (Zeugnis), almeno come si presenta nel poema che precede immediatamente
Weggebeizt, il testo appena menzionato che conclude la serie dell’Atemkristall:11
(ICH KENNE DICH, du bist die tief Gebeugte,
ich, der Durchbohrte, bin dir Untertan.
Wo flammt ein Wort, das für uns beide zeugte?
12
Du – ganz, ganz wirklich. Ich – ganz Wahn.)
(TI CONOSCO, sei la profondamente chinata,
io, il trafitto, ti sono sottomesso.
Dove infiamma una parola che testimoni per entrambi?
Tu – tutta, tutta reale. Io – tutta pazzia.)
Dietro l’immagine di una Pietà, più volte mobilitata, si può scorgere il modo di accostarsi alla
lingua, l’affermazione di una conoscenza – così intima nelle sue inclinazioni/declinazioni –, di una
sofferenza e di una ferita; la sottomissione a colei che – con amor di madre – sorregge … lo
scempio. Poema è pertanto parola che infiamma ed attesta di un reciproco dolore: testimonianza ma
pure fecondità, procreazione – zeugen. Generazione reciproca, la cui efficacia è ribadita, ripetuta
dall’ultimo verso: Wirklich(keit) dà corpo linguistico ed effettualità ad un delirio (Wahn) che
sostanzia, per intero, il qui ed ora del poema.
Ogni poema è folle in quanto sempre presente e presenza, contemporaneità a sé che ne asserisce
l’accadere e ne legittima il futuro. La data è quella «del giorno di nessuno in settembre (des
Nimmermenschtags im September)» – la stessa che disappartiene pure al calendario, e che
nondimeno appresta tanto alla lettura quanto alla traduzione – menzionandone parola ed
interlocutore – nell’unico senso che questa scrittura s’impegna a concedere: im Herzsinn – nel senso
del cuore:
[…] Ja wann?
Wann, wannwann,
Wahnwann, ja Wahn, Bruder
Geblendet, Bruder
Erloschen, du liest,
dies hier, dies – 13
[…] Si quando?
Quando, quando quando,
pazzo quando, sì pazzo, –
Accecato
fratello, fratello
spento, leggi,
questo qui, questo –
11
Si tratta della prima sezione del volume Atemwende, GW, II, 11-31, il sesto pubblicato in vita da Celan alla fine di agosto del
1967; il ciclo era già apparso autonomamente in Francia in edizione per bibliofili, presso l’editore Brunidor nell’autunno del
1965, accompagnato da otto incisioni della moglie del poeta, Gisèle Lestrange.
12
PAUL CELAN, Ich kenne dich, GW, II, 30.
13
PAUL CELAN, Huhediblu, GW, I, 275, corsivo mio nella traduzione.
4
La speranza14 – racchiusa in un valore arcaico di Wahn – anima comunque il poema, anche là dove
sembra davvero sbandare, e trasporta la dimensione sospesa dell’attesa nel medesimo intreccio che
quell’allocuzione concede d’intravedere:15 in un adesso tanto fecondo da tenere assieme poesia e
vita, in quella dimensione creaturale cui compartecipano realtà e follia, entrambe inscindibilmente
in gioco. L’immutabile testimonianza di Weggebeizt mostra pertanto il permanere di un’occasione,
ogni volta che la poesia è, e si fa presente a dispetto di tutte le controversie della storia e delle
vicissitudini dell’esistenza. È sufficiente consegnarsi alla lingua, nella sua inesausta
produttività/effettualità, per afferrarla. Perché dall’Atemkristall, dal respiro agghiacciato tornino a
sgorgare voci e parole, ad attestazione del vero:
Mit Worten holt ich dich wieder, da bist du,
alles ist wahr und ein Warten
auf Wahres.16
Con parole ti ho ripreso,
e ci sei, tutto è vero,
e un’attesa del vero.
La Wiederholung si configura in accezione testimoniale, in quanto non torna soltanto a raccogliere e
a ravvivare la parola presso il «ghiaccio a favi», ma sopra tutto perché, in un simile transito
(Übertragung), sfida anche il volgersi medesimo del tempo, cogliendo davvero, della lingua, quella
Beständigkeit (costanza, resistenza ed invariabilità), che Celan ha reperito in Shakespeare 17 e che,
nella sua traduzione – altra istanza della ripresa/ripetizione – rende principio strutturale e criterio
organizzativo del «modo d’intendere»18 della sola Sprache che gli appartiene, la «non perduta» in
mezzo alle perdite.
Che il cuore conceda la speranza, ne costituisca l’organo preminente, è attestato dal poema “finale” dedicato al rapporto con
Heidegger a seguito di un incontro – sul quale sono sati versati fiumi d’inchiostro – a Todtnauberg: “die in das Buch / - wessen
Namen nahms auf / vor dem meinen? - / die in dies Buch / geschriebene Zeile von / eine Hoffnung, heute, / auf eine Denkenden /
kommendes / Wort / im Herzen” – “nel libro / - quali nomi ha accolto / prima del mio? – / in questo libro / la frase scritta / di una
speranza, oggi, / nel cuore, / di una parola / a venire / di un pensatore” (PAUL CELAN, Todtnauberg, GW, II, 255). Ritengo
pertinente la notazione di Bollack a proposito dei fraintendimenti in traduzione del testo: «I traduttori non collegano, come il
senso richiede e la sintassi esige, ‘dentro il cuore’ con ‘speranza’. Così, von eine Hoffnung […] im Herzen forma, nonostante lo
iato, una sola espressione unitaria, aperta all’oggetto di una speranza (auf…)» (JEAN BOLLACK, La Grecia di nessuno, Sellerio,
Palermo 2007, p. 28). Ho tentato di sciogliere narrativamente un filo del nodo heideggeriano in Celan, relativamente a
Todtnauberg, in Tante cose liete, tanta luce, nel volume VII dei Percorsi di Psicanalisi, Pisa, ETS 2009. Per una lettura del
poema Todtnauberg – al centro del dibattito – mi sia consentito rimandare al mio, L’eternità invecchia, Orthotes, Napoli-Salerno
2014, pp. 73-122
15
Se il poema è davvero appello alla Sprache, gli ultimi due versi di Ich kenne dich potrebbero concedere, riprendendo un
passaggio chiave dell’Ansprache di Brema, una ben diversa traduzione: «(Dove infiamma una parola feconda / che ci generi
entrambi? Tu – azione, / efficacia. Io – speranza e progetto)». Si rilegga a proposito: «In questa lingua ho cercato (habe ich […]
versucht) di scrivere poemi (Gedichte zu screiben): per parlare, per orientarmi, per apprendere dove mi trovassi e dove fossi
diretto, per progettarmi una realtà (Wirklichkeit). Era […] evento (Ereignis), movimento (Bewegung), essere in cammino
(Unterwegsein), era il tentativo (es war der Versuch) di conseguire una direzione (Richtung zu gewinnen)» (PAUL CELAN,
Ansprache anlässlich der Entgegennähme des Literaturpreises der Hansestadt Bremen, GW, III, 186).
16
PAUL CELAN, Dein Hinübersein, GW, I, 218.
17
Cfr. PETER SZONDI, Poetica della costanza. La traduzione del sonetto 105 di Shakespeare, in L’ora che non ha più sorelle,
Gallio, Ferrara 1990, pp. 71-104.
18
WALTER BENJAMIN, Il compito del traduttore, in Angelus Novus, cit.: le lingue «si integrano nelle loro stesse intenzioni. Per
cogliere esattamente […] bisogna distinguere nell’intenzione, dall’inteso il modo d’intendere. In Brot e pain l’inteso è senza
dubbio identico, ma il modo d’intenderlo non lo è. Dipende, cioè, dal modo d’intendere che le due parole significano qualcosa di
diverso per il francese e per il tedesco, che non sono intercambiabili per l’uno e per l’altro, e che anzi, in ultima istanza, tendono
a escludersi; mentre dipende dall’inteso che esse, prese assolutamente, significano una sola e medesima cosa» (p. 49). A
proposito dell’intenzione linguistica di Celan, Szondi scrive: «il suo programma è formulato nel verso: In der Beständigkeit, da
bleibt mein Vers geborgen (nella costanza, là il mio verso resta nascosto). […] La costanza […] diventa […] il mezzo in cui il
suo verso si trattiene, che trattiene il suo verso, che lo costringe alla costanza […]. L’intenzione linguistica di Celan […] è la
realizzazione della costanza del verso» (PETER SZONDI, Poetica della costanza. La traduzione del sonetto 105 di Shakespeare, in
L’ora che non ha più sorelle, cit., p. 92).
14
5
2.
La traduzione diviene esigenza tanto più cogente, quanto più, sul piano della pratica poetica,
la figura dell’Angesprochene19 – mediante la Wirklichkeit della lingua – si trova a fronteggiare un
“folle” sbilanciamento che ha complicate ricadute sul quotidiano. Sono le «ore buie» dei ricoveri
ospedalieri, le tenebre di una depressione che affossa il desiderio; ma pure di una scrittura
forsennata che produce mirabili raccolte. Gli anni, nondimeno, di appuntamenti decisivi, per non
dire destinali. Fratellanza più che affinità. Dopo quello con Shakespeare, che lo ha accompagnato
fin dalla giovinezza, con Valéry20 alla fine dei ’50, dopo dem Andenken Ossip Mandel’stam che
offre il viatico alla Niemandsrose, grazie pure agli auspici della versione pionieristica della
Bachmann21, per il traduttore Paul Celan compare l’opera di Giuseppe Ungaretti.
La casa editrice Suhrkamp gli commissiona – è il 1963 – la traduzione de La Terra Promessa e de Il
Taccuino del Vecchio. Vi metterà mano nel 1965. Sarà pronto per la pubblicazione soltanto nel
1968.
L’indugio nel compito corre probabilmente parallelo alla «fatica» del vivere. Tuttavia, la prossimità
di motivazioni ed esperienze – entrambi poeti/traduttori senza pari –, la familiarità col lutto, con le
orribili vicende della storia paiono davvero consentire un dialogo – a dispetto di una certa riluttanza,
da parte di Celan, a servirsi della lingua italiana. In Ungaretti ritrova nondimeno un’atmosfera di
ultimità, adempimento di quella ricerca della «terra promessa» – luogo dell’incolpevolezza, per così
dire – che per il freistirnigen Juden costituisce comunque un conto continuativamente da saldare.
L’approssimarsi della fine, per il «Vecchio» – morirà pochi mesi dopo Celan, nel 1970 –, ne rende
la scrittura essenziale, parca di mezzi espressivi, asciutta e vicina a quelle composizioni del Carso
che costituiscono la sua prima grande raccolta.22
3.
Sulla «bilancia dei mondi (Weltenwaage)» un eccesso di pesantezza dell’io lirico – il
suggerimento è di Mandel’stam – rende il non-io (il Tu dell’allocuzione) troppo leggero.23 Tradurre,
pertanto, pare faccenda di calibro, pesature e dosaggi. Ma non solo ricerca di equilibrio,
proporzione e simmetria. L’esercizio concerne, per intero, la vicenda di un Trauerarbeit,
l’elaborazione di quella perdita che ogni versione reca con sé, non tanto se l’originale è integro, ma
perdita, in ogni caso, di un’innocenza – della parola e non solo. «Tra oro e dimenticanza», das Wort
è da sempre accosto alla Notte:
Wider die andern, die bald,
die umhurt von Schinderohren,
19
PAUL CELAN, Der Meridian, GW, III, 198.
Fondamentale per la svolta di Sprachgitter è la traduzione della Jeune Parque di Paul Valéry, cfr. a questo proposito l’accurato
studio sul tema di CAMILLA MIGLIO, Celan e Valéry. Poesia. Traduzione di una distanza, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli
1997.
21
GIUSEPPE UNGARETTI, Gedichte. Italienisch und Deutsch, Übertragung und Nachtwort von Ingeborg Bachmann, Suhrkamp,
Frankfurt am Main 1961.
22
Non sono le note di questa scrittura il luogo deputato ad una disamina dell’opera di Ungaretti né ad un’operazione di
comparatistica; mi limito soltanto a segnalare la lettura di pochi autori di casa, nella sterminata e pressoché inagibile bibliografia
celaniana, che hanno svolto questo compito con passione ed acribia filologico/critica: oltre alla menzionata CAMILLA MIGLIO,
Vita a fronte. Saggio su Paul Celan, alle pp. 203-18, si veda l’ampio saggio di FEDERICO DEL BO, Traduzione come poesia.
Bachmann e Celan interpreti di Ungaretti, in Traduzione e poesia nell’Europa del novecento, a cura di Anna Dolfi, Bulzoni,
Roma 2004, pp. 447-70, nonché il volume di GIANLUCA GROSSI, Leggere la traduzione. Paul Celan traduttore della Terra
Promessa e del Taccuino del Vecchio di Giuseppe Ungaretti, Fontana Edizioni, Pregassona 1996.
23
Cfr. PAUL CELAN, In der Luft, GW, I, 290, che, ponendo a tema questo rapporto di pesi, recita: «[…] die Brüder, die
Schwestern, die / zu leicht, die zu schwer, die zu leicht / Befunden mit / der Weltenwaage […]– “[…] i fratelli, le sorelle, quelli /
troppo leggeri, quelli troppo pesanti, quelli troppo leggeri / stimati con / la bilancia dei mondi […]». Sul pesare come compito di
sostegno al mondo, dopo la sua stessa scomparsa – Die welt ist fort, ich muss dich tragen – si veda lo straordinario saggio di
Jacques Derrida, Béliers, Le dialogue interrompu: entre deux infinis, le poeme, Galilée, Paris 2003, pp. 25-40.
20
6
auch Zeit und Zeiten erklimmen,
zeugt es zuletzt,
zuletzt, wenn nur Ketten erklingen,
zeugt es von ihr, die dort liegt
zwischen Gold und Vergessen,
beiden verschwistert von je – 24
Contro le altre che presto,
sputtanate dall'orecchio dell'aguzzino,
s'arrampicheranno pure su tempo e tempi,
testimonia in ultimo,
in ultimo, quando risuonano solo catene,
testimonia di lei, che sta là
tra oro e dimenticanza,
assorellata a entrambi, da sempre –
Se questa è la tenuta, in poesia come in traduzione, diviene sterile ricondursi, nel contesto non
soltanto della versione da Ungaretti, a consanguineità di sentimento e condivisione di temi e/o
metafore. L’impresa è altra, ben oltre la riorganizzazione dell’universo lessicale e la
rideterminazione del testo di arrivo. È in scena la lingua, nella costanza del suo funzionamento,
rispetto alla forma ed al suono delle parole. Il passaggio è transferale: Übertragung da una lingua
sonora ad un’altra, ciascuna udibile ed ascoltabile nello specifico «modo di intendere», nel modo di
parlare che la costituisce;25 non tanto affinché l’una conceda il segreto che l’altra può svelare,
quanto perché entrambe si affidino, in questa relazione che chiamiamo ancora traduttiva, a quella
sorta di Rettung che le riconsegna al nome, ai nomi, al di là dei significati immediatamente
trasmissibili, calchi linguistici disponibili all’esportazione, o, se vogliamo, all’essere resi comuni.
Tale è il centro polemico del grande saggio di Benjamin: il nome ha da essere proprio, perché si dia
la chiamata, quella vocalizzazione che consegna le cose alla «redenzione» – anche dopo Babele – e
permette tanto al poema quanto alla traduzione di Richtung zu gewinnen , conseguire senso e
direzione.
4.
Se, sulla scorta di un simile gesto, l’operazione di trasferimento ha da affaccendarsi a portare
all’espressione l’essenza spirituale/linguistica delle cose, non si tratterà tanto di dire nuovamente lo
stesso, riproducendolo o ripetendolo nella lingua d’arrivo, piuttosto di considerare questo stesso
come viene detto, come (il modo in cui) è detto in quanto ripetuto: quale è da ritenersi appunto il
risultato di una traduzione – di una traduzione rilevante26... La medesima che interrompe la
circolarità in un diverso sfiguramento, ben lontano dagli artifici che il gioco delle lingue consente in
una moltiplicazione pressoché infinita di transiti – piuttosto «cattiva», verrebbe da suggerire.27
24
PAUL CELAN, Argumentum e Silentio, GW, I, 138.
Scrive ancora Szondi: “il rapporto della traduzione di Celan con l’originale non è adeguatamente definito come mutamento
dell’interesse tematico e dello stile […]. Fra traduzione e originale si pone piuttosto il mutamento di ciò che, nella trattazione di
Benjamin […], è definito intenzione rivolta alla lingua […]. Dove una traduzione deve differenziarsi dall’originale è nel modo di
intendere […]. Il modo sempre diverso di intendere costituisce la storicità di una formazione linguistica […]. L’indice storico di
una traduzione non rivela […] la condizione storica della lingua utilizzata, bensì dell’utilizzazione della lingua: […] rinvia […] a
una determinata concezione della lingua. […] Nella differenza […] del modo di intendere, tra originale e traduzione, Benjamin
ha visto la legittimità e anzi la necessità del tradurre: una differenza che […] sottrae le premesse alla questione della fedeltà o
della libertà delle traduzioni” (PETER SZONDI, Poetica della costanza. La traduzione del sonetto 105 di Shakespeare, in L’ora che
non ha più sorelle, cit., p. 75-77).
26
Cfr. JACQUES DERRIDA, “Che cos’è una traduzione rilevante?”, Athanor, 2, X, 1999-2000, pp. 25-45.
27
Cfr. a questo proposito EUGENIO MONTALE, Poesia travestita, Interlinea Edizioni, Novara 1999, in cui l’autore, con una certa
malizia, nasconde la propria paternità a favore di un ignoto poeta arabo, e dà corso ad una serie di traduzioni – che, nel gioco,
avrebbe potuto protrarsi indefinitamente: dall’italiano originale, e tenuto al segreto, al francese, al polacco, al russo, al ceco, al
25
7
Se l’originale è irriconoscibile, non lo è tanto perché c’è tradimento, dismisura o incomprensione –
la mancanza di poeticità è generalmente faccenda di professionisti prezzolati – quanto perché il
riguardo di quell’essenza mette al bando la replica della lettera. L’incontro, in traduzione, è al di là
della comunicazione, in quella dimensione «misteriosa» ed «inafferrabile» che caratterizza quanto
approssimativamente indichiamo come «poetico».28 Ma ciò non va senza che vi sia tangibile
passaggio, modificazione anche del soggetto che in esso traspare, esito di resa ultimata nella lingua
d’arrivo – che è sempre una nel poema, in quel poema che «originariamente» afferma ogni volta la
propria attualità e presenza – effettivo compimento della finitezza; determinazione che, per Celan,
consente di guardare la morte in faccia, aprendo all’avvenire – all’evento dell’altro, ad un accadere
che possa darsi infine se si lascia decadere la lunga teoria di coppie oppositive, su cui la riflessione
occidentale ha costruito la propria storia: finito/infinito, presenza/assenza, affermazione/negazione,
come pure, nel vigente caso, fedeltà/infedeltà, ovvero originale/traduzione.
Il modo d’intendere spareggia l’identità soggettiva – che è da postularsi, se non presumersi in quella
consonanza di intenti che avvicina ed orienta la scelta di una traduzione – e mostra come
quest’ultima non sia che affare di lingua: elaborazione, innanzitutto, di quella perdita su accennata
di cui la Beständigkeit reca ed attesta la memoria.
5.
Il ventiseiesimo degli Ultimi Cori per La Terra Promessa recita:
SOFFOCATA DA RANTOLI scompare,
torna, ritorna, fuori di sé torna,
e sempre l’odo più addentro di me
farsi sempre più viva,
chiara, affettuosa, più amata, terribile,
la tua parola spenta.29
Promosso da un’istanza che pesca a fondo in quella linea di «poetica dell’assenza», che salda
Ungaretti a Petrarca via Mallarmé, il coro, mediante la ricostituzione attiva di una sua parola, tiene
presente la scomparsa di un interlocutore sconosciuto. Parola soffocata in un rantolo – quasi priva di
suono e senso – che torna a farsi udibile, comprensibile, in quanto spenta. Sopravvivenza, durata
come fedeltà del ricordo che, in tale ritornare, si rinnova costantemente. E tuttavia, in un’alterazione
straniante – «fuori di sé torna» – che ne fissa lo statuto fantasmatico, indicando nell’allontanamento,
nella morte dell’altro la regione di provenienza, il punto d’origine e consistenza del poema.
«Terribile» perché sempre da là, dal luogo del silenzio che l’ammanta e che essa stessa contiene –
risonante solo in me e per questo più viva della viva: parola della poesia.
Il lutto – messo in scena dalla scrittura – interiorizza l’altro, affidandosi alla costanza della lingua.
La figura che traspare è pertanto un’allegoria luttuosa: rappresentazione dell’altro morto in me,
fedeltà estrema che s’affanna a perpetrarne la vita nella medesima finzione – sublimatoria, certo:
«affettuosa, più amata» – che ne sancisce a un tempo l’altrettanto estrema infedeltà. Dell’altro non
bulgaro, all’olandese, al tedesco, allo spagnolo, per approdare di nuovo ad un testo italiano completamente trasfigurato rispetto a
quello di partenza.
28
“Ma che cosa ‘dice‘ un’opera poetica? Che cosa comunica? Assai poco a chi la comprende. L’essenziale, in essa, non è
comunicazione, non è testimonianza. Ma la traduzione che volesse trasmettere e mediare, non potrebbe mediare che la
comunicazione – e cioè qualcosa di inessenziale. Ed è questo infatti un segno di riconoscimento delle cattive traduzioni. Ma ciò
che si trova, in un’opera poetica, oltre e al di là della comunicazione […] non è generalmente considerato come l’inafferrabile,
misterioso poetico? Che il traduttore può riprodurre solo in quanto si mette a poetare a sua volta” (WALTER BENJAMIN, Il compito
del traduttore, cit., p. 37).
29
GIUSEPPE UNGARETTI, Ultimi cori per la Terra Promessa (coro XXVI), in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano
1969, p. 281.
8
resta in me che questa voce, questa parola sempre ritornante, parte di un tutto – e più grande di
questo – che non potrà più ricomparire nella sua integrità30. Conferma – se ce ne fosse l’urgenza –
dell’inassimilabilità, dell’impossibilità del ritorno dell’altro, la cui dipartita decreta, per il soggetto
alluttato, quel fallimento sublime che consegna al poema la propria testimonianza, sull’orlo della
melanconia …
6.
Nella traduzione di Celan:
WEGGERÖCHELT,
da, wieder da, auβer sich wieder da,
tiefer in mir und tiefer, ich hör es,
reger, lebendiger,
heller, inniger, stärker geliebt, furchtbar:
dein Wort, das erloschne.31
Un solo transito letterale, con spostamento di posizione nel verso, riproduce l’originale «l’odo» –
ich hör es – come termine di una straordinaria serie iterativa che prende il posto del «sempre»
ungarettiano, a rinvigorire la parola «fuori di sé» in me. È qui, la parola, presente ma non soffocata:
Weggeröchelt, nella veste che l’auβer sich dà al ritorno – ad un ritorno senza previa scomparsa.
Evento unico che l’estranea davvero, trovandole un nome, il nome che le appartiene – das
erloschne. È un rantolo32 a pronunciarlo, a dirne l’essenza – l’essenza testimoniale della tua parola:
WEGGEBEIZT vom
Strahlenwind deiner Sprache
das bunte Gerede des Anerlebten – das hundertzüngige Meingedicht, das Genicht.33
ROSA VIA
dal vento raggiante della tua
lingua la chiacchiera
variopinta del già vissuto – il Mio
poema dalle cento
lingue, il poema di Nulla.
Weggeröchelt, Weggebeizt. L’essere in cammino (Unter/weg/sein) di un poema, si precisa adesso in
un tratto brevissimo – quello della traduzione – quasi una tacca sul quadrante dell’orologio: se la
parola è ritornante, è qui e non là, lo è perché viene dal nulla dell’origine (von Nichts her)34 e si
destina all’immediata prossimità della fine. Il passaggio è compiuto e la traduzione fedele, nella
sola volta ed unica in cui accade. Il modo d’intendere la tua parola la rende straniera in me, ultima e
30
Il passaggio è da una memoria che interiorizza (Erinnerung) a una «memoria pensante (Gedächtnis) che può anche connettersi
all’ipomnesi tecnica o meccanica […]. Il movimento di interiorizzazione salvaguarda dentro di noi la vita, il pensiero, il corpo,
la voce, lo sguardo e l’anima dell’altro, ma li salvaguarda sotto la forma di questi hypomnemata o memoranda, segni o simboli,
immagini o rappresentazioni mnestiche che non sono altro che frammenti staccati e dispersi, lacunosi, delle parti dell’altro
partito» (JACQUES DERRIDA, Memorie per Paul de Man, Jaca Book, Milano 1995, p. 45).
31
PAUL CELAN, Weggeröchelt, GW, V, 527.
32
Nella parola rantolata è toccato per lo più il limite estremo della lingua, là dove essa incontra quella che potrebbe essere intesa
come la sua materia: estraneità a sé in cui si rivela l’esigenza, l’urgenza dell’altro, al di là delle rappresentazioni. Limite in cui,
nel contesto della Niemandsrose – e con un deciso rilancio all’altezza dell’incontro con Heidegger a Todtnauberg -, si colloca,
come accennato, quello straordinario “organo” di memoria e speranza che è il cuore: «Von deinem Gott war die Rede, ich sprach
/ gegen ihn, ich, / lieβ das Herz, das ich hatte / hoffen: / auf / sein höchstes, umröcheltes, sein / haderndes Wort - Si discorreva
del tuo Dio, ho parlato / contro di lui, ho lasciato / al cuore che avevo / la speranza: / nella / sua più alta, rantolata, nella sua /
contestata parola» (PAUL CELAN, Zürich, zum Storchen, GW, I, 214).
33
PAUL CELAN, Weggebeizt, GW, II, 31.
34
PAUL CELAN, Aber, GW, I, 182.
9
straniera come ogni parola di un poema che si dichiara, nella propria natura, wirklich. Se nel rantolo
se ne fa comunque udibile il nome, al riparo dalla minaccia delle «cento lingue», questo,
nell’evidenza della propria sincerità e chiarezza, è davvero spaventosamente illeggibile,
intraducibile – un nome proprio. Sciolto dagli obblighi di una pratica, il poema traduzione, non
comunicando niente, induce il soggetto che gli inerisce a fare i conti con la disarticolazione del
senso, rantolo sì, affanno, ma pure, mormorio, sillabazione appena percettibile – ulteriore
bancarotta del lutto che rende l’opera «più reale e più viva».
Se, infatti, come appariva dal coro ungarettiano, l’allegoria è davvero il solo modo in cui l’altro può
tornare, il poema traduzione diviene il luogo in cui è tenuto presente, in una rappresentazione
costitutivamente impropria, ciò che non c’è – forse, non c’è mai stato. Luogo di veglia, di vigilanza
in cui si fa ascoltare lo spettro di una voce; la medesima cui Celan presta orecchio, sottoponendola
ad un giro in più, ad una traduzione che la decompone nelle proprie parti tonali. Inudibile benché
udita, irriconoscibile perché accosto alla parola dell’ultimo a parlare.
Ultimità che sembra chiudere definitivamente con la possibilità di un dire, di parlare pure «per
conto di un altro»; tuttavia, vi affiorano le condizioni del dialogo, in una diversa autenticità che ne
costituisce la plusvalenza: perché ogni parola è destinata, dalla sua stessa pronuncia, a divenire
spenta – la spenta – il dialogo e con esso, fondamentalmente, la traduzione, possono aver corso.
Aschenglorie: splendore in cui la Rettung non è più ripresa allucinatoria nel trascendentale dello
spirito o di una memoria infinita; piuttosto, cenere, resto di povertà ed indigenza che concede al
poema quel più di vita che lo rende finitamente immortale.
Esito della Beständigkeit, della lingua a dispetto di tutto. Tale da consentire una traduzione, nella
fedele infedeltà di questa lettura:
SOSPINTA DA UN RANTOLO,
qui, di nuovo qui, fuori di sé di nuovo
qui, più a fondo in me e più a fondo, l’odo,
più reale e più viva,
più chiara e più sincera,
più fortemente amata, terribile:
la tua parola, la spenta.
7.
«Più reale e più viva». La traduzione che mantiene le promesse, che fa, come deve, il
proprio compito, instaura altresì, proprio là dove riesce, l’economia di un più che sbilancia la
simmetria, la corrispondenza, quella più adeguata naturalmente, nell’eccesso di un’irrilevanza, di
un’infedeltà o di un’inesattezza che la rendono irriconoscibile come tale. Tanto più traduzione
rilevante quanto più distante, remota da un originale che non sapremo identificare come testo di
partenza.35 Bella ed infedele? … Nondimeno, di simile rilevanza, un pensatore, che di Celan era
stato collega e lettore assiduo, ha scritto una storia che ha fatto epoca, almeno in ambito francese, e
che muove dalla traduzione dell’Aufhebung hegeliana36 – quel superare conservando che nella
Fenomenologia dello Spirito scandisce il cammino di quest’ultimo.
Cfr. JACQUES DERRIDA, “Che cos’è una traduzione rilevante?”, cit. si tratta del testo di una conferenza pronunciata ad un
convegno di traduttori sulla traduzione, svoltosi a Parigi nel mese di dicembre del 1998. Oltre a questa citata, esiste un’altra
traduzione dello scritto, pubblicata, con indicazioni diverse, su «aut aut», 334, aprile giugno 2007, pp. 21-30.
36
«Questa traduzione è poi diventata quasi canonica in Francia. Ovviamente se si cerca in un dizionario italo-francese […] il
corrispondente francese dell’italiano ‘rilevante’ si trovano nell’ordine i vocaboli ‘considérable, important, marquant,
différenciatif’, ma non relevant. Derrida sa bene che relevant, di filiazione latina […] non è proprio della lingua francese ma è
solo in via di francesizzazione. È quindi suo il passaggio o salto dal verbo relever e il sostantivo relevé all’aggettivo relevant e
35
10
La traduzione rilevante è quella che si organizza intorno al meccanismo della relève, questo
toglimento conservativo che opera innanzitutto nei confronti del senso. Sostituito, soppiantato in
forza di un diverso modo d’intendere, rimane «superato» in traduzione come un’eccedenza non
capitalizzabile dalla lingua. Potere che sconfina nell’impotenza, adempimento dell’Aufgabe des
Übersetzers in quanto a un tempo compito, impresa e fallimento. Spettro della sopravvivenza, della
vita che continua, che si prolunga, che vive dopo la morte.
E che ritorna come un’ossessione.
8.
UND KRAFT UND SCHMERZ
und was mich stieβ
und trieb und hielt:
Hall-SchaltJahre,
Fichtenrausch, einmal,
die wildernde Überzeugung,
daβ dies anders zu sagen sei als
so.37
E FORZA E DOLORE
e ciò che mi ha colpito
e spinto e trattenuto:
anni giubilari
bisestili,
sbornia di abeti, una volta,
il convincimento bracconiere che
questo sia da dire diversamente
da così.
È accaduto. Una volta. Con violenza e dolore. Si è aperta probabilmente una ferita – nel ricordo?
Tuttavia, vi siamo ricondotti, richiamati ripetutamente. Tanto da segnarne la data sul calendario, a
commemorare quanto si scrive come una sbronza, un’ebbrezza – oblio: la scansione periodica del
bisestile si rimarca sul giubileo38 – remissione, tanto del debito quanto della colpa. Celebrare per
dimenticare. Lenire la ferita, affrancati dalla responsabilità.
Pure, sembra, esorcismo, scongiuro di un’ossessione. Laggiù in Bucovina, gli abeti erano materia di
canti, affinché la salma fosse ben custodita in una bara fatta ad arte: legno appropriato, legno
d’abete – ché il morto riposi in pace e non torni. Come il vivo e legittimamente. Tuttavia, simile a
un cacciatore di frodo, s’insinua dirompente la convinzione di un dolo, inganno o raggiro. Il
testimone pare retrocedere dinanzi all’eventualità dello spergiuro: forse il suo racconto non è a
posto, poteva certo far di meglio, dire altrimenti, in modo più rilevante, se vogliamo.
infine alla relève: un vertiginoso intreccio di lingue scambiate fra di loro da una serie di traduzioni ‘rilevanti’» (BRUNO
MORONCINI, La lingua del Perdono, cit., p. 32-33n.).
37
PAUL CELAN, Und Kraft und Schmerz, GW, II, 398.
38
Weinrich, che ha commentato questo poema, scrive a proposito dell’anno giubilare: «è un anno eccezionale […] perché in
quell’anno vengono rimessi i debiti ancora vigenti […]. Remissione […] che non vale solo per oggetti presi in prestito ma anche
per persone prigioniere […]. Se è […] un anno di commemorazione e di memoria […] esso vale anche come un anno di oblio»
(HARALD WEINRICH, Lete. Arte e critica dell’oblio, Il Mulino, Bologna 1999, pp. 246-7).
11
Lo stormire (rausch/en) del vento tra gli abeti rimanda l’eco (Hall) della spenta, attestazione finale
di questa vicenda ineffabile che è la traduzione – transito, traghettamento von Dunkel zu Dunkel, di
tenebra in tenebra:
VON DUNKEL ZU DUNKEL
Du schlugst die Augen auf – ich seh mein Dunkel leben.
Ich seh ihm auf den Grund:
auch da ists mein und lebt.
Setzt solches über? Und erwacht dabei?
Wes Licht folgt auf dem Fuß mir,
dass sich ein Ferge fand? 39
DI TENEBRA IN TENEBRA
Hai spalancato gli occhi – vedo vivere
la mia tenebra. La vedo fin nel fondo:
pure là mi appartiene e vive.
È tenebra che traduce? Che traducendo
si risveglia? Di chi è la luce che mi segue
così accosto da aver trovato un traduttore?
39
PAUL CELAN, Von Dunkel zu Dunkel, GW, I, 97.