Enthymema XXIV 2019
La parola silenzio
Mario Ajazzi Mancini
Scuola di Psicoterapia Comparata
Abstract – Questo lavoro indaga la figura del silenzio, come si sviluppa in alcuni
poemi di Paul Celan. In particolare, analizza l’argumentum e silentio, un’inferenza
vera basata sul tacere o sulla mancanza di risposta. In questo silenzio è in gioco la
morte della lingua. La lingua tedesca, che è la lingua materna del poeta. Violentata
dai nazionalsocialisti e annientata nei forni crematori. La domanda riguarda come
sia possibile continuare a scrivere poesia in questa lingua, e come la poesia possa
sostenere ancora il mandato etico che le impone di sottrarsi a quella violenza e
all’imbarbarimento. Non solo, ma anche come sia possibile, attraverso la poesia
stessa, riappropriarsi di quella lingua come lingua materna. A tale proposito, Celan
propone un erschwiegene Wort, una parola che sia vinta, conquistata, strappata al
silenzio dell’annientamento, e allo stesso tempo una parola silenziata: la parola silenzio. Una parola detta in silenzio che riconduca il più vicino possibile alle spoglie di quella lingua; tanto vicina da mostrarne l’unicità, da rivelarne le pause e le
scansioni che la definiscono in proprio rispetto ad ogni altra. In tal senso, si potrebbe affermare che ogni lingua è materna nel modo in cui trova ritmo e misura rispetto a quanto non può dire. Al silenzio in cui tace (e muore) e su cui si articola,
parla ed è messa in funzione. La lingua compie un’azione. Nella poesia di Celan è
indicata dal termine Spruch. Gesto, come propongo di tradurre: attività e sospensione allo stesso tempo. Il gesto dà corso all’azione e la lascia in sospeso, non la
conclude. Solo così può mostrare che la lingua c’è ed è materna. E che, in fine, le
parole di questa non sono che ‘puri gesti’ – Unworten, come li chiama Celan. Testimoni veridici di qualcosa che c’è perché non c’è più.
Parole chiave – Paul Celan; Silenzio; Poesia; Gesto; Traduzione.
Abstract – My work analyzes the figure of silence and the way it develops in some
of Paul Celan’s poems. More in details, it examines the argumentum e silentio, a
real inference based on withholding or lacking an answer. In this silence the death
of the German language, Celan’s own language, is at stake. It was violated by the
Nazis and slaughtered in the crematoriums. The question is how it can be possible
to keep on writing poetry in this language and how poetry can still retain the ethical power which would force to avoid that violence, that barbarization. And furthermore, how can that language possibly reclaim itself as his mother tongue. In
this regard, Celan proposes an «erschwiegene Wort», a word which is defeated,
conquered, torn from the silence of destruction and, at the same time, a silenced
word: the word silence. A word said in silence which could lead closer to the remains of that language, so close to reveal its pauses, its articulations, its own
uniqueness. Accordingly, we could state that each language is motherly when it
finds its rhythm and its measure around something it cannot pronounce. The language takes action. In Celan’s poetry this action is suggested by the word «Spruch»
which I suggested to be translated through a linguistic gesture: it is action and its
suspension at the same time. This is the only way to demonstrate that the language
is at stake and it is motherly. And, in the end, its words are nothing but ‘pure gestures’ - Unworten, as Celan defines them: true witness of something that is there because it is no longer there.
Keywords – Paul Celan; Silence; Poetry; Action (Gesture); Translation.
Ajazzi Mancini, Mario. “La parola silenzio”. Enthymema, n. XXIV, 2019, pp. 335-353.
http://dx.doi.org/10.13130/2037-2426/12590
https://riviste.unimi.it/index.php/enthymema
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ISSN 2037-2426
La parola silenzio
Mario Ajazzi Mancini
Scuola di Psicoterapia Comparata
Credo che tutte le poesie di Celan restino in certo modo indecifrabili,
custodiscano in sé qualcosa di indecifrabile e questo può richiedere
anche una specie di reinterpretazione, di risurrezione, e l’indecifrabile
può anche convocare interminabilmente ogni sorta di reinterpretazione, di risurrezione, di nuovi respiri di interpretazione, oppure al
contrario può perire, deperire ancora. Nulla può assicurare contro la
morte una poesia, sia che essa venga bruciata in forni crematori, o incendi, sia che, pur senza essere arsa, venga semplicemente dimenticata,
o non interpretata, o messa in letargo. L’oblio è sempre possibile.
(Derrida La lingua 163).
Tra i poteri della parola, distribuiti tra pratica poetica e analitica, vorrei sostare sulla sua capacità
di tacere – di essere parola silenzio. Al fine di riattivare, trattenere in vita, come un fantasma, una
lingua che muore o è morta; per una molteplicità di ragioni, ripartite tra l’uso meccanico/
stereotipato della stessa, e l’efferatezza di crimini perpetrati nei suoi confronti dai parlanti che,
se per un verso l’hanno resa assassina, dall’altro l’hanno annientata nei crematori. Tale è il caso
della lingua di Paul Celan, il poeta che più di ogni altro, nel secolo scorso, ha vissuto questa
esperienza di Vernichtung su entrambi quei registri. Parlare la lingua martoriata degli assassini
che è soprattutto la propria lingua materna. Essere poeta in questa lingua, sottraendosi a un
tempo alla barbarie. Farne densità (Dichtung), portandone all’estremo le possibilità di significazione per costruire un argine di realtà contro lo sfacelo. Segno di resistenza, di vitalità, che si
scrive altresì come bordatura di un enigma, tanto sorgivo quanto indecifrabile; confine attorno
al quale le vicende umane si accampano per cogliere ancora qualcosa di specifico, perché là
incontrano la soglia che li separa dell’ignoto, dallo sconosciuto da cui traggono origine.
Luogo silenzioso, oltre la significazione, cui accedere per dar corso a un’opera di civiltà:
«Wo Es war, soll Ich werden. Es ist Kulturarbeit etwa wie die Trockenlegung der Zuydersee».1 Non tanto,
o non solo progetto di disvelatezza, attività di bonifica, quanto mandato etico che chiama l’io
a essere là dov’era, nello stesso momento in cui se ne sono smarrite le coordinate. Un luogo
d’essere alla cui luce si tratta di venire2 in modo proprio. Nel modo di un esserci (Dasein) che
si rivela in forza di una misteriosa congiuntura che fa della sorte – quasi un capitare – la posta
di un dovere, di un compito da eseguire che mostra la sua assegnazione solo a cose fatte. A
nostra insaputa. È come una vertigine, un’amnesia … che è pure un’esperienza d’altra qualità
(Erfahrung), rischio sommo e incalcolato di un pericolo – affondare, soffocare, tacere: cancellazione e cenere –, scampato nello stesso venir meno che là si testimonia. Il silenzio vi si attesta
in modo per lo più angosciante – tanto nella poesia quanto nei nostri studi: assenza di parola
«Dove era Es, deve subentrare Io. È un’opera di civiltà, come ad esempio il prosciugamento dello
Zuiderzee» (Freud 190).
2 «Wo, dove Es […] war, era, è d’un luogo d’essere che si tratta […]; soll, è un dovere in senso morale
che s’annuncia […], Ich, io, là devo […] werden, divenire, cioè non sopravvenire, ma venire alla luce di
questo stesso luogo in quanto è luogo d’essere» (Lacan 408).
1
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e di presenza a sé, eppure tratto di verità destinale che riconduce, probabilmente, all’origine,
alla fonte stessa del dire. Là dove chi parla, abita intimamente la sua lingua come propria; quasi
con il pudore e l’imbarazzo della prima volta:
E tolleri, madre, ah come in passato a casa,
la dolce, la tedesca, la dolorosa rima.
Parlare infatti, parlare come la propria madre,
significa abitare, anche là dove non c’è tenda
(Celan La sabbia delle urne 22 e Microliti 64).
Argumentum e silentio era il titolo che Celan aveva immaginato per la sua seconda raccolta – i tre
cicli di poesie composte a Parigi dal 1952 al 1954. Il volume, lo sappiamo, si chiamerà Von
Schwelle zu Schwelle, e quel titolo rimarrà per un poema della terza sezione dedicato a René Char.3
L’argomento – o ragionamento argomentativo – in questione concerne propriamente
un’inferenza basata sul tacere o sulla mancanza di un’asserzione contraria. Ha valore affermativo perché giunge, nell’ambito di un dibattito, come conclusione vera sul fondamento del
silenzio, o sulla sua mancata risposta dell’interlocutore; entrambi funzionano quindi come premessa assente, dando luogo a una deduzione efficace, anche quando sono riconosciute buone
ragioni a favore della reticenza.
In un frammento del 1959, Celan lo chiama in causa a proposito di uno «Sprach-Tabu»,
caratteristico della poesia:
quando una poesia perviene a determinate formazioni sintattiche o fonetiche, viene spinta su
piste che essa traccia fuori dal suo proprio ambito, ossia dall’attualità che codetermina la sua
necessità. C’è, in altre parole, un tabù linguistico proprio alla poesia e soltanto a essa, che vale
non soltanto per il suo lessico, ma anche per categorie come sintassi, ritmo o fonazione; dal nondetto esce qualcosa di comprensibile; la poesia conosce l’argumentum e silentio (Celan Microliti 71).4
Rispetto all’interdetto, al divieto di trattare o toccare oggetti, temi o motivi, apparentemente
proibiti, alla sua costitutiva – per quegli anni – tendenza all’evitamento, la poesia sa che comunque, in quello stesso luogo, origina qualcosa di decisivo e inaggirabile che la coinvolge
come pratica responsabile. La soglia del titolo è allora anche quella dove riposizionarsi riguardo
a quanto è incatenato tra «oro» e «oblio» – alla Notte, un accadimento, nella storia del secolo,
dalla portata catastrofica per l’umanità intera, un «disastro»5 che risulterebbe per lo più stem-
3 Per tutte le informazioni riguardanti le pubblicazioni di Paul Celan, faccio riferimento a Celan, Die
Gedichte, in merito Von Schwelle zu Schwelle, 621-642. Traduco invece da Celan, Gesammelte Werke, che
contiene anche gli scritti in prosa, le traduzioni e l’opera giovanile; d’ora in avanti menzionato attraverso
la GW, preceduta dal titolo del poema, come segnalato in bibliografia. Riguardo ai rapporti con René
Char, poeta ammirato da Celan, che per primo aveva spinto la lingua poetica negli orrori della storia
novecentesca, rimodellandola eticamente, di là da ogni abbellimento e/o sentimentalismo, si veda, oltre
alla mirabile traduzione dei Feuillets de Hypnos (Celan, Hypnos. Aufzeichnungen aus dem Maquis, GW, IV 437560), Celan, Char, Correspondance e il volume di Ercolani (67-90).
4 L’interdetto è probabilmente riferibile all’affermazione di Adorno in merito allo scrivere poesia dopo
Auschwitz: «Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie» (Adorno Prismi 22). Cfr Adorno,
Celan, accompagnato da un importante saggio di J. Seng sull’argomento.
5 «Quando tutto è stato detto, resta da dire il disastro, rovina della parola, cedimento attraverso la scrittura, brusio che mormora: ciò che resta senza resto», Blanchot, La scrittura del disastro, p. 47; cfr. inoltre
Celan. Cayrol, Nacht und Nebel. Kommentar zum Film von Alain Resnais. (GW, IV 77-99); e sul tema del
«disastro» Moroncini (353-389).
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perato retoricamente in una sterile estetizzazione, rendendolo accettabile per gli stessi «aguzzini» che ne sono all’origine; o rimosso in nome di un’ideologia della ricostruzione che dimentica di fare i conti con le proprie macerie.
Quello della poesia – scriverà Celan nel Meridiano – ha da essere il gesto sovrano di un
Gegenwort: «La controparola (Gegenwort) è un atto della libertà. È un passo […]. Omaggio reso
alla maestà dell’assurdo (Majestät des Absurden) che testimonia (zeugenden) per la presenza/presente (Gegenwart) dell’umano».6
Frei-werdende Zeltwort:7 parola tenda, nella Niemandsrose, che libera e si libera, che eleva, ripara
e accoglie. Hütte, capanna dove si radunano mondo e uomini, perché ci sia uno spazio abitabile,
una vita nella parola che si fa presente alle proprie date, che convoca e richiama un angelo
gravido di storia, zoppo, soffocato da una tempesta di grandine che cancella con la stessa ferocia di un pogrom. Nominazione fugace e luminosa che rovescia l’abisso nel cielo, consentendo
alle costellazioni di risplendere – una guida e/o destino – grazie alle lettere dell’antico alfabeto,
fatte ancora di luce.
[…]
geht im Verwaisten umher,
tänzerisch, klobig,
die Engelsschwinge, schwer von Unsichtbarem, am
wundgeschundenen Fuβ, kopflastig getrimmt
vom Schwarzhagel, der
auch dort fiel, in Witebsk,
[…]
geht, geht umher,
sucht, […], holt
Alpha Centauri herunter, Arktur, holt
den Strahl hinzu, aus den Gräbern,
[…]
schreitet
die Buchstaben ab und der Buchstaben sterblich –
unsterbliche Seele,
geht zu Aleph und Jud und geht weiter,
baut ihn, den Davidsschild, läβt ihn
aufflammen, einmal,
läβt ihn erlöschen – da steht er,
unsichtbar, steht
bei Alpha und Aleph, bei Jud,
Celan, Der Meridian (GW, III 189, 190). «Il gesto di Celan nel ricorso alla parola ‘maestà’, ed ecco ciò
che più mi interessa qui, […], è un gesto che consiste nel mettere una maestà sopra all’altra, nell’impegnarsi quindi in un rilancio a proposito della sovranità. Un rilancio che tenta di cambiare il senso della
maestà o della sovranità, di farne cambiare il senso, pur mantenendo la vecchia parola o pretendendo di
renderne più degno il senso. C’è la maestà sovrana del sovrano, del Re, e c’è, più maestosa o altrimenti
maestosa, la maestà della poesia, o la maestà dell’assurdo in quanto testimone della presenza dell’umano»
(Derrida La bestia e il sovrano 285).
7 Celan, Anabasis (GW, I 257).
6
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bei den andern, bei
allen: in
dir,
Beth – das ist
Das Haus, wo der Tisch steht mit
dem Licht und dem Licht (Celan, Hüttenfenster, GW, I 278). 8
[…]
s’aggira nell’abbandono,
danzando goffamente,
l’ala dell’angelo,
appesantita dall’invisibilità, al
piede ferito, tarpata e
zavorrata di testa
dalla grandine nera che
è caduta anche là, a Vitebsk,
[…]
gira, s’aggira
cerca,
[…] va a prendere
Alpha Centauri, Arturo, […]
[…]
Va a Aleph e Jud, e continua –
costruisce lo scudo di David,
l’avvampa, una volta,
lo spegne, sta là,
invisibile, sta
accanto a Alpha e Aleph, accanto a Jud,
accanto alle altre, accanto a
tutte: in
te,
Beth – questa è
La casa dove sta il tavolo con
la luce e la luce.
La nuova Schwelle segna così, e rilancia verso le raccolte successive, una virata in direzione
della verticalità;9 che è pure una sorta di restringimento di spazi e tempi, che tendono a disporsi
in altezza – e lungo la scansione sempre più frammentata dei versi – per stare, ergersi come a
conquista di quella posizione eretta che caratterizza l’uomo. «Adesso si restringe il luogo dove
stai»: un assottigliarsi, avvolgersi che tuttavia consente di congiungere l’altezza con l’abisso, e
ritrovare infine quella luce che riflette e si riflette nel movimento stesso delle parole: «là dove
8
9
Per una lettura di questo poema, mi sia consentito rinviare a Ajazzi, A nord del futuro 12-17.
Su questo motivo, in rapporto ad un confronto con Hölderlin, cfr. Mecacci 126-131.
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si vede risplendere: / nella risacca di parole erranti». Al prezzo, nondimeno, di un’afanisi, di
una cancellatura/sparizione del soggetto poematico, tanto assottigliato da farsi verso: «Più sottile, più irriconoscibile, più fine! /Ti fai più fine: un filo». Sulla medesima soglia raggiunta, che,
per consentirgli ancora di parlare, ha da profilarsi come ultima e invalicabile: «Sprich auch du, /
sprich als letzter, / sag deinen Spruch».10 Dell’ultimità di questo Spruch, l’argumentum e silentio sembra
esplorare le condizioni, riconducendone l’ordinamento a quel parlare materno da cui prende
costantemente le mosse, per riconquistare legittimità sul fondamento di una lingua che è sempre anche la lingua degli assassini.
Argumentum e Silentio
Für René Char
An die Kette gelegt
zwischen Gold und Vergessen:
die Nacht.
Beide griffen nach ihr.
Beide ließ sie gewähren.
Lege,
lege auch du jetzt dorthin, was herauf-dämmern will neben den Tagen:
das sternüberflogene Wort,
das meerübergossne.
Jedem das Wort.
Jedem das Wort, das ihm sang,
als die Meute ihn hinterrücks anfiel –
Jedem das Wort, das ihm sang und erstarrte.
Ihr, der Nacht,
das sternüberflogene, das meerübergossne,
ihr das erschwiegne,
dem das Blut nicht gerann, als der Giftzahn
die Silben durchstieß.
Ihr das erschwiegene Wort.
Wider die andern, die bald,
die umhurt von den Schinderohren,
auch Zeit und Zeiten erklimmen,
zeugt es zuletzt,
zuletzt, wenn nur Ketten erklingen,
zeugt es von ihr, die dort liegt
zwischen Gold und Vergessen,
beiden verschwistert von je –
Denn wo
dämmerts denn, sag, als bei ihr,
die im Stromgebiet ihrer Träne
tauchenden Sonnen die Saat zeigt
aber und abermals?
Celan, Sprich auch du (GW, I 135). Sulle vicende dell’ultimità, cfr. Blanchot, (L’ultimo a parlare 9-53), a
cura di chi scrive.
10
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La parola silenzio
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Argumentum e Silentio
Per René Char
Messa alla catena
tra oro e oblio:
la notte.
Entrambi stesero le mani su di lei.
A entrambi lo concesse.
Mettici, ora
mettici anche tu, là, ciò che
vuole albeggiare accanto ai giorni:
la parola sorvolata di stelle,
inondata di mare.
A ciascuno la parola.
A ciascuno la parola che gli cantò,
quando la muta l’aggredì alle spalle –
A ciascuno la parola che gli cantò e impietrì.
A lei, alla notte,
la sorvolata di stelle, l’inondata di mare,
a lei la sorta dal silenzio,
cui il sangue non coagulò, quando il dente
del veleno trafisse le sillabe.
A lei la parola silenzio.
Di contro le altre che, tra poco,
sputtanate dall’orecchio dell’aguzzino,
anche su tempo e tempi s’arrampicano,
testimonia infine,
infine, quando risuonano solo catene,
testimonia di lei, che giace là
tra oro e oblio,
affratellata a entrambi, da sempre –
Ma di'
dove mai albeggia, se non in lei,
che nel bacino delle sue lacrime
a soli che s'immergono mostra
e mostra ancora la semenza.
Il poema è del settembre 1954, e chiude un trittico di testi – con Kenotaph e Sprich auch du,
nella terza sezione di Von Schwelle zu Schwelle –, che costituiscono una presa di posizione, una
risposta poetica, da parte del loro autore, rispetto a certi avvenimenti che avevano “avversato”
la pubblicazione di Mohn und Gedächtnis, la sua prima raccolta, uscita nel dicembre del 1952.
Avvertiti quasi come un secondo crimine, dopo di quello perpetrato nei confronti della famiglia, in Ucraina.11
«Lontano, a Michailovka, in / Ucraina, dove / mi hanno ucciso padre e madre». Celan, Wolfsbone (GW,
VII 45). Per un’attenta analisi di questo poema, si veda Miglio (80-86).
11
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La parola silenzio
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Nel maggio di quell’anno, infatti, tramite i buoni uffici di Ingeborg Bachmann, Celan è
invitato a partecipare alla riunione del Gruppo 47, fondato da Hans Werner Richter, a Bad
Niendorf nel nord della Germania.12 Le sue letture, per lo più da Mohn und Gedächtnis, suscitarono diverse perplessità nel gruppo – d’impostazione progressista, «un realismo non di prima
scelta» secondo il poeta, e orientato per lo più alla promozione dei giovani scrittori tedeschi
del dopoguerra. La dizione di Celan – aspra e per certi versi salmodiante – fu inascoltabile,
suscitando paragoni indecorosi addirittura con la voce di Göbbels (Böttiger 109). Celan reagì
con sarcasmo e abbandonò definitivamente il gruppo e le sue attività (Gnani 26).13
Nell’agosto del 1953, Claire Goll, vedova del poeta alsaziano Yvann, inviò a giornali ed
editori una lettera aperta in cui accusava Celan di plagio nei confronti del marito. Il poeta,
anche questa volta non prese alcuna posizione pubblica, trincerandosi in un chiuso silenzio.14
Nondimeno, parte importante della critica tedesca raccolse le maldicenze della Goll, tacciando
Celan d’invenzione e fantasticherie – nei termini di Hans Egon Holthusen: «un linguaggio
sognante, oltre il reale, per certi aspetti […] già ultraterreno, per sfuggire alle insanguinate camere dell’orrore della storia e ascendere nell’etere della poesia pura».15 Celan, che aveva spesso
contrastato la “poesia pura” in nome del “realismo”, iniziò a riconsiderare il proprio tacere –
non solo in merito alla diffamazione, ma anche alla rimozione dei crimini nazisti da parte dei
tedeschi – quale elemento su cui fa leva per replicare alle accuse; si servì dell’argumentum per
mostrare come dal silenzio stesso fossero desumibili verità e prove testimoniali.16
Ma non soltanto. L’atteggiamento nei confronti della Notte pare fin da subito caritatevole.
Poggiarvi, stendervi – come uno «scialletto» (ein Tüchlein) per la madre –,17 una parola, una
Per tutte le informazioni riguardanti il rapporto tra Celan e Bachmann, e le vicende legate alla recezione di Mohn und Gedächtnis nella Germania del dopoguerra, si veda, oltre a Bachmann, Celan, il recente
volume di Böttiger, in particolare 93-118, nonché Gnani e Fontana.
13 «Primo scontro armato. – Scrive Celan alla moglie, il 31.05.1952. – Letture. Poi interventi della “critica”. Parole con o senza orizzonte interno. Ma per lo meno ben dette […]. E alle 9 di sera, ecco il mio
turno. Ho letto ad alta voce, mi pareva di raggiungere, passando oltre le teste dei presenti – di rado
benevole -, uno spazio in cui “le voci del silenzio” erano ancora accolte… L’effetto fu chiaro ma Hans
Werner Richter, il capo del gruppo, promotore di un realismo che non è di prima scelta, si è ribellato.
Questa voce, la mia, che non scivolava attraverso le parole come quella degli altri, ma che si soffermava
spesso in una meditazione cui non potevo non partecipare pienamente e con tutto il cuore – questa
voce doveva essere sconfessata, affinché le orecchie dei lettori di giornali non ne serbassero ricordo»,
(Celan, Celan-Lestrange 27-28, corsivi miei); per un resoconto di quelle giornate, si vedano anche le
lettere dei giorni precedenti, 28 e 30 maggio (pp. 24-26).
14 Cfr. Celan, Die Goll-Affäre: raccoglie tutti i documenti che si riferiscono alla vicenda legata alla denuncia
di plagio. In merito a una riflessione sul caso, riguardo agli sviluppi poetici, rimando a un mirabile intervento di Bonnefoy.
15 I critici in questione sono Carl Hohoff e Hans Egon Holthusen. Le parole di quest’ultimo sono
riportate da Gnani (30-31).
16 Così, alcune figure del poema del ’54 – ad esempio la «muta» e il «dente del veleno» – divengono
leggibili nel rimando a persone e momenti di una controversia nel tempo differito di una ripresa poetica.
«[Celan] dipinse i suoi denigratori come una “muta” che lo attaccava vigliaccamente “alle spalle” e Claire
Goll come una “vipera” che addentava malignamente il suo canto» (Gnani 33). È curioso notare che la
vipera – immagine certamente efficace – viene dalla traduzione di Bevilacqua (Celan Poesie 237) – là dove
Celan si limita, per così dire, a Giftzahn, un dente velenoso.
17 Cfr. Celan, Schwarze Flocken (GW, III 25):
Ein Tuch, ein Tüchlein nur schmal, daβ ich wahre
nun, da zu weinen du lernst, mir zu Seite
die Enge der Welt, die nie grünt, mein Kind, deinem Kinde!
[…]
Kam mir die Träne. Webt ich das Tüchlein.
12
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La parola silenzio
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parola non ancora detta, desiderosa di lacrime e luce, quasi ad annunciare un’alba. Che si levi
e sorga, mantenendo la tensione verso l’abisso: «sorvolata di stelle / inondata di mare». Una
parola che tuttavia si cantava. Richiamata alla memoria attraverso un Großbinnenreim, una
grande rima interna che tiene insieme ieri e oggi, la patria e la distruzione delle genti. Buche,
faggio, Birke, betulla, evocazione di luoghi e canti lontani, sono divenuti, nella stessa lingua
Buchenwald e Birkenau, campi di terrore e annientamento: «Von / einem Baum, von einem. / Ja,
auch von ihm. Und vom Wald um ihn her» – Baum il faggio di Bucovina, la terra natale, e Wald, il
bosco all’intorno …18 Muovere da questa rima allora; nello stesso luogo e secondo il medesimo
dettato di equità che i nazionalsocialisti avevano trasformato in sopraffazione, compitandolo
come monito sul cancello principale d’ingresso a quel campo. Jedem das Wort. Jedem das Seine. A
ciascuno il proprio dovuto, ciò che gli compete. Perché la lingua di quella rima è materna e
resta. Cantò e rimase.19
Raggiungibile vicina e non perduta in mezzo alle perdite è rimasta solo la lingua […]. Ma ha dovuto
passare attraverso le proprie mancanze di risposta […], attraverso uno spaventoso ammutolire
[…], attraverso le molteplici oscurità di un discorso portatore di morte. È passata ma non ha dato
parola a quanto accadeva […]. È passata attraverso ed ha potuto di nuovo tornare alla luce, “arricchita” da tutto questo. In questa lingua ho cercato di scrivere poemi: per parlare, per orientarmi,
per apprendere dove mi trovassi e dove fossi diretto, per progettarmi una realtà. Era […] evento,
movimento, essere in cammino, era il tentativo di conseguire una direzione.20
Si tratterà allora di portare alla Notte la parola che le spetta, quella che la lingua non ha dato
a quanto accadeva; la parola di un vivo – sangue che scorre. Nella uttersprache, dove ci sono
ancora canto e ascolto. Das erschwiegene Wort. Parola autenticamente testimoniale, parola di verità – secondo la logica dell’argumentum –, conquistata, conseguita, vinta e/o strappata al silenzio; ma anche parola silenzio, silenziata – quasi la sospensione dell’azione che se ne appropria
(vinta al silenzio e al silenzio restituita) –, sempre lavorata da quello, parola morta di un vivo,
che giunge, fa istanza e attesta un accadimento indicibile tramite altre – wider die andern –, in
altra lingua. Perché schweigen, nella varietà delle sue combinazioni,21 àncora e sostiene la dizione
nell’unico luogo in cui è possibile, rendendola poetica e propria.
Uno scialle, solo un piccolo scialletto, da custodire
accosto a me, adesso che tu impari a piangere
la ristrettezza del mondo, che non sarà mai verde, figlio mio, per tuo figlio!
[…]
Mi son venute le lacrime. Ho tessuto lo scialletto.
18 Cfr. Celan, Und mit dem Buch aus Tarussa (GW, I 287).
19 Per Celan, come per Arendt di lì a poco, la lingua materna resta: «Cosa resta? Resta la lingua […]. Mi
sono sempre deliberatamente rifiutata di perdere la mia lingua madre […]. C’è una differenza enorme
tra la propria lingua madre e un’altra lingua […]. Conosco a memoria gran parte della poesia tedesca; le
poesie sono in un certo senso sempre lì, sullo sfondo dei miei pensieri. Questo può accadere una sola
volta nella vita […]. La lingua tedesca è la cosa essenziale che è rimasta e che ho sempre volutamente
conservato» (Arendt 47-48).
20 Celan, Literaturpreises Bremen (GW, III 186), i corsivi sono di chi scrive.
21 Schweigen ha l’ordinamento di un Gegenwort, termine che Celan conia sul modello di Antwort, risposta,
per fare emergere un senso che nell’uso si era perduto. Gegenwort è parola che si erge, si pone al cospetto
di qualcosa o qualcuno. Più che una risposta, allora. Ha statuto allocutivo, e nella forma di anschweigen
(utilizzata spesso negli appunti preparatori al Meridiano), indica il rivolgersi all’altro attraverso il silenzio,
in modo che se ne possa servire per esprimersi. Una variante di zuspechen o zusagen: assegnare, acconsentire, promettere, conferire il silenzio all’altro, zuschweigen, indirizzarglielo… Alle spalle, probabilmente le
molte letture heideggeriane, fin dai primi anni ‘50: In cammino verso il linguaggio, dove il silenzio è inteso
come parte costitutiva del discorso, e i §§ 7e 34 di Essere e Tempo, in cui il silenzio è considerato come la
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La parola silenzio
Mario Ajazzi Mancini
Il poeta è, infatti, il luogo in cui si mantiene attivo il rapporto tra conservazione e innovazione nella lingua, in cui dicibilità e indicibilità possono essere assegnate e decise.22 In cui una
lingua è e resta non perduta, benché uccisa e violentata, come nel caso di Celan;23 e che pertanto torna come «ombra», cui quel corpo assottigliato – quel soggetto che si è fatto verso,
poema – sacrifica e offre il proprio sangue verbale, per non smettere di alimentarla, nutrirsene
e parlarla. La poesia è allora l’esperienza di questo restare – una sorta di «risurrezione»24 – della
lingua che muore, esperienza che si compie in vita, nell’estrema prossimità al suo cadavere:
Ein Wort – du weißt:
Eine Leiche.
Laß uns sie waschen,
laß uns sie kämmen,
laß uns ihr Aug
himmelwärts wenden.25
Una parola – sai:
Un cadavere.
Lasciaci lavarlo,
lasciaci pettinarlo,
lascia che volgiamo
il suo occhio verso il cielo.
A testimoniare di un ritorno, morte in vita, che l’atto poetico – Spruch – rende possibile ed
essenziale.26 Chi parla è, infatti, l’ultimo a parlare, il testimone del dopo, di ciò che rimane,
scaturigine stessa del linguaggio, e articolato nelle forme della reticenza verschweigen, e di quel passare
sotto silenzio, erschweigen, che conserva e mantiene aperto un non detto, affidandolo alla parola altrui.
22 «Si può considerare ogni lingua come un campo percorso da due tensioni opposte, una che va verso
l’innovazione la trasformazione, l’altra verso l’invarianza e la conservazione […]. Il punto di incrocio
fra queste due opposte correnti è il soggetto parlante, l’auctor in cui si decide ogni vota ciò che si può
dire e ciò che non si può dire, il dicibile e il non dicibile di una lingua» (Agamben Quel che resta 149).
23 «Mi sembra che, in ogni istante, egli [Celan] abbia dovuto vivere questa morte, e in modi diversi. Ha
dovuto viverla ovunque ha sentito che la lingua tedesca veniva uccisa, per così dire, ad esempio da
individui che ne hanno fatto un certo uso: essa viene calpestata, uccisa, messa a morte, perché la si fa
parlare in questo o quel modo. L’esperienza del nazismo è un crimine contro la lingua tedesca. Ciò che
è stato detto in tedesco sotto il nazismo, è una morte. Esiste un’altra morte, che è costituita dalla semplice banalizzazione, la trivializzazione della lingua (per esempio il tedesco), in un qualsiasi momento o
luogo. E poi c’è ancora un’altra morte, cui necessariamente la lingua è soggetta a causa di ciò che è, ossia
ripetizione, messa in letargo, meccanizzazione, ecc.» (Derrida La lingua non appartiene 162).
24 «L’atto poetico costituisce quindi una specie di risurrezione: è poeta chi si trova costantemente alle
prese con una lingua che muore e che lui fa risuscitare, non restituendole una linea trionfante, ma facendola talvolta ritornare come un fantasma: egli risveglia la lingua», (Ivi 162-63). Agamben, riprendendo l’esempio di Pascoli, poeta in latino, sostiene che, in quanto assume la posizione di soggetto in
una lingua morta, «attua una vera e propria resurrezione della lingua morta»; ma è un caso isolato, perché
il poeta continua a parlare e vivere in un’altra lingua materna. Così fa soltanto «sopravvivere la lingua ai
soggetti che la parlavano», producendola come «un medio indecidibile – o una testimonianza – fra una
lingua viva e una lingua morta», (Agamben Quel che resta 150).
25 Celan, Nächtlich geschürzt (GW, I 125).
26 «Non mi piace molto la parola “essenza” della lingua, vorrei attribuire un senso più vivo e dinamico
a questo modo di essere, a questa manifestazione della spettralità della lingua che vale per tutte le lingue.
L’esperienza universale corrente della lingua in generale diviene qui un’esperienza come tale, e come tale
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ombre e cenere. Vi resta accosto, anche nel mezzogiorno (Mittag) di una rinascita, di quella
ripresa, esistenziale e politica, che animava gli spiriti nei primi anni ’50, talvolta fino a stornarli
dal ricordo della Notte (Mittnacht).
Beim Tode! Lebendig! – solo per la morte si rivive, c’è vita in giro. Si dicono parole di verità,
parlando davvero la propria lingua.
Sprich auch du
Sprich auch du,
sprich als letzter,
sag deinen Spruch.
Sprich –
Doch scheide das Nein nicht vom Ja.
Gib deinem Spruch auch den Sinn:
Gib ihm den Schatten.
Gib ihm Schatten genug,
gib ihm so viel,
als du um dich verteilt weiβt zwischen
Mittnacht und Mittag und Mittnacht.
Blicke umher:
sieh, wie’s lebendig wird rings –
Beim Tode! Lebendig!
Wahr spricht, wer Schatten spricht.
Nun aber schrumpft der Ort, wo du stehst:
Wohin jetzt, Schattenentblöβter, wohin?
Steige. Taste empor.
Dünner wirst du, unkenntlicher, feiner!
Feiner: ein Faden,
an dem er herabwill, der Stern:
um unten zu schwimmen, unten,
wo er sich schimmern sieht: in der Dünung
wandernder Worte27.
Parla anche tu
Parla anche tu,
parla come l’ultimo,
Fa’ il tuo gesto.
Parla –
Ma non separare il no dal sì.
Dà anche senso al tuo gesto:
dagli l’ombra.
appare nella poesia, nella letteratura e nell’arte. […]. Definirei poeta colui che fa più a vivo l’esperienza
di ciò. Chiunque fa a vivo l’esperienza di una simile erranza spettrale, chi si arrende a questa verità della
lingua, è poeta, sia che scriva poesie oppure no. […]. Io […] definisco poeta chi lascia aperta la possibilità
di eventi di scrittura che diano un nuovo corpo a quest’essenza della lingua, che la facciano apparire in
un’opera» (Derrida La lingua 161-62).
27 Celan, Sprich auch du (GW, I 135). La traduzione è improntata sulle riflessioni che seguono.
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La parola silenzio
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Dagli ombra abbastanza,
tanta che intorno a te
tu la sappia spartita tra
mezzanotte e mezzogiorno e mezzanotte.
Guarda attorno:
vedi come c’è vita in giro.
Per la morte! C’è vita!
Parla vero, chi parla ombre.
Ma ora si restringe il luogo dove stai:
dove andrai adesso, spogliato dell’ombra, dove?
Sali. Tastoni. Sali.
Più sottile, più irriconoscibile, più fine!
Ti fai più fine: un filo,
sul quale vuole scendere la stella:
per nuotare in basso, giù in basso,
là dove si vede risplendere:
nella risacca di parole erranti.
Sorta di manifesto poetico che pare fondarsi su un mot juste – parola ombra – da pronunciare
in nome della verità. Il corpo vivo si assottiglia, fin quasi a scomparire, per scriversi nella lingua
che muore, e ripristinarne la dizione. In silenzio, attraverso il silenzio. Lo Spruch28 – poema
detto, e quindi agito (dalla voce che lo mette in funzione) – silenzia, interrompe la stessa azione
che compie, lasciandola in sospeso. Non dice niente, se non che la lingua c’è, è rimasta – ha
cantato; e la si ritrova perché in quel tacere aderisce al proprio reale, all’oggetto ineffabile che
intrattiene e che, ogni volta che si attiva, si adopera far sorgere – sempre lo stesso –, e levarsi
nella sua unicità. In tal senso, la lingua è unica e materna: per ritmo e scansione propri, e si fa
poesia, lo diviene perché si articola su questi; vincolata a quell’indicibilità che infinitamente
espone, prendendo parola.
Die Dichtung, meine Damen und Herren –: diese Unendlichsprechung von lauter Sterblichkeit und Umsonst.29
Spruch è poesia, nel senso di ciò che è detto, dell’atto del dire, ma anche motto, massima, versetto,
giudizio, pensiero: istanza di legge e fondazione di un mondo, istituzione di un abitare “tra mezzanotte
e mezzogiorno e mezzanotte”, nell’ambito di quell’ombra che consente di indovinare il senso della luce,
cfr. Celan, Sprachgitter (GW, I 167). In merito alla valenza del termine Spruch, riporto un brano dello
studio di Maletta, 2006, p. 218-222: «Merita […] soffermarsi sull’ampio spettro semantico di ‘Spruch’
nell’originale tedesco. Il significato primo è ‘motto, sentenza’; ma ‘Spruch’ sta anche per ‘Zauberspruch;
Orakelspruch’ (formula magica, oracolare) e rinvia a un parlare oscuro, divinatorio e taumaturgico […].
Agli antipodi si colloca la sfera del sacro e del santo del teak (il canone ebraico), ove il detto è rappresentato dal Libro dei Proverbi (Das Buch der Sprüche ovvero Die Sprüche Salomos) […]. Continuando
nell’esplorazione semantica del lessema […] tra i composti ecco “Urteilsspruch” (sentenza, verdetto), che
è del linguaggio giuridico e, nel contesto dato, conduce a “Spruchkammer”. E tuttavia abbiamo forse
escluso il composto più significativo, quello che già da subito cattura la mente del lettore celaniano
avvertito e attento: “Segensspruch”. “Segensspruch” è propriamente “benedizione”: ein Segensspruch, vorn, /
ballt sich / zur wetterfühligen / Faust, leggiamo in una delle ultime poesie» – cfr. a proposito di quest’ultima
citazione, Celan, Umlichtet (GW, III, 114): «una benedizione, davanti, / si stringe / in un pugno meteoropatico». Poesia, ovvero parola detta e trattenuta, bene/detta.
29 Celan, Der Meridian (GW, III 200). Il senso del passaggio di Celan non è immediato e si complica
ulteriormente in traduzione. Bevilacqua lo rende, quasi con accento biblico, attraverso: «La poesia, Signore e Signori: questa patente di infinito data a quanto è pura mortalità e vanità» (Celan La verità 18).
28
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La poesia, Signore e Signori –: questo gesto infinito di un dire che parla della pura mortalità e
dell’invano.
Il gesto non coglie solo soltanto la finitezza – sancita dalla Sterblichkeit – la soglia stessa della
sua ultimità, dichiarando l’essere senza scopo della vita – Umsonst. Raccoglie altresì la morte
della lingua, nella lingua, per non cessare di parlarla e non mentire.30 Poesia è infatti «fatidica
unicità della lingua» – schicksalhaft Einmalige der Sprache.31 Non tanto monolinguismo, scelta obbligata del tedesco a favore di altre lingue – tutte quelle che Celan traduceva e quella in cui
viveva – ma accadimento e attestazione di questa, all’ombra di un fantasma silenzioso. Parlarla
fino a tacerla, perché questa è la nostra lingua, la lingua della poesia – fatta di sillabe, sillabata
… un balbettio: nur lallen und lallen.32
[...]
Besuche ertrunkener Schreiner bei
diesen
tauchenden Worten:
Käme,
käme ein Mensch,
käme ein Mensch zur Welt, mit
dem Lichtbart der
Patriarchen: er dürfte,
spräch er von dieser
Zeit, er
dürfte
nur lallen und lallen,
immer-, immerzuzu.
(«Pallaksch. Pallaksch.») 33
[…]
Un’indefinita parola (patente) d’infinito articola – e forse «spiega» – la relazione tra morte e vanità. La
poesia sarebbe ciò che li rende infiniti, facendo così supporre, in sé, una sorta di aspirazione, ricerca di
trascendenza che ne interrompa l’“inutile” ripetizione di cui effettivamente parlerebbe.
30 Parlare tacendo, perché quel gesto che espone all’evento di parola ne rivela a un tempo la difficoltà
per la stessa bocca che la pronuncia, talvolta fino al soffocamento – cfr. a questo proposito, Kofman,
2010, che, sulla scorta di tale eventualità, affronta la questione della testimonianza su Auschwitz, intrecciando la propria riflessione a quella di Blanchot e di Antelme (cfr. Antelme, 1997). Sul gesto come
«comunicabilità pura», Agamben, Mezzi senza fine: «Esso [il gesto] non ha propriamente nulla da dire,
perché ciò che mostra è l’essere-nel-linguaggio dell’uomo come pura medialità. Ma, poiché l’essere-nellinguaggio non è qualcosa che possa essere detto in proposizioni, il gesto, nella sua essenza, è […]
sempre gag nel significato proprio del termine, che indica innanzitutto qualcosa che si mette in bocca
per impedire la parola» (52-53). Interruzione continua della comunicazione e dell’informazione, la poesia
è forse questo rapporto con la lingua in cui siamo, restituita, per così dire, al segreto della propria possibilità di significazione, come ad una sorta di impotenza – cfr. inoltre Agamben (Profanazioni 67-81;
Karman 135-139).
31 Celan, Antwort auf eine Umfrage der Librairie Flinker, Paris (1961) (GW, III 175).
32 «Il Padre […], che su tutti impera / ama che specialmente si curi / la ferma lettera (der feste Buchstab),
e l’esistente bene / si interpreti (Gedeutet). Ciò persegue il canto tedesco (Dem folgt deutscher Gesang)»,
Patmos, in Hölderlin, Tutte le poesie, p. 327.
33 Celan, Tübingen, Jänner (GW, I 226).
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La parola silenzio
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Visite di falegnami affogati
a queste
parole che s’immergono:
Venisse,
venisse un uomo,
venisse un uomo al mondo, oggi,
con la barba di luce dei
Patriarchi: potrebbe,
se parlasse di questo
tempo,
potrebbe
soltanto balbettare e balbettare,
ininterrotta, ininterrotta
mente mente.
(«Pallaksch. Pallaksch»).
Il poema è del 1961, ed è stato scritto a Parigi il 29 di gennaio, di ritorno da una visita a
Tubinga, la città di Hölderlin;34 dove Celan aveva incontrato Walter Jens, l’amico solidale che
lo aveva sostenuto negli ultimi sviluppi dell’affare Goll (Celan Die Gedichte 680-682). Sulla
scorta di questa vicenda – che sembra non aver fine – il poeta torna a interrogarsi sulla propria
scrittura, in merito alla possibilità di rigenerazione di una lingua che viene meno, affonda o
s’inabissa. Ne mostra il naufragio, in termini collettivi. Una comunità di parlanti, che trovava
in Hölderlin, e nella sua lingua, la propria fonte, affonda, richiamando il Reno (Hölderlin Tutte
le poesie 331), il fiume della scaturigine, nel medesimo fiume di Tubinga, il Neckar, in cui si
riflettono la città e la torre – divenuta museo e attrazione turistica. Nondimeno, pure in forma
dubitativa, al modo congiuntivo, vi si manifesta l’esigenza di un futuro – che sia carico di
memoria. Infatti, dopo aver ridistribuito gli elementi del soggiorno di Hölderlin, Celan lascia
intravedere il senso della visita a Tubinga: scrittura di parole che sprofondano. Scrittura di
scrittura da cui il poema trae davvero origine. Istanza di un supporto memoriale (Gedächtnis)
che intrattiene al presente l’esperienza irrealizzata di un ricordo (Erinnerung) che scorre via sulla
superfice dell’acqua, moltiplicandosi nei fiumi, nella vertigine di una miriade di riflessi.
Ihre – «ein
Rätsel ist Rein –
entsprungenes» –, ihre
Erinnerung an
schwimmende Hölderintürme, möwenumschwirrt.
Il loro – «un
enigma è pura
scaturigine» –, il loro
ricordo di torri
Hölderlin galleggianti, attorno
Un sibilare di gabbiani.
A Tübingen, Hölderlin trascorse la metà folle della sua esistenza, dal 1807 al 1843; ospite della “torre”
del falegname Ernst Zimmer: in realtà, una costruzione a forma circolare sul retro della casa – il poeta
occupava una stanza all'ultimo piano – chiamata appunto der Turm per la posizione prospicente il Neckar
e la valle circostante.
34
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Il canto svela appena, lasciando aperta la questione di una scaturigine ormai introvabile:
Ein Rätsel ist Reinentsprungenes. Auch
Der Gesang kaum darf es enthüllen.
Un sibilo di gabbiani richiama la scrittura – Celan la accosterà spesso ad archi, frecce, falci,
persino a un boomerang35 – e indirizza la collettività che annega ancora verso altre scritture.
Per una visita. Besuch bei.36 Come si dice quando si fa visita a una persona o a un sito archeologico. Per trovare, al presente, reperti vivi del passato. I materiali di un’elegia e di un inno37 si
riorganizzano allora in una sorta di invocazione dai propositi incerti. Se oggi venisse al mondo
un uomo – un giusto, o un patriarca come Mosè38 – e si adoperasse a far sorgere ancora una
parola, questa non potrebbe essere che un indistinto balbettio. L’ipotesi, tuttavia, potrebbe
avere anche valore ottativo e funzionare come un augurio. La speranza che arrivi un uomo
capace di produrre quell’evento di linguaggio che consenta una nuova sillabazione di questo
mondo.
Comunque, tauchenden Worten: biascichio o lallazione,39 che danno alla strofa una curvatura
ritmica tale da consentirle di ritrovare, nel proprio gesto, un soggetto di parola, apparentemente
in assegnabile. Di chi sono infatti le parole che affondano? Dell’uomo, dei falegnami, del
poeta? I segni diacritici, le metafonie che articolano il modo congiuntivo, suggeriscono una
risposta. Jänner, del titolo, è gennaio in dialetto austriaco, quello che si parlava ai margini
dell’impero – a Czernowitz, la “piccola Vienna” dei tempi di Celan.40 Di qualcuno che, portandolo con sé, è giunto nella città di Hölderlin, anche per riappropriarsene, ritrovando senso
Il cui tragitto fende l’aria con ronzii e sibili, a segnare, qui, il ritorno della parola e della lingua von
Nichts her, dal nulla, e pure dall’annientamento della propria fonte, cfr. Celan, Ein Wurfholz (GW, I 258),
Aber (GW, I, 182) e Juden-welsch, nachts (GW, VII 54).
36 I versi «Besuche […] bei / diesen / tauchenden Worten» sono stati variamente resi nelle edizioni a stampa
del poema di Celan, nella nostra lingua. Kahn e Bagnasco, in Celan, Poesie, traducono: «Visite […] con
/ queste sommerse parole», p. 117. Bevilacqua ripropone il «con» in Celan, 1998, p. 381: «Visite […]
con queste inabissanti / parole». Reitani (13) propone: «Visite […] in / queste / parole che s’immergono». La scelta è, a mio avviso, rilevante. Nel primo e secondo caso, infatti, sono gli affogati a portare
con sé le parole dell’invocazione. Le pronuncerebbero, non potendolo fare. Nel terzo, sono i sommersi
stessi che si rivolgono a quelle parole, cercando di ritrovarle nell’abisso/fonte in cui sarebbero depositate.
37 Cfr. Pane e vino, e Alla fonte del Danubio, in Hölderlin, Tutte le poesie 917-921 e 1123-24.
38 Per una lettura del Lichtbart, la «barba di luce dei Patriarchi», cfr. Maletta, Paul Celan 38-39.
39 La difficoltà di parola è anche una difficoltà di traduzione. Il verbo lallen, alla lettera balbettare, è
restituito da Bevilacqua attraverso l’artificio di una ripetizione frammentata (che continua pure nei versi
successivi): «bal- balbettare / conti-, conti- / nuamente, mente», Celan, Poesie, p. 380, che cerca, credo,
di sottolineare lo sforzo di parlare di questo tempo, articolando a malapena le sillabe. Baldi (107-108),
sceglie il calco «lallare», per accentuare il fatto fisiologico della comunicazione che precede quello significativo: «quello spazio semanticamente indifferenziato in cui essa [la lingua] svolge una funzione fisiologica più che semantica, più tesa a stabilire un contatto che a comunicare qualcosa». Il raddoppiamento
del Pallaksch ne sarebbe un’esplicazione e un invito al lettore a risalire all’origine stessa della lingua.
Cominciare di nuovo a parlare, attraverso il contatto con questo mondo. Certo è che, qualora arrivasse,
l’uomo – ultimo a parlare – sarebbe postumo; parlerebbe allora al posto della scomparsa delle stesse
parole che ne storpiano la voce, fin quasi a soffocarla, a spengerla immergendosi nel silenzio. Su
quest’aspetto dell’ultimità, mi sia consentito rinviare alla postfazione a Blanchot, L’ultimo a parlare 72-77.
40 «la lingua-madre il tedesco – il tedesco dell’infanzia, un tedesco d’enclave […]: il tedesco violentato
dagli insulti nazisti, precipitato nell’aporia di una lingua madre di vittime e carnefici, rimane a segnare il
35
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e identità linguistica in un idioma che ne afferma la perdita. Nella lingua incerta in cui adesso
ne scrive. L’uomo è un artigiano41 che è stato sommerso, che scrive – … wenn es dunkelt nach
Deutschland, quando tenebra in Germania –, compitando sillabe, distinguendone e alterandone
i suoni in una successione che, trattenendo un’esperienza inarticolabile a parole, la consegna
infine alla pronuncia silenziosa di un Unwort.42 Pallaksch:
una parola di Hölderlin era già in […] Tübingen, Jänner. Là si dice alla fine Pallaksch; con questa
parola Hölderlin, al tempo del suo ottenebramento, avrebbe inteso sì e insieme no (Shmueli 51).
Unwort. Puro gesto che espone il venir meno di un mondo, il suo inabissarsi e morire, affinché in quel silenzio detto – erschwiegene – venga davvero riconosciuto: testimonianza veritiera di qualcosa che è perché non è più, consumato, esaurito eppure «ultimato» nella sua impossibile possibilità. Pallaksch, Chebeldei, Huediblu…43
Der erkämpfte Umlaut im Unwort:
dein Abglanz: der Grabschild
eines der Denkschatten
hier.44
La metafonia conquistata nella non parola:
il tuo riflesso: l’insegna funebre
di una delle ombre di pensiero
qui.
destino del poeta: come la sola lingua nella quale far rivivere la memoria degli sterminati, lingua del lutto
e di una tentata resurrezione attraverso la parola» (Miglio 69). Per un’analisi delle motivazioni riguardo
alla scelta del temine Jänner all’interno della produzione celaniana (cfr. Bollack.108 sgg).
41 La poesia è artigianato, mestiere: «Handwerk è affare, faccenda di mani. E queste mani appartengono
di nuovo ad un uomo, ovvero ad uno che nella propria indole (Seelewesen), con la sua voce ed il suo
silenzio, cerca una strada. Solo mani vere scrivono vere poesie. Non vedo nessuna differenza di principio tra una stretta di mano e una poesia […]. Come si fa poesia? Ho potuto osservare […] da sufficiente
distanza come il fare (Machen) da messinscena (Mache) divenga a poco a poco macchinazione (Machenschaft)», Celan, Brief an Hans Bender (GW, III 177). Certo, in tale passaggio, Celan sembra intendere la
gestualità della stretta di mano come momento d’intesa tra interlocutori che semplicemente la avvertono, senza la necessità di passare a esprimerla in un discorso. Il gesto qui si accosterebbe a quell’espressione poco articolata che Lévinas nomina come “dire senza detto” (cfr. Lévinas); che indica la dimensione etica nell’arretramento al di qua del linguaggio. In un ambito prelogico e presintattico, in cui il
discorso si svolgerebbe e rivolgerebbe al puro contatto, a quel toccare la mano dell’altro, stringendola
perché di dia relazione e si realizzi un incontro, cfr. Celan Der Meridian (GW, III 189).
42 Parola non/parola che raccoglie e porta a termine il pensiero di quella “parola pura” che Hölderlin
aveva teorizzato, ricercato e mostrato nelle sue versioni dal greco di Sofocle, affinché emergesse la “rappresentazione stessa” – «nella successione ritmica delle rappresentazioni […] diviene necessario ciò che
in metrica si chiama cesura, la parola pura, l’interruzione antiritmica al fine cioè di affrontare il trascinante alternarsi delle rappresentazioni nel suo culmine, in modo tale che non appaia più l’alternarsi della
rappresentazione, bensì la rappresentazione stessa» (Hölderlin Edipo 194) –, affrancata dal suo essere
“rappresentazione di” e pertanto materia della poesia.
43 Cfr. Celan, Tübingen Jänner (GW, I 266), Schwanengefahr (GW, II 232), Huediblu (GW, I 275).
44 Celan, Wer Herrscht? (GW, II 116).
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Enthymema XXIV 2019 / 353