Articolo da Transform! Italia
Mentre gli indicatori economici certificano un rimbalzo dell’economia
italiana con una ripresa produttiva, confermata dal recente intervento
della Presidente della Commissione UE, Von der Leyen; l’aritmetica algida dei dati non rispecchia il tipo di rilancio e soprattutto la redistribuzione di questa ricchezza.
In un quadro economico dopato dall’elevata adesione alla campagna
vaccinale, che ha ridato fiducia agli investimenti nel mercato italiano,
altrettanto evidente è la tendenza cronica alla delocalizzazione, che
nell’ultimo anno ha visto un’emorragia industriale in particolare nel
comparto automotive.
Emblema di questa deriva è la vertenza GKN Driveline, con l’azienda produttrice di semiassi per Stellantis che, in seguito al subentro del fondo finanziario Melrose,
dallo scorso luglio ha avviato una cosiddetta ‘ristrutturazione’,
licenziando in tronco oltre quattrocento dipendenti dello stabilimento
di Campi Bisenzio (Firenze), per spostare altrove la produzione.
La mobilitazione massiccia del Collettivo di fabbrica, supportato da
un intero territorio, è stata la risposta più fragorosa alle ricadute
dello sblocco dei licenziamenti, che ha dato il via ad altre operazioni
simili, come nei casi di Timken, Giannetti Ruote, Speedline e Caterpillar, solo per citarne alcune del solito comparto, per un totale di circa 700 aziende di dimensioni medio-grandi negli ultimi anni.
L’attenzione mediatica accompagnata dalle solite passerelle politiche
non ha fin da subito convinto lavoratrici e lavoratori che, nell’ambito
di un’assemblea permanente in corso da mesi, hanno incontrato in più
occasioni esperti di Giuristi Democratici e dell’assistenza legale
‘Telefono Rosso’ di PaP, per l’elaborazione di una proposta di legge anti-delocalizzazioni, poi inserita come emendamento alla legge di bilancio, in discussione proprio in questi giorni.
Una proposta “fatta con le nostre teste e non sopra le nostre teste”
come hanno ribadito le RSU di GKN, presentando il documento composto da
otto punti, motivati dal rovesciamento di un paradigma del neoliberismo
italico, in cui lo Stato funge da bancomat, mediante incentivi, prestiti
garantiti e sgravi fiscali, fino a quando l’amministrazione aziendale
non decide di staccare la spina, portandosi dietro know-how e brevetti sviluppati anche con quelli stessi finanziamenti pubblici; e mandando in cassa integrazione centinaia di addetti.
Fra le principali criticità scatenanti questo fenomeno di impresa
parassitaria è l’obsolescenza della legge n.223 del 1991 inerente
‘licenziamenti per cessazione di attività’, che non pone alcun vincolo o
interruzione sulle procedure di allontanamento, rivelandosi perciò
inefficace di fronte alla fluidità delle speculazioni di grandi
multinazionali.
L’emendamento anti-delocalizzazioni fa leva soprattutto sugli art.4 e
art.41 della Costituzione della Repubblica italiana, rispettivamente
sulla tutela del diritto al lavoro e sulla limitazione della libertà
d’impresa privata in nome dell’interesse collettivo, proprio per
sottolineare l’impoverimento del tessuto produttivo.
Questa proposta si concentra sulle aziende con oltre 100 dipendenti e
punta al controllo pubblico sulle chiusure degli stabilimenti, con
sanzioni rigorose e obblighi procedurali, che prescrivono un piano di
recupero e l’approvazione concordata, previa adeguata informazione
scritta alle autorità competenti e alle rappresentanze sindacali, così
da avere un controllo effettivo dei lavoratori sulla situazione.
Altrettanto dirompente è la struttura “della crisi d’impresa” presso il
Ministero dell’Economia, che dovrebbe fungere da cabina di regia di una
sorta di atterraggio assistito, in caso di squilibri patrimoniali
accertati. Inoltre, viene proposto un provvedimento per il diritto di
prelazione alle cooperative di lavoratori, che decidessero di rilevare
l’azienda, in questo caso a costi ridotti dei contributi pubblici
prestati. Un’altra ancora di salvezza è la possibilità di subentro di
Cassa Depositi e Prestiti con quote, utili a mantenere i due pilastri
della proposta, ovvero: mantenimento dei livelli occupazionali e
continuità produttiva, anche in caso di eventuale riconversione.
La campagna organizzata dal gruppo di solidali al Collettivo di
fabbrica GKN ha sostenuto in queste settimane la presentazione
dell’emendamento, che ha passato il vaglio della commissione
parlamentare.
In seguito allo sciopero generale di CGIL e UIL però, fra i timidi
riscontri del governo Draghi, lo scorso fine settimana ha portato
all’ennesima anomalia politica con l’accordo fra il Ministro del Lavoro,
Orlando (PD), e l’omologo allo Sviluppo Economico, Giorgetti (Lega),
proprio per l’inserimento di un maxiemendamento alla manovra di
bilancio, contenente anche la loro versione di decreto
anti-delocalizzazioni.
Se non bastasse la proposta di validità relativa ad aziende oltre 250
dipendenti, che riduce notevolmente la platea di soggetti interessati a
4mila siti in tutta Italia, appena lo 0,1% del totale; a confermare la
presa di posizione ancora una volta marcatamente confindustriale del
governo italiano e della sua trasversale maggioranza, c’è il semplice
raddoppio dei costi di buonuscita e l’aumento dei tempi di comunicazione
preventiva a 90 giorni. Il tutto comunque edulcorato da un fondo
straordinario per prepensionamento e ammortizzatori sociali, che il
governo riserverebbe all’occorrenza. Dal Collettivo di fabbrica di GKN
hanno tenuto inoltre a precisare che con queste modalità, neppure i
ricorsi per comportamento antisindacale, ai sensi dell’art.28 dello
Statuto dei Lavoratori, avrebbero impedito alla proprietà di smantellare
il sito produttivo, in cambio di un indennizzo di 600mila euro.
Un semplice ‘buffetto’ a chi da tempo segue la moda del prendere i
finanziamenti pubblici e poi delocalizzare insomma. L’eufemismo è presto
spiegato anche dal confronto fra la bozza originale delle ‘misure per
la tutela dell’insediamento dell’attività produttiva e di salvaguardia
del perimetro aziendale’, che indicavano una multa del 2% sul fatturato,
a confronto con circa 3mila euro di penalità da pagare per ogni
lavoratore licenziato. Lo stesso sfoltimento dei tempi a 3 mesi per la
ricerca di un acquirente successivo (dopo i 6 di comunicazione
preventiva) non sembra affatto sufficiente rispetto all’esperienza
consolidata dei tempi tecnici per simili operazioni di subentro.