Sono a Roma a ridosso del Ferragosto, come mi capita ormai da qualche anno per motivi non tanto economici quanto familiari e personali.
(Familiari: figli per ora persi poiché ormai, se non ancora in via ufficiale, di fatto mentalmente e fisicamente autonomi e mentalmente e fisicamente pigri in maniera irriducibile oltre ogni immaginazione, e dunque impossibili da convincere o vincere nella battaglia di svellerli dal nido e dalle carabattole di cui l'hanno infarcito e ostruito in favore di un periodo di vacanza, in nostra o in altrui compagnia.
Personali: l'indolente volontà di testimoniare a me stessa - corroborata anche grazie a quel loro così manifesto ed ostinato disinteresse alla questione - l'anarchia del non rispetto dei costumi borghesi in me da sempre latente, e sotto a quella l'affrancazione dalla palude del mio inconscio di bambina che, condizionato all'epoca dal malessere di vivere nel misero e doloroso isolamento di una famiglia squisitamente disfunzionale avvalorato dall'oggettiva circostanza del divenire il mio quartiere di residenza, per almeno tre delle quattro settimane del mese di agosto, un vero e proprio deserto, mi faceva patire l'insostenibile acutezza di un senso di abbandono, come di un punitivo esilio dal consesso civile, ad un segno tale da farmi considerare l'odiosa e coatta migrazione in caotici e scomodi luoghi di villeggiatura una benedizione, pur di allontanarmi da quella condizione penosa che aggravava la mia già penosa esistenza di prigioniera, separata dal mondo delle persone libere e, io allora immaginavo, felici e contente di campare divertendosi allegramente).
Sono a Roma a ridosso del Ferragosto, come già, dicevo, è accaduto nelle tre o quattro estati precedenti a questa: quando, anno dopo anno, ho potuto assistere all'inversione di tendenza sempre più marcata dal vuoto al pieno, dalla serrata totale di tre settimane dei negozi al progressivo prolungamento dell'apertura sulla chiusura, da venti giorni a quindici a dieci a sette, dalla sfilata di palazzi con le finestre sbarrate alla visione di panni stesi e di porte finestre aperte prima su dieci, e poi su venti, e poi su cinquanta balconi per l'intero mese senza interruzione, dall'immobilità post atomica del paesaggio rotta solo dall'abbaiare di un cane invisibile all'orizzonte al marciapiede che anno dopo anno si rianima del transito di una persona all'ora, e l'anno dopo di dieci, e l'anno dopo ancora di venti, trenta, sessanta, cento.
Ma a vedere quello che ho visto ieri non c'ero ancora arrivata. Ieri intorno all'ora di pranzo, quando sono rientrata dal mio week end lungo e tonificante in campagna (quello sì, in beata, beatissima solitudine) e ho scoperto assieme al marito guidatore di non poter posteggiare la macchina sotto casa per scaricare le quintalate di provvigioni di cui ci siamo riforniti (ci hanno costretti a rifornirci). No no.
No, perché, contrariamente a tutti gli anni precedenti, nessuno escluso, lungo tutto il perimetro del mio palazzo, l'undici di agosto, non c'era un solo posto auto libero.
Bisognava accostare, come in un'ordinaria domenica sera qualunque di autunno inoltrato, scaricare e poi parcheggiare più lontano, oppure nel nostro box.
Nel nostro box, uno delle centinaia di box auto fioriti sotto l'instabile suolo del nostro quartiere improvvisamente crivellato di trincee scavate ai tempi gloriosi dell'approvazione del P.U.P.: formicai sotterranei costruiti, alimentando un business facile e famelico, grazie a corsie preferenziali di permessi grandi come autostrade, da piccoli e grandi squali del cemento sventrando viali e svellendo alberi dai giardini e devastando oratori parrocchiali (preti e suore furono i primi a gettarsi nell'affare concedendo i loro terreni al miglior offerente) perché, questa era la giustificazione data dall'amministrazione cittadina (di centro sinistra), così si sarebbero risolti i problemi di intasamento degli innumerevoli veicoli, divenuti, per il sopraggiunto benessere, due o tre per famiglia, in misura assai superiore al numero di posti di superficie disponibili.
Quei box che, svenduti uno ad uno da tanti proprietari in difficoltà, hanno adesso risputato le macchine sulla strada. Macchine che ieri, e anche oggi, assieme a quelle di coloro che non sono andati ancora - o non andranno proprio - in ferie, ho trovato allineate in fila davanti ai marciapiedi del mio palazzo e di quelli limitrofi, ad occupare tutti i posti disponibili.
Chi gliel'avesse detto, ai sessanta cipressi abbattuti sotto i miei occhi inorriditi la mattina del 23 dicembre 2002 nel sottostante giardino della mia scuola elementare (che le monache si erano affrettate a cedere al costruttore di turno a scopo di lucro, fregandosene di dove di lì alla primavera sarebbero andati a giocare durante la ricreazione i loro scolaretti), che dopo dodici anni al posto loro sarebbero spuntati in ogni angolo multicolori cartelli di "Vendesi". Chi gliel'avesse detto, che il loro sacrificio sarebbe stato vano, perché i possessori dei box si sarebbero venduti a prezzo ribassato, o avrebbero tentato di farlo, dopo poco più di un decennio, il box medesimo, e magari anche una delle due o tre macchine, se ne avessero potuto cavare qualcosa, restando a godersi, invece del sole e dell'azzurro di Punta Ala o di San Benedetto del Tronto o anche solo di Passoscuro, il grigio sporco del cielo sopra al quartiere Prenestino Labicano.
Mentre i box invenduti restano vuoti, inutilizzati, come le cabine degli stabilimenti balneari.
Ma nonostante questo, nonostante tutto, c'è chi dice agli italiani di stare sereni. E poi, lui sì, si va a godere il sole e l'azzurro.