Virginia ha 20 anni, un corpo florido, una testa piena di riccioli biondi e due occhi azzurri su un viso tondo.
Ci scambiamo un comunissimo
ciao per strada e quando, nel Febbraio del 2012, la neve ci sommerse, io e la Sister le prestammo lo slittino e ci gustammo la scena di lei che rideva come una ragazzina, come se avesse 10 anni, mentre scivolava tenendosi alle spalle del nostro amico G.
Le nostre interazioni si fermano qui.
Virginia ha avuto un brutto incidente. Le ruote della sua macchina non hanno fatto presa su una lastra di ghiaccio impedendole di fermarsi allo Stop tra la via del paese e la statale.
La prima cosa che ho pensato è che anche lei deve aver sentito quel rumore, quello della gomma che stride, come se cercasse di aggrapparsi e invece no, non lo fa. Non lo dimenticherà facilmente.
Virginia è stata travolta da un'altra auto. Ha sbattuto forte testa e naso e ha un brutto taglio sul braccio sinistro. Cinquantotto punti.
Ed io ho pensato ai miei soli cinque, sotto il labbro. A quanto ci hanno messo a ricucirmi, un tempo infinito. E che il suo deve essere stato molto, molto più lungo.
Virginia, grazie a Dio o a chi per lui, non ha riportato danni permanenti. TAC e radiografie sono negative. Come le mie. La mamma parla di miracolo e le ha messo un santino nel portafoglio. Come la mia, che ha appeso una corona sullo specchietto di Polly. La stessa che, tra l'altro, era su Clear e che lei ha voluto a tutti i costi salvare.
Virginia, però, dall'incidente non esce più di casa.
E siccome in un paese Virginia è parte della tua famiglia, anche se le dici solo
ciao e una volta le hai prestato lo slittino, la mamma, che ovviamente sa della mia esperienza, così simile alla sua, mi ha chiesto se potevo andare a dirle
due parole. Perché
tu hai reagito così bene. E io volevo dirle
signora credo proprio sia stata male informata ma poi mi sono fatta coraggio e sono andata a trovare Virginia. Anche perché Mina in versione
buona samaritana mi avrebbe diseredato dei suoi pochi averi se non ci fossi andata.
Lei era seduta sul divano e guardava Real Time. Ho pensato che con una che si vede Real Time sarei entrata subito in sintonia, avrei avuto gioco facile.
Così è stato.
A Virginia ho detto tutto. Ho detto cose che non avevo raccontato a nessuno. Ne all'USI, ne a Mina, ne alle Sisters, ne ad A., ne alla Zia Santa. Perché proprio le persone che ti sono più vicine tendono ad evitare domande precise sul
come è successo credendo, e forse a ragione, di farti male. Il loro affetto lo dimostrano prendendosi cura di te, viziandoti, incoraggiandoti, rimettendoti in piedi. Ma non chiedono. Anche se incitati, anche quando magari tu avresti pure voglia di raccontare i dettagli per esorcizzare la paura. Con una persona che ha vissuto un'esperienza simile, invece, sei legittimata, autorizzata, invogliata. Sei senza pudore. Perché lei sa. Perché lei ha vissuto quello che hai vissuto tu, non hai paura di scandalizzarla, puoi liberati.
Così le ho raccontato di come la macchina sia impazzita. Del primo impatto a destra e della botta, fortissima, a sinistra, contro il guard rail. Le ho raccontato di aver pensato solo a lui, mio marito. E che se non avessi avuto la prontezza, l'istinto, l'idea di sterzare per evitare un impatto frontale, forse, ci sarei rimasta secca. E che non ci posso nemmeno pensare, al fatto che ci sarei rimasta secca.
Le ho raccontato di come fossi certa di non avere nemmeno un graffio, la botta sul finestrino nemmeno la ricordo e del conseguente stupore nel vedere la mia faccia piena di sangue. Di come, in quel momento, il mio cervello si sia messo in moto da solo, spinto forse da un istinto innato e primordiale alla sopravvivenza e mi abbia indotto a controllare. A controllarmi. Due dita in gola per vedere se il sangue venisse da dentro. Un altro dentro le orecchie. Verificare che le gambe si muovessero, che non avessi sbattuto lo sterno contro il volante. Che ragionassi. Scendere e verificare che riuscissi a camminare lungo una linea retta, muovere le dita delle mani. E poi telefonare. E rassicurare tutti. Mentre un fazzoletto bagnato contro il naso si colorava di rosso.
Le ho raccontato della prima volta in cui ho rimesso le mani su un volante. Pioveva, mio padre mi era seduto vicino e io avevo ancora un occhio nero e la faccia gonfia. E della prima volta in cui ho guidato di nuovo da sola, su quella stessa maledetta autostrada sentendo di
avercela fatta solo per essere arrivata a lavoro, con le mani sudate e le dita intorpidite dal modo in cui stringevano il volante. Un modo innaturale. Di una che ha paura.
Perché la paura non passa dopo la prima volta che ti fai coraggio e guidi di nuovo. Col cazzo che passa. E a Virginia ho detto pure questo. Perché io ci penso, ogni volta. Ogni fottuta volta che poggio il culo su un sedile penso all'incidente. Ma penso pure sia normale.
A Virgina, poi, ho detto anche che la paura, certe volte, sconfina. E passa da una macchina, da una strada a tutto il resto. Perché non è sempre vero che dopo un evento del genere una persona si dia alla pazza gioia e apprezzi ogni minuto perché capisce il significato della vita. Questo, forse, viene dopo.
All'inizio capisci solo il significato della morte. Ti rendi conto di quanto sia facile, morire. E hai paura che torni a minacciarti, di nuovo, magari con un canale diverso.
Poi però passa
Davvero?
Certo, ma tu datti una mano. Anche piccola. Inizia e poi il corpo lavorerà da solo. Sennò finisce che non esci più di casa
Che vi devo dire, non sarò Freud e manco ci aspiro, io sono quella che sta sdraiata sul lettino, dalla parte dei matti ma certe volte un'esperienza condivisa è meglio di una seduta da uno bravo.
Virginia mi ha fatto il the e il giorno dopo mi ha detto
ciao.
In piazza, sotto un bel sole.