510 Poscritto Giorgio Bassani
510 Poscritto Giorgio Bassani
510 Poscritto Giorgio Bassani
POSCRITTO
A GIORGIO BASSANI
SAGGI IN MEMORIA
DEL DECIMO ANNIVERSARIO
DELLA MORTE
A cura di
Roberta Antognini e Rodica Diaconescu Blumenfeld
ISBN 978-88-7910-510-5
Copyright 2012
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5
Indice
9.
L’aprosdóketon nel racconto bassaniano 143
Valter Leonardo Puccetti
10.
In fondo al corridoio. Il tutto e le parti nel Romanzo di Ferrara 163
Francesco Bausi
11.
In the Aftermath: Modalities of Memory in Il romanzo di Ferrara 207
Lucienne Kroha
12.
L’«antico volto materno della mia città». 235
Il paesaggio letterario ferrarese nella poetica di Giorgio Bassani
Micaela Rinaldi
13.
Lettura retorica del Giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani 247
Francesco Longo
14.
Kore l’oscura. (In)seguendo Micòl 271
Claudio Cazzola
15.
Bassani lettore di Petrarca? Spunti di poetica petrarchesca 303
nel Giardino dei Finzi-Contini
Roberta Antognini
16.
Waiting for the Past and Nostalgia for the Future: Memory, 323
Judaism, and Writing in Il giardino dei Finzi-Contini
Sergio Parussa
17.
Il giardino dei Finzi-Contini: Giorgio Bassani’s Enchanted Ghetto 345
James T. Chiampi
18.
Controllo e negazione. L’allarmante modernità dei Finzi-Contini 367
Tim Parks
6
Indice
19.
The Futility of Recollection: Taxonomy, Temporality, 379
and Tomb Goods in Il Giardino dei Finzi-Contini
Rodica Diaconescu Blumenfeld
20.
«Alas poor Emily». Bassani poeta 387
Martin Rueff
21.
Transitional Identities: The Other in the Works of Giorgio Bassani 427
Cristina M. Bettin
22.
Un poeta è sempre in esilio. L’ebraicità di Bassani alla luce 445
della tradizione letteraria
Piero Pieri
23.
Lettere d’amore smarrite. Giorgio Bassani e il Novecento dimenticato 457
Giulia Dell’Aquila
24.
Le tecniche del vedere nell’opera di Giorgio Bassani 477
Gianni Venturi
25.
Vittorio De Sica in The Garden of the Finzi-Continis: 499
Notes from an American Classroom
Áine O’Healy
26.
«Se questo matrimonio … s’ha da fare»: Gli occhiali d’oro 517
and the Dynamics of the Encouter Between Fiction and Film
Cristina Della Coletta
27.
Adaptation as Heterocentralization: Giuliano Montaldo’s Film 541
Version of Giorgio Bassani’s Gli occhiali d’oro
William Van Watson
7
Indice
28.
Bassani testimone civile e scrittore ambientalista. L’esperienza 557
di Italia Nostra
Cristiano Spila
29.
La conoscenza e la diversità nell’opera di Bassani 571
Maurizio Del Ministro
30.
Lamenting the Lost City 589
Gail Holst-Warhaft
APPENDICE
A Concert 635
Traduzione dall’italiano di Kate Zambon
8
Non eri tu che tornavi, vita, tu, vita mia
tu che sopravvenivi, innocente futuro?
11
Premessa
di poeti italiani curata da Marguerite Caetani. Abbiamo ricavato questa e le altre infor-
mazioni da Robin Healey, Twentieth-Century Italian Literature in English Translation.
An Annotated Bibliography 1929-1997, Toronto-Buffalo-London, Toronto University
Press 1998.
12
Premessa
13
1.
PER UN «MEMOIR» SU MIO PADRE
Intervista a Paola Bassani
a cura di
Roberta Antognini e Rodica Diaconescu Blumenfeld
New York City, 26 aprile 2011
15
Intervista a Paola Bassani
16
Per un «memoir» su mio padre
anche per trovare uno spazio che fosse solo mio. Com’era mio padre?
Era un padre severo, un pater familias, un padre biblico. Vale la pena di
raccontarvi questo aneddoto. Ho incontrato Lucien, quello che sarebbe
diventato mio marito, a Edimburgo; lui abitava a Parigi e io a Bologna.
Eravamo entrambi giovanissimi, allora, non avevamo ancora finito l’uni-
versità, ma volevamo lo stesso sposarci e subito, rimandando il lavoro
per la tesi a dopo il matrimonio. Mio padre mi ha detto: «Guarda, fate
come volete, ma io non vi do la mia benedizione»: è stato come se una
pietra mi cadesse sulla testa, come se ricevessi sulla testa le tavole della
Torà … A scaraventarmele addosso era mio padre, era il profeta Mosè.
Ma quelle sue parole terribili, solenni, religiose, mi hanno aiutato: non
ci restava, a tutti e due, che metterci a lavorare di gran lena alla tesi e
concludere rapidamente gli studi. Così è avvenuto e dopo qualche mese
mi sono sposata con la benedizione del papà.
Era un burbero che …
Il papà era un burbero e tuonante Mosè, che sapeva anche essere un
uomo molto pratico, capace di consigli semplici e concreti, consigli che
aiutavano davvero nella vita. Ad esempio, lui aveva molta fiducia nella
carriera statale, carriera che aveva abbracciato, come insegnante di ruo-
lo, alla fine degli anni ’40, dopo aver vinto il concorso a cattedre per le
scuole superiori, e spesso ne sottolineava i meriti e vantaggi, anche eco-
nomici. La pensione! Quante volte l’ho sentito vagheggiare, nel turbinio
della sua vita che comprendeva in realtà tanti e così diversi lavori, la
sua sospirata pensione! È per questo che non ha mai mancato di inco-
raggiare me e mio fratello a fare altrettanto, a rispondere, al momento
opportuno, ai bandi di concorso, a non trascurare l’amministrazione, a
metterci insomma in carreggiata.
Mio padre poi si concentrava volentieri in certe azioni tutte prati-
che e manuali, come quella di ingrassare le corde della sua racchetta, di
operare (proprio così!) la guancia del suo gatto, di cucinare uova stra-
pazzate ai tartufi, di lavare ‘biblicamente’ i piedi della sua domestica di
Maratea, l’Anna Russo, che non se li lavava mai. Mio padre era dunque
biblico, autoritario, severo, pratico e ‘quadrato’, il vero pater familias.
Ma era anche il contrario. Era un uomo dall’umore labile, dal tempera-
mento incerto, pronto a scoraggiarsi, ad abbattersi e a perdersi come un
bambino. Allora era lui a diventare in un certo senso nostro figlio. Era
prima di tutto il suo lavoro di scrittura a metterlo in crisi, a fargli per-
dere la testa. A tal proposito, mai dimenticherò il giorno in cui ha finito
l’Airone (in realtà anche quando annunciava, «ho finito!», riprendeva,
17
Intervista a Paola Bassani
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Per un «memoir» su mio padre
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Intervista a Paola Bassani
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Per un «memoir» su mio padre
21
Intervista a Paola Bassani
risposto. Una frase che continua a sorprendermi, perché lui non è mai
stato religioso.
Un’immagine sofisticata. Anche riguardo al suo umorismo, fine, elegante,
letterario, colto.
Un umorismo colto, è vero. Nostro padre, fin da piccoli, ci ha introdotto
nel suo mondo: un mondo certo complicato, di non facile approccio, e
che pure abbiamo rapidamente capito. Ci trattava da grandi. Poi natu-
ralmente, come ho già detto, era anche spensierato con noi, giocava a
football e a tennis con mio fratello e faceva degli scherzi. A proposito di
scherzi, ce ne era uno (in realtà abbastanza pesante) che lui amava farmi.
Io ero disordinatissima da bambina e da adolescente, spesso la mia ca-
mera era ridotta a una cantina, a un cumulo informe di cose. Mio padre
allora si divertiva, in mia assenza, a peggiorare la situazione: entrava in
camera, tirava fuori l’intero contenuto dell’armadio, del comò e dei cas-
setti del tavolo e lo buttava per terra. Al mio ritorno, mi trovavo davanti
a uno spettacolo apocalittico e dovevo mettere tutto a posto. Era dura,
certo, per me! Ma quello che trasformava la punizione in scherzo, era il
fatto che ogni volta il papà mi accoglieva ridendo e che io ridevo con lui
(anche perché lui era a volte più disordinato di me!).
Tornando alle storie, vi raccontava di Ferrara?
A casa non si parlava tanto di Ferrara, non si parlava tanto dei vecchi
tempi di Ferrara. Era quasi più la mamma, del papà, a raccontarci della
sua infanzia trascorsa in questa città, del train de vie particolarmente
chic della sua famiglia, dei suoi amici di scuola. Non si parlava dunque
di Ferrara, ma si andava almeno due volte all’anno a Ferrara, a trovare
la nonna Dora, rimasta vedova a partire dal ’48, e il nonno materno del
papà, il famoso ‘nonno Cesare’, come lo chiamava mio padre (vissuto
fino al 1954).
Andavate nella casa dove era cresciuto tuo padre?
Sì, nella casa dove era cresciuto il papà, in Via Cisterna del Follo e
dove continuava ad abitare appunto la nonna. Il nonno Cesare, e mio
bisnonno, abitava invece in Via della Ghiara. Io ho avuto la fortuna di
conoscerlo e di amarlo, come ho avuto la fortuna di conoscere la sua
casa (una casa un po’ di campagna e un po’ di città, quella insomma di
Elia Corcos, il protagonista della Passeggiata prima di cena). Ho anche
vissuto con la nonna a Ferrara per alcuni mesi, subito dopo la morte di
suo marito, il nonno Enrico, e al tempo in cui la mamma aspettava mio
22
Per un «memoir» su mio padre
23
Intervista a Paola Bassani
finalmente messo piede (un piccolo piede, però, essendo il locale ad essa
destinato insufficiente e provvisorio) a Ferrara e ha potuto organizzare
nella città una importante mostra sullo scrittore, è grazie all’università
(e assai poco, troppo poco, grazie al comune!). Troppa paura di non es-
sere imparziali, troppa prudenza, troppa mancanza di coraggio e d’am-
bizione, da parte dell’apparato comunale! La Fondazione Giorgio Bas-
sani, con tutti i suoi membri così prestigiosi e appassionati, meriterebbe
ben altra accoglienza, ben altro interesse e considerazione da parte della
città. Quanto facciamo, in fondo, anche per Ferrara!
Ma Ferrara è sorda, indifferente, come dicevo sopra, manca di am-
bizione e di lungimiranza. Eppure se oggi Ferrara è così conosciuta,
ammirata, amata nel mondo, ciò lo si deve in larga misura a Giorgio Bas-
sani. Anche la sede – Ferrara, appunto, e per giunta nella prigione di via
Piangipane, dove lui è stato incarcerato! – che è stata scelta per il Meis (il
museo degli ebrei italiani), si giustifica veramente solo attraverso la figura
e l’opera di lui, attraverso la figura e l’opera di questo grande e moderno
cantore della città, un cantore appunto d’origine ferrarese ed ebraica.
Eppure, anche qui, il dialogo tra il Meis, istituzione del resto molto soste-
nuta dal comune di Ferrara, e la Fondazione Giorgio Bassani, ha stentato
ad avviarsi. Solo adesso, forse, si profila un’apertura in questo senso.
Pensare che Ferrara attrae un certo tipo di turisti che conoscono Giorgio
Bassani. Per questo motivo vanno a Ferrara, non solo per l’architettura e
le opere d’arte.
Se noi potessimo, a Ferrara, mettere veramente a disposizione carte ed
archivi, sarebbe straordinario, no? Che arricchimento per gli studi su
Giorgio Bassani e che bello sforzo fatto in suo nome, per la sua memo-
ria! Sono tanti i locali, gli appartamenti vuoti nella città, che apparten-
gono al comune. La Fondazione non avrebbe bisogno che di qualche
vano un po’ spazioso. Per molto tempo Ferrara non è stata per me che
la dolce città della nonna e delle altre persone che ci volevano bene. Da
una decina d’anni mi scontro invece con una realtà ben diversa: con
quella stessa Ferrara che appare nei libri di mio padre, in fondo, con
persone che si vantano di essere state e di essere tuttora grandi amici
di nostro padre, ma che invece non lo sono state e non lo sono affatto.
Detto questo, i rapporti con l’attuale sindaco sono migliori e mi sembra
che si stia aprendo finalmente uno spiraglio. Speriamo che questo sin-
daco – persona tra l’altro molto umana e simpatica – si accorga quan-
to sia essenziale costruire un vero dialogo con noi e con l’istituzione
che presiediamo; si accorga che ignorare, se non addirittura ostacolare
24
Per un «memoir» su mio padre
come è stato fatto finora, l’azione dei figli ed eredi di Giorgio Bassa-
ni nonché della Fondazione da loro creata, significa sostanzialmente
nuocere allo scrittore; si accorga che tutto quello che si vuol realizzare
a Ferrara in nome di Giorgio Bassani non può e non deve nascere in
competizione con l’azione della Fondazione, bensì in stretta sinergia e
collaborazione.
Del resto nemmeno Firenze ha voluto Dante … Bassani è stato rifiutato
due volte, prima dalle leggi razziali e poi dalla città stessa. Riguardo al
primo rifiuto, quello del fascismo, tuo padre ha avuto un senso del trauma,
ne ha sofferto? Prima faceva parte della buona società ferrarese, poi, da un
giorno all’altro è stato rifiutato.
Ciò è stato certo durissimo per lui. Però si è salvato, lo ha detto e ripetu-
to tante volte, grazie ai suoi ideali. Si è battuto a un livello superiore, si
è messo dalla parte di Benedetto Croce, della libertà, dell’antifascismo,
della democrazia.
Pare che Ferrara, in ogni caso, gli stesse stretta.
Non doveva farcela proprio più. Ha incominciato a liberarsi da Ferrara
con l’università, quando è andato a Bologna: quella è stata la sua prima
spallata. La lotta antifascista clandestina, nel contempo, gli ha permesso
di girare per l’Italia, a quasi 360 gradi. Dopo la caduta di Mussolini, nel
dicembre del ’43, con la mamma, è approdato a Roma, e da lì, non si
è più allontanato, perché Roma era una città moderna, divertente, pie-
na di americani, nella quale si respirava davvero il mondo intero. Basta
pensare cosa è stato per lui l’ambiente di Marguerite Caetani, o quello
del cinema, con Mario Soldati. Impossibile tornare a rinchiudersi a Fer-
rara. Lui tornava nella sua città d’origine solo per rivedere sua madre e
i vecchi amici. E poi le abitudini, anche alimentari, erano cambiate. I
miei genitori non sopportavano più la cucina emiliana, così greve. Erano
ormai entusiasti sostenitori dell’olio d’oliva, delle verdure crude, degli
spaghetti e del peperoncino. Mia mamma continua a cucinare in modo
molto semplice, tosco-romano. Ha rinnegato tutta o quasi tutta la cuci-
na del suo passato veneto-ferrarese.
Vi ho parlato di questa specie di fiamma, di forza interna, di spinta
vitale che animava mio padre. Vi ho parlato di questa sua straordinaria
apertura al mondo, della sua curiosità per le persone e per i luoghi.
Amava viaggiare, soprattutto in macchina (proclamandosi un po’ per
gioco e un po’ sul serio «il più grande guidatore d’Italia»), ma affronta-
va volentieri anche traversate oceaniche, in aereo. E quando io, adesso,
25
Intervista a Paola Bassani
26
Per un «memoir» su mio padre
un amico del cuore, Manlio Cancogni. E poi aveva un debole per gli
hamburger …
Allora sarebbe molto contento di questo libro che abbiamo messo insieme,
un ponte fra l’Italia e gli Stati Uniti.
Molto, molto contento. A lui l’America piaceva moltissimo, amava la
letteratura americana (i primi scrittori che mi ha consigliato di leggere,
da bambina, sono stati Hawthorne e Melville), amava la Dickinson e
Truman Capote, era attirato da questo ambiente così vivace di poeti e
traduttori (era molto amico di William Weaver), l’ambiente del resto da
cui proveniva Marguerite Caetani e che questa ha portato in Italia.
A proposito di Weaver, è strano che non abbia scritto niente sull’esperien-
za di tradurre Bassani. Perché ha scritto molto di Eco quando lo traduceva.
E ha scritto anche di Gadda, anche se una piccola cosa.
È vero, è strano. Weaver e mio padre, però, si vedevano molto. Li ho
visti tante volte discutere insieme a Ninfa, la meravigliosa proprietà dei
Caetani vicino a Roma.
Della sua esperienza nelle università americane ti ha mai parlato?
Prima di tutto, il papà ha sempre fatto un po’ fatica con l’inglese, a
parlarlo, perché lo leggeva perfettamente. E infatti è stato un grande
traduttore anche dall’inglese, tradusse quel capolavoro che è Il postino
suona sempre due volte di James Cain. Ma la lingua che possedeva per-
fettamente era il francese. Il francese lo parlava quasi come l’italiano.
Dove lo aveva imparato, il francese?
Il francese lo aveva imparato a scuola, credo, e poi ha continuato a pra-
ticarlo. Lo parlava e soprattutto lo leggeva moltissimo. Leggeva i classi-
ci francesi solo in lingua originale, come è dimostrato dai libri contenuti
nella sua biblioteca. L’inglese lo aveva studiato al tempo dell’università,
se non sbaglio. Leggeva Shakespeare, Hawthorne, eccetera, in lingua
originale, leggeva (e come poteva essere altrimenti?) i giovani scrittori e
poeti anglo-americani pubblicati su Botteghe Oscure, seguiva da vicino,
senza problemi, le traduzioni inglesi dei propri libri, e tuttavia, ripe-
to, non dominava l’inglese come il francese. Mi ricordo che una volta
mi ha scritto una cartolina, in cui diceva: «Cara Paola, sono a Venezia
con un gruppo di persone che parlano tutte in inglese. E io purtroppo
faccio fatica, me la cavo a stento: non ridurti come me che sono un
vecchio provinciale, cerca di imparare bene l’inglese, mi raccomando!».
27
Intervista a Paola Bassani
Ho ancora questa cartolina. Però, penso che in realtà mio padre ab-
bia fatto dei progressi in inglese, soprattutto venendo così spesso negli
Stati Uniti, anche se aveva questa specie di complesso, se si può dire, di
non saperlo abbastanza bene. E quando è venuto ad insegnare in Ame-
rica (uno dei suoi corsi è stato su Pier Paolo Pasolini, un altro su Mo-
ravia), insegnava tranquillamente in italiano. Perché è venuto ad inse-
gnare qui in America? Non gliel’ho mai chiesto veramente. Le ragioni,
certo molteplici, le ha spiegate in ogni caso e in gran parte lui stesso in
una bella intervista rilasciata nel 1980 1. Personalmente, tuttavia, penso
che questa esperienza abbia corrisposto in lui a una specie di vuoto, o
meglio a un bisogno di prendere nuove strade, di cambiare, di ripartire
in qualche modo da zero. Perché nel corso degli anni ’70 l’arte di mio
padre si è trasformata. Anche se mio padre ha continuato a coltivare
progetti di romanzo (penso a quello che voleva ambientare a Napoli,
e a quell’altro la cui protagonista sarebbe stata la sua prima balia di
origine veneta, e per il quale aveva già trovato il titolo, I due fiumi – cioè
l’Adige e il Po), di fatto lui ha abbandonato a poco a poco la narrativa
per la lirica, è ritornato all’ispirazione dei primi anni, quelli della sua
gioventù. Ed è in America che ha scritto molte delle sue più belle po-
esie.
Riguardo al romanzo ‘napoletano’ che non ha mai scritto, forse è perché
lui un romanzo così non sapeva dove metterlo, come inserirlo nella strut-
tura così compatta della sua opera…
È proprio così. Napoli, poi, non era la sua città. La conosceva, certo, ci
aveva anche vissuto, aveva tanti amici, lì, ma non era il suo mondo, non
era Ferrara. Non riusciva a costruirci dentro neppure le fondamenta di
quello che avrebbe voluto far diventare il suo nuovo palazzo. E poi, ba-
sta con i palazzi! Era stanco di costruire palazzi, uno dopo l’altro, tutto
da solo. L’America gli è servita per liberarsi dalla narrativa (Alfonso Be-
rardinelli ha spiegato questo in modo eccellente in un suo saggio), per
ridiventare poeta, per parlare di altre cose rispetto a Ferrara, per essere
in qualche modo più leggero, ma anche e soprattutto per prepararsi alla
vecchiaia e alla morte con meno angoscia (bisogna ricordarsi che mio
padre ha incominciato a dare i primi segni della sua malattia, prestissi-
dicembre 1980, e ripubblicata con il medesimo titolo sul Bollettino di Italia Nostra, XXV.
195-196 (1981), 3-5; infine ripresa con il titolo Una mostra in Canada, in Italia da salvare,
Torino, Einaudi 2006, 229-234.
28
Per un «memoir» su mio padre
mo, a partire dall’estate del ’77). La lettera che scrive a Bruna Lanaro,
dall’Indiana, non è certo allegra 2.
Edoardo Lèbano quando l’ha conosciuto? Prima o dopo di essere venuto
negli Stati Uniti?
Credo che Lèbano lo abbia conosciuto tramite Cancogni. È Cancogni
che lo ha messo in contatto con Lèbano. E Lèbano e mio padre sono
diventati molto amici.
È una tradizione americana, questa del ‘visiting professor’. L’idea di fare
questo libro è nata così, quando abbiamo scoperto che Bassani aveva in-
segnato qui. Una cosa che in effetti accomuna molti intellettuali che sono
venuti in questo paese a insegnare nelle università americane.
Certo, certo. D’altra parte, proprio in questi anni ’70, mio padre era
legato sentimentalmente a Anne-Marie Stelhein, di origine americana
e che viveva a Parigi (io stessa ho avuto modo in seguito di conoscerla
molto bene). Tutte o quasi tutte le poesie ‘americane’ di mio padre (ma
non solo queste, anche la maggior parte delle liriche ambientate nelle
valli del Po – penso a A casa, per esempio, pubblicata una prima volta
nel ’75 – e persino i versi che prendono spunto da Maratea e dal retro-
terra lucano) si ispirano a lei. L’attrazione di mio padre per l’America
dipende sicuramente e in notevole misura da lei.
Un’americana a Parigi!
Questo amore deve avere certamente influito sul cambiamento, anche
letterario, di cui prima parlavo.
Ma non hai mai chiesto a tuo padre dell’America?
Non gliel’ho mai chiesto in modo preciso, forse per un senso di pudore
misto a timore, per non entrare troppo nella sua intimità. E poi io in
quegli anni ero appena sposata, vivevo e lavoravo lontano, a Bruxelles,
con bambini piccolissimi. Seguivo poco, per forza di cose, mio padre.
Era lui, invece, che continuava a seguire me, a segnalarmi i quadri del
pittore francese su cui studiavo e che lui andava scoprendo in America.
Alla nascita dei miei due figli, Camille e Laurent, ha preso un aereo (da
New York, se non sbaglio, la prima volta, e da Toronto, la seconda) ed
è sbarcato a Bruxelles. Anche mio fratello, in quegli stessi anni ’70, era
29
Intervista a Paola Bassani
totalmente immerso nella sua vita, stava completando gli studi e le ri-
cerche universitarie. Ma per ritornare ai motivi – senz’altro molteplici –
che hanno spinto mio padre ad affrontare lunghi e ripetuti soggiorni in
America, penso che per alcuni abbia pesato soprattutto la scomparsa
di carissimi amici (Niccolò Gallo, in primis) o le difficoltà incontrate
con altri (Pier Paolo Pasolini, Cesare Garboli …). Un motivo, però, mi
sembra essenziale: la presa di coscienza di un vuoto che si era creato in
lui, sia dal punto di vista esistenziale che letterario, il bisogno di trovare
nuovi sbocchi alla sua vita e alla sua scrittura.
La sua visita nel 1972 a NewYork era collegata alla traduzione di Weaver
e all’uscita del film?
Penso che questa visita si spieghi molto più in rapporto con la traduzio-
ne dei Finzi-Contini, fatta da Weaver, che con l’uscita del film. A mio
padre, del film di De Sica non doveva in fondo importare un granché.
C’è poi anche da dire che aveva appena fatto portare in California e
in Canada la mostra Italia da salvare, concepita e organizzata da Italia
Nostra, per l’appunto, l’associazione di cui era presidente. Questo è un
altro nodo importantissimo per capire la sua ‘apertura’ americana. E
non è un caso che nel contempo si sia interessato da vicino anche al
mondo degli emigrati italiani in America e al loro dialetto, così parti-
colare.
Negli Stati Uniti il film è stato molto famoso. Ha sicuramente contribuito
al successo del romanzo.
Ha senz’altro contribuito al successo del romanzo e sono certa che lui
ne fosse cosciente. Il fatto fondamentale, però, è che a mio padre il suc-
cesso, i soldi, eccetera, importavano fino a un certo punto …
Per tornare al film di De Sica … C’è una fotografia che ritrae Bassani nel
suo studio, di fianco al manifesto del film. Curioso, viste le polemiche che
hanno caratterizzato il suo rapporto con il film. Ha mai cambiato idea sul
film, Bassani?
Si tratta del suo studio in via Carissimi a Roma. Il film non gli piaceva,
è vero, ma la locandina gli piaceva molto, e con ragione. È di mano di
un vero artista, non c’è che dire, un pittore di cui ignoro il nome, ma
che sta tra Alberto Sughi e la Pop Art … Questa locandina l’abbiamo
adesso noi, si trova nella sede della Fondazione Giorgio Bassani a Co-
digoro.
30
Per un «memoir» su mio padre
31
Intervista a Paola Bassani
La perdita di Micòl è solo una piccola parte di tutta la perdita della città.
Il contributo di chiusura del nostro volume parla proprio di questo, di
come Bassani sembra assumere il ruolo biblico di ‘lamentare la città’ 3.
È vero. La storia dentro la Storia, con la maiuscola. Del resto, la Storia è
una chiave fondamentale per mio padre, per capire il proprio ebraismo.
Che cosa significa l’essere ebreo per mio padre? La sua realtà ebraica
è una parte della storia italiana. È stato Croce che gli ha permesso di
capire il proprio ebraismo, e di resistere alla follia delle leggi razziali:
storicizzare le leggi razziali, storicizzare l’antisemitismo. Bassani diceva
che gli ebrei erano parte della borghesia, erano i rappresentanti di quel-
la classe media borghese che in Italia ha sempre sofferto per la libertà.
La Storia per lui era veramente una chiave fondamentale per capire la
realtà. Non bisogna dimenticare che mio padre è stato anche insegnante
di storia e di quelle lezioni abbiamo tutti i suoi appunti.
Oltre alla storia, gli interessava l’archeologia? A parte gli etruschi, di cui
leggiamo nel «Giardino», cosa gli interessava?
Oltre alla storia e alla storia dell’arte (non dimentichiamoci che è sta-
to allievo di Roberto Longhi e, per quanto mi riguarda, è stato il mio
primo maestro in tale disciplina), a mio padre interessava l’archeologia
in quanto scavo e recupero, anche morale, del passato. Negli anni ’50-
’60, andavamo a visitare le necropoli etrusche sparse intorno a Roma,
animati da un sentimento quasi religioso. In seguito, i frequenti viaggi
nel sud, i soggiorni a Maratea, hanno permesso a mio padre di scoprire
nuove e altrettanto commoventi testimonianze del modo antico: sono
proprio queste del resto a offrirgli motivi d’ispirazione essenziali per la
sua ultima raccolta lirica (vedi la poesia La porta rosa). Negli anni ’70,
poi, mio padre si è recato in Grecia e in Persia. Diceva di aver capito
veramente solo in Persia il significato della rappresentazione dell’uomo
visto di profilo, cioè dell’uomo a due dimensioni, l’uomo che un artista
dei nostri tempi, Ceroli (e quanto ha amato Ceroli, mio padre … lo cita
persino in una delle sue ultime poesie!), tenta di far rivivere nelle sue
sculture: l’uomo antico, l’uomo prima che venissero i greci, l’uomo che
non si ribella a Dio e al suo signore, l’uomo dei lunghi cortei e che si
annulla in questi, l’uomo fatto in serie (l’uomo anche in qualche modo
della nostra società dei consumi).
3 Il saggio Lamenting the Lost City di Gail Holst-Warhaft conclude questo volu-
me.
32
Per un «memoir» su mio padre
33
2.
RICORDO DI BASSANI
Dacia Maraini
35
Dacia Maraini
Ma lei non faceva pesare la sua ricchezza. Amava veramente gli artisti e
se poteva, li aiutava. È morta misteriosamente la bionda Luisa, passeg-
giando in un bosco. È caduta in un dirupo ma nessuno ha mai capito
perché e come. E se fosse sola o se qualcuno l’avesse raggiunta con cat-
tive intenzioni.
È possibile che io abbia conosciuto Giorgio Bassani in casa di Luisa
Spagnoli. Ricordo che mi è stato subito simpatico. Parlava un italiano
elegante, ma non ricercato, amava i libri e aveva tante storie da raccon-
tare, anche se per carattere era portato alla bruschezza. Poteva essere
molto scorbutico e cupo, ma subito dopo anche affabile, gioioso e gen-
tile.
Credo che quando gli ho stretto la mano la prima volta avessi già let-
to sia le Cinque storie ferraresi che Gli occhiali d’oro. Ero una adolescen-
te appassionata di letture e ingollavo libri con ingordigia, soprattutto di
notte perché ho sempre sofferto e soffro ancora di insonnia.
Bassani raccontava la sua Ferrara e attraverso la città, tutta la storia
d’Italia. Il fascismo, la guerra, il dopoguerra, li avevo vissuti anch’io, ma
col cuore cieco di una bambina. Ero stata in campo di concentramento
per l’antifascismo dei miei genitori, conoscevo la povertà e la sfida al
razzismo, ma ero troppo piccola per capire il perché delle cose. Bassani,
coi suoi libri, mi spiegava quelle ragioni. Anche se nel modo sincopato
e frammentato con cui gli scrittori raccontano la realtà, ma dall’interno,
con sensualità e capacità visionaria.
Lo consideravo un maestro. Io allora cominciavo a scrivere i miei
primi racconti e prendevo esempio dai maggiori scrittori italiani e stra-
nieri: amavo l’ironia di Svevo, il realismo di Moravia, la forza mitica
di Grazia Deledda, il lirismo di Verga, la rabbia critica di De Roberto
nonché Faulkner che colpiva la mia fantasia adolescenziale e Beckett
che è stato per me un modello, Dostoevskij che mi teneva sveglia fino
all’alba, Balzac di cui ho letto tutti i romanzi, quelli belli e quelli brutti,
senza fermarmi mai.
Di Bassani mi piaceva il lindore della scrittura, la crudezza rappre-
sentativa, l’attenzione verso i caratteri, sia maschili che femminili. Fer-
rara che conoscevo appena, mi è diventata familiare attraverso i suoi
racconti: il corso Giovecca, il Teatro comunale, la macelleria equina,
il grande caffè Zamboni, la salita del Castello, l’ospedale Sant’Anna e
la zona del Ghetto con l’oratorio di san Crispino, via Vignatagliata e
via Vittoria, la sinagoga, i negozi di via Mazzini e tanti altri luoghi cari
all’autore. Nelle lunghe nottate di lettura mi ha accompagnata lungo le
stradine della vecchia Ferrara, raccontandomi della signora Lida Man-
36
Ricordo di Bassani
tovani, del dottor Elia Corcos, del superstite Geo Josz scampato al cam-
po di sterminio, della vecchia maestra Clelia Trotti.
È stato lui a farmi capire cos’è stato il fascismo in Italia, che danni
ha fatto e come abbia contribuito a stanare gli ebrei e condurli al ma-
cello, soprattutto negli anni che vanno dal ’43 alla fine della guerra. La
storia del professor Athos Fadigati l’ho letta di un fiato. E mi ha inse-
gnato molto più di qualsiasi libro di storia sulla nascita dell’intolleranza,
dell’odio, del conformismo e della persecuzione verso il diverso.
Anni dopo ho letto Il giardino dei Finzi Contini che mi ha inna-
morata, come ha innamorato tanti lettori. Bassani in quel romanzo ha
saputo annodare il racconto di un amore difficile e spinoso con la tra-
gedia dell’olocausto. La storia di una giovinezza sontuosa e felice: le
partite di tennis, gli incanti di un giardino ampio e misterioso, le mille
acrobazie verbali di una ragazza dalla immaginazione complessa e irri-
verente diventa, man mano che procede la narrazione, la testimonianza
di una metamorfosi sociale e culturale senza rimedio. Sono tutti morti
quando comincia il romanzo e sono tutti morti alla fine. Ma la morte
contiene la vita che si apre ad ogni pagina con la grazia di un palcosce-
nico maestoso.
Per anni ho frequentato Bassani ma dopo gli anni ’70 sempre di
meno. Anche perché i luoghi di incontro per artisti diventavano sempre
più scarsi e l’abitudine di prendere un caffè insieme chiacchierando del
più e del meno sembrava una cosa d’altri tempi. Ho saputo che aveva
una nuova compagna, americana, che poi ho avuto modo di conoscere,
ma dopo la morte di Giorgio. Ho saputo che era scontento del bellissi-
mo film che De Sica aveva tratto dal suo romanzo più compiuto e felice.
Poi un giorno l’ho incontrato in Germania, ad un festival letterario.
Erano già gli anni novanta. Io dovevo tenere una Lesung in una sala e lui
in un’altra. Abbiamo scherzato sulla coincidenza degli orari, per cui io
non potevo andare alla sua conferenza e lui non poteva venire alla mia.
Però ho sentito nella sua voce qualcosa di strano, come una incertezza
che minava la sua consapevolezza del presente, come se qualcosa del
suo corpo procedesse con troppa furia verso un limite ignoto, mentre
l’altra parte del corpo e la mente restavano a guardare con sorpresa e
sgomento quei ghiribizzi inaspettati. Solo dopo ho saputo che era già
malato.
E poi nel 2000, mentre ero in viaggio, mi è arrivata la notizia della
sua morte, dopo una lunga malattia. Mi è dispiaciuto non averlo saluta-
to. Ma uno scrittore non muore mai del tutto. I suoi libri rimangono a
tenerci compagnia. Per questo lo considero ancora vivo e vicino.
37
3.
GIORGIO BASSANI
Alain Elkann
39
Alain Elkann
40
4.
INCONTRI INDIANI
Lettere inedite di Giorgio Bassani 1
Valerio Cappozzo
Nel 1978 Bassani pubblica un libro di poesie dal titolo In gran segreto,
scritte in parte durante i suoi viaggi in America. Sfogliando la biografia
dello scrittore ferrarese si nota un interesse verso la letteratura ameri-
cana che risale già agli anni cinquanta. Nelle riviste Botteghe Oscure e
Paragone, delle quali era redattore, cura le traduzioni di scrittori come
Herman Melville, Emily Dickinson, Thomas S. Eliot e Truman Capo-
te 2. Nel 1967 vola negli Stati Uniti portando a San Francisco la mostra
L’Italia da salvare quale presidente di Italia Nostra, associazione nazio-
nale per la tutela del patrimonio storico artistico e naturale. Nel 1972
è a New York, dove si pubblicano in traduzione le sue opere in prosa
e qui tornerà più volte negli anni successivi. La biografia prosegue con
le visite, tra il ’75 e il ’77, alla University of California at Berkeley e alla
Northwestern University of Illinois. La sua permanenza all’Indiana Uni-
versity, invece, è raramente citata pur avendo segnato profondamente la
sua esperienza americana.
il personaggio femminile de Il giardino dei Finzi-Contini, che scrive una tesi di laurea su
Emily Dickinson.
41
Valerio Cappozzo
3 Bassani 1978, 71. Le citazioni delle poesie sono tratte da questa prima edizione
42
Incontri indiani. Lettere inedite di Giorgio Bassani
Questo è lo stesso spirito con il quale Bassani si pose di fronte alla cultu-
ra americana che significava per lui innanzitutto una proiezione ricca di
speranza rigenerativa, una boccata d’aria al di là delle Colonne d’Ercole
e un modo concreto per sopravvivere al viaggio d’Ulisse. Approdare
nella West Coast dell’America, dall’altra parte del mondo che conosce-
va, gli offriva un senso d’abbandono, di rilassamento dalle tensioni pro-
vate in Italia.
Tornando al titolo di In gran segreto, ci si domanda se ci sia effetti-
vamente un segreto delle sue trasferte americane. Sfogliando le poesie,
due saltano soprattutto agli occhi: Visitando l’Indiana e Campus, che di-
mostrano come a Bassani non bastassero le coste americane, ma volesse
penetrare sino al Midwest. Qui visse un’esperienza poco nota che, a più
di dieci anni dalla sua scomparsa, riemerge ora da un cassetto impolve-
rato di una scrivania nel sud dell’Indiana, là dove trascorse al di fuori di
tutto e tutti uno dei periodi più felici della sua vita 7. Una delle univer-
sità dell’Indiana è a Bloomington, piccola cittadina a sud di Indianapo-
lis. Come una tipica College Town americana, Bloomington è formata
dall’università intorno alla quale si sviluppa un anello di case, negozi e
fast-food. Al centro dell’ateneo c’è Ballantine Hall, edificio dove si in-
segnano le storie e le letterature del mondo. Qui, al sesto piano, in una
stanza di quello che fu negli anni settanta il Center for Italian Studies,
c’era fino a pochi anni fa ancora la vecchia scrivania del professor Lèba-
no in cui erano custodite con cura le lettere di Bassani 8.
43
Valerio Cappozzo
ca rinascimentale, della narrativa italiana del 1800 e della storia italo-americana. Ha pub-
blicato anche diversi libri sull’insegnamento della lingua italiana.
9 Le lettere autografe di Bassani non presentano problemi di trascrizione grazie
a una scrittura corsiva fluida e regolare. Scritte fronte-retro con penna stilografica blu
hanno a volte aggiunte a margine e qualche correzione. Si vedano per esempio le lettere
pubblicate in Appendice a questo volume. Nella trascrizione si sono rispettate la paragra-
fazione e l’indentatura degli originali.
44
Incontri indiani. Lettere inedite di Giorgio Bassani
so che terrò sarà sulle mie opere, in prosa e in verso. Avrei fatto volentieri
un corso sul Manzoni, ma non ho ora il tempo di prepararlo.
Domenica prossima, 12 ottobre, partirò per New York. Il mio recapito
a New York è presso l’Ambasciatore Vinci – 925 Fifth Avenue. Penso che
ci telefoneremo.
45
Valerio Cappozzo
Lèbano decise di far venire Bassani nel mese di marzo, così che gli stu-
denti avessero tempo di prepararsi adeguatamente all’arrivo dello scrit-
tore: «Accettando la proposta di Bassani, decidemmo che non avrebbe
insegnato un regolare corso di letteratura italiana (come gli era stato
invece chiesto di offrire in altri atenei americani), bensì di parlare delle
sue opere e delle sue esperienze di uomo e poeta».
46
Incontri indiani. Lettere inedite di Giorgio Bassani
Lei mi chiedeva nella Sua ultima lettera del 7 gennaio in quali orari pre-
ferirei fare lezione. Scelgo dalle 3.30 alle 5. Va bene?
Sarebbe utile che la libreria dell’Università fosse fornita oltre che del
Romanzo di Ferrara e di Epitaffio, anche di L’alba ai vetri, edizione Einaudi,
un libro di poesie a cui tengo molto. Sarebbe anche indispensabile ordinare
Le parole preparate, edizione Einaudi, libro nel quale sono raccolti una no-
tevole parte dei miei saggi letterari. È un volume importante perché, a parte
tutto, rappresenta una continua dichiarazione di poetica.
Arrivederci a presto dunque, e molti cari saluti dal Suo
Giorgio Bassani
47
Valerio Cappozzo
Dal Campus 11
a Mario Soldati
Richiamandosi imperterriti alla qui ormai universalmente riconosciuta
opportunità dei confronti infra ed extra senza più la minima
remora insomma a ruota
libera
– né sto a descriverti le musare 12 Mario mio che quelle puoi di sicuro
immaginartele –
considera più valido Manzoni – interrogano dolcemente – ovvero
Antonioni?
Opta per la linea Borromini-Fellini diciamo o per quella
Rossellini?
E Verdi? Non pare a lei che Giuseppe
Verdi ricordi come fenomeno un po’
il nostro Gershwin?
E il lombardo Vincenzo Monti in che rapporto lo mette Lei col lombardo
Luchino
Visconti?
E Lotto
Bellotto
e Giotto
e
Zanzotto
non sarà il caso che si verifichi se abbiano davvero qualcosa fra loro da
spartire?
E lei medesimo infine in che rapporto si sente
col Boccaccio?
Questo è più o meno ciò che mi chiedono tutti quanti in giro come se niente
fosse
talché più morto che vivo delle due l’una o di
botto li abbraccio oppure spezzato
giusto a metà da una gran
volta su La Stampa dell’11 dicembre 1977 con varianti minime. Della dedica a Mario
Soldati rimane memoria solo nella nota dello stesso Bassani a p. 81 dell’edizione del 1978:
«Quel Mario al quale si fa riferimento in ‘Campus’ (verso 5) è Mario Sodati».
12 Dalla nota dello stesso Bassani: «‘Musare’ è voce dialettale ferrarese. Significa
‘musi’, ‘ceffi’, ‘grinte’. Ma può voler dire anche ‘facce’, semplicemente» (Bassani 1978,
81).
48
Incontri indiani. Lettere inedite di Giorgio Bassani
tosse
fronte ai ginocchi ho cura di coprirmi bene bene
con entrambe le mani il
viso
Ecco quanto carissimo però per dirla
col vecchio Griso è
dura
Nell’ironia della terzina finale – Manzoni descrive il Griso, uno dei Bra-
vi al servizio di Don Rodrigo, come colui al quale «s’imponevano le im-
prese più rischiose e più inique» 13 – Bassani sottolinea il ruolo difficile
di chi si trova, lontano dalla sua patria, a essere portatore di una cultura
diversa e deve soddisfare la curiosità degli altri. Il fatto che la poesia sia
dedicata a Mario Soldati è significativo perché anche Soldati si trovava
a insegnare in un’università americana, la Columbia University di New
York, ed era quindi l’unico amico che potesse capire fino in fondo che
cosa voglia dire rappresentare la propria cultura in terra straniera.
A Bloomington, intanto, il rapporto tra Lèbano e Bassani diventava
sempre più stretto e più intimo, tant’è che Lèbano fu il primo ad ascol-
tare questa poesia e a riceverla come regalo: «Molte sere dopo i pasti, si
soffermava a leggere a me e a mia moglie alcune sue poesie pubblicate
in Epitaffio, insieme ad altre che veniva allora componendo, come la
poesia Dal Campus». Lèbano ricorda anche le passeggiate con Bassa-
ni per Kirkwood Avenue, la via elegante di Bloomington. Descrive le
partite a tennis nei campi all’aperto tra il dipartimento di Ingegneria
biomeccanica e il Centro ebraico. Sorride al ricordo dei cheeseburger
mangiati in compagnia da Nick’s, il ‘famoso’ pub dove Dulbecco pre-
parava negli anni quaranta le sue lezioni e dove Umberto Eco scrive-
rà I limiti dell’interpretazione nel 1978. «Nei pub Giorgio pretendeva,
senza essere capito dai camerieri, che la carne fosse separata dal pane e
dalla lattuga così da poterla mangiare con il coltello e la forchetta. Mi
faceva ridere perché gli rimproveravo che non accettava di mangiare
l’hamburger con le mani, ma lui non se ne curava e chiedeva la stessa
cosa ogni volta».
Anche se breve, l’esperienza in Indiana ha saldato un rapporto che
è continuato nel tempo. Di sicuro quel soggiorno americano fu molto
importante per Bassani, così come testimonia la prima lettera dopo la
sua partenza:
49
Valerio Cappozzo
Caro Lebano,
prima di tutto, scusa se mi faccio vivo soltanto ora. Ma appena arrivato
qui, non hai idea da quante cose da fare sono stato assalito, di carattere
privato e pubblico! Da uscirne pazzo.
Mi manchi molto. Mi mancate tutti molto. E adesso, di qui, il periodo
che ho trascorso a Bloomington mi appare come uno dei più felici della
mia vita. Lo dicevo giusto ieri sera anche con Arnolt, l’addetto culturale
americano, col quale sono uscito a cena. Nick’s Bear’s Place, perfino la
Tudor room 15 (senza parlare di casa tua, di casa Musa 16, di casa Welliver,
ovviamente), ecc.: tutto si colora ormai dei colori e delle luci del mito. Ed
è, in particolare, sempre così affettuosamente disponibile! Ma ci tornerò, a
Bloomington, non fosse che per riabbracciarvi tutti quanti lì …
Mi ha scritto Costa 17, e ti accludo in fotocopia la sua lettera 18. Debbo
accettare? Propendo per il sì, anche se un po’ mi turba l’idea di trapiantar-
mi in America senza un contratto vero e proprio. Capisci? Se di qui a tre o
quattro anni cambiassero idea, come resterei? Ma vedremo.
Il ritorno a Roma ha avuto un momento drammatico. A Indianapolis,
dove i Musa ed Ed.[ward] Marguleas 19, mi avevano così gentilmente ac-
compagnato, mi son trovato imbarcato su un aereo erroneo. Insomma, in-
vece che a N.Y., son finito a Chicago. E a N.Y., cambiando aereo, ci sono
arrivato molto più tardi del previsto: appena in tempo per prendere l’aereo
di Roma. Che avventura!
Ricordami a tutti gli amici (ai quali scriverò nei prossimi giorni). Intanto,
a te, un abbraccio affettuoso dal tuo
Giorgio Bassani
P.S. Ho molto lavorato ancora alla poesia Dal campus, tra qualche giorno,
te ne manderò la stesura definitiva.
insegnare alla University of California at Berkeley dove lo scrittore si recò per un mese
nello stesso 1976. Il progetto di ritornarci per un periodo più lungo dal 1977 in poi non
si realizzò. A questo proposito si veda più avanti la lettera del 18 novembre 1977.
18 La fotocopia della lettera è andata smarrita.
19 Edward Marguleas è lo studente che nel 1973 aveva proposto a Lèbano di con-
tattare Bassani.
50
Incontri indiani. Lettere inedite di Giorgio Bassani
In questa lettera, una delle più significative fra quelle scritte dopo il suo
ritorno a Roma, Bassani fa un bilancio molto positivo del suo soggiorno
nella cittadina americana, e nelle sue parole trapela un affetto profon-
do per la gente conosciuta. Tanto era stato bene a Bloomington che lo
scrittore prospetta una nuova visita l’anno successivo, prima di andare
in California:
Caro Lebano,
avrai già ricevuto, suppongo, il telex col quale ti avverto che sarò a Bloo-
mington il giorno 23 settembre, con arrivo all’aeroporto alle ore 21.45. Spe-
ro proprio di rivederti subito, all’aeroporto, dopo che avrai parcheggiato la
mitica 124 lì fuori, a destra dell’ingresso. Resterò a Bloomington due giorni,
fino alla mattina del 25. Ti prego perciò di chiedere ai Musa di ospitarmi
per due notti. Sarà possibile?
Nel corso dell’estate ti ho cercato varie volte per telefono a Bologna, al
numero che mi avevi dato. Nessuna risposta. Ci sei stato, poi, a Bologna?
Ho moltissima voglia di rivedervi: per questo motivo ho deciso di fare
tappa a Bloomington. Spero di rivedervi tutti quanti in perfetta salute e
ancora ben disposti nei confronti del vostro
Giorgio Bassani
51
Valerio Cappozzo
Caro Lebano,
mi ha fatto piacere sentire la tua voce, ieri, al telefono. Ma eri solo, nel tuo
ufficio? Mi sembravi reticente, come se ti imbarazzasse qualcosa o qualcu-
no…
Dunque, come ti dicevo, la possibilità di un mio ritorno a Berkeley è da
considerarsi definitivamente tramontato. Costa era tutto dalla parte mia.
Ma nemmeno lui, poveraccio, può combattere da solo contro tanti, me lo
ha detto francamente … E tuttavia mi dispiacerebbe tantissimo, a questo
punto, dover rinunciare all’idea di passare almeno due mesi all’anno in
America. Togliermi di qua ogni tanto, con un minimo di regolarità, mi fa-
rebbe davvero comodo. E poi insegnare mi piace, in fondo l’ho sempre fat-
to. Capisco te, data la situazione, chiedere proprio a te, credevo, di tornare
a Bloomington per un paio di mesi all’anno, è forse, da parte mia, chiedere
troppo. Però te lo chiedo lo stesso.
Ho letto attentamente due lavori: quello della Nemerow, e quello di Sku-
bikovski 21. Li ho trovati entrambi eccellenti. Il saggio della Nemerow è
finissimo nel cogliere ogni sottigliezza della situazione psicologica, e nel
distinguere, nel testo, ciò che si riferisce a B.[assani] scrittore: a mettere
insomma in evidenza i due piani, morali e strutturali, che stanno alla base
del racconto. Si è ricordata benissimo, oltre a ciò, di quanto ho detto nelle
mie lezioni. Che più?
Anche il lavoro di Skubikowski è buonissimo. Ha capito tutto, ha colto
perfettamente il rapporto che esiste fra Dietro la porta e le altre parti del Ro-
manzo di Ferrara, attento, in pari grado, al testo, e ai problemi morali e so-
ciali connessi con l’equazione omosessualità-semitismo, anti-omosessualità
e anti-semitismo. La chiarezza dell’esposizione risulta autentica, utile. Non
c’è niente di semplicistico nella sua stessa volontà di chiarire, di definire
sino in fondo i termini del problema.
Un solo appunto, all’una e all’altro: spesso, troppo spesso, le citazioni dei
testi risultano piene di errori. Come mai? Un po’ più di cura nel riferire –
da parte soprattutto di Linda – non guasterebbe affatto. Così come non
21 Linda Nemerow conseguì il dottorato nel 1980 con la tesi: The Concept of «Ut
Pictura Poësis», in Giambattista Marino’s «Galeria» and the «Dicerie Sacre»; Ugo Skubi-
kowski nel 1979, con la tesi: A Critical Edition of the Poetry of Giacomino Pugliese.
52
Incontri indiani. Lettere inedite di Giorgio Bassani
guasterebbe in entrambi i lavori, qualche cenno circa il rapporto fra Gli oc-
chiali d’oro e Dietro la porta e la letteratura italiana, e non soltanto italiana,
contemporanea. I due libri sono dopo tutto dei prodotti artistici. Per leg-
gerli correttamente vanno collocati nel tempo, nella Storia. O mi sbaglio?
Salutami tanto Linda. Dille, per favore, che le scriverò entro la settimana
prossima. E intanto abbiti un caldo abbraccio dal tuo
Giorgio Bassani
53
Valerio Cappozzo
Bibliografia
54
Remembering as a Way to Forget
5.
REMEMBERING
AS A WAY TO FORGET
Giorgio Bassani and Holocaust Commemoration
Nancy Harrowitz
55
Nancy Harrowitz
between the two that ultimately makes a strong statement on the com-
plex relationship between the history of the Jews in Italy, the Holocaust,
and Italy’s Fascist past.
The action of the prologue takes place in contemporary time, and
the novel that comes after stands essentially as a flashback to an earlier
personal history, one that is inextricably intertwined with the history of
the Shoah in Italy. As the catalyst for the narration of the novel, Bassani
makes it clear that this is a history that should not be forgotten.
The prologue begins with the tale of the narrator who goes out with
friends and their little girl for a typical Sunday excursion near Rome on
a rather gloomy afternoon. At the end of the day, the driver makes an
impulsive decision to visit a site of Etruscan burial tombs and mounds
situated near a small town, an area of countryside that the narrator
likens to an enormous cemetery. As they approach the tombs, Giannina,
the small girl, asks her father why it is that these ancient tombs are not
as sad as new ones. Her father responds that «Gli etruschi, vedi, è tanto
tempo che sono morti […] che è come se non siano mai vissuti, come se
siano sempre stati morti» 2. Yet the child, after hearing this bit of morbid
logic, responds in the following way, «Però, adesso che dici così […]
mi fai pensare che anche gli etruschi sono vissuti, invece, e voglio bene
anche a loro come a tutti gli altri» 3.
Through focusing on this question of absent mourning, the narra-
tor establishes that the child is the one who has properly prepared the
adults to visit the site. Indeed, traditional roles are reversed through
these both wise and precocious comments.
The beginning of the prologue contrasts these dearly departed who,
according to the father, are without mourners and seem to have always
been dead, and those who are more recent in our collective or personal
memory. The little girl instructs us as to how we can reanimate mourn-
ing for the remote past by simply becoming aware that these deceased
were indeed at one time, for someone, a dear departed. Her remarks
become a veritable prescription for commemorating, for bringing back
the past in an active, reflective way. As memory that takes the form of an
act, commemoration is a material practice designed to remember and
to mourn or celebrate, such as monuments, plaques, and ceremonies.
The prologue thus presents a crisis in which commemoration is immedi-
ately challenged as eminently forgettable, that eventually tombs become
56
Remembering as a Way to Forget
tourist sites for Sunday excursions and that it is only through a dynamic
gesture of reflection that co-memoration, remembering together as a
community, may be activated.
At the end of the prologue, as he meditates in the car on the way
home, the narrator brings us around to the question of a much closer
memory, the recent departed and the ongoing task of commemoration
with these words:
Ma già, ancora una volta, […] io riandavo con la memoria agli anni della
mia prima giovinezza, e a Ferrara, e al cimitero ebraico posto in fondo a
via Montebello. Rivedevo i grandi prati sparsi di alberi, le lapidi e i cippi
raccolti più fittamente lungo i muri di cinta e di divisione, e, come se l’aves-
si addirittura davanti agli occhi, la tomba monumentale dei Finzi-Contini
[…].
E mi si stringeva come non mai il cuore al pensiero che in quella tomba,
istituita, sembrava, per garantire il riposo perpetuo del suo primo commit-
tente – di lui, e della sua discendenza –, uno solo, fra tutti i Finzi-Contini
che avevo conosciuto ed amato io, l’avesse poi ottenuto, questo riposo.
Infatti non vi è stato sepolto che Alberto, il figlio maggiore, morto nel ’42 di
un linfogranuloma; mentre Micòl, la figlia secondogenita, e il padre profes-
sor Ermanno, e la madre signora Olga, e la signora Regina, la vecchissima
madre paralitica della signora Olga, deportati tutti in Germania nell’autun-
no del ’43, chissà se hanno trovato una sepoltura qualsiasi. 4
4 Ivi, 322.
57
Nancy Harrowitz
could lie within. Yet even though public memory and private memory
are juxtaposed as quite different, the narrator’s private memory about
the Finzi-Contini that is about to follow ultimately takes on a very pub-
lic face, as it engages the question of the Holocaust in Italy and the lives
that it touched.
When the prologue moves from the Etruscans to the narrator’s mus-
ings about the Finzi-Contini and their fate, it becomes clear that in this
episode, memory work is done initially through psychological exercise,
not through visual yet ultimately static spaces such as tombs or monu-
ments. Bassani’s theory regarding memory and its relation to physical
sites is played out through the comparison between the Etruscan burial
tombs which they visit, and the tomb of the Finzi-Contini, which does
not need an actual physical visit to reanimate the loss for the narrator.
The physical tomb of the Finzi-Contini is there, but it is not its direct
viewing or actual physical presence that animates memory, it is instead
the thought of it that functions as the impetus.
Telling us that the tomb was erected to guarantee the repose of its
creator and his progeny, the narrator’s message is clear: a cemetery or
tomb is only as good as its assurance of a restful site for its cari scom-
parsi, the dearly departed, and for the survivors for whom the scomparsi
are indeed cari in their memory. In other words, a burial site is only as
good as it is remembered.
If a tomb is only as good as its function, that of a resting place, then
what is the status of an empty tomb, the cenotaph? The cenotaph is a
constant reminder of that which is missing, and has become a trope that
represents the murdered and unburied dead of the Holocaust. Bassani
is adopting the figure of the massive, yet mostly empty Finzi-Contini
tomb in a similar fashion. The tomb of the Finzi-Contini has but one oc-
cupant from the narrator’s generation of Italian Jews who experienced
the Holocaust. In comparison to the fate of the rest of his family, he may
be secure in his repose, but at a heavy price: convalescence and a pre-
mature death from illness. The other deaths, especially Micòl’s, stand
in stark contrast as premature and outside any natural order, caused as
they were by Nazi murder. Their deaths are represented by the figure of
the missing cenotaph: they are no longer individual, but rather folded
within the mass murder of six million Jews.
The narrator’s comments on the unknowability of a burial site or
even the existence of a burial for Micòl and the others are set within the
framework of the Finzi-Contini garden as a locus amoenus, a pleasant
place. Yet it is a locus amoenus that has suffered a double displacement:
58
Remembering as a Way to Forget
59
Nancy Harrowitz
little girl in the prologue says, we remember that the subjects of his-
tory were once alive, so that we become «fond of them». In this novel,
Bassani asserts that memory is a condition of the narrator’s existence.
Memory is the genesis of the text, and commemoration the literature of
memory, presented as its logical consequence. Commemoration func-
tions as the result of the presence of the narrator, his memory of events,
and the story he tells about those events. Commemoration is thus an
outcome of personal and public history, and is shown as a powerful
positive force.
These concepts are, however, placed into energetic crisis in a
lesser-known work of Bassani’s, his story Una lapide in Via Mazzini.
Published in Botteghe oscure in 1952, this extraordinary tale also ex-
plores memory and commemoration, but within a very dissimilar con-
text and with markedly different results. Departing in significant ways
from Il giardino in its exposition of thematic concerns regarding the
Holocaust in Italy, the story radically contradicts the implied continu-
ity of history, memory and commemoration that Bassani constructs in
Il giardino. It also more openly disputes any benign mythology of the
post-unification integration of Italian Jews, presenting instead a harsher
reality regarding the acceptance or tolerance of Jews in Ferrara before,
during and after the war, a theme that is prevalent in the other Ferraresi
stories as well.
Una lapide in Via Mazzini is the story of the only survivor of the
one hundred and eighty three Jews deported from Ferrara in Decem-
ber 1943, according to Bassani’s fictional numbers. The lone survivor,
named Geo Josz, shows up one day unannounced and unexpected, in
August of 1945, several months after the end of the war. The narrator of
the story uses a voice that is not Geo’s, but rather one that moves back
and forth between various sentiments of the non-Jewish inhabitants of
Ferrara and between first and third person. The narrative tone holds the
reader’s view of the survivor at arm’s length by shifting from descrip-
tive to judgmental to outraged, and back again. What is particularly
noteworthy about this strategy is that the multiple points of view are
not sympathetic to Geo: they do not hold Geo’s interest at heart, and
rarely express any moment of sympathy or compassion for him. Bassani
himself describes the importance of the narrator in his stories in the
following way:
Chi ha letto Le storie ferraresi, si sarà reso certamente conto che il perso-
naggio più importante, forse di tutto il libro, è proprio la figura, dissimulata
60
Remembering as a Way to Forget
Geo is viewed through the lens of the town of Ferrara, with the guilt,
resentments, hostility and denial of the immediate postwar period. In
the case of Una lapide, the narrative voice represents the status quo,
unwilling to be shaken up or disturbed, reluctant to engage in painful
memory. The narrator, whom Bassani designates as all-important, thus
sets up the discourse as being against Geo and what he represents from
the very beginning. This animus directed towards a Holocaust survivor
is a surprising departure from what the reader expects. And it is no
accident that the hostility begins with the very first paragraphs of the
story. Geo’s arrival stirs up what the townspeople would much rather
leave alone: the complicity of Fascism in the Holocaust, the murders of
Jews and others committed in a public square just before the deporta-
tion, and the continued postwar existence of Fascists in the town, living
a normal life as if nothing had happened.
The story has two beginnings, the first one jumping ahead of the
chronology and serving as a thematic prologue. We immediately be-
come aware of a spoken style, reflecting a narration that will continually
move back in forth in time, reading almost like a parody of someone
telling a story who cannot keep the tale chronologically organized. Bas-
sani makes clear the hostility of the townspeople on the first page, as the
narrative voice reads that Geo
[…] provenisse ben vivo nientedimeno che dalla Germania di Buchen-
wald, Auschwitz, Mauthasen, Dachau, eccetera, e soprattutto che lui, pro-
prio lui, fosse sul serio uno dei figli del povero signor Angelo? E poi, anche
ammettendo che non si trovasse di fronte a un trucco, a una mistificazione,
che insomma nel gruppo di ebrei cittadini avviati verso i campi di sterminio
nazisti un Geo Josz potesse esserci effettivamente stato, dopo tanto tempo,
dopo tante sofferenze toccate un po’ a tutti, e senza distinzione di fede
politica, di censo, di religione, di razza, costui, proprio adesso, che cosa
voleva? Che cosa pretendeva? 7
61
Nancy Harrowitz
der the very Fascism that many of them supported, to Geo’s deporta-
tion, horrendous existence in a concentration camp, the atrocities that
he witnessed, and the death of his entire immediate family. Geo’s very
reappearance in the city, precisely the word used by Bassani as if to un-
derline his former status as a citizen there, is taken as a puzzle, perhaps
even a deceit, and certainly as an affront.
The second beginning takes a question of historical accuracy and
literally throws it in the face of commemoration, creating the crisis
that lies at the heart of the story. Geo arrives at the site of the syna-
gogue. There he finds a young workman, a self-made mason who is
putting the finishing touches to a plaque commemorating the loss
of many of Ferrara’s Jews to the Holocaust. A small crowd of citi-
zens has gathered to watch the plaque being erected, and the narra-
tor reports their thoughts and comments. Geo touches the mason
on the ankle to get his attention, and is rewarded with a hard stare
in return. He points out the problem with the plaque: that is to say,
that his own name is on it. Suddenly we have too many victims: the com-
memoration is established as unreliable, its accuracy put into question.
Geo’s name is a presence on the plaque that at this moment upstages
his physical attendance, as he is put in the awkward position of having
to stand there and insist on his own corporeal reality, on his very surviv-
al. This moment becomes emblematic for the text, as we slowly discover
during the story that the Ferraresi citizens that Bassani describes would,
quite frankly, prefer a dead Jew that can be commemorated or forgot-
ten in silence rather than a live one, whose presence and voice will be a
constant reminder of their moral failings and their denial.
The narrative voice then changes to represent Geo, as the narrator
reports what he has evidently said to the mason and the small group
standing there:
[…] la lapide avrebbe dovuto essere rifatta, dato che quel Geo Josz, lassù,
cui in parte risultava dedicata, non era altri che lui stesso, in carne e ossa.
A meno che, però – […] a meno che la commissione delle onoranze, ac-
cettando il fatto come un suggerimento del destino, non avesse addirittura
rinunciato all’idea di una lapide commemorativa, la quale – e sogghignò –
pur offrendo il vantaggio indubitabile, posta in quel luogo di intenso pas-
saggio, di farsi leggere quasi per forza, avrebbe avuto il grande torto di
alterare in modo sconveniente la facciata così onesta, così alla mano, del
«nostro caro, vecchio Tempio» […]. 8
8 Ivi, 87-88.
62
Remembering as a Way to Forget
Geo’s suggestion that the plaque be taken down entirely, the error in its
message viewed as a sign of destiny, seems quite mysterious. Why would
a Holocaust survivor want to eliminate the commemoration of the Ho-
locaust’s victims? What does Geo’s attitude towards this commemora-
tion say about what commemoration itself means or how it is used?
After this scene, Geo continues his attempted re-integration into
his hometown. After discovering that his family home has been taken
over by first the Fascists and then the partisans, basement rooms turned
into prison cells, he moves into an attic room at the top of the house
while he waits almost a year for the partisans to move out. He wallpa-
pers his room with pictures of his murdered family members, and paces
the room at night, using the vantage point of the height of the top of
the house to look out and observe any activity in the surrounding area,
which makes the partisans very nervous.
He goes to visit an uncle of his, Geremia, who was a devoted Fascist
up until the time of the expulsion of the Jews from the party after the ra-
cial laws. Geremia, in fact, still wears the beard favored by the Fascists.
Geo seems to bear no grudge against this uncle for his former Fascism;
in fact, it appears throughout the story that Geo is more interested in
honesty than in partisanship.
There are two more central scenes in the story. In the first, Geo runs
into a Fascist spy and informer, Count Scocca, on a public street, whis-
tling a favorite Nazi tune, and Geo slaps him twice on the face. We as
readers are in the position of fully understanding this action, as the man
was an informer and undoubtedly responsible for deaths and torture
due to his actions. But the narrative voice reports perplexity on the part
of the Ferraresi, anger towards Geo’s action, and speculation as to his
motives, as if his reasons were not both crystal clear and eminently com-
prehensible. The narrator also reports three different versions of the
story told by purported eyewitnesses and spread throughout the town,
as if to say, events themselves will be distorted, changed, and any ‘true’
version of the story must necessarily be in dispute, depending on the de-
sires and perspective of whoever tells the story. Once again, the notion
of history as factual is challenged.
After this watershed event, Geo no longer remains silent on the top-
ic of his murdered family. He begins to frequent the former Fascist cafe
in the town square with his pictures of family and shows them to anyone
who will listen to his stories. Some listen at first, and then stop, others
try to get away from him entirely. He begins to wear again the tattered
clothing in which he returned many months before, making the state-
63
Nancy Harrowitz
9 Ivi, 117-118.
10 There is now a considerable body of criticism on the topic of memory work and
the Shoah; for example, Langer 1995 and Young 1993 and 2000, among many others.
These discussions include considerations of memorials, narration, and testimony.
64
Remembering as a Way to Forget
65
Nancy Harrowitz
66
Remembering as a Way to Forget
after the emancipation, which would have signified that the emancipa-
tion was far more complete than it was.
The irony of a monument that is created to commemorate the Holo-
caust is that it is an object constructed to commemorate destruction 14.
When all of this is taken into consideration, Geo’s harsh response
to the presence and very idea of a plaque on the synagogue places his
perspective squarely within the parameters of theories of memory and
its manipulation that were discussed decades after Bassani wrote this
story.
Memory work is what Geo is attempting to perform after his return
home: for him, through remembering those family members and talk-
ing about them, and memory work for the community, as he tries to get
the townspeople to face their past and their complicity. Memory work
attempts to uncover the strategies that lie behind the revision of history,
the convenient myths, and find the truth. This is what makes the Ferrar-
esi uneasy and hostile in Geo’s presence, as the narrative shows us how
deeply they are entrenched in their revisionary strategies.
But who actually performs the memory work? Is it Geo, the narra-
tor who does the reporting of opinions, or is the burden on us as read-
ers to put two and two together? According to Young, that plaque can
easily do the work of memory for us, stand in for the memory work that
is not being done. But Young also comments, «To the extent that we
encourage monuments to do our memory-work for us, we become that
much more forgetful. In effect, the initial impulse to memorialize events
like the Holocaust may actually spring from an opposite and equal de-
sire to forget them» 15.
Why is Geo so outraged about the dance hall built near the site of a
massacre, but feels like the plaque is useless or worse than useless? The
contrast between his reaction to these two events tells us much about
what Bassani is after in this story. Within the economy of the story, the
massacre of the partisans is in some ways even more disturbing than
what has happened to Geo because it reflects the bloody and bitter civil
war between Italians, between Fascists and Antifascists. These murders
happened right there, in Ferrara. The memory of this event cannot be
brushed off or allowed to become dusty, because it is local and indig-
enous, both Italian and Ferrarese, an episode that happened within the
walls of Ferrara and by extension within the walls of Bassani’s fiction.
67
Nancy Harrowitz
68
Remembering as a Way to Forget
«So you tell stories? […] About things that happened?» «Yes», [Wiesel]
answers, «about things that happened or could have happened». «But they
did not?» «No, not all of them did. In fact, some were invented from al-
most the beginning to the end […]. Some events do take place but are not
true; others are – although they never occurred». 17
In this essay, Wiesel maintains that the asking of questions rather than
the posing of answers is the only fruitful approach that might possi-
bly lead us out of the abyss. The telling of stories that ask pertinent
questions and that do not proffer easy answers is precisely Bassani’s
method and how his texts arrive at their deeper significance and their
power.
Bassani’s stories did not happen exactly as they are written, but they
could have, and they tell a compelling story of Ferrara and its Jews. Nos-
talgia for the past, no matter how problematic the past actually turns
69
Nancy Harrowitz
Bibliography
70
Remembering as a Way to Forget
71
6.
BARE LIFE ON VIA MAZZINI
Andrew Bush
1.
Of the millions of people displaced by the Second World War, some
90 per cent of the survivors had returned home to their countries of
origin within a year after the Allies declared victory. But among Jew-
ish survivors, the proportions were reversed. Those who survived the
camps were exceptions, and those who returned permanently to their
countries of origin were the exceptions among the exceptions – under
10 per cent. Hence, as with the deportations, now with repatriation,
one was faced with the «distinctiveness of the Jewish problem», in the
words of Jacob Robinson, prefacing a report issued by the Institute of
Jewish Affairs of the American Jewish Congress and the World Jewish
Congress as early as November, 1946 1.
The author of the report, Zorach Warhaftig, offers two general head-
ings, unequally weighted, as explanations for this exceptional recalci-
trance: psychological trauma and fears of ongoing anti-Semitism. Analy-
sis of interviews with Jewish DPs interned in Italy, for instance, showed
that even among Jews from Poland – where it was already known some
thousand returning Jews had been killed since the end of the war – psy-
chological trauma was the preponderant explanation. Some 62 percent
of these interviewees cited «psychological reasons resulting from tragic
experiences during the war», rather than fear of anti-Semitism in the
present (28 percent) as the motive for their resistance to repatriation.
Wahrhaftig then documents debates in the newly-formed United Na-
tions, and more particularly at the United Nations Relief and Rehabilita-
1 Robinson 1946, V.
73
Andrew Bush
74
Bare Life on Via Mazzini
This language inverts the nationalist imaginary. One may recall Benedict
Anderson’s initial figure for the «imagined community»: the tomb of
the unknown soldier as a well-marked national gathering place where
perfect strangers from different parts of the country can feel nonethe-
less the relationship of a certain belonging to the tomb, the nation and
consequently to each other 9. For the Jewish survivors, the names of
the dead were all too familiar; what remained unknown was the tomb
itself, when so many had been killed far from home, so many buried in
unmarked mass graves, so many incinerated with no tomb at all. Thus,
while references to national territories as cemeteries may convey the ex-
tent of the killing, cemeteries were precisely what was lacking for the
RPs, even if other lieux de mémoire awaited at every turn. After the war,
then, Jews formed an imagined community by bearing the names that
they could not place.
2.
As Primo Levi crossed the Austrian border into Italy in October,
1945, on the brink of becoming an RP, he realized that the ordeal of
the half-year since his liberation from Auschwitz constituted only a res-
pite. «I mesi or ora trascorsi», he writes, «pur duri, di vagabondaggio ai
margini della civilità, ci apparivano adesso come una tregua, una paren-
tesi di illimitata disponibilità, un dono provvidenziale ma irripetibile
del destino» 10. The open question is whether such a truce will be fol-
lowed by an extension of the peace or a renewal of the war, though it
may be that the parenthesis cannot close and that a certain fate cannot
but be repeated. Levi formulates this moment at the border in personal
terms:
Di seicentocinquanta, quanti eravamo partiti, ritornavamo in tre. E quanto
avevamo perduto, in quei venti mesi? Che cosa avremmo ritrovato a casa?
Quanto di noi stessi era stato eroso, spento? Ritornavamo più ricchi o più
poveri, più forti o più vuoti? Non lo sapevamo: ma sapevamo che sulle
75
Andrew Bush
soglie delle nostre case, per il bene o per il male, ci attendeva una prova, e
la anticipavamo con timore. 11
To return, then, was to face a test, una prova, and to attest, to bear wit-
ness and also to give proof, first of all, for an RP, of one’s own identity.
The examination was also an accusation, and the return, in that sense, a
response to a summons to appear, or reappear, before the law. The RP
who takes the stand is not so much one who is able to riapparire as one
constrained to ricomparire, as Giorgio Bassani declares in the opening
words of his story, Una lapide in via Mazzini, from the cycle of his Fer-
rara tales, first published in 1956:
Quando, nell’agosto del 1945, Geo Josz recomparve a Ferrara, unico su-
perstite dei centottantatré membri della Comunità israelitica che i tedeschi
avevano deportato in Germania nell’autunno del ’43, e che i più considera-
vano finiti tutti da un pezzo nelle camere a gas, nessuno in città da principio
lo riconobbe. 12
A trial awaits.
Alexander Stille took issue with those opening words that establish
the narrative premise of Una lapide in via Mazzini in his account of five
Italian Jewish families under fascism, including the Schönheit family
from Ferrara, deported, like Geo, to Buchenwald. «Bassani’s story is
fiction», writes Stille with a journalist’s commitment to facts: «five of
the eighty-seven Jews deported from Ferrara returned» 13. His principal
interview subject from Ferrara, Franco Schönheit, introduces a differ-
ent perspective:
«But there is a grain of truth in the Bassani story», Franco says. «Because
nearly everyone was dead, we were like ‘white flies’. It was so unusual for
anyone to return that those who had been in hiding in Italy didn’t know
what to make of us. Why had these people survived? How had they sur-
vived? What had they done to survive?». 14
So, like Geo Josz, Franco, his father Carlo and, by Stille’s count, the
other three deported Jews in post-war Ferrara did not so much return
as reappear for questioning, and the questions, as Franco remembered
them, implied an accusation that was made explicit in the testimony
of Stille’s report on the Di Veroli family of Rome. «Silvia and Giuditta
11 Ivi, 421.
12 Bassani 1998, 84.
13 Stille 1991, 344.
14 Ibidem.
76
Bare Life on Via Mazzini
were pained by the initial reception they received from the Roman Jew-
ish community», Stille reports.
«They didn’t treat us too well», Giuditta recalls. «They acted as if we must
have done something bad to have survived. The Catholics all said, ‘You
poor things, how you must have suffered’, but a lot of the Jews acted as if
we had been used as whores by the Germans. I once heard a conversation
in which one man asked ‘Would you marry a woman who had been de-
ported?’ ‘No’, another answered. ‘Neither would I’, the first one said. That
kind of thing hurt us a lot». 15
The charge was prostitution and the very fact of survival was taken as
evidence for the prosecution.
Bassani does not relate Geo’s journey from Buchenwald to Ferra-
ra – neither as tregua nor as pre-trial discovery period. Instead, Geo ar-
rives abruptly, and to those gathered on the Via Mazzini, his appearance
seems to belie the claim to a reappearance. Bassani’s narrator asks in the
earliest published version of the text,
nell’uomo di età indefinibile, grasso al punto che sembrava gonfio, con un
kolbak di pelo d’agnello sul capo rapato, e rivestito di una sorta di cam-
pionario di tutte le divise militari cognite e incognite del momento, chi
avrebbe potuto riconoscere il gracile fanciullo di sette, o il nervoso, magro,
spaurito adolescente di tre anni avanti? 16
His clothing and the language to describe it (underlining the loan word
for his hat), form a mélange that disperses national identity. He does not
15 Ivi, 334.
16 Bassani 1956, 104. In Bassani’s Opere (1998, 84), the description is truncated,
eliminating any reference to Geo’s clothing: «l’uomo di età indefinibile, enormemente,
assurdamente grasso». See Piero Pieri, Memoria e Giustizia (2008), the most valuable and
detailed study of both Una lapide and the whole of Bassani’s cycle of Ferrara stories, for
a comprehensive account of the textual variants between editions. (I will limit references
to two editions, Bassani 1956 and Bassani 1998 to give some sense of the alterations in the
text over time.) Pieri sees Geo as «grottesco e conformista» (97), «un ebreo borghese at-
taccato alla tradizione e pieno di boria» (93), and thus the centerpiece of a critique of the
«debolezze e ambiguità della sua gente» (97), that is Bassani’s people, the Jews of Ferrara,
whose zeal to «tornare al rassicurante e protettivo perbenismo ebraico-borghese» (107)
leads to «un’imperdonabile insensibilità storica» (94) that expunges the memory of the
Holocaust. As will be clear, my reading proceeds in a different direction to different con-
clusions. Our accounts diverge at a point at the very outset of Pieri’s discussion, where he
describes Geo as «uscito senza danni psicologici apparenti» (85). I would underline «ap-
parenti», distinguishing between that which appears (that which is apparent), and that
which reappears. Also, where Pieri focuses on the pertinent context of political parties,
the theoretical foundation of my discussion in the work of Giorgio Agamben leads to me
to frame other political considerations.
77
Andrew Bush
seem to come, to have ever come, from any one place, from anywhere,
from any here.
But if the multiplication of identities in Geo’s derelict attire («biz-
zarramente vestito», reads the early text) 17 is a source of confusion, it is
his body size that causes the gravest consideration. For his weight is not
perceived as simple biology, but rather as a biopolitical inscription, read
against the point of reference in the public way: the stories of the camps
(and perhaps the photos published shortly after liberation) that tell of
the skeletal remains of both the living and the dead. «Quel grasso suo»,
the narrator says in the early text, reporting the thoughts of those gath-
ered on the Via Mazzini, «tutto quel grasso, li insospettiva», because
it «contrastava singolarmente con quanto si diceva dei campi di con-
centramento tedeschi» 18. Bassani revised the passage, but in texts both
early and late the contradiction Geo posed between «la sua grassezza»
and the image of the victims of the camps that had already formed on
the streets of Ferrara led to mutually exclusive alternatives: «o che nei
campi di concentramento tedeschi non si soffriva di quella gran fame
che la propaganda sosteneva; o che lui era riuscito, e chissà a che prezzo,
a godervi di un trattamento tutto speciale» 19. In the realm of biopolitics,
Geo’s body, they conclude, either gave grounds for Holocaust-denial, or
for the surmise that Geo (that Silvia, that Giuditta) was a collaborator, a
Nazi whore. In either case, he is guilty, at least of perjury. His potential
testimony is impugned.
3.
Geo’s situation approximates that of the ancient Roman devotus in phi-
losopher Giorgio Agamben’s analysis of sovereign power and bare life,
a particular and perhaps founding case of the homo sacer, the figure
that Agamben highlights from Roman law 20. Agamben’s example of the
devotus is the warrior who, «prima di una battaglia si è votato solen-
nemente agli dèi Mani e non è morto in combattimento» 21. The ex-
plication of this figure is grounded in the Roman belief that the dead
reappear in the form of the larva, «un essere vago e minaccioso […]
che torna con le sembianze del defunto nei luoghi da lui frequentati» 22.
17 Ibidem.
18 Ivi, 112.
19 Bassani 1998, 101.
20 Agamben 2005.
21 Ivi, 107.
22 Ivi, 109.
78
Bare Life on Via Mazzini
Like the effect of the funeral rite after death transforming the larva, the
rituals of dedication to death transform the devotus into a tutelary figure
while still alive, by separating out «consecrated life» from biological life
(and biological death). «In quanto incarna nella sua persona gli elementi
che sono di solito distinti dalla morte», Agamben goes on to say:
l’homo sacer è per cosí dire, una statua vivente, il doppio o il colosso di se
stesso. Tanto nel corpo del devoto soppravvissuto che, in modo ancora più
incondizionato, in quello dell’homo sacer, il mondo antico si trova per la
prima volta di fronte a una vita, che, eccependosi in una doppia esclusione
dal contesto reale delle forme di vita sia profane che religiose, è definito
soltanto dal suo essere entrato in intima simbiosi con la morte, senza però
ancora appartenere al mondo dei difunti. Ed è nella figura di questa ‘vita
sacra’ che qualcosa come una nuda vita fa la sua comparsa nel mondo oc-
cidentale. 26
And its reappearance in the Via Mazzini. The Roman colossus may also
have a Jewish name, the living statue of the golem, a human figure made
from clay, which, by magical incantation and the inscription of the He-
brew word emeth (truth) on its forehead, could come to life to protect
endangered Jews. The same golem could be rendered inanimate clay
once again by erasing the aleph of the inscription, leaving only the word
meth, or death. In homo sacer’s bare life the aleph, though legible still, is
23 Ivi, 110.
24 Ibidem.
25 Ivi, 110-111.
26 Ivi, 111-112.
79
Andrew Bush
not vocalized, as it were. It has fallen silent: signifying still, without the
force to speak the whole truth and nothing but the truth. The appear-
ance or reappearance of bare life introduces just such a bare language
into the world and the streets of Ferrara.
4.
When, in the course of his return from a short, impromptu and secretive
flight from home, Mattia Pascal read in the local paper of the discovery
of a decomposed body that had been identified as him – his absence
being otherwise unaccountable – he received the news as a liberation
in Luigi Pirandello’s novel 27. He was suddenly free of creditors, of a
wife he didn’t love and a mother-in-law he couldn’t stand, in short, of
all responsibilities; and he had cash in his pocket from his winnings at
Monte Carlo, where, in truth, he had been since his disappearance. He
took up a false name, and, lacking papers to secure a passport or even
a bank account, he moved about within Italy: anywhere but home, any-
where that he would not be recognized. He was not the subject of the
sovereign ban, since his wandering was self-imposed. And his new life
was not bare life, and not only because he was at his ease. It was a life, a
distinctly private life, outside the political realm altogether.
Mattia discovers, however, that life (zoe, biological life, strictly
private life) is not free. Liberty is a political attribute. Concretely, he
finds himself encumbered by his lack of public identity. A theft takes
place from the room he rents under his false name, while he is occupied
elsewhere in the house, ironically, in a phony séance. (This is no zone
of indistinction between life and death, only conscious prevarication.)
He could not resolve his economic problem – that is, at once financial
and domestic, including a love element – without going public. And he
could not go public without putting his feigned identity to death. As in
the prior event, the decision about life and death – in his case fictitious
life and fictitious death – is not a sovereign decision, but his own. So he
feigns a suicide, which, as he reads again in the newspapers, becomes a
matter of public record, and then he heads for home.
When Mattia returned from his self-imposed banishment to «la
mia bella riviera, in cui credevo non dover più metter piede», he goes
first to his brother’s home. «Ma la gioja m’era turbata», along the
road, he reports, not only «dall’ansia d’arrivare», but more particu-
27 Pirandello 1921b.
80
Bare Life on Via Mazzini
28 Ivi, 266.
29 Ivi, 267.
30 Ibidem.
31 Ivi, 268.
32 Ivi, 292.
81
Andrew Bush
The decision to leave the life he had been living was his own, but not
the conditions of his readmission. He returns to public life in these final
lines, as he reads his name upon the lapide, but he finds that a place is
reserved for him only insofar as the polis is everywhere a cemetery, a
zone of indistinction in which he is simultaneously among the living and
the dead. He reappears as bare life, he introjects bare language.
Bassani’s story commences where Pirandello leaves off, when Geo re-
appears in the public way and undertakes to read a lapide, just then being
mounted on the façade of the synagogue in the Via Mazzini. Bassani is scru-
pulous in withholding the details of life, death and survival in Buchenwald,
which the author himself did not witness, but the crux of the reading
lesson is learning that the name of the RP is necessarily il fu Geo Josz.
Bassani sets Geo’s first words apart in parentheses, as if they were
not yet words, not entirely speech but a murmur or babble that is a
precursor to speech (like the confusion of his insignia). Geo has come
upon a small crowd gathered on the Via Mazzini to watch a workman
mounting a lapide inscribed with the names of the deported Jews of
Ferrara, all of whom are presumed dead. The workman’s labors are
interrupted: «sentendosi toccare una caviglia (‘Geo Josz?’, diceva una
voce beffarda) […]» 34. Geo points up at the lapide and laughs amidst
the bystanders, «di certo per guadagnarsi la sua simpatia», and then he
begins again:
«Geo Josz?», ripeté.
Ricominciò a ridere. Ma subito, come pentito, e seminando il discorso di
frequenti «prego» alla tedesca […] si dichiarò dispiaciuto, «mi creda», di
aver guastato ogni cosa con un intervento che, era pronto a riconoscerlo,
aveva tutti i caratteri di una gaffe. Eh già – sospirò –: la lapide avrebbe
dovuto essere rifatta, dato che quel Geo Josz lassù, cui in parte risultava
dedicata, non era altri che lui stesso, in carne e ossa. 35
When Geo’s voice moves from the private speech of his parenthesis to
33 Ivi, 293.
34 Bassani 1998, 87.
35 Ibidem. The earlier text had specified that Geo spoke those words «indicando
82
Bare Life on Via Mazzini
the public ear, it begins by repeating itself, and hence, not so much ap-
pearing, as reappearing. It is a halting voice, incorporating the language
of the sovereign power of the camps as a constant interruption, a stam-
mering, a speech defect. It is, then, not so much a language, a native
language, as a babble of languages, a voce beffarda mocking itself, mock-
ing the potential of language to instantiate itself in speech. It is bare
language.
Were Italy a cemetery, the lapide would be a tombstone, whose in-
scription would function as an index: po nikbar, hic jacet, here lies, at
this very place, beneath this stone. The linguistic shifter (po, hic, here)
would come to rest in the discourse of that indication and the purposes
of commemoration would be served. But in the Via Mazzini, which is
to say outside the graveyard but within the nation-as-cemetery, the la-
pide cannot complete this work. Geo himself, his arm raised, enacts the
part of the index, but far from grounding the shifter (I am Geo Josz),
his performance points out its impossibility. I, here, am that Geo Josz,
there. I, who am speaking these words to you, am that Geo Josz, who
is dead and cannot speak. He has reappeared to ruin commemoration.
His testimony puts testimony on trial. It is spoken come pentito. It can-
not be spoken otherwise.
5.
The shame detectible in Geo’s first speech is also the crux of Agam-
ben’s analysis of survivor testimony after Auschwitz. Shame is a kind
of speech defect for Agamben especially notable in testimony beset by
what he calls «il paradosso di Levi» 36. «Lo ripeto», writes Levi in his
essay La vergogna,
non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri. È questa una nozione scomoda,
di cui ho preso coscienza a poco a poco, leggendo le memorie altrui, e
rileggendo le mie a distanza di anni. Noi sopravvissuti siamo una mino-
ranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per loro prevaricazione o
abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto
la Gorgone, non è tornato per raccontare, o è tornato muto; ma sono loro,
i «mussulmani», i sommersi, i testimoni integrali, coloro la cui deposizione
avrebbe avuto significato generale. Loro sono la regola, noi l’eccezione. 37
83
Andrew Bush
84
Bare Life on Via Mazzini
case of Agamben’s teacher Heidegger, who are they? And if not now,
when 40?
What is distinctive about Quel che resta di Auschwitz within Agam-
ben’s oeuvre with respect to his consistent engagement with Benveniste
is that in working through Levi’s paradox, he comes to see that the fun-
damental disjuncture between language and discourse has the structure
of shame. The cornerstone of this new construction of the relationship
between human being and speaking being is an analysis of shame that
Agamben finds in an early text by another student of Heidegger, philos-
opher Emmanuel Lévinas. Drawing his key terms, subjectification (sog-
gettivazione) and desubjectification (desoggettivazione), from Lévinas’
De l’évasion (1935), Agamben argues, «Nella vergogna, il soggetto non
ha, cioè, altro contenuto che la propria desoggettivazione, diventa testi-
mone del proprio dissesto, del proprio perdersi come soggetto. Questo
doppio movimento, insieme di soggettivazione e di desoggettivazione,
è la vergogna» 41. Reading his own name on the lapide, Geo enacts this
double movement. He overcomes his hesitation and emerges as a speak-
ing subject, indeed a subject speaking in his own name (subjectifica-
tion); on the other hand, the name in which he speaks is that of a subject
who is no more (desubjectification). I am that I am not.
Agamben finds precisely the same paradoxical speech in the most
exceptional of all camps witnesses, those who had been Muselmänner,
the Muslims, in camp slang: those who were so extenuated by hunger,
fatigue, and brutality that they could not longer exercise some of the
most basic life functions. Levi exemplifies the state of the Muselmann
by saying that they seemed unable to distinguish between the cold and a
blow from a guard. The Muselmänner had entered a different grey zone,
then, at the opposite extreme of camp privilege, a zone of indistinction
between life and death, the zone of the barest life. To be a Muselmann
was to be completely sommerso, indeed, already annegato. And yet some
few survived their drowning, survived themselves, and bore testimony.
Agamben’s work in Quel che resta di Auschwitz may be read as an
introduction to an archive of Muselmänner witnesses that he includes in
the final pages of his book. Just prior to reciting their testimony, Agam-
ben states:
85
Andrew Bush
The Muselmänner who speak in the first person are neither sommersi nor
salvati, or they are indistinguishably both at once. They have survived
themselves. Such is the case of the reappearance of Geo Josz. Those
who first see him on the Via Mazzini, and see that he is grasso, raise the
charge of false witness. The narrator, however, observes more precisely
that «Sembrava gonfio d’acqua, una specie di annegato» 43. Una specie
di sommerso salvato. Geo is a complete witness.
6.
Psychoanalyst Serge Tisseron similarly characterizes shame as a con-
tradictory condition, «structurante par certains aspects […], elle est
déstructurante par d’autres» 44. Thus, he emphasizes that the feeling of
shame allows the individual to reestablish both psychic integrity and a
place in the social world, but at a price: «L’individu se réunifie, mais
comme sujet indigne» 45. Geo’s nervous laughter, mocking himself as he
speaks and for speaking, it may be recalled, was interpreted by the nar-
rator as an effort to gain sympathy. Geo’s first testimony effaces himself
as one unworthy to be counted amongst the honored dead, but also one
whose membership in the rolls of the living is not guaranteed. He would
be re-membered, rather than remembered. It will be crucial to his re-
integration – that is, his incomplete reintegration – that he is placed on
the membership rolls of a private club in Ferrara shortly after his reap-
pearance; and all the more crucial that when his re-socialization fails, he
is dis-membered, as it were, expunged from those rolls and debarred
from entering.
Tisseron’s examination of «situations limites» including the case of
camp survivors, articulates the experience of shame as a localized break-
down of the «envelope psychique» and its «capacité autocontenante» 46.
42 Ivi, 154.
43 Bassani 1998, 87.
44 Tisseron 1992, 57.
45 Ibidem.
46 Ivi, 48-55.
86
Bare Life on Via Mazzini
87
Andrew Bush
avanti era stato il ghetto» 52. Their home has two approaches. On the
one hand, «Per arrivarci da casa Brondi quando, s’intende, si fosse per-
corso il viottolo in cima ai bastioni ed evitato ogni possibile scorciatoia
urbana,» Gemma’s family would have a view of the countryside and
finally enter through a garden 53. Patients and the doctor’s Jewish rela-
tives, on the other hand, namely, «Corcos, Josz, Cohen, Lattes o Tabet»,
approached from «via della Ghiara, col suo aspetto tranquillo e ap-
partato, è vero, ma marcatamente cittadino» that contrasted so sharply
with the campagna that nevertheless began «a non più di qualche decina
di metri di distanza» 54.
Distinctions hold, and even prejudices; nevertheless the house ad-
mitted entry from both sides and suggests the possibility of a space of
hospitality that would be a refuge against the sovereign decision and
the experience of shame. It may also be recalled that communication
across the garden wall of the Finzi-Contini likewise took the form of
hospitality, both clandestinely and then openly. The erotic tension thus
aroused is never favorably resolved for the narrator, who eventually suf-
fers banishment from the ghetto-garden. The estrangement anticipates
and may even be seen as the cause for his alternative fate: the Finzi-
Continis will be deported to their death, as he would have been had he
married Micòl. Instead, the narrator will survive, and precisely because
he had breached the garden wall, he will take on the role of the survi-
vor-witness, however incomplete. The space of hospitality is not proof
against sovereign power. The Corcos-Brondi household appears to sur-
vive even Gemma’s death, since her sister Luisa, «nel ’26, era venuta a
convivere con Elia e con [il figlio] Jacopo in qualità di governante di
casa […],» but not «la deportazione di entrambi [Elia e Jacopo] in Ger-
mania, nell’autunno del ’43» 55 – and Geo along with them.
As a complete witness, Geo speaks from the perspective of bare life
dentro le mura, but he also incorporates – this is the completeness – the
extramural sovereign gaze. Thus, his first view of Ferrara in the sto-
ry comes from a distance as he descended from the Brenner Pass in a
military transport. He discovers a wall denuded of its trees, a bare city,
as it were, as difficult for him to recognize as he himself will prove to
52 Ivi, 71.
53 In the original text the Brondis avoided more particularly «le viuzze medioevali
del centro», which is to say the ghetto itself (Bassani 1956, 83).
54 Bassani 1998, 71-72.
55 Ivi, 81.
88
Bare Life on Via Mazzini
be on the Via Mazzini upon his initial reappearance. In the early text,
Bassani writes: «Ma era Ferrara – egli si era chiesto, e aveva chiesto,
anche, al conducente seduto al suo fianco. […] Dove erano i verdi, lu-
minosi, antichi alberi che una volta si innalzavano lungo il crinale delle
Mura smozzicate?» 56. The unwonted exposure effaces the distinction
between city and countryside. The confusion is further reflected in the
scene in the Via Mazzini, first, in the laborer who mounts the lapide,
«contadino costretto a inurbarsi per colpa della Guerra», then in the
man from a neighboring town, «che a Ferrara si trovava per caso», who
stops to count the names 57. And above all, in Geo: more than his out-
landish clothing, his bloated form of an annegato may be seen as an
inside-out figure in the precise sense described by Tisseron: «je propose
de comprendre le raptus de honte comme un mouvement de saillie à
la périphérie du système psychique de contenus mentaux qui se trou-
vent ainsi exhibés, du sujet, contre sa volonté. Le corps peut intervenir
comme témoin de cette saillie» 58.
7.
In examining the same report on shame by Primo Levi that is the point
of departure for Agamben’s analysis, Tisseron draws attention to the
phenomenon that he explicates more generally under the heading of
«La ‘contagiosité’ de la honte», namely, «le spectacle de la honte rend
honteux celui qui y assiste, même s’il tente de s’en protéger immédiate-
ment par des mécanismes comme la dénégation ou la projection» 59. The
Russian soldiers who liberated Auschwitz felt shame, Levi recalls in La
tregua and again at the outset of his La vergogna. Tisseron follows him
closely in asserting that the prisoners learn to see themselves anew in
the shame on the faces of the soldiers, recognizing their own shameful
state of disorder (desubjectification), and at the same time identifying
themselves (subjectification) with a society that condemns, rather than
inflicts, that shame 60.
Geo’s reappearance introduces much the same contagion. Already
in the first moments on the Via Mazzini, and in the days and weeks to
56 Bassani 1956, 110. The passage was omitted from the later version in Bassani
1998.
57 Bassani 1998, 85-86.
58 Tisseron 1992, 53.
59 Ivi, 38.
60 Ivi, 61-62.
89
Andrew Bush
come, the people of Ferrara are exposed to his bare life, and they are
also exposed by his bare life. For not all societies condemn the states
of exception that bring them shame. The salvati from the camps were
«Geheimnisträger, portatori di segreti», as Levi says; but then he adds,
«È meno noto e meno studiato il fatto che molti portatori di segreti si
trovano anche dall’altra parte, dalla parte degli oppressori» 61.
The people of Ferrara may have trouble recognizing Geo – a case
of negation, following Tisseron’s psychoanalytic approach to shame –
but he has no trouble recognizing them. Only after Geo read his name
aloud from the lapide does one man advance through the small crowd
on the Via Mazzini, having now «riconosciuto perfettamente in lui Geo
Josz» 62. Geo replies, «‘Con quella barbetta ridicola, caro zio Daniele,
quasi non ti riconoscevo’ » 63. Since there is no hesitation on Geo’s part,
«quasi» serves only to emphasize the intention, as well as the futility of
his uncle’s masquerade. Beards, it turns out, are everywhere on the male
faces of Ferrara. The narrator explicates the context when he remarks
on «le barbe di varia foggia e misura che la guerra, non diversamente
dalle famose carte false, aveva reso d’uso comune» 64. Bearded men are
men in hiding in plain sight on the streets of Ferrara.
In a passage eliminated from the final version of the text, the narra-
tor interprets Geo’s disapproval of their postwar appearance, inferring
the «insofferenza acuta, profonda, che lui, Geo, aveva subito provato
per ogni segno chi gli parlasse, a Ferrara, del passaggio del tempo, e dei
mutamenti anche minimi da esso portati nelle cose» 65. But Bassani had
reason for second thoughts. Rather than a superfluous mark of change
from pre-war days – after all, one need only look at the fabric of the
city to see ample signs of destruction – the beards arrested time. They
extended the conditions of war beyond the time of war. They were out
of place. Or so Geo himself commented on the lapide.
The lapide itself clearly registers the passing of time in its allusion
to the events of the war, and furthermore, its placement on the façade
altered the appearance of «‘nostro caro, vecchio Tempio’», in Geo’s
words, from what it had been, to use his laconic expression, «‘prima’» 66.
But more particularly the nature of the alteration was, in his view, de-
90
Bare Life on Via Mazzini
risive, «‘un po’ come se lei,’» he told the workman, «‘con quella faccia,
con quelle mani, la obbligassero, che so, a mettersi lo smoking’» 67 : a
cosmetic change that, in its attempt to cover-up, made the disguised
reality all the more flagrant.
The undisguised face, with all its natural defects, is only life; but the
face that is discovered in its hiding place is the subject of biopolitics.
Pirandello remarked in response to the critics of the inverosimilitude
and inhumanity of such works as Il fu Mattia Pascal, where the author
thought to have placed characters «in una penosa situazione, social-
mente anormale, assurda per quanto si voglia» 68, that he exposed the
reality of «difetti di quella fittizia costruzione che i personaggi stessi han
messo su di sé e della loro vita, o che altri ha messo su per loro: i difetti
insomma della maschera finché non si scopre nuda» 69. What is reserved
for the domestic space of intimacy is life; what shows itself publicly is
politics; but what shows through is bare life.
When Geo finished commenting on the incongruousness of formal
attire to the face and hands of the laborer, he «mostrava le proprie, di
mani, callose oltre qualsiasi immaginazione, ma coi dorsi così bianchi
che un numero di matricola, tatuato nella pelle molliccia, come bollita,
poco più su del polso destro, poteva esser letto distintamente nelle sue
cinque cifre precedute dalla lettera J» 70. He exposes himself and his
shame, but his exposure is contagious, and the beards he sees and sees
through become a mark of the bare life around him.
Bassani provides a corroborating counter-example that perplexes
Uncle Daniele. Geo has another uncle, Geremia Tabet, an old fascist.
He wears a goatee in the fascist style of the pre-war era. It is the only
beard that is not a cover-up, and so it is «l’unica barba in città che Geo
tollerava» 71. Daniele himself finds the unrepentant fascist inexcusable,
but Geo comes to terms:
Il patto […] era il seguente: Geo non avrebbe accennato neppure per al-
lusioni ai trascorsi politici dello zio, e lo zio, dal canto suo, si sarebbe aste-
nuto dal pretendere che il nipote si mettesse a raccontare ciò che aveva
visto e patito in quella Germania dove anche lui, Geremia Tabet, salvo
prova contraria – e questo dovevano pur ricordarlo tutti coloro che adesso
pensassero di rinfacciargli qualche erroruccio di gioventù, qualche più che
67 Ibidem.
68 Pirandello 1921a, VII.
69 Ivi, IX.
70 Bassani 1998, 88.
71 Ivi, 102.
91
Andrew Bush
Namely, Geo’s mother, father and brother. The pact offers refuge to
Geo, who need not be a witness before Geremia; and to Geremia it
holds out the invitation to be re-membered as one of the family, a recog-
nition that the state of exception, as Agamben argues, had superseded
distinctions such as leftist and rightist politics. In the generalization
of that state after the war, all may have been reduced to bare life, all
survivor-witnesses, however incomplete, all bereaved. The pact is rati-
fied, then, as an explicit offer of hospitality: «in che cosa consistevano i
progetti di Geo?» he wished to know and wanted to help; and if «Geo
avesse voluto venire a stare per un po’ di tempo lì da loro, una bran-
da, che diamine, si sarebbe sempre riusciti a sistemargliela da qualche
parte» 73. It is an offer to reestablish the oikos, the household economy,
wresting it from politics, and to provide shelter in what would be, like
the Corcos-Biondi home, a mixed dwelling, in this case a home in which
proponent and victim of fascism commingled.
Geo did not accept. As if he were summoned sub poena, he was
not free not to be a complete witness. The trial was not, after all, simply
his own. And those around him deflected the shame that he exposed
by transforming his damning witness into an enigmatic demand. Uncle
Geremia asks about his plans, but most were more blunt: «che voleva
Geo Josz?» What did he want of them? What did he want back? What
reparations?
The most evident answer is inscribed in the cityscape as a restitution
of property. Geo proceeds from the Via Mazzini to the grand house on
Via Campofranco from which he and his immediate family had been
deported. The building had become a fascist headquarters in the final
years of the war and was now the headquarters of the Partisans Associa-
tion. Assisted by Uncle Daniele, himself a former partisan, Geo is grant-
ed an interview with the Provincial Secretary. After two successive take-
overs by law-making violence, does Geo’s claim to property still stand?
The Partisans’ Association is in the place of the defendant, but its own
Provincial Secretary will adjudicate. Under these conditions, Geo is not
subject to the law, but to the logic of sovereignty. The decision is banish-
72 Ivi, 104.
73 Ivi, 104-105.
92
Bare Life on Via Mazzini
93
Andrew Bush
their acts by the rule of law. Geo reinserts that perspective. He who had
been banished from the realm of law at his deportation, embodies the
gaze of the law upon his reappearance. Bassani makes the point more
modestly and again in terms of real estate. When Geo comes and goes
through the courtyard in the house on Via Campofranco, he makes the
erstwhile partisans and current jailers feel like delinquent tenants in the
face of the lawful landlord. But since they are still living according to
the logic of sovereignty, what they expect from him is not a renewal of
contractual right – a pact, as in the case of Uncle Geremia – but the
sovereign decision of banishment, here figured as eviction.
It is the virtue of Agamben’s analysis of the state of exception to find
its structure in the mirror relationship between the sovereign and the
homo sacer, the sovereign decision and bare life. In the logic of the com-
plete witness, their two perspectives merge: exposed and exposing, ex-
posing and exposed. In the topology of Bassani’s cityscape – represent-
ing both the psyche and the state, as it did for Plato – «quella sorta di
osservatorio» 77, from which, as unwanted guest, Geo opened the secret
of clandestine justice (a contradiction in terms that speaks rather for
the state of exception outside the realm of justice), is necessarily the site
of his own secret, which is exposed in turn. A trapdoor separated his
room from Daniele’s and served Geo as sort of horizontal wall that ad-
mitted no communication beyond «qualche ‘Uhm!’, qualche ‘Ma dav-
vero?’» with which he cut off his loquacious uncle’s conversation 78. But
this wall, too, was ultimately breached one day when, in Geo’s absence,
Daniele climbed up into his room and discovered: «l’agghiacciante serie
di fotografie di tutti i suoi morti – Angelo e Luce, i genitori, e Pietruc-
cio, il fratellino appena decenne» 79. It was the scene of his barest life,
and perhaps his deepest shame – a shame that Agamben is at pains to
bracket, though Levi admits that it is so. It did not matter that the sal-
vati knew that no guilt attached to them for the death of others, they
felt shame nonetheless. (Agamben’s point in this context is to remove
the question of guilt and innocence from the discussion of shame.) They
had taken someone else’s place among the living; someone else had tak-
en their place among the dead. All of the survivors were, in a different
sense, RPs: replaced persons. Geo, too, must have felt that shame.
1956, 125).
94
Bare Life on Via Mazzini
Were Italy a cemetery, were there in Italy a cemetery for the de-
ported who never reappeared, then Ferrara would have offered a place
of public mourning where Geo might have been re-membered amongst
bereaved fellow citizens. But instead, Geo finds himself obliged to con-
struct a site of interminable and clandestine commemoration, a kind of
asylum for melancholia. What did Geo want? In all the speculation that
surrounded his reappearance, even after he had begun to frequent the
streets again, begun again to sit in the public eye in the cafes and re-
ceive greetings, his original answer was overlooked. «Eh già – sospirò»,
speaking in the stumbling, bare language of his initial reappearance, «la
lapide avrebbe dovuto essere rifatta» 80. It might well have seemed that
he was asking for a straightforward emendation. In the zeal of the Jew-
ish community of Ferrara to render a complete witness beyond their
competence, they had marred the text of their memorial. Let them take
out the chisel and begin again. But the inquisitive Uncle Daniele ex-
poses a different reading. In his room on high, Geo had remade the
necessarily incomplete testimony of the lapide – over-filled with names,
over-exposed in the public way on the exterior of the Temple – as the
complete witness that he hid from view, the unspoken testimony of his
grief and his shame.
8.
Time passed. Geo’s capacity for self-containment was reestablished,
«Piano, piano lui dimagriva» 81. He dons a new gabardine, but keeps
his stories of Buchenwald to himself. And with him, the city seemed to
recover: «Ogni cosa girava, insomma. Geo, da un lato; Ferrara e la sua
società (non esclusi gli ebrei scampati ai massacri), dall’altro lato» 82.
Bassani might have stopped there, representing the reconstitution of the
fundamental political distinction between private life and public life,
zoe and bios, that frames the law, as though the camps led to the fulfill-
ment of the emancipatory promise held out to Jewish generations before
the war, mutatis mutandi: to be a complete witness at home and a man
on the street. But Geo has reappeared to introduce bare life to Ferrara
as the new and unending state of exception. He will not rest in peace,
but rather Bassani has him painfully reverse the steps that brought him
to his haunted house. He will put off his gaberdine and dress himself
95
Andrew Bush
anew in his initial motley. He will overturn his reticence and insist on
telling one and all the gruesome experience of the camps; and he will
disappear, suddenly, as he had once reappeared. He will re-disappear.
He will dis-reappear.
The hinge upon which the narrative turns is another incident on the
Via Mazzini. There were many witnesses, each incomplete. Accounts
differ. They share in common a sense of the setting: dusk in the month
of May; «schiere allacciate di belle ragazze» on their bicycles, «reduci
da gite nella campagna suburbana, verso il centro della città»; and in
the more fulsome language of the early text, the reappearance – «tor-
nava a comparire» – of «la figuretta ermetica del famigerato conte
Scocca» 83.
The Count’s notoriety was not simply due to being an old fascist,
like so many others, including Uncle Geremia, but to being a paid in-
former of the Secret Police and the director of the Italo-German Cul-
tural Institute in the years leading up to the deportation of the Jews of
Ferrara. He reappeared in that May twilight, «uscito da chissà quale
suo nascondiglio ad appoggiare la schiena contro la mezza colonna
marmorea che aveva tenuto in piedi per secoli uno dei tre cancelli del
ghetto» 84. For the narrator, it was a touching and an edifying scene:
«Ebbene – pensarono tutti –, per qual motivo uno avrebbe dovuto rifiu-
tare di commuoversi all’esibizione concreta di una simile allegoria, sa-
viamente conciliante all’improvviso ogni cosa: l’angoscioso, atroce ieri,
con l’oggi tanto più sereno e ricco di promesse?» 85. Enter Geo Josz.
There was also agreement about the climactic moment of the dra-
ma played out on «[i]l piccolo paloscenico di via Mazzini» 86. There
stood the «squattrinato patrizio ricomparso», occupying «uno dei molti
posti d’osservazione a lui una volta abituali» 87. Geo approached along
the Via Mazzini, «entrava senza sorpresa, col suo passo fiacco, dentro
il campo visivo del conte Scocca», and then, «raggiungeva le guance
incartapecorite della vecchia carogna rediviva con due ceffoni secchi,
durissimi […]» 88.
83 Bassani 1956, 131-32. Compare Bassani 1998, 107, where, for instance, the
Count did not «tornava a comparire» (emphasis added), but rather «tornava a stare […]».
84 Bassani 1998, 107.
85 Ibidem.
86 Ibidem.
87 Ibidem.
88 Ivi, 109.
96
Bare Life on Via Mazzini
It was said that there was some conversation, as the Count inquired
about the deaths of Geo’s father, mother and younger brother, and,
by way of a circumlocution, congratulating Geo «di essersela cavata»,
as though he had dug himself out of the grave 93. The expression was
not used in the early text, but the sense of an overly refined courtesy,
amounting to a deliberate obfuscation, was even more apparent in the
Count’s characterization of the extermination of Geo’s family as «or-
ribili eccessi» 94. On his side, in this version of the events, Geo engaged
in the conversation, «un tantino riluttante e imbarazzato, è vero, ma ad
ogni modo rispondendo» 95. Perhaps one should say, with just a bit of
shame reappearing. And then the two slaps.
89 Ibidem.
90 Ivi, 109-110.
91 Ivi, 110.
92 Ivi, 111. In the earlier text, Bassani emphasizes the Count’s capacity to recognize
faces by adding, «e si trattasse pure di un volto come quello di Geo, che a Buchenwald,
non già a Ferrara, era diventato un volto d’uomo!» (1956, 137).
93 Bassani 1998, 111.
94 Bassani 1956, 137.
95 Bassani 1998, 111.
97
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96 Ivi,
109.
97 Levi 1987, 735.
98 Bassani 1956, 112.
99 Conscientious historians have objected. See, for instance, Bauer 2001.
100 See Jameson 1981.
98
Bare Life on Via Mazzini
99
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While most who saw the unfolding of events that way found the
scene all the more inexplicable, the narrator claims not to be perplexed.
«Eppure, quando in difetto di indicazioni più sicure», he writes, «ci
si fosse richiamati a quel senso d’assurdo e insieme di verità rivelata
che nell’imminenza della sera può suscitare qualsiasi incontro, proprio
l’episodio del conte Scocca non avrebbe offerto niente di engimatico,
niente che non potesse essere inteso da un cuore appena solidale» 105.
The special hour, set aside from the distractions of broad daylight,
accounts for the revelation of truth – the reinscription of the effaced
aleph – however absurd: «cose e persone […] può succedere che a un
tratto vi si mostrino per quelle che sono veramente, può succedere che
a un tratto vi parlino […] per la prima volta di se stesse e di voi» 106.
But it is the sympathy of the heart that explains a procedure even more
rare in the text. Overcoming his customary restraint, the narrator here
proposes – perhaps projects – a reconstruction of Geo’s thoughts as di-
rect discourse: «Che cosa faccio qui con costui? Chi è costui? E io che
rispondo alle sue domande, e intanto mi presto al suo gioco, io, chi
sono?» 107. And, to recall once more the Talmudic dictum that served as
the title of Levi’s narrative of partisan life and subsequent reappearance,
if not now, when 108?
The insistent first-person nominative pronoun in the narrator’s re-
construction of Geo’s voice recalls both the shiftiness of the «I» and
the complexities of Levi’s paradox as formulated by Agamben 109. Geo
attains to the subject position of the «I» in that reported speech, but
only to witness his own inescapable desubjectification. Geo cannot ac-
cept that he, a sommerso salvato, walks the same street, shares the same
public space, with the Count, that they can both reappear on the Via
Mazzini as symmetrical figures. And yet there he stands, as though fixed
to the spot, unable to flee the untenable position. «Ciò che appare nella
vergogna», Agamben recites from Lévinas, «è dunque precisamente
il fatto di essere inchiodati a se stessi, l’impossibilità radicale di fug-
girci per nasconderci a noi stessi, la presenza irremissibile dell’io a se
stesso» 110. The Muselmann who speaks as I only to bear witness to the
100
Bare Life on Via Mazzini
Bibliography
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Press.
De la Durantaye, Leland (2009). Giorgio Agamben: a Critical Introduction,
Stanford, Stanford University Press.
101
Andrew Bush
102
7.
BASSANI, LA STORIA, IL TESTO
E L’«EFFET DE RÉEL»
Anna Dolfi
La critica, in questi ultimi tempi, è andata alla ricerca dei segni dell’im-
pegno politico non solo negli scritti saggistici ma nella narrativa di Gior-
gio Bassani 2. Ma, salvo errori, almeno due pezzi di una certa importanza
sono sfuggiti alla pure attenta recensio 3. Ed è proprio da quelli che vor-
rei iniziare. Furono pubblicati su Riscossa, un periodico sardo al qua-
le Bassani arrivò sicuramente tramite la mediazione dell’amico sardo-
ferrarese Giuseppe Dessì, all’epoca Provveditore agli Studi di Sassari 4.
Usciti rispettivamente il 23 ottobre 1944 e il 26 marzo 1945 5 rivelano
molto dell’equilibrio e della capacità di distanziamento storico (essenzia-
le per una corretta analisi dei fatti) di cui il giovane scrittore appariva ca-
1 I tre esergo sono tratti rispettivamente dal saggio di Walter Benjamin Sul concetto di
storia (citato da Szondi 2007, 151); da Boltanski-Grenier 2007, 47-48; da De Staël 2010, 18.
2 Si vedano in particolare gli studi di Pieri 2008; Pieri 2010 (che rilegge i racconti
comuni a Una città di pianura e alla Cinque storie ferraresi per rivendicare – non senza
qualche eccesso – l’intenzionalità politica del volume pubblicato sotto lo pseudonimo di
Giacomo Marchi); e, relativamente alle Cinque storie ferraresi, Pieri-Mascaretti 2008. Si
veda anche Roveri 2002.
3 Alludo ovviamente alla recensio critica, non a quella bibliografica, per la quale si
sardo nella formazione alla scrittura del più giovane autore, cfr. Dolfi 2003b, ma soprat-
tutto Dolfi 2011a.
5 Reperibili ormai anche sull’antologia di Riscossa (in Brigaglia 1974).
103
Anna Dolfi
pace nel riflettere e ragionare sulla storia non solo italiana ma europea di
quegli anni. Nel primo, Le leggi razziali e la questione ebraica, nato da un
spunto preciso, ovvero dalla revoca delle leggi razziali in un paese ai mar-
gini dello scacchiere europeo come la Bulgaria, Bassani conduce una ri-
flessione sul «problema ebraico» come problema di «minoranze». Quel-
la che sarebbe stata considerata, ed è considerata ancora oggi da tanti,
come una delle più grandi tragedie della storia gli si mostrava in primis
nella sua natura non ontologicamente totalizzante bensì squisitamente
politica. Gli ebrei (al pari di altri gruppi minoritari: ed è significativo
che questo accostamento, e nel pieno delle persecuzioni razziali, venisse
fatto da un intellettuale che, da ebreo e antifascista, aveva già conosciuto
l’esclusione e il carcere) e il loro destino gli si mostravano come una sor-
ta di cartina al tornasole, di rivelatore della democraticità di un popolo.
«Termometro sensibile e passivo della situazione interna di ogni
paese» 6 – docet il significativo passaggio in Francia da un tradizionale
antisemitismo alla tolleranza post-rivoluzionaria, rovesciata non casual-
mente a inizio secolo dell’affare Dreyfus –, l’antisemitismo e la tragi-
ca sorte riservata alla comunità ebraica (elevati a simbolo), potevano
apparirgli «natural[i], se pur crudel[i]». Giacché, indipendentemente
dalle tendenze di fondo (Bassani ricordava a proposito un generico fi-
losemitismo dei paesi anglofoni pronto a rovesciarsi nel suo contrario
ove inscritto in una diversa situazione ideologico-politica), la libertà o il
«servaggio» degli ebrei erano da collegare dovunque (anche nelle aree
geografiche fino a quel momento considerate sicure) alla possibile pre-
valenza delle forze «che potremmo chiamare di destra – che hanno pro-
dotto il nazionalsocialismo in Germania ed il fascismo in Italia» 7. Visto
che le dittature hanno bisogno (come gli imperatori dell’antichità), di
offrire vittime sacrificali alle folle.
Con straordinaria precocità, quasi con geniale intuizione di quelle
che sarebbero state le moderne teorie di antropologia culturale appli-
cate alle religioni e alla loro storia (basti il nome di René Girard), con
acuta sensibilità e consapevolezza del carattere inaffidabile e potenzial-
mente distruttivo della ‘massa’, Bassani usava a proposito (e conseguen-
temente) le espressioni/definizioni di folla e di capro espiatorio («Quan-
to ai capri espiatori di questa dura vicenda di condanne e di riscatti»)
per storicizzare e spiegare, e non solo simbolicamente, lo sterminio (per
denunciarne la genesi e evitarne la ripetizione), non mancando di sot-
104
Bassani, la storia, il testo e l’«effet de réel»
8 Ivi, 464-465.
9 Ivi, 465.
10 Ibidem.
11 Bassani 1945, 495-496.
105
Anna Dolfi
12 Ivi, 496.
13 Ivi, 497.
14 Ivi, 498.
15 Felicissima espressione utilizzata da Baldacci 1970, 13.
16 Bassani 1945, 499.
17 Cfr. Dolfi 2011b.
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Bassani, la storia, il testo e l’«effet de réel»
107
Anna Dolfi
pensavo a Ferrara, e non mi riusciva di dormire. Una città agreste, con decorazioni di
messi dorate lungo le strade trascorse da lenti carri di buoi, con viole, covili d’erba […].
E tutto deserto, per me, per i miei ritorni dai campi di ogni sera» (Bassani 1998, 974).
25 Sull’importanza della casa come luogo di memoria cfr. Tarpino 2008.
26 Come è noto è su queste parole che si chiude il Prologo al Giardino dei Finzi-
Contini, a giustificare e spiegare il ruolo ormai necessario della scrittura, visto che a nes-
sun altro ‘monumento’ (casa o tomba) può ormai appoggiarsi il ricordo.
108
Bassani, la storia, il testo e l’«effet de réel»
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Anna Dolfi
110
Bassani, la storia, il testo e l’«effet de réel»
scarico del materiale umano») 37. Montale, più o meno nello stesso pe-
riodo, nella Primavera hitleriana avrebbe ricordato il muso infiorato di
bacche dei «capretti uccisi». Eppure, in quel pezzo del giovane Bassani,
all’intuizione della verità («Vero è che ieri» 38) si mescola, nonostante
gli anni di guerra, la speranza di un dubbio («Magari»), la riconduzione
possibile – ancora di marca montaliana – di ciò che dovrà avvenire a gio-
co inquietante e premonitore («Pareva un gioco tra scolari» 39; Montale,
avrebbe parlato di «cannoni» e «giocattoli di guerra», di «miti carnefici
che ancora ignorano il sangue»).
Ma torniamo al Prologo del Giardino dei Finzi-Contini, alla precisio-
ne delle prime righe che elencano nomi, pur situandoli in una posizione
a chiasmo (Micòl e Alberto, il professor Ermanno, la signora Olga), ai
dettagli di una collocazione che ha mosso schiere di turisti a ricercare
come vero un inesistente giardino, all’indicazione non solo di una do-
menica, ma di un giorno preciso e di un anno («una domenica d’aprile
del 1957»). Quasi contati i chilometri che conducono all’improvvisa de-
viazione, e descritto puntualmente il paesaggio, sia pure inserito in quel
ritmo che strutturerà gli epitaffi dell’ultima poesia. Squarci di bellezza
naturale (come buchi nel cielo di carta atti a deviare lo sguardo dei per-
sonaggi pirandelliani, e a rendere più crudele l’inscrizione en boîte della
recita della vita) che servono a portare dalla linea dell’orizzonte («deser-
to azzurro abbagliante del Tirreno», «fragore della risacca») all’interno
di un percorso di discesa.
Un silenzio da pietas cimiteriale, di nuovo nella frantumazione pos-
sibile del discorso («Ci trovammo così a percorrere la liscia stradetta
asfaltata / che porta in un momento a un piccolo borgo di case / in gran
parte recenti, e di lì, inoltrandosi / a serpentina verso i colli del retroter-
ra, / alla famosa necropoli etrusca») 40, conduce a una regione («tutto
quel tratto del territorio del Lazio a nord di Roma») che «non è altro,
dunque, che un immenso, quasi ininterrotto cimitero». Un cimitero
dove i montarozzi corrispondono specularmente alle cripte sotterranee
(come i bunker tedeschi agli interrati luoghi di sepoltura), e dove l’erba,
nutrita di morte (si ricordi quella che cresce «con furia selvaggia» nel
37 Ivi, 971.
38 Ivi, 972.
39 Ibidem.
40 Non è casuale che si possa leggere tutta la prosa bassaniana (in particolare quella
del Giardino) entro le cadenze melodiche dell’ultima poesia (uso quindi una barra di
separazione per indicare le possibili cadenze ritmiche). Ma per una analisi in questa dire-
zione si veda una bella tesi di dottorato da me diretta: Benedetti 2006.
111
Anna Dolfi
Nell’equivalenza della tomba con la casa, nel buio della sera («quando
ripartimmo era buio»), il vagheggiamento dell’immobilità, la fascinazio-
ne per la bellezza di una ‘natura morta’, di una natura naturata ormai
incorruttibile, che sarà tipico della parte conclusiva dell’Airone, è già in
parte compiuto («almeno lì nulla sarebbe mai potuto cambiare») 45. Il
cammino a ritroso della memoria, passando da una tradizione anche let-
teraria di ‘sensibilità’ che Bassani avrebbe ricordato nel pezzo eponimo
di Di là dal cuore (si pensi, nel Prologo al Giardino, al «mi si stringeva
[…] il cuore», di marca leopardiana), dopo aver ricondotto a un fosco-
112
Bassani, la storia, il testo e l’«effet de réel»
46 Ma per un’analisi in questa chiave della narrativa e della poesia di Bassani sia
113
Anna Dolfi
49 Abbastanza significativo che in In risposta (IV), del 1971 (Bassani 1998), che
cosa significa dire ‘scrittore’? Io, per me, ho sempre odiato le generalizzazioni categoriali
di qualsiasi tipo, e d’altra parte la sfera personale e privata degli uomini di penna non ha
mai suscitato in me che un interesse molto debole».
51 Cfr. Ivi, In risposta (VII) 2, 1341.
52 Ivi, In risposta (VII) 1, 1341.
53 Il primo a studiare la riscrittura delle Cinque storie ferraresi è stato Baldelli 1965,
1974.
54 Bassani 1998, In risposta (II), 1207 (nostra, a scopo di sottolineatura, l’evidenzia-
zione).
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Bassani, la storia, il testo e l’«effet de réel»
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Anna Dolfi
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Bassani, la storia, il testo e l’«effet de réel»
solo saggistica ma narrativa. Tra questi, oltre alle pagine, talvolta preziose, degli studiosi
di Bassani, si veda adesso anche Roncaccia 2010.
67 Bassani 1998, In risposta (VI) 1, 1322.
117
Anna Dolfi
68 Ma per l’importanza di questa dedica nella storia di un’amicizia cfr. Dolfi 2011a.
69 Un analogo spostamento cronologico, ma per segnare piuttosto, in segno di ri-
spetto, la distanza tra la realtà e un’opera di finzione, sarebbe stato adottato da Floresta-
no Vancini nel film tratto da Una notte del ’43, su cui si veda Bassani 1998, In risposta
(VII) 4, 1343.
70 Cfr. l’incipit della terza sezione del racconto: «Chi non ricorda, a Ferrara, la not-
te del 15 dicembre 1943? Chi potrà mai dimenticare le lentissime ore di quella notte?»
(Bassani 1998, 186).
71 Ma a questo proposito, per una lettura che sottolinea i significati culturali e esi-
118
Bassani, la storia, il testo e l’«effet de réel»
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Anna Dolfi
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Bassani, la storia, il testo e l’«effet de réel»
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Anna Dolfi
è a suo modo, sia pur diversamente, ‘pietosa’ 84, se sparge su tutto una
specie di ghiaccia e dolorosa «polvere brillante»:
Ricordava ogni particolare della scena come se l’avesse ancora adesso da-
vanti agli occhi. Rivedeva corso Roma tutto vuoto sotto la luna piena, la
neve, indurita dal gelo, sparsa come una specie di polvere brillante su ogni
cosa, talmente limpida e chiara l’atmosfera da poter leggere le ore all’oro-
logio del Castello […]. 85
84 Diversamente da quella ungarettiana, che nel Capitano si vela per non mostrare
la morte, la paradossale pietas della luna bassaniana risiede nell’esatto contrario, cioè
nell’aver mostrato e nel continuare a mostrare la ferocia dell’assassinio assieme al volto
dei delatori e carnefici.
85 Bassani 1998 (Una notte del ’43, 210).
86 Per parafrasare Bassani 1998, In risposta (VII) 17, 1347.
87 Ivi, In risposta (VI) 12, 1326-1327. Nostra, a scopo di sottolineatura, l’evidenzia-
zione.
122
Bassani, la storia, il testo e l’«effet de réel»
Bibliografia
123
Anna Dolfi
124
8.
ALLE ORIGINI DI UN ROMANZO
Gli incunaboli delle prime storie ferraresi
Antonello Perli
Anna Folli 1979, vol. II, 26-29 e 36-65. Si tratta dei testi seguenti: III Classe (1° maggio
1935), Nuvole e mare (21 gennaio 1936), I mendicanti (22 marzo 1936), Estate (13 mag-
gio 1936), I pazzi (16 giugno 1936), Il corvo (11 agosto 1936), Tugnin dalla Ca’ di Dio
(27 gennaio 1937), Varietà (18 maggio 1937), Caduta dell’amicizia (3 luglio 1937), Morte
del giardiniere (21 novembre 1937). Sul numero di Letteratura dell’aprile 1938 Bassani
pubblicò il racconto Un concerto.
2 Sulla rivista Termini cfr. Hansen 1985 e 2004.
125
Antonello Perli
4 Cfr. la testimonianza di Bassani in Moretti 1980, 214: «La mia massima aspirazio-
ne era di riuscire a stampare qualcosa sulla rivista ‘Letteratura’, che raccoglieva quanto di
meglio si faceva allora in Italia, e ci riuscii lentissimamente, verso il ’37, stampando lì un
racconto mai più pubblicato (apparve più tardi in un libro che feci stampare nel 1940 a
mie spese presso un tipografo di Milano, non pubblicato per via delle leggi razziali)».
5 Per il peritesto, ci riferiamo alle date delle seguenti liriche di Storie dei poveri
amanti (e altri versi) [Roma, Astrolabio 1945, indi 1946]: Luna (1939), Periferia (1942) e
Ancora dei poveri amanti (1939), riunite in una sezione eponima (Storie dei poveri aman-
ti); si osservi che Ancora dei poveri amanti figurava, unica poesia, nel volume di prose e
racconti Una città di pianura. Per l’epitesto, cfr. almeno il Poscritto (1952) a L’alba ai vetri
(Torino, Einaudi 1963), volume che raccoglie, con varianti strutturali e testuali, poesie
da Storie dei poveri amanti (e altri versi), Te lucis ante (Roma, Ubaldini 1947) e Un’altra
libertà (Milano, Mondadori 1951).
6 Cfr. De Camilli, 506.
7 Cfr. Bassani 1998, 1343 e 1347. Si veda altresì Bassani 1998, 1210 [In risposta
(ii)]: «È chiaro che i miei versi si associano molto da vicino alla mia produzione narrativa
[…] Non avrei mai potuto scrivere niente se non avessi, prima, scritto Te lucis ante. In
un certo senso è dunque questo il mio libro più importante». Solo relativamente agli anni
di cui qui si tratta, si pensi ad esempio al rapporto intertestuale tra «lirica» e «narrativa»
nel racconto Storia di Debora (versione primitiva di Lida Mantovani) pubblicato in Una
città di pianura. Cfr. inoltre, a proposito della «indistinzione – prettamente crociana – tra
prosa e lirica», Lorenzo Catania (1986, 48): «Indifferenziazione non astratta, anzi spiega-
bile oltre che con il quasi contemporaneo esercizio poetico dello scrittore, con un vecchio
pregiudizio della cultura letteraria italiana che vedeva nel romanzo un genere retorico
(dunque extraletterario), mentre la vera parola artistica coincide con la parola poetica (si
pensi che in Una città di pianura Bassani non ha saputo resistere alla tentazione di inserire
un brano lirico, Ancora dei poveri amanti, riecheggiante situazioni di Storia di Debora)».
8 Cfr. Laggiù, in fondo al corridoio (in L’odore del fieno), Bassani 1998, 935. Storia
126
Alle origini di un Romanzo. Gli incunaboli delle prime «storie ferraresi»
9 Cfr. Bassani 1998, 1343 [In risposta (vii)]: «Il personaggio di Lida Mantovani è
fondamentale nel complesso del Romanzo di Ferrara, nel suo contesto, perché in qualche
modo offre l’immagine precisa di quella città di cui parlo. Si parte quasi dal niente-niente
per arrivare al resto, a tutto il resto. Tutto nasce da qui, insomma».
10 Cfr. Catania 1986, 60.
11 Cfr. Cro 1977, 44: «Il Giardino dei Finzi-Contini è proprio il cuore del mio poe-
perché sono quelle le prime, rispondevano a questo bisogno […] Ma non va dimenticato
che avevo già incominciato a scrivere soprattutto in prosa, che avevo già prodotto dei
racconti nei quali c’è in nuce, sia pure inconsapevolmente, il futuro Romanzo di Ferrara»
(in Dolfi 1981, 170).
13 Cfr. Laggiù, in fondo al corridoio, Bassani 1998, 935: «Lida Mantovani ebbe una
gestazione estremamente laboriosa. La abbozzai nel ’37, ventunenne, ma negli anni suc-
cessivi la rifeci non meno di quattro volte: nel ’39, nel ’48, nel ’53, e infine nel ’55».
14 Cfr. Cro 1977, 42: «[…] io il Giardino dei Finzi-Contini ho cominciato a scri-
verlo, si figuri, nel ’48-’49. Posso offrirne le prove perché ho stampato una specie di
abbozzo del Giardino dei Finzi-Contini su una rivista romana che si chiama Il Caffè […]
E le dirò di più. La prima idea del Giardino dei Finzi-Contini l’ho avuta addirittura nel
’42-’43 ed ho stampato anche questo documento in una rivista di Parma che si chiama
Palatina». E Bon 1979, 5: «Della lontana genesi testimoniano del resto i due abbozzi – del
’42 e del ’53 – pubblicati nella Antologia del Campiello 1969 (Venezia, s.a.). E già in Mia
cugina, comparso sul ‘Costume politico e letterario’ del 29 settembre 1945, è rinvenibile
il primitivo nucleo del quinto capitolo della parte seconda del romanzo». Si aggiunga che
127
Antonello Perli
anche l’ideazione e l’abbozzo di Una lapide in via Mazzini (la cui composizione, nel testo
Laggiù, in fondo al corridoio, è presentata da Bassani come successiva a quella, ultimata
nel ’51, della Passeggiata prima di cena) risalgono molto indietro nel tempo, come risulta
dalla datazione «1938-1948» apposta alla Lapide nella raccolta intitolata La passeggiata
prima di cena (Firenze, Sansoni 1953), che comprendeva Storia d’amore oltre al racconto
eponimo e alla Lapide (e cfr. quanto affermava Bassani in una parentetica di Laggiù, in
fondo al corridoio [Bassani 1998, 935]: «fra il ’42 e il ’47, gli anni in cui da Ferrara mi ero
trapiantato a Roma, avevo composto quasi esclusivamente poesie». (Il corsivo è mio).
15 Il testo, apparso su Il Caffè politico e letterario 3.2 (1955), 9-10, è riprodotto nella
notizia relativa al Giardino dei Finzi-Contini del Meridiano Mondadori (Bassani 1998,
1768). E si veda anche Rinaldi 2006, 153-169.
16 Un concerto, Bassani 1940, 16; cfr. Il giardino dei Finzi-Contini, IV, 7 (Bassani
18 Ivi, 24.
19 Cfr. Bassani 1998, 1344 [(In risposta (vii)]: «Anche i Finzi-Contini, che cosa so-
no se non dei morti? […] Ma hanno dentro di loro un personaggio, Micòl, che è diverso.
Anche lei appartiene a loro, al loro mondo, ma ne vuole venir fuori. Ama la vita, torna
verso la vita. Ed è per questo che ne scrivo».
128
Alle origini di un Romanzo. Gli incunaboli delle prime «storie ferraresi»
22 Cfr. Laggiù, in fondo al corridoio, Bassani 1998, 936: «Anche La passeggiata prima
di cena mi costò enorme fatica. Cominciai a scriverla verso la fine del ’48, e ci lavorai per
più di due anni».
23 Cfr. Ivi, 939: «Anche nella Lapide in via Mazzini campeggiava un protagonista
assoluto, un altro monstre sacré. Al posto di Elia Corcos […], Geo Josz […]».
24 Cfr. Bassani 1998, 1324 [In risposta (VI)]. Ma si osservi che anche il personaggio
129
Antonello Perli
rievoca gli anni della prima infanzia, durante la prima guerra mondiale
(ha due anni al momento di Caporetto, e i brani relativi alla guerra e
al padre combattente sul fronte annunciano passi analoghi addirittura
del racconto, di più di trent’anni successivo, Altre notizie su Bruno Lat-
tes), anni trascorsi nella casa dei nonni materni, frequentata da «clienti
del nonno, buoni borghesi [che] s’inchinavano alla solitaria scienza del
nonno come a un tribunale» e dalle «folle dei parenti che venivano a
visitare i miei vecchi settimanalmente» (tra essi una «zia Malvina», e
Malvina sarà il nome d’una zia cattolica del narratore di Dietro la porta):
La casa dei nonni era alla periferia della città, in una via fuori mano selciata
a ciottoli radi, sotto i bastioni. […] Durante i primi quattro anni della mia
vita, gli anni della guerra, io vissi confinato nell’orto vasto e soleggiato di
quella casa. 25
La casa di Elia Corcos (una casa che, nella redazione del 1956, «ripeteva
nell’interno l’inconciliabilità dei suoi due volti opposti e contrari […]
le persone, che in essa vivevano e per essa passavano, erano incomuni-
cabili l’una all’altra, l’una all’altra estranee») 26 è, nella Passeggiata, «la
dimora di via della Ghiara», ai limiti del perimetro urbano di Ferrara,
una specie di colonica, con davanti la sua brava aia separata dall’orto adia-
cente per mezzo di una siepe, e con l’orto poi che, pieno di alberi da frutta
e scompartito da un esiguo vialetto centrale, scendeva giù giù, fin sotto il
robusto muro di cinta. 27
26 La passeggiata prima di cena (in Cinque storie ferraresi [1956]), Bassani 1998,
1641. E cfr. Laggiù, in fondo al corridoio (Bassani 1998, 939): «La Passeggiata raccontava
Elia Corcos, Gemma Brondi, i loro rispettivi e contrapposti clans famigliari».
27 La passeggiata prima di cena [in Il romanzo di Ferrara], Bassani 1998, 70-71.
130
Alle origini di un Romanzo. Gli incunaboli delle prime «storie ferraresi»
28 Ivi, 77. «[…] che occupavano il cielo dalla parte di Bologna» è variante del 1973,
mia nonna materna, Emma Marchi, era in fondo una contadina, e parlava quasi sempre
in dialetto» (Bassani 1998, 1328).
131
Antonello Perli
32 Come si legge nella redazione del 1956 (Bassani 1998, 1636: «tuttavia non era
senza una punta di orgoglio, d’orgoglio di setta e di casta, che essi […] si tenessero co-
stantemente all’ingresso principale»), oltranza poi notevolmente ridotta con la riscrittura
del ’73: «ciò nondimeno, sopraggiungendo, era sempre con un senso di intimo compia-
cimento che si facevano all’ingresso principale» (Bassani 1974, 83). La riscrittura del ’73
attenua la supponenza borghese del parentado Corcos, che il testo del 1956 rappresenta-
va con compiaciuta e sottilmente polemica ironia (si veda il movimento variantistico nel
seguito immediato dei brani sopra riportati). Per un’ermeneutica ideologico-culturale de
La passeggiata prima di cena, al vaglio della diacronia variantistica delle successive reda-
zioni del testo, si veda l’ampio studio di Piero Pieri (2006).
33 Bassani 1998, 66. E cfr. ivi, 75 e 77: «Imbattendosi per puro caso in Ausilia sul
portone di via della Ghiara, fra i parenti di Elia ce ne era sempre qualcuno pronto a ripete-
re questa frase. Intimidita, Ausilia raccoglieva lo scialle sotto la gola. […] Si poneva di lato,
la vecchia ragazza, abbassando gli occhi. Come avrebbe preferito in quel momento tor-
132
Alle origini di un Romanzo. Gli incunaboli delle prime «storie ferraresi»
Nel giudizio unanime del «coro» borghese cittadino, «il suo matrimo-
nio, a trent’anni, con una ragazza del popolo senza dubbio dotata di
molte belle qualità, ma che chissà se aveva finito la quarta elementare,
ne aveva suggellato la sconfitta e il sacrificio» 34, aveva cioè sancito il
fallimento della gloriosa carriera che si apriva ad Elia Corcos, dal suo
stesso parentado criticato «a suo tempo […] per aver preso in moglie
una guià e di bassa estrazione» – e a tale «mésalliance […] indotto per
riparare alle conseguenze di uno sbaglio», «per riparare a una gravidan-
za» 35 – e per essere andato a «stabilirsi in una zona della città talmente
fuori mano» 36�.
A questa sorte sfuggirà invece, abbandonando incinta l’umile cuci-
trice di via Salinguerra, il David di Storia di Debora, borghese per vari
e accentuati indizi, ma «ebreo» solo incidentalmente («una donna che
aveva avuto un figlio con un ebreo») 37 cioè allo stesso modo («l’umi-
le origine poi di quell’ebrea») in cui la diversità sociale doppiata dalla
narsene indietro, a casa propria e dei suoi! […] E suo padre e i suoi fratelli che quando ci
venivano a spaccare legna non c’era mai verso di farli salire di sopra, tanto che a un certo
punto il mangiare e il bere bisognava per forza portarglieli nella legnaia da basso, non ave-
vano ragione anche loro di evitare qualsiasi intimità e confidenza?». Sentimento di estra-
neità accentuato con la riscrittura del ’73: il passo del 1956 «Perché non possedeva, anche
lei, un carattere forte come quello di sua madre, che non usciva di casa per nessun’altra
ragione che per recarsi in chiesa?» (Bassani 1998, 1642) diventerà «Aveva ragione sua
madre che lì in quella casa si era sempre rifiutata di venirci!» (Bassani 1974, 89-90).
34 Bassani 1998, 67.
36 Ivi, 72. E si veda in Un concerto (Bassani 1940, 30, dove si critica il comporta-
mento di Claudio) «la proverbiale gelosia che lo aveva spinto a vivere, appena sposato,
in una piccola casa isolata, fuori mano», e ancora, nel Giardino dei Finzi-Contini (Bassani
1998, 329, dove il padre del narratore critica il comportamento dei Finzi-Contini: «Era
proprio necessario che già il figlio di Moisè, Menotti, […] prendesse la decisione di tra-
sferire la moglie Josette e se stesso in una parte della città così fuori mano […]?»).
37 Cfr. Storia di Debora, in Una città di pianura (Bassani 1940, 93): «[…] e si con-
templava [Benetti] uomo buono, generoso, innamorato di una donna che aveva avuto un
figlio con un ebreo (egli era un cattolico assai osservante, non aveva mai nominato nè mai
nominò David ma spesso fece chiaramente intendere come gli fosse ben noto il padre
del figlio di Debora)». Nel testo del 1956 (Lida Mantovani) tutto il passo sarà variato nel
modo seguente: «Sì, lui sapeva benissimo – sembrava voler dire – con chi ella aveva avuto
il bambino. Sapeva tutto. […] Il suo trasporto non era così cieco, però, da impedirgli di
ricordare (e di ricordarle) che aveva commesso un grande peccato, un peccato mortale
[…]» (Bassani 1998, 1593). Nel testo del ’56, cade l’attestazione (l’unica, nel primitivo
Storia di Debora) dell’origine ebraica di David, e con essa anche l’attestazione esplicita del
cattolicesimo di Benetti (attestazioni che, come appare, venivano a situarsi in un contesto
di chiara contrapposizione religiosa), sicché l’inquietante e misterioso essere del ragazzo
padre del bambino («con chi») resterà privo di una esplicita connotazione ebraica, il se-
guito della frase permettendo ipotesi varie e indeterminate sull’essere di David.
133
Antonello Perli
La prosa Nascita dei personaggi – nella quale, unica tra tutte le prose
degli esordi, Bassani compie un primo, cauto passo verso il superamen-
to dell’anonimato topografico: la sua ‘città di provincia’ (non ancora
«Ferrara», ma già non più «F.») è, qui, «Cesena» – lascia intravvedere,
oltre a similitudini con Un concerto e con Caduta dell’amicizia, corri-
spondenze, per esili elementi interni, con Storia di Debora 39, racconto di
zione dei giovani alla nascita del loro figlio, si confronti il passo di Nascita dei personaggi
relativo a un «ciclista» «attratto dalle anche alte e dalla piccola testa di sua moglie […] è
un meccanico in tuta azzurra», con Storia di Debora (Bassani 1940, 74): «un corpo dalle
anche larghe e dal seno stretto, le era parso sempre adatto per indossare una tuta azzurra
di lento meccanico […] il meccanico di campagna dai capelli unti e arruffati e dalla tuta
134
Alle origini di un Romanzo. Gli incunaboli delle prime «storie ferraresi»
azzurra che l’aveva resa madre». E ancora: «Vico, allora, si ferma sui due piedi, appoggia
la bicicletta all’anca» con Storia di Debora (Bassani 1940, 97): «David […] l’aspettava
con la bicicletta appoggiata all’anca»; «Dal letto, riavendosi, Dora aveva l’impressione
di essere al cinema, dove si rappresentasse una pellicola di qualche interesse, di cui essa
conosceva già confusamente l’intreccio o per averne sentito parlare o per propria espe-
rienza diretta, non sapeva come e quando. Le pareva di essere capitata lì altre volte […]
E quando dopo una breve attesa Vico rientra nella camera […] Dora sente il fiato corto e
caldo di lui sul suo viso e dice piano: ‘Vico, sei tu?’. Accarezza la fronte immobile e china,
le ciglia curve infantili, vorrebbe che Vico la baciasse, non gli ha mai voluto tanto bene
come ora: ma la fronte e le ciglia si allontanano da lei, il peso dell’amato corpo è ormai da
un’altra parte», con Storia di Debora (Bassani 1940, 101-102): «Ma ormai erano arrivati,
e David la trascinava senza parlare, e si sentiva inghiottire dall’ambiente fumoso e caldo
del cinema. Le storie complicate, assurde e languide a cui là dentro si poteva assistere,
le piacevano dopotutto, sicché subito appena entrata i nervi le si distendevano, essa si
sentiva innamorata, come mai lo era stata, di David […] Ed egli pareva un po’ intenerito,
ritornato tranquillo e amoroso, ma poi, burberamente, respingeva la mano sul grembo di
lei. E Debora non insisteva, impaurita, ma anche presto incantata e tutta presa dalla storia
d’amore del film»; «Oh, Vico è rimasto sempre un bimbo, ha le ciglia curve infantili, co-
me potrà lei vivere con lui un’intera vita?» con Storia di Debora (Bassani 1940, 111): «Sì,
David non disse che delle vuote assurdità a questo proposito, sempre, fin da quei primi
tempi. Non era mai mutato, anche dopo: un bambino, in fondo, un bambino cresciuto e
invecchiato con qualche perversità».
40 Cfr. Nascita dei personaggi (Bassani 1938, 54): «[…] e cominciai subito un sogno.
135
Antonello Perli
41 Cfr. Nascita dei personaggi (Bassani 1938, 55): «La scherma, il ‘buon gioco’ come
fin da bambini hanno chiamato questa crudele arte, è di nuovo ricominciata, ma Dora
non si difende più, non risponde come una volta all’attacco»; cfr. Il giardino dei Finzi-
Contini, IV, 3 (Bassani 1998, 511): «[…] l’amore (così almeno se lo figurava lei) era roba
per gente decisa a sopraffarsi a vicenda, uno sport crudele, feroce, ben più crudele e
feroce del tennis!».
42 Cfr. Un concerto (Bassani 1940, 29): «in realtà la gravidanza di Elena doveva aver
44 Dai connotati peraltro stravolti rispetto alla norma diegetica bassaniana, perché
attribuita a una donna e di basso ceto. Con l’ovvia eccezione di Micòl Finzi-Contini (per-
sonaggio hors norme e estraneo alla «galassia» di tutti gli altri personaggi, come è stato
sottolineato dallo stesso autore), il «personaggio ebreo» del Romanzo di Ferrara è sempre
un uomo appartenente all’agiata borghesia cittadina (dalla media del commercio all’alta
delle professioni liberali e dei proprietari terrieri).
136
Alle origini di un Romanzo. Gli incunaboli delle prime «storie ferraresi»
45 Cfr. Storia di Debora (Bassani 1940, 110): «Sarebbe, appena laureato, andato via,
forse in America […] partito solo, perché lui, naturalmente, non avrebbe sposato mai.
[…]»; Lida Mantovani [1956] (Bassani 1998, 1601): «Appena presa la laurea, sarebbe
andato via da Ferrara e dall’Italia, forse in America, comunque solo. Solo, sicuro, perché
lui, naturalmente, non si sarebbe mai sposato. […] ‘figurati se potrei adattarmi a marcire
per tutta la vita in questo buco di provincia!’»; Lida Mantovani [1973] (Bassani 1974, 33):
«Subito dopo aver presa la laurea – diceva per esempio – avrebbe piantato non soltanto
Ferrara, ma l’Italia. Era stufo di vivacchiare in provincia, di marcire in quel buco di città.
Quasi di sicuro se ne sarebbe andato in America: e per starci, per stabilircisi definitiva-
mente. Con chi ci sarebbe andato, in America? […] ‘Da solo’, aveva risposto seccamente.
Lui non era tipo da sposarsi – aveva aggiunto –. Con nessuna».
46 Cfr. Lida Mantovani [1973] (Bassani 1974, 43): «Sposarsi? Lui, il matrimonio –
era capace di dire chiaro e tondo – l’aveva sempre considerato una buffonata, una delle
più tipiche e nauseanti ‘buffonate borghesi’. Ad ogni modo, visto che lei in fondo pareva
tenerci, alle ‘nozze’, stesse tranquilla: […] Sicuro: lui l’avrebbe sposata, non aveva la
minima difficoltà a prometterglielo».
47 Lida Mantovani [1956] (Bassani 1998, 1601); Lida Mantovani [1973] (Bassani
1974, 32); in Storia di Debora (Bassani 1940, 108): «un suo amore deluso per una signori-
na della migliore società cittadina».
137
Antonello Perli
zione al battesimo del neonato da parte di David (enunciata, senza essere giustificata, da
Lida e non da David stesso) non può infatti essere considerata indizio inequivocabile di
appartenenza a una religione diversa dalla cattolica.
50 Lida Mantovani [1956] (Bassani 1998, 1586); Lida Mantovani [1973] (Bassani
1974, 10).
51 Cancogni 1968 (in Bassani 1978, XXVII).
138
Alle origini di un Romanzo. Gli incunaboli delle prime «storie ferraresi»
dialettica dei ‘contrari’ 52: quella ferita non è tanto la «ferita dolorosa
che fa scrivere» 53 quanto la ferita dello scrivere, la separazione del Po-
eta, il suo esilio dalla vita, la diversità dell’Artista, come rivela, in una
prospettiva critica intenzionata all’autonomia dello spazio letterario,
l’analisi transtestuale del Romanzo di Ferrara 54.
vita, esattamente il contrario, ma in qualche modo ha nostalgia della vita, e bisogna che
abbia nostalgia della vita per essere arte vera, a patto però di non trasformarsi nel suo
contrario. È tutto lì. Se l’autore riuscisse a ricreare nella pagina il tempo della vita, se
vi riuscisse completamente, non scriverebbe più. […] Certo, l’opera d’arte è ‘finzione’,
ma è al tempo stesso verità: è una finzione accettata per esorcizzarla, per lottarvi contro,
necessariamente. È un rapporto dialettico disperato, come quello tra la morte e la vita.
Nei miei racconti, nei Finzi-Contini soprattutto, nell’Airone, negli Occhiali d’oro, esiste
questo senso dell’opposizione tra la vita e la morte, tra il vero e il falso, ma al tempo stesso
la necessità delle due cose insieme. Non è possibile immaginare la vita senza la morte,
e non è possibile immaginare l’arte, che è il contrario della verità, senza la verità: le due
cose sono necessarie per produrre quella cosa che non usa più da tanto tempo, ma a cui io
tengo molto, che è la poesia» (in Dolfi 1981, 174-175). Il concetto della diversità tra arte
e vita e del loro rapporto dialettico, cardine della filosofia poetica dell’autore, compare
insistentemente nell’epitesto bassaniano.
53 Come scrive Roberto Cotroneo in La ferita indicibile, saggio introduttivo all’edi-
corrispondenze iconico-tematiche e persino strutturali che legano Gli ultimi anni di Cle-
lia Trotti al Tonio Kröger di Thomas Mann, novella incentrata, precisamente, sul tema del
contrasto dialettico tra vita e arte (come si legge in uno scritto recensorio del ’45, «Tonio
Kröger, l’artista giovane, combattuto tra una vocazione di solitudine e di dolore, connes-
sa inseparabilmente con l’esercizio dell’Arte, e la tentazione della felicità che si identifica
con la paga mediocrità della calda vita borghese»: cfr. Bassani 1998, 1022). La densissima
fenomenologia intertestuale investe, nel Romanzo di Ferrara, la figura autoriale costituita
complessivamente da Bruno Lattes (Gli ultimi anni di Clelia Trotti, Il giardino dei Finzi-
Contini, Altre notizie su Bruno Lattes) e dal suo «doppio», l’anonimo protagonista-nar-
ratore del Giardino (romanzo in cui, significativamente, questi due personaggi comple-
mentari sono, funzionalmente, entrambi presenti). Nella fitta rete intertestuale appaiono
decisive, a livello di una logica attanziale fertile di complesse connotazioni indiziarie che
arricchiscono il testo di valori allusivi e segreti, le vistose analogie tra, da un lato, le ca-
ratteristiche psicosomatiche e il campo simbolico della figura-ruolo del «diverso-artista»
(Tonio Kröger in Mann e Bruno Lattes/io narrante del Giardino in Bassani) e, dall’altro,
le caratteristiche psicosomatiche e il campo simbolico della figura-ruolo dell’antagoni-
sta, della quale è tratto costante la bellezza e la prestanza fisica: la coppia di giovani
nordici, biondi dagli occhi azzurri, in Tonio Kröger, e in Bassani la coppia di giovani
biondi dalle iridi chiare, «i prototipi della razza [ariana, ndr]» ne Gli ultimi anni di Clelia
Trotti e la bionda e «ariana» Adriana Trentini (doppio femminile del biondo e aitante
Eraldo Deliliers, insultatore antisemitico del narratore degli Occhiali d’oro) nel Giardino
dei Finzi-Contini e in Altre notizie su Bruno Lattes. Va tuttavia notato – e si tratta di un
rilievo particolarmente significativo – che quelle stesse caratteristiche ‘nordiche’ di fa-
scino e alterità sono proprie anche alla antagonista del narratore del Giardino (il quale è
un giovane votato e vocato, come Bruno Lattes e Tonio Kröger, all’emarginante destino
139
Antonello Perli
conti, delle ultime prose, è un io molto simile a quello di Epitaffio, di In gran segreto. È
su questa strada che io posso pensare a scrivere cose di narrativa, non cose antiche, ma
molto legate al me stesso di adesso. Non saranno insomma romanzi storici o romanzi in
terza persona: l’io vi sarà senz’altro protagonista o deuteragonista» (in Dolfi 1981, 177).
56 Cfr. la dichiarazione di Bassani in Camon 1973, 66: «Io voglio realizzare un’arte
che non si arroghi nessuna pretesa privilegiata nei confronti della vita: un’arte che sia
semplicemente una mimesi della vita».
57 Cfr. «Meritare» il tempo (intervista a Giorgio Bassani): «Volevo e voglio arrivare ad
sabile e padrone assoluto […] Non è immaginabile un libro come il Romanzo di Ferrara
se non lo si vede come storia dell’io: il personaggio più importante di tutta la mia opera è
l’io, uomo e artista. Un io che parla, che si confessa, si svela, anche in segreto».
140
Alle origini di un Romanzo. Gli incunaboli delle prime «storie ferraresi»
Bibliografia
59 Cfr. Bassani 1998, 1325 [In risposta (VI)]: «Il narratore si confessa attraverso i
personaggi, i quali non sono che una forma dei suoi sentimenti, mentre la confessione del
poeta lirico è diretta, immediata, al limite del vero».
60 Radicata, per quanto concerne la formazione intellettuale e i presupposti etici,
inverni», quarto ‘movimento’ della suite intitolata Storie dei poveri amanti nella sezione
omonima (prima parte: In rima) di In rima e senza (Bassani 1998, 1369).
141
Antonello Perli
142
9.
L’«APROSDÓKETON»
NEL RACCONTO BASSANIANO
143
Valter Leonardo Puccetti
principio che Nadine Gordimer applicava alla short story: «The short story is a frag-
mented and restless form, a matter of hit or miss, and it is perhaps for this reason that
it suits modern consciousness – which seems best expressed as flashes of fearful insight
alternating with near-hypnotic states of indifference» (1968, 460).
6 Moloney 1966, 488.
7 Ivi, 489.
8 Ivi, 493.
11 Ivi, 66.
12 Ivi, 65.
144
L’«aprosdóketon» nel racconto bassaniano
«sopportare con presunzione da capo indiano che molte cose, cui non
riesce a dare espressione, sono destinate a morire con lui» 13. In tal sen-
so, il richiamo alla manzoniana Lettre à Monsieur Chauvet che, sul pia-
no della poetica, qualcuno ha voluto operativa in riferimento a Bassani
(«come per Manzoni, per Bassani anche l’invenzione deve aiutare ad
una migliore comprensione della storia, supplendo agli eventuali silenzi
di essa») 14, deve essere rovesciato: Bassani moltiplica ostentatamente
e vanamente la fenomenicità per lasciare intatto il noumeno del cuore
che Manzoni predicava di scandagliare nella Lettre. «Certo, il cuore,
chi gli dà retta, ha sempre qualche cosa da dire su quello che sarà. Ma
che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto» è l’epi-
grafe dal finale dell’ottavo capitolo dei Promessi che apre in esergo il
Romanzo di Ferrara, è questo il Manzoni che adotta Bassani, il Manzo-
ni sapienzialmente scettico sulle razionalizzazioni, anche sulle proprie.
Crocianamente, Bassani insegue la forma dell’informe, un attimo di vita
spirituale che abbia trovato espressione unica e incorreggibile ma an-
che imprendibile al calappio dell’analisi psicologica. Paralleli mirabili
si instaurano con certe generali pertinenze benjaminiane dal gran sag-
gio su Leskov e sull’arte del racconto («il nesso psicologico degli even-
ti non è imposto al lettore» 15, «la noia è l’uccello incantato che cova
l’uovo dell’esperienza» 16, uovo metaforicamente schiuso da una pratica
di «lenta sovrapposizione di strati sottili e trasparenti» 17), ma in Italia,
e guardando specificamente alle Cinque storie ferraresi, Enzo Siciliano
aveva parlato di «impossibilità trascendentale a conoscere la realtà» 18 e
avvertito che nelle Storie «lo scioglimento, o accertamento del caso, è il
più delle volte la formulazione di un problema» 19.
Si prenda il caso di Una lapide in via Mazzini e dell’atto apparente-
mente gratuito che Geo Josz compie schiaffeggiando il conte Scocca per
strada, attorniato da una folla festante di biciclette che portavano «schie-
re allacciate di belle ragazze che adagio pedalavano, reduci da gite nella
campagna» 20 e che ci fanno irresistibilmente pensare alla selva di lam-
brette guidate da giovani che rientrano sulla via Appia a Roma, al crepu-
145
Valter Leonardo Puccetti
scolo della domenica, nelle Notti di Cabiria (salvo che nel film felliniano,
come nel finale della Dolce vita, il balsamo della gioventù viene a lenire
il dramma della protagonista, mentre qui le spettatrici gioiose fanno da
contrappunto paradossale). Renato Bertacchini notava che, «rispetto
alla redazione sansoniana del ’52, la scena madre dello schiaffo risulta
preparata, ‘montata’ con sfumature e incisi, che rendono meno ‘enigma’
il gesto clamoroso di Geo» 21, mentre l’allineamento ‘rashomoniano’,
per così dire, da parte del narratore di tre versioni-spiegazioni dell’inci-
dente 22 sembra ricalcare, per un lettore ammirato di Hawthorne quale
Bassani 23, la ridda di ipotesi circa l’origine della lettera scarlatta dise-
gnata sul petto di Dimmesdale 24 e ‘scandalosamente’ esibita alla folla
puritana come autodafé tanto insensato, in apparenza, quanto il ceffone
abrupto col quale Geo si impone enigmaticamente al coro ferrarese non
meno censore di quello dei cittadini di Salem. Le interpretazioni psico-
logiche, o meglio psicologistiche, del gesto di Geo sono da Bassani evo-
cate e scartate e chi vi si imbarcasse, sul piano critico, si porrebbe sullo
stesso piano del «coro» ferrarese: contaminando le posizioni, si trattereb-
be, per Geo, di un «fare il tragico» 25 contro lo heri dicebamus, contro la
polvere dei giorni, contro la dimenticanza, ma questo sarebbe un oblite-
rare il «senso d’assurdo e insieme di verità rivelata», come dice Bassani,
«che nell’imminenza della sera può suscitare qualsiasi incontro» 26:
Ma fate che scenda alla fine l’ora del crepuscolo, l’ora ugualmente intrisa
d’ombra e di luce di un calmo crepuscolo di maggio, ed ecco che le cose
che dianzi vi erano apparse del tutto normali, indifferenti, può succedere
che a un tratto vi si mostrino per quelle che sono veramente, può succedere
che a un tratto vi parlino (e sarà, in quel punto, come se foste colpiti dalla
folgore) per la prima volta di se stesse e di voi. 27
26 Ivi, 122.
27 Ibidem.
zoniane («L’immanenza del disegno narrativo rimanda alla ‘storia ferrarese’ di Geo Josz,
146
L’«aprosdóketon» nel racconto bassaniano
31 Ibidem.
34 James 1990, 59. Lionel Trilling ha scritto belle pagine sul «garbato entertainer
147
Valter Leonardo Puccetti
ipotizzato da James, che si diverte con tutti i suoi giocattoli disseminati sul territorio di
una moralità in disuso» (1980, 147).
35 Affinati 1996, 126.
148
L’«aprosdóketon» nel racconto bassaniano
ce que l’homme a cru voir») 39, l’epigrafe cechoviana di Una notte del
’43, cassata come tutte le altre a partire dall’edizione in volume unico Il
romanzo di Ferrara del 1980, insiste sull’orrore della visione («le visioni
sono spaventose, ma anche la vita è spaventosa») 40, sullo sguardo che
crea esso l’orrore del veduto, e ciò non stupirà per un racconto il cui
protagonista è un lettore di Edgar Allan Poe 41.
In effetti qui il racconto appare come una messa in movimento,
come una deduzione dinamica dall’uggioso deposito del tempo nella
provincia connivente: «di che massacri immaginari non sono mai re-
sponsabili la noia e l’ozio della provincia?» 42 si dice all’inizio di Una
notte del ’43, presentando il teatro dell’azione col consueto occhiello
schiudentesi in panoramica che apre ognuna delle Storie. Come se il
massacro vero, inumano, di rappresaglia, di cui si era macchiato Sciagu-
ra non fosse che il materializzarsi di un sogno, di un incubo staccatosi
come una bolla dal sonno di Pino («Dormivo» 43, è la risposta al giudice
con cui il Barilari si schermisce e discolpa altrui) come se non fosse che
rimozione la sorpresa finale, l’aprosdóketon negativo, di sottrazione, del
silenzio di Pino, che era lo stesso silenzio con cui aveva assistito alla car-
neficina, anche incontrando lo sguardo della moglie che tornava allora,
nella neve, da uno dei suoi appuntamenti d’infedeltà e che era stata così
coinvolta e punita nel gioco voyeuristico del marito. Una rimozione, sì,
ma non più di un reale (ingestibile, nella sua enormità, per gli uomini
del dopoguerra, per gli uomini della ricostruzione fasulla perché sulle
fondamenta della dimenticanza) sibbene di un possibile, di un mostro
della mente e della parola affinché lo svolgimento del racconto obbedis-
se pertanto al precetto che Cervantes assegnava alla «novela», quello di
«mostrar con propiedad un desatino»44.
Nella Passeggiata prima di cena la primitiva epigrafe jamesiana (so-
stituita nell’edizione di Dentro le mura del 1960 con quella verdiana
che nelle edizioni precedenti Elia Corcos dentro il racconto canticchia-
40 Ivi, 1725.
41 Ivi, 197.
42 Ivi, 173.
43 Ivi, 204.
44 Cervantes Saavedra 2001, 52 (è il v. 27 del quarto capitolo del Viaje del Parnaso).
A nostro avviso avvolta da presunzione psicologistica, e quindi avversa alla poetica bassa-
niana, è l’interpretazione del momento cruciale della Notte del ’43 contenuta in un saggio
ad ogni modo interessante di Claude Imberty: «Il silenzio di Pino Barilari esprime la
perplessità di chi non sa decidere tra senso di colpa (e dunque di partecipazione) e consa-
pevolezza della propria estraneità rispetto ai fatti violenti osservati» (1991, 381).
149
Valter Leonardo Puccetti
va ironicamente nei confronti della moglie) 45, «Why does my pen not
drop from my hand on approaching the infinite pity and tragedy of all
the past? It does, poor helpless pen, with what it meets of the ineffable,
what it meets of the cold Medusa-face of life, of all the life lived, on eve-
ry side. Basta, basta!» 46, non è mai stata studiata dalla critica bassaniana
nei rapporti col testo. Intanto, parallelamente alle due epigrafi succitate,
si nota anche in questa il ricorrere del tema della visione orrificante,
stavolta simboleggiata dal «volto di Medusa della vita»: la vita pietrifica
col suo sguardo, da essa Elia Corcos sembra ipnotizzato nella sua lunga
durata personale, la quale ha avuto una linea che lui stima necessitata da
una scelta tòpica, quella della moglie goi e plebea. Ma non bisogna tra-
scurare il brano del diario di Henry James da cui Bassani ha estrapolato:
Era tardi, di novembre; gli alberi spogli, il crepuscolo presto a scendere,
l’aria perfettamente immota (in una Cambridge in generale così silente), con
il cielo che ad occidente trascolorava sempre più in quel rosa terribile, pura-
mente polare che d’inverno si mostra di dietro i boschi d’America […] Era
il momento; era l’ora; era il flusso d’emozione benedetta, scaturito al tocco
della mia subitanea visione, che mi ha trascinato con sé. Allora mi era parso
di capire perché avessi fatto così; allora mi era parso di capire perché fossi
venuto e di sentire come non essere venuto avrebbe significato mancarlo mi-
seramente, orribilmente 47 […] Tutto era là, tutto venne: il riconoscimento,
il silenzio, la stranezza, la pietà e la sacralità e il terrore, la passione moz-
zafiato e il divino sollievo delle lacrime. L’ispirata trascrizione sulla squisita
piccola urna fiorentina con le ceneri di Alice, il divino dono fatto da William
a noi, a lei, dei versi danteschi: Dopo lungo exilio e martiro / Viene a questa
pace mi ha afferrato alla gola con la sua penetrante giustezza, ed era un po’
come cadere in ginocchio in preda a una specie di gratitudine angosciata
davanti a qualcosa che si aspettava con una sofferenza lunga, profonda. 48
L’ora crepuscolare delle rivelazioni, così cara a Bassani (già l’abbiamo
visto con Una lapide, poi nell’ambito della nostra analisi lo vedremo ne-
gli Ultimi anni di Clelia Trotti, ne Les neiges d’antan e in Altre notizie su
Bruno Lattes), fulmina di luce le ipostasi di tutto quel che sarà il mondo
narrativo bassaniano e cui abbiamo già dato escussione in queste pagine
(«il riconoscimento, il silenzio, la stranezza, la pietà e la sacralità e il ter-
rore») e si disfa sul sepolcro (quello di Alice, la sorella di James morta in
età non inoltrata dopo una vita di slanci e di sofferenze: il William citato
nel passo è l’altro fratello, il filosofo) con la stessa imperiosa valenza
45 Bassani 1973, 69: «Vieni, o diletta, apprèssati, / schiava non sei né ancella».
46 Bassani 2004, 1618.
47 James 1996, 416-417.
48 Ivi, 417.
150
L’«aprosdóketon» nel racconto bassaniano
noetica che esso assume in Bassani (si veda per metonimia la lapide del
racconto eponimo e l’airone impagliato ne L’airone, Gli ultimi anni di
Clelia Trotti nel sinfonico inizio, Altre notizie su Bruno Lattes program-
maticamente nella prima parte, la stessa Passeggiata per il cammeo sul
figlioletto di Elia e di Gemma sotterrato contro il volere della madre
nel cimitero ebraico, ovviamente e sovranamente Il giardino dei Finzi-
Contini per il grandioso inizio e per le numerose riprese interne).
Nella Passeggiata l’aprosdóketon è diluito nell’effetto di durata (in
una lettera a François Wahl del 1958 Calvino diceva di Bassani: «trae
effetti di sgomento metafisico da una fotografia minuziosa della pro-
vincia») 49 come in Lida Mantovani, poiché l’incomprensibile, lo stra-
no, l’irriducibile è quel fidanzamento con l’infermiera che si decide in
un gesto, insieme irrazionale e quasi meccanico («Quand’ecco, come
in risposta, il dottore afferrò la Triumph dal manubrio e dal sellino, le
fece fare dietrofront, e, rapido, andò ad appoggiarla contro il pendio
erboso del bastione, dall’altro lato della strada») 50 e che, inesplicato,
è come se Elia degustasse (dantescamente, con disdegnoso gusto) per
tutta la vita sigillando alla fine, nel ricordo, in una conversazione con la
cognata Ausilia, tutto il senso di un’esistenza. È allora appena suggerita,
per placare l’enigma, una spiegazione difensivamente psicologica («La
scienza – diceva fra sé nel mentre –. Non era la Scienza, in fondo, la sua
missione?») 51, come se Elia avesse deciso di spacciarsi degli affetti e
della stessa carriera (depressa da una moglie inutile alle relazioni sociali
e incrementanti, e comunque inibita alle altezze dal contesto ebraico e
provinciale, come argomentava diffusamente la redazione originaria an-
cora all’altezza del volume delle Cinque storie ferraresi) 52 con un sacri-
ficio che lo lasciasse libero negli studi, libero nell’‘oltre’. Ma ciò basta o
è una freudiana falsa ricostruzione? Le ultime parole del racconto sono:
Ma la vedeva, in realtà? La vedeva veramente? Certo un’espressione ben
strana, povera Gemma, quella dei suoi occhi in quel momento! Neanche
se lui, a partire dal mattino successivo alla sera che aveva promesso a sua
sorella di sposarla, cose e persone le avesse guardate proprio così: dall’alto,
e in qualche modo fuori del tempo. 53
Il fatto è che il personaggio è diventato un fantasma, ha perso realtà
52 Ivi, 1630-1632.
53 Ivi, 83.
151
Valter Leonardo Puccetti
152
L’«aprosdóketon» nel racconto bassaniano
62 Ivi, 1681. È aforisma o lacerto dalle pagine ‘teatrali’ dello scrittore triestino che
Bassani cavava dall’allora fresca edizione di Saggi e pagine sparse del 1954 per cura di Apol-
lonio (Svevo 1954, 320), ma siamo stati incapaci di ritrovare il passo nella recente edizione
critica dell’opera omnia sveviana (Svevo 2004) né una delle curatrici, Clotilde Bertoni, da
noi interpellata, ha saputo darci ausilio se non ripetendoci quel che è noto agli specialisti
e che l’edizione critica suddetta segnala nella nota al testo e in più luoghi del commento,
e cioè l’assoluta inaffidabilità del testo a suo tempo approntato da Umbro Apollonio.
153
Valter Leonardo Puccetti
65 Ivi, 172.
66 Ivi, 161.
68 Citati 1962, 7.
nostra letteratura, un luogo del mondo chiamato Ferrara: dove è necessario che accadano
storie indimenticabili di gente che Bassani ci mostra nella palpitazione estrema del loro
esistere: visioni poetiche fermate un istante prima di scomparire, e raggianti in quel mo-
mento nell’energia dei loro segreti» (1987, 47).
70 Secondo la poetica della ‘novela’ cortazariana (Cortázar 1994a, 1314).
154
L’«aprosdóketon» nel racconto bassaniano
74 Ivi, 113-114.
gi da un’opera all’altra di Bassani (Bottecchiari, Fadigati, Lattes ecc.) non c’è Nachge-
schichte, e il partito che è sottolineato da Kertesz-Vial, di «privilégier […] l’ensemble
[…] au détriment de chaque récit en lui-même» (2000, 415), e che si esprime nella riu-
nione in volume unico, come in narrazione ininterrotta, sotto la cuspide di Ferrara, delle
singole opere, non riesce a smontare la verticalità di ogni singola unità. Fortini, che aveva
accolto la pubblicazione di tre racconti bassaniani col titolo della Passeggiata prima di
cena parlando di «capitoli di un libro e cioè di una intuizione più vasta e più grave che
ancora non c’è», formulava dunque (fatto salvo il giudizio di valore, aberrato) un auspicio
destinato a non realizzarsi (1953, 46).
155
Valter Leonardo Puccetti
dirla ancora col grande scrittore argentino, «il fermento o apertura che
proietti l’intelligenza o la sensibilità verso qualcosa che va molto oltre
l’aneddoto» 79. Le ragioni di David sono il mistero che agli occhi di colei
stessa che ne ha sofferto e ne soffrirà gli effetti innalzano il senso dello
spreco del tempo e di sé, che anzi consentono la durata come segreto,
come strumento per la scoperta e per il merito di esse. Il tema cripto-
sadico (se non temessi di turbare i mani di Bassani, oserei dire cripto-
nicciano) fondativo, il tema del seduttore che si fa irrazionale mistero
euristico alla vittima, in fondo ricompare anche nel primo dei Tre apo-
loghi, ne L’odore del fieno, in forme più marcatamente autobiografiche
e metanarrative, con quel viaggio di ritorno della coppia da Ferrara a
Roma in cui si manifesta una crisi latente del ménage e in cui l’«inesplica-
bile umor nero» 80 del protagonista-narratore determina un cambiamen-
to d’itinerario che appare una messa alla prova della partner o un’oscura
ricerca di confronto a carte scoperte 81. Questo tema del seduttore trova
il retour de bâton, il contrappasso e il contrappeso al femminile nella ter-
za parte 82 di Altre notizie su Bruno Lattes, entro la stessa ultima raccolta
bassaniana: le supposizioni del protagonista circa il raffreddamento di
Adriana nei suoi confronti e il suo riacquisto di speranze vengono scon-
volte, nell’ennesimo tramonto struggente e agnitivo dell’opera bassania-
na, dalla rivelazione casuale e finale, dall’aprosdóketon (un gagliardetto
nazista pendente dal manubrio della bici del fratellino di Adriana) che
la famiglia di lei nutre simpatie naziste (la madre di Adriana, la Trentini,
mi sembra riprendere in minore la figura petulante-fallica della terribi-
le Lavezzoli degli Occhiali d’oro: tiranneggia una discussione politica a
tavola tacciando di pessimismo chi teme lo scoppio delle ostilità, tanto
più forte la sorpresa poi di Bruno, evidentemente …), nell’imminenza
dell’invasione della Polonia, e Bruno è irreparabilmente ebreo …
Ne L’odore del fieno, i due episodi del dittico Les neiges d’antan
espongono assai patentemente il fulmen in clausula. I protagonisti sono
80 Nella più esplicita prima redazione, pubblicata in rivista (Bassani 1958, 16).
luogo dei Finzi-Contini, la descrizione della sala da pranzo dei Finzi-Contini «con le sue
pareti foderate di cuoio tranne quella, interamente a vetri, inquadrante la buia, silenziosa
tempesta del parco come l’oblò del Nautilus» (ivi, 466-467): della terrazza di autogrill
dove si fermano, contro il loro progetto iniziale, a cena il narratore e la moglie si dice
che «Pareva di trovarsi a bordo di una piccola nave ultramoderna, uscita allora allora dal
cantiere, e ancorata ancora per poco, in procinto come di salpare, al limite della acque
portuali» (Bassani 1958, 17).
82 Bassani 2004, 880-889.
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L’«aprosdóketon» nel racconto bassaniano
due «sfatti», due vitelloni della cerchia dell’infame Delilliers degli Oc-
chiali d’oro. Il primo, Marco Giori, affonda il racconto in un anticlimax:
il giovane leone cittadino, le cui dubbie imprese sono narrate cursoria-
mente nella prima parte, è diventato un doppelgänger inquietante (per
banalità) del vecchio padre possidente agrario e il narratore lo ricono-
sce a stento, di passaggio rientrando da Ferrara verso Roma (il tema
del ritorno ‘sui luoghi’, del viaggio nello spazio che si scioglie in quel-
lo del tempo, spesso a rottura e a smentita, è molto presente nei pezzi
dell’Odore del fieno, come già si è visto per il primo degli Apologhi). Più
notevole è la seconda parte delle Neiges, il cui protagonista disegna una
parabola opposta a quella di Marco Giori: vitellone a rimorchio, piutto-
sto emulativo ma senza il brillio, la nonchalance e l’originalità dei più in
vista degli «sfatti», Pelandra s’imborghesisce in breve e si ‘piazza’ come
onesto assicuratore e marito con prole e annesso suocerame domenica-
le. Un pomeriggio di festa, però, giusto prima di recarsi al cinema con
la moglie, il soprannominato Pelandra annuncia di uscire un attimo dal
tabaccaio, né farà mai più ritorno né di lui si saprà mai più nulla. Guido
Fink 83 ha acutamente segnalato l’ipotesto hawthorniano, da Wake-
field, per questo racconto di Bassani dove vige una prudente incertez-
za, un’incerta linea di displuvio tra una vita estenuata e prolissa e una
conclusione repentina: l’aprosdóketon procede da una neutra durezza
mascherata, tutto poteva succedere perché niente era prima successo. In
questa disparizione di Pelandra nel nulla dal nulla della sua quotidianità
sembra massimamente da riconoscersi la lukacsiana assenza novellistica
di senso che in quanto tale diventa forma:
Nella forma dell’isolata straordinarietà e problematicità della vita, nella no-
vella, tale lirismo deve ancora tenersi del tutto celato dietro i duri lineamen-
ti del singolo accadimento isolato a colpi di scalpello: il lirismo è qui ancora
pura scelta: il clamoroso arbitrio del caso, che benefica o distrugge, ma
che comunque sprofonda nell’immotivato, può essere bilanciato solo dalla
comprensione chiara, senza commenti, puramente artistica: il senso ulti-
mo di ogni plasmazione artistica è da essa esternato come Stimmung, stato
d’animo, come significato contenutistico della raffigurazione, ancorché, e
appunto perciò, astrattamente. In quanto l’assurdità venga contemplata
nella sua nudità non velata, non orpellata, in quanto la potenza esorcizzan-
te di questo sguardo intrepido e disperato conferisca il crisma della forma:
l’assurdità assurge, in quanto tale, a raffigurazione: è divenuta eterna, con-
fermata dalla forma, elevata e redenta. 84
157
Valter Leonardo Puccetti
Accettiamo ancora come guida il Cortázar che già prima ci aveva scor-
tati: «ci sono uomini che, in determinati momenti, cessano di essere se
stessi e la propria circostanza, c’è un’ora in cui si desidera esser se stessi
e l’inaspettato, se stessi e il momento in cui la porta che prima e dopo dà
sull’ingresso si socchiude lentamente per lasciarci vedere il prato dove ni-
trisce l’unicorno» 85. Pelandra apre realmente la porta di casa di cui parla
per metafora Cortázar ma non vedremo mai, noi lettori, quale visione
l’abbia rapito per sempre. Di fronte a esperienze narrative come queste
ci appare davvero tentatrice la suggestione che Jean Frappier (gran me-
dievalista, dunque esperto in unicorni …) lasciò in un suo densissimo
saggio sul lai medievale, che cioè si desse in qualche modo «influenza
del lai […] sulla novella, sulla short story […] fino ai giorni nostri» 86, nel
senso che entrambi instaurano il regno dell’eccezione, organizzano un
passaggio all’oltremondo (non necessariamente soprannaturale) trami-
te il «diamante grezzo» 87 dell’avventura. «L’irruzione dell’avvenimento
straordinario apre sempre agli eroi e alle eroine l’accesso a un mondo di-
verso da quello in cui in precedenza vivevano» 88, l’«elemento di singola-
rità» è «indispensabile a ogni lai» 89, scrive Frappier. Bassani scrittore di
lais? Ricordiamo che il finale inatteso del secondo racconto delle Neiges
è come stregonescamente evocato dal fotografo Uller Tumaini, di nuovo
nell’ora crepuscolare così cara alle epifanie bassaniane:
E siccome Uller non accende la luce altro che in casi di stretta necessità
(non l’ama, la luce, né quella elettrica né quella naturale, tanto è vero che
porta occhiali affumicati anche di sera), quando fuori comincia a far buio
possiamo ritenere a buon diritto che dall’esterno nessuno di quanti passano
lungo il marciapiede riesca a scorgerci. Strana sensazione, ad ogni modo!
Noi qui, invisibili, come fuori del tempo, come morti. E là, richiamate ogni
tanto dal neon sfolgorante della vetrina e dalle foto esposte, le ingenue,
fidenti, inconsapevoli facce della vita, tutte scoperte e protese … 90
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10.
IN FONDO AL CORRIDOIO
Il tutto e le parti nel Romanzo di Ferrara
Francesco Bausi
Niente in fondo è più falso di un fatto in se stesso. I miei due anni veri
furono invece il ’49 e il ’50, quando presi a scrivere questo romanzo.
Non solo: ma così ora per ora, scrivendo, mi divennero veri anche gli altri.
Li recuperai. È la parola. E io, ripeto, non chiedo di più.
Niente al mondo è più bello che scrivere.
Silvio D’Arzo, Prefazione a Nostro lunedì
1 Che egli stesso, in un’intervista del 1979, designò come i suoi «immediati prede-
cessori» (vd. qui infra, nota 116). Per l’importanza dei Dubliners vd. da ultimo Pieri 2008,
227.
163
Francesco Bausi
164
In fondo al corridoio. Il tutto e le parti nel «Romanzo di Ferrara»
Bassani anche nella sua recensione ad Artemisia di Anna Banti (1948), dove egli parla
di «quei fatti esterni, ovvero ‘occasioni’, capaci di risolvere crisi latenti che da sole non
avrebbero la forza di venire a maturazione, ed hanno l’ufficio, in sostanza, di rivelarle a
se stesse» (ivi, 1063). Sul binomio occasione/lavoro insisteva già Croce 1968, 60: «l’oc-
casione o la spinta non è mai la sostanza di un’opera, la quale consiste invece in quel che
l’autore realmente vi arreca nel corso del lavoro» (libro posseduto e postillato da Bassani
nell’edizione del 1950: vd. Rinaldi 2004, 120).
5 Bassani 1998, 935.
6 Ivi, 938-939.
165
Francesco Bausi
7 Corrispondenti alle quattro parti del racconto, o forse ai suoi quattro personaggi
principali (la Trotti, Bruno Lattes, l’onorevole Mauro Bottecchiari e il ciabattino Cesare
Rovigatti), le cui storie sono appunto divise ma parallele (Bassani 1998, 940).
8 Ibidem. Ma anche Lida Mantovani (su cui Bassani qui non si sofferma) è co-
struito con estrema attenzione alle architetture: il racconto presenta infatti una rigida
struttura binaria, imperniata su ricorrenti parallelismi e insistite corrispondenze speculari
(le vite parallele di Lida e di sua madre, il movimento pendolare fra passato e presente,
la contrapposizione David-Oreste e quella caldo-freddo). Vd. Dolfi 2003, 16-21; Renda
2010, 50.
9 Struttura circolare che caratterizza anche La passeggiata e, con particolare fi-
nezza, Gli ultimi anni di Clelia Trotti. Nel primo di questi racconti, l’ultimo paragrafo
ritorna – giunta all’epilogo la vicenda dei due protagonisti – dove tutto ha avuto inizio,
a quell’estate del 1888, cioè, in cui Elia e Gemma si erano fidanzati. Nel secondo, l’aper-
tura e la conclusione si rispondono perfettamente: in entrambe troviamo, nel medesimo
luogo (Piazza della Certosa), Bruno Lattes e Clelia Trotti (morta nel primo caso, viva nel
secondo, con flash-back e ysteron proteron), e la scena viene interrotta dall’improvvisa
apparizione di una coppia di giovani innamorati (nel primo caso la ragazza, in Vespa, at-
tende il ragazzo, mentre nella seconda, specularmente, è il ragazzo, in bicicletta, ad essere
raggiunto dall’amica), che richiama irresistibilmente l’attenzione di Bruno, suscitando la
sua curiosità e distogliendolo da ogni altro pensiero. Vd. Bausi 2003, 237-240. Ma già la
Storia di Debora (1940), antenata di Lida Mantovani, presentava un’analoga costruzione
ad anello, aprendosi con la gravidanza della protagonista e chiudendosi con quella di sua
nuora Elvira (Bassani 1998, 1544 e 1570; cfr. Dell’Aquila 2007, 79).
166
In fondo al corridoio. Il tutto e le parti nel «Romanzo di Ferrara»
(1978), analogo simbolo – anche se di un’altra stagione della vita – è quello della vecchia
auto: «È buffo e strano l’ho sfiorata / sottocasa iersera simile in tutto / a un piccolo
silenzioso grumo di buia // vita // ed ecco là stamattina mentre la guardo / dall’alto
del balcone / illuminati e scaldati entrambi dal tenero solicello / delle nove // morta
apparirmi d’un tratto niente da fare minima / sbiadita capottina bige gracili / gommette
/ mezze fuori di sbieco dagli ammaccati / parafanghi anteriori // assolutamente finita
insomma buona non più che / per lo sfasciacarrozze» (Bassani 1998, 1486). In Bassani,
del resto, oggetti e luoghi interagiscono profondamente con i personaggi, giungendo
quasi ad animarsi e a diventare – per riprendere le sue parole – autentici «grumi di vita»;
«anche le cose muoiono», dice infatti Micòl a G* nel Giardino (Bassani 1998, 418), dove
la vecchia carrozza dei Finzi-Contini e il vecchio sandolino della stessa Micòl recano con
sé la fine di un mondo e anticipano la morte imminente dei loro proprietari (vd. Costa
1988, 24).
12 I racconti di Dentro le mura, tuttavia, sono assai più lunghi di quelli dell’Odore
del fieno, cosicché l’estensione complessiva del libro I è grosso modo doppia di quella del
libro VI.
167
Francesco Bausi
13 Buona parte dei testi, infatti, uscì primamente sul Corriere della sera fra il 1969 e
1971; due racconti (Altre notizie di Bruno Lattes, 1 e Les neiges d’antan, 1) erano invece
apparsi in origine tra le Storie ferraresi del 1960 (col titolo, rispettivamente, di Muro di
cinta e In esilio), donde furono estrapolati quando nel 1973 la raccolta venne ripubblicata
col titolo Dentro le mura. Anche questa operazione sembra essere stata dettata da finalità
prevalentemente strutturali: la brevità di Muro di cinta e di In esilio, infatti, mal si conci-
liava con l’estensione assai maggiore delle altre Storie, e viceversa ben si armonizzava con
quella degli altri racconti inclusi nell’Odore del fieno, raccolta che inoltre – grazie all’in-
serimento di questi due testi – veniva ad assumere un’architettura più calibrata e simme-
trica. Per ragioni uguali e contrarie, Gli occhiali d’oro (anch’essi compresi nell’edizione
1960 delle Storie, ma lunghi più del doppio della più lunga tra queste, Gli ultimi anni
di Clelia Trotti) furono estratti dalle Storie e tornarono ad essere un romanzo autonomo
(come tale, infatti, era stato primamente pubblicato nel 1958).
14 Analogamente, l’Airone è caratterizzato da una rigida suddivisione in quattro
parti perfettamente equilibrate, ciascuna composta da sei capitoletti della stessa lunghez-
za; ogni parte del romanzo copre una tappa essenziale della gita di caccia di Edgardo Li-
mentani e dell’ultima giornata della sua vita. La parte centrale del libro (corrispondente
agli ultimi tre capitoli della parte seconda) è occupata dall’airone: l’airone che passa (4), il
ritorno dell’airone (5), la morte dell’airone (6). «La morte dell’uccello avviene esattamen-
te a metà del romanzo e segna l’apice dell’esperienza del personaggio e della struttura
della storia» (Oddo De Stefanis 1981, 224). Per la struttura dell’Odore del fieno vd. qui
anche infra, 194-196.
168
In fondo al corridoio. Il tutto e le parti nel «Romanzo di Ferrara»
169
Francesco Bausi
15 E, ancor più, dal titolo della sua prima pubblicazione sul Corriere della Sera (4
che rimanda a quello di Micòl (Finzi-Contini); e all’analogia speculare per cui, all’oppo-
sto di quanto accade nel Giardino, è Yuri che muore nei campi di sterminio, mentre Egle
sopravvive alla guerra.
170
In fondo al corridoio. Il tutto e le parti nel «Romanzo di Ferrara»
logo, apposto da Elsa Morante a un capitoletto dell’Isola di Arturo (1957): Altre notizie
sull’Amalfitano (1995, 56-64; il romanzo era posseduto da Bassani nella prima edizione,
vd. Rinaldi 2004, 207). Piero Pieri (2008a, 118-119) pensa invece alla foscoliana Notizia
intorno a Didimo Chierico.
20 Per l’elaborazione redazionale di questo racconto attraverso le sue varie stesure
(vd. qui sopra, nota 13) cfr. Oddo De Stefanis 1981, 244-50; Guiati 2002, 162-166; Re-
nard 1983.
21 I «begli occhi marrone» della madre di Bruno (Bassani 1998, 873) sono gli stessi
della madre di G* in Dietro la porta (676: «certi occhioni «marron»», corsivo dell’autore).
22 «Soltanto loro, i morti, contavano per qualche cosa, esistevano veramente. Ci
mettevano un paio di anni a ridursi al puro scheletro: lo aveva letto da qualche parte. Ma
dopo non cambiavano più, mai più. Puliti, duri, bellissimi, erano ormai diventati come le
171
Francesco Bausi
Altre notizie, 2. – Bruno, angosciato per la crisi irreversibile della sua
relazione con Adriana Trentini, trascorre le serate dell’autunno 1938 va-
gando per la città e spesso sostando in un misero parco di divertimenti
nei pressi di Porta Reno, attratto e insieme respinto dalla ragazza del
tiro a segno, una toscana volgare ma sensuale in cui egli vede una sor-
ta di degradata ‘sostituta’ di Adriana. Identico episodio ricorreva nel
Giardino, quando G* (che ormai non frequenta più Micòl e si trova nel
medesimo stato d’animo di Bruno) e Malnate finiscono dopo cena nel
medesimo luna-park e incontrano, ai fucili, la stessa «dipinta e sboccata
ragazza toscana» 23.
pietre preziose e i metalli nobili. Immutabili, e quindi eterni» (Bassani 1998, 837-838).
23 Ivi, 540-541.
172
In fondo al corridoio. Il tutto e le parti nel «Romanzo di Ferrara»
28 Si ponga mente alle analogie fra le descrizioni dei due giovani, entrambi belli,
eleganti e forniti di macchina sportiva: cfr. Bassani 1998, 254 (Occhiali d’oro) e 898-899
(L’odore del fieno).
29 Oltre a Marco Giori e a Deliliers, il racconto cita anche il dottor Fadigati, rievo-
173
Francesco Bausi
importa qui soprattutto quello del fotografo Uller Tumaìni, che raccon-
ta la storia al narratore nel suo piccolo negozio, al buio, mentre fuori
gli ignari passanti sfilano lungo il marciapiede. Scrive Bassani: «Strana
sensazione, ad ogni modo! Noi, qui, invisibili, come fuori del tempo,
come morti. E là, richiamate ogni tanto dal neon sfolgorante della ve-
trina, e dalle foto esposte, le ingenue, fidenti, inconsapevoli facce della
vita, tutte scoperte e protese …» 30. Dove chiara è l’analogia tanto con
la figura del paralitico Pino Barilari (che, affacciato a una finestra del
suo appartamento, osserva dall’alto il mondo esterno senza che nessuno
possa vederlo), quanto con la scena centrale dell’Airone, quando Edgar-
do, ammirando la vetrina dell’impagliatore, ha la rivelazione della morte
come forma più perfetta di vita 31. Assistiamo qui, dunque, a una vera
e propria mise en abyme dell’arte bassaniana: l’artista è come un morto
o un malato 32, che guarda la vita dal di fuori, con curiosità e nostalgia,
e si limita a riprodurla, a fotografarla, ‘fermandola’ nell’arte, cosicché il
fotografo Uller deve considerarsi l’ennesimo alter ego di Bassani 33.
30 Ivi, 910-911.
32 Anche per Pino Barilari, infatti, la malattia (come la morte per Edgardo) coinci-
de paradossalmente con il passaggio a una forma più alta e piena di vita: «Come se fosse
stata appunto la sifilide, che per tanti anni aveva sonnecchiato subdolamente nel suo
sangue, e infine era insorta di colpo a stroncargli le gambe, a trasformare la sua scialba
vita in qualcosa di chiaro, di comprensibile a lui stesso, insomma di esistente. Ormai
si sentiva forte, lo si vedeva bene, addirittura rinato» (Bassani 1998, 179; con parole
simili è descritta nell’Airone la felicità esaltata che accompagna in Edgardo l’insorgere
del pensiero del suicidio: 837). Siamo in presenza, ovviamente, del tema prettamente
novecentesco della malattia come conseguenza e insieme causa di una superiore lucidità
e sensibilità, e dunque come metafora stessa dell’attività intellettuale e artistica; tema che
in Bassani sembra colorarsi soprattutto di ascendenze manniane, tra I Buddenbrook, La
montagna incantata e Tristano. Anna Dolfi (2003, 156) osserva giustamente che «Bassani
si inserisce con dichiarazioni esplicite in quella poetica sveviana e manniana che vuole
l’artista ai margini della vita» (che «l’esercizio dell’Arte» sia connesso inseparabilmente
con una «vocazione di solitudine e di dolore» affermò lo stesso Bassani in un suo scritto
del 1945 dedicato proprio ai racconti di Mann: vd. Bassani 1998, 1022).
33 Importante, in questo breve racconto, la dialettica fra buio interno e luce ester-
na; Uller, infatti, non ama la luce, né quella elettrica, né quella naturale, e porta sempre
occhiali affumicati, anche di sera, a simboleggiare la distanza dalla vita che lo scrittore
impone a se stesso per poterla comprendere e descrivere (mentre un «neon sfolgorante»
illumina la vetrina e attira i passanti: chiara allusione al ‘lampo’ dell’arte, capace di im-
mortalare per un istante ciò che entra nella sua magica dimensione, cosicché la vetrina
di Uller Tumaìni equivale in tutto e per tutto a quella dell’imbalsamatore di Codigoro
nell’Airone). Con la descrizione e la decifrazione di una vecchia cartolina («ricavata da
una fotografia») ha inizio, come già abbiamo ricordato, La passeggiata prima di cena; e le
fotografie ricorrono spesso nell’opera bassaniana (basti pensare alle «foto di tutti i suoi
morti» con cui Geo Josz tappezza la sua camera e che va mostrando ai suoi concittadini;
174
In fondo al corridoio. Il tutto e le parti nel «Romanzo di Ferrara»
Tre apologhi, 3. – L’inizio del raccontino ricalca quello della Passeggiata:
anche in questo caso, tutto parte da una fotografia, una tra le molte in-
viate allo scrittore dalla redattrice di un quotidiano che chiede a Bassani
di trarne ispirazione per un articolo. E, come nella Passeggiata, Bassani,
sceltane una (quella che ritrae il personaggio più umile e modesto, il
vecchio barbone Riccardo T.), imbastisce su di essa, mischiando il vero
con l’immaginario, una breve storia. Il derelitto Riccardo è l’ultimo per-
sonaggio del Romanzo di Ferrara, e circolarmente ci rimanda alla Lida
Mantovani della prima storia ferrarese, la «ragazza quasi inesistente»
da cui tutto, molti anni prima, ebbe inizio 34: a ribadire la predilezione
di Bassani per le vite semplici e dimenticate, per gli uomini e le storie
di cui nessuno parla e che solo la letteratura può salvare dall’oblio. Ma
l’ultimo apologo è inoltre un’affermazione della suprema ‘occasionalità’
della poesia, che nasce per caso e dal nulla, e può manifestarsi in qua-
lunque momento e in qualunque circostanza, anche soltanto guardando
un quadro o – come qui – una banale fotografia fra mille altre; cosicché
l’esile raccontino può considerarsi al tempo stesso un’anticipazione del-
o a una lirica come Al telefono, nella raccolta Epitaffio), al pari, ovviamente, della pittura
(cui viene riconosciuto l’analogo potere di fissare lo scorrere della vita e del tempo in una
sorta di effimera eternità: cfr. ad es. il saggio del 1953 su Mario Cavaglieri, ora in Bassani
1998, 1096-1098).
34 «Il personaggio di Lida Mantovani è fondamentale nel complesso del Romanzo
di Ferrara, nel suo contesto, perché in qualche modo offre l’immagine precisa di quella
città di cui parlo. Si parte quasi dal niente-niente per arrivare al resto, a tutto il resto.
Tutto nasce da qui, insomma. Per tale motivo Lida Mantovani, ragazza quasi inesistente,
amica e amante di David (un personaggio, anche lui, diversamente inesistente), risulta
fondamentale, come partenza» (Un’intervista inedita [1991], Bassani 1998, 1343).
175
Francesco Bausi
36 Così anche nelle stesure precedenti del racconto: vd. la redazione uscita, col tito-
lo Storia d’amore, su Botteghe Oscure (Bassani 1948, 89), quella inclusa nelle Cinque storie
ferraresi del 1956 (Bassani 1998, 1583) e quella – intitolata Storia di Debora – compresa
nella raccolta Una città di pianura, del 1940 (dove il letto è «al termine di un corridoio»:
1544). Per il «corridoio» vd. qui anche infra, 199-203.
37 Che la struttura di un testo sia essa stessa portatrice di ‘significato’ Bassani af-
ferma più volte: vd. ad es. i passi qui cit. infra, 194-195 (dal risvolto di copertina della
prima edizione dell’Odore del fieno) e alla nota 58 (dall’ultimo testo di questa medesima
raccolta, Laggiù, in fondo al corridoio).
38 Bassani 1998, rispettivamente 782, 784, 790-792 e 833-836. Da una parte, la vita
176
In fondo al corridoio. Il tutto e le parti nel «Romanzo di Ferrara»
morta e ridotta ormai a semplice materia in decomposizione; dall’altra, la vita resa perfet-
ta e immortale dalla bellezza dell’arte. Nella vetrina dell’imbalsamatore, ovviamente, non
trovano posto soltanto uccelli, ma sono questi ultimi ad attirare maggiormente Edgardo e
a sembrargli particolarmente belli e «vivi» (835: «Era però sugli uccelli che i suoi sguardi
non si sarebbero mai stancati di posarsi»).
39 Edgardo, infatti, prima rinuncia a far visita al cugino e alla sua famiglia (così
come G*, dopo quell’ultima visita notturna nel giardino dei Finzi-Contini, non vi tornerà
mai più), poi, rientrato a casa, rifiuta di cenare con i familiari e con Prearo, ritirandosi in
camera per attuare i suoi propositi suicidi.
40 Bassani 1998, rispettivamente 828 e 665.
41 Lo stesso autore affermò che i due racconti «svolgono quasi lo stesso tema»
(lettera a Italo Calvino del 28 marzo 1956, cit. da Italia 2008, 85).
177
Francesco Bausi
42 Bassani 1998, rispettivamente 82: «L’amore […] era qualcosa di crudele, di atro-
ce, da spiare di lontano; o da sognarne a palpebre abbassate»; e 511: «l’amore (così alme-
no se lo figurava lei) era roba per gente decisa a sopraffarsi a vicenda, uno sport crudele,
feroce, ben più crudele e feroce del tennis!, da praticarsi senza esclusione di colpi e senza
mai scomodare, per mitigarlo, bontà d’animo e onestà di propositi».
43 Cfr. Ivi, rispettivamente 1640-1641 («Dappertutto grossi tomi di scienza medica,
libri di letteratura amena per lo più italiani e francesi, atlanti storici e geografici, dizionari,
microscopi, barometri, stetoscopi di legno e di metallo, strane, complicate lampade da
studio, scaffali; dappertutto grandi madie rustiche, armadi, tavoli rotondi, ovali e ret-
tangolari»), e 473 («Di libri, per cominciare, ce n’erano anche qui moltissimi. Quelli di
argomento letterario mescolati con quelli di scienza […]; quelli di storia patria, ferrarese
o veneziana, con quelli di ‘antichità giudaiche’: i volumi stipavano senza ordine, a caso,
le solite scansie a vetri, occupavano buona parte del gran tavolo di noce […]. Un grosso
mappamondo, poi, un leggìo, un microscopio, mezza dozzina di barometri, una cassa-
forte d’acciaio verniciata di rosso scuro, un candido lettino di ambulatorio medico, varie
clessidre di diversa misura, un timpano d’ottone […]»).
44 Ivi, rispettivamente 1646 e 559-567. E vd. qui infra, 200-201 e nota 84.
178
In fondo al corridoio. Il tutto e le parti nel «Romanzo di Ferrara»
46 Cfr. fra i molti Sempoux 1984, 18, e Guiati 2002, 133, che per questo aspetto
rinviano al modello di Balzac (e vd. anche Pieri 2008, 128), osservando ad esempio come
Bassani, quando rielaborò le Storie ferraresi per includerle nel Romanzo di Ferrara, abbia
inserito in Lida Mantovani una citazione del «parco di casa Finzi-Contini» che nelle re-
dazioni precedenti del racconto non compariva (Bassani 1998, 42).
47 Cfr. Varanini 1983, 75-77, che a p. 79 cita inoltre un’affermazione di Claudio
Marabini, secondo cui Il romanzo di Ferrara è «un caso unico nelle nostre lettere: una
città che si fa simbolo di poesia; un tempo storico che diviene Tempo assoluto, metafora
del vivere; i tanti personaggi che si trasformano in Personaggio-Autore, nella stessa Vita».
E anche Cattaneo 1983, 39.
48 Nel risvolto di copertina della prima edizione dell’Odore del fieno si dice che
questo libro è «una giunta ulteriore di quella sorta di saga, d’ispirazione più o meno di-
rettamente autobiografica, a cui Bassani sta lavorando ormai da molti anni, e che si chia-
merà, quando sarà compiuta in tutte le sue parti, e riunita in un solo volume, Il romanzo
di Ferrara».
49 De Camilli 1980, 507.
scrupolosa attenzione al ‘realismo’ (ossia alla concreta, irripetibile realtà storica e umana
di ciascun individuo, di ciascun avvenimento e di ciascun ambiente), non apprezzava
quegli scrittori nei quali scorgeva la tendenza a fare della letteratura solo uno strumento
per illustrare princìpi di natura filosofica, ideologica o religiosa, riducendo i personaggi
179
Francesco Bausi
a burattini o a schemi astratti e monumentali (cfr. ad es. quanto egli scrive a proposito di
Manzoni, di Moravia, di Bacchelli e dei neorealisti, in saggi quali Neorealisti italiani, In
risposta [III], Ancora su Soldati: Emilio e Piero, Appunti per una tavola rotonda, tutti
compresi nella raccolta Di là dal cuore: cfr. Bassani 1998, nell’ordine 1054-1059, 1218-
1219, 1224-1225, 1306-1309).
51 Fava-Guzzetta 1983, 85-86; Guiati 2002, 151-153; e soprattutto Oddo De Ste-
fanis (1981, 213-214), che definisce l’Airone «il canto del trionfo sulla morte: non più
destino passivamente subito dai personaggi – dai primi racconti fino ai Finzi-Contini
vittime della violenza della società e della storia –, bensì rivincita, libera scelta, riscatto
dell’individuo», e, nel caso di Edgardo, parla di suicidio come «catarsi» e «liberazione».
180
In fondo al corridoio. Il tutto e le parti nel «Romanzo di Ferrara»
sia Micòl, che è il simbolo esattamente del contrario, ossia della vita. Allora
che cosa significa il giardino, se non la duplice operazione che sta di fronte
a ogni vero poeta? È il simbolo dell’amore per l’arte e per la bellezza e al
tempo stesso il simbolo dell’amore del suo contrario. La vita non è la bel-
lezza e l’arte, è esattamente il contrario. Quindi il giardino è il segno della
mia uguaglianza e della mia diversità. 52
ma del romanzo «Bassani si premura di informare che oggi il giardino, abbattuti tutti gli
alberi per farne legna da ardere (ossia per uno scopo pratico, quello scopo pratico che
domina nella società industriale e, degradando tutto a cosa, segna la morte dello spirito),
non esiste più, e che l’edificio ‘è occupato ancora adesso da una cinquantina di famiglie
di sfollati […] gente inasprita, selvaggia, insofferente […] i quali, allo scopo di scorag-
giare ogni eventuale progetto di sfratto da parte della Soprintendenza ai Monumenti
dell’Emilia-Romagna, sembra che abbiano avuto la bella idea di raschiare dalle pareti
anche gli ultimi residui di pitture antiche’ [Bassani 1998, 327]. Simbolo inequivocabile,
costoro, dell’uomo di oggi, incapace di apprezzare i valori dell’Arte, e anzi ben determi-
nato a rifiutarli».
181
Francesco Bausi
55 Garboli 1969, 291, definisce questo romanzo una «allegoria del processo creati-
vo».
56 L’interpretazione è autorizzata dallo stesso Bassani: «Se i poeti non parlano sem-
pre, o quasi sempre, di vicende che è quasi impossibile raccontare, non sono dei poeti.
La storia del ritorno a Ferrara di Geo Josz, per esempio, il protagonista di Una lapide in
via Mazzini, ha una portata ideologica molto grave e seria. Geo Josz torna dal regno dei
182
In fondo al corridoio. Il tutto e le parti nel «Romanzo di Ferrara»
morti in una città dopo tutto normale. Ma anche i poeti, se sono veramente tali, tornano
sempre dal regno dei morti. Sono stati di là per diventare poeti, per astrarsi dal mondo, e
non sarebbero poeti se non cercassero di tornare di qua, fra noi» (In risposta [VI], Bas-
sani 1998, 1323; e anche Un’intervista inedita [1991], 1344, dove Geo diventa una specie
di Dante dei nostri tempi). Vd. del resto Una lapide in via Mazzini, dove di Geo si dice:
«dopo essere sceso all’inferno e per miracolo esserne risalito, […]» (Bassani 1998, 102);
e anche la recensione del 1976 a La pietra di Malantino di Giuseppe Mazzaglia: «non
succede sempre così, coi poeti veri? Non hanno forse sempre l’aria di tornare incolumi
ma stravolti da terre sconosciute, inesplorate?» (ivi, 1304).
57 Il campo da tennis è una figura geometrica di simmetria perfetta, delimitata da li-
nee rette entro le quali si svolge un gioco che obbedisce a regole precise e complesse e che
esclude qualunque contatto fisico: altro simbolo, palesemente, di quella sublimazione e di
quel ‘riscatto’ della vita che il mondo della bellezza e dell’arte consente di realizzare. Cfr.
Huizinga 2002, 10-15, ad es. p. 14: «Entro gli spazi destinati al gioco, domina un ordine
proprio e assoluto. Ed ecco qui un nuovo e più positivo segno del gioco: esso crea un ordine,
è ordine. Realizza nel mondo imperfetto e nella vita confusa una perfezione temporanea,
limitata. L’ordine imposto dal gioco è assoluto. […] In quello stretto rapporto con l’idea
dell’ordine sta indubbiamente la ragione per cui il gioco […] pare situato per tanta parte
sul terreno dell’estetica. Dicemmo che il gioco tende ad essere bello. Questo fattore è forse
identico a quell’impulso a creare forme ordinate da cui è penetrato il gioco in tutti i suoi
aspetti». D’altronde, come abbiamo visto (cfr. qui sopra, 165), è lo stesso Bassani ad af-
fermare che l’arte deve essere «gioco, puro gioco, astratta geometria di volumi e di spazi».
58 Cfr. Laggiù, in fondo al corridoio (Bassani 1998, 942), dove egli afferma che «la
183
Francesco Bausi
59 Costa 1998, 20 (e in generale, per questo tema, 20-22, oltre a Costa 2006, 47-54).
60 Non sfugga, tuttavia, la contrapposizione fra gli occhiali delle persone di cultura
(quelli d’oro di Fadigati, ad esempio) e gli «occhialacci spessi un dito» del rozzo Malnate
nel Giardino.
61 Cfr. Oddo De Stefanis 1981, 236. Come scrive Cesare Garboli (1969, 286), oc-
chiali, vetro e cristallo sono in Bassani «palesi emblemi di un’eterna custodia di cose
morte».
62 Anche Limentani, nell’Airone, quando telefona a casa del cugino Ulderico e ode
le voci dei suoi figli, immagina di essere «nascosto dietro qualche porta a origliare, a spia-
re» (Bassani 1998, 748). Ma il tema è antico. Nel racconto giovanile Una città di pianura
(che dà il titolo alla raccolta pubblicata da Bassani nel 1940 sotto lo pseudonimo di Gia-
como Marchi), i clienti della casa di tolleranza, dietro i sottili muri dei salottini, ascoltano
eccitati ciò che accade nella cameretta attigua e in quelle più lontane, in un «disperato e
vano origliare» che li porta a immaginare festose atmosfere e figure femminili irraggiun-
gibili, ben diverse da quelle che si trovano in quel momento insieme a loro (Bassani 1998,
1576-1577). Quanto ai titoli, anche quelli dei primi tre libri del Romanzo recano in bella
evidenza altrettanti simboli di clausura e di separazione: nell’ordine, le mura, il giardino
e gli occhiali.
63 Bassani 1998, 344-348.
184
In fondo al corridoio. Il tutto e le parti nel «Romanzo di Ferrara»
64 Anche tu, vv. 4-6, nella raccolta del 1974 Epitaffio (Bassani 1998, 1423). E vd.
Cosentino 2006, 104, dove nel «diaframma distanziante» che costituisce uno dei motivi
centrali della produzione bassaniana si riconosce un simbolo «del rapporto che lo scrit-
tore intrattiene con la memoria, la cui intensità emotiva è filtrata attraverso la lontananza
del tempo e delle vicende raccontate».
65 A Ferdinando Camon, Bassani dichiarò con forza: «I personaggi non sono pu-
Auschwitz, il cui nomignolo è riecheggiato in quello di Geo Josz (cfr. l’intervista In ri-
sposta [VI], Bassani 1998, 1323). Anche per i Finzi-Contini (Micòl esclusa), Bassani si
è ispirato a una famiglia ferrarese dal cognome molto simile, quella dei Finzi-Magrini
(Guerriero 2004, 156-157).
67 Per un’attenta lettura di questo racconto in chiave ideologica e storico-politica
185
Francesco Bausi
68 Sotto questo aspetto, il rapporto fra Bruno e Clelia è affine a quello che nella par-
te finale del Giardino si instaura per breve tempo fra il letterato G* e il chimico milanese
Malnate (anch’egli destinato di lì a poco a morire, senza vedere mai il «futuro lombardo
e comunista» nel quale credeva con assoluta fiducia).
69 «Io credo nella realtà spirituale come unica realtà», affermò ad esempio Bassani
nella già citata intervista del 1991 (Bassani 1998, 1348), facendo una delle sue numerose
professioni di fede crociana e idealistica.
70 Così scrive Bassani recensendo nel 1976 il romanzo La pietra di Malantino di
sta rilasciata a Ferdinando Camon nel 1973 (Camon 1973, 61). Analogamente, Cattaneo
(1973, 37) parla per l’Airone (in riferimento all’episodio della vetrina dell’impagliatore)
di «un laicismo pervaso, come sempre in Bassani, di reverenza religiosa e di respiro me-
tafisico». Lo stesso Bassani, nel saggio Lettere d’amore smarrite (1973), affermò che la
letteratura italiana dell’immediato secondo dopoguerra «tentava di stabilire con la realtà
italiana un rapporto profondo, insieme religioso e popolare» (Bassani 1998, 1275).
72 Un’intervista inedita [1991], Bassani 1998, 1348.
186
In fondo al corridoio. Il tutto e le parti nel «Romanzo di Ferrara»
73 Cfr. Dolfi 2003, 12: «le vicende sono consapevolmente affidate non alla trascri-
tra il maggio e il luglio del 1943 da Bassani (allora in carcere a Ferrara) ai suoi familiari
(ora in Bassani 1998, 957). La necessità, per l’artista, di andare «di là dal cuore (e dal
ventre)», è proclamata da Bassani nella breve prosa che dà il titolo alla raccolta di saggi
Di là dal cuore, del 1984 (Bassani 1998, 1274).
187
Francesco Bausi
78 Anna Dolfi (2003, 28), a proposito dell’epifania dell’io negli Occhiali d’oro, ha
188
In fondo al corridoio. Il tutto e le parti nel «Romanzo di Ferrara»
79 Lea Durante (2007, 188) parla a questo proposito di «un io sparpagliato, distri-
buito, un io che si compone di vari pezzi, più che scomporsi in vari pezzi», e nota (191)
che «la ripartizione del materiale biografico ripara dai rischi di identificazione».
80 In un’intervista rilasciata ad Anna Folli nel 1979, Bassani dichiarò che fin da
giovane era ben conscio «d’essere venuto al mondo non certo per figurare come un prota-
gonista della Vita, ma come un testimone. D’essere nato insomma per sentire, per capire,
e per far capire. Per essere un artista» (Bassani 1998, 1319).
81 Bassani 1998, 1344 (Un’intervista inedita [1991]): «Clelia Trotti, anche lei, è una
189
Francesco Bausi
savo alle lezioni di Storia della letteratura italiana alle quali l’anno precedente [nel 1934-
35] non ero mancato una sola volta; se ricordavo l’invincibile sopore che mi prendeva
ogni volta, negli assolati pomeriggi della passata primavera, ascoltando dal banco la voce
sommessa e monotona del professore d’italiano [si tratta di Alfredo Galletti, che insegnò
Letteratura italiana a Bologna dal 1914 al 1943], a cui oltre tutto non potevo perdonare
di aver parlato male di Ungaretti in un suo famigerato volume sulla letteratura del Nove-
cento; se tornavo con la mente alla noia, al sopore, alla tetraggine di quelle ore […]; se
consideravo tutto ciò, mi dicevo che la carriera dello Studioso, la carriera dello Storico
della letteratura italiana, non poteva assolutamente essere per me» (Un vero maestro, del
1955, ora in Bassani 1998, 1073-1074; e vd. anche Güntert 2001, 379, dove il professor
Ermanno e G* vengono interpretati come ‘figure’, rispettivamente, del «discorso storico-
scientifico o anche storico-letterario» e del «discorso poetico»). Il detto di Longhi – il
«vero maestro» di cui tratta il saggio appena citato – è ricordato da Bassani nella postfa-
zione a L’alba ai vetri (1963, ma già apparsa su Paragone-Letteratura VII.76, aprile 1956,
51-56), ora in Bassani 1998, 1162. Quanto al Galletti (1872-1962), contro di lui e contro
il suo Novecento vallardiano (1935), in cui egli «aveva parlato male di Ungaretti» e di
altri poeti contemporanei, si scagliava anche Eugenio Montale (2006, 143) in una lettera
a Clizia del 16 marzo 1935, definendolo «un vecchio rammollito, ben noto per la sua
imbecillità». Bassani, poi, si sarebbe laureato con Carlo Calcaterra nel 1939.
190
In fondo al corridoio. Il tutto e le parti nel «Romanzo di Ferrara»
accettare quelle trasformazioni esterne e interiori che, pur dolorose, sono necessarie a chi
voglia vivere, crescere e comprendere, come il padre di G* gli insegna nel già ricordato
colloquio notturno fra i due («Nella vita, se uno vuol capire, capire sul serio come stanno
le cose di questo mondo, deve morire almeno una volta. […] Tra qualche mese, vedrai,
non ti sembrerà neanche vero di essere passato in mezzo a tutto questo. Sarai magari
perfino contento. Ti sentirai più ricco, non so … più maturo …»: Bassani 1998, 566-567,
corsivo dell’autore). Nel Temps retrouvé, Proust (1978, 380) scrive analogamente, a pro-
posito del dolore provocatogli un tempo dalla fine del suo amore per Albertine, che ogni
uomo, nella sua vita, deve morire più di una volta, e che queste «morti successive», così
temute, si rivelano in realtà «così indifferenti, così lievi una volta accadute».
85 Un’intervista inedita [1991], Bassani 1998, 1346.
191
Francesco Bausi
tutta la sua attività critica: vd. ad es. le riserve espresse sotto questo aspetto a proposito del
Figlio del farmacista di Mario Tobino e di Artemisia di Anna Banti (Bassani 1998, 1029 e
1062-1063), e, viceversa, le lodi tributate a Camillo Boito, che a suo avviso seppe narrare
la torbida vicenda di Senso «senza ostentare brividi di ambigua partecipazione, ma anzi
con l’impassibilità dello storico e dello psicologo, e con la discreta finezza del poeta»
(1199).
192
In fondo al corridoio. Il tutto e le parti nel «Romanzo di Ferrara»
90 Bassani dichiarò a Camon che la cultura, per lui, «è un fatto disperato, l’unico
appiglio per non essere travolto dalla mia natura profonda, tellurica e passionale» (Ca-
mon 1973, 68); ed è evidente che anche la ferrea strutturazione ‘geometrica’ dei suoi testi
mira a tenere sotto controllo – il controllo dell’arte – la «grondante eccedenza di vita» del
puro soggettivismo autobiografico (Durante 2007, 182, dove si insiste su questa «sempre
più cercata operazione di controllo sull’autobiografia» che caratterizza la narrativa bassa-
niana: 184).
91 Per questo cfr. Italia 2008, 85-88 e 94 (dove inoltre si sottolinea che, nel convin-
rie ferraresi successive alla prima) di taluni accenni e commenti che lasciavano trapelare
le idee politiche dell’autore o che più apertamente alludevano alla situazione storico-
politica dell’epoca in cui si svolgono i fatti o di quella in cui Bassani li racconta (cfr. Pieri
2008). Già recensendo nel 1953 la Passeggiata prima di cena, Pier Paolo Pasolini (1999,
391) osservava che in Bassani il tempo diviene «una misura lirica, con le sue frizioni im-
provvise, le sue relazioni fantastiche», e che in esso i fatti si dispongono al di fuori di ogni
«logica lineare e finalistica».
93 In un’intervista del 1979, pubblicata col titolo «Meritare» il tempo (Dolfi 2003),
Bassani definì L’airone «il libro più lirico che ho scritto, quello in qualche modo a me
più vicino», dipingendo il personaggio di Edgardo come «un io trasposto» (172), e affer-
193
Francesco Bausi
Resta da dire dell’architettura del libro, che anche essa sembra voler signi-
ficare, esprimere. Il libro comincia largo, infatti, con narrazioni quasi del
tutto oggettive. Ma poi, ecco il campo progressivamente restringersi, fino
a dar luogo, in chiusura, alla soggettività assoluta di quel brano di pura
autobiografia artistica che è Gli anni delle Storie, in cui l’identificazione fra
l’io-scrivente e lo scrittore-uomo si fa piena, totale. Anche per quest’ultimo
motivo, L’odore del fieno rimanda agli altri libri di Bassani: alle geometrie
mando che se in precedenza il suo sforzo era stato quello «di mettere in rapporto i due
io, e al tempo stesso di stabilire la distanza temporale e spaziale fra l’io narrante e l’io
vivente», in quest’ultimo romanzo «l’autore ha cercato di eliminare qualsiasi diaframma
temporale, e spaziale anche, tra l’io narrante e l’io personaggio». In tal modo, «l’io viven-
te è stato in qualche modo riassorbito ed esorcizzato da un personaggio che è similissimo
ovviamente all’io scrivente, ma che è diverso da lui», e pertanto «tra la storia di Edgardo
Limentani e il lettore non ha da esserci secondo le intenzioni dell’autore nessun diafram-
ma, né temporale né spaziale: il lettore deve trovarsi sempre vicinissimo al protagonista,
al personaggio, vivere con lui la stessa vita, che è lo spazio di un giorno» (175-176).
194
In fondo al corridoio. Il tutto e le parti nel «Romanzo di Ferrara»
costruttive che gli sono care, e alla dolorosa equazione di poesia e verità, di
poesia come verità, che esse sottendono. 94
I primi due testi (Due fiabe e Altre notizie su Bruno Lattes) riproducono
la situazione di Dentro le mura: ambientazione ferrarese, epoca fascista,
recupero di personaggi già incontrati nei libri precedenti, assenza del
personaggio che dice io. Nel terzo racconto delle Altre notizie, tuttavia,
la gita di Bruno ad Abbazia propone una ‘digressione’ geografica che
anticipa le ben più consistenti aperture dei pezzi successivi: il terzo testo
della raccolta, Ravenna, ci conduce infatti da Ferrara a Ravenna, mette
per la prima volta in scena l’io narrante e, nell’ultimo breve paragrafo,
introduce un elemento autobiografico insolitamente esplicito, con l’ac-
cenno al matrimonio di Bassani (celebrato a Bologna nell’agosto del ’43)
e alla moglie Valeria Sinigallia, chiamata col suo vero nome («Val»; nella
stesura originaria del racconto, significativamente, le era stato invece as-
segnato il nome fittizio, anche se analogo, di «Vittoria») 95. Non per nul-
la, il racconto si chiude, nelle acque di Marina di Ravenna, sui toni di un
mesto addio, che è quello di Bassani alla sua giovinezza e alla sua città:
Nel cielo violetto della sera (tramontato alle spalle delle selve litoranee, il so-
le infilava fra gli scabri tronchi secolari spade di una luce verde, dolcissima),
piccoli, argentei aeroplani da caccia facevano evoluzioni di prova. Talora, e
non si sarebbero rialzati che all’ultimo istante, scendevano giù in picchiata,
puntando decisi sulla nostra piccola vela. E il loro rombo lacerante, quando
sfrecciavano sulle nostre teste accostate, ci riempiva di un’allegria infantile,
alla quale, in me, seguiva una segreta tristezza tutta intrisa d’addio. 96
94 Bassani 1972.
95 Lo osserva Guiati 2002, 167.
96 Bassani 1998, 897.
195
Francesco Bausi
di recidere le proprie radici, di chiudere con il passato e con la rassicurante vita di provin-
cia, per intraprendere, nella grande capitale, la difficile vita adulta, creandosi una propria
famiglia e una propria identità professionale e umana («Dopo mi sono sposato, sono
andato via da Ferrara, ho messo radici altrove, ho avuto dei figli, ho scritto e pubblicato
dei libri: coi molteplici contraccolpi in bene e in male che da tutto ciò è derivato. In ogni
caso mi sono dato da fare, come dicono qui a Roma, lavorando, faticando, vivendo»: così
nel primo racconto delle Neiges d’antan, Bassani 1998, 899). Si guardino infatti, nell’esile
apologo, i toni corrucciati dell’inizio, che solo verso la fine lasciano il posto a una serena
accettazione della ‘nuova vita’ lontano da Ferrara.
98 Bassani 1998, 861. Già abbiamo avuto modo di sottolineare a più riprese la va-
lenza simbolica affidata da Bassani agli occhi azzurri, emblema per lui della più piena,
istintiva e ridente vitalità, soprattutto – ma non solo – femminile.
196
In fondo al corridoio. Il tutto e le parti nel «Romanzo di Ferrara»
99 Ivi, 906. Nel primo dei due racconti si insiste sul fatto che l’inclinazione lette-
raria del narratore era stata una delle cause della sua ‘esclusione’ («Da noi gli uomini di
lettere vengono guardati un poco come i preti»: 899); adesso, invece, quel Giori tanto
invidiato, che sembrava destinato a un brillante avvenire, vive nel suo oscuro paese della
bassa, mentre proprio la letteratura ha consentito a Bassani di raggiungere il successo e di
trasferirsi a Roma, prendendo così la sua rivincita sul passato. «Lo scrittore si è alzato al
di sopra della cittadina di provincia. […] Il suo ‘ritorno’ non è da vittima o da sopravvis-
suto ma da vincitore» (Guiati 2002, 169; e cfr. anche Schneider 1986, 199, che definisce
il raccontino «a brief tale of male competition»).
100 Anche l’immagine di Cristo nell’affresco della Resurrezione di Piero della Fran-
cesca che Bassani e la moglie si fermano a rivedere a Sansepolcro durante il viaggio sugge-
risce immagini di austera serenità («il Cristo contadino, col suo calmo, terribile sguardo,
invita i turisti di passaggio in vena di mettere la testa oltre la soglia a deporre almeno per
poco la loro inquieta frivolezza»: Bassani 1998, 917), ben diverse da quelle evocate a Ed-
gardo dal crocifisso nella chiesa di Codigoro; tanto che di lì a breve la tensione si allenta
e, dopo cena, il viaggio può riprendere in un clima di ritrovata fraternità.
101 Guiati 2002, 173.
102 «Meritare» il tempo, Dolfi 2003, 174: «L’arte è il contrario della vita, esattamente
il contrario, ma in qualche modo ha nostalgia della vita, e bisogna che abbia nostalgia del-
la vita per essere arte vera, a patto però di non trasformarsi nel suo contrario. È tutto lì. Se
l’autore riuscisse a ricreare nella pagina il tempo della vita, se vi riuscisse completamente,
non scriverebbe più».
197
Francesco Bausi
103 Ivi, 177, dove anche (54-55) la Dolfi parla di un «ritorno all’io inaugurato, dopo
la singolare terza persona dell’Airone, negli ultimi due libri di poesia. […] per Bassani
la poesia, fin dagli anni giovanili, è sempre stata […] confessione e possibilità di dire
di sé, di interrogarsi». E lo stesso Bassani affermò nel 1983: «Un romanziere, che sia
un poeta, non può non confessarsi, e si confessa attraverso i suoi personaggi; il poeta
lirico invece abolisce ogni diaframma, si confessa direttamente, o ‘quasi direttamente’»
(Bassani 1983, 9).
198
In fondo al corridoio. Il tutto e le parti nel «Romanzo di Ferrara»
104 Cfr. Martelli 1982. Relitti come lo sono la casa e il giardino dei Finzi-Contini
protettivo». Ma è lo stesso Bassani, per bocca di Micòl, a definire il giardino dei Finzi-
Contini un paradiso (citando Baudelaire: «le vert paradis des amours enfantines», da Les
fleurs du mal, Moesta et errabunda, vv. 21 e 25) e a parlare della sua ‘cacciata’ da esso:
«Cacciato dal Paradiso, aspettavo in silenzio di esservi riaccolto» (Il giardino, parte IV,
cap. 6, Bassani 1998, 531; e 530: «ricongiungermi a lei e ai luoghi paradisiaci dai quali
tuttora mi si escludeva»).
106 Il passo si trova nella pagina conclusiva dell’ultimo racconto dei Dubliners: The
Dead.
107 Come acutamente osserva la Durante (2007, 185), questa ricerca trova un ade-
guato corrispettivo formale nella sinuosa scrittura bassaniana, la cui «vertigine ipotat-
tica» mira a «proteggere personaggi e fatti all’interno di anse e spire dentro le quali il
lettore deve decidere di raggiungerli, se vuole trovarli».
199
Francesco Bausi
tolina da cui muove la Passeggiata prima di cena mostra, nel suo «fondo
più remoto», solo un’immagine imprecisa e confusa (in cui «cose e per-
sone non vi hanno più alcun rilievo, dissolte come risultano dentro una
sorta di pulviscolo luminoso»), tanto da spingere il narratore ad acumi-
nare lo sguardo per mettere a fuoco la figura della giovane insignificante
donna che diventerà poi la protagonista del racconto 108; il «lungo bu-
dello» perfettamente rettilineo di via Borso d’Este, in fondo al quale si
aprono la vasta Piazza della Certosa e il grande Camposanto Comunale
di Ferrara, che al narratore evocano, nella pagina d’apertura degli Ulti-
mi anni di Clelia Trotti, liete immagini di dolcezza e serenità 109 ; la strada
dritta che nell’ultima lirica di Epitaffio conduce da Bologna a Ferrara:
Ed ecco nel rosso deserto crepuscolo appena dopo
Bologna ecco quasi subito
volando io continuamente in discesa lungo il dritto asfalto laggiù
verso il buio il silenzio la
solitudine
eccola là già in vista la grande la tiepida
dimora
eccola ancora là la mia
gioventù. 110
E ancora, il «lungo corridoio che portava alla nostra aula» del liceo
«Guarini» di Ferrara in Dietro la porta; e soprattutto il corridoio della
grande casa familiare, «laggiù in fondo» al quale si trovava la camera di
108 «Che cos’era infatti la Passeggiata, a considerarla sotto il profilo esclusivo della
plice budello di transito perfettamente rettilineo, [...] la veduta improvvisa di piazza della
Certosa e dell’adiacente cimitero dà sempre, inutile negarlo, un’impressione lieta, quasi
di festa» (Bassani 1998, 123).
110 Parafrasando Engels, Bassani 1998, 1468, strofe II-III. E si noti, in questa lirica,
la struttura ‘a imbuto’ – analoga dunque a quella della Passeggiata prima di cena – che
in ogni strofa converge verso l’ultima parola (rispettivamente solitudine e gioventù, la
solitudine e la gioventù che stanno «in fondo al corridoio» della memoria) e che dunque
ne formalizza perfettamente il senso e il contenuto. Anna Dolfi (2003, 56) osserva, infatti,
che nella poesia dell’ultimo Bassani «le ‘forme geometriche’, i ‘coni’, gli ‘imbuti’, i ‘cerchi
concentrici’ che avevano accompagnato ossessivamente, quale metafora, la stesura delle
Storie ferraresi, improntandole quale forma interna, si sono trasferite e tradotte visiva-
mente sulla pagina», nelle forme grafiche dell’epigrafe e dell’epitaffio («i doppi coni [la
forma clessidra], i coni concentrici, le isolate ellissi, le parabole speculari»).
200
In fondo al corridoio. Il tutto e le parti nel «Romanzo di Ferrara»
G*, raggiungibile soltanto dopo aver oltrepassato quelle del padre, della
madre, del fratello e della sorella:
Se rientravo dopo l’una, era difficile che mi riuscisse di superare il corri-
doio lungo il quale si susseguivano una dopo l’altra le camere da letto (la
prima era quella del papà, la seconda quella della mamma, poi venivano
quelle di Ernesto e di Fanny, e infine laggiù in fondo la mia), senza che
lui se ne accorgesse. Avevo un bell’avanzare in punta di piedi, togliermi
addirittura le scarpe: l’orecchio finissimo di mio padre percepiva i minimi
scricchiolii e fruscii. 111
111 Dietro la porta, cap. 3, e Il giardino dei Finzi-Contini, parte IV, cap. 9 (Bassani
1998, 606 e 559; corsivo mio). Difficile non pensare all’analogo e altrettanto simbolico
corridoio che fa da filo conduttore del film di Ettore Scola La famiglia (1987), dove esso
rappresenta lo scorrere del tempo nella grande casa romana in cui si svolge la lunga vita
del protagonista, il professor Carlo, impegnato a ripercorrere le sue personali vicende e,
insieme, ottant’anni di storia italiana.
112 «[…] corsi dietro a Perotti che aveva già raggiunto il fondo del corridoio. Senza
scambiare una parola arrivammo in breve alla base della lunga scala elicoidale che porta-
va in cima in cima, fino alla torretta lucernario. L’appartamento di Micòl, lo sapevo, era
quello della casa situato più in alto, solamente mezza rampa al di sotto dell’ultimo piane-
rottolo» (Bassani 1998, 498-499, corsivo mio). Anche all’appartamento di Pino Barilari,
situato sopra la sua farmacia, si accede tramite una scala a chiocciola (196).
113 Per la camera di Micòl, G* prova un’attrazione morbosa, tanto che, non poten-
201
Francesco Bausi
114 «Essere il ramo della foresta / la fogliolina di quel / ramo / tornare ancora come
eri / allora a tre quattro anni / quando non conoscevi / nessuna femmina tranne la /
mamma / nessun’altra città fuor che / la tua» (Forte Antenne, da Epitaffio, Bassani 1998,
1451; il Forte Monte Antenne si trova a Roma, all’interno del parco di Villa Ada). Anche
Pino Barilari, descritto dalla moglie come «una specie di bambino, di bambino malato,
oppure una specie di vecchio», una volta colpito dalla paralisi abbandona la camera ma-
trimoniale, «soddisfatto di tornarsene da solo nello stanzino che occupava da ragazzo»
(Bassani 1998, 207 e 209; e vd. Pieri 2008, 238-239). Per il tema del vecchio-bambino
(che ricorre più volte nelle poesie dell’ultimo Bassani) e per le sue ascendenze jamesiane
cfr. Cosentino 2006, 94.
115 Laggiù, in fondo al corridoio, Bassani 1998, 939.
116 «Volevo che l’ineffabile potesse diventare / eterno / dar voce all’inesprimibile
far sì / che l’inesistente o / quasi finalmente / esistesse» (Allo stesso, da In gran segreto
[1978], Bassani 1998, 1477). E cfr. quanto Bassani dichiarò a Camon: «Il fatto che io
abbia sentito così a fondo l’idealismo comporta la certezza, per me, che l’io profondo è
ineffabile. È effabile soltanto ciò che si dice, che si fa» (Camon 1973, 58); e ad Anna Dolfi:
«io non ho la fede dei miei immediati predecessori (Proust, Joyce) che l’io profondo sia
effabile, conoscibile; io non ci credo, non ci credo più» («Meritare» il tempo, Dolfi 2003,
171).
117 L’espressione appartiene a un passo dei Notebooks di Henry James che Bassani
appose in esergo alla Passeggiata prima di cena nell’edizione delle Cinque storie ferraresi
del 1956 (Bassani 1998, 1618; l’epigrafe fu soppressa nelle edizioni successive). Cfr. Cal-
deraro 1990, 52.
202
In fondo al corridoio. Il tutto e le parti nel «Romanzo di Ferrara»
Bibliografia
118 Sono parole della lirica bassaniana Sei venuto alla porta, vv. 6-8 («Come la verità,
/ come essa triste e bella, / proprio com’è la vita …»: Bassani 1998, 1392, dalla silloge del
1947 Te lucis ante), parzialmente citate anche nel Giardino (Bassani 1998, 531) in riferi-
mento a Micòl: «Come la verità – come essa triste e bella».
203
Francesco Bausi
204
In fondo al corridoio. Il tutto e le parti nel «Romanzo di Ferrara»
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205
11.
IN THE AFTERMATH
Modalities of Memory in
Il romanzo di Ferrara
Lucienne Kroha
1 Says Bassani, in a late interview: «Geo Josz è morto, è andato là donde non si tor-
na, ha visto un mondo che soltanto un morto può aver visto. Miracolosamente torna, però,
torna di qua. E i poeti, loro, che cosa fanno se non morire, e tornare di qua per parlare? Co-
sa ha fatto Dante Alighieri se non morire per dire tutta la verità sul tempo suo? È stato di là:
nell’Inferno, nel Purgatorio, nel Paradiso, per poi tornare di qua» (Bassani 1991b, 1344).
207
Lucienne Kroha
5 Ivi, 112.
6 Ivi, 108.
208
In the Aftermath: Modalities of Memory in «Il romanzo di Ferrara»
exactly what they are – prefabricated images. He also uses other types
of iconic images and tropes – a plaque, a book, the Etruscan cemetery,
a hunting expedition, an overheard anti-Semitic slur – to represent
the ‘unrepresentable’. As we shall see, even the trope of maternal loss,
which recurs frequently in both first and second generation Holocaust
representation, is used at one remove by Bassani, signaling his preco-
cious awareness of what has recently been suggested by feminist critic
Claire Kahane: that it is to be seen as a screen memory which shields one
from the horror of the nihilistic implications of the Holocaust 7.
209
Lucienne Kroha
In Una notte del ’43 the horror that is being covered up is represented
by the cover of a book. Bassani does not recoil at the sight of the actual
bodies lying on the ground after the shootings, and tells us that to count
and to identify them «era stato necessario rivoltare sulla schiena coloro
che giacevano bocconi e separare l’uno dall’altro quelli che, caduti
abbracciandosi, facevano tuttora uno stretto viluppo di membra irri-
gidite» 10. The immediate reaction of the citizenry is outrage, but there
is no revolt: «E sembrerà strano che l’esecrazione pressoché unanime
dell’assassinio potesse accompagnarsi immediatamente al proposito al-
trettanto diffuso di far buon viso agli assassini, di far atto di pubblica
210
In the Aftermath: Modalities of Memory in «Il romanzo di Ferrara»
adesione e sottomissione alla loro violenza» 11. After the war, the knowl-
edge that they had bowed to the intimidation of Sciagura and his cohorts
haunts them, as do the images of the dead «come se l’immaginazione
collettiva avesse bisogno di ritornare sempre là, a quella notte tremenda,
e di riavere uno per uno dinanzi agli occhi i volti degli undici fucilati
quali nel punto supremo il solo Pino Barilari li aveva avuti» 12. Barilari
has been assigned, by the collectivity, the task of speaking out – of doing
what they had been unable to do – and thus lifting the veil of hypocrisy
with which they themselves had covered up the acts of the collaborators
amongst them. He has also been assigned the task of making certain that
a perpetrator is punished, thus absolving them of any responsibility for
their own silent consent. In the weeks leading up to the trial, they give
free rein to their fantasies about the witness who is to redeem their sins,
wending their way from the outside, into Pino’s room and finally to the
book lying next to his bed on the night-table:
Fra gli altri libri c’erano anche Le avventure di Gordon Pym di E.A. Poe,
in una edizione che mostrava in copertina un grande fantasma bianco, ar-
mato di falce, ergentesi a picco sopra una piccola scialuppa da baleniere.
Senonché quest’ultimo volume non stava affatto dietro i vetri della scansia
insieme coi rimanenti, bensì, capovolto, sul ripiano del comodino, accanto
a un grosso album da collezionista di francobolli, a un fascio di matite colo-
rate tenute dritte dentro un bicchiere, a un temperino da pochi soldi, a una
gomma per cancellare mezzo consumata: posato in modo, cioè, il volume,
che lo spettro della copertina, pur continuando a essere presente, a essere
lì, fosse invisibile, non facesse più la minima paura. 13
11 Ivi, 201.
12 Ivi, 209-210.
13 Ivi, 207-208.
211
Lucienne Kroha
14 Ivi, 132.
212
In the Aftermath: Modalities of Memory in «Il romanzo di Ferrara»
Gardiner (ed.), New York, Basic Books 1971, as quoted in Gay 1998, 171. On Freud and
Archaeology see also Kuspit 1998 and Bowdler 1996.
16 Bassani 1991, 343 (emphasis added).
213
Lucienne Kroha
remains found in the debris, so does the analyst proceed when he draws his
inferences from fragments of memories, from the associations and from the
behaviour of the subject of the analysis. 18
What’s more, the description of the ruins of the house is marked, at the
end, by what seems to be a direct allusion to the «mural decorations and
paintings from the remains found in the debris» mentioned in the Freud
passage cited above. Damaged by the bombardments of 1944, it is now
occupied by homeless squatters:
i quali, allo scopo di scoraggiare ogni eventuale progetto di sfratto da parte
della Soprintendenza ai Monumenti dell’Emilia e Romagna, sembra che
abbiano avuto la bella idea di raschiare dalle pareti anche gli ultimi residui
di pitture antiche. 20
214
In the Aftermath: Modalities of Memory in «Il romanzo di Ferrara»
21 Ivi, 343.
22 Ivi, 375.
215
Lucienne Kroha
Poi ci sarebbe stata la scena ultima, quella degli addii. Già la vedevo. Era-
vamo scesi tutti in gruppo giù per le scale buie, come un gregge oppresso.
[…] Senonché, improvvisamente, dal portone rimasto mezzo aperto, là,
contro il nero della notte, ecco irrompere dentro il portico una raffica di
vento. È vento d’uragano, e viene dalla notte. Piomba nel portico, lo attra-
versa, oltrepassa fischiando i cancelli che separano il portico dal giardino, e
intanto ha disperso a forza chi ancora voleva trattenersi, ha zittito di botto,
col suo urlo selvaggio, chi ancora indugiava a parlare. Voci esili, gridi sottili,
subito sopraffatti. Soffiati via, tutti come foglie leggere, come pezzi di carta,
come capelli di una chioma incanutita dagli anni e dal terrore … 23
By the end of this passage we seem to have slipped into the gas cham-
bers themselves.
In Gli occhiali d’oro the very first chapter contains an unmistakable
allusion to Dr. Mengele, the ‘Angel of Death’ who conducted medical ex-
periments on concentration camp inmates. This image is evoked by the
seemingly innocuous description of the waiting rooms of the physicians
of Ferrara who, unlike Dr. Fadigati, do not take care to provide their
patients with the amenities of a comfortable and elegant living room:
Dove erano, da Fadigati – non si stancavano mai di ripetere – le intermina-
bili attese ammucchiati l’uno sull’altro come bestie, ascoltando fra le fragili
pareti divisorie voci più o meno remote di famiglie quasi sempre allegre e
numerose, mentre, alla fioca luce di una lampadina da venti candele, l’oc-
chio non aveva da posarsi, scorrendo lungo i tristi muri, che su qualche
NON SPUTARE! di maiolica, qualche caricatura di professore universita-
rio o di collega, per non parlare di altre immagini anche più melanconiche
e iettatorie di pazienti sottoposti a enormi clisteri davanti a un intero colle-
gio accademico, o di laparatomie a cui, sogghignando, provvedeva la Morte
stessa travestita da chirurgo? E come poteva essere accaduto, come!, che si
fosse sopportato fino allora un simile trattamento da Medio Evo? 24
23 Ivi, 511.
24 Ivi, 229 (emphasis added).
216
In the Aftermath: Modalities of Memory in «Il romanzo di Ferrara»
217
Lucienne Kroha
218
In the Aftermath: Modalities of Memory in «Il romanzo di Ferrara»
insisteva perché io provassi ad assaggiarne uno, dei suoi formaggi […] uno
tra quelli collocati più in alto […]. 32
So, too, in Gli ultimi anni di Clelia Trotti Bruno Lattes’ relationship
with Clelia is characterized as the search for a mother-child connec-
tion masquerading as a search for a new political identity. At the end
of the story, Bruno realizes that he is not, and never will be, a Social-
ist: after all, if the search was for a political connection, the shoemaker
Rovigatti, with whom he met several times before actually seeking out
Clelia herself, could have provided it. What Bassani is telling us in this
story is that Bruno is searching for a way to soothe the feeling of diso-
rientation that he feels in the face of the Race Laws, and only an older
mother-figure, like Clelia Trotti, can serve the purpose. In fact, in Altre
notizie su Bruno Lattes, which appears in L’odore del fieno, the trope
of maternal loss recurs in Bruno’s mental associations at the funeral of
his uncle, which returns him to the age of nine, to an occasion when
he felt the absence of his mother, but could not understand where she
had gone: «La guerra durava ancora. Il papà era al fronte. E la mamma?
Dove era la mamma? Qualcuno, forse la zia Edvige […] gli aveva rac-
contato che la mamma era partita per Feltre, dove avrebbe trascorso col
papà una breve licenza. Ma Feltre? Dove era Feltre? E anzi, che cosa
era?» 33.
In Dietro la porta, in which the narrator describes his gradual con-
frontation with the idea of his mother as a sexual being (only to have
that awareness sullied by the anti-Semitic rantings of his Gentile class-
mates), the moment of awareness is described as an epiphany brought
on by a photograph. He looks at the photograph and suddenly becomes
aware that it inscribes the gaze behind the lens of the camera, that of his
father, and thus his own exclusion:
Ritraeva me e mia madre nel ’18, durante l’ultima estate di guerra. Magra
come una ragazza, vestita di bianco, la mamma appariva inginocchiata ac-
canto a me […]. E mentre mi stringeva appassionatamente al seno, rivolge-
va in direzione dell’obbiettivo un sorriso gioioso, intensamente felice […]
La fotografia era stata scattata da mio padre nel corso di una delle sue brevi
licenze dal fronte […]. Ma soltanto qualche minuto fa, guardandola, avevo
compreso il reale significato di quel sorriso della mamma, sposa da appena
tre anni: ciò che prometteva, ciò che offriva, e a chi... 34
32 Ivi, 460-461.
33 Ivi, 920.
34 Ivi, 730.
219
Lucienne Kroha
In both these cases the photos are used specifically because they are
stand-ins for reality, as are dreams and metaphors: what we see in all the
examples cited above is that even the trope of maternal loss is presented
in such a way as to make clear its function as a stand-in for the loss of
the feeling of safety in the world.
35 Ivi, 255.
220
In the Aftermath: Modalities of Memory in «Il romanzo di Ferrara»
enter into a relationship with her he might have been able to extract her
from the clutches of her family and escape with her. It is no accident
that the unproffered kiss, meditated upon at length earlier on in the
novel, returns in the epilogue, at the very end, as if he were returning
her to the grave and sealing it. When he says that only a kiss, a real kiss,
could have stopped her from speaking, what he seems to be saying is
that such a kiss could have saved her:
Certo è che quasi presaga della sua prossima fine, sua e di tutti i suoi, Micòl
ripeteva di continuo anche a Malnate che a lei del suo futuro democratico
e sociale non gliene importava un fico, che il futuro, in sé, lei lo abborriva,
ad esso preferendo di gran lunga «le vierge, le vivace e le bel aujourd’hui»
e il passato, ancora di più, «il caro, il dolce, il pio passato».
E siccome queste, lo so, non erano che parole, le solite parole ingannevoli
e disperate che soltanto un vero bacio avrebbe potuto impedirle di proferi-
re, di esse, appunto, e non di altre, sia suggellato qui quel poco che il cuore
ha saputo ricordare. 36
It is clear here that the invitation to telephone is not heartfelt, but a sim-
36 Ivi, 610-611.
37 Ivi, 321-322.
221
Lucienne Kroha
Fadigati never calls. The first paragraph of the following chapter clearly
indicates how guilty the narrator feels about not having sought him out,
as the dripping magnolia tree figures Fadigati drowning in the waters
of the Po, with the same masochistic pleasure that the narrator has at-
tributed to him all along:
Piovve tutto sabato e domenica. Anche per questo motivo, forse, scordai la
promessa di Fadigati. Non mi telefonò e nemmeno io gli telefonai: ma per
pura dimenticanza ripeto, non già di proposito. Pioveva senza un attimo
di tregua. Dalla mia camera, guardavo attraverso la mia finestra gli alberi
del giardino. La pioggia torrenziale sembrava accanirsi particolarmente
contro il pioppo, i due olmi, il castagno, ai quali veniva via via strappando
le ultime foglie. Soltanto la nera magnolia, al centro, intatta e gocciolante
in modo incredibile, godeva visibilmente dei rovesci d’acqua che la inve-
stivano. 39
38 Ivi, 326.
39 Ivi, 327.
222
In the Aftermath: Modalities of Memory in «Il romanzo di Ferrara»
to do with it, since it is set in 1929. Marianne Hirsch points out that
«[t]he bodily, psychic, and affective impact of trauma and its aftermath,
the ways in which one trauma can recall, or reactivate, the effects of
another, exceed the bounds of traditional historical archives and meth-
odologies» 40. What is most interesting about this novel is that it de-
scribes how the past is effectively re-written in the face of subsequent
events, how the Holocaust can inscribe itself on the recollection of
past events so as to fuse with them to such an extent as to form a new
‘memory’.
The story told here, of rivalry amongst a group of adolescent boys
in the liceo, culminates in a scene in which the protagonist, hiding in
a dark room, eavesdrops while his classmates besmirch him and his
mother with sexual insults related to their Jewishness. The scene is engi-
neered by Carlo Cattolica, whose name makes him clearly a representa-
tive of the Roman Catholic church, while the insults are pronounced by
Luciano Pulga, who can be seen as a sort of Pontius Pilate because he
is a projection of the Jewish self-hatred of the young protagonist. The
protagonist is hiding in the next room under a crucifix, which identi-
fies him with Jesus the Jew of Nazareth being betrayed by his friend to
the Romans. However the next room, at this point, is also Auschwitz,
because the insults to his sexuality as well as to his mother’s reflect the
anti-Semitic discourses of the period, the volume of which was turned
up to the level of hysteria by the Nazi propaganda machine. The scene
collapses and telescopes three distinct moments in history and three dis-
tinct scenes: 1929, when the event takes place in Cattolica’s home, the
moment of the Crucifixion, and the Holocaust. If we remember that
1929 is the year of the Lateran Pacts, which sees the end of the secu-
lar nature of the Italian state and Catholicism as the official and only
religion of the nation, then the scene establishes a causal chain linking
three moments in history across the centuries leading straight to the gas
chamber.
This in and of itself does not however tell the entire story. The nar-
rator opens the novel by speaking of an injury inflicted upon him many
years ago, and which has not healed, to the point that it has now become
a festering wound:
Sono stato molte volte infelice, nella mia vita, da bambino, da ragazzo, da
giovane, da uomo fatto; molte volte, se ci ripenso, ho toccato quello che si
223
Lucienne Kroha
dice il fondo della disperazione. Ricordo tuttavia pochi periodi più neri,
per me, dei mesi di scuola fra l’ottobre del 1929 e il giugno del ’30, quando
facevo la prima liceo. Gli anni trascorsi da allora non sono in fondo serviti
a niente: non sono riusciti a medicare un dolore che è rimasto là come una
ferita segreta, sanguinante in segreto. Guarirne, liberarmene? Non so se
sarà mai possibile. 41
In other words, the Holocaust has re-activated a past offence: what this
means is that the injury inflicted upon him by his classmates has now
been retrospectively invested with the injuries inflicted upon his peo-
ple, and as a result he cannot let go of it. Would this adolescent experi-
ence have been dwelt upon with such tenacity had not the Holocaust
intervened between the time of action and the time of narration to re-
activate it? Has this experience been incorporated by subsequent events
as even more traumatic than it originally was? This is left open-ended,
but the question is posed. The last chapter opens with another reference
to the adolescent wound, which has now become an untreatable ulcer:
«L’ulcera aveva preso a suppurare in segreto, lenta, torpida immedica-
bile» 42.
Published in 1964, this novel was written in the period shortly
before the famous Auschwitz trials of 1963-64, when some sectors of
the German public, indignant at being held responsible for something
that had happened ‘so long ago’, were asking, quite vocally, when the
victims would finally let go of their resentments 43. It may well be that
Dietro la porta was written in response to this very question, especially if
one considers the centrality of the image of the crucifixion, which comes
up not only in the climax, but in an earlier episode that foreshadows
it iconically: I am referring to the scene in which the young protagonist
wanders into a local church, and finds himself drawn to a group of
statues, which he at first mistakes for a group of actual persons:
Chi erano? Come avevo potuto rendermi conto non appena ero arrivato a
distanza sufficiente, non si trattava di persone vive, bensì di statue di legno
dipinto, scolpite a grandezza naturale. Erano per l’appunto quei famosi
42 Ivi, 732.
43 Wood 1998, 259. At this time, «a wider debate was taking place in Europe about
whether further judicial proceedings relating to Nazi war crimes should henceforth be
subject to a statute of limitations. While the juridical outcome of this debate in Germany
was the extension of the statute of limitations for major war crimes, [the prevailing ] cul-
tural climate […] attributed to victims of Nazism an enduring resentment and avengeful
desire for retribution».
224
In the Aftermath: Modalities of Memory in «Il romanzo di Ferrara»
What Bassani seems to be saying here is that if the Jews were still be-
ing held responsible for the crucifixion of Christ two thousand years
after the fact (as Signora Lavezzoli points out in Gli occhiali d’oro on
the beaches of Riccione as she reads aloud from Civiltà cattolica) then
Jews have the right to hang on to their resentments twenty years after
an event that has traumatized all Jews, not only those who have been
through the worst.
7. Post-traumatic Stress
At the opposite end of the spectrum from he who cannot forget, lies he
who cannot remember. This is the case of Edgardo Limentani, the pro-
tagonist of Bassani’s last novel L’Airone. Like the narrator of the first-
person trilogy, Edgardo has repressed many of his feelings about the
days of persecution. However, in this novel Bassani departs from the
retrospective and memorializing style, which indirectly shows traces of
trauma, to focus explicitly on the after-effects of the past on the present-
day life of his character.
We know that Edgardo Limentani is a survivor, a survivor who es-
caped to Switzerland just in the nick of time so as to be able to avoid be-
ing rounded up and deported. He has now returned to Ferrara, where
he is trying, in vain, to settle back into normal life, but finds he can-
not – something has changed and that something is his own ability to
live in the here and now. This is the novel in which Bassani most clearly
focuses on what has today come to be known as ‘post-traumatic stress
disorder’ – the delayed and pervasive effects of the fear and dangers
Limentani experienced during the escape and about which he has re-
pressed his emotions.
It is this dogged refusal to admit and absorb the enormity of what
225
Lucienne Kroha
he and other Jews have been through that prevents him from engaging
in the mourning process that might make it possible to go on. Limen-
tani is still so much in the grips of his experience of flight that he me-
chanically and compulsively re-lives it without even being aware of it.
Depressed and desperate to shake off the feeling of unease and confine-
ment he is suffering from, he decides to go hunting, for the first time
since the passing of the Race Laws in 1938. There are many ironies in
this decision. The first is that Jews, as every one except Edgardo Limen-
tani seems to know, are not hunters 45, but Limentani has strayed so far
from his Jewish roots, and identified so closely with the Italian landed
classes, that he sees a hunting expedition as a totally fitting way to enjoy
some fresh air and get out of the stifling atmosphere of his home and of
Ferrara 46. The second irony of course, is that he himself is still feeling
like a hunted animal. The hunter will become the hunted as Limentani
unwittingly re-enacts his flight from Italy to Switzerland to escape the
Nazi hunt for Jews. At the day’s end he will take his own life after refus-
ing to shoot any birds and recognizing himself in the struggling heron
that his guide’s precise aim brings down. But his suicide will take place
only after he finally confronts, symbolically, a representative of his Fas-
cist tormentors.
Edgardo Limentani’s tale opens at the crack of dawn in his bedroom,
as he prepares to set out on his day trip. Before leaving he stops mo-
mentarily in the ground floor apartment of the building caretakers, his
family’s faithful servants for over forty years. At first their small, familiar
dwelling seems to provide a warm, womb-like refuge from the cold and
hostile world: «Oh, se avesse potuto nonostante tutto restare là, al caldo
della portineria, nascosto ai suoi di casa e a chiunque altro fino a sera!
In cambio avrebbe dato qualsiasi cosa» 47. However, after the exchange
of a few niceties, the elderly couple immediately seek his counsel and
intervention in a family dispute centered around their daughter’s shift-
less husband, an unemployed Communist whom they suspect of beating
her. Limentani’s imagination immediately casts this marital relationship
and had to do extensive research to write the novel (Perché ho scritto L’Airone, La fiera
letteraria, 14 November 1968, as quoted in Dolfi, 2003, 84-85).
46 «Edgardo Limentani cerca disperatamente di tornare al mondo uccidendo gli
animali come fanno tutti quanti i borghesoni della sua città. Anche lui cerca di fare altret-
tanto, ma non gli serve più, allora uccide se stesso» (In risposta [VII], in Bassani 1998,
1348).
47 Bassani 1991, 764.
226
In the Aftermath: Modalities of Memory in «Il romanzo di Ferrara»
48 Ivi, 765.
49 Ibidem.
50 Ivi, 766.
51 Ivi, 769.
227
Lucienne Kroha
Però, a conti fatti, erano davvero tanto peggio i fascisti di prima del ’43 in
confronto ai comunisti di adesso? […] Quanto a Bellagamba, magari era
vero, come sosteneva Nives, che dopo il periodo badogliano, si fosse messo
con quelli di Salò. Possibilissimo. Ad ogni modo se perfino i comunisti, che
oggi erano i padroni assoluti a Codigoro, lo lasciavano stare e prosperare,
per quale motivo avrebbe dovuto essere lui, proprio lui, a fare adesso delle
storie? Fra l’altro si sa: la Nives aveva la smania di dare addosso ai compa-
esani. E ogni occasione le veniva buona. 52
When he knocks at the door of the inn at five in the morning in search of
a place to relieve himself and Bellagamba asks «chi è?» Limentani’s an-
swer expresses the ultimate irony: «Amici, rispose piano» 53. In fact, he
denies his right to any anger – « lui non ce l’aveva con nessuna persona al
mondo, e con Bellagamba meno che meno» 54. However, when he finds
himself face to face with the Fascist, in the closed space of his office, what
the mind denies, the body speaks: «Col senso più che mai di trovarsi fuori
del mondo, non sapeva da che parte incominciare. Prendere qualcosa
nemmeno pensarci. Lo stomaco se lo sentiva chiuso come un pugno» 55.
As he makes his way up the stairs to the bathroom, he is struck
by the newly-found prosperity reflected in the renovations the inn has
undergone. He contrasts this with his own situation as a landowner-in-
distress incapable of adjusting to changing times and to changing meth-
ods of agriculture, rather than focusing on his real status: a nervous Jew
on his way to the enemy’s toilet (Leopold Bloom?):
Un altro nei suoi panni, infischiandosene delle minacce comuniste, un bel
giorno si sarebbe presentato alla Montina con tanto di scorta dei carabinie-
ri e avrebbe licenziato tutti […]. Un altro. Perché lui no. Lui dava ragione
alle banche, la Cassa Agricola di Ferrara compresa, pronte a concedere i
loro finanziamenti a chicchessia, addirittura a un Bellagamba, ma non a
certi «relitti del passato», come c’era caso di leggere perfino sopra giornali
governativi tipo il Giornale d’Emilia. Gli bastava pensare a se stesso come
agricoltore per rinunciare di colpo a qualsiasi progetto del genere e per
riconoscersi un sopravvissuto. 56
52 Ivi, 770.
53 Ivi, 771.
54 Ivi, 772.
55 Ivi, 773.
56 Ivi, 775-776.
228
In the Aftermath: Modalities of Memory in «Il romanzo di Ferrara»
the repressed emotions: «Ma niente, ancora una volta, niente: il ventre
non voleva saperne di vuotarglisi. Nonostante ogni sforzo sentiva che
neanche adesso ce l’avrebbe fatta, e che in ogni caso sarebbe appro-
dato a ben poco» 57. The toilet paper in the bathroom consists of cut-
up newspaper, bearing fragments of old headlines and articles. One of
them reads «[…] SANGUE EBRAICO – A POLONIA D’OGGI» and
speaks of continuing bloody persecutions of the Jews in Poland. In spite
of all that he has been through he has difficulty believing it: «Possibile?
Il tono dell’articolo gli sembrava eccessivamente enfatico. Chi l’aveva
scritto certo esagerava. Alla base, però, qualcosa di vero doveva pur es-
serci. Diamine – sogghignò – non potevano mica essere tutte balle!» 58.
As he is leaving the inn, he notices that Bellagamba «assomigliava
abbastanza al Mussolini degli ultimi anni» 59. He also notices that Bel-
lagamba is becoming increasingly solicitous, but rationalizes away any
unease and denies the reality of the situation: «Se non capiva male, vole-
va soltanto rassicurarlo, confermargli che non c’era nessun bisogno che
continuasse a darsi pena per delle ombre, pure e semplici» 60.
Finally Limentani leaves Codigoro to continue to the area where
he had arranged to be met by a guide. This is a particularly interesting
aspect of the story since it seems to evoke the flight to safety during the
worst days of the Repubblica di Salò. Almost all the Jews who fled to
Switzerland employed guides, known as passatori. Some were Resist-
ance fighters, some were smugglers, others were professional guides
specialized in clandestine border crossings. Not all these crossings went
well; in fact, many did not, for the guides could not all be trusted 61.
There is no reference to this aspect of the escape in the novel, but the
trauma of this flight seems to lurk behind the meeting of Limentani and
his guide. As soon as he sees him, Limentani immediately tries to ascer-
tain whether or not he is a Communist, but manages only to learn that
he had been a «partigiano combattente» 62 before the Liberation. Un-
like the Fascist Bellagamba, Gavino is taciturn, and this makes Edgardo
extremely uncomfortable, and he imagines that he is being looked at
with derision: «Quella vaga aria di scherno che gli circolava attorno agli
zigomi ossuti non era forse più eloquente e deprimente di qualsiasi di-
57 Ivi, 777.
58 Ivi, 778.
59 Ivi, 782.
60 Ivi, 784.
61 Zuccotti 1987, 234.
62 Bassani 1991, 803.
229
Lucienne Kroha
scorso?» 63. When they finally settle into the boat from which they will
be shooting ducks and other birds Limentani offers Gavino a rifle. At
first he refuses, claiming that as a guide his only job is «andare in giro a
raccogliere morti e feriti» 64, but then he relents.
It is the phrase «morti e feriti», which is part of the narrator’s re-
ported speech and not attributed directly to the guide, that suggests
that the hunting episode we are about to witness is one in which the
birds exist only as metaphors, as stand-ins for the victims of Nazi-fascist
violence:
Per più di un’ora rimase così, seduto col fucile in mano a guardare gli uc-
celli arrivargli sopra la testa. Non sparava. Non tentò di farlo nemmeno una
volta. A sparare, ad abbattere uno dopo l’altro gli uccelli che gli capitavano
a tiro, era soltanto Gavino, da dietro il suo cespuglio. Pam-pam. Pam-pam-
pam. Pam-pam-pam-pam. Pam-pam-pam-pam-pam. […] Il numero degli uc-
celli abbattuti da Gavino era salito in breve a una trentina. Accucciato den-
tro la botte, lui nel frattempo non faceva niente. Stava lì a guardare e basta.
Era un po’ sempre come se stesse sognando.
[…]
Niente più gli appariva come reale. Gavino […], la cagna […]. Lui stes-
so, seduto in botte col fucile in mano come Gavino, però inerte, incapace
di un solo gesto … Vero e non vero, visto e immaginato, vicino e lontano:
tutte le cose si mescolavano, si confondevano fra di loro. Perfino il tempo
normale, quello dei minuti e delle ore, non c’era più, non contava più. 65
63 Ivi, 804.
64 Ivi, 811.
65 Ivi, 817, 818, 819.
230
In the Aftermath: Modalities of Memory in «Il romanzo di Ferrara»
Of course none of this is clear to him, and he sits down at a table and
discusses the meal he is about to order calmly with his host. However,
he perceives Bellagamba differently this time: «Dal fondo delle orbite i
suoi occhi azzurri stavano fissandolo smarriti, così almeno gli sembrava:
con l’ansia, chissà perché, di un animale che fiuta il pericolo» 71. During
the meal, he is tormented again by the thought of his passivity at the
hunt: «Un colpo solo, lui, nonostante la doppietta che aveva in mano,
231
Lucienne Kroha
non era mai riuscito a trovare la forza di tirarlo» 72. Finally, when Bella-
gamba comes to ask whether the meal was satisfactory, Limentani finds
the courage to confront the Fascist, in a manner of speaking of course:
Alzò una mano, gli fece segno.
Passando rapido fra tavolo e tavolo, l’altro accorse.
«Andiamo bene?», domandò con aria preoccupata, accennando al piatto.
Inghiottì. Si asciugò le labbra col tovagliolo.
«Perfetto», rispose.
Non sapeva da che parte incominciare.
«Senta», disse alla fine. «Ho il bagaglio della macchina carico di bestie.
Le vuole lei?» 73
Just as Pino Barilari’s physical paralysis in Una notte del ’43 is the figural
representation of Pino’s spiritual reality – emotional paralysis – so here
72 Ivi, 834.
73 Ivi, 835.
74 Ivi, 838.
75 Ivi, 881.
232
In the Aftermath: Modalities of Memory in «Il romanzo di Ferrara»
Conclusion
Long before memory and trauma became the common currency that
they are today, Bassani was struggling with, and finding solutions to,
issues of Holocaust representation that have since been identified and
codified by contemporary theorists. By focusing on how the time of per-
secution lives on in the minds of those who experienced it, by showing
that memory is susceptible to both conscious manipulation and to the
vagaries of human desire and human foibles, that it involves inventing
as much as documenting, forgetting as much as remembering, he keeps
alive the memory of the Holocaust while assuring the integrity of his
representation.
Bibliography
233
Lucienne Kroha
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Nora, Pierre (1984-1992). Les Lieux de mémoire, 7 voll., Paris, Gallimard.
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Zuccotti, Susan (1987). The Italians and the Holocaust. Persecution, Rescue and
Survival, Lincoln, Nebraska, University of Nebraska Press.
234
12.
L’«ANTICO VOLTO MATERNO
DELLA MIA CITTÀ» 1
Micaela Rinaldi
zioni dai testi si è fatto riferimento, per comodità del lettore, all’edizione integrale delle
Opere con un saggio di Roberto Cotroneo e con una cronologia curato dallo stesso e da
Paola Bassani (Bassani 2001) riportando tra parentesi la data della princeps.
2 L’intervista «Meritare» il tempo è contenuta in Dolfi 1981, 87.
235
Micaela Rinaldi
236
L’«antico volto materno della mia città»
6 Terza classe, in Corriere Padano, 1 maggio 1935 (ora in Folli 1979, II, 26).
XI-LIII.
237
Micaela Rinaldi
238
L’«antico volto materno della mia città»
seguace del Novecento» dirà più tardi «volevo essere realista, ma non
provinciale» 10.
Subito dopo la pubblicazione, è già criticamente consapevole dei
limiti della propria scrittura di quegli anni. In una lettera a Cesare Za-
vattini, che porta la data del 10 settembre 1940 11, ringraziandolo delle
buone parole nei confronti dei propri racconti, sottolinea che quelle
storie sono già lontane da lui, che spera un giorno di avere la serenità
necessaria per poter scrivere quel romanzo che Zavattini si augurava
uscisse presto. Sostiene di essere ancora in una fase di acuta sofferenza,
di cristallization, come avrebbe detto Stendhal, uno che delle nebbie del-
la bassa sapeva qualcosa. Manca la distanza necessaria per poter scrivere
in modo libero, senza passioni angosciose tali da compromettere l’esito
complessivo del lavoro.
Nel maggio del 1943 la biografia è segnata da un’altra esperienza
importante benché dolorosa: la detenzione per cospirazione antifascista
nelle carceri ferraresi di Via Piangipane. Vi rimane fino a tutto luglio.
Una volta uscito, lascerà Ferrara per tornarvi solo a trovare la famiglia,
a presentare libri e da visitatore eccellente.
Infatti per sfuggire alle persecuzioni si trasferisce prima a Firenze,
dove frequenta l’ambiente di Giubbe Rosse – qui conosce Manlio Can-
cogni – e il Gabinetto Vieusseux. Nel dicembre del 1944 si sposta a
Roma, che diventerà la sua città di adozione. È qui che scrive tutte le sue
opere narrative e poetiche.
Roma, tuttavia, è solo il luogo fisico di composizione. I racconti,
i romanzi, perfino gran parte delle liriche, saranno sempre ambienta-
ti a Ferrara, quella «città di pianura» che senza essere compiutamente
definita, ma semplicemente abbozzata, già nel ’40 ha fatto da sfondo
alle storie che lo hanno proposto all’attenzione della cultura italiana. La
città estense rimane nella memoria come il paese della formazione, delle
esperienze importanti, quelle felici e inconsapevoli dell’infanzia e quel-
le dolorose ma vitali della giovinezza, fino a coincidere con il ricordo
dell’esclusione subìta.
Il paesaggio rimane nel suo cuore di rifugiato. Nel diario che scrive
una volta giunto nella capitale annota:
Questa notte pensavo a Ferrara, e non mi riusciva di dormire. Una città
agreste, con decorazioni di messi dorate lungo le strade trascorse da lenti
239
Micaela Rinaldi
carri di buoi, con viole, covili d’erba, case basse e cucine a pianterreno. E
tutto deserto per me, per i miei ritorni dai campi di ogni sera. 12
E, così, spesso Ferrara torna nella raccolta Storia di poveri amanti e altri
versi 13 che vede le stampe nel 1945 – la stesura è a partire dal 1942 – e
di cui spesso Bassani scrive qualche appunto sui libri che legge in quel
momento. Le ore predilette durante le quali rappresentare i paesaggi
sono quelle della sera, il sentimento prevalente è quello di una malin-
conia dolce.
Per poter scrivere di nuovo in prosa della sua città deve allontanare
la nostalgia, congelare la partecipazione emotiva, frapporre una distanza
nel tempo oltre che nello spazio che gli consenta di arrivare a quell’og-
gettività narrativa che trasformi il racconto in un’architettura armonica,
in un gioco di volumi e di spazi 14. Deve ancora «vedere le cose con la
pacatezza e la serenità disincantata dei sopravvissuti» 15, trasformare le
sue storie in un connubio equilibrato tra verità e immaginazione, tra
realtà e romanzesco.
Nelle prime prose dopo la guerra, pubblicate sulla rivista Botteghe
Oscure da lui diretta, la città ricompare definita con un acronimo: F.
Questo almeno fino al 1955, all’uscita, cioè, di Una notte del ’43 16. Poi,
la svolta: la conquista del nome, conseguita tra incertezze e ripensamen-
ti. Nel recensire la pubblicazione nel 1974 del primo libro de Il romanzo
di Ferrara, Dentro le mura, Pier Paolo Pasolini ricorda quel momento
decisivo: «Il problema era questo: continuare a scrivere ‘F.’ oppure scri-
vere chiaro e tondo ‘Ferrara’»? 17.
Non è una questione secondaria, né per Bassani, né per Pasolini che
infatti sottolinea quanto, prima di allora, l’amico ferrarese non potesse,
oggettivamente, guardare in faccia la realtà perché ancora profondamen-
te ferito dalla tragedia dell’esclusione patita. La città non poteva ancora
essere rappresentata come sede, tra il reale e l’immaginario, di storie
così fortemente vive nella mente dello scrittore 18.
13 Bassani 1945.
dell’ultima parte di un trittico di cui Gli occhiali d’oro dovevano costituire il primo tem-
po. Come è noto, i due romanzi profilati in questa lettera non videro mai la luce. Per la
trascrizione dell’epistola si veda Caretti 1995, 9-15.
16 Bassani 1955, 410-451.
17 Pasolini 1974.
240
L’«antico volto materno della mia città»
Chi visita oggi il comune emiliano non può non ricercarvi le atmosfere e
le suggestioni consegnate da Bassani alle parole del Romanzo di Ferrara,
che raccoglie in un grande affresco la narrativa, appunto, di argomento
ferrarese; nella sostanza, tutta la sua produzione in prosa. E di questo
Bassani stesso era consapevole se ne Il Giardino dei Finzi-Contini, com-
binando la realtà e la finzione romanzesca, dopo aver descritto Corso
Ercole I d’Este come la strada già di Carducci e di D’Annunzio e ora
luogo di residenza della famiglia, si lamenta che la Guida del Touring
non dia conto della storia del palazzo e del suo parco, destabilizzando il
turista curioso sulle tracce dei protagonisti del fortunato romanzo:
Però siamo giusti – scrive – il giardino, o per essere più precisi, il parco
sterminato che circondava casa Finzi-Contini prima della guerra, e spaziava
20 Gli estratti dalle riviste a cui si fa riferimento sono conservati presso l’archivio
241
Micaela Rinaldi
per quasi dieci ettari fin sotto le Mura degli Angeli, da una parte, e fino alla
barriera di Porta San Benedetto, dall’altra, rappresentando di per sé qual-
cosa di raro, di eccezionale (le Guide del Touring del primo Novecento non
mancavano mai di darne conto, con un tono curioso, tra lirico e mondano),
oggi non esiste più, letteralmente. 23
Com’è noto, la magna domus non c’è mai stata nella realtà: esisteva un
parco grande e incolto che si estendeva per lungo tratto ai piedi delle
mura, proprio là dove lo colloca l’autore.
La verosimiglianza è il canone prescelto per la scrittura dei raccon-
ti, come accade nella Passeggiata prima di cena (1953). L’incipit nasce
dalla descrizione di una cartolina che ritrae Corso Giovecca qual era
agli inizi del Novecento. Si tratta di un’immagine desunta da una foto-
grafia scattata da un’angolatura particolare: il cavalletto della macchina
è collocato all’inizio della via, a quei tempi solo una carraia divisa dalle
rotaie del tram, con alle spalle il castello estense e a destra «lo sperone»
del Teatro comunale. In fondo alla strada, affondando lo sguardo in lon-
tananza, a malapena distinguibile c’è la «Prospettiva», vale a dire una
delle porte della cinta muraria che consente l’accesso alla città. Oltre
alle coordinate spaziali, Bassani precisa anche il momento del giorno
in cui è probabile sia stata scattata la fotografia: «un dorato crepuscolo
primaverile emiliano», con la luce che converge sul lato sinistro dell’im-
magine, nell’ora che anticipa il «rito della cena».
La descrizione dallo spazio fisico passa alla rappresentazione degli
uomini che vivono la strada in quel particolare momento della giornata:
la cartolina prende vita scorrendo davanti agli occhi del lettore come
una pellicola cinematografica. Sulla scena, in primo piano, fanno capoli-
no personaggi diversi, di età e di estrazione sociale disparate: «il garzone
di una barbieria», uno scolaretto, un signore elegante in redingote. Più
difficile è dar conto delle persone che in quel momento si trovano a per-
correre la strada nella sua parte terminale, velata da una sorta di pulvi-
scolo. Di loro la fotografia non lascia testimonianza. A questa mancanza
supplisce l’immaginazione poetica: sul marciapiede sinistro, quello di
fronte all’Ospedale cittadino, forse cammina una giovane donna, di una
bellezza comune. Immersa nei suoi pensieri non si accorge di un uomo
che l’affianca e le rivolge alcune parole di cortesia. Da qui prende vita
la storia di Gemma Brondi e di Elia Corcos, protagonisti del racconto.
Spazio e tempo sono realistici, com’è probabile che sia esistita agli
inizi del Novecento, a Ferrara, una donna che abbia vissuto una vicenda
242
L’«antico volto materno della mia città»
243
Micaela Rinaldi
244
L’«antico volto materno della mia città»
Bibliografia
Bassani, Giorgio (1945). Storia di poveri amanti ed altri versi, Astrolabio, Roma.
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in Giorgio Bassani. Il giardino dei libri, Roma, De Luca Editori d’Arte 2004,
11-26.
246
13.
LETTURA RETORICA DEL
«GIARDINO DEI FINZI-CONTINI»
DI GIORGIO BASSANI
Francesco Longo
1 Cotroneo 1998, XI. Per Paola Frandini anche: «La città di Bassani è una creazio-
247
Francesco Longo
bro a raccontare questa impossibilità del dire, e visto che questa difficoltà
è posizionata proprio al centro della strategia della scrittura, si può so-
stenere, da un punto di vista retorico, che questo romanzo ha come suo
centro la figura retorica della reticenza 2. Il giardino dei Finzi-Contini,
se lo si legge in un’ottica retorica, potrà dunque essere inteso come un
romanzo sulla difficoltà del comunicare: un romanzo sulla reticenza.
Nella recente introduzione al volume che raccoglie gli scritti di Bas-
sani, che già nel titolo registra questa modalità reticente, intitolandosi
proprio La ferita indicibile, si legge: «Per Bassani tutto è immutabile.
Gli eventi, anche le immani tragedie, sono transitori: entrano nel pro-
fondo, ma non possono esser detti» 3. L’impossibilità, o almeno l’idea
che esprimersi comporti sforzi e inconvenienti, è inizialmente tutta del
protagonista. Il narratore è riluttante già nel primo capitolo a descri-
vere la strada di Ferrara, dichiarando come: «ogni descrizione di essa
è superflua» 4, salvo poi cimentarsi in una dettagliata relazione di quel
luogo. In questo clima di introversione espressiva si snoda tutta la sto-
ria dell’amore non vissuto. Per un bacio mancato, per esempio, il nar-
ratore recrimina a se stesso: «perché non l’avevo fatto sei mesi prima,
quando tutto era ancora possibile?» 5. All’insegna di simili sentimenti
non manifestati, si avvia anche la terza parte: «Infinite volte, nel corso
dell’inverno, della primavera e dell’estate che seguirono, tornai indietro
a ciò che tra Micòl e me era accaduto (o meglio non accaduto) dentro
alla carrozza» 6. L’incapacità di esternare le proprie emozioni e di non
saper cogliere i momenti chiave viene bene assunta nel testo col sistema-
tico sottrarsi delle parole. Il narratore prende consapevolezza, durante
il romanzo, e a volte anche con ironia, di tale resa al silenzio, tanto che a
proposito di un sogno in cui compaiono lui e Micòl, annota: «Senonché
tacevo, privo di coraggio perfino in sogno» 7. Anche nel sogno, quando
almeno l’inconscio potrebbe rivelare liberamente le zone più profonde
dell’io, si presenta la stessa remora. Questa timidezza espressiva, il ten-
roe Beardsley, come ricorda anche Paul de Man, con l’essenza stessa della letteratura,
caratterizzata per il fatto di essere: «decisamente al di sopra della norma quanto alla
proporzione di significato implicito rispetto a quello esplicito» (Beardsley 1973, 37, cit.
in De Man 1997, 18).
3 Cotroneo 1998, XXIII.
5 Ivi, 198.
6 Ivi, 125.
7 Ivi, 140.
248
Lettura retorica del «Giardino dei Finzi-Contini» di Giorgio Bassani
dere al tacere che frena il narratore, passa per contagio anche ad altri
personaggi che vengono a contatto con l’io che racconta.
A proposito del periodo di tempo in cui il narratore trascorre le
sue serate con Malnate (l’altro amico ospite tradizionale di casa Finzi-
Contini), per esempio, si legge: «eravamo entrambi d’un riserbo e d’una
delicatezza eccezionali» 8. E anche quando i due ragazzi, dopo un lungo
scambio di confidenze, trovano la serenità per affrontare argomenti dif-
ficili, il tutto avviene comunque all’interno di un grande rigore verbale:
«avevamo insensibilmente introdotto nelle nostre conversazioni nottur-
ne anche il tema, prima d’allora tabù, dei Finzi-Contini […] procedeva-
mo con molta cautela, attentissimi a non sbilanciarci» 9.
Questa circospezione nel pronunciare le cose letteralmente,
nell’esprimersi, nel dare nomi alle emozioni, nel prendere di petto i
tabù, segna l’intero romanzo e presto dilaga, innervando anche zone di-
stanti dal cuore narrativo occupato da questa vicenda. È interessante al-
lora osservare come la reticenza, che in alcuni luoghi del libro si fa quasi
argomento di discussione, e tema, sia lentamente messa in crisi proprio
dall’apparato retorico della scrittura letteraria. I tropi e la figuralità del
linguaggio letterario scuotono questa catena di silenzi, neutralizzando la
reticenza o rendendola impotente. Alcuni temi, infatti, che il narratore
è tentato di evitare letteralmente, che schiva grammaticalmente, riap-
paiono nel libro perché riportati, recuperati, ospitati in seno alle figu-
re retoriche che introducono nel testo gli elementi scartati. È possibile
proporre un’analisi retorica che individui i punti in cui certi argomenti,
che sembrano il più possibile evitati, tornano nel testo perché richiamati
da elementi retorici 10.
8 Ivi, 250.
9 Ivi, 262.
tre sue opere. È stata notata per esempio da Paola Frandini: «Gli piacevano l’ambiguità,
la reticenza, la ‘trama delle relazioni’, il senso pittorico» (2004, 58).
249
Francesco Longo
esplicito. Eppure, se si esclude il Prologo del libro, che non a caso è tenu-
to separato dal romanzo, in questo testo la catastrofe viene ugualmente
introdotta nel libro (fino a permearlo) quasi sempre attraverso modalità
retoriche. Nella prima parte del romanzo, per esempio, il tema compare
sotto le sembianze di un cambiamento climatico sul quale si insiste ri-
petutamente. È qui che viene spostata la drammaticità della situazione.
La vitalità minacciata dei ragazzi appare nelle pagine sotto forma
di un autunno luminoso che sembra estate. Il testo parla infatti di un
autunno che presenta un’anomalia meteorologica, un autunno in cui
«faceva caldo, nel giardino: quasi come se si fosse d’estate» 11. Si pre-
senta, con questa immagine, un qualcosa che è mascherato da vigore
(una bella stagione) ma che è votato ad una imminente decadenza (si è
già in autunno). Questo tema viene approfondito e declinato in diversi
modi. Approfittando della descrizione di questi pomeriggi ambigui, si
introduce un altro elemento che riguarda la percezione del pericolo,
ulteriore tema che il romanzo fugge soltanto come può. Il narratore
non dice mai, letteralmente, che nessuno si voleva rendere conto di
quello che stava per succedere. Non dice che i protagonisti ignorano la
tragedia che sta per colpire la loro società. Ma quanto si riesce a scon-
giurare letteralmente, il linguaggio è capace di reinserirlo, all’interno
di uno stesso brano, attraverso la dimensione retorica. Si tenga sotto
osservazione quello che accade in questa scena, da un punto di vista
delle figure retoriche.
L’autunno sembra estate. I ragazzi passano uno dei tanti pomeriggi
a giocare a tennis nel parco di casa Finzi-Contini. Si legge ad un certo
punto: «Quell’ultima luce invitava a continuare, a insistere in palleggi
non importa se ormai quasi ciechi» 12. La verità viene fuori in un mo-
mento impensabile. Per quanto si abbia la sensazione di un’estate anco-
ra vibrante, i pomeriggi non sono più veramente luminosi come quelli
estivi, è solo l’attività dei ragazzi a garantire il perdurare di una situazio-
ne estiva che è invece oggettivamente mutata. Poi, oltre all’anomalia di
un autunno che sembra estate, si assiste anche ad un’altra irregolarità:
una serata che sembra un pomeriggio. Quello che qui il testo comunica
è piuttosto chiaro: si continua a giocare nonostante sia buio. Tuttavia,
se si analizza meglio la frase, si può prendere atto di un qualcosa in più,
che rivela i meccanismi attivati dal linguaggio nel momento dell’espres-
sione. È evidente infatti che non possono essere esclusivamente i «pal-
250
Lettura retorica del «Giardino dei Finzi-Contini» di Giorgio Bassani
251
Francesco Longo
16 Ibidem.
17 È il narratore stesso, verso la fine del libro ad ammettere il proprio gusto per
l’amarezza: «Perché mi ostinavo a ritornare ogni giorno in quel luogo dove, lo sapevo,
non avrei potuto raccogliere che umiliazioni e amarezza? Non saprei dirlo esattamente
[…] magari, andavo proprio in cerca di umiliazioni e di amarezza […]» (Bassani 1962,
235).
252
Lettura retorica del «Giardino dei Finzi-Contini» di Giorgio Bassani
253
Francesco Longo
20 Nel catalogo dei libri della biblioteca di Giorgio Bassani, riportato nel volume
Le biblioteche di Giorgio Bassani, il libro Ventimila leghe sotto ai mari di Jules Verne non
compare. Di Verne Bassani possedeva sia Un inverno tra i ghiacci, che L’isola misteriosa
(Rinaldi 2004, 297). Nella presentazione al volume tuttavia Paola Bassani sottolinea come
la lista lacunosa dei titoli «testimonia al tempo stesso carenze, perdite, dispersioni crudeli
causate in larga misura dalla persecuzione e dalla guerra» (2004, 11).
21 Si fa ora riferimento in generale al testo di Genette 1997 [1982].
24 Ivi, 235.
254
Lettura retorica del «Giardino dei Finzi-Contini» di Giorgio Bassani
zione infatti è: «Finestrino circolare, nei fianchi o in altri luoghi del bastimento, fornito di
telaio e cerniera in bronzo, con vetro di forte spessore e coperchio interno, che agisce an-
che da oscuratore. La chiusura si opera per mezzo di chiavistelli a vite, articolati, muniti
di dadi ad orecchia o ad anelli, chiamati comunemente Galletti» (in Dizionario di marina
1937, 665).
26 Barthes 1974 [1957], 74.
255
Francesco Longo
30 Ibidem.
31 Che il giardino dei Finzi-Contini sia segno di chiusura è un vero luogo comune
della critica: «Di orti, parchi e giardini non v’è certo scarsezza nella letteratura dell’ultimo
Ottocento e del primo Novecento. Si pensi tra l’altro al glorioso sintagma dell’hortus
conclusus riapparso con vitalità nella temperie decadente e poi suggestivamente ritrovato
forse per sotterranee ascendenze israelitiche dal Bassani dei Finzi-Contini (che però forse
va ad affondare le sue radici, oltre l’immagine del Cantico dei cantici, nell’archetipo origi-
nario dell’Eden)»: in Giachery 1985, 25.
32 Bassani 1962, 174.
256
Lettura retorica del «Giardino dei Finzi-Contini» di Giorgio Bassani
36 In una lettera di Da una prigione, Bassani consiglia libri e autori per la sorella
Jenny: «Jenny farà bene a leggere, innanzi tutto, i grandi classici dell’800, italiani e stra-
nieri: Manzoni e Verga, come dicevo, e Nievo, e Stendhal, Hugo, Balzac, Poe, Melville,
Hawthorne, Defoe, Gogol, Puškin, Gončarov, Tolstoj, Dostoevskij, Flaubert, eccetera
eccetera» (Bassani 1998, 958).
37 Bassani 1962, 235.
257
Francesco Longo
maginare che Bassani si stia riferendo non solo alla corrente Maelstrom
che si trova al largo della Norvegia, ma proprio al racconto di Edgar
Allan Poe Una discesa nel Maelstrom. La tragedia dei Finzi-Contini si fa
allora presente con ulteriore forza se vista attraverso questa travolgente
evocazione letteraria. Il ricordo della fine dolorosa e catastrofica della
nave di quel racconto rievocato alla memoria del lettore rende ancora
più cupa e grandiosa l’agonia della storia che si sta leggendo, e il tutto
passa il più possibile inosservato.
Si può inoltre scorgere, combinando tra loro le due citazioni appena
analizzate, un percorso che unisce i due riferimenti: se la prima citazione
associa semplicemente la casa Finzi-Contini ad una nave leggendaria 38,
poi si chiarisce in modo esplicito che questa analogia della nave riguarda
il destino tragico, l’atto di sprofondare. Il legame tra queste due citazio-
ni non è però soltanto una ipotesi che si applica al testo nel momento
della lettura critica, cioè dall’esterno, in ritardo. Una correlazione, al di
là del riutilizzo di Bassani, esiste infatti davvero e in anticipo, tra i due
testi. Verne, nella scrittura di Ventimila leghe sotto i mari, come è stato
notato, «è costretto a prendere letteralmente in prestito due invenzioni
di Poe: la bianca cortina che sigilla il Gordon Pym e nientemeno che il
Maelstrom» 39.
A poche pagine dalla fine di Ventimila leghe sotto ai mari, si legge:
Ma una parola, venti volte ripetuta, una terribile parola mi svelò la causa di
quella commozione che si propagava a bordo del Nautilus. Non era già con
noi che il suo equipaggio se la pigliava.
– Maëlstrom! Maëlstrom! – si gridava.
Il Maëlstrom! Più spaventoso nome, in più spaventosa condizione, po-
teva mai risuonare al nostro orecchio? […] E il Nautilus era trascinato in
quell’abisso, appunto allora che il nostro canotto stava per staccarsi dai
suoi fianchi? 40
Tra i due testi esiste dunque già un legame indissolubile. I romanzi non
si legano tra loro solo per la scelta di una stessa corrente norvegese che
serve ai due autori come gorgo narrativo in cui far confluire entrambe
le storie. Verne si riferisce forse al testo di Poe: «Ma che cosa ne è del
Nautilus? Ha resistito alle strette del Maelstrom? Vive ancora il capita-
che sono, come il Nautilus, tema di una reclusione accarezzata», in Barthes 1975 [1957],
76.
39 Mari 2004, 318.
258
Lettura retorica del «Giardino dei Finzi-Contini» di Giorgio Bassani
41 Ivi, 412-413.
42 Genette 1997 [1982], 4.
43 Bassani 1962, 77.
259
Francesco Longo
45 Bassani 1962, 157. La poesia della Dickinson: I died for Beauty – but was scarce
/ Adjusted in the Tomb / When One who died for Truth, was lain / In an adjoing Room –
// He Questioned softly «Why I failed»? / «For Beauty», I replied – / «And I – for
Truth – Themself are One – / We Brethren, are», He said – // And so, as Kinsmen, met a
Night – / We talked between the Rooms – / Until the Moss had reached our lips – / And
covered up – our names – (Dickinson 1997, 494-496).
46 Mortara Garavelli 1999, 263.
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Lettura retorica del «Giardino dei Finzi-Contini» di Giorgio Bassani
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Francesco Longo
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Lettura retorica del «Giardino dei Finzi-Contini» di Giorgio Bassani
sé, non può apparire che delusivo, banale, insufficiente. […] La mia
ansia che il presente diventasse subito passato, perché potessi amarlo e
vagheggiarlo a mio agio, era anche sua, tale e quale» 50. Non è forse le-
cito leggere questo commento del narratore come una dichiarazione di
Giorgio Bassani sulla sua poetica, dichiarazione che il lettore del Giardi-
no dovrebbe utilizzare come chiave di lettura?
In questo brano, si osserva anche un’immagine metaforica molto den-
sa e ricca di significati. «Era il nostro vizio, questo: d’andare avanti con la
testa sempre voltata all’indietro» 51. Se si prova a decifrare, a dipanare i
significati di questa immagine, con i due protagonisti che avanzano te-
nendo la testa rivolta al contrario 52, si torna con estrema agevolezza
all’immagine, tutta ebraica, dell’angelo della storia di Walter Benjamin 53.
Coincidenza vuole, che nella pagina in cui Bassani discute prima del
potere della memoria («più del possesso delle cose contava la memo-
ria»), lo scrittore offra anche questa immagine simbolica di se stesso e
di Micòl come di due che procedono con la testa rivolta al contrario 54.
Giulio Schiavoni ha scritto, a proposito degli angeli talmudici, qualcosa
che tiene in sé tutti e due questi elementi e che può valere come un’ot-
tima definizione per i due personaggi di Bassani: «Questi angeli nuovi,
destinati a svanire dopo aver cantato l’inno all’Eterno sono esseri che,
nell’effimero della storia, effimeri essi stessi, serbano tuttavia memoria
del diverso, di una storia che va interrotta, e che custodiscono per gli
umani in quanto esseri effimeri l’incontro con la parola interrogata» 55.
Resta certo ambigua la posizione di Micòl nei confronti della me-
moria, del passato e della morte, ma la forza di questa figura femminile
50 Ivi, 224.
51 Ibidem.
52 Questa immagine non è isolata. Bassani in Muore un’epoca (1974), afferma che
potrà vivere solo «girato / perennemente all’indietro a guardare / verso quella testé /
finita», interessato unicamente alla sua vita di prima (in Frandini 2004, 23).
53 L’angelo che vola con la testa al contrario è in quegli anni una figura fortemente
presente nel panorama degli intellettuali ebrei. Walter Benjamin rimane stregato veden-
do il quadro di Paul Klee Angelus Novus del 1920. Il quadro passa dopo la guerra a
Theodor Adorno in America, poi viene affidato a Gershom Scholem. Scholem stesso nel
1921 aveva «scritto la lirica Gruß vom Engel (Saluto dall’angelo) dedicata a Benjamin»
(in Schiavoni 2001, 72). Nel 1931 l’angelo ritorna nelle pagine di Karl Krauss nel testo
Agesilaus Santander.
54 Alla maniera, tra l’altro, degli indovini danteschi.
55 Schiavoni 2001, 73. È Benjamin a parlare di questi angeli: «Non sono forse per-
fino gli angeli creati, secondo una leggenda talmudica – nuovi in ogni istante, in schiere
innumerevoli – perché dopo aver cantato il loro inno al cospetto del Signore, cessino e
svaniscano nel nulla?» (1982, 178).
263
Francesco Longo
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Lettura retorica del «Giardino dei Finzi-Contini» di Giorgio Bassani
«mi guardai bene dal farle notare come quanto mi diceva andasse scar-
samente d’accordo con la sua dichiarata avversione a qualsiasi tentativo
di sottrarre almeno per poco le cose, gli oggetti, alla morte inevitabile
che attendeva ‘anche loro’» 59.
Qual è dunque la posizione di Micòl? Tutto è ambiguo. Inaffidabile
sembra l’occhio con cui Micòl guarda se stessa, altrettanto inaffidabile
sembra lo sguardo del narratore, troppo coinvolto nella vicenda e poco
oggettivo circa la persona di Micòl.
Alcune volte, effettivamente, Micòl mostra avversione verso il pas-
sato. Per lei avere stile vuol dire guardare al futuro. Eppure nella vita
colleziona oggetti del passato. Altre volte scopriamo che «Micòl ripete-
va di continuo […] che il futuro, in sé, lei lo aborriva, ad esso preferen-
do di gran lunga «‘le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui ’, e il passato,
ancora di più, il caro, il dolce, il pio passato» 60. Giorgio Bassani scrit-
tore, tuttavia, quando non parla con la voce del personaggio-narratore,
riferendosi a Micòl, la descrive ancora in un modo nuovo e diverso. In
un’intervista a Ferdinando Camon, rivela: «Micòl dice che ama solo il
presente, o semmai il passato, il caro, il pio, il dolce passato: ma in realtà
è carica di vita e anela al futuro» 61.
265
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Lettura retorica del «Giardino dei Finzi-Contini» di Giorgio Bassani
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Francesco Longo
contro il passato, il tempo contro l’eterno. I morti non vivono nei cimiteri,
li abitano. 65
268
Lettura retorica del «Giardino dei Finzi-Contini» di Giorgio Bassani
72 Ivi, 167.
73 Ivi, 232.
269
Francesco Longo
Bibliografia
270
14.
KORE L’OSCURA
(In)seguendo Micòl
Claudio Cazzola
Così, insieme con altre riflessioni del medesimo tenore, la figlia Pao-
la presenta, e nel contempo spiega e giustifica, la pubblicazione degli
Scritti civili di Giorgio Bassani, sottolineando l’intreccio indissolubile
che ne tiene insieme tutta la produzione in qualsivoglia forma redat-
ta, da un lato, e dall’altro la presenza costante di quel labor limae di
ascendenza classica fino alla fine perseguito con inesausta tenacia. Va
da sé che il Nostro è animato, nel condurre la propria battaglia ideale e
stilistica, da un concetto forte, da una nozione guida più illuminante di
ogni altra, una base solida che faccia da fondamenta alla ricostruzione
del cosmo lacerato dalle ingiustizie della Storia. In una intervista del
dicembre 1973, alla consueta domanda circa il contrasto irriducibile che
esisterebbe fra il progresso tecnologico e la salvaguardia dell’ambiente,
la risposta è la seguente:
No, non penso che esista questo contrasto. Cioè noi consideriamo il mon-
do industriale come il frutto supremo, come la fase più avanzata della no-
1 Bassani 2005, XVI. L’esergo è contenuto in una lettera inviata alla sorella Jenny
271
Claudio Cazzola
stra civiltà, dell’elaborazione culturale che è nata qui. Allo stesso tempo ci
rendiamo conto che è proprio da questa civiltà industriale, se non con-
trollata, che possono nascere veleni destinati a distruggerla. Noi siamo qui
proprio per dire che occorre fare attenzione, che se si dimenticano le pro-
prie radici culturali si finisce per autodistruggersi. Occorre assolutamente
che la società tecnologica e industriale si dia una «religione», che rinunci
alla legge del puro profitto, che la smetta di considerare l’uomo come un
semplice tramite di consumi. Solo così potrà salvarsi. Solo così potrà en-
trare in dibattito attivo, utile, con altre civiltà che non sono fondate sul
profitto. 2
2 Bassani 2005, 76-77. Sull’impegno ambientalista dello scrittore cfr. anche Spila-
Zagra 2007, e, prima, la messa a punto di Gianni Venturi in Venturi 2006b, 233-239.
3 Bassani 2005, 79.
272
Kore l’oscura. (In)seguendo Micòl
4 Si vedano le pagelle finali del curriculum degli studi inferiori e superiori in Qua-
zione critica è il recentissimo Prebys 2010; per la bibliografia storica, cfr. Prebys 2002;
273
Claudio Cazzola
2. Verso il Giardino
La bocciatura in matematica, ricevuta in occasione dello scrutinio di
giugno del quarto anno di ginnasio 7, rappresenta la causa prima che
mette in moto l’azione del romanzo. L’emozione, lo sbalordimento, la
vergogna per una simile onta impediscono all’io narrante di ragionare
con calma sul fattaccio, obbligandolo ad inforcare la bicicletta in dire-
zione opposta a quella di casa, proprio all’estrema periferia dell’abitato:
Mi trovavo circa a metà di quel tratto delle mura urbane, lungo su per
giù tre chilometri, che comincia dal punto dove corso Ercole I d’Este ha
termine per finire a Porta San Benedetto, di fronte alla stazione. Il luogo è
sempre stato particolarmente solitario. Lo era trent’anni fa, e lo è ancor og-
gi, nonostante che a destra, soprattutto, cioè dal lato della Zona industriale,
siano spuntate dal ’45 in poi decine e decine di variopinte casette operaie,
a paragone delle quali, e delle ciminiere e dei capannoni che fanno loro da
sfondo, il bruno, cespuglioso, selvaggio sperone semidiroccato del baluar-
do quattrocentesco appare di giorno in giorno più assurdo. 8
Bassani 2001, 1803-1842. Sul romanzo, di cui ci stiamo occupando, si rinvia alla messa a
punto operata dai contributi raccolti in Dolfi-Venturi 2006, a partire dagli interventi di
Gianni Venturi (Prime risultanze su uno scrittore: 15-28; Dimenticare Euridice. Il desti-
no infero di Micòl Finzi Contini: 91-102). Roveri 2009 delinea una lettura che intreccia
finzione romanzesca ed impegno politico. Per un utile profilo complessivo aggiornato,
Renda 2010.
7 «Non farai mica una tragedia per un cinque in matematica!» (Bassani 2001,
351), mentre nella realtà biografica, si tratta addirittura di un ‘quattro’: Quaderno 2004,
112. Al suo illustre allievo, oltre ad aver intitolato lo spazio incontri e conferenze con an-
nessa bacheca documentaria, il Liceo classico statale Ludovico Ariosto di Ferrara dedica
almeno una giornata di studi annuale in coincidenza con il quattro marzo, anniversario
della nascita, con relative pubblicazioni inserite in una apposita collana consultabile sul
sito web www.liceoariosto.it (vedi anche Quaderno 2005 e Quaderno 2006).
8 Bassani 2001, 353-354.
274
Kore l’oscura. (In)seguendo Micòl
nascosto fra le braccia. Aria calda e ventilata attorno al corpo disteso, de-
siderio esclusivo di rimanere il più a lungo possibile così, ad occhi chiusi.
Nel coro narcotizzante delle cicale qualche suono non lontano spiccava
isolato: un grido di gallo, uno sbattere di panni prodotto verosimilmente
da una lavandaia attardatasi a fare il bucato nell’acqua verdastra del canale
Panfilio, e infine, vicinissimo, a pochi centimetri dall’orecchio, il ticchettio
via via più lento della ruota posteriore della bicicletta ancora in cerca del
punto di immobilità. 9
Se la vista non funziona per volontà del protagonista, ecco il trionfo del-
la facoltà uditiva, considerato che il vedere con gli orecchi è la condizio-
ne precipua di coloro che assistono ad una esecuzione aedica nel mondo
greco – ed il cantore medesimo, di norma, è cieco. Ecco dunque il coro
delle cicale, che sottrae il soggetto ad ogni controllo razionale, esatta-
mente come la compagine dei coreuti esalta l’elemento dionisiaco che
scatena la fantasia; a far da contrappunto alla musica di fondo tre rumo-
ri, di cui nessuno emesso direttamente dall’uomo: il canto di un gallo, il
tonfo ripetuto di panni sbattuti sopra la pietra del lavatoio fluviale, l’im-
percettibile gracidio prodotto da una ruota della bicicletta ancora non
del tutto immobile (e non sfugga la rigorosa precisazione di ruota po-
steriore, parte che rimane normalmente staccata da terra, parcheggian-
do il mezzo meccanico inclinato sul manubrio). Se facciamo attenzione
all’ora in cui è collocata l’avventura (verso le due del pomeriggio), non
sembrerà oziosa la percezione del grido di gallo: per credenze tuttora vive
nella memoria popolare, specie nel contado, la voce di un simile animale
emessa dopo mezzogiorno preannuncia sventura, cataclisma, morte 10.
E proprio un evento di tal genere partorisce lo scatenamento della fan-
tasia dionisiaca del personaggio, che già durante il viaggio di allontana-
mento dal centro abitato meditava confusi progetti suicidi. Egli immagi-
na che la famiglia, informata della non promozione del figlio da parte di
un compagno di classe e allarmata per la sua assenza, si rechi addirittura
in questura nelle sembianze del padre così teatralmente trasfigurate:
C’era andato il papà a parlare col questore in Castello. Mi pareva di veder-
lo: balbettante, invecchiato in modo pauroso, ridotto l’ombra di se stesso.
10 Pure l’introduzione del canale Panfilio, dal quale proviene il tonfo prodotto dal
lavaggio dei panni, può essere segnale infernale: infatti, nella realtà delle cose, detto con-
dotto d’acqua non si trova in superficie, ma sotto, interrato com’è e sostituito dal viale
Cavour che mena dal Castello verso la stazione ferroviaria, fuori porta San Benedetto:
e siamo così in zona Finzi-Contini. Quanto al lavacro degli indumenti, si veda infra il
riferimento al libro sesto dell’Odissea omerica.
275
Claudio Cazzola
Siamo di fronte all’operazione ben nota del ‘mostrare con il dito indice’,
che rinvia al verbo latino indigetare ovvero indigitare, appartenente al
repertorio lessicale del cerimoniale sacro, allorché registra le modalità
esatte con cui il sacerdote invoca una divinità con tutti i suoi nomi ed
appellativi per ‘tirarla giù’, al fine di annullare, grazie al rito, la distanza
immensa che separa i due mondi, umano e divino. Lo spazio ritagliato,
questa volta, non si trova nella metà convessa del cosmo, bensì nella
simmetrica, quella concava, scavata nel ventre della madre terra, ed ap-
partenente alla specie dei montarozzi etruschi, come viene sottolineato a
chiare lettere dal narratore. Ora, il lettore di queste righe ha già visto tali
luoghi, ed esattamente nel Prologo del romanzo (e non sfugga codesto
termine specifico del lessico teatrale greco), laddove assistiamo ad una
gita domenicale da Roma al mare di una compagnia di amici, i quali,
al rientro in città, compiono una deviazione non prevista verso Cerve-
12 Non si può non andare con il pensiero a Fleba il Fenicio, protagonista della
quarta sezione (Death by Water) che compone il poemetto di Thomas Stearns Eliot The
Waste Land. Su Bassani traduttore di Eliot cfr. Quaderno 2005, 127-130.
13 Bassani 2001, 361.
276
Kore l’oscura. (In)seguendo Micòl
277
Claudio Cazzola
3. Kore
La famiglia dei Finzi-Contini appartiene allora a buon diritto alla civiltà
etrusca, i cui membri sono sempre stati morti – come abbiamo ascoltato
pocanzi; la casa, il giardino, il campo da tennis e gli edifici annessi costi-
tuiscono una specie di città di Dite chiusa da tempo immemorabile. Vice-
versa, fuori dalla magna domus, e contemporaneamente fuori dal centro
abitato, in analogia con la necropoli etrusca ma senza un appiattimento
totale con essa, ecco un altro oltretomba di raffinata ambiguità, quello in
cui viene invitato il protagonista, smanioso di passare, comunque, oltre.
Per compiere il viaggio dei viaggi, quello del trasumanar di dan-
tesca memoria, è necessaria una guida, come ben sa il già allievo del
regio liceo-ginnasio Ludovico Ariosto, formatosi su Omero e Virgilio
16 Ivi, 361-362.
17 Ivi, 1346.
278
Kore l’oscura. (In)seguendo Micòl
non solo del Nostro, ma anche di altri allievi fra cui il filologo e storico della letteratura
italiana Lanfranco Caretti, il giornalista e scrittore Gaetano Tumiati e il regista Michelan-
gelo Antonioni, è Francesco Viviani, docente di greco e latino, al quale Bassani invia, in
occasione del trasferimento punitivo di lui antifascista irriducibile, nel 1936, da Ferrara
a Sciacca, una lettera che si conclude così: «Mi è grato ricordare, in questo momento
doloroso, queste Sue elette qualità, e tanto più perché è per esse soprattutto se sono cre-
sciuto ad oggi uomo, nella pienezza dell’anima aperta ad ogni bellezza, ad ogni altezza;
uomo, nell’amore sconfinato che porto alla libertà e alla giustizia» (Quaderno 1999, 183).
Viviani, presenza forte nell’officina letteraria bassaniana, è adombrato pure nel romanzo
Dietro la porta nella figura del professor Guzzo, per il quale mi permetto di rinviare a
Cazzola 2006, 207-220. Per il contesto storico-culturale sempre necessario è il ricorso a
Moretti 1979 e Folli 1979. Ultimamente sono intervenuto sul Professor Viviani anche in
un film-documentario (Bassani 2011).
19 Si segue il testo proposto da Paratore 1992, 82-84 (per il relativo commento
279
Claudio Cazzola
Dal livello subumano del linguaggio, costituito dal ronzio del mezzo
meccanico, si passa alla minima emissione prodotta da un sospiro, esat-
tamente pari a quello soffuso dal Demiurgo nell’atto originario della
creazione, in due momenti solo apparentemente uguali, considerato che
il punto esclamativo aggiunto alla seconda uscita ne rafforza l’intensità,
al fine di ottenere il risultato sperato. È il momento ben noto della ri-
nascita da una morte anche solo apparente, come quella sperimentata
dal protagonista (Mi svegliai di soprassalto) mentre gode di vedere, in
sogno, la disperazione paterna appena sopra riportata. Se è lecito rin-
tracciare un archetipo di tale momento compositivo, sottoposto alla
consueta rielaborazione bassaniana, esso va con ogni probabilità cercato
nell’Odissea, laddove il risveglio dell’eroe dalla morte per acqua appena
prima sperimentata nella sua terribile pericolosità è così provocato:
Ma quando, aggiogate le mule e ripiegate le belle vesti, si accinse a muover-
si verso casa, altro allora pensò Atena divina dagli occhi azzurri perché si
280
Kore l’oscura. (In)seguendo Micòl
Nausicaa, figlia del re dei Feaci Alcinoo, recatasi al fiume dalla profon-
da corrente con le ancelle per lavare le splendide vesti della famiglia,
su macchinazione della dea Atena protettrice dell’eroe si produce nel
gioco della palla, in attesa che i panni si asciughino stesi al raggio del
sole: il contesto è altamente esclusivo, non vi è traccia di presenza ma-
schile, tanto è vero che la principessa e le sue accolite liberano il capo
dai veli, in assoluta sicurezza della propria incolumità. Si tratta di un
cronotopo di genuina sacralità, certificato dall’atto della purificazione
con acqua (ed esse presero dal carro fra le braccia le vesti, e le portavano
all’acqua scura, le pestavano nei botri sfidandosi a gara. Dopo averle lavate
spurgandole d’ogni sporcizia, le stesero in fila sulla riva del mare, là dove
l’acqua meglio lavava la ghiaia sulla battigia), preparatorio al momento
misterico della nascita/rinascita, cui Nausicaa, quale divina levatrice, so-
vrintende. Ed è esattamente il tenero grido udito da Odisseo che riman-
da ad altri esseri, soprannaturali, abitatori di spazi incontaminati, mai
percorsi da piede profano (vedi l’Eneide), che può giungere, attenuato
e reso appena appena udibile a causa del numero di secoli intercorso
che ne modifica il tenore, fino al «Pss!» percepito dal nostro eroe, il
quale pure lui, novello Odisseo, resta sconcertato e senza riferimenti di
sorta, da creatura appena (ri)nata, bisognosa di tutto. E nella medesima
condizione di smarrimento totale l’eroe dell’Odissea si trova pure in oc-
casione di un secondo naufragio, allorché – abbandonato dai marinai
feaci mentre dorme su una terra ignota – prorompe in lamenti presso-
ché identici a quelli sopra ricordati (Ohimè, alla terra di quali uomini
arrivo questa volta? Violenti e selvaggi e senza giustizia o invece ospitali e
con mente pia?), in attesa di essere soccorso da una epifania divina fem-
minile, l’alleata di sempre, la dea Atena sotto le mentite spoglie di un
giovane pastore di greggi. Cecità dunque, come perdita assoluta di ogni
21 Odissea, 6, vv. 110-126 in Ferrari 2001, 253. Per l’indispensabile commento con
281
Claudio Cazzola
Non può esservi altro stilema verbale che il riconobbi per segnalare,
da parte dello scrittore, l’ascendenza classica della presente operazio-
ne narrativa. Il riconoscimento infatti rappresenta, a partire dal poema
odissiaco, uno dei momenti chiave della tecnica compositiva, quando,
proprio in presenza del massimo livello di smarrimento, di crisi, di
sconfitta vissuto dal protagonista di un testo, l’agnizione produce ina-
spettatamente quella catastrofe tanto attesa a lungo e a lungo desiderata
dall’uditorio appeso alle labbra del cantore. Tante volte viene chiesto
ad Odisseo di dare un segno per consentirne il riscontro di identità, al-
trettante volte la sagacia dell’uomo dalle mille risorse riesce a mettere in
campo in modo plausibile l’operazione richiesta, mantenendo sempre
intatto il proprio fascino di autentica inconoscibilità. Bassani costruisce,
mediante codesta figura retorica, un vero e proprio ritratto – un bu-
23 Ibidem. L’identificazione di Micòl come fille aux cheveux de lin proviene dal ti-
tolo dell’ottavo pezzo del primo libro dei Préludes di Claude Debussy, la cui didascalia
(Très calme et doucement expressif ) ben si adatta alla presente messa in scena. Sul perso-
naggio di Micòl importante Farnetti 2006, 111-116.
282
Kore l’oscura. (In)seguendo Micòl
24 Scarpi 1996, 21-23 (la traduzione è di Maria Grazia Ciani; commento e biblio-
283
Claudio Cazzola
25 Il testo delle Metamorfosi ovidiane segue Lafaye 1969, 141-142 (traduzione mia).
284
Kore l’oscura. (In)seguendo Micòl
285
Claudio Cazzola
286
Kore l’oscura. (In)seguendo Micòl
30 Ivi, 359.
31 Inferno 34, rispettivamente v. 82 e vv. 98-99.
32 Ivi, v. 83.
287
Claudio Cazzola
[…]
«Vieni», disse, tutta rossa e scarmigliata.
Si volse, e prese ad arrampicarsi di traverso lungo la proda assolata
dell’argine. Si aiutava con la mano destra, afferrandosi ai ciuffi dell’erba;
intanto, la sinistra levata all’altezza del capo, veniva togliendosi e rimetten-
dosi il cerchietto ferma-capelli. Ripeté la manovra più volte, svelta come se
si pettinasse. 33
Per entrare scavalcando il muro, non serve affatto la bicicletta: alla fer-
ma opposizione di abbandonarla incustodita da parte del protagonista,
la maestra che tutto sa scende dal muro di cinta della sua casa e si iner-
pica per il pendio delle mura di Ferrara, utilizzando come strumento
indicatore per ritagliare lo spazio il cerchietto ferma-capelli: eccellente
prova di incursione bassaniana nella sacralità dell’odissiaca Nausicaa
dalle candide braccia, cui si unisce la memoria della Sibilla virgiliana,
caratterizzata da non vultus, non color unus, / non comptae […] comae
(il che si riverbera nel tratto «tutta rossa e scarmigliata»). Non vi è, in
codesta compresenza di elementi classici, pedissequa imitazione, caso-
mai l’adozione della tecnica, altrettanto antica, dell’aemulatio, ovvero
dell’arte allusiva, quella che sfida il lettore a rintracciare la gamma dei
modelli e a misurare la percentuale di originalità, nella tradizione con-
solidata, del nuovo parto letterario. Questa Micòl allora, artisticamente
evocata da fonti diverse saldamente ancorate nelle radici della cultu-
ra occidentale e inserita nel contesto borghese della città di pianura,
si configura sostanzialmente inafferrabile, sfuggente ad ogni esaustiva
definizione, identificabile solamente attraverso il segno della negazione
(ella non è Nausicaa, non è Circe, non è Sibilla: non è insomma Kore
classicamente e semplicemente intesa). Nel mentre, siamo giunti al
punto da dove eravamo partiti, vale a dire alla montagnola che rinvia
ai montarozzi etruschi del prologo già citato: qui è il luogo prescelto da
Micòl per nascondere, sottoterra, la bicicletta, la quale occupa il posto,
novecentesco, delle armi di epoca rinascimentale.
33 Bassani 2001, 361 (le citazioni in corpo di frase appartengono al medesimo con-
testo).
288
Kore l’oscura. (In)seguendo Micòl
4. La discesa
Il luogo prescelto per la discesa è da un lato sconosciuto all’aspirante
al mistero, mentre la guida ne possiede saldamente il filo: terminato il
confronto iniziale fra allievo e maestra, è il momento della partenza, per
il quale il rinvio alla corrispondente situazione della Commedia è quanto
mai appropriato:
Si mosse, decisa, ed io, raccolta la Wolsit da terra, le tenni dietro in silen-
zio. 34
Allor si mosse, e io li tenni retro. 35
Il passo può essere a buon diritto assunto come esemplare illustrazione
dell’allusività bassaniana, laddove i due verbi reggenti del testo dan-
tesco vengono mantenuti intatti morfologicamente e strutturalmente;
fra i due segmenti in polisindeto viene inserita una sequenza che imita
l’ablativo assoluto latino (raccolta la Wolsit da terra) in chiave dichiara-
tamente oggettiva in direzione di una contestualizzazione filologica del
fatto; infine, la clausola esplicitaria (in silenzio) rinnova l’aura di sacra-
lità propria di una iniziazione. Possiamo, a questo punto, seguire passo
dopo passo l’itinerario della catabasi dell’eroe, cui l’autore dedica un’at-
tenzione parcellizzata istante per istante, come fotogrammi di un film da
fermare per sempre contro il loro effimero passaggio davanti agli occhi.
In primo luogo, la soglia:
La raggiunsi sulla soglia del pertugio. Era una sorta di fessura verticale,
tagliata al vivo nella coltre d’erba che rivestiva compatta il monticello: così
stretta da non consentire il passaggio a più di una persona per volta. Imme-
diatamente di là dalla soglia cominciava la discesa, e se ne vedeva per otto,
dieci metri, non di più. Oltre, non c’erano che tenebre. Come se il cunicolo
andasse e finire contro una tenda nera.
Si sporse a guardare, poi d’un tratto si girò.
«Va’ giù tu», bisbigliò, e sorrideva debolmente, imbarazzata. «Preferisco
aspettarti qua sopra.»
Si tirò da una parte, congiungendo le mani dietro la schiena, e addossan-
dosi alla parete d’erba, di fianco all’ingresso.
«Non ti farà mica impressione?», chiese, sempre sottovoce.
«No, no», mentii, e mi chinai per sollevare la bicicletta e mettermela in
ispalla.
Senza aggiungere altro le passai davanti, inoltrandomi nel cunicolo. 36
34 Ivi, 362.
35 Inferno 1, v. 136.
36 Bassani 2001, 362.
289
Claudio Cazzola
Dovevo procedere adagio, anche per via della bicicletta il cui pedale di
destra non faceva che urtare nella parete; e da principio, per tre o quattro
metri almeno, fui come cieco, non vedevo nulla, assolutamente.
[…]
Cominciai a scendere gli scalini. Filtrando attraverso il cunicolo, veniva
da dietro qualche debole raggio di luce, adesso me ne accorgevo. E un po’
con la vista, un po’ con l’udito (bastava che urtassi con la bicicletta nella
parete, o un tallone mi slittasse giù da un gradino, e subito l’eco ingigantiva
e moltiplicava il suono, misurando spazi e distanze), ben presto mi resi
conto della vastità dell’ambiente. 37
L’urtar che fece la barca contro la proda del modello manzoniano si rifor-
mula nella duplice scrittura urtare nella parete e urtassi con la bicicletta
nella parete, mantenendo intatto tutta la propria carica allitterante, se
38 A. Manzoni, I promessi sposi, capitolo IX, incipit. Oltre all’epigrafe apposta alla
pubblicazione nel 1980 del Romanzo di Ferrara, l’interesse per l’opera manzoniana è
dimostrato, fra l’altro, dal relativo esperimento di sceneggiatura televisiva (Bassani 2007).
290
Kore l’oscura. (In)seguendo Micòl
Il vincitore della gara con l’arco, perpetrata la strage dei centootto Pre-
tendenti, offre alla regina di Itaca l’ultima prova della propria identità
mediante il racconto della fabbricazione del talamo, cioè della stanza da
letto della coppia sovrana dell’isola: a questo punto possono realizzarsi,
di nuovo, nozze adeguate – vedi la preparazione minuziosa del letto,
vedi l’accompagno, con torcia nuziale, al buio, verso il luogo dell’unione
di due esseri in uno; che si tratti di un rituale che prevede la ripetizio-
ne della prima volta è chiaramente indicato dalla sequenza contenuta
nell’ultimo verso. L’intimità, nella tradizione letteraria, possiede come
segno di agnizione privilegiato il bacio, non a caso prescelto dal narra-
tore come nucleo onirico attorno al quale far crescere un doppio itine-
rario compositivo contrapposto al suo interno a seconda della presenza
o dell’assenza del raggiungimento della conoscenza totale, da parte del
protagonista, della sua guida. Il rifiuto di accedere alle modalità presenti
nei film e nei romanzi viene sbrigativamente rubricato sotto la colonna
degli acquisti (Oh, ma questo non era accaduto, fortunatamente. Meno
male che mi ero salvato) 40, per raggiungere subito, senza ripensamenti
39 Odissea, 23, vv. 288-301 passim in Ferrari 2001, 795. In Rinaldi 2004, 219 si legge
la seguente dedica di Giovanna Bemporad in testa alla copia della traduzione dell’Odis-
sea donata allo scrittore: «A Giorgio / sperando che in lui / si rinnovi il meraviglioso /
incontro con la poesia d’Omero / affettuosamente / Giovanna / Roma, gennaio 1991».
40 Bassani 2001, 364.
291
Claudio Cazzola
41 Ivi, 365.
292
Kore l’oscura. (In)seguendo Micòl
Il punto di vista dal quale è ritratta questa scena non è scelto affatto
a caso. Via Scandiana, a Ferrara, significa Palazzo Schifanoia, che col
suo splendido giardino interno giunge a toccare idealmente via Cisterna
del Follo, luogo di residenza del narratore e, di concerto, dell’Auto-
re. Appostato presso il sogno rinascimentale di Borso d’Este, il nostro
‘ri-vede’ la sua casa con gli occhi di chi ne è ora escluso – novello Odis-
seo che trema di sconforto e freme di rabbia nel constatare cosa è di-
ventata la sua dimora (la mia camera da letto adattata ormai a salotto);
la totale assenza di movimento vitale è all’improvviso popolata dalla
inevitabile figura paterna, osservata nella sua impenetrabilità consue-
tudinaria – ritorno, come ogni volta, dal Circolo, e, come ogni volta,
dettagliata descrizione degli atti compiuti, inquadrati realisticamente
dalla telecamera spietata dello scrittore, che questa volta arriva a met-
tere una pietra tombale sul paterfamilias mediante il tonfo del portone
esterno dell’abitazione che risuona cupo nella notte. Eliminata la pre-
senza conflittuale dell’antagonista paterno, tutta la descrizione della vita
alternativa del protagonista si svolge sotto il segno della tutela femmini-
le, rappresentata da Micòl-Kore: ma Kore ha una madre, Demetra, che
è in pena per lei, che non abbandona mai la ricerca della figlia, che per
il dolore della perdita soffre al punto di arrivare a rifiutare la vita. Ebbe-
ne, qui non è la fanciulla in fiore ad avere una madre in lutto, bensì lui,
l’Orfeo cercatore inconsolabile di Euridice:
E la mamma? Non potevo tentare un giorno o l’altro di far sapere almeno
a lei, per tramite di Micòl, magari, che non ero morto? E rivederla, anche,
prima che, stanco della mia vita sotterranea, me ne andassi via da Ferrara e
sparissi definitivamente? Perché no? Sicuro che lo potevo! 43
293
Claudio Cazzola
44 Ivi, 419.
45 Ivi, 416.
294
Kore l’oscura. (In)seguendo Micòl
46 Ivi, 417.
47 Ivi, 416.
48 Ibidem.
49 Virgilio, Eneide 6, vv. 302-304 (in Paratore 1992, 86 e commento relativo, 257-
295
Claudio Cazzola
296
Kore l’oscura. (In)seguendo Micòl
52 Ivi, 366.
53 Eneide 6, vv. 424-425 (in Paratore 1992, 94). La traduzione è mia.
297
Claudio Cazzola
Alla fine mi ritrovai all’aperto; e Micòl non stava più ad aspettarmi dove
l’avevo lasciata poco prima, bensì, come vidi quasi subito facendomi scher-
mo con la mano dalla luce del sole, di nuovo laggiù, seduta a cavalcioni del
muro di cinta del Barchetto del Duca. 54
55 Ivi, 366.
56 Il passo si dimostra palese ripresa interna del finale del quarto capitolo della
prima parte (Lo guardavo. Sotto di lui, per tutto il tempo che durava la benedizione, Alberto
e Micòl non smettevano di esplorare anche essi fra gli spiragli della loro tenda. E mi sorri-
devano, e mi ammiccavano, ambedue curiosamente invitanti: specie Micòl [Bassani 2001,
348]).
57 Per il testo latino relativo all’episodio si segue Barchiesi 1980, con mia tradu-
zione. Liceo classico sì, ma anche testi posseduti da compulsare assiduamente, come è
dimostrato in Rinaldi 2004 (a mo’ di esempio: Eschilo [37-38]; Anacreonte e Saffo [42];
Aristofane [45]; Cicerone [113]; Euripide [138-139]; Hrosvita [167]; Livio [186]; il ma-
nuale di storia della letteratura latina di Concetto Marchesi [195]; Omero [219]; Ovidio
[221]; Plauto [235]; Seneca [262-263]; Sofocle [272]; Trattato del Sublime [277]; Tacito
[278]; Virgilio [297]).
298
Kore l’oscura. (In)seguendo Micòl
58 L’epifanica espressione è ricavata dal titolo del primo capitolo di Dolfi 1981,
299
Claudio Cazzola
Bibliografia
300
Kore l’oscura. (In)seguendo Micòl
301
15.
BASSANI LETTORE DI PETRARCA?
Spunti di poetica petrarchesca
nel Giardino dei Finzi-Contini 1
Roberta Antognini
1 Per questo titolo sono debitrice a Francesco Bausi che nel 2003 ha dedicato un
saggio al rapporto fra Bassani e Thomas Mann: Il giardino incantato. Giorgio Bassani
lettore di Thomas Mann (Bausi 2003). Si citano tutte le opere di Bassani dalla prima
edizione delle Opere uscite nella collana dei Meridiani nel 1998 (Bassani 1998).
2 Bassani 1998, 322.
3 «Mi son detto: ‘Che cosa ti impedisce, come da una altura un viaggiatore stanco
303
Roberta Antognini
4 Schneider 1974, passim. Parte del saggio è confluita nel volume Vengeance of the
Victim, nel capitolo Sexual Identity and Political Persecution (Schneider 1986, 118-129).
Un accenno al ruolo di guida spirituale di Micòl sulle orme di Beatrice e di Laura è in
Bausi 2003, 243; Marcus 1993, 91 e 99.
5 Rinaldi 2004, 231. Ma il catalogo non è necessariamente completo. Manca per
esempio un certo numero di testi depositati presso una società di Roma (ivi, 32 n. 1). Per
le «tante biblioteche» di Bassani, vd. anche Rinaldi 2009.
304
Bassani lettore di Petrarca?
a causa delle leggi razziali 6), potesse conoscerle, se non altro alcune let-
tere – le più celebri – perché comprese in qualche antologia delle opere
latine di Petrarca o altrove.
Una supposizione non suffragata dunque da alcuna prova materiale
e che sembrerebbe anzi smentita dal fatto che Bassani non nomini mai
Petrarca 7. Nell’edizione del Meridiano, infatti, nell’Indice dei nomi in
fondo al volume, Petrarca è un hapax: Bassani si ricorda di lui esclusiva-
mente nel saggio del 1965 dedicato a Venezia nella letteratura, Le parole
preparate 8. Per di più, se ne ricorda scrivendo di Boccaccio: «Vi mise
piede anche il Boccaccio: nel 1363, già cinquantenne, chiamatovi da Pe-
trarca» 9. Tutto lascerebbe pertanto supporre che Bassani non avesse
letto le epistole petrarchesche, dove il tema di Venezia è peraltro am-
piamente presente 10. Ma scrittore di formazione umanistica e attentissi-
delle Opere. Nel Giardino i dantismi abbondano: il «giardino» è una sorta di selva dante-
sca, come lo stesso Bassani lo definisce nel capitolo che inizia la sua marcia di avvicinamen-
to – capitolo che comincia con un salto cronologico di nove anni (il numero di Beatrice, e
in particolare, il secondo incontro con Beatrice che avviene nove anni dopo il primo), dal
1929 della bocciatura in matematica al 1938 dell’anno delle leggi razziali –: la «gran selva
privata» (II.1, 367). Ma si vedano anche in I.6 la discesa nel cunicolo, dove il narratore
nasconde la bicicletta, e l’inizio di IV.5 in cui gli avvenimenti di quegli anni vengono para-
gonati a una «lenta, progressiva discesa nell’imbuto senza fondo del Maelstrom» (524), in
cui l’allusione al racconto di Edgar Allan Poe (A Descent into the Maelstrom) si arricchi-
sce di una suggestione sicuramente dantesca. Ispirata alla Vita nuova è anche l’immagine
dell’amata che stringe nella mano il cuore dell’amante in IV.6 («d’un tratto, sentendomi
stringere improvvisamente il cuore dal pensiero di Micòl – ed era come se fosse stata lei
stessa a stringermelo, con la sua mano», 534). Dantesco è il soprannome che Micòl dà
al narratore, Celestino, allusione al colore dei suoi occhi, ma anche a papa Celestino V,
che il narratore interpreta secondo la perifrasi che lo descrive come colui «che fece per
viltade il gran rifiuto», Inf. III 60 (II.5, 413). Si noti come l’unico nome con cui viene chia-
mato il narratore in tutto il romanzo sia proprio Celestino, che Dante si astiene invece dal
nominare. Sui dantismi nel Giardino, vd. Oddo Stefanis 1981, 126-128; Radcliff-Umstead
1987, 92; Bausi 2011, 205-215; e in questo volume, vd. il saggio di Claudio Cazzola.
8 Titolo eponimo della raccolta di prose uscite nel 1966 e poi confluita nel 1984
in Di là dal cuore che raccoglie l’intera produzione saggistica di Bassani (ora in Bassani
1998).
9 Bassani 1998, 1178. Poco più avanti nello stesso saggio, Bassani menziona il sog-
schi. A una tematica più propriamente politica che tratta del conflitto fra Genova e Vene-
zia per assicurarsi il controllo del commercio con l’Oriente a cui sono dedicate numerose
Familiares, si affiancano nelle Seniles lettere indirizzate dalla città lagunare in cui, come è
noto, Petrarca risiede negli anni 1362-1368, benché non stabilmente. La Sen. II 3 (indiriz-
zata da Venezia il 9 aprile 1363) contiene una splendida descrizione del porto di Venezia,
visto dalla finestre di Palazzo Molin in Riva degli Schiavoni, dove Petrarca abitava; vd.
305
Roberta Antognini
anche Seniles III 9, IV 3-4. Le quattro lettere si possono leggere in Rizzo-Berté 2006.
11 Un vero maestro (Bassani 1998, 1076). Il professore a cui si riferisce Bassani
quando parla del «famigerato volume sulla letteratura del Novecento» (1074) è Alfredo
Galletti. Bassani che scrive di aver frequentato le sue lezioni durante il primo anno di cor-
so non sostenne però l’esame con lui, bensì l’anno dopo, nel 1936, con Antonio Scolari
(riportando la votazione di 28/30) che nel frattempo aveva sostituito Galletti, trasferitosi
a Milano (sono grata alla dottoressa Daniela Negrini dell’Archivio storico dell’Università
di Bologna per avermi fornito queste informazioni).
12 Carlo Calcaterra ottiene la cattedra di letteratura italiana nel 1937 e Bassani si
laurea nel 1939 (Rinaldi 2004, 28 n. 13). Benché Bassani si fosse laureato con Calcaterra,
non aveva sostenuto nessun esame con lui, anche se possiamo ragionevolmente supporre
che nell’a.a. 1938/39 avesse frequentato le sue lezioni su Dante (il programma del corso
è a p. 163 dell’Annuario della R. Università di Bologna).
13 Il volume Nella selva del Petrarca non sembra trovare posto nella biblioteca di
Bassani. Micaela Rinaldi mi conferma infatti che non solo il testo di Calcaterra non c’è,
ma che sa per certo che Bassani non l’ha preso a prestito all’Archiginnasio di Bologna (e
vd. Rinaldi 2009, 15). Potrebbe però averlo consultato lì o alla Biblioteca Universitaria di
Bologna. Ma poiché non è riuscita a consultare il registro dei prestiti, la sua è soltanto una
supposizione. Ma se possiamo soltanto supporre che Bassani frequentasse le lezioni su
Dante di Calcaterra, sappiamo però che era rimasto in contatto con lui. Infatti nel 1951
gli invia con dedica l’estratto di La passeggiata prima di cena pubblicato in Botteghe Oscu-
re: Fondo Calcaterra, Biblioteca del Dipartimento di Italianistica, Università di Bologna,
numero di catalogo V.2824. Nel frontespizio: Giorgio Bassani, La passeggiata prima di
cena, estratto da/Botteghe Oscure VII/Roma MCMLI; nella pagina bianca che segue
il frontespizio e precede l’inizio del racconto c’è la dedica: A Carlo Calcaterra,/devoto
omaggio di Giorgio Bassani/Roma, 3. 6. 1951.
14 L’espressione è di Fortini 1987, 252. È curioso come anche il regista Giuliano
Montaldo nella sua interpretazione degli Occhiali d’oro attribuisca a Bassani la cono-
scenza delle Seniles di Petrarca e proprio del passo che ricorderemo in seguito (vd. qui
infra, nota 26): il protagonista, Davide, viene invitato all’Università di Bologna a tenere
306
Bassani lettore di Petrarca?
una lezione e cita a memoria le parole con cui si conclude la Sen. XVII 2 (vd. in questo
volume, il saggio di Cristina Della Coletta, 536-537).
15 Così Cotroneo nella Nota sui testi (Bassani 1998, XCVII). Sono rimasti esclusi
gli scritti civili e ambientali di cui, secondo Cristiano Spila, curatore del volume postumo
Italia da salvare, che li raccoglie, «lo stesso Giorgio Bassani aveva previsto la possibilità di
una pubblicazione» (Bassani 2005, XIX). In Appendice al Meridiano ci sono la raccolta
giovanile di racconti Una città di pianura e la prima edizione delle Cinque storie ferraresi
(1956).
16 Leggo nella raccolta di saggi Ritorno al «Giardino» (Dolfi-Venturi 2006), la te-
stimonianza del politologo tedesco Eberhard Schmidt, in visita a Bassani: «La signora
[Portia Prebys] mi fa vedere la nuova edizione integrale edita recentemente dalla Monda-
dori, un bel volume rilegato nello stile classico della casa editrice milanese che racchiude
anche i primissimi scritti di Bassani […] Mi racconta dei viaggi compiuti in Germania per
letture organizzate, cerca di far ricordare alcuni particolari al vecchio poeta, che seduto e
per lo più muto, ci ascolta […] Non so se l’anziano poeta sia ancora lucido; dalle poche
domande che mi rivolge non riesco a intuirlo» (2006, 143).
17 Bassani 1998, XCVII. E vd. In risposta (VII) 6, 1344 (l’intervista è del 1991):
«Nel volume che raccoglie tutte o quasi le mie poesie, In rima e senza, e nell’altro che rac-
coglie tutti o quasi i miei saggi, Di là dal cuore, ho cercato di dire ciò che non ero riuscito
a dire (di me, in particolare) nel Romanzo di Ferrara».
307
Roberta Antognini
delle sue singole parti veniva man mano cancellata e negata dalla succes-
sione revisione. 18
Due sono le osservazioni preliminari che da un punto di vista petrar-
chesco si possono fare: la vocazione alla raccolta, e la vocazione alla
riscrittura. A collegare questi due momenti, in quella che è certamente
una dichiarazione di poetica, ci pensa del resto lo stesso Bassani:
Io credo nella realtà spirituale come unica realtà […]. Ed è anche per que-
sto che mi sono accanito sulle mie scritture per farne un’opera sola. È sol-
tanto per questa ragione che ho scritto e riscritto ogni pagina dei miei libri.
Ho scritto e riscritto allo scopo di dire, attraverso l’opera mia, la verità.
Tutta la verità. 19
La rivendicazione di verità permette anche di introdurre un terzo im-
portante aspetto ‘petrarchesco’, quello autobiografico. Ma procediamo
con ordine. Per ciò che riguarda la raccolta, si può dire che la dialettica
fra l’unità della raccolta e la molteplicità delle liriche o delle epistole,
una dialettica che non privilegia nessuno dei due poli, ha costituito il
marchio di fabbrica di tutto Petrarca. Essa contraddistingue soprattut-
to le 366 poesie del Canzoniere e le epistole latine in prosa e in verso
(Familiares, Seniles, Epystole), ma raccolte sono anche l’enciclopedia
morale del De remediis, le biografie del De viris illustribus, le ecloghe
del Bucolicum carmen, gli exempla dei Rerum memorandarum libri. Una
poesia o un’epistola sono testi indipendenti che possono vivere anche
da soli, sciolti dal contesto che li contiene, ma è chiaro che una vol-
ta inseriti nella raccolta il loro significato cambia ed essi acquistano il
valore che viene loro imposto dall’ordine voluto dall’autore. Questo è
assolutamente vero anche per il Romanzo di Ferrara, in cui, non solo i
luoghi, ma anche i personaggi ritornano nei diversi romanzi a creare
un senso di unità fra l’uno e l’altro: Bruno Lattes, Elia Corcos, Athos
Fadigati, Adriana Trentini, gli stessi Finzi-Contini. Questi ultimi sono
per esempio menzionati in Lida Mantovani (42) e negli Occhiali d’oro
(293) 20; in L’odore del fieno, Altre notizie su Bruno Lattes, che si apre
18 Ibidem.
chiamano come nel Giardino, Ernesto e Fanny. Otello Forti, «l’amico buono, l’amico in-
separabile» del Giardino (I.5, 353), è uno dei coprotagonisti di Dietro la porta ed è anche
uno dei compagni di università che negli Occhiali d’oro insieme al narratore – e a Sergio
Pavani, compagno di scuola nel Giardino – prende ogni mattina il treno Ferrara-Bologna
(237). E ancora, Meldolesi, l’«insegnante di italiano, latino, greco, storia e geografia» del
Giardino (I.3, 336), è lo stesso «amato professor Meldolesi» di Dietro la porta (582); il
308
Bassani lettore di Petrarca?
liceo Guarini, luogo precipuo di Dietro la porta, è uno dei centri dell’azione anche nel
Giardino. La rete di corrispondenze di personaggi, luoghi e tempi fra i romanzi del Ro-
manzo di Ferrara, da cui non è escluso nemmeno L’airone, l’unico di ambientazione non
ferrarese – ma il romanzo inizia e si conclude a Ferrara – è così persistente e ripetitiva da
contribuire in maniera determinante alla struttura ‘chiusa’ del Romanzo di Ferrara.
21 In Altre notizie 2, la ragazza del tiro a segno (878) ricorda la ragazza del luna
park nel Giardino (IV.7, 541); IV.10, 570-571). Per i punti di contatto fra L’odore del fieno
e le altre parti del Romanzo di Ferrara, vd. in questo volume, il saggio di Francesco Bausi,
170 e ss.
22 La formula transcripta in ordine compare per la prima volta nel codice Vatica-
no latino 3196, in una postilla che riguarda un abbozzo preliminare della canzone 268:
«Transcripta non in ordine sed in alia papiro .1349. nouembris .28. mane» (abbreviazioni
sciolte in corsivo). L’espressione serve a indicare che la lettera e la poesia sono state col-
locate in una raccolta, in questo caso il Canzoniere. Il testo della postilla lo si può leggere
in Paolino 2000, 262.
309
Roberta Antognini
nitiva nel 1980 23. Dal primo abbozzo di Storia di Debora del 1937 alla
forma finale come prima parte del Romanzo di Ferrara, per la scrittura e
riscrittura di Dentro le mura – e del Romanzo di Ferrara – ci sono voluti
43 anni 24: opera di tutta una vita, opera in progress, come Bassani stesso
la definisce:
[…] io tento un accordo, un raccordo tra il me stesso d’una volta e il me
stesso d’adesso. Il Romanzo di Ferrara è stato scritto tra il 1938 (ho co-
minciato a scriverlo con i miei primi racconti) e il 1978 […] e l’opera è in
progress, perché io sono ancora vivo, continuo a vivere ancora. 25
Come non richiamare alla mente le parole con cui Petrarca inaugura le
Familiares?
([…] questo mi auguro: di finire insieme di scrivere e di vivere. Ma mentre
tutte le opere hanno o sperano d’avere i loro limiti, questa che ho comincia-
to nella prima giovinezza, frammentariamente, e che ora, in età già avanzata,
vado raccogliendo e redigendo in forma di libro, non potrà averne […]) 26
23 Per la ricostruzione della storia editoriale di Dentro le mura, vd. Bassani 1998,
1765-1767.
24 Anna Dolfi (2008) nota che «in sostanza è nell’arco almeno apparente di una
quindicina d’anni che si svolge (riscrittura a parte) l’intera parabola narrativa di Bassani»
(11), precisando però che quel quindicennio «si potrebbe dilatare di quasi un ventennio,
ove si tenga conto delle prime stesure delle Cinque storie ferraresi» (n. 1) e interpretando
la riscrittura «come nuovo, complesso atto autoriale» (n. 3).
25 «Meritare» il tempo (intervista a Giorgio Bassani), Dolfi 1981, 83.
26 «[…] scribendi enim michi vivendique unus, ut auguror, finis erit. Sed cum ce-
tera suos fines aut habeant aut sperent, huius operis, quod sparsim sub primum adole-
scentie tempus inceptum iam etate provectior recolligo et in libri formam redigo, nullum
finem […]» (Fam. I 1, 44-45). Petrarca continuò ad aggiungere lettere al suo epistolario
fino alla fine. Nella Sen. XVII 2, scritta nel 1373, l’anno prima della sua morte, Petrarca
scrive a Boccaccio del suo desiderio che la morte lo sorprenda in grazia di Dio, ma anche
leggendo e scrivendo: «opto ut legentem aut scribentem vel, si Cristo placuerit, orantem
ac plorantem mors inveniat» (testo della lettera in Dotti 2010).
310
Bassani lettore di Petrarca?
Ogni versione precedente delle sue singole parti veniva man mano cancel-
lata e negata dalla successiva revisione. Ma i testi una volta stampati, viag-
giano da soli, arrivano ai lettori, mostrano le loro differenze anche quando
l’autore se ne tiene debitamente a distanza o quasi li sconfessa. 27
Familiares hanno ricevuto l’imprimatur finale dell’autore. Le Seniles, le lettere che Petrar-
ca si trova costretto – data la loro quantità – a raccogliere in un secondo volumen (Fam.
XXIV 13,6), si interrompono infatti con la morte del loro autore. Mancando ancora
l’edizione critica, non abbiamo la certezza che la loro forma finale e definitiva sia quella
attuale (128 lettere divise in diciotto libri, di cui l’ultimo è costituito dalla Posteritati). Per
le Familiares come autobiografia, vd. Antognini 2007 e 2008.
29 II.1, 367.
311
Roberta Antognini
30 Nella sua prima redazione (sul Corriere della sera del 4 febbraio 1971), Laggiù in
fondo al corridoio portava il titolo di Prefazione a me stesso: cinque storie ferraresi per poi
diventare Gli anni delle storie «nella princeps del 1972» (Bassani 1998, 1772). Percorso
esemplare, in cui letteratura e vita, «l’io narrante e l’io vivente» («Meritare» il tempo
[intervista a Giorgio Bassani], Dolfi 1981, 84) si fondono e confondono.
31 Si osservi come il ricordo del parto da parte del personaggio Lida Mantovani dia
inizio anche al racconto. L’immagine del corridoio è ricorrente nel Giardino e si presenta
nel momento climax del romanzo, appena prima che il narratore entri nella camera di
Micòl: «[…] corsi dietro a Perotti che aveva già raggiunto il fondo del corridoio. Senza
scambiare una parola arrivammo in breve alla base della lunga scala elicoidale che porta-
va in cima in cima, fino alla torretta lucernario. L’appartamento di Micòl, lo sapevo, era
quello della casa situato più in alto, solamente mezza rampa al di sotto dell’ultimo piane-
rottolo» (498-499, corsivo mio). Si noti anche come l’episodio si trova quasi esattamente
a metà della macrostruttura, rendendo in questo modo centrale l’immagine del corridoio
a tutto il Romanzo di Ferrara. Sull’immagine del corridoio, vd. in questo volume il saggio
di Francesco Bausi, 176; 199-203.
312
Bassani lettore di Petrarca?
32 «Io torno a Ferrara, sempre […]» (Dolfi 1981, 84). Della topografia di Ferrara si
è occupata Paola Frandini che nell’introduzione del volume Giorgio Bassani e il fantasma
di Ferrara, si chiede se «è possibile considerare la topografia di Ferrara una chiave per
leggere l’opera dello scrittore» (2004, 7). Per Monica Farnetti, nel Romanzo di Ferrara
«la struttura inerisce così profondamente ai luoghi dell’evento rammemorato da costitu-
irne ben più che lo scenario, l’elettiva metonimia. È in tal modo […] che […] si rende
ragione dell’interpretazione del tempo nell’opera di Bassani: un tempo tendenzialmente
‘spazializzato’ (Oddo De Stefanis), cui si vincola ‘una memoria che è spaziale e tempo-
rale’ insieme (Varese), e che genera ‘l’assoluto spazio-temporale’ della città di Ferrara
(Venturi)» (2006, 87 e n. 20, 21 e 22). Per le definizioni, vd. Oddo De Stefanis 1981, 141;
Varese 1995, 19; Venturi 1995, 39.
33 «Meritare» il tempo (intervista a Giorgio Bassani), Dolfi 1981, 85.
sa a studiare nella biblioteca di Ermanno Finzi-Contini: «Per due mesi e mezzo le mie
giornate erano state all’incirca le stesse. Puntuale come un impiegato, uscivo di casa nel
freddo delle otto e mezzo, quasi sempre in bicicletta ma talvolta anche a piedi. Dopo venti
minuti al massimo, eccomi a suonare al portone in fondo a corso Ercole I d’Este, e quindi
attraversare il parco, pervaso intorno agli inizi di febbraio dal delicato odore dei gialli fiori
del calicantus. Alle nove ero già al lavoro nel salone del biliardo, dove mi trattenevo fino
all’una, e dove tornavo verso le due del pomeriggio. Più tardi, sulle sei, passavo da Alberto,
sicuro di trovarci anche Malnate» (III.6, 470; corsivi miei).
35 La divisione del Canzoniere in 366 poesie anche è suggestiva dell’anno solare.
tercorsi fra l’estate del ’39 [in cui si conclude la storia del Giardino] e l’autunno del ‘43»
(577), in cui si conclude tragicamente anche la storia dei Finzi-Contini.
313
Roberta Antognini
Quasi ogni capitolo del Giardino inizia con una meticolosa indica-
zione spazio-temporale, spesso risolta nel giro di una sola frase 37. Tra gli
innumerovoli esempi, ricordiamo l’inizio del Prologo, in cui la connota-
zione temporale è doppia: «Da molti anni desideravo scrivere dei Finzi-
Contini […] e di quanti altri abitavano o come me frequentavano la casa
di corso Ercole I d’Este, a Ferrara, poco prima che scoppiasse l’ultima
guerra» (317); e ancora: «Una volta, tuttavia, nel giugno ’29, il medesi-
mo giorno in cui nell’atrio del Guarini […]» (I.5, 349); «Quanti anni
sono passati da quel remoto pomeriggio di giugno? Più di trenta. Ep-
pure, se chiudo gli occhi, Micòl Finzi-Contini sta ancora là, affacciata al
muro di cinta del suo giardino […]» (I.6, 357); «Fummo davvero molto
fortunati, con la stagione. Per dieci o dodici giorni il tempo si mantenne
perfetto […] Nel giardino faceva caldo […]» (II.3, 387); «Infinite vol-
te nel corso dell’inverno, della primavera, e dell’estate che seguirono,
tornai indietro a ciò che tra Micòl e me era accaduto […] dentro la
carrozza prediletta del vecchio Perotti» (III.1, 419); «Nei primi tempi
Alberto non faceva altro che annunciare la propria imminente partenza
per Milano» (III.5, 460); «Subito, l’indomani stesso, cominciai a render-
mi conto che mi sarebbe stato molto difficile […] verso le dieci provai a
telefonarle […] Mi venne risposto (dalla Dirce) che i ‘signorini’ erano in
camera […]» (IV.1, 492); «Ma il peggio cominciò soltanto una ventina
di giorni dopo, quando fui ritornato dal viaggio in Francia che feci nella
seconda quindicina di aprile» (IV.2, 517); «Come ho già detto, scadu-
to il ventesimo giorno di esilio avevo ricominciato a frequentare casa
Finzi-Contini ogni martedì e venerdì» (IV.8, 548).
La stessa minuziosa precisione la ritroviamo negli epistolari di Pe-
trarca, ricchissimi di indicazioni di tempo e di spazio. Inoltre, riportan-
do i colophon di gran parte delle epistole il luogo e la data, si riesce a
ricostruire l’itinerario biografico dell’autore anche nei casi, frequenti,
in cui il contenuto della lettera non faccia nessuna vera allusione alla
vita dell’autore. L’ossessione spazio-temporale si esplica non solo in una
accurata e complessa presenza di espressioni pertinenti, ma più sottil-
mente in rimandi cronologici interni con funzione di anniversario, che
Petrarca mette in atto con i sonetti d’anniversario nel Canzoniere, in
cui commemora gli anni del suo amore per Laura, e nell’epistolario per
ricordare gli episodi fondamentali della sua vita, con funzione di sottoli-
37 Per una parziale ricognizione dei titoli e degli incipit dei libri del Romanzo di
314
Bassani lettore di Petrarca?
neatura e insieme negazione del passaggio del tempo 38. Una simile stra-
tegia memoriale ritroviamo nel Giardino, la cui trama è scandita dai ri-
petuti anniversari. Si pensi all’insistente rievocazione – tre volte da parte
di Micòl e una da parte del narratore – della storia del loro rapporto: in
II.1, durante la prima telefonata (Micòl: «ti ricordi di quella volta sulla
Mura degli Angeli, qui fuori, l’anno che sei stato rimandato a ottobre in
matematica?», 378); in II.5, durante una delle scorribande in giardino
(Micòl: «E del resto, a entrare in giardino non ho mica mai invitato
nessun altro», «Guardavo sempre dalla parte tua, al tempio …», 413); in
IV.3, il capitolo che conclude – malamente – il lungo percorso di avvici-
namento del narratore alla camera di Micòl (Micòl: «nell’ottobre scorso,
quando per non bagnarci eravamo finiti nella rimessa, andando poi a
sederci dentro la carrozza?», 509; Micòl: «Ti vedo ancora là, sotto il
talèd del tuo, di papà, nel banco davanti al nostro», 511; narratore: «Era
vero, da bambina lei aveva avuto per me un piccolo ‘striscio’», 511); in
IV.10, nell’ultima scena del romanzo, quando il narratore entra di notte
nel Giardino (narratore: «Da ragazzo, in un lontanissimo pomeriggio di
giugno, non avevo osato farlo, avevo avuto paura», 572).
Tale ‘poetica degli anniversari’ ha anche lo scopo di rendere la me-
moria del romanzo ‘cumulativa’, ossia una memoria che si arricchisce
man mano che si sviluppa la storia con continua aggiunta di dettagli in
modo che il passato non si esaurisca mai. Come succede nella succes-
sione delle epistole nella raccolta delle Familiares, in cui Petrarca crea
la propria autobiografia continuamente ricostruendola, con i vari avve-
nimenti della sua vita che si si accrescono sempre di nuovi particolari
nell’avvicendarsi delle lettere.
Le pagine finali del capitolo IV.3 del Giardino – momento climax
non solo del ‘libro’ Giardino, ma data la loro posizione, anche dell’inte-
ro romanzo 39 – mettono termine al lungo percorso di avvicinamento del
narratore alla camera di Micòl. Tra i due è appena avvenuta una scena
penosa e imbarazzante, nella quale il narratore ha tentato di baciare e
abbracciare una Micòl del tutto indifferente, montandole addosso sul
letto. Il capitolo è iniziato con il narratore che si guarda nello specchio
del bagno, dove è andato a sciacquarsi la faccia; il resto è un lungo scam-
bio fra i due che prende le mosse dalla rievocazione da parte di Micòl
del loro incontro nella carrozza di qualche mese prima (era novembre,
38 Per le poesie d’anniversario, vedi Carrai 2004; per le epistole, Antognini 2008,
315
Roberta Antognini
Nella prima lettera delle Familiares, scritta da Padova nel gennaio del
1350 e indirizzata all’amico Ludwig Van Kempen a cui è dedicata la
raccolta, Petrarca chiarisce le ragioni per cui ha voluto salvare dal fuo-
co, dove li aveva buttati, alcuni dei suoi scritti. La lettera inizia con il
ricordo del 1348, il tragico anno della peste che insieme agli amici gli ha
sottratto il futuro, travolgendo le «antiche speranze»:
Che fare ora, fratello? Ecco: quasi tutto abbiamo tentato, e mai la pace.
Quando averla? dove cercarla? Il tempo […] ci è scivolato tra le dita; le
nostre antiche speranze sono sepolte con gli amici. Il mille trecento quaran-
totto è l’anno che ci ha resi poveri e soli […]. 40
40 «Quid vero nunc agimus, frater? Ecce, iam fere omnia tentavimus, et nusquam
requies. Quando illam expectamus? ubi enim querimus? Tempora […] inter digitos ef-
fluxerunt; spes nostre veteres cum amicis sepulte sunt. Millesimus trecentesimus quadra-
gesimus octavus annus est, qui nos solos atque inopes fecit […]» (Fam. I 1-2).
316
Bassani lettore di Petrarca?
41 Roy Pascal (1960) definisce l’autobiografia come una «review of a life from a
avvenuto nel capitolo precedente, a scuola: «[…] mi scorgevano fra i miei compagni e mi
salutavano di lontano con un cenno e un sorriso» (I.3, 339).
317
Roberta Antognini
miei) 43. Questo gesto del narratore viene rievocato da Micòl durante
una delle loro «lunghe scorribande a due» (II.5, 406): «Guardavo sem-
pre dalla parte tua al Tempio … Quando ti voltavi indietro a parlare col
papà e con Alberto avevi occhi talmente celesti!» (413, corsivo mio).
«L’andare avanti con le teste sempre voltate all’indietro» di Micòl è,
come per il Canzoniere, epigrafe e metafora del Giardino, dichiarazione
di poetica 44.
43 L’immagine della testa voltata all’indietro ricorre anche in una poesia compresa
nella raccolta In gran segreto (Muore un’epoca): Muore un’epoca l’altra è già qua / affatto
nuova e / innocente / ma anche questa lo so non la / potrò vivere che girato / perenne-
mente all’indietro a guardare / verso quella testé / finita / a tutto indifferente tranne a che
/ cosa davvero fosse la mia / vita di prima / chi sia io mai / stato (1477, corsivo mio).
44 Lettura che arricchisce e si aggiunge ad altre possibili: dal mito di Orfeo che vol-
tandosi indietro perde Euridice, agli indovini di Dante «ch’ha[nno] fatto petto delle spal-
le» (Inf. XX, 37), all’«angel of history» con la faccia «turned toward the past» di Walter
Benjamin (2003, 392). All’angelo della storia accennano in questo volume Francesco
Longo (263 e nota 53) e Sergio Parussa (334).
45 Vd. supra, nota 17.
47 Ibidem.
48 Ivi, 91.
318
Bassani lettore di Petrarca?
poté sentirsi profondamente offeso dal film di De Sica, dal modo in cui
il regista si era ‘inventato’ la fine, il padre deportato insieme ai Finzi-
Contini. Perché De Sica aveva giocato non solo con il romanzo, ma con
la sua vita:
[…] io avevo permesso […] che la casa di Giorgio, a Ferrara, fosse quella
stessa casa di via Cisterna del Follo n. 1 che è stata di mio nonno, di mio
padre, e adesso è mia: una casa riconoscibilissima che, in città, tutti sanno
a chi appartiene. Ora, servirsi di casa mia, a Ferrara, per meglio accollare, a
me, una vicenda che non mi riguardava; pretendere che io apparissi capace
di aver giocato con la vita e con la morte della persona che più ho amato
al mondo, cioè mio padre: ecco due soprusi abbastanza atroci che si era
tentato di infliggermi. Se li avessi subiti senza protestare, non sarei stato
uno scrittore, e neanche un uomo. 50
Bibliografia
319
Roberta Antognini
320
Bassani lettore di Petrarca?
321
16.
WAITING FOR THE PAST
AND NOSTALGIA FOR THE FUTURE
Memory, Judaism, and Writing
in Il giardino dei Finzi-Contini
Sergio Parussa
During the summer of 1999, the American artist Mark Dion undertook
an original and fascinating artistic enterprise. With the help of a team
of volunteers he combed the foreshores of the Thames River in Lon-
don and collected a wide variety of objects that the river had left on its
banks at low tide: whole and broken glass, precious artifacts and cheap
pottery, ancient fossils and plastic bottle caps. All the finds from the
Thames digs were carefully cleaned, classified, and arranged in a large
wooden cabinet put on display, in the fall of the same year, in the Tate
Modern gallery.
The Tate Thames Dig, as the installation was finally called, was the
result of an artistic process that utilized principles and methodologies
of late nineteenth century scientific disciplines. It combined elements
of archeology, detection and taxonomy. It imitated their impulse to col-
lect, classify, and preserve material fragments of the past as tangible
proofs of an idea of history as progress. For the nineteenth century sen-
sibility, the neat and linear organization of fragmentary details – fos-
sils on display in a museum of natural history, primary linguistic roots
along the branches of a genealogical tree of languages, or clues in a
Sherlock Holmes’ murder investigation – were proof that history could
be interpreted as a linear succession of events leading up to a world of
increasing complexity and completeness. In Dion’s project, however,
all these principles and conventions are inverted to reveal a more per-
sonal idea of history as memory. In his cabinet, unlike the nineteenth
century museum showcase, objects are not scientifically classified, but
A longer version of this essay was published in Parussa 2008, 1-5 and 94-131.
323
Sergio Parussa
324
Waiting for the Past and Nostalgia for the Future
study, the dreams, traumas, and lost memories that Freud tried to un-
cover in the subconscious are not mere specimens of the past. Like the
debris in Dion’s project, they were concrete attempts at rescuing the
past from the fury of the waters and bringing it back into the flux of
time. They belong at the intersection of past and present. They are past
history made alive in the present.
History as active memory is also central to Jewish thought. It has
often been noted that Judaism, unlike other ancient civilizations, is
characterized by a profound sense of history and by an understanding
that institutions evolve within precise historical circumstances 1. None-
theless, as Yosif H. Yerushalmi has noted in Zakhor, there has been no
proper Jewish historiography until very recent times 2. In fact, Jewish
commentators of the Scriptures have often shown a certain indifference
towards historical accuracy and have juxtaposed events that happened
in remote historical times as if they were contemporary. Unlike the mod-
ern conception of history, in which memories of the past are organized
in a chronological chain of events linked by strict relations of cause and
effect, within the Jewish conception of history, historical events are of-
ten translated into models of behavior. Instead of translating memory
into history, as Stefano Levi Della Torre notes, Judaism translates histo-
ry into memory 3. The Exodus from Egypt into the desert, the destruc-
tion of the idols, the establishment of a pact between humans and God
are past events retold again and again so that they become paradigms
of behavior in the present. During the Passover Seder, the repetition
of the words from the Haggadah and the symbolic food assembled on
the table, reminders of the Biblical story of enslavement and liberation,
become vehicles for the transmission of memory from one generation to
the next. Here what counts most is the act of remembering the past and
its re-actualization in the present.
In this act of remembering, history becomes the repetition of an
attempt to salvage the past, to rescue its remnants and bring them back
into the flow of time in the hope that they get a second chance, another
possibility. In psychoanalysis, through interaction between analyst and
patient, through the recollection and the interpretation of the patient’s
dreams, something from the past is salvaged and the present is changed.
Similarly, in Dion’s art, the process of gathering fragmentary objects
325
Sergio Parussa
from the sand and arranging them in a museum cabinet, as well as the
interaction between the objects and the viewer, are more important than
the final art work on display. All these gestures, the religious, the scien-
tific, and the artistic – the ritual lifting of a piece of unleavened bread at
Passover, the retelling of a fragmentary dream and its interpretation, the
gathering of debris from the banks of a river – share a common frame-
work. All, in the encounter between past and present, give a central
place to the human subject: not the objective and detached observer of
nineteenth century science, but an involved viewer whose gaze makes
this encounter possible.
The main hypothesis of this essay is that, in Giorgio Bassani’s works,
and in particular in Il giardino dei Finzi-Contini, it is possible to retrace
the steps of this encounter between past and present, of this idea of
history as memory. I will discuss my hypothesis by focusing on the proc-
ess of formation of the narrative subject through the analysis of two
modes of gazing, two different ways of looking at the past, represented
respectively by the novel’s narrator and by the character of Micòl Finzi-
Contini.
As such, my examination will unfold in two parts. In the first part,
through an analysis of Il giardino dei Finzi-Contini, I will discuss the
construction of the narrator’s Jewish identity as a response to Fascism
and anti-Semitism, as a choice of life in response to a collective death
drive; here belonging to Judaism takes on the form of a feeling of mem-
ory, the emotion of being part of the history of a group. In the second
part, I will show how, in Bassani’s works, the preservation of Jewish
memories does not simply consist in narrating Jewish stories, but rather
in sharing a way of remembering the past which is central to Jewish his-
tory and thought: the idea of history as memory, as an attempt at salvag-
ing the past and changing the present.
***
Giorgio Bassani dedicated a considerable part of his literary work to
narrating the life of the Jewish community of Ferrara during the Fascist
period and the Second World War. While reading the cycle of his stories
that begins with Cinque storie ferraresi (1956) and ends with L’odore del
fieno (1972), readers often encounter the same characters and the same
settings, find the same streets and squares, hear the same voices, and
become part of a contained literary world filled with internal references
and echoes; at the same time, they find themselves in front of a micro-
cosm that takes on meanings that extend beyond the small northern
326
Waiting for the Past and Nostalgia for the Future
Italian city and its Jewish community. Significantly Bassani gathered five
of his novels and five of his short stories in a collective volume entitled Il
romanzo di Ferrara: the tale of a particular small city written in a literary
form, the novel, that was conceived for a large, general readership.
In a brief review article written in 1974 for the magazine Il Tempo,
Pier Paolo Pasolini wrote that Bassani’s literary works, as well as his in-
spiration to write, were the result of the author’s nostalgia for the world
of the middle class 4. Since he was Jewish, Fascism banned him from a
world to which he was deeply connected. Deprived of the freedom of
being bourgeois, the bourgeoisie appeared to him in a nostalgic light, as
a lost condition and a world to regret. According to Pasolini, Bassani’s
writing is a nostalgic nostos to the heavenly places from which he was
exiled.
Although we agree with Pasolini’s interpretation that Bassani’s writ-
ing is characterized by a profoundly nostalgic tone, in this essay, we con-
tend that Bassani’s nostalgia pertains to something larger that the bour-
geoisie, inasmuch as Ferrara, its middle class, and its Jewish community
also represent the general passing of time, the past, and what is lost of
the past. Similarly, Bassani’s detailed accounts of the life of the Jewish
community of Ferrara, as well as his narrator’s recovery of a historical
and cultural sense of Jewish identity, are not so much consequences of
persecution and exile as active responses to it; not so much a nostalgic
pilgrimage to the dear, lost places of one’s own past, as a sentimental
journey that, through narrative, tries to bring the past back to life.
***
In the fourth chapter of Il giardino dei Finzi-Contini, the narrator de-
scribes the link between himself and the young Finzi-Continis, and be-
tween himself and Judaism, as a type of intimacy:
Per quanto concerne me personalmente, nei miei rapporti con Alberto and
Micòl c’era stato da sempre qualcosa di più intimo […]. Qualcosa di più
intimo. Che cosa, propriamente?
Si capisce: in primo luogo eravamo ebrei, e ciò in ogni caso sarebbe stato
più che sufficiente. Tra noi poteva in pratica non essere successo mai nulla,
nemmeno il poco che derivava dall’aver scambiato di tempo in tempo qual-
che parola. Ma la circostanza che fossimo quelli che eravamo, che almeno
due volte all’anno, a Pasqua e a Kippùr, ci presentassimo con nostri rispetti-
vi genitori e parenti stretti davanti a un certo portone di via Mazzini […]: a
327
Sergio Parussa
noi ragazzi non sarebbe occorso niente di più perché ritrovandoci altrove, e
soprattutto in presenza di estranei, passasse subito nei nostri occhi l’ombra
o il riso di una certa speciale complicità e connivenza. 5
This is far from the stereotypical opposition between Judaism as a reli-
gion of law and Christianity as a religion of the heart. In the narrator’s
words, in fact, Judaism immediately presents itself as an intimate, in-
definite emotion of complicity and connivance, as a feeling of silences,
smiles, confidential nods, but also of ritual and family. It is the emotion
of a single person who finds his individuality in discovering that he is
part of a family or group with its own language, rites and history. In
comparison with this emotion, the bureaucratic, legal or administrative
aspects – that is whether or not one is registered as a member of the
Jewish community of Ferrara counts for almost nothing:
Che fossimo ebrei […] e iscritti nei registri della stessa Comunità israeli-
tica, nel caso nostro contava ancora abbastanza poco. Giacché cosa mai
significa la parola «ebreo», in fondo? Che senso potevano avere, per noi,
espressioni quali «Comunità israelitica» o «Università israelitica», visto
che prescindevano completamente dall’esistenza di quell’ulteriore intimi-
tà, segreta, apprezzabile nel suo valore soltanto da chi ne era partecipe,
derivante dal fatto che le nostre due famiglie, non per scelta, ma in virtù
di una tradizione più antica di ogni possibile memoria, appartenevano al
medesimo rito religioso, o meglio alla medesima Scuola? 6
328
Waiting for the Past and Nostalgia for the Future
through the narrator’s gaze, the reader perceives the macrocosm of the
Jewish Diaspora with its differences between Sephardic and Ashkenazi
Jews, the differences between Italian, German and Levantine schools,
between assimilated and orthodox, between the Hebrew of the rabbis,
the half-Venetian, half-Spanish dialect spoken by the Herrera – «alti,
magri, calvi, con le lunghe facce pallide ombrate di barba, vestiti sempre
di blu o di nero» – and the Italian of the Finzi-Continis – with their
«golf e calzettoni color tabacco […] [le loro] lane inglesi e tele gial-
line» 7 of the type worn by country gentlemen. «E tuttavia, pur così
diversi com’erano», the narrator remarks, «io li sentivo fra loro pro-
fondamente solidali» 8. In the small Ferrarese synagogue of the Italian
school, the remains of a millenarian history pass before his eyes, one
that in its extraordinary variety and its solidarity is a lesson in unity and
multiplicity for the individual.
Thus, through a gradual process of differentiation, the individual
begins to take shape, inasmuch as he is a member of a community, a
memory within which an infinity of others are distinguishable, none
of which counts by itself for its specific differences, but all of which
count for the generative process of distinction which allows them to
exist. Differentiation is a central aspect of Judaism: it descends directly
from the idea of divine transcendence, from the notion that the divine
and the human are always separate. The universe, animals, human be-
ings and all that is created are born through differentiation. In Gen-
esis, God’s first act is precisely a sign of differentiation, a separation
of unformed matter and the void that open up before him, a separa-
tion of light from darkness, of the waters above from those below, the
seas from the emerging lands. Through this process of differentiation
between groups and individuals, and of complicity between groups
and individuals, the individual discovers his own subjectivity not as an
idolatrous identification, or as a conflictual opposition, but as part of a
collective history.
The rest of this essay will therefore be dedicated to the analysis of
this process of formation of individuality. As we shall see, in Il giardi-
no dei Finzi-Contini, this formation takes place through two modes of
gazing. There is a nostalgic gaze and a compassionate one: one which
threatens the subject’s wholeness, the other that protects it through the
construction of a relationship between the other and the group. These
7 Ivi, 345.
8 Ibidem.
329
Sergio Parussa
are two ways of looking at the past that will bring us to the Jewish idea
of history as memory that informs the pages of the novel.
At the moment of solemn benediction, when all children are gath-
ered beneath the paternal tallith as beneath so many tents, the narrator
turns to look at the Finzi-Continis who are on the bench directly behind
his. Through the holes and tears wrought by the years in the fragile
cloth of his talèd, the narrator sees Professor Ermanno pronounce the
words of the beruha and returns the smiles and the curiously inviting
winks that Alberto and Micòl send him through the holes in their fa-
ther’s prayer shawl. Under paternal guidance, beneath the limits of the
tent, the contours of subjectivity and the sense of belonging to a collec-
tive history take shape.
In the scriptures and in myth, a backwards glance is often the sign
of the violation of a pact. One such violator who comes to mind is Lot’s
wife who in Genesis 19.26 looks back at Sodom and Gomorrah in flames
beneath the rain of sulfur and fire, or Orpheus who breaks the pact es-
tablished with Hades that he will not turn around to look at Eurydice
until she has left the underworld: he turns to see if his beloved is fol-
lowing him and loses her forever. For their transgressions Lot’s wife is
turned into a pillar of salt and Orpheus is dismembered and scattered
by the Furies. These are subjects who have been scattered by the force
of nostalgia for the past, or by a desire of identification with that which
has been left behind, or by a form of curiosity that reifies and scatters.
As if that backward glance were a threat to the subject’s integrity.
The narrator of the Finzi-Continis is also continually looking back:
«Al solito mi ero voltato a guardare» 9. ���������������������������������-
brace, limits and protects him. It signals the limits of one’s subjectivity,
preventing the subject from being scattered and from disappearing in a
desire to identify with the world, in the doing and undoing of oneself.
As the shining surface of Perseus’ shield allows the hero to confront
the Medusa’s gaze – by reflecting it – without being turned to stone,
the threading of the paternal cloak filters the narrator’s curious glances
around the room, revealing his urge to satisfy an innate desire to be
other than himself: his impulse is to identify himself with the richness
and refined culture of the Finzi-Continis, with the delicate, sing-song,
intoned voice of Professor Ermanno, with his clear pronunciation of
Hebrew, or with the religious zeal of the Herrera brothers – all of whom
330
Waiting for the Past and Nostalgia for the Future
Even space carries the signs of memory. And everything in the Finzi-
Contini house religiously recalls the past. For this reason the garden
and the villa are filled with «venerande testimonianze» 12, that is to say,
they abound with memories that one cannot and must not forget. For
10 Ivi, 465.
11 Levi Della Torre 1994, 45.
12 Bassani 1998, 500.
331
Sergio Parussa
example there are the old, luxurious objects that are preserved with the
greatest care by the gardener Perotti: the dark blue brougham, «dalle
grandi ruote gommate, le stanghe rosse, e lustro tutto di vernici, cristalli,
nichelature» 13 in which Alberto and Micòl Finzi-Contini go to school,
or the house’s antiquated elevator, ����������������������������������������-
lanti lastre di cristallo adorne di una M, di una F, e di una C elaborata-
mente intrecciate» 14. These precious old objects not only represent the
wealth that surrounds the Finzi-Continis, but they also allude indirectly
to the recent history of Italian Judaism. In their capacity as signs of the
standing that the family has achieved in the last hundred years, these ob-
jects tell the story of the rapid integration of the Jews into Italian society
after the emancipation of 1848. Their preservation is a way of guarding
the memory of an era of great hopes and great social changes. In addi-
tion, perhaps, these same objects, in their closed and inviting character,
preserve an indefinable memory of the ghetto experience:
Essere preso alla gola dall’odore pungente, un po’ soffocante, tra di muffa
e di acqua ragia, che impregnava l’aria racchiusa in quell’angusto spazio, e
avvertire d’un tratto un immotivato senso di calma, di tranquillità fatalisti-
ca, di distacco addirittura ironico, fu una cosa sola. 15
One even breathes the same stagnant, comfortable air – slightly op-
pressive and protective – in the villa’s old garage, where a strange and
pleasant odor floats, a mixture of gasoline, oil, old dust, citrus («l’odore
era proprio buono – disse subito Micòl, accorgendosi che tiravo su col
naso. Anche a lei piaceva molto») 16. Or again in the dining room that
looks onto the park: it is intimate, separate and buried «come l’oblò del
Nautilus» 17; or again in Professor Ermanno’s office, that is a narrow
little room crammed with an incredible quantity of books and the most
varied objects.
Preserved in Professor Ermanno’s office, however, are not only the
traces of a recent history, the vague and indefinable memories of a life
in the ghetto and the unequivocal signs of the conquest of freedom; he
tries to preserve a specifically Jewish memory as well. Among the pro-
fessor’s books stand out a collection of volumes on Jewish antiquities
and two small works on the history of the Venetian Jews: the one con-
13 Ivi, 339.
14 Ivi, 499.
15 Ibidem.
16 Ivi, 415.
17 Ivi, 467.
332
Waiting for the Past and Nostalgia for the Future
tains all the inscriptions of the Jewish cemetery of the Lido, gathered to-
gether and translated; the other is on the Jewish poetess Sara Enriquez
Avigdor who lived in Venice in the first half of the seventeenth century.
The garden and the magna domus of the Finzi-Continis thus present
themselves as spaces in which an ambivalent memory is reflected: on the
one hand they reflect the desire to integrate into Italian society, to leave
the past behind; on the other they reflect the desire to resist a complete
assimilation, to preserve a memory of the past and of Jewish history.
They express the Jewish freedom described by Vladimir Jankélévitch
in Ressembler et dissembler: the desire to resemble others and adapt to
the culture of a majority, and, at the same time, the desire to preserve
a sense of religious or cultural difference; the human freedom to be at
once equal and different, oneself and something other than oneself 18.
Professor Ermanno’s decision to have the little Spanish synagogue
in via Mazzini restored at his own expense must be read in this light. In
1933, Mussolini made political changes to increase the number of peo-
ple registered in the Fascist party. Even in the small Jewish community
of Ferrara, notes Bassani, the number of people registered increased
to ninety percent. Professor Ermanno and the Finzi-Continis, however,
did not register. Instead he has an old synagogue restored, one which
for at least three centuries was used as a storeroom rather than for wor-
ship. The small Spanish synagogue in via Mazzini, as well as the profes-
sor’s collection of books on Jewish antiquities, and his whole house,
pregnant with memories, represent a small acts of resistance to Fascism
and a call to the Jewish community of Ferrara not to allow the inte-
gration into Italian society, which had begun with the Risorgimento, to
translate, under Fascism, into a complete assimilation and a total cancel-
lation of Jewish memory.
But the figure that more than any other represents memory in Il
giardino dei Finzi-Contini is Micòl. As a foreshadowing of her approach-
ing end, Micòl doesn’t love the future, ��������������������������������-
ga ‘le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui ’, e il passato, ancora di più,
‘il caro, il dolce, il pio passato’» 19. This religious sense of time, the idea
that of a sainted past that conceals the possibility and impossibility of
the present, is precisely the distinctive key to her character. For Micòl,
«pii pellegrinaggi» 20 are long walks to the places of her childhood, to
333
Sergio Parussa
the corners of the garden where one can still make out the remains of
a past life. These places, objects, and situations transmit less a sense of
nostalgia for the past or the idea that revisiting it may lead us to a differ-
ent future as they do the idea of a liberation of a past that has remained
hidden, unexpressed, forgotten or simply dormant: a small launching
point hidden amongst the thick vegetation where Alberto and Micòl
left for long canoe trips when they were children; the Perottis’ colonial
house where they stayed to eat extraordinary non-kosher bean soups;
the garden wall against which a ladder generally leaned, which they
used for their brief flights from the paternal house. These were three
small transgressions whose remains – the launching point, the colonial
house, the garden wall – bear witness to all of the possibilities that have
remained unexpressed in the past. Like Benjamin’s angel of history,
pushed towards the future by a storm that it is unable to oppose, and
with its face turned towards a past in ruins, Micòl lifts her gaze from
a future that she cannot know and turns it pitifully onto the ruins of
the past, on the catastrophe of objects, places and situations which still
preserve, in their abandonment and in their being remains of something
which is no longer, a ray of light of all the possibilities of life that were
interrupted in the past, of all that which could have been and did not
become 21. It is not simply a question of a nostalgic re-evocation of the
past. For Micòl, as well as for Bassani, memory is an active recollection
in which the remains of the past are restored, making possible a differ-
ent development of the present and another possibility for the future.
Precisely because of her sensibility with regard to the past, Micòl
escapes the nostalgia for old things; she escapes from memories of a
time gone by, from the antiquated memories that seem to surround the
Finzi-Continis. She does not like the dark blue carriage that is used for
special occasions, the brougham that the coachman Perotti continues to
polish like new, and which Micòl thinks should be left to sink into obliv-
ion. «Anche le cose muoiono, caro mio», Micòl says to the narrator, «e
dunque, se anche loro devono morire, tant’è, meglio lasciarle andare» 22.
Where her friend Malnate, who believes in the future and progress,
would see a necessity, Micòl sees only a pile of ruins. But they are ruins
which in their state of abandonment can reveal the traces of a forgotten
or dormant life. The dark, oblong outline of the canoe, for example, in
21 ���������������������������������������������������������������������������������-
334
Waiting for the Past and Nostalgia for the Future
23 Ibidem.
24 Ivi, 408.
25 Ibidem.
335
Sergio Parussa
28 Ivi, 450. This is a translation of the Emily Dickinson poem that opens «I died for
beauty».
29 In Gli occhiali d’oro, ivi, 314.
30 Ivi, 480.
31 Ivi, 482.
336
Waiting for the Past and Nostalgia for the Future
Of course the narrator’s hope will prove vain. The future will
present itself to him precisely as a storm that scatters lives. «What we
call progress», Benjamin writes, «is this storm» 32. History for Micòl,
and for Bassani, is not progress; it is neither the naive, optimistic history
of the narrator’s father, nor Malnate’s utopia, whose future Micòl ab-
hors, but the paradoxical history that, by turning its back on the future,
sets its gaze on the ruins of the past, on the remains of all that could
have been and was not, and by looking at them, gives them a possibility.
In her gaze there is more than a passing resemblance to the Jewish idea
of history as memory, remains and possibility, history as a construction
of hope. It is an idea of history that informs Bassani’s own writing.
When the narrator, as a Jew, is expelled from Ferrara’s municipal li-
brary, Professor Ermanno puts at the young man’s disposal his personal
library so that he might finish his thesis. It is the last days of the winter
of 1939 and the garden of the Finzi-Continis, all white, «sepolto sotto
una coltre di neve» 33, appears to the narrator as an anchor to hang on to
in order to stop the inexorable flow of time:
Il cuore abitato da un oscuro, misterioso lago di paura, mi aggrappavo alla
scrivanietta che il professor Ermanno aveva fatto collocare per me sotto la
finestra di mezzo del salone del biliardo, come se, così facendo, mi fosse
dato di arrestare l’inarrestabile progresso del tempo. 34
It is in this context that the narrator receives a gift from the professor
containing the two short works on the history of the Venetian Jews that
the professor had worked on in his youth. The two texts are mentioned
several times in the novel. The first time is when the narrator and the
professor are taking a walk around the tennis courts and talking about
Italian culture and ancient Jewish remembrances – the walk and the
conversation almost seem to be an apotropaic wall against the new that
is advancing, represented by the tennis courts. «Aveva sempre in serbo
per me le copie dei suoi lavoretti storici veneziani, non me ne dimen-
ticassi!» 35, the professor reminds him several times as he guides him
along the row of bedrooms and corridors that lead to Alberto’s room.
And it is finally here, in the large, warm, silent parlor of the Finzi-Conti-
ni house, where the professor, both loving and respectful, showers him
35 Ivi, 443.
337
Sergio Parussa
36 Ivi, 472.
338
Waiting for the Past and Nostalgia for the Future
339
Sergio Parussa
precise references to historical facts, real places, names, and dates, and
by a degree of concreteness and precision in describing reality that has
led readers to wonder how much of the novel’s plot is fictional, how
much is real, whether or not its characters are inspired by real people,
where to draw the line between history and literature, reality and im-
agination. The presence of historical events in the novel, as well as the
author’s attention to their exactness, is certainly linked to the fact that
among these events is the Shoah: there is a history that can no longer by
ignored by a writer, and that requires care and attention in order not to
betray its historical truth. On the other hand, the novel seems to evince
a need for concreteness and precision even in detailing events that are
likely to be the product of imagination. At the beginning of the novel,
for instance, the narrator names the members of the Finzi-Contini fam-
ily one by one, he mentions the address where they lived and the exact
day of the year in which he found the impulse to write down his memo-
ries, a Sunday in April 1957. Here, concreteness and precision acquire
a meaning that goes beyond attention to the veracity of historical facts
and has to do, instead, with the way in which the figurative use of lan-
guage can preserve a memory of the past and provide a different, not
strictly historical knowledge of the past. Without betraying the verac-
ity of historical facts, the use of literary tools and imagination – that
intimate and slightly melancholic list of names, the concreteness and
specificity of that address and that date – gives to the narrative a his-
torical concreteness that brings the story of the Finzi-Continis closer
to the novel’s readers and may have consequences on their emotions
and their ethical sense. Thus, the inclusion of history within a fictional
narrative counts not only as a way to bear witness to the past but also
as a way to transform that same history into a paradigm for the present.
What counts in this novel is not only the historical datum, but also its
actualization, not only the fact, but also the possibility of transforming
it into memory of the past in the present. Not only the historical past
that Professor Ermanno studies but also the past that Micòl evokes and
makes alive in the present by her language, her mood, her pilgrimages
to the dear places of her childhood, her memory.
At issue here is a kind of writing that bears witness to the past with-
out renouncing the resources offered by imagination. It is a literature
that includes historical facts without suppressing the subjective gaze on
those facts, without denying that other not purely factual, not purely
objective elements of writing – such as the author’s gaze, the narrator’s
and the character’s voices, as well as the readers’ reactions – may also
340
Waiting for the Past and Nostalgia for the Future
341
Sergio Parussa
erature, facts and their interpretations, past and present. It turns the
opposition between history and imagination into a vital tension: no
longer the rights of history versus the rights of imagination, but the
right of history and the rights of imagination. Here, within memory, the
tigers and kittens of Ginzburg’s poetics, the burden of writing the truth
and the lightness of writing fiction, seem to find a possible reconcilia-
tion 40.
For the narrator of Il giardino, the Etruscan tombs that count not so
much for their historical, archeological, or documentary meaning as for
their ability to remind him of the Finzi-Continis and compel him to tell
their story. Likewise, for Bassani, the recovery of the Jewish past, of any
past, is not just history, archeology, or antiquarianism; rather, it has the
richness of the subjective gaze with its emotions, its joys and sorrows,
and with its ethics, its desire to call out injustices and its longing for
justice, that are characteristic of literature, art, or psychology. It has the
historical and eschatological depth that the human voice gains once it
is within time – a voice that tries to bring back to the present fragments
from the past and postpone at the horizon of time what may be the
ultimate meaning of those fragments and those lives. Thus recovering
the past is inspiration and paradigm, memory and hope. It is an inspira-
tion to gather the fragments of the past, to listen to its voices and bring
them back to life in the present. And it is a paradigm for action in the
present inasmuch as these fragments and these voices, in their historical
concreteness and specificity, become models for resistance in the pres-
ent, hope for the future. In this historical specificity, in this temporal
concreteness, they find a second chance of life. While remembering the
story of the Finzi-Continis, �����������������������������������������-
manno e della signora Olga ���������������������������������������������
–, -
quentavano la casa di Corso Ercole I d’Este, a Ferrara, poco prima che
scoppiasse l’ultima guerra» 41, while giving voice to the concrete story of
a Jewish family from Ferrara during World War II – Bassani also tells a
universal story. Thanks to its historical specificity and concreteness, his
imaginary tale takes on a universal meaning, becomes part of a collective
memory and an abstract paradigm for humankind.
40 According to Natalia Ginzburg, when writers are confronted with past mem-
ories, they must choose between truth and imagination, reality and fiction, between
«muoversi in mezzo a un branco di tigri» and «giocare con una nidiata di gattini». Ginz-
burg 1987, 195-196.
41 Bassani 1998, 317.
342
Waiting for the Past and Nostalgia for the Future
Bibliography
343
17.
«IL GIARDINO DEI FINZI-CONTINI»
Giorgio Bassani’s Enchanted Ghetto
James T. Chiampi
During the succeeding Passovers, the Lord will not spare these Jews: in
Il giardino dei Finzi-Contini, Giorgio Bassani’s narrator mourns the fate
which his relatives and commensali could not know awaited them at the
hands of the Nazis:
[…] guardavo ad uno ad uno, in giro, zii e cugini, gran parte dei quali, di
lì a qualche anno, sarebbero stati inghiottiti dai forni crematori tedeschi, e
non lo immaginavano […] ma ciò nondimeno già allora, quella sera, anche
se li vedevo tanto insignificanti nei poveri visi sormontati dai cappelluc-
ci borghesi o incorniciati dalle borghesi permanenti, anche se li sapevo
tanto ottusi di mente, tanto disadatti a valutare la reale portata dell’oggi
e a leggere nel domani, già allora mi apparivano avvolti della stessa aura
di misteriosa fatalità statuaria che li avvolge adesso, nella memoria […]. 1
Transported back in time, yet like some latter day Theoklymenos, gifted
with prophetic vision of the atrocious fate that awaited the suitors (Od-
yssey XX.350ff.), Giorgio foretells the doom that awaits these – to him –
pathetic middle-class Italian Jews 2. Their modest and correct middle-
class dress in these comfortable surroundings suggests that theirs is
a tragedy of assimilation, that is, of complacency. Deeply ambivalent
Giorgio mourns them in their unknowing, preserving them even as he
banishes them. Of course, Giorgio survives by fleeing such complacen-
1 Bassani 1962, 186-187. In keeping with current critical practice, I shall refer to
the narrator, who is never named, as ‘Giorgio’. See Barbara Spackman, 1989 and 1990.
2 The Odyssey of Homer, trans. Richmond Lattimore, 1967: «I have eyes and I have
ears, and I have both my feet, / and a mind inside my breast which is not without under-
standing. / These will take me outside the house, since I see the evil / coming upon you,
and not one of the suitors avoiding / this will escape[…]» (307). See Bausi 2003, 219-248.
345
James T. Chiampi
cy; why they neither resist nor flee, I would argue, is a question less
of Freudian depth psychology than it is of Freudian depth psychology
engrafted upon the topoi of a faculty psychology formed from epic, both
classical and Renaissance. His guests – but especially the guests of the
Finzi-Contini – recall the Lotus Eaters of Odyssey IX, and the paladins
beneficently imprisoned in Atlante’s palace in Canto XII of the Orlando
furioso, like them entranced to athymia and ataraxia by assimilation,
wealth, culture and opulence in its enchanted precincts 3. As with the
gardens of epic, the garden and magna domus of the Finzi-Contini are
consecrated to the banishing of political cares.
To return to our opening quotation, it is as if spiritless, without
outrage and helpless, these bourgeois guests are already dead, as The-
oklymenos sees the suitors. In the imagined present, Giorgio mourns
their future, which is as scattered ashes. This has august precedent: in
Atlante’s palace, each paladin searched for the object of his desire in a
state of beneficent enchantment, believing he heard her, or him, else-
where; thus did he remain occupied and removed from deadly warrior
collisions with others. In a similar way, Giorgio may find himself in the
billiard room, the library, or Alberto’s study of the magna domus while,
unbeknownst to him, Micòl, object of his desire, lies upstairs in her
bed, perhaps with Giampiero Malnate. Like Atlante’s palace, the house
is something of a labyrinth intended for the harmless dissipation – or
satisfaction in art – of desire that would otherwise lead the warriors
to fatal battles and duels. Thus, while family and friends beguile their
time among antiquities, scholarly trivialities, arcana and decoration, the
Holocaust approaches and, in autumn 1943, engulfs them. Giorgio’s
reminiscence is thus a proleptic mourning. With subtle distinction, Bas-
sani situates both the garden with its tennis court and farming activities
and the garish magna domus beneath the rubric giardino of the title. The
work announces its project as the commemoration of this lost world;
indeed, it is a masterpiece of the literature of mourning 4. The apoliti-
3 Primo Levi revealed the unforeseeably perilous side of such assimilation in his
description of the famously incompetent Italians of Auschwitz in his chapter Ka-Be from
Se questo è un uomo (1989, 43): «tutti avvocati, tutti dottori, erano piú di cento e già non
sono che quaranta, quelli che non sanno lavorare e si lasciano rubare il pane e prendono
schiaffi dal mattino alla sera; i tedeschi li chiamano ‘zwei linke Hände’ (due mani sini-
stre), e perfino gli ebrei polacchi li disprezzano perché non sanno parlare yiddisch». See
JoAnn Cannon 2003, on memory in Levi and Bassani.
4 Indeed, it is tempting to characterize the novel as a tragic, Italian Brideshead
Revisited.
346
«Il giardino dei Finzi-Contini»: Giorgio Bassani’s Enchanted Ghetto
cal and politically irrelevant was a brief refuge, deadly in its distrac-
tion. Using the resources of his vast cultura, Bassani suggests that select
members of the Jewish community of Ferrara contented themselves in a
paradiso terrestre as they awaited their atrocious murder.
In her seminal 1993 essay De Sica’s Garden of the Finzi-Continis:
An Escapist Paradise Lost, Millicent Marcus studied the garden of the
Finzi-Contini as «[…] a psychological metaphor for the Finzi-Continis’
passivity and withdrawal in the face of Fascist anti-Semitism – a re-
sponse that invites fruitful comparison with Freud’s category of neurot-
ic denial» 5. Employing the insights of A. Bartlett Giamatti’s study, The
Earthly Paradise and the Renaissance Epic, Marcus understood Bassani’s
work – as it appears in De Sica’s film – as heir to the gardens of the Re-
naissance wherein art became associated with the private and personal,
hence antithetical to history, the civic and the political 6. But history
will intrude on their Marvellian green world. I intend my study as a
companion piece to that of Marcus; however, I shall treat the garden of
the Finzi-Contini less as the locus of neurotic denial than, more tradi-
tionally, as the inheritor of the psychological thematics of Renaissance
chivalric epic and romance, that is, as a place consecrated to an insidi-
ous athymia – or spiritlessness – which was the greatest psychological
and moral danger to properly epic endeavor. Indeed, the mourning of
the Finzi-Contini provides an instance of their athymia.
Plato’s proscribed spiritlessness represented the danger that the
private concerns of the self (pleasure, rest, art) could pose the civic
concerns of the polis. Ferrarese Bassani goes further and melds the
Ariostean enchanted palace, and its magical inclusiveness, with the
garden of chivalric epic: that is, he melds enchanted imprisonment
with sensual indulgence. It is as if – in the spirit of Ludovico Ariosto’s
Orlando furioso – he joined Atlante’s palace to Alcina’s garden: both
occasions of the lingering that chivalric ethic proscribed. To allusions
to the Renaissance epic and The Divine Comedy, I shall add allusions
to The Romance of the Rose. Such dense allusivity, I would argue, is
not something beneath or beyond the text – not something intended
simply to provide matter for Quellenforschung; on the contrary, I be-
lieve it is both stylistic and thematic. Although Marcus makes numer-
ous typically sensitive observations about the novel, her object of study
is the film. I, on the other hand, shall direct my attention solely to the
347
James T. Chiampi
348
«Il giardino dei Finzi-Contini»: Giorgio Bassani’s Enchanted Ghetto
349
James T. Chiampi
12 Ivi, 261.
13 Bassani 1962, 107.
14 See Curtius 1953, Giamatti 1966, as well as Chiampi 1990, 487-502.
350
«Il giardino dei Finzi-Contini»: Giorgio Bassani’s Enchanted Ghetto
tease 15 – and when necessary frustrate – Giorgio’s obsessive desire for
her: stealing away with him into the carriage house, but not permitting
him to consummate his sexual desire for her; accepting or refusing his
telephone calls; greeting him in the shadowy doorway; permitting him
into her boudoir – that is, reining in his desire or spurring it just enough
to keep him returning to the magna domus, to the garden, to her com-
pany and to that of dying Alberto. Fairies like Alcina only hold power
within the enchanted garden, Micòl likewise, thus Giorgio: «[…] con
me fuori di casa e del giardino non ci sarebbe venuta mai» 16. Micòl
uses rejection to perpetuate the love of the fascinated, desperate, eagerly
servile narrator – whom she can control easily with the implicit threat
of forbidding him the house – even as she enjoys transgressive sex with
Malnate.
Like Virgil’s Mercury or Tasso’s Carlo and Ubaldo, Giorgio’s father
recalls him to his manliness with advice to: «‘[n]on andarci piú. […]
È piú da uomo, tra l’altro’. […] Aveva ragione. Tra l’altro era piú da
uomo» 17. The consequence: «Fu cosí che rinunciai a Micòl» 18. This
reassertion of manliness awakens Giorgio to the impracticality of his
situation: that he is twenty-three, a student of literature, with job and
prospects denied him by the race laws, passing his time in conversation,
tennis, music and love with Micòl. In retrospect, we realize that his flight
from the spell cast by art and Micòl is essential to his surviving the Holo-
caust. However, as if to underscore the thematics of enervation, Giorgio
tells us virtually nothing whatever of his survival. Only in retrospect will
he, like a latter-day Ruggiero, express his amazement and regret at his
enchantment by the place and by Micòl: «Come avevo potuto essere
talmente cieco?» 19. In Christian tradition, paradises are dangerous to
postlapsarian mankind because of the wound to the will mankind suf-
fered in the Fall. Mankind does not know what to want, nor how much.
After all, Dante the Pilgrim can only enter the paradiso terrestre atop
the mountain of Purgatory once he has figurally cleansed himself of the
seven deadly sins. Giorgio’s heeding the counsel of his father is a classic
instance of humility for both Dante and Giorgio: one form of humility
consists in accepting the counsel of one whose will is directed aright.
18 Ivi, 279.
19 Ivi, 286.
351
James T. Chiampi
20 Ivi, 19.
21 Ivi, 27.
22 Ivi, 25.
23 Ivi, 42.
352
«Il giardino dei Finzi-Contini»: Giorgio Bassani’s Enchanted Ghetto
24 Ivi, 148.
25 Ivi, 20.
26 Ivi, 19.
27 Ibidem.
28 Ivi, 24.
29 On mourning, see Derrida 1994; Staten 1995; Miller 1996 and 2009; Krell 2001.
353
James T. Chiampi
first obsess himself with the design of furniture for his room, then with
the most satisfying placement of the speakers of his gramophone. Dur-
ing heated political discussions, he fussily empties ashtrays 30. This,
while the cancer which will kill him, goes undiagnosed. This oblivi-
ousness of the political, as recalled in Professor Ermanno’s response
to Giorgio’s recounting his expulsion from the Biblioteca Comunale
in obedience to the race laws, is accordingly unsurprising: «E allegro,
decisamente allegro e soddisfatto, era piú tardi il tono di voce con cui
il professor Ermanno, presomi sottobraccio, mi propose di approfittare
d’allora in poi liberamente […] dei ventimila libri di casa […]» 31. Apo-
litical, bookish quietism and satisfaction are two of the latter day – and
fatal – enchantments of the place. The tennis court, which is intended
for the diversion of the energy of the young, accordingly, lies outside
the magna domus for thematic as well as practical reasons. Thus, Micòl
will humiliatingly and condescendingly rebuff Giorgio’s advances in
the house («Sei tutto rosso, rosso impizà. Lavati la faccia» 32), and then
indulge herself with Giampiero Malnate in the Hütte. How did Giorgio
survive the Holocaust? We learn only that he was in prison in 1944 33.
Had he participated in the Resistance like Giorgio Bassani? 34. It is
telling that his wartime communication with prisoners in other cells
reminds him of his communication with Professor Ermanno in the li-
brary 35, suggesting that they describe a common captivity.
Origins: Giorgio, accompanied by a group of friends, is on a day
trip one weekend outside Rome to visit the Etruscan tombs of Cerve-
teri. A vivacious little girl named Giannina asks her father a question:
«Papà […] perché le tombe antiche fanno meno malinconia di quelle piú
I owe a special debt to Mark Dooley and Liam Kavanagh 2007. A remark of Dooley’s was
influential in the composition of my recent work on mourning and the Holocaust: «[…]
for Derrida, ‘writing’ equates to the marks and inscriptions of those who have been vic-
timized in the quest for purity and full self-presence, even when such marks have been,
either intentionally or unintentionally, turned to ash or cinders» (139). See also Chiampi,
«Un dolore pacato e eguale»: Eternally Mourning Ippolita in Trionfo della morte, forth-
coming in Italica.
30 Bassani 1962, 168.
31 Ivi, 174.
32 Ivi, 218.
33 Ivi, 184.
34 There is no small historical irony: the Giardino dei Finzi-Contini passes through
various stages of composition during the period leading from the capture of Adolf Eich-
mann in Argentina to his trial in Israel, and is published a few months before his hanging
in May 1962.
35 Bassani 1962, 184.
354
«Il giardino dei Finzi-Contini»: Giorgio Bassani’s Enchanted Ghetto
36 Ivi, 14.
37 Ivi, 19, 24.
38 Ivi, 30.
39 Ivi, 26.
40 Ivi, 12.
41 Ivi, 182. See Woolf 2007, 52-57.
42 Ivi, 16.
43 Ivi, 182.
355
James T. Chiampi
44 La difesa della razza, 5 agosto 1938, 9. In his chapter Zinco, from Il sistema pe-
riodico, Primo Levi wrote: «Potrebbe addirittura diventare una discussione essenziale
e fondamentale, perché ebreo sono anch’io, e lei [Rita] no: sono io l’impurezza che fa
reagire lo zinco, sono io il granello di sale e di senape. L’impurezza, certo: poiché proprio
in quei mesi iniziava la pubblicazione di ‘La Difesa della Razza’, e di purezza si faceva un
gran parlare, ed io cominciavo ad essere fiero di essere impuro. Per vero, fino appunto
a quei mesi non mi era importato molto di essere ebreo: dentro di me, e nei contatti coi
miei amici cristiani, avevo sempre considerato la mia origine come un fatto pressoché
trascurabile ma curioso, una piccola anomalia allegra, come chi abbia il naso storto o
le lentiggini; un ebreo è uno che a Natale non fa l’albero, che non dovrebbe mangiare il
salame ma lo mangia lo stesso, che ha imparato un po’ di ebraico a tredici anni e poi lo ha
dimenticato» (1987, 460).
45 Avagliano 2002.
356
«Il giardino dei Finzi-Contini»: Giorgio Bassani’s Enchanted Ghetto
49 Ivi, 99.
50 Ivi, 277.
357
James T. Chiampi
51 Ivi, 74.
52 De Lorris and De Meun 1962.
53 Bassani 1962, 22.
54 Ivi, 75.
55 Ivi, 129-130.
358
«Il giardino dei Finzi-Contini»: Giorgio Bassani’s Enchanted Ghetto
56 Ivi, 130.
57 Ivi, 152.
58 Ivi, 181.
59 Ivi, 29.
359
James T. Chiampi
and despises the «haltúd» of their social exclusiveness 61. When our pro-
tagonist meets Micòl just outside the garden, she stands above him on
the wall within the garden staring down at him, rather as Dante’s Micòl
looks down at David, similarly contemptuous: «[…] mi prendeva in
giro, evidentemente, e un poco anche mi disprezzava» 62. The figuration
of Micòl is layered and manifold: once again, as keeper of the entry 63 she
recalls Dame Idleness/Oiseuse in Guillaume de Lorris’s The Romance
of the Rose, who invited the Dreamer/Amant into the Garden of De-
light. However, the Garden of Delight, far from a paradise, is actually a
wood in which Amant is hunted, wounded and enslaved by the God of
Love. Giorgio likewise: in the false paradise of the Finzi-Contini, Gior-
gio, pridefully searching for his absolute, the love of Micòl, is wounded
and enslaved by manipulative her: «Cacciato dal Paradiso, non m’ero
ribellato, dunque, attendendo in silenzio di esservi riaccolto» 64. Lucifer,
Adam and Eve were chased out of their respective paradises as punish-
ment for their pride.
Pride understands the self as absolute, and is often rendered in lit-
erature as almost solipsistic self-absorption. Thus, another paradox of
the Finzi-Contini is that they both belong to and are foreign to the Jew-
ish community of Ferrara by making their garden a closed world of fa-
milial self-absorption, and inaccessibility. Micòl and Alberto speak their
own language, «il finzi-continico» 65; their elders speak an Italian mixed
with Hebrew, Venetian, Spanish and various German; Ferrarese Profes-
sor Ermanno speaks Hebrew with a Tuscan accent 66. Their vast and
diverse cultural conservancy also informs their social exclusivity: Micòl
loves to drink her Skiwasser (or Himbeerwasser, as she and Alberto call
it) – a memory of the Austro-Hungarian Empire 67. Alberto and Micòl
were educated at home by private tutors (one wonders if perhaps Pro-
fessor Ermanno and signora Olga understood little Guido to have been
infected by a bacterium from the outside, or perhaps that the outside
itself was the bacterium). It is as if, to the mourners of Guido, the gar-
den has a prophylactic function. This suggests a quasi-Hegelian reductio
ad absurdum: if they could transport everything within, they would be
61 Ibidem.
62 Ivi, 52.
63 Ivi, 50.
64 Ivi, 242.
65 Ivi, 51.
66 See Caliaro 1981 and Della Coletta 1998.
67 Bassani 1962, 93.
360
«Il giardino dei Finzi-Contini»: Giorgio Bassani’s Enchanted Ghetto
68 Ivi, 100.
69 Ivi, 143.
70 Ivi, 113.
71 Ivi, 134. Ungaretti’s line is «Non mi lasciare, resta, sofferenza!»
72 Ibidem.
73 Ibidem.
74 Ivi, 140.
75 Ivi, 215.
76 Ivi, 224.
77 Ivi, 131.
78 Ivi, 157.
79 Ivi, 216.
361
James T. Chiampi
and irony upon irony suggests the elusiveness of the Finzi-Contini – that
they are never truly present to Giorgio in a transparent, univocal and
spontaneous way. Cosmopolitanism describes a structure of traces from
the past that make a full grasp of the Finzi-Contini impossible. They are
inhabited by other opaque contexts and traditions. Their – and in par-
ticular Micòl’s – refined cosmopolitanism suggests the traditional image
of unbelonging – the Wandering Jew 80.
But enchanted gardens and palaces offer only brief respite, and des-
tiny requires that they fail. In the fourth canto of the Orlando furioso, the
magician Atlante, forced by Bradamante to release her beloved Ruggie-
ro from his enchanted preserve, removes the stone covered with magic
characters and breaks the smoking vases beneath which it conceals:
L’incantator le spezza; e a un tratto il colle
riman deserto, inospite ed inculto;
né muro appar né torre in alcun lato,
come se mai castel non vi sia stato. (IV.38)
Bombed out in 1944, the magna domus, now infested by the mosqui-
toes and frogs down by the Panfilio Canal, like Atlante’s palace, has lost
its magic, and now strange, rough people inhabit the ruin, people who
throw stones at the visiting health inspector. And the Guida del Touring
has dropped it 81. This thematics of the failure of beneficent contain-
ment also has classical precedent: in the Aeneid, the nymph Juturna im-
plores the gods for respite, however brief, from war and death for her
brother Turnus. Jupiter grants her request, which is supported by Juno,
but warns her that Turnus’s salvation will be brief, for fate has decreed
that he must die. Juno proceeds to conjure up a wraith in the form of Ae-
neas, whom Turnus chases onto a ship that slips anchor, postponing his
fate. In Bassani, however, Bruno Lattes, Adriana Trentini, Désirée Bag-
gioli, Claudio Montemezzo, Carletto Sanni, and Tonino Collevatti, are
permitted entry for the sake of Alberto and Micòl’s sport and diversion
(The Romance of the Rose: «The fairest folk that you’ll find anywhere
/ Are Mirth’s companions, whom he keeps with him» [VV. 583-584];
Orlando furioso: the garden of Alcina «avea la piú piacevol gente / che
fosse al mondo e di piú gentilezza» [VII.10].) Giorgio provides high-
brow company for both Alberto and Micòl; Giampiero Malnate’s use is
362
«Il giardino dei Finzi-Contini»: Giorgio Bassani’s Enchanted Ghetto
363
James T. Chiampi
83 Ivi, 75.
84 Ivi, 25.
364
«Il giardino dei Finzi-Contini»: Giorgio Bassani’s Enchanted Ghetto
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366
18.
CONTROLLO E NEGAZIONE
L’allarmante modernità dei Finzi-Contini
Tim Parks
Traduzione dall’inglese di Giulia Failla. Il saggio è uscito in inglese sulla New York
Book Review (14 luglio 2005), come prefazione alla traduzione in inglese de Il giardino
dei Finzi-Contini (The Garden of the Finzi-Contini, Everyman Library Classics and
Contemporary Classics 2005), ed è incluso nella raccolta The Fighter: Literary Essays
(Id., London, Harvill Secker 2007) con il titolo Gardens and Graveyards.
367
Tim Parks
partigiani antifascisti che lo hanno privato del suo lussuoso palazzo nel
centro della città; non dedica molto tempo all’ottimista zio Daniele, che
spera nell’avvento della democrazia e della fratellanza universale. L’uni-
ca persona che il tormentato Geo vede con piacere è lo zio Geremia,
un uomo al quale i contatti di lavoro e la fervida adesione al Partito
Fascista hanno permesso di continuare a giocare a bridge al Circolo
dei Commercianti anche durante la guerra, fatto che viene presentato
come un mistero, piuttosto che come oggetto di critica. Geo, alla fine,
impazzirà di dolore.
Il giardino dei Finzi-Contini, invece, è innanzitutto una storia d’amo-
re che raggiunge un livello letterario molto più alto rispetto a qualsiasi
altra opera di Bassani. L’azione di questo romanzo di formazione ampia-
mente autobiografico si svolge negli anni appena precedenti alla guerra
e poiché sin dalle prime pagine ci viene annunciato il destino di molti
personaggi, e in particolare il tragico finale che attende la bella e sfug-
gente eroina, Micòl Finzi-Contini, la tensione narrativa assume l’aspetto
di un enigma sempre più fitto, con il lettore che è costretto a chiedersi
fino a che punto la tormentata relazione tra il narratore e l’amata Micòl
sia determinata dalla specifica situazione storica e quanto invece dalla
caparbietà dei personaggi stessi. Vale a dire, fino a che punto – e questo
è il rompicapo che sta dietro a tutta la grande narrativa – questa infeli-
cità è necessaria?
Sarebbe una domanda banale se i due innamorati si chiamassero
Capuleti e Montecchi, se le rispettive famiglie fossero in guerra o se
a dividerli ci fosse un incolmabile divario ideologico. Ma, nonostante
Ferrara sia solo a un’ottantina di chilometri da Verona, Il giardino dei
Finzi-Contini non è un altro Romeo e Giulietta. Bassani ha scritto anche
di amanti che devono superare differenze etniche e sociali nel racconto
La passeggiata prima di cena, in cui il rinomato dottore ebreo Elia Cor-
cos (figura storica di Ferrara, come molti altri personaggi dell’opera di
Bassani) sposa un’infermiera appartenente a una famiglia di contadini
cattolici. Ma questa è una storia sul superamento dei pregiudizi, sebbe-
ne a caro prezzo. Al contrario, ne Il giardino dei Finzi-Contini, eroe ed
eroina appartengono entrambi a vecchie famiglie ebree. Le leggi razziali
del ’38, che proibivano il matrimonio tra ebrei e cristiani renderebbero,
semmai, ancor più ‘conveniente’ l’unione dei due. Eppure …
Una particolarità di Bassani è che nei suoi scritti, pur nel rifiuto del-
la discriminazione, egli sembra apprezzare il fenomeno della divisione
sociale, quell’incomprensione fertile che si ha quando persone diverse
per cultura, ambiente sociale e aspettative sono costrette a vivere fian-
368
Controllo e negazione. L’allarmante modernità dei Finzi-Contini
369
Tim Parks
370
Controllo e negazione. L’allarmante modernità dei Finzi-Contini
per gli ebrei di Ferrara, di vivere segregati nel ghetto. Per festeggiare i
diritti appena ottenuti, il ricchissimo nonno di Ermanno, Moisè Finzi-
Contini, acquista la villa di un nobile caduto in miseria. Si tratta di una
proprietà enorme: dieci ettari al limitare della città, protetti da un alto
muro, e un’imponente casa in rovina. Menotti, figlio di Moisè e padre di
Ermanno, restaura ed estende la dimora e vi si trasferisce in compagnia
della sofisticata consorte. Piuttosto che uscire dal ghetto per integrarsi
nella società italiana, i Finzi-Contini si spostano al di fuori della società
e iniziano a coltivare quella che il padre di B interpreta come un’assurda
presunzione di nobiltà (e probabilmente il nome, anche se corrispon-
dente a quello di una nota famiglia ebrea, non è stato scelto per caso).
La vocazione dei Finzi-Contini per l’isolamento si consolida con la
generazione successiva, quando Ermanno e la moglie Olga perdono il
loro primogenito, Guido, a soli sei anni, a causa di una meningite (il
medico che diagnostica l’incurabile malattia non è altro che il dottor
Corcos di Una passeggiata prima di cena, l’uomo che con il matrimonio
si abbassa al ceto più umile della società italiana). Convinto che la morte
sia stata causata dal contatto con gli altri, Ermanno e Olga decidono di
istruire a casa gli altri due figli, Alberto e Micòl, e di segregarli dal resto
del mondo. Ne consegue che B vede la ragazza solo quando si reca a
scuola con il fratello, come studentessa privata, per dare gli esami di
stato annuali o, più spesso, presso la sinagoga.
Bassani è maestro nella costruzione di quelle scene drammatiche
che racchiudono, senza forzature, un profondo significato. Ogni setti-
mana alla sinagoga il giovane narratore è sempre più affascinato dalla
famiglia dei Finzi-Contini che siede sulla panca dietro di lui. Per tenerlo
sotto controllo, il padre aspetta che il rabbino conceda la benedizione
finale per ricoprire con lo scialle da preghiera tutta la famiglia, costrin-
gendo il figlio a smettere di fissare la famiglia dietro. Ma lo scialle con-
sunto permette al ragazzo di sbirciare dai fori. Affascinato dal suono
delle preghiere recitate da Ermanno Finzi-Contini in ebraico, ma con
una pronuncia «più toscana che ferrarese» (44), B si scambia sguardi
ammiccanti con i figli dei Finzi-Contini, che sembrano invitarlo sotto il
loro scialle.
Cioè: il padre che sostiene l’integrazione cerca invano di dissuadere
il figlio dall’unione con la famiglia che ha scelto l’isolamento. Al tempo
stesso, nonostante la famiglia del narratore sia chiaramente divisa, con
il figlio che si ribella al padre, i Finzi-Contini al contrario, forse proprio
per il loro isolamento, sembrano compatti nel voler conquistare il gio-
vane attraverso un incanto estetico, costituito da classe e casta, lingua
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obietta che, anche se molto tempo prima, gli etruschi sono, sì, vissuti,
come chiunque altro. Le tombe avvalorano quella semplice riflessione
con i bassorilievi che rappresentano tutti gli oggetti di cui si sono serviti:
zappe, funi, accette, forbici, vanghe, coltelli, archi e frecce. Oggetti con
cui si entra in azione, siano essi domestici o militari. Oggetti di cui i
Finzi-Contini non hanno mai fatto uso.
I cimiteri sono presenti dall’inizio alla fine del romanzo, forse anche
più che nelle opere di Edgar Allen Poe. Il padre di B è responsabile del-
la manutenzione del cimitero ebraico di Ferrara. Ermanno Finzi-Conti-
ni ha pubblicato una raccolta di iscrizioni del famoso cimitero israelitico
di Venezia dove, scopriamo, si è dichiarato alla moglie. I cimiteri sono
luoghi di memoria e affetto, uniscono i vivi e i morti, non sono luoghi da
evitare o di cui aver paura. L’orrore, in questo romanzo, non è rappre-
sentato dalla morte, e nemmeno dal morire da giovani. No, l’unica cosa
che si ha da temere davvero è passare dalla giovinezza al cimitero senza
essere vissuti, senza iniziazione. Ed è questa la sorte che si rischia nel
giardino dei Finzi-Contini, un mondo gotico in cui morte e immaturità
combaciano magicamente e il tempo è sospeso. In definitiva, questo è
il destino di Alberto Finzi-Contini, che rinuncia a ogni forma di coin-
volgimento, politico, morale e sessuale, e muore di cancro prima ancora
che possa essere condotto, come la sorella e il resto della famiglia, alla
terribile iniziazione dei campi di sterminio nazisti.
Del destino del narratore del romanzo durante e dopo la guerra
sappiamo solo che, come l’autore stesso, fu arrestato nella primavera del
’43, e che è sopravvissuto per raccontare la storia. Di Bassani sappiamo
anche che scelse con molto coraggio la via dell’impegno e dell’inizia-
zione. Infatti, terminata la tesi e laureatosi nel ’39 come il narratore, si
unì a uno dei partiti politici liberali che si formarono per combattere il
fascismo, il Partito d’Azione. Arrestato dai fascisti, fu liberato nel luglio
del ’43, quando Mussolini lasciò Roma. Qualche giorno dopo si spo-
sò. «L’arte, quando è pura, è sempre anormale, asociale, inutile» (263),
osserva il narratore de Il giardino dei Finzi-Contini. In questo senso, è
chiaro, arte e letteratura hanno molto in comune con il giardino incan-
tato di Micòl. Ma, per quanto i Finzi-Contini lo possano desiderare, non
si vive in un’opera d’arte.
378
19.
THE FUTILITY OF RECOLLECTION
Taxonomy, Temporality, and Tomb Goods
in Il giardino dei Finzi-Contini
1 ������������������������������������������������������������������������������-
thing], since one always threw away one object to seize another. Bonpland was sure he
would lose his mind should the wonders not soon cease». (Humboldt 1800, 13; trans-
lated by Lucia Lermond.)
2 Plato, Phaedrus 265E (1976), 276.
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Rodica Diaconescu Blumenfeld
between the level of the narrative and that of the character 4. By render-
ing impossible a sorting of the narrative voice in terms of text and char-
acter, the work as a whole undoes the racial laws that made the Shoah
possible. That this is of course an impossibility we, as the author, al-
ready know. Writing is not an instrument to resurrect the dead, has not
the power to transgress that boundary 5, nor even to comfort the living,
indeed memorializes utterly the «inutilità di ogni commemorazione» 6.
Bassani, as every author, has the power of life and death in narrative,
to keep alive or to kill. Il giardino displays this power as the power to
expand and contract time. These temporal dilations and compressions
further take on spatiality 7. Time past, like the dead, is gone, but space
can become its analogue. Il giardino becomes the tomb of the homeless
dead, perforce an empty tomb, since the characters for whom Bassani
built it are themselves creations of the author, whatever poignant echoes
they sound of lived persons or of the many millions of lived dead.
The most obvious engagement with taxonomy is the drawing of dis-
tinctions among different sorts of Jews and their grouping together as
Jews. The narrator’s father sorts and groups together: «gli ebrei – se-
farditi e aschenaziti, ponentini e levantini, tunisini, berberi, yemeniti, e
perfino etiopici […]» (330). This difference in identity is reflected also
in the historical research of Professor Ermanno on «le varie cosiddette
Nazioni nelle quali era divisa nel Cinque e Seicento la Comunità vene-
ziana, la Nazione levantina, la ponentina, la tedesca, l’italiana» (400).
The narrator queries what «Jew» means (341), discussing the various
rites or schools (342), his family and the Finzi-Contini participating
in the same until the latter’s restoration of the Spanish school temple
(413), from which they then return to the Italian (374, 413). «Piuttosto
ridicolo», declares Micòl Finzi-Contini, «continuare a fare tante distin-
zioni» (414), after the racial laws. Yet the narrator’s father in his attempt
to accommodate to the not yet too far progressed racial laws argues that
the Jewish deaths not permitted to be announced in the Padano were
two old women, one not even Ferrarese (372).
4 For a different reading of the mixed narrative voice in Il Giardino, see Radcliff-
parentheses in the body of the text, directing the reader to the complete works, Opere,
edited by Roberto Cotroneo in 1998 (Bassani 1998).
7 Bassani himself writes of a sort of permeability of time and space in Laggiù, in
380
The Futility of Recollection
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Rodica Diaconescu Blumenfeld
sort or calibrate his ideological taxonomy, prefers that which does not
challenge its adequacy.
Taxonomy is challenged in Il giardino by the temporal strategies of
the narrative voice in its power to hold the characters back from death,
to project beyond their deaths, to precipitate them into the void place-
lessness of mass death. We have already encountered an instance of this
in the narrator’s listing of trees that will be cut down as firewood in the
winter of ’43, a temporal as also a geographical displacement by the ref-
erence to Stalingrad (352). Già, adesso, mai, and più as deictics are never
aligned. The Finzi-Contini tomb «già si mostrava pressappoco come è
adesso» (325). Professor Ermanno does not smile at his mother’s por-
trait «né quella mattina, né mai» (473-474). The narrator recalls a day of
study at the Finzi-Contini home where he wishes that «neve e gelo non
si sciogliessero più, che durassero eterni» (470). And the winter of ’38-
’39, months then experienced as «sospesi al di sopra del tempo», he re-
members now (and what time is when?) «a più di vent’anni di distanza»
(439). Suddenly, the narrator dislocates by comparing his room-to-room
exchanges with Professor Ermanno to those with the prisoner in the cell
next his in the spring of ’43 «per il bisogno di sentire la propria voce, di
sentirsi vivi» (476) 8. In and out of imagined times and spaces, the narra-
tor moves his characters and his readers. A conversation with his father
is described by the narrator: the father «parlava come se io e lui fossimo
già morti, […] da un punto fuori dello spazio e del tempo» (565), which
recalls to us the cicadas and the boy’s bicycle wheel rotating more and
more slowly «ancora in cerca del punto di immobilità» (352), and the
Epilogue’s seal of words that marks the silencing of Micòl by the «vero
bacio» (578) 9 that was not to be. The kiss, the words, that were not to
be are visited retrospectively by the narrator (419).
In arguably the most forceful temporal dislocation of the novel, the
narrator observes his family at the Passover table who «di lì a qualche
anno sarebbero stati inghiottiti dai forni crematori tedeschi» (478), hav-
ing already seen the Passover table as like that Kippur table prepared
«per Loro, i morti famigliari» (478), buried but present. Here quite pal-
pably is the permeability of narrator/character, whom to this point we
8 It is not possible to fail to align this with the dead pair of the Dickinson poem,
free spirit, maternal figure, seductress? For key interpretations of Micòl, see Schneider
1974 and Farnetti 2006.
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The Futility of Recollection
have largely called the narrator. Viewing the «poveri visi» (478) of his
bourgeois family, he argues:
[…] certo non lo immaginavano che sarebbero finiti così, né io stesso lo im-
maginavo, ma ciò nondimeno già allora, quella sera, […] anche se li sapevo
tanto ottusi di mente, tanto disadatti a valutare la reale portata dell’oggi e
a leggere nel domani, già allora mi apparivano avvolti della stessa aura di
misteriosa fatalità statuaria che li avvolge adesso, nella memoria. 10
11 ����������������������������������������������������������������������������������-
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13 See Rinaldi 2006 for an attentive reading of the textual variants in Il giardino. On
visits in January 2009 and 2010, through the gracious help of Professor Silvana Onofri,
I was able to read, at the new center of the Fondazione Bassani at the University of Fer-
rara, the digitalized section of the manuscript of Il giardino and to take away 49 pages for
further study.
14 Cfr. the room of Malnate, 447.
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The Futility of Recollection
385
Rodica Diaconescu Blumenfeld
Bibliography
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nata di studi per Giorgio Bassani, Anna Dolfi e Gianni Venturi (a cura di),
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Otto/Novecento 1, 153-167.
Schneider, Marilyn (1974). Mythical Dimensions of Micòl Finzi-Contini, Italica
51, 1, 43-67.
386
20.
«ALAS POOR EMILY»
BASSANI POETA
Martin Rueff
Il professor Bianchi, quello di italiano, aveva cominciato la lezione
declamando una canzone di Dante, e un verso mi aveva molto colpito.
Diceva: «L’essilio che m’è dato a onor mi tengo».
Poteva essere la mia divisa, il mio motto.
Giorgio Bassani, Il romanzo di Ferrara, Dietro la porta
Il saggio è stato tradotto dal francese da Barbara Chitussi con competenza e grazia. La
ringrazio di cuore.
1 Il romanzo di Ferrara, Bassani 1998: d’ora in poi RF.
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Martin Rueff
2 In risposta (II), Bassani 1998, 1210 e In risposta (IV), ivi, 1297: «Io, per me, ho
del primo e legge Croce – in particolare la Storia d’Europa nel secolo decimonono uscita
nel 1932. Bassani cita spesso l’influenza di Croce, cfr. per esempio RF, 1342. «J’ai pu
fréquenter Croce» ricorda in Interview de Giorgio Bassani (Bassani 1985, 11). Longhi
viene ricordato in qualità di relatore di tesi nel Giardino dei Finzi-Contini (RF, 401); cfr.
inoltre Paola Bassani 2006, 111 ss.
4 In risposta (II), Bassani 1998, 1210.
5 Ivi, 1208 e In risposta (III), Bassani 1998, 1217. Nella Teoria estetica, Adorno ha
i versi, i romanzi, le opere teatrali. Racine è un grande poeta non perché scrive andando
a capo, cioè in versi. Lo era anche per quello, certo, ma lo era soprattutto perché aveva
una cosa profonda da esprimere. Lo stesso si dica per Alfieri, per Goldoni eccetera, tutti
poeti, grandi poeti».
7 In risposta (IV), Bassani 1998, 1296 e 1297: «Lo scrittore, il poeta, non è mai un
388
«Alas poor Emily». Bassani poeta
389
Martin Rueff
vicino a Carlo Cassola e alla letteratura degli Ermetici, che fiorì all’epoca
mia. Volevo però essere diverso, scrivere in un modo che fosse simile al
loro, certo, ma al tempo stesso diverso. Intendevo essere uno storico, uno
storicista, non già un raccontatore di balle. 12
12 Ivi, 1342.
« ce qui arrive aux poèmes à cette date, c’est justement la date, une certaine expérience
de la date. […] chaque poème d’aujourd’hui, la nouveauté de chaque œuvre poétique de
notre temps qui, à cette date, aurait pour singularité de dater (transitivement), de rester
en mémoire de date» (Deridda 1986, 19 ss. e passim ma soprattutto 25, 34 ss., 68 ss., 84
ss.). Si veda anche Lacoue-Labarthe 1986, 59 ss. Cfr. Deguy 1980, 51-54.
16 Bassani 1985, 11; e anche 3: «je suis l’unique écrivain qui mette dans ses textes
les dates véritables. Je ne les invente jamais, même dans les poésies».
17 In risposta (VI), Bassani 1998, 1326.
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«Alas poor Emily». Bassani poeta
La poesia si tiene lontana dalla verità poiché non dice tutta la verità
dell’io del narratore. Bassani formula un’ipotesi di tipo scalare: a un
estremo vi è la frottola che esalta le illusioni della falsità, all’altro la con-
fessione assoluta, ciò che la verità stessa ha detto. Fra questi due estremi
vi sono il romanzo, che inventa la menzogna del personaggio, e la po-
esia, che tende in maniera asintotica alla verità del narratore. I perso-
naggi dicono la verità, ma, propriamente, non «tutta la verità»: «Io mi
confesso attraverso i miei personaggi, mi confesso indirettamente, una
parte importante di me rivive in loro. Per questo ne scrivo» 20. Così è per
il narratore degli Occhiali d’oro: «il giovanotto è dunque, in sostanza,
soltanto una forma del mio sentimento, una parte di me» 21. L’ipotesi si
18 Secondo una preziosa testimonianza di Portia Prebys, Bassani «era convinto che
l’editoria fosse in crisi perché ormai mancavano romanzieri che siano anche poeti. La
letteratura di consumo, diceva, non ha niente a che vedere con la poesia e qui stava, a suo
avviso, la ‘colpa’ della società moderna» (2000, 172).
19 In risposta (VI), Bassani 1998, 1325.
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Martin Rueff
precisa: la poesia di Giorgio Bassani dice una verità del narratore che la
narrazione non saprebbe, non potrebbe dire.
Le ultime pagine di Dietro la porta ci mettono forse sulla strada giu-
sta. Ricordiamo quel racconto sconvolgente, uno dei più belli, dei più
puri del Romanzo di Ferrara. Ancora studente, il narratore vede il mi-
gliore amico partire (Otello va a ripetere l’anno dai Barnabiti a Padova)
e accoglie un nuovo venuto in classe (Pulga). Benché gli ispiri un senso
di repulsione, elegge Pulga a nuovo amico, sfidando il biasimo degli altri
compagni che l’avevano offeso respingendo i suoi tentativi di fare amici-
zia. Ora, già accolto in seno alla famiglia, Pulga si rivelerà un traditore.
Dietro la porta è il racconto di un tradimento. I compagni del narratore
(Cattolica, soprattutto) decidono di mettere in scena una forma di pro-
cesso, un’ora della verità. Inviteranno lo spergiuratore a casa di Catto-
lica e lo indurranno a parlare dell’amico. Quest’ultimo origlierà dietro
la porta e, di fronte all’evidenza, sarà costretto ad ammettere la fellonia
di Pulga. È esattamente ciò che accade. Dopo pochi minuti Pulga vuota
il sacco, sparla del narratore, confessa un’attrazione per la madre: «un
po’ ‘sfasciata’ come sono sempre le ebree, ma però con una bocca tale,
con certi occhioni ‘marron’, e con certe occhiate, specialmente …» (RF,
676), sospetta poi l’amico di essere omosessuale: «Ma sì. Ero di sicuro
un ‘finocchio’, sia pure allo stato potenziale: un ‘busone’ in attesa sol-
tanto di ‘saltare il fosso’ e tuttavia ignaro (questo, il tragico!) della bel-
la carriera che mi stava davanti, inevitabile …» (RF, 678). La messa in
scena avrebbe dovuto concludersi con l’irruzione del narratore tradito
nel teatro in cui si sarebbe fatto giustizia, e dove il trio dei cospiratori
sperava di far scoppiare un’autentica bagarre; il narratore si tiene inve-
ce nascosto, e pedala, nella notte, fino a casa, «a testa bassa in fretta»
(RF, 681). Il giorno seguente, senza fornire spiegazione alcuna, chiede
al maestro di cambiare banco. Dopo qualche mese incontra Pulga a Ce-
senatico. Questi annuncia che lascerà Ferrara, e interroga l’amico sulle
ragioni dell’improvviso voltafaccia. A disagio per il silenzio di quest’ulti-
mo, Pulga precisa: «sento che mi nascondi delle cose … che non mi dici
tutta la verità» (RF, 695). Il narratore accompagna Pulga durante una
gita in canotto. In mare, lungi dal confidarsi, resta in silenzio; percorso
da un brivido, si sente escluso. E commenta:
Se, accogliendo il suo invito di poco prima, mi fossi deciso, e avessi posto
bruscamente me e lui di fronte alla verità, a tutta la verità? Il vento del largo
avrebbe cominciato a increspare l’acqua soltanto tra un’ora. Il tempo non
mi sarebbe mancato. Senonché, nel momento stesso in cui, dinanzi a quel
gramo dorso nudo, remoto, a un tratto, inattingibile nella sua solitudine,
392
«Alas poor Emily». Bassani poeta
393
Martin Rueff
23 È significativo, poi, che Bassani abbia voluto farsi fotografare diverse volte sulla
soglia di una porta socchiusa, che non varca mai completamente (cfr. le riproduzioni in
Le roman de Ferrare: Bassani 2006b, 809).
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«Alas poor Emily». Bassani poeta
non gli fosse sembrato, a lui, di star sparando in un certo senso a se stes-
so, gli avrebbe tirato immediatamente» (RF, 780). Ripensando alla mor-
te dell’airone abbattuto da Gavoni, nota: «Prima che a furia di perdere
sangue gli occhi gli si velassero, l’airone aveva dovuto sentirsi all’incirca
come lui adesso: chiuso da ogni parte, senza la minima possibilità di
sortita. Con questa differenza, però, a suo svantaggio: che lui era vivo,
ben vivo» (RF, 823). Ottenere un nuovo vantaggio sull’airone significa
scegliere la morte; o meglio, fare della morte un tesoro (RF, 849).
È innegabile che l’ossessione per l’identità del Romanzo di Ferrara
sia «intimamente legata» (secondo l’espressione di Bassani) alla verità
interiore dell’ebreo 24. La differenza dell’ebreo, come Bassani riesce così
bene a mostrare, viene nel contempo denunciata e negata dai goym, e
viene rivendicata e insieme rifiutata dagli ebrei stessi 25. L’essenziale non
sta nel fatto che possa essere denunciata per poi essere esaltata, oppure
negata per essere poi dichiarata. Essenziale è che essa abbia a che vedere
con lo scoglio dell’identità della differenza:
Lasciamo perdere! Una delle forme più odiose di antisemitismo era appun-
to questa: lamentare che gli ebrei non fossero abbastanza come gli altri, e
poi, viceversa, constatata la loro pressoché totale assimilazione all’ambiente
circostante, lamentare che fossero tali e quali come gli altri, nemmeno un
poco diversi dalla media comune (RF, 464).
24 Cfr. per un quadro generale: Romano 1979; De Angelis 1995, 9-25. Sulla questio-
ne dell’ebraismo nei romanzi di Bassani cfr. il testo ormai classico di Renato Bertacchini,
Appunti sul semitismo di Bassani, (1960, 301-338); Neiger 1983; Possiedi 1993, 107-119;
Kertesz-Vial, 1985; il testo ispirato di Cristiano Spila, Le jardin de la mort: Giorgio Bas-
sani et le judaïsme (2006, 103-111); cfr. infine Scarpa 2007, 117-156.
25 «Che fossimo ebrei, tuttavia, e iscritti nei registri della stessa Comunità israe-
litica, nel caso nostro contava ancora abbastanza poco. Giacché cosa mai significava la
parola ‘ebreo’ in fondo? Che senso potevano avere, per noi, espressioni quali ‘Comunità
israelitica’ o ‘Univesità israelitica’, visto che prescindevano completamente dall’esistenza
di quell’ulteriore intimità, segreta, apprezzabile nel suo valore soltanto da chi ne era
partecipe, derivante dal fatto che le nostre due famiglie, non per scelta, ma in virtù di
una tradizione più antica di ogni possibile memoria, appartenevano al medesimo rito
religioso, o meglio alla medesima Scuola?» (RF, 341-342).
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Martin Rueff
27 Bassani 1985, 2. E vd. RF, 370: «In futuro, ‘fermi restando il divieto dei matrimo-
ni misti, l’esclusione di ogni giovane, riconosciuto come appartenente alla razza ebraica,
da tutte le scuole statali di qualsivoglia ordine e grado’, nonché la dispensa, per gli stessi,
dall’obbligo ‘altamente onorifico’ del servizio militare, noi ‘giudei’ non avremmo potuto
inserire necrologi nei quotidiani, figurare nel libro dei telefoni, tenere domestiche di raz-
za ariana, frequentare ‘circoli ricreativi’ di nessun genere». La poesia intitolata Le leggi
razziali condanna «l’ebraismo metastorico» (Bassani 1998, 1438).
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«Alas poor Emily». Bassani poeta
tempo del racconto. Ogni tappa viene resa più insostenibile dalla preci-
sione, priva di ogni enfasi, del narratore: la lettera con cui vengono ac-
colte le sue «dimissioni» dal Circolo del Tennis (RF, 375), l’espulsione
di Adriana Trentini e di Bruno Lattes dal campo di tennis dove stanno
vincendo una partita (RF, 382), e soprattutto la scena in cui il narrato-
re viene espulso dalla biblioteca di Ferrara, per essere poi costretto a
frequentare quella, privata, di Ermanno Finzi-Contini: «Tutto impet-
tito, facendo rientrare il pancione e riuscendo persino a esprimersi in
lingua, l’ottimo Poledrelli aveva spiegato a voce alta, ufficiale, come il
signor direttore avesse dato in proposito ordini tassativi: ragione per
cui – aveva ripetuto – facessi senz’altro il piacere di alzarmi e di sgom-
berare» (RF, 462).
A Ferrara le leggi razziali condurranno alla deportazione di «cen-
tottantatré su quattrocento!» ebrei (Una lapide in via Mazzini, RF, 86)
«presi dai repubblichini. Dopo una breve permanenza nelle carceri di
via Piangipane, nel novembre successivo furono avviati al campo di con-
centramento di Fòssoli, presso Carpi, e di qui, in seguito, in Germania»
(RF, 577).
Ma cosa accomuna la questione formale della differenza indifferen-
te tra romanzo e poesia e la questione, storica e tragica, della differen-
za indiscernibile degli ebrei? Ce lo dice una folgorante osservazione di
Bassani. Laggiù, in fondo al corridoio, il testo che a modo di postfazione
chiude il Romanzo di Ferrara, contiene un’osservazione sull’intera ope-
ra. Bassani ricorda la redazione degli Occhiali d’oro:
Al punto in cui mi trovavo, Ferrara, il piccolo, segregato universo da me
inventato, non avrebbe più saputo svelarmi nulla di sostanzialmente nuovo
[corsivo nostro]. Se volevo che tornasse a dirmi qualcosa, bisognava che
mi riuscisse di includervi anche colui che dopo esserne separato aveva in-
sistito per molti anni a drizzare dentro le rosse mura della patria il teatro
della propria letteratura, cioè me stesso. Chi ero, io, in fondo? – era ormai
tempo che cominciassi a domandarmi appunto come nelle ultime righe
della Lapide si era domandato Geo Josz –. Un poeta, e va bene. Ma poi?
(RF, 941-942).
Bisogna soffermarsi sulla lettera del testo. Bassani evoca il momento cru-
ciale in cui comprende che per sviluppare il Romanzo di Ferrara avrebbe
avuto bisogno di collocarsi al cuore della scena allestita. Proprio qui egli
pone la questione dell’identità: chi ero, io, in fondo? Ora, da questa do-
manda scaturisce immediatamente la figura di Geo Josz, l’ebreo scam-
pato ai campi, nel racconto Una lapide in via Mazzini. Insistiamo: alla
questione dell’identità risponde la figura del deportato: «d’une certaine
397
Martin Rueff
manière Geo Josz parle de moi» 28. Ricordiamo che in questo racconto
sconvolgente Geo Jostz torna a Ferrara il giorno in cui un operaio affigge
la lapide a memoria dei centottantatré ebrei deportati in Germania e «là
morti». Ora, sulla lista compare anche il suo nome: «la lapide avrebbe
dovuto essere rifatta, dato che quel Geo Josz, lassù, cui in parte risultava
dedicata, non era altri che lui stesso, in carne e ossa» (RF, 87). Ce n’è
abbastanza per una nuova ora della verità. Ma in questo caso la scena, la
visione e il nome coincidono. Il dispositivo finirà per fare impazzire Geo
Josz. Deportato, tornato per sentirsi «sperduto», si esilierà ancora. Tor-
nando sulla scena in cui aveva schiaffeggiato il conte Scocca, un vecchio
nazi-fascista, Josz si era chiesto «‘Che cosa faccio qui con costui? Chi è
costui? E io che rispondo alle sue domande, e intanto mi presto al suo
gioco, io, chi sono?’» (RF, 122). È la domanda che pone Descartes nelle
Meditazioni, prima di essere quella di Rousseau nelle Fantasticherie. È
anche la domanda di un airone abbattuto in volo: «‘Dov’è che mi trovo?’
aveva l’aria di chiedersi. ‘E cosa mi è successo?’ (RF, 776).
Alla questione dell’identità personale risponde quella del deporta-
to, tornato dall’oltretomba. E a essa risponde, per uno strano cortocir-
cuito, una nuova domanda: quella sull’identità del poeta – «Un poeta, e
va bene. Ma poi?». Come se rispondere alla questione dell’identità con
l’identità poetica valesse a ripiombare nell’«enigma». È quindi legittimo
credere che per Bassani la differenza tra romanzo e poesia sia, poetiz-
zata, la questione ebraica per eccellenza: la questione della differenza
come identità.
28 Bassani 1985, 7.
29 Leopardi: RF, 349; Pascoli, d’Annunzio: ivi, 403; Ungaretti: ivi, 428; Ariosto: ivi,
349; Baudelaire: ivi, 411, 511-512 («Maudit soit à jamais le rêveur inutile […]»).
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«Alas poor Emily». Bassani poeta
Il conflitto tra i due amici è di carattere non tanto estetico quanto piut-
tosto etico e politico. Coerentemente con i valori in cui crede, Malnate
ama sopra ogni cosa Victor Hugo e Carducci, e segnatamente le poesie
repubblicane di Carducci. E, più ancora di Carducci e Hugo, «da buon
milanese, la sua grande passione era il Porta […] Poteva dirne a memo-
ria centinaia di versi […] La Ninetta del Verzee la sapeva per intero, e fu
proprio lui a rivelarmela» (RF, 545 e 552). Giampi citava poi «con pari
399
Martin Rueff
400
«Alas poor Emily». Bassani poeta
32 «Il professor Ermanno non aveva venduto fumo. Fra i quasi ventimila libri di
casa, moltissimi dei quali di argomento scientifico, o storico, o variamente erudito (in
tedesco, i più di questi ultimi), ce n’erano sul serio parecchie centinaia che apparteneva-
no alla Letteratura della Nuova Italia. Di quanto poi era uscito dall’ambiente letterario
carducciano di fine secolo, nei decenni in cui Carducci aveva insegnato a Bologna, si
può dire che non mancasse nulla. C’erano i volumi in verso e in prosa non soltanto del
Maestro, ma quelli di Panzacchi, di Severino Ferrari, di Lorenzo Stecchetti, di Ugo Brilli,
di Guido Mazzoni, del giovane Pascoli, del giovane Panzini, del giovanissimo Valgimigli»
(RF, 468).
33 Bassani possedeva la traduzione delle poesie di Emily Dickinson di Marta Bini
(Milano, Denti 1949: cfr. Bassani 2006a, 154). Riportiamo qui di seguito l’originale ingle-
se del 1862 (J 449 o F 448): « I died for Beauty – but was scarce / Adjusted in the Tomb /
When One who died for Truth, was lain / In an adjoining Room – // He questioned softly
«Why I failed»? / «For Beauty», I replied – / «And I – for Truth, – Themself are One – /
We Brethren, are», He said – // And so, as Kinsmen, met a Night – / We talked between
401
Martin Rueff
L’ipotesi è che la poesia entri nella narrazione allo scopo di dire una
verità che non potrebbe dirsi senza di essa. Prima di tentare un’interpre-
tazione, facciamo notare che il testo costituisce per i protagonisti stessi
un oggetto ermetico. Così Micòl lo commenta nel poscritto: «‘Alas, poor
Emily. Ecco il genere di compensi su cui è costretto a puntare l’abbietto
zitellaggio!’». E subito il narratore si chiede se questa frase non valga
più per Micòl che per Emily – «una Micòl in fase depressiva, di auto-
commiserazione» (RF, 450).
Nella risposta, il narratore «si tiene stretto alla letteratura». Loda la
poesia e la traduzione, entrambe stupende. Ne commenta la qualità e il
«gusto carducciano», appropriandosi così della poetica di Micòl (tra-
sferendo cioè la lingua di Emily Dickinson, oggetto della tesi di Micòl,
nella lingua di Carducci, oggetto della sua tesi su Panzacchi). Scrive a
Micòl di avere controllato, vocabolario alla mano, la traduzione, e le
pone un problema: non capisce perché abbia reso moss con erba, dato
che il termine significa alla lettera «muschio, muffa, borraccina» (RF,
450): il muschio dei cimiteri. Si ricordi che Micòl è esperta di lessico
vegetale e che sovente rimprovera l’amico di non conoscerlo: «‘Possibile
che tu sia così ignorante?’, esclamava. ‘L’avrai pure studiata, al liceo, un
po’ di botanica!’» (RF, 407).
Il narratore propone una lieve modifica, che tiene conto dell’esat-
to significato di moss: «parlavamo; finché il muschio raggiunti /ebbe i
nomi, le bocche» (RF, 451). L’inversione di participio passato e ausiliare
si deve alla rima «congiunti-raggiunti», che pure manca nell’originale
inglese. Proprio la traduzione in rima giustifica l’osservazione del narra-
tore sulla riscrittura carducciana della poesia di Emily Dickinson. Micòl
risponde con un biglietto postale contenente due nuove versioni, e ri-
ceverà una decina di pagine di confutazione. Non abbiamo né l’uno né
l’altra.
Qual’è la posta in gioco della poesia? Cosa si nasconde dietro una
disputatio (piuttosto una schermaglia) fra traduttori? È un dialogo tra
morti, una conversazione amorosa dall’oltretomba. Non si tratta, secon-
do un’antica tradizione, di un dialogo tra un essere vivente e una tomba,
tra «le captif solitaire du seuil» e la sua «chère morte», come in Mallar-
mé 34, o nei Sepolcri di Foscolo. Il colloquio ha luogo, sottoterra, tra una
donna appena morta «per la Bellezza» e un uomo che si stende accanto a
the Rooms – / Until the Moss had reached our lips – / And covered up – our names »
(Dickinson 1994).
34 Si tratta del sonetto del 2 novembre 1877 (Mallarmé 1998, I, 66).
402
«Alas poor Emily». Bassani poeta
lei. Affronta la sorte delle due figure, legata a una differenza sessuale che
viene sottolineata dalla traduzione. Mentre la donna muore per il Bello
(principio maschile), l’uomo muore per la Verità (principio femminile).
Il gioco riesce solo in traduzione, dato che l’inglese non distingue il ge-
nere. Questa differenza delle sorti non introduce una separazione tra i
due defunti, ma una fraternità che sarà l’uomo ad affermare: «son tuo
fratello». Il colloquio si svolge di notte. Ma la violenza poetica di Emily
Dickinson esplode tutta negli ultimi versi. La forza è maggiore in inglese
che in traduzione, per via dei trattini che rendono il fraseggio più aspro:
nell’ultimo verso, un trattino separa il verbo transitivo (covered up) dal
complemento oggetto (our names). In Emily Dickinson il trattino ha la
medesima funzione dello spazio in Mallarmé: isolate in una «suspen-
sion vibratile» dal loro contesto sintattico, le parole possono ora esibirsi,
scrive Mallarmé, come «ce qui ne se dit pas du discours», come ciò che
nella lingua resiste tenacemente al senso 35. In Mallarmé le parole vibra-
no, in Dickinson esplodono.
I morti-viventi non hanno a disposizione l’eternità per le chiacchie-
re. Il «muschio» (la posta del conflitto fra i traduttori risulta ora più
comprensibile) li interrompe con un’azione duplice che ingiustamente
la traduzione riduce a unità. Il muschio impone, è vero, il silenzio agli
interlocutori, ma la versione inglese non dice che «raggiunge i nomi e le
bocche». L’inglese distingue: il muschio raggiunge, sì, le labbra (reached
our lips) ma ricopre i nomi (covered up our names). In profondità, la
vita organica della morte che ha il suo emblema nel muschio invade
le labbra altrimenti destinate a parole e baci. Li ricopre per imporre
loro un silenzio definitivo, come per soffocamento o per affogamento.
In superficie, però, il muschio cancella i nomi, li ricopre come un’erba.
La tomba è insieme volume e superficie. Viene invasa dalla vegetazione
che penetra i corpi dei cadaveri. In superficie vi sono i nomi che la ve-
getazione cancella.
È allora indubbio che questa donna, morta per la bellezza, e
quest’uomo, morto per la verità, mostrino l’immagine in versi di Micòl
e del narratore, che questi versi dicano «tutta la verità» di una coppia
impossibile. Certo, il legame evocato dalla poesia è un legame di fratel-
lanza. Si sarebbe quindi tentati di proiettare questa coppia allegorica
su quella fraterna di Micòl, morta nella sua bellezza, e Alberto. Ma se
Alberto muore è, a differenza del narratore, per malattia.
403
Martin Rueff
Ciò che rende Micòl simile al narratore è il tempo della verità, la comu-
ne capacità di vivere la durata interiore del loro affetto, l’inattitudine al
godimento immediato 36. Profondità di Bassani: la poesia offrirà quel
404
«Alas poor Emily». Bassani poeta
Una scrittura della malinconia (2003). Cfr. soprattutto La malattia del tempo, 73-128 e
Il canto di morte, 128-164. L’opera termina con una preziosa intervista, in cui l’autore
precisa la sua idea di temporalità soggettiva, cfr. 70 ss.
37 Staiger 1979, 45-46.
39 Intendiamo «l’unità dei sentimenti avvertiti da un uomo faccia a faccia con ciò
che lo circonda (un paesaggio, la natura, un suo simile) e fonda il dato oggettivo (fattuale)
e quello soggettivo (psicologico) in un’unità armoniosa […] Un francese non può dire né
l’humeur d’un paysage, né mon atmosphère […] mentre un tedesco potrà parlare sia della
‘Stimmung di un paesaggio’ che della ‘mia Stimmung’. Inoltre la parola tedesca richiama
costantemente gestimmt sein, ‘essere in accordo’ che, implicando una relativa solidarietà
e consenso con qualcosa di più vasto […] lo distingue da stato d’animo» (Spitzer 1967,
9-10).
405
Martin Rueff
L’imminenza della morte dice il tempo della poesia; non l’avvenire ra-
dioso di Malnate, ma il presente di Micòl, o meglio ancora, grazie a una
riscrittura del celebre sonetto, il passato. Alle qualità che Mallarmé at-
tribuisce al presente corrispondono quelle che Micòl assegna al passato:
caro, dolce e «pio». Pietà per il passato è la formula della poesia. Proprio
questa pietà unisce Micòl al narratore e, al di là del narratore, a Bassani
stesso: «Micòl è come me. Non avrei potuto scrivere il romanzo di cui
Micòl è la protagonista assoluta, se non fossi somigliato in qualche modo
a lei» 40.
Scrivere un romanzo poetico significherà schiudere il racconto al
tempo dell’incompiuto:
Il passato non è morto – asseriva a suo modo la struttura medesima del
racconto –, non muore mai. Si allontana, bensì: ad ogni istante. Recuperare
il passato dunque è possibile. Bisogna, tuttavia, se proprio si ha voglia di
recuperarlo, percorrere una specie di corridoio ad ogni istante più lungo.
Laggiù, in fondo al remoto, soleggiato punto di convergenza delle nere
pareti del corridoio, sta la vita, vivida e palpitante come una volta, quando
primamente si produsse. Eterna, allora? Eterna. E nondimeno sempre più
lontana, sempre più sfuggente, sempre più restia a lasciarsi di nuovo pos-
sedere (RF, 939).
Nella cinta dei giardini, le poesie del tempo semiaperto vengono scritte
sulla parete della morte. L’opera del poeta consiste dunque nell’essere
fedele al presente che si scrive dall’altro lato della porta. È questo il
modo in cui Bassani vuole essere fedele a Dante 41. In Se questo è un
41 Nel 1931-1932 Francesco Carli inizia Bassani a Dante. Ha quindici anni (cfr.
Bassani 2006a, 17). Portia Prebys ricorda che Bassani sapeva a memoria interi canti della
Divina Commedia (2000, 71).
406
«Alas poor Emily». Bassani poeta
uomo, Primo Levi afferma di aver dovuto aspettare Auschwitz per ca-
pire il canto a Ulisse: allo stesso modo, Bassani fa della prova imposta
agli ebrei di Ferrara una nuova esperienza dell’inferno, da cui deriva
l’ingiunzione alla poesia e la rivelazione del mistero di Dante.
Geo Josz è morto, è andato là donde non si torna, ha visto un mondo che
soltanto un morto può aver visto. Miracolosamente torna, però, torna di
qua. E i poeti, loro, che cosa fanno se non morire, e tornare di qua per
parlare? Cosa ha fatto Dante Alighieri se non morire per dire tutta la verità
sul tempo suo? È stato di là: nell’Inferno, nel Purgatorio, nel Paradiso, per
poi tornare di qua (RF, 1344).
Più di ogni altra cosa, interessa a Bassani l’incontro fra l’ebreo scampato
ai campi, che torna per testimoniare l’inferno, e il poeta, che sceglie la
morte per dire tutta la verità del presente.
Si può ora tracciare quella che per Bassani è la formula del poeta:
poeta è colui che scrive dopo la morte, tratta il passato come fosse un pre-
sente semiaperto e il presente come un passato del ricordo. Bassani non
ignora le difficoltà di una simile impresa.
Se i poeti non parlano sempre, o quasi sempre, di vicende che è quasi im-
possibile raccontare, non sono dei poeti. La storia del ritorno a Ferrara di
Geo Josz, per esempio, il protagonista di Una lapide in via Mazzini, ha una
portata ideologica molto grave e seria. Geo Josz torna dal regno dei morti
in una città dopo tutto normale. Ma anche i poeti, se sono veramente tali,
tornano sempre dal regno dei morti. Sono stati là per diventare poeti, per
astrarsi dal mondo, e non sarebbero poeti se non cercassero di tornare di
qua, fra noi … (RF, 1323).
407
Martin Rueff
o gli ebrei?» (RF, 319) o ancora: «perché le tombe antiche fanno meno
malinconia di quelle più nuove?». Il padre abbozza una risposta: «‘I
morti da poco sono più vicini a noi, e appunto per questo gli vogliamo
più bene. Gli etruschi, vedi, è tanto tempo che sono morti’ – e di nuovo
stava raccontando una favola –, ‘che è come se non siano mai vissuti,
come se siano sempre stati morti’» (RF, 320).
È allora che Giannina impartisce la sua lezione: «‘Però, adesso che
dici così’, proferì dolcemente, ‘mi fai pensare che anche gli etruschi sono
vissuti, invece, e voglio bene anche a loro come a tutti gli altri’» (RF, 320).
Il narratore commenta: «Era lei, la più piccola, che in qualche modo
ci teneva per mano» – come Virgilio il poeta. Giunge così il momento
della visita alla tomba della nobile famiglia Matuta, durante la quale il
narratore può meditare sul significato del cimitero per gli etruschi:
Il futuro avrebbe stravolto il mondo a suo piacere. Lì, tuttavia, nel breve
recinto sacro ai morti familiari; nel cuore di quelle tombe dove, insieme coi
morti, ci si era presi cura di far scendere molte delle cose che rendevano
bella e desiderabile la vita; in quell’angolo di mondo difeso, riparato, pri-
vilegiato: almeno lì […] almeno lì nulla sarebbe mai potuto cambiare (RF,
321-322).
La pietà, la cura delle tombe, consiste nel riconciliare i morti e i vivi con
la morte. Ora, l’imponente tomba dei Finzi-Contini («una tomba brutta,
d’accordo»: RF, 322) conteneva solo il corpo di Alberto «mentre Micòl,
la figlia secondogenita, e il padre professor Ermanno, e la madre signora
Olga, e la signora Regina, la vecchissima madre paralitica della signora
Olga, deportati tutti in Germania nel ’43, chissà se hanno trovato una
sepoltura qualsiasi» (ibid.). Raccontare la storia dei Finzi-Contini varrà
ad aprire quelle tombe per restituirle all’eternità della morte, offrendo
loro il sorriso degli etruschi 42. Poiché, come insegnano tanto l’antropo-
logia che la psicanalisi freudiana, i morti senza sepoltura non cessano di
tormentare i vivi. Trasformare il cenotafio in tomba permette di rendere
eterni i morti. Limentani, il personaggio dell’Airone, condivide la tesi di
Micòl sulla «morte delle cose» (RF, 418):
Soltanto loro, i morti, contavano per qualche cosa, esistevano veramente.
Ci mettevano un paio di anni a ridursi al puro scheletro: lo aveva letto da
qualche parte. Ma dopo non cambiavano più, mai più. Puliti, duri, bellissi-
mi, erano ormai diventati come le pietre preziose e i metalli nobili. Immu-
tabili, e quindi eterni (RF, 837-838).
408
«Alas poor Emily». Bassani poeta
43 Pensiamo per esempio alla «i» di Lida Mantovani (RF, 13); alla targhetta del
medico nella Passeggiata prima di cena (RF, 72); ai cartelli in memoria di Clelia Trotti
(RF, 126) e alla scena in cui anche Clelia Trotti legge delle lapidi (RF, 159); alle targhe
con «i nomi dei fucilati» in Una notte del ’43 (RF, 174); alla lettera di rottura di Delidier
negli Occhiali d’oro, riportata in stampatello sulla pagina (RF, 281) come l’annuncio di
morte con cui termina il romanzo (RF, 314). Anche qui il dispositivo tipografico è quello
dell’epitaffio, o della poesia. Si pensi anche alla differenza tra la «A» e la «B» di Dietro la
porta (RF, 585-586).
409
Martin Rueff
notizie mettendo insieme vecchi ritagli di giornale: «RITTO DI INSURRE GATO DAL-
LA COST, diceva un altro titolo a lettere anche più grandi di quelle del precedente. E
un altro: ENNI E TOGLIATTI – ATTACCANO IL GOVER. E un altro ancora: RRE
SANGUE EBRAICO – A POLONIA D’OGGI» (RF, 736).
410
«Alas poor Emily». Bassani poeta
411
Martin Rueff
In rima
I libri riuniti nella sezione In rima erano già stati inclusi in una prima
antologia nel 1951: L’alba ai vetri. Poesie 1942-’50. Un breve poscritto
conteneva importanti rivelazioni sulla storia del poeta – si apriva con la
celebre formula di Roberto Longhi: «Critici si nasce: poeti si diventa» 48.
Bassani vi ripercorreva la propria storia, attribuendo un ruolo decisivo
alla cesura che la guerra aveva imposto alla sua carriera di poeta.
La prima fase, precedente il 1942, è quella di una poesia in certo
45 Sulla dialettica tra romanzi e versi, cfr. Varese 1994, 63-66. Andrea Guiati traccia
412
«Alas poor Emily». Bassani poeta
49 Ibidem.
50 Ivi, 1165.
413
Martin Rueff
51 «Esiste comunque un poeta italiano, che io ritengo molto simile a me, cioè Atti-
lio Bertolucci. Ecco un poeta vero!»: In risposta (VII), Bassani 1998, 1349.
52 Bassani 1998, 1371. Bisogna poi dire che questa raccolta deve molto a Longhi
414
«Alas poor Emily». Bassani poeta
56 Ivi, 1396.
415
Martin Rueff
Senza
57 Andrea Guiati parla di un’aria «mistica e luminosa» nel suo saggio Bassani poeta
ta (1986, 31).
416
«Alas poor Emily». Bassani poeta
legata alla ricerca della verità e capace di tornare alle poesie del primo
periodo per prendersene gioco con divertita ironia.
61 «Bassani ha scritto un libro superbo, forse il suo più bello; il libro di un’alta per-
fezione formale e, nel tempo stesso, ingenuo (proprio là dove vuol essere, ed è diabolico),
generoso, scoperto (proprio là dove, seguendo la propria aurea regola, l’autore schiaccia
con più convinzione il piede sul ‘fren dell’arte’» (Pasolini 1974, 333-336 e 1999, 2072-
2076).
62 Berardinelli 2003.
63 Gialdroni 1996.
64 «Gli epitaffi rappresentavano uno schema mai applicato in Italia. Lui fu il primo
417
Martin Rueff
dà così a ogni frase uno statuto intermedio tra prosa e verso. Tesauro
vi riconosceva infatti un’«arte mezzana fra ’l poetico e l’oratorio» 65. Si
potrebbe considerare l’epitaffio la prima poesia spazialista: con la sua
composizione a ‘spalliera’ esso annuncia anche l’arte di André Du Bou-
chet che tanta attenzione dedicava al rapporto tra la struttura logica e
sintattica del testo e gli effetti di sospensione del senso offerti dalle spa-
ziature tra le parole sulla pagina. Leggere gli epitaffi significa accettare
l’imperativo del taglio: parole, sintagmi, frasi vengono in un certo senso
sospesi sulla targa commemorativa attraverso un procedimento ricco di
alti effetti drammatici: si pensi al «vita» con cui si chiude Da quando,
alle ultime parole della poesia sui fascisti a Ferrara, alla forza della paro-
la «bambino» in Al telefono. E più la poesia è lunga (e accade a volte che
questi epitaffi meritino tutta l’ironia di Micòl e si dispieghino su diverse
targhe votive) più gli effetti spalliera sono interessanti, come nel caso
di Storia di famiglia o della Porta rosa. Accade anche che Bassani giochi
con le dimensioni del corpo della lettera, come in «MARG», abbrevia-
zione di un nome che sembra un acronimo:
addio –
ciao dolcissima Marg proprio così
CIAO DOLCISSIMA MARG. E
nient’altro 66
68 Giustamente Lenzini sostiene che: «essendo le occasioni alla base delle poesie,
gli atteggiamenti dell’io, i suoi scatti umorali, le sue idiosincrasie, qualsiasi momento dello
scorrere del tempo può far scattare la molla della scrittura» (1982, 167).
69 Bassani 1998, 1453.
418
«Alas poor Emily». Bassani poeta
419
Martin Rueff
È questo il poeta che compone «della morte oltre la riviera», come sug-
gerisce la traduzione di Bassani di T. S. Eliot. La poesia di Epitaffio è
il risultato di una scrittura postuma, o post mortem: in Da quando la
vita è finita, ritratta, sparpagliata ai piedi del poeta come corrispon-
denza che nessuno ha mai aperto; nella poesia sui fascisti di Ferrara
il poeta chiede: «non lo vedi che sei tu quoque / mezzo morto?» 75.
Gli ‘epitaffi’ sono le poesie di un morto vivente. Il bambino di Al tele-
fono è «vivo e sepolto in me» 76. Lo straordinario piano sequenza del-
la poesia Rolls Royce è stato scritto da un morto – «subito dopo aver
chiuso gli occhi per sempre» 77 – che torna come in sogno nei luoghi
d’infanzia. E mentre La porta rosa offre l’immagine di un archeologo
che risuscita i morti della sua città, Storia di famiglia si chiude con la
visita al cimitero. Ecco, al cuore di Epitaffio, l’epitaffio per i morti del
giardino di Ferrara. Il romanzo di Ferrara resta allora inscritto nella
poesia:
Giacciono comunque tutti e tre assieme padre madre e figlio
sepolti da molti anni nel cimitero
israelitico di Ferrara
nel piccolo prato a sinistra che si stende giusto di là
dal cancello d’ingresso
tre snelle candide
lapidi sobriamente
iscritte 78
77 Ibidem.
78 Ivi, 1445.
420
«Alas poor Emily». Bassani poeta
con una tradizione o con una ripresa (Da Villon, Da Alceo, Da Machado, Ut pictura).
80 Deguy 1999, 63.
82 Ivi, 1501.
83 Resta ancora da commentare il significato dei nomi propri di poeti nella poesia
421
Martin Rueff
pria referenza al reale nel nome proprio di persona, nel toponimo (Orly,
Piazza Indipendenza, Modena Nord, Ciampino) e le date (15 giugno
1975). La data è forse il nome proprio del tempo.
Sarà allora più facile comprendere l’importanza che le ricorrenze
assumono per Bassani (Compleanno, Brindisi per l’anno nuovo, A mia
figlia per il suo compleanno). Esse nominano il tempo che passa. Gli
epitaffi di In gran segreto moltiplicano i nomi per scongiurare il tragico
senso di morte imminente che domina l’intera raccolta – «prima che gli
anni via via più / rapidi / sottraggano alla mia memoria troppi partico-
lari» 84. Viene da pensare che Bassani componga gli epitaffi per se stesso
nel momento preciso in cui, in una luce crepuscolare, si sente conqui-
stato dall’inesistenza:
Volevo che l’ineffabile potesse diventare
eterno
dar voce all’inesprimibile far sì
che l’inesistente o
quasi finalmente
esistesse 85
84 Ivi, 1515.
85 Ivi, 1477.
86 Ibidem.
87 Ivi, 1475.
422
«Alas poor Emily». Bassani poeta
88 Ivi, 1476.
89 Ivi, 1505.
90 Ivi, 1457 e 1475.
423
Martin Rueff
Bibliografia
424
«Alas poor Emily». Bassani poeta
425
Martin Rueff
426
21.
TRANSITIONAL IDENTITIES
The Other in the Works of Giorgio Bassani
Cristina M. Bettin
2 See the interview that Giorgio Bassani gave in 1978 at the Italian Cultural Insti-
427
Cristina M. Bettin
4 See the interview that Portia Prebys gave to Renzo Ricchi in 2000 on her life with
6 Radcliff-Umstead 1987.
428
Transitional Identities: The Other in the Works of Giorgio Bassani
Gli occhiali d’oro 9. However, as I have mentioned, his aim was not to
write an historical essay or to judge the Italian society of the early thir-
ties politically, but, rather, to raise social awareness for the benefit of
people who were discriminated against. Bassani was the first writer to
discuss the condition of categories of people, such as Jews, Gypsies and
homosexuals, who were considered ‘other’ by the Fascist regime. With
the exception of Bassani’s novel Gli occhiali d’oro, no Italian fiction of
that period dealt with these themes or drew parallels between groups
who were discriminated against, such as Jews and homosexuals. The
fact that Bassani deals with marginalized groups supports the notion
that his narrative has a social consciousness rather than a racial one, as
has been claimed by some scholars.
In her essay on Bassani, Mirna Cicioni suggests that minority and
majority, or insider and outsider, are shifting concepts, and that at the
time referred to in Bassani’s writing, the (heterosexual) Jews and the ho-
mosexual (Gentiles) were insiders, part of the Fascist regime, conniving
with it, while at other times they were outsiders 10.
There is some truth in Cicioni’s claims. I will, nevertheless, show in
this essay that there are other points to be made about Bassani’s novels,
one of them being the way he has interpreted the concept of Other, not
only in terms of outsiders or insiders, but also concerning difference as
compared to the majority group. The Other is someone who is not like
the rest. At the same time, the outsider, even if he or she is a person who
does not belong to a particular group because he or she lives outside it,
can be like the Other. In short, the status of outsider does not neces-
sarily imply ‘otherness’. Regarding someone as ‘other’ is often used to
support an argument for exclusion, so that the excluded might end up
looking at themselves as outsiders, but this does not mean that the two
words mean the same thing. The Other is always in relation to ‘us’, and
thus is a kind of insider. Consequently, it is necessary, in the context of
this discussion, to reinterpret the concept of identity.
Many scholars from a variety of fields believe that cultural identity
is something fixed and unchangeable, where people share the same his-
tory and ancestry. Yet this is an essentialistic view that does not take into
account all the changes that have occurred and are still occurring in our
society. I claim that it is necessary to replace this notion. As Stuart Hall
aptly observes, «[c]ultural identity is a matter of ‘becoming’ as well as
429
Cristina M. Bettin
430
Transitional Identities: The Other in the Works of Giorgio Bassani
431
Cristina M. Bettin
432
Transitional Identities: The Other in the Works of Giorgio Bassani
Geo is not able, then, to erase his past, and, after some time he changes
completely, starting to wear his concentration camp uniform again, to
talk a lot about what he had gone through, turning himself into a living
memorial, in order to make the people, in this case Ferrarese society,
remember. As a result of his behavior, Geo is no longer welcome among
those in the surrounding society, including his Jewish fellows. No one
helps him or has a kind word for him. On the contrary, he is now seen as
a negative element by the same society that had previously accepted him
as an equal. He is now someone who suddenly does not fit in anymore,
who is not able to fit in, because now he is the Other.
In a society looking for normality, someone like Geo is an obstacle,
and this story reflects the experience of many survivors after World War
II. Primo Levi himself, as he wrote many times, at first had difficulty
publishing his masterpiece Se questo è un uomo (1958). Following the
war, many Italians, among them Jews, wanted to forget this traumatic
event and avoided even talking about it. Now things have changed, and
Italian literature is experiencing the opposite phenomenon, with the ap-
pearance of memoirs and autobiographies, but in Bassani’s time, with the
exception of Primo Levi, who dealt with his experience in Auschwitz,
no Italian writer described Italian Jewish communities and the tragic
433
Cristina M. Bettin
I would add that the so-called Others are sometimes part of the majority
and other times are not, as in the case of the characters of the novel Gli
434
Transitional Identities: The Other in the Works of Giorgio Bassani
occhiali d’oro. Gli occhiali d’oro is set in Ferrara, and here, as in Cinque
storie ferraresi, all of Bassani’s themes are present, including solitude,
isolation, Jewish identity, exclusion and the use of historical events.
Isolation and ensuing marginalization in Gli occhiali d’oro are dou-
bled. On one hand, there is the isolation and the exclusion of the Jews
from Italian society, and on the other hand there is the isolation of the
individual. In Gli occhiali d’oro, a first person narrator (characteristic of
many Bassani’s novels) tells the story of Athos Fadigati, a homosexual
doctor. At first Fadigati is well accepted by Ferrara’s society.
Even after discovering his homosexuality, Ferrara’s society tolerates
him, because he is discrete and he does not cause any scandals. But
when Fadigati falls in love with Deliliers, a young, good-looking univer-
sity student, exposing his liaison publicly, the Ferrarese bourgeoisie can
no longer tolerate the situation. Scandalized by this behavior, which is
considered immoral, they ostracize and isolate him. As a consequence,
Fadigati loses his patients and his reputation. As a consequence of his
shame, humiliation, and public derision, followed by the criminal be-
havior of his young lover, who steals his money and other personal ob-
jects, Fadigati commits suicide.
The narrator, a Jew who has been expelled by his own group and
isolated by society as consequence of the Racial Legislation of 1938,
begins to feel that he has something in common with the doctor. What
he has in common is the fact that suddenly he is considered by the Fer-
rara’s bourgeoisie as an Other. But even before the application of the
Racial Laws, the narrator isolated himself, like Fadigati. Here we see a
doubling of isolation followed by exclusion, both self-imposed and so-
cially enforced by the majority group. When the anti-Semitic campaign
starts, the narrator remembers those first days like a nightmare. «Il sen-
so di solitudine che mi aveva sempre accompagnato in quei due ultimi
mesi diventava se mai, proprio adesso, ancora più atroce: totale e defini-
tivo. Dal mio esilio non sarei mai tornato, io. Mai più» 16. The «exile»
of the character is represented at first by Bassani, voluntarily followed
by mixed feelings, such as humiliation, anger, hate, and disappoint-
ment. Some of these emotions are not present in the tragic character
of Fadigati. Fadigati feels shame and humiliation, but, as he says to the
narrator, «[f]orse bisognerebbe essere così, sapere accettare la propria
natura. Ma d’altra parte come si fa? È possibile pagare un prezzo simile?
435
Cristina M. Bettin
Nell’uomo c’è molto della bestia, eppure può, l’uomo, arrendersi? Am-
mettere di essere una bestia, e soltanto una bestia?» 17.
Apparently Fadigati seems to accept his status as the Other. The
question he poses to the narrator reveals his inability to completely ac-
cept his status as Other. Moreover, as the Other, like the Jewish narra-
tor, he sees a difference between them. As he puts it,
«Il mio caso è diverso, l’opposto esatto del suo. Dopo ciò che è accaduto
l’estate scorsa non mi riesce più di tollerarmi. Non posso più, non debbo
[…] è proprio il caso di dirlo. Non c’è più niente da fare, per me […].» 18
The response of the other Other, the Jewish narrator, who refuses to ac-
cept this reality and his new status of Other as well as outsider is: «Che
cosa dovrei fare? […]. Accettare di essere quello che sono? O meglio:
adattarmi ad essere quello che gli altri vogliono che io sia?» 19.
Fadigati’s answer is yes. The narrator should accept his ‘otherness’
and be like others want him to be. Since «essere quello che è la rende
tanto più umano (non si troverebbe qui in mia compagnia, altrimenti!),
perché rifiuta, perché si ribella?» 20.
These are the differences between these two Others. If until now
we have seen some parallels between the two characters, such as dis-
crimination and public isolation, it is also possible to see, throughout
the passages quoted above, what makes these two characters different:
first, their acceptance of their difference and, second, their reaction to
being different. In the case of the Jewish narrator, being an Other is not
a choice, but rather a consequence of the discrimination of the Racial
Laws. The Jewish narrator does not want to be an Other, but only a
simple Italian Jew. As he asks himself, «può un italiano, un cittadino
italiano, ammettere di essere un ebreo, e soltanto un ebreo?» 21.
Of course he cannot. This is because the Jews of Ferrara, like other
Italian Jews, were completely integrated into the Italian State. After the
Unification of Italy, Italian Jews lived like the rest of Italian population,
with the same rights and legal footing as everyone else. Italian Jews, as
the Jewish narrator says, are not like other Jews, especially those from
Eastern Europe, who never moved out of the ghetto.
17 Ivi, 300-301.
18 Ivi, 300.
19 Ibidem.
20 Ibidem.
21 Ibidem.
436
Transitional Identities: The Other in the Works of Giorgio Bassani
This is why it is difficult for him to accept his status of exclusion and
ostracism by the society in which he lives and where he thought he was
completely accepted.
What drives the narrator to this isolation is this unwanted exclu-
sion. His behavior, then, is a consequence of being suddenly discrimi-
nated against because of his different faith.
For Fadigati, ‘otherness’ is completely different. Initially, before the
change in his behavior with his young lover, Fadigati is accepted by Fer-
rara’s bourgeoisie. The doctor’s homosexuality is seen as ‘eccentric’, be-
cause he is one of them. Nevertheless, Fadigati knows that he is ‘other’,
even when he still is an ‘insider’, and this acceptance is only superficial
and based on the hypocrisy of the surrounding society. However, for
him: «Ma era possibile durare indefinitivamente a vivere così, nella soli-
tudine più assoluta, circondato dall’ostilità generale? Presto in ogni caso
sarebbe venuto il momento che avrebbe dovuto licenziare l’infermiera,
ridursi in un ambulatorio più piccolo, cominciare a vendere i quadri.
Tanto dunque valeva andar via subito, tentare di trasferirsi altrove» 22.
Nevertheless, and this is one of the major differences between the char-
acters, Fadigati accepts this situation with passivity and inactivity, be-
cause, as he says to the narrator: «Ma alla mia età … E poi, anche se
avessi il coraggio e la forza di decidermi a un passo simile, crede che
servirebbe a qualcosa?» 23. Meanwhile, the response of the Jewish nar-
rator is different, because he does not want to passively accept this dis-
crimination and, as he puts it, «adattarmi ad essere quello che gli altri
vogliono che io sia» 24.
In conclusion, if, on one hand, we have the homosexual doctor,
who relinquishes his right to be ‘different’ or ‘other’, we have, on the
other, the Jewish narrator, who refuses to be ‘different’, because he is
not. Thus, the parallels between these two characters can be found in
the external factors contributing to discrimination against them more
than in their behavior, which has been shown as different. As Bassani
commented on the cinematic version of the novel: «the two find them-
selves together, and they understand each other because they are differ-
ent, and yet similar […] two outcasts, who derive their strength to stay
together precisely from their marginalization, and who in fact sense that
22 Ivi, 299.
23 Ibidem.
24 Ivi, 300.
437
Cristina M. Bettin
they are the same precisely because they are persecuted differently» 25.
Their shock at suddenly being discriminated against and consid-
ered ‘other’ is also well illustrated in Bassani’s late novel Il Giardino dei
Finzi-Contini, in the words of the Jewish narrator:
[io] al contrario ero nato e cresciuto in un ambiente perfino troppo dispo-
sto ad aprirsi, a mescolarsi con gli altri in tutto e per tutto [.] Mio padre,
volontario di guerra, aveva preso la tessera del Fascio nel ’19; io stesso ero
appartenuto fino a ieri al G.U.F. Siccome dunque eravamo sempre stati del-
la gente molto normale, noialtri, anzi addirittura banale nella sua normalità,
sarebbe stato davvero assurdo che adesso, di punto in bianco, si preten-
desse proprio da noi un comportamento al di fuori della norma. […] Una
delle forme più odiose di antisemitismo era appunto questa: lamentare che
gli ebrei non fossero abbastanza come gli altri, e poi, viceversa, constatata
la loro pressoché totale assimilazione all’ambiente circostante, lamentare
che fossero tali e quali come gli altri, nemmeno un poco diversi dalla media
comune. 26
However, this tomb does not belong to the Finzi-Continis of the narra-
tor’s story, who are Micòl and her family, because they, with the excep-
tion of Micòl’s brother, Alberto, who died of an illness in 1942, will all
438
Transitional Identities: The Other in the Works of Giorgio Bassani
28 Ivi, 336.
29 Ivi, 355.
439
Cristina M. Bettin
30 Ivi, 341-342.
440
Transitional Identities: The Other in the Works of Giorgio Bassani
all other citizens. With the rise of Fascism, and the legislation of Ra-
cial Laws, Jews were again considered to be other and not accepted.
For this reason, in accordance with their transitional status of some-
time insider, sometime outsider, Jews always had to adapt themselves,
to find their way to adjust themselves in this changing reality. Moreover,
when the ghetto gates opened, many Jews left and moved into better
neighborhoods, living side by side with Gentiles, sending their chil-
dren to non-Jewish schools, and generally taking an active part in all the
spheres of Italian public life. That is why the Jews, like other minorities,
have, throughout history, at times been considered outsiders, and at
others insiders.
The components of our identities are always in transition and never
fixed, not only as Others perceived by society, but also as we perceive
ourselves. The Finzi-Continis are a good example of the fluid nature
of identity. At the beginning they are represented as outcasts, different
than the other Jews, but with the edict of the Racial Laws of 1938 and
the discrimination against them as Jews, they begin to change and to
open their home, in particular the tennis court, to the Jews who have
been expelled from the local tennis club. This change allows the nar-
rator to visit the magna domus daily, to become a friend of the family,
and to fall in love with Micòl, who rejects him and has an affair with the
Gentile friend of his brother, Malnate.
The novel is filled with strong emotions, and the protagonist’s unre-
quited love for the beautiful Micòl is a central element of the plot, dem-
onstrating once again, as in all Bassani’s novels, the power of the feelings
of loneliness, rejection, and isolation, as well the death of the protago-
nists. Death and the decadent atmosphere are constantly present in the
novel. From the start, there is a strong sense that something tragic is
going to happen to the main characters (in fact, with the exception of
the narrator, they die), and it is for this reason that the so-called Oth-
ers, like the Finzi-Continis, evoke the empathy of the reader, who will
find them now more ‘human’ and more like the other Jews of the Fer-
rarese community, since they will share the same tragic destiny of all
the Jews who have been deported and murdered. Thus, what seems to
determine the concept of otherness here is the historical context of the
novel. History plays a crucial role in all of Bassani’s work, and, can-
not be separated from his narrative. It is impossible, in fact, to make a
clear division between history and literature, since both disciplines are
strictly connected one another. Bassani had the capacity to fuse history
and literature in his writing, as Sergio Parussa observes:
441
Cristina M. Bettin
[Bassani] bears witness to the past without renouncing the resources of-
fered by imagination. It is a literature that includes historical facts without
suppressing the subjective gaze on those facts, without denying that order
not purely factual, not purely objective elements of writing – such as the
author’s gaze, the narrator’s and the character’s voices, as well as the read-
ers’ reaction – may also contribute to knowledge of reality. 31
All of this makes Bassani’s narrative distinctive and also very modern.
His portrayal of Italian society and the Jewish world are still memorable
and unique. Even now, Bassani remains the only one who depicted in
detail Italian Jewish life during the years of the Fascist regime before the
Holocaust, not only after it, as some other writers, such as Primo Levi,
did. Throughout the corpus of Bassani’s work, the uniqueness of Italian
Judaism compared to the Judaism of other European countries is clear,
but, most importantly, the Other is not a fixed category. Rather, the no-
tion of what constitutes ‘otherness’ is in constant flux and is translated
according to the social and political changes of any given time.
Bassani, as we can gather from some interviews that he gave to Ital-
ian magazines, never saw himself as a Jewish writer, but rather as an
international and universal writer. Like many other Italian Jewish writ-
ers, such as Carlo Levi or Umberto Saba, Bassani always regarded him-
self first as Italian and then as Jewish. Thus, his narrative, although it is
based largely upon Italian Jewry, in particular the Jews of Ferrara, goes
behind this. What seems to interest him more is the representation of
the Others, such as the Jews who have been discriminated against by
the Fascist regime in 1938, but also other categories of people, like the
homosexual doctor Athos Fadigati of the Gli occhiali d’oro, or the other
characters of the Cinque storie ferraresi, not necessarily Jews, like the
Gentile wife of the doctor Elia Corcos or the socialist Clelia Trotti, who
are considered ‘other’ even if sometimes they were insiders and other
times outsiders. This affirms that Bassani, in all his novels, had a social
consciousness rather than a racial one. His attention as a writer was
directed at all the marginalized categories of people. While the depic-
tion of Italian Jewish life predominates in all this work, it is part of his
concern with the marginalized, and he used it in order to suggest how
discrimination against so-called Others, but above all, how our idea of
discrimination and our concept of difference, can be fluid and subject
to change.
442
Transitional Identities: The Other in the Works of Giorgio Bassani
Bibliography
443
Cristina M. Bettin
444
22.
UN POETA È SEMPRE IN ESILIO
L’ebraicità di Bassani
alla luce della tradizione letteraria
Piero Pieri
445
Piero Pieri
Chi, fin dal primo giorno di scuola, sceglie l’ultimo banco dell’aula
perché spinto dal
mio intenso desiderio di esilio 2
4 Ibidem.
446
Un poeta è sempre in esilio
disprezzo che sempre, fin dalle elementari, avevo sentito alitare con timore
dal fondo delle classi, come le comprendevo, ora! 5
Per chi ha patito nella vita reale il carcere, l’analogia scuola-carcere raf-
forza l’aspetto autoritario dell’istituto scolastico, e, in forma allusiva, lo
stesso aspetto evoca la dittatura fascista e le sue conseguenti ipocrisie
sociali. L’anarchico istintivo, indifferente nei confronti del sistema sco-
lastico, esibisce un ribellismo nato con l’infanzia. È un ribellismo che
non va alla ricerca di particolari origini psichiche, per ragioni, crediamo,
legate alla poetica del romanziere, che, poi affermerà, «non si è mai per-
messa l’applicazione della cosiddetta analisi psicologica», nella convin-
zione, crociana, «che l’io profondo è ineffabile» 6. Al posto di una vana
auscultazione dell’io profondo, il liceale valorizza il suo anarchismo
guardando al Dante delle Rime, alla canzone: Tre donne intorno al cor
mi son venute.
Il professor Bianchi, d’italiano, aveva cominciato le lezioni declamando
una canzone di Dante, e un verso, di questa, mi aveva straordinariamente
colpito. Diceva: «L’essilio che m’è dato a onor mi tegno». Poteva essere la
mia divisa – pensavo –, il mio motto. 7
Chi ha scelto l’ultimo banco non ricerca una ragione, vasta e problema-
tica, che giustifichi il suo reiterato atteggiamento. Identificandosi ide-
almente con l’esilio di Dante, tuttavia, guarda al suo fiero isolamento
attraverso la lente di una nobile tradizione letteraria. Se non agisse, nel
testo, una solida intelaiatura finzionale, potremmo notare che quella so-
litudine nasce da un desiderio privato d’autoesclusione, mentre, l’esilio
di Dante origina da cause politiche, che poi nella canzone si fanno so-
stanza morale. Proprio per quest’orgogliosa morale, il tema dell’esilio,
alla maniera di Dante poeta, diventa per lo studente un motivo di pro-
fonda identificazione. Torna alla mente De Sanctis quando, nella Storia
della letteratura italiana, ragionando sulla canzone e sul verso dell’esilio,
di Dante nota: «La quale elevatezza morale non è disgiunta in lui da un
certo orgoglio direi aristocratico […]» 8. Se portiamo questa riflessione
all’altezza del liceale, notiamo che, in sottofondo, agisce lo stesso orgo-
glio aristocratico, anche se più irriflesso, che meditato. I sismi interiori,
che hanno indotto il ragazzo a cercare quella reietta dislocazione spazia-
5 Ibidem.
6 Camon 1969, 89.
7 Bassani 1964, 16.
447
Piero Pieri
448
Un poeta è sempre in esilio
9 Bassani 1951, 3.
449
Piero Pieri
450
Un poeta è sempre in esilio
sere evitato da chi prima l’aveva benevolmente accolto: la sua mania comportamentale
non sembra avere ricadute malinconiche.
12 Testa 2008, 63.
451
Piero Pieri
«ma cara, non dovevano venire questi giorni anche per lui?» 14
17 Ivi, 1542.
18 Ivi, 1541.
452
Un poeta è sempre in esilio
Ne sentii uno che diceva: «La vecchia non può sopportare l’idea di un …
(non capii bene la parola che seguì, il servo la bisbigliò soffocando una
risata) di un … – ripeté (e di nuovo non udii) – in famiglia. Mette su la
bambina. Eppure il nostro signorino è così gentile che non sembrerebbe
neanche». «E tanto ricco» soggiunse un’altra voce, di donna, questa. E ri-
devano insieme. 19
Ogni ceto si rivolta, a suo modo, verso l’ebreo, fatto diventare entità
invisibile. Neppure una facoltosa famiglia può sfuggire alla generale in-
terdizione razziale. È tornato il risentimento cattolico, con l’ostracismo
sociale: le porte del ghetto si sono riaperte.
Chi vive nella paura e nella vergogna sta bevendo l’olio di ricino
della storia fascista.
In Rondò, lo scrittore non ricorre al supporto tematico-simbolico
dell’esilio. Il lessico dell’escluso illustra un’angoscia restia a immediate
analogie bibliche. La parola ‘esilio’ non è autorizzata a identificare gli
stati d’animo del giovane discriminato. Che a questa parola predilige
quella di solitudine, come leggiamo negli Occhiali d’oro del 1958:
Il senso di solitudine che mi aveva accompagnato in quei due ultimi mesi,
diventava se mai, proprio adesso, ancora più atroce: totale e definitivo. 20
19 Ivi, 1542.
20 Bassani 1958, 146.
21 Ivi, 145.
453
Piero Pieri
Il padre non vuole trarre nessuna lezione dall’esilio, inflitto dallo stato-
scuola; l’alunno, cacciato dall’aula, esiliato nel corridoio, è disposto
a dimenticare l’oltraggio subito, pur di tornare nell’aula sociale che
l’aveva allontanato. Il padre rappresenta l’ebreo ansioso di dimenticare
l’ingiustizia patita, pur di tornare al suo precedente stato di cittadino
italiano. Ecco perché l’insensata felicità di chi è fatto rientrare in aula
è narrata sul filo della parodia grottesca, da uno scrittore che più volte
aveva giudicato severamente la quieta remissività degli ebrei italiani nei
confronti delle leggi razziali. Fra il padre esiliato e la drastica disillusio-
ne del figlio corre un divario generazionale, così come l’antifascismo di
quest’ultimo ha prodotto una diversa percezione della propria realtà
storica. Per questo figlio non esiste più il ritorno dall’esilio dopo le leggi
razziali. Privato di un’identità nazionale, relegato ai margini della sua
stessa città, il figlio rappresenta la fine stessa del tradizionale concetto
ebraico di esilio.
Dobbiamo aspettare l’ultima stesura del Romanzo di Ferrara (quella
del 1980), per trovare ne Gli occhiali d’oro, per la prima volta, il senso
di una cocente solitudine, affiancato a quello dell’esilio, nei termini fin
qui esplicitati:
Ma l’amico tuo non trova requie: spero sempre – domani, nel paese vici-
no – e il domani viene, ed eccomi di città in città, e mi pesa sempre più
questo stato di esilio e di solitudine. 24
454
Un poeta è sempre in esilio
L’identità esiliata e solitaria del giovane Ortis 25, che come Dante sconta
il suo esilio andando «di città in città», nel personaggio degli Occhiali
d’oro trova la sua più accreditata consonanza letteraria. Appare eviden-
te come l’autore non si riconosca nel «noioso ebraismo metastorico»,
come recita la lirica Le leggi razziali 26, proprio perché il simbolismo
etnico dell’esilio ferma il discriminato su archetipi religiosi, distanti da
una condizione liberale e antifascista.
Lo stato d’animo dell’escluso torna, infine, nell’ultima opera lette-
raria di Bassani, quando, nel 1972, pubblica L’odore del fieno. In una
trilogia di racconti, intitolata Altre notizie su Bruno Lattes, torna il per-
sonaggio di Gli ultimi anni di Clelia Trotti. Come il Bruno del ’56, anche
quello del ’72 vive una depressa emarginazione, all’interno del proprio
spazio urbano, al punto da evitare il centro della città, luogo per eccel-
lenza del libero scambio sociale.
Muore, in questo passo, l’orgoglio dantesco di Dietro la porta, ed
è riaffermato il disprezzo per la corrotta società cittadina, qual s’era
mostrato negli Ultimi anni di Clelia Trotti e negli Occhiali d’oro; egual-
mente, la rabbiosa volontà foscoliana di resistere alle sirene di un ac-
comodante ritorno dall’esilio non è più ostentata. Nei bar di «infimo
ordine», Bruno passa «inosservato» e, a mala pena, di lui ci si accorge
solo quando si accolla il ruolo declassato del marcatore di punti, mentre
altri giocano a biliardo.
Si teneva alla larga dal centro cittadino e dai suoi caffè, monopolî dell’odia-
ta borghesia: odiata ed amata. Sceglieva, anche lui, le vie secondarie. Al-
la Giovecca, al viale Cavour, a corso Roma, preferiva via delle Volte, via
Coperta, via San Romano, via Fondo Banchetto, via Salinguerra, eccetera,
entrando in qualche osteria, in qualche bar di infimo ordine, dove, in piedi
di fianco al biliardo, assisteva a lunghe partite fra sconosciuti, gente di mez-
za tacca dall’aria non di rado equivoca. Il suo ingresso passava per lo più
inosservato. La sua presenza, quando non avesse offerto i suoi servigi come
marcatore di punti, altrettanto. 27
214) che nella poetica del primo romanticismo centroeuropeo, per Schiller e Novalis, «il
senso di esilio e della solitudine fu l’esperienza cruciale» (Hauser 1956, 184).
26 Bassani 1998, 1438.
27 Ivi, 877.
455
Piero Pieri
Bibliografia
456
23.
«LETTERE D’AMORE SMARRITE»
Giorgio Bassani e il Novecento dimenticato
Giulia Dell’Aquila
457
Giulia Dell’Aquila
parzialmente raccolta nel volume Le parole preparate e altri scritti di letteratura (1966) e,
in edizione definitiva e completa, nel libro Di là dal cuore (1984).
11 Le schede qui oggetto di analisi, come si legge nelle Notizie sui testi in coda al
13 Ibidem.
458
«Lettere d’amore smarrite». Giorgio Bassani e il Novecento dimenticato
pur tra loro molto differenti, si coglie il cambiamento rispetto agli anni
immediatamente a ridosso della guerra, quelli appunto del neorealismo,
durante i quali la generazione degli scrittori nati più o meno nel secon-
do decennio del secolo e cresciuta durante il regime fascista era stata
protagonista della scena narrativa in Italia, popolando la collana ugual-
mente einaudiana dei Coralli: una collana che aveva prodotto talvolta in
Bassani «l’impressione contraddittoria di perizia letteraria e di sostan-
ziale povertà poetica» 14. Ma «la Storia», ricorda l’autore del Romanzo
di Ferrara, «è usa procedere fra massacri e ingiustizie», e la storia della
critica letteraria analogamente procede tra accoglienze inspiegabilmen-
te calorose e disattenzioni protratte, come nel caso dei quattro autori
ricordati nelle lettere d’amore smarrite 15.
Una coltre di silenzio, ancora all’altezza dell’inizio degli anni Settan-
ta, ha sottratto Casa d’altri alla popolarità che pure avrebbe meritato pie-
namente, tanto da far dire a Bassani che «sarebbe vano […], nell’Italia del
1971, domandare in giro di Silvio D’Arzo e dell’unico libro importante
[…] al quale si affida la sua memoria di scrittore» 16. L’autore del Roman-
zo di Ferrara si inserisce nel solco della critica darziana che ha ammesso
quale opera meritevole di menzione solo il racconto lungo in questione
e giudicato insignificante la restante produzione. Nonostante la perfet-
ta conoscenza della lingua inglese abbia consentito a D’Arzo di leggere
in lingua originale i romanzi di Conrad, Lawrence, Hemingway e Scott
Fitzgerald ricavandone annotazioni saggistiche di raffinata sagacia 17,
l’ampiezza di letture, secondo Bassani, non gli avrebbe tuttavia garantito
uguale densità di scrittura e spessore di temi nella complessiva produ-
zione letteraria. Prova ne sarebbe quello «strano romanzetto» pubblica-
to nel ’42 da Vallecchi, in piena guerra, intitolato All’insegna del buon
corsiero, un libro che, «sebbene notato favorevolmente da più d’uno,
[rimase] affatto ignorato dal gran pubblico», e «non del tutto senza col-
pa dell’autore», per «la chiara sua matrice esclusivamente letteraria» 18.
16 Ivi, 1276.
459
Giulia Dell’Aquila
19 Ibidem.
21 Bertolucci 1971.
blicato con una nota di Anna Luce Lenzi nel catalogo Adelphi (1995) e ai volumi Essi
pensano ad altro (1976), ora riedito a cura di Roberto Carnero (2002), e Opere, a cura di
Stefano Costanzi, Emanuela Orlandini e Alberto Sebastiani, con introduzioni di Alberto
Bertoni e Fabrizio Frasnedi (2003).
24 Traggo la citazione dalla Cronologia a cura di Roberto Cotroneo (Bassani 1998,
LXXIII).
460
«Lettere d’amore smarrite». Giorgio Bassani e il Novecento dimenticato
25 Raffaeli 2011.
26 Rinaldi 2004. Una copia delle altre tre opere qui esaminate risulta invece conser-
vata tra i libri di Bassani (Rinaldi 2004, 102, 107, 122). Il campo degli ufficiali di Carocci
reca la seguente dedica: «Roma, luglio ’49 | A Giorgio Bassani, | con profonda gratitudine
| Giampi Carocci».
27 Bassani 1998, 1279.
30 Montale 1996,1666.
461
Giulia Dell’Aquila
31 Ibidem.
32 Spagnoletti 1994, 706.
33 Manacorda 1974, 314.
34 Bassani 1998, 1281.
35 Carnero 2002, 88.
36 Ivi, 89.
37 Ibidem.
462
«Lettere d’amore smarrite». Giorgio Bassani e il Novecento dimenticato
38 Ibidem.
43 Enrico Testa nel saggio Lingua e dialogo in Casa d’altri individua alcuni «nessi
tra situazioni e protagonisti di Casa d’altri e il libro biblico di Giobbe» (2004, 37).
44 Comparoni 1945.
45 Si vedano le raccolte Storie dei poveri amanti e altri versi (1945), Te lucis ante.
1946-’47 (1947), Un’altra libertà (1951), L’alba ai vetri. Poesie 1942-’50 (1963), Epitaffio
(1974), In gran segreto (1978) e In rima e senza (1982).
463
Giulia Dell’Aquila
46 Bassani 1956.
48 Affinati 2006, X. Come ancora ricorda Affinati, «chi desideri entrare nel labo-
ratorio dello scrittore, analizzando le diverse stesure a tutt’oggi disponibili, può farlo
leggendo due approfonditi saggi esegetici, usciti entrambi nel 2002: Casa d’altri. Edizione
critico-genetica, a cura di Stefano Costanzi, con prefazione di Alberto Bertoni e Casa
d’altri. Il libro, a cura di Paolo e Andrea Briganti» (ibidem).
49 Raimondi 2004, 16.
464
«Lettere d’amore smarrite». Giorgio Bassani e il Novecento dimenticato
465
Giulia Dell’Aquila
cola in alterne vicende di fortuna: scritto tra l’aprile e il maggio del 1948
e subito apprezzato da Niccolò Gallo e da Bassani, il libro fu pubblicato
integralmente e con grande successo nelle pagine della rivista Botteghe
Oscure nel ’48 (con il titolo Memorie di prigionia: Bassani ricorda che il
supplemento letterario del Times ne fece una segnalazione) 55, per venire
a poco a poco dimenticato a partire dalla successiva pubblicazione tra
i Gettoni einaudiani, nel ’54, ritoccato in alcuni punti dall’editore. A
spiegazione di questo graduale oblio Bassani non ha remore nell’indi-
care il pregiudizievole fraintendimento di Vittorini che, nel risvolto di
copertina apposto all’edizione einaudiana del ’54 (a firma di Vittorini
stesso), «lo scambiò per una cronaca di guerra, scritta non già da uno
scrittore […] bensì da un ‘ intellettuale che scrive’ teso a trarre dai fatti
che racconta un giudizio, un insegnamento morale» 56:
Giampiero Carocci non è giovanissimo. Il suo nome è noto da molti anni
come d’uno che s’interessa attivamente ai problemi storici e sociali del no-
stro paese. Noi potremmo, a suo proposito, cercare di definire che cos’è
un vero e proprio scrittore e che cos’è un intellettuale che scrive. Quello
che qui importa, però, è che, mentre uno scrittore rappresenta ora tutti e
ora (purtroppo) nessuno, un intellettuale rappresenta sempre, se sincero,
la categoria cui appartiene. Nel libro che pubblichiamo, già apparso an-
ni or sono su una rivista romana, Carocci scrive della sua esperienza di
guerra e di prigionia in Germania con la modestia e il rigore di chi sa che
migliaia d’altre persone potrebbero dirne le stesse cose. Non è perciò un
cronista ingenuo che venga trascinato dalla materia di cui si occupa e possa
anche venirne infiammato in senso lirico o epico. Egli espone i fatti con la
preoccupazione continua di spiegarseli, e di trarne un giudizio, un inse-
gnamento. C’è un risultato esplicitamente morale nel suo libro, ed è per
tale risultato ch’esso conta: per il ritratto morale che ci dà, non polemico, e
tuttavia severo, di quello che fu, negli uomini di cui era composto (almeno
per gli ultimi mesi della sua storia) il regio esercito italiano. 57
466
«Lettere d’amore smarrite». Giorgio Bassani e il Novecento dimenticato
Il […] pregio [di Carocci] è per me nel risultato morale che raggiunge,
attraverso una semplice, onesta cronaca d’un’esperienza. Non è il cronista
inconsapevole e ingenuo d’altri nostri libri, è il tipo che pone la sua atten-
zione con assoluta modestia sull’insegnamento dei fatti, sul giudizio. Le sue
memorie di prigionia potrebbero essere quelle di migliaia d’altri, è il mo-
desto, particolareggiato racconto di uno che ritorna e non ha neppure cose
troppo emozionanti da dire, uno come se ne sono uditi a migliaia. Ma quel
che ne salta fuori è un ritratto morale e storico del regio esercito italiano,
senza mai forzature polemiche, ma tranquillamente rigoroso e anche seve-
ro. L’iniziare il racconto con la morte di quel soldato, dà a tutta la storia che
viene in seguito una struttura da apologo. La prigionia diventa l’espiazione
d’una colpa che è stata di tutti, ma vista senza alcun «complesso di colpa»,
con una chiarezza che può fin parere facilità, ma è pure sempre basata
sull’onestà e l’intelligenza. 58
58 Ivi, 828.
59 Bassani 1998, 1280.
60 De Robertis 1962, 546.
467
Giulia Dell’Aquila
61 Ansaldo 1993.
62 Cicalese 2001.
63 Petroni 2005.
64 Guareschi 2008.
65 Caleffi 1968.
68 Ibidem.
71 Ibidem.
72 Ibidem.
468
«Lettere d’amore smarrite». Giorgio Bassani e il Novecento dimenticato
che «un intellettuale che scrive», con in più «una sensibilità storica di
cui non […] erano ugualmente forniti» tutti gli autori dei «cahiers de
doléance» 73 sulla recente guerra.
A definire il profilo di Carocci quale «intellettuale che scrive» piut-
tosto che young writer dovette valere la distrazione della critica e dei
lettori nei confronti di un dato che pure si offriva visibilissimo: l’ampia
educazione letteraria del giovane scrittore, svoltasi «a Firenze nell’ambi-
to di ‘Solaria’ e di ‘Letteratura’», la vicinanza al fratello Alberto, fonda-
tore e direttore di Solaria, di Argomenti e di Nuovi Argomenti. L’opera
di Carocci è, infatti, da riferire integralmente all’atmosfera culturale
solariana, alla letteratura prodotta da quel cenacolo, così legata alla me-
moria e così attenta all’emersione del vissuto in forma di associazioni
sensoriali e proiezioni mentali: è lì che nasce la «musica sommessa, pa-
catamente ironica, cecoviana, della sua prosa, per riconoscere di primo
acchito il puro artista» 74.
E a testimonianza della densità e delle aspirazioni letterarie dell’ope-
ra in questione Bassani, attento traduttore di sentimenti in geometrie,
volumi e tonalità, rileva che
[…] ciò che più premeva a Carocci nel suo libro non era tanto di offrire un
resoconto della propria prigionia in Germania, quanto di riuscire a tradur-
re una lenta discesa verso il cuore del territorio nemico in termini di puro
ritmo narrativo (segmenti paratattici irrelati, lunghe teorie di imperfetti), di
semplice colore (grigio, rosa, azzurro scialbo). 75
469
Giulia Dell’Aquila
83 Ibidem.
84 Ivi, 2322.
85 Ivi, 2323.
470
«Lettere d’amore smarrite». Giorgio Bassani e il Novecento dimenticato
nel ’61. Nel libro, ambientato molto probabilmente nel paese di Ser-
ramazzoni, si racconta di un contadino incattivito dalla miseria che, in
preda all’odio più feroce e violento, distrugge la sua famiglia: nella scrit-
tura di Cavani, che Bassani non esita a definire povera e misteriosamen-
te riuscita, risuona, pur nella ineffabile leggerezza della pagina, l’eco
di una corposa tradizione narrativa verista, che si estende da Verga a
Tozzi, passando attraverso le Novelle della Pescara dannunziane 86, e che
nell’autore del romanzo in questione si è esercitata primariamente sul
fronte lirico – conservandone l’esiguo armamentario espressivo – in una
produzione che già nei titoli segnala spesso l’attaccamento alla terra, ai
suoi ritmi e valori, anche nella fatica, nella povertà e nella solitudine dei
destini 87. Analogamente a quanto accaduto per le opere di D’Arzo e Ca-
rocci, pure nella vicenda redazionale ed editoriale di Zebio Còtal Bassa-
ni ha un ruolo determinante, come ha ricordato Guido Davico Bonino:
Zebio Còtal prese corpo di fatto verso il 1953: nel luglio del ’55 l’autore ne
riferiva epistolarmente a Carlo Betocchi come di un «romanzo di modeste
proporzioni». Era quella lettera un sondaggio per un’eventuale edizione
Vallecchi: fallito purtroppo, ma supplito peraltro dalla stampa dell’opera,
dopo una revisione di sette mesi […] presso il tipografo Ferraguti di Mo-
dena […]. Nonostante un parere sfavorevole, post factum, dello stesso Be-
tocchi […] la sua consorte Emilia aveva donato l’esemplare del marito, in
quel di Napoli, a Giorgio Bassani. Un altro esemplare fu regalato da amici
dell’autore a Pier Paolo Pasolini «di passaggio a Modena verso la fine del
’58». Il 20 aprile ’59 Bassani scrisse […] dalla sede romana della Feltrinel-
li, proponendo la riedizione di Zebio Còtal nella Biblioteca di Letteratura
da lui diretta, sia pure dopo «notevoli ritocchi», peraltro non «per difetti
importanti». Bassani aggiunse che il libro era piaciuto anche a Pasolini, il
quale si era detto «ben lieto di poter scrivere una prefazione». 88
Ambientata «fra le medesime montagne appenniniche care a D’Arzo»,
non più a Montelice bensì a San Rocco, tra «pochi tetti contadini […]
e, attorno, le stesse solitudini cretose e sconfinate» 89, l’opera, nella sua
86 Ibidem.
atti (1933), Lumi di sera (1940), Solitudini (1950), Fatica d’esistere (1953), Misericordia
del tempo (1954), Riposo d’ogni giorno (1955), Nei segni della festa (1957), Nei ritorni a
me stesso (1960), e infine il volume postumo di versi Approdare in calma (1976).
88 Con il sostegno degli studi di Marri (del quale tra «» sono riportati alcuni stral-
ci dalla postfazione Guido Cavani, come voleva essere [2008]) Guido Davico Bonino
ricostruisce la storia del romanzo di Cavani in una breve Nota biografica posta in calce
all’edizione di Zebio Còtal recentemente pubblicata dall’editore milanese Isbn (Davico
Bonino 2009, 238-239).
89 Bassani 1998, 1281.
471
Giulia Dell’Aquila
In questo senso Zebio Còtal, la storia del contadino «traqué par sa mort
(una specie di re Lear paesano)» 92, secondo Bassani sarebbe stato uno
tra i pochi libri capaci di realizzare «una delle illusioni più amaramente
scontate del neorealismo italiano postbellico»: quella di «riuscire a far
scrivere gli incolti» 93.
Una sorte tutt’altro che benevola, infine, è toccata pure al romanzo
Le finestre di Piazza Navona, scritto nel ’44, ambientato nel 1898 (secon-
do un disegno non realizzato che prevedeva una narrazione ciclica in
quattro parti, dal 1898 al 1939) e pubblicato postumo nel 1961. Di edu-
cazione rigorosamente cattolica e formazione gesuita, D’Amico fu «cri-
tico teatrale attentissimo, pugnacissimo, autorevolissimo» 94: per oltre
un trentennio fu «allo stesso livello di un Emilio Cecchi e di un Antonio
Baldini», «una delle figure chiave del mondo intellettuale e culturale
romano» e nel campo specificamente teatrale «ebbe la stessa funzione di
Renato Simoni a Milano» 95. Nonostante la sua autorevolezza D’Amico
è, tuttavia, passato alla storia come un personaggio «ragguardevole […]
ma abbastanza secondario» 96, consegnando lo stesso suo destino ad al-
cune delle sue opere. Il romanzo Le finestre di Piazza Navona, secondo
Bassani, «non fu capito» e «la critica lo accolse con evidente imbaraz-
zo» 97. Non giovò indubbiamente al libro il caso Tomasi di Lampedusa
col suo Gattopardo, «ancora fresco di stampa» 98, che come è noto era
stato scoperto e pubblicato da Bassani nel ’58, dopo essere stato rifiuta-
to dalla Mondadori e dall’Einaudi, ed era stato salutato dall’autore delle
Cinque storie ferraresi, nella prefazione all’edizione Feltrinelli, come un
«poema nazionale» che «ha riportato, rilegato […] il separatismo sicilia-
90 Ivi, 1282.
91 Ibidem, 1282.
92 Ivi, 1281.
93 Ibidem.
94 Ivi, 1282.
95 Ibidem.
96 Ivi, 1283.
97 Ibidem.
98 Ibidem.
472
«Lettere d’amore smarrite». Giorgio Bassani e il Novecento dimenticato
99 Bassani1998, LXXX.
100 Ivi,
1283.
101 D’Amico 1943.
473
Giulia Dell’Aquila
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476
24.
LE TECNICHE DEL VEDERE
NELL’OPERA DI GIORGIO BASSANI
Gianni Venturi
Ritornare ancora sulla tecnica del vedere in Bassani intesa come pos-
sibilità narrativa 1 sembrerebbe ormai ripetere un dato acquisito non
fosse che la preziosa e monumentale opera curata da Portia Prebys 2
non ci offrisse materia di riflessione, questa volta, riferentesi al contatto
di quegli artisti che allungano la lista di coloro che direttamente hanno
influenzato non solo il paratesto bassaniano – vale a dire di coloro che
esercitarono direttamente la loro influenza sulla costruzione dell’ope-
ra – ma addirittura ne hanno determinato la modalità dello scrivere:
primo fra tutti Giorgio Morandi.
La necessità bassaniana consiste nell’accompagnare o rendere ca-
pibile la tecnica narrativa del ‘vedere’ attraverso il paratesto affidato
alla illustrazione della copertina ma anche, nel caso dell’inserimento nel
Giardino dei Finzi-Contini 1962, di una acquaforte di Morandi in fun-
zione memoriale; una testimonianza assai singolare e decisiva per capire
un procedimento che necessita del testo pittorico o visivo per rafforzare
la parola o talvolta per spiegarla.
Dunque il paratesto se è un modo di ampliare il testo o di metterne
in luce le valenze segrete, è necessario indagarlo senza lasciarsi andare a
un troppo corrivo paragone di ut pictura poësis. Occorre capire perché
quelle riproduzioni, quei quadri, quelle scelte potessero e dovessero
far parte di quella poetica implicita che Bassani tende a recepire non
solo dal primo conclamato maestro, Roberto Longhi 3, e anche dalla
477
Gianni Venturi
Bianca Arcangeli a Chiara Bortoluzzi e Luca Bossi (Bortoluzzi-Bossi 2005, 31-38). Si veda
anche Arcangeli 2006, 19-22.
5 Giacomo Balla, Un angolo tranquillo, 1946.
89-106. Riferimenti a Bacon anche in Dolfi 2006, 143-155. Sulla vita e l’opera di Bacon
si vedano Deleuze 2008; Ficacci 2005; Maubert 2009; Sylvester 2003; Peppiatt 2009;
Chiappini 2008.
478
Le tecniche del vedere nell’opera di Giorgio Bassani
8 Il titolo dell’opera di Cavaglieri ha subito diverse variazioni. Nel 1915 era stato
esposto alla Mostra della Secessione a Roma come Interno. La copertina delle Cinque sto-
rie ferraresi (ripresa anche per l’edizione 1995) porta la dizione La sala disabitata. Quello
corretto rimane La sala di campagna.
9 La dicitura «paesaggio» riportata nella sovraccoperta non è esatta. A questa si
adegua il catalogo della mostra Giorgio Bassani. Il giardino dei libri 2004. Si veda il cata-
logo della mostra L’opera di Giorgio Morandi 1966 al n. 62 che riporta il titolo esatto.
10 «L. 194 mm., a. 175mm. Acquaforte su rame». La lastra, che è il rovescio della
Natura morta [Vari oggetti sul tavolo, 1931, n. 87, Vitali 1964], si trova presso la Calcogra-
fia Nazionale, Roma. Firmata in alto in centro: «Morandi». Vitali 1964, n. 20. Il Paesaggio,
con la Natura morta 1931 è stato esposto alla mostra commemorativa di Morandi del
1973: Giorgio Morandi (1890-1964) 1973, n. 52.
479
Gianni Venturi
copertine dei tardi anni ottanta se non condizionata da una strategia editoriale che privi-
legia per le copertine negli Oscar Mondadori, opere di Filippo De Pisis: Testa di ragazzo,
1926, per Gli occhiali d’oro (Milano, Oscar Mondadori 1983) e dello stesso, la sublime
Ultima natura morta marina (La penna), 1953, per Dietro la porta (Milano, Oscar Mon-
dadori 1984); ma anche di De Pisis, Nudino sulla pelle di tigre, 1931, per Dietro la porta
(Milano, Mondadori 1985); o per Il romanzo di Ferrara (Milano, Oscar Mondadori 1984),
2 voll. in cofanetto su cui è riportato di De Pisis, La pavoncella morta, 1927; nel I vol.,
De Pisis, Omaggio a Rubens, 1931, e nel II ancora di De Pisis, Ultima natura morta (La
penna), 1953. Singolare la scelta di Giorgio De Chirico, L’ora del silenzio, 1943, per Gli
occhiali d’oro (Milano, Garzanti ‘gli Elefanti’ 1986). Ringrazio Portia Prebys per l’accu-
rata ricerca. Una scelta, in questo caso capace di stimolare il rapporto Bassani-Longhi
avviene con la riedizione delle Cinque storie ferraresi del 2003. Scompare Cavaglieri e al
suo posto un indicativo Paesaggio di Morandi del 1911, in collezione Vitali, Milano. È
certamente una scelta indicativa e conseguente, ma vanificante la implicita critica sulla
borghesia ferrarese che Bassani assegnava a quel quadro e alla sua interpretazione. Anche
nella post-fazione di Cesare Segre, d’altra parte è ribadita la politicità della scrittura bas-
saniana e la convinzione di potere definire Bassani «un narratore morale»: Bassani 2003.
12 Potrebbe essere un caso, ma la positura delle figure di De Pisis, Staël e Bacon è
mostre di Roma, 2005 e Parigi, 2006. Cfr. i cataloghi delle rispettive mostre in Giorgio
Bassani. Il giardino dei libri 2004.
14 Portia Prebys mi conferma ciò che testimoniò ad Anna Dolfi. Bassani voleva
480
Le tecniche del vedere nell’opera di Giorgio Bassani
Nel 1919 Longhi compra la Sala di campagna 17 e nel 1949, come Bassani
scrive nel saggio sul pittore 18, lo scrittore vede il dipinto a Roma a casa
Longhi e ne diventa in qualche modo l’interprete più autorevole. Lo
si deduce dalla mostra retrospettiva del pittore tenutasi a Rovigo nel
1978 19, una mostra che raccoglie nell’imponente comitato scientifico
il meglio della scuola longhiana e non solo, da Mina Gregori a Roberto
Mondadori. La casa editrice inoltrò la richiesta al grande pittore che tuttavia rifiutò. Dal
rifiuto la decisione di non usare una sovraccoperta che non fosse in sintonia con ciò che,
nel momento conclusivo della sua opera, poteva esprimere la sua scelta esistenziale e arti-
stica come era stato negli altri momenti della sua produzione in una sintonia del ‘vedere’
il mondo.
15 La si legge ora in Longhi 1980, 433-435, da cui si cita.
16 Ivi, 434-435.
ni su Bassani a Roma e a Parigi, il quadro viene riproposto nel contesto dei memorabilia
bassaniani. Cfr. Bassani 2004, 104 e n. 14 con illustrazione e la traduzione del testo di
Paola Bassani in Giorgio Bassani. Le jardin des livres 2006, 114 e n. 14 con illustrazione.
18 Bassani 1953, ora Id. 1998, 1096-1098.
19 Mario Cavaglieri 1978. Non tiene gran conto per qualche possibile novità nella
sistemazione critica del pittore rifarsi al catalogo della recente mostra su Cavaglieri a Ro-
vigo (Sgarbi 2007). Utili informazioni in questo catalogo offre il saggio di Bandera 2007,
42-45.
481
Gianni Venturi
Tassi, fra gli altri. Il primo nome della lista è quello di Giorgio Bassani
che aveva consacrato la fama di Cavaglieri non solo con il magistrale
saggio ma anche con la scelta delle copertine dei suoi romanzi. L’utilis-
sima rassegna critica che accompagna il catalogo è straordinariamen-
te indicativa non solo per le motivazioni pittoriche che già Longhi e
Giuseppe Raimondi avevano confermato nei loro scritti di qualche de-
cennio prima, ma per la capacità di Bassani di avere suggestionato non
poco l’opinione degli storici d’arte come si rileva soprattutto nel saggio
di Roberto Tassi. Unica lacuna della preziosa rassegna – ma assai sin-
golare nonostante l’amicizia che legava Bassani a Ragghianti, finissimo
interprete della pittura di Cavaglieri – è l’esclusione del critico motivata
in maniera lampante per motivi di scuola. Si legga lo scritto di Tassi,
prezioso per capire come Bassani poteva ‘vedere’ gli interni attraverso
la pittura di un artista a lui così affine. Lo scrittore aveva concluso il suo
saggio del 1953 con una straordinaria evocazione visiva degli interni di
Cavaglieri, come se il pittore ebreo e rodigino potesse aver interpretato
nelle sue stanze così affollate e luminose nello stesso tempo, il meglio
di quella borghesia ferrarese che invano aveva tentato di sostituirsi alla
grande aristocrazia di cui aveva comprato le dimore, gli oggetti ma non
la capacità selettiva del gusto, della rappresentazione alta del potere:
La casa è rimasta vuota. La luce che penetra e inonda, promette vita, pace
sicurezza. Nulla cambierà mai qui.
Una società non s’inventa: ed è forse per questo che gli esempi pur recen-
ti del nostro realismo pittorico, fondati tutti, come sono necessariamente su
generose ipotesi sociali, risultano tanto meno convincenti di questa imma-
gine realistica dell’high society 20 padana di quarant’anni fa. 21
modo assai vicino allo scritto su Cavaglieri sul tema della borghesia ferrarese: «Chi sono?
[i personaggi del romanzo] Borghesi, i più, grandi e piccini: come la stragrande maggio-
ranza degli abitanti di Ferrara».
21 Mario Cavaglieri, in Bassani 1998, 1098.
22 Istruttivo il rapporto che Bassani istituisce tra la pittura del rodigino Cavaglieri
482
Le tecniche del vedere nell’opera di Giorgio Bassani
dice Bassani, l’artista chiama i suoi ‘ritratti’ (ed ecco svelata l’apparente incongruenza del
titolo: pittore invece che scultore) e che testimoniano il suo amore per la città che è «un
rapporto profondo, intimo che interessa soprattutto il cuore e l’intelligenza». Sono paro-
le che ritorneranno nelle interviste concesse da Bassani a commento del suo complesso
e difficile rapporto con la città e con quella tenace aporia di per sé poco credibile che si
chiama ‘ferraresità’. Sembra che rispetto a Cavaglieri e al tema del «nulla cambierà qui»
la sensibilità bassaniana, penso dettata dalla spinta dantesca della gens nova, attesti que-
sta consapevolezza di un ricambio della società rappresentata dalle teste in terracotta e in
bronzo i «suoi ‘omini’, le sue donnette clericali» che nella sua solitudine, nel suo eseguire
‘basso’ ancora una volta, sottolinea Bassani, ci offrono una interpretazione etica dell’arte:
«La Ferrara che lui predilige non è quella delle grandi strade ducali che danno diretta-
mente nella campagna verde e felice» ma quella che nelle sere d’estate, «la piccola gente
nuova che preme da fuori e vuole entrare, e a poco a poco riuscirà a stabilirsi per sempre
dentro la cinta delle vecchie mura urbane, sostituendo nelle antiche case aristocratiche
e borghesi le famiglie decadute e scomparse». Bassani 1950 (Prebys 2010, I, S68, 103).
23 Instaurando un parallelo tra la pittura di fine Ottocento e inizi secolo, Raimondi
notava che l’intimismo di Cavaglieri dagli illustri precedenti «riprese fiato al tempo del
secondo Impero, in forme nostalgiche e reazionarie, artisticamente parlando, con la pit-
tura della piccola borghesia dell’epoca naturalista, quando la pittura di tale etichetta non
ebbe grandi esempi da contrapporre al naturalismo letterario di Flaubert, per rinascere
con il naturalismo minore di Maupassant, o meglio con i rimedi più lirici e poetici di que-
sto: con quello che realizzò la scarsa opera di Jules Renard e di Charles Louis-Philippe,
da cui prolificò Gide, e Proust stesso» (Raimondi 1978, 25-26). Non stupisce allora che
Raimondi in una recensione apparsa sul Resto del Carlino del 1975, titolasse l’articolo La
recherche di Cavaglieri.
24 Risvolto cit. della copertina di Bassani 1974 (Il romanzo di Ferrara).
25 Un altro elemento che serve a comporre il raffinato intreccio delle scelte e delle
affinità elettive è rappresentato dal carteggio tra Tassi e Arcangeli: Iori 2006.
483
Gianni Venturi
Era un ebreo veneto, nato a Rovigo, uomo, a quanto sembra, e anche risul-
ta dall’opera, molto raffinato, di estrazione alto borghese, elegante, poco
incline alle compagnie, follemente innamorato di Juliette, che è la protago-
nista della sua pittura. Un artista per ogni verso eccentrico, difficile da far
entrare nelle storie. Giorgio Bassani nel 1946 [sic!], basandosi su un solo
quadro, ma eccezionale, quello della collezione Longhi, ha dato del mondo
di Cavaglieri una interpretazione, che a mio avviso, resta fondamentale; ha
animato quella Sala di campagna con bella invenzione narrativa, ha intui-
to il significato degli oggetti, dell’atmosfera, dell’interno vissuto. E forse i
rapporti di ambiente, tra la pittura di Cavaglieri, o almeno, un suo lato, e
la narrativa di Bassani, anch’essa per una sua parte, andrebbero guardati
con un po’ di attenzione e allora si potrebbero trovare delle rispondenze,
molto più reali e utili di quelle, nominate da quasi tutti i commentatori, ma
in verità prive di ogni giustificazione con Proust […] Ma negli interni in
cui gli oggetti hanno tanto valore, si crea un’atmosfera, che non è quella
di Vuillard, ma più complicata e crudele; i personaggi, pur così appiattiti,
vivono; nascono racconti. L’occhio acuto di Bassani aveva cominciato a
vederne, e a riferircene, uno. 26
Gli oggetti che creano l’interno, come acutamente sottolinea Tassi, pro-
ducono narrazione: «nascono racconti». I racconti dei Finzi-Contini, di
Micòl, di Alberto la cui latente ‘differenza’ è sottolineata dal nudino di
De Pisis, altro facitore di racconti.
Nel 1962 si apre alla romana Galleria dell’Obelisco, presentata da
Irene Brin e Gaspero del Corso una mostra di Eva Carocci Vedres nata a
Firenze da genitori ungheresi. Il catalogo prelude con una lettera di Elsa
Morante alla pittrice e una presentazione di Bassani. È ormai nota l’in-
comprensione tra i due grandissimi scrittori ed è veramente raro trovare
un punto d’incontro che qui si concretizza nel concetto di «interno».
Scrive la Morante:
Ora – per quanto l’attributo di dilettante non escluda affatto doni di
grazia – ben altra è la grazia che mi si è fatta oggi riconoscere nella tua
pittura! Soprattutto nei tuoi interni, i quali, sebbene senza figure, sugge-
riscono per intima virtù d’arte la forma vivente ed affettuosa dell’ospi-
te che li abita ogni giorno e che dentro ogni quadretto si sente respirare
là, in qualche angolo, pure se è discreta da non farcisi mai vedere. Si
capisce che quell’ospite sei tu, ed anche in tal senso proprio (non solo
nell’altro, assoluto, che ovviamente è valido per ogni opera d’arte) si può
dire che questi ritratti reali delle tue stanze son altrettanti autoritratti
tuoi. 27
484
Le tecniche del vedere nell’opera di Giorgio Bassani
quale è De Pisis il saggio di Ranieri Varese che sostiene con giusta causa che il ritratto di
Ferrara non sta nella ridottissima iconografia della città compiuta dal pittore ma nelle sue
nature morte. L’autoritratto depisissiano è Ferrara ma Ferrara è la sua pittura. Cfr. Varese
1999, 27-38.
29 Bassani 1998, 424. L’acquerello del Nudino disteso in copertina alla prima edi-
zione de Gli occhiali d’oro apparteneva a Claudio Savonuzzi critico d’arte, scrittore e sce-
neggiatore, figlio di uno dei martiri ebrei della lunga notte del ’43. Bassani non solo per le
comuni origini ferraresi lo frequentava anche a Roma condividendone le scelte di critica
storica, specie, come ho scritto in altra sede, i pittori dell’ultimo Cinquecento ferrarese.
Cfr. Savonuzzi 2004.
485
Gianni Venturi
Come i suoi maestri d’arte e di vita fiorentini del decennio tra il ’30 e il ’40
(anche Morandi e De Pisis, in questo senso sono «fiorentini») Eva Carocci
continua dunque a cantare, oggi, la propria debolezza, la propria femminile
ed ermetica debolezza. 30
munque notata una ulteriore conferma sulla coerenza delle scelte bassaniane in conco-
mitanza con la scuola bolognese e il magistero di Arcangeli. Leoncillo è uno scultore
di Arcangeli e la riprova è testimoniata dalla mostra dedicata a Leoncillo e curata da un
finissimo studioso ora direttore della Galleria d’arte moderna di Ravenna e curatore
delle mostre epocali su Longhi e Arcangeli, per cui si veda Spadoni 1983.
32 Spadoni 2011.
486
Le tecniche del vedere nell’opera di Giorgio Bassani
te dei versi citati, sconosciuti anche ai francesisti più accreditati. Si offrono qui le due
versioni rintracciate del testo di Christophe Plantin (1514-1589), Le bonheur du monde
(versione originale nel francese del Cinquecento): 1) Avoir une maison commode, propre
et belle, / Un jardin tapissé d’espaliers odorants, / Des fruits, d’excellent vin, peu de train,
peu d’enfants, / Posséder seul sans bruit une femme fidèle. // N’avoir dettes, amour, ni pro-
cès, ni querelle. / Ni de partage à faire avecque ses parents, / Se contenter de peu, n’espérer
rien des Grands, / Régler tous ses desseins sur un juste modèle. // Vivre avecque franchise
et sans ambition. / S’adonner sans scrupule à la dévotion, / Dompter ses passions, les rendre
obéissantes. // Conserver l’esprit libre, et le jugement fort, / Dire son chapelet en cultivant
ses entes, / C’est attendre chez soi bien doucement la mort. 2) Avoir une maison commode,
propre & belle, / Un jardin tapissé d’espaliers odorans, / Des fruits, d’excellent vin, peu de
train, peu d’enfans, / Posseder seul, sans bruit, une femme fidéle. // N’avoir dettes, amour,
ni procés, ni querelle, / Ni de partage à faire avecque ses parens, / Se contenter de peu,
n’espérer rien des Grands, / Régler tous ses desseins sur un juste modéle. // Vivre avecque
franchise & sans ambition, / S’adonner sans scrupule à la dévotion, / Domter ses passions,
les rendre obéissantes. // Conserver l’esprit libre, & le jugement fort, / Dire son Chapelet en
cultivant des entes, / C’est attendre chez soi bien doucement la mort. Christophe Plantin è
stato tra i più grandi tipografi del Cinquecento. Nato a Tours, ben presto ottiene la licen-
za di stampare tutti i libri religiosi del dominio spagnolo. Nel 1581 diventa ‘arcitipografo’
dei Paesi Bassi e in collaborazione con i generi che aprono tipografie ad Anversa, Leyda e
Parigi, s’impegna nell’opera principale, la pubblicazione di una Bibbia poliglotta (Biblia
hebraice, chaldaice, graece et latine …) patrocinata da Filippo II di Spagna che uscirà in
8 volumi tra il 1569 e il 1572. In contatto con i più grandi umanisti del tempo come lo
Scaligero viene ritratto da Rubens, mentre le sue edizioni si espandono in tutta Europa:
famosissime le stampe dei libri di Vesalio e di Ortelio. Alla sua morte l’impresa editoriale
di Anversa passò al genero Jan Moretus, poi fu acquistata dalla città che nel 1876 la tra-
sformò in museo. Una bibliografia imponente caratterizza l’attività editoriale di Plantin.
Del sonetto divenuto in breve tempo famosissimo e citato in ogni antologia francese fino
ad essere a tutt’oggi esempio di una vita che si rifà all’ideale classico, ad esempio Marziale
(«Vitam quale faciant beatiorem»), Klaniczay dà un’interpretazione legata alla «euforia
stoica». Una composizione cioè che riflette, quasi sulle orme del quietismo, un ideale
centrato sulla lontananza dal mondo e sull’io secondo il modello di stoicismo cristiano.
In altre parole l’applicazione della dottrina stoica della sopravvivenza nel mondo così co-
me è fatto. Cfr. Klaniczay-Kushner-Chavy 2000 [vol. 4, Crises et essors nouveaux (1560
-1610)], 130 e 195.
487
Gianni Venturi
La prima domanda che ci si può porre è quale sia stata la strada attra-
verso la quale lo scrittore è giunto a conoscere la poesia di Plantin. In
quegli anni Bassani lavorava molto sulle traduzioni francesi dei contem-
poranei. Erano anni massacranti: l’insegnamento a Napoli e il ritorno
in quella Roma che si preparava a diventare non solo la capitale della
nazione recuperata ma anche la capitale culturale soppiantando come
si sa una Firenze ormai in declino. Ma c’è un’ipotesi che mi riservo di
chiarire e che si rifà a quel clima di straordinaria consapevolezza cultu-
rale attuata negli anni bolognesi e confermata dalla stesura di Omaggio
apparsa in Una città di pianura pubblicata nel 1940 sotto lo pseudonimo
di Giacomo Marchi 35. Sono gli amici della Scuola Normale di Pisa e
tutti sardi trasferiti a Ferrara: i due fratelli Dessì, Pinna, Varese a cui si
aggiunge il giovane Bassani. Claudio Varese assieme a Carlo Ludovico
Ragghianti compie un viaggio in Belgio nel 1936 e da lì ritorna con un
imponente materiale di studio che solo in parte è stato pubblicato 36. Il
dattiloscritto originale molto ampio ora presso gli eredi Varese analizza
la cultura belga tra arte e letteratura. Sapendo dunque l’intrinsechez-
za dei due intellettuali, Ragghianti e Varese, viene logico chiedersi se il
nome di Plantin e del suo conosciutissimo sonetto non potesse essere
stato citato o rammentato nelle conversazioni con il più giovane Bassani
che dai tempi ferraresi delle sue prime prove coltiva la poesia francese.
In questo clima laborioso Bassani attende anche a quelle traduzio-
ni di poeti francesi che successivamente appariranno nel fondamenta-
le volume a cura di Attilio Bertolucci Poesia straniera del Novecento 37.
36 Scorci di storia della pittura fiamminga nelle sue relazioni con l’arte italiana «da
un’opera di prossima pubblicazione presso la Regia Accademia d’Italia sui rapporti cul-
turali tra Belgio e Italia», apparsa su Studi Germanici, II, 5-6, 523-625. L’opera non fu mai
conclusa. Claudio Varese ricorda il viaggio con Ragghianti in Una memoria (in Cerboni
Baiardi 2001, 13-18): «A Pisa le lezioni così libere di un critico e di un maestro moderno
come Matteo Marangoni e, in seguito, le conversazioni di ampia ricchezza e i viaggi con
Raggianti a Parigi e in Belgio hanno contribuito ad accrescere il mio interesse per le arti
figurative» (16).
37 Bertolucci 1958. Sono traduzioni da Jean Toulet e René Char. Quelle di Toulet
appaiono proprio in Il mondo europeo nel marzo del 1947, lo stesso giornale in cui pub-
blica la visita agli studi degli artisti (Bassani 1947). Cfr. Prebys 2010, I, T7, 136. Quelle di
Char appaiono in Paragone-Letteratura nel 1957. Cfr. Prebys 2010, I, T11, 136, e infine
nel 1958 nell’antologia garzantiana. Cfr. Prebys 2010, I, T12, 137. Si vedano ora in Bas-
488
Le tecniche del vedere nell’opera di Giorgio Bassani
Cfr. Prebys 2010, I, T5, 136. Da notare come a differenza dell’uso del tempo, quando cioè
anche per i grandissimi il nome del traduttore appare non in evidenza o addirittura non
c’è, qui addirittura la traduzione bassaniana precede il saggio introduttivo di Savinio e ha
la stessa evidenza. Il libro verrà ristampato dalle Edizioni Studio Tesi (Pordenone, 1988).
39 Vedilo sul Corriere della sera del 27 maggio 2003: «Darei metà della mia vita per
esprimermi facilmente».
489
Gianni Venturi
conosca (naturalmente si vede dai suoi quadri), nella vita è un vecchio sca-
polo tisico e mite, senza sesso quasi, che vive con le sorelle, dipinge nella
stanza dove dorme, con un piccolo Leopardi sul comodino accanto al let-
tuccio di ferro, e credo che sia molto religioso. 40
Il paragone avanzato con Baudelaire che, con una vita totalmente di-
versa, considera la poesia «candore, innocenza, verità, purezza, bontà,
castità, pietà, come per un Morandi» riflette, in verità, un’immagine del
pittore che Arcangeli più che Longhi rovescerà nella forte immagine
dell’eticità della pittura morandiana. Ma qui, anche se il brano si con-
clude con la sottolineata consapevolezza che per l’artista o per il poeta
è necessaria una «condizione di ingenuità» così esplicitamente di marca
romantica e crociana, ciò che importa sottolineare è la consapevolezza
di Morandi, è la sua «spietatezza» di fronte alla realtà, termine che mol-
to ci dice sul ruolo che giocherà nell’immaginario bassaniano. Più tardi,
nel ritratto di Longhi – dove appare associato nel magistero la figura di
Momi Arcangeli, Bassani pone il rapporto arte-vita come «qualche cosa
di molto problematico, vago, e incantevole. Come la vita. Come il futuro
che mi stava dinanzi. Come il tennis e gli amori …» 41. È il momento del-
le grandi speranze in cui arte e vita romanticamente coincidono e dove
la vitalità («Ero un ragazzo dotato di un fisico eccellente (giocavo al
tennis niente affatto male […] e la vita per me era tutta da scoprire») 42
si associa senza il presupposto del serriano «esame di coscienza» alla
fiducia e all’abbandono all’«arte».
La straordinaria litografia di Morandi inserita tra le pagine 88 e 89
del Giardino dei Finzi-Contini 1962 non illustra solo un tema tra i più
tensivi del romanzo, né è solo un ricordo autobiografico o un memo-
riale del passato, dell’approdo all’«arte» 43, ma diventa una chiave di
lettura del romanzo, quasi un ideale omaggio alla figura e all’opera di
Morandi 44. Alla luce della longhiana «elegia luminosa» Bassani sceglie
40 Le 10 lettere apparse sul Corriere della sera del 21 giugno 1981, vengono pubbli-
cate in Di là dal cuore col titolo Da una prigione in numero di 14. Ora in Bassani 1998,
949-962. Quella alla sorella Jenny, studentessa di pittura, porta il n. 13, 958-960.
41 Un vero maestro, Bassani 1998, 1074.
42 Ivi, 1073.
43 Risulta attendibile ciò che Andrea Emiliani mi testimonia a proposito delle par-
tite di tennis che si tenevano tra Longhi e gli allievi nel campo dei Giardini Margherita
alla presenza di Morandi. Si veda Emiliani 1993.
44 L’attenzione e il rimando all’insegnamento morandiano sono testimoniati non
solo dalla scelta delle opere in copertina ma anche da una poesia, Per un quadro di Mo-
randi, nell’edizione mondadoriana di Un’altra libertà, 1951, nella sezione Dal profondo
dedicata a Marguerite Caetani. È poi ripresa in L’alba ai vetri. Poesie 1942-50 con in
490
Le tecniche del vedere nell’opera di Giorgio Bassani
(2006, 57-62).
47 Si veda Scolaro 2006, 71.
491
Gianni Venturi
48 «Quei due giovanotti, allora certo meno moderni di lui (ma il corso del più inge-
nuamente artista dei due, Maccari, si diversificò poi da quello di Longanesi), lo portarono
tuttavia a una riesplorazione cosciente di quel vecchio mondo, si potrebbe dire prenatale,
che Morandi non ha mai sostanzialmente abbandonato, ma che ha portato tuttavia a così mi-
rabili chiarimenti e approfondimenti […] Perché non dire, insomma, che alcune incisioni
morandiane hanno un patetico ma fermissimo sapore Ottocento?»: Arcangeli 1981, 159.
49 Ivi, 123. Di questa incisione si occupò anche Giuseppe Raimondi nel suo celebre
492
Le tecniche del vedere nell’opera di Giorgio Bassani
che altro non era, in sostanza, il suo legame, non già con la superficie, ma
con la profondità della vita storica. 50
Altro che ‘santino’ sul grande pittore! E chi si accorse per primo della
scandalosa verità del libro su Morandi che imbarazzò perfino Longhi
(un Longhi cireneo in questo caso) fu un poeta; e non a caso l’amico di
una vita di Bassani, Attilio Bertolucci. Basti rileggere uno scritto di Ber-
tolucci apparso sull’Europa letteraria del 1965. Bertolucci, compagno
di strada e dai percorsi simili a quelli del giovane Bassani entrambi a
lezione da Longhi e da Arcangeli, difende quel libro e quella posizione
critica:
Non ho letto in questi ultimi tempi un libro italiano più bello del Giorgio
Morandi di Francesco Arcangeli non un romanzo né una raccolta di poesie.
[…] Questo libro è anche una confessione, un esame di coscienza, una
ricerca del tempo perduto, che riguarda oltre che quella di Morandi la ge-
nerazione di mezzo, e parlo degli scrittori, oltre che dei pittori e scultori. 51
(1994), 19-27, specie per il concetto di Fulgurance: «‘Fulgurance’ è una parola molto
destaëliana, poiché contiene l’esplosione, l’irradiazione, la non quiete interiore, e ciò che
vibra, ciò che colpisce; contiene anche la luce, la chiarità, la cosa che l’ossessionava come
quotidiana gioia, quotidiana protettrice, e come fine, raggiungimento di tutto il suo per-
corso» (22). Concetti che Bassani avrebbe potuto condividere.
53 Per de Staël: Crispolti 1971, 134-135.
493
Gianni Venturi
Se non avesse scritto L’airone, forse non sarebbe stato necessario indi-
care in Bacon l’ultimo approdo: sarebbe bastato de Staël. Arcangeli,
conclusa la ricerca su Morandi poteva sottolineare che «Morandi non è
soltanto antesignano della pittura di materia o dell’informel, chi non lo
sa?» ma già con mano sicura ripropone quel legame che, attraversa un
cinquantennio della pittura europea, e approda a Morlotti e a Burri. Per
arrivare alla più pertinente tra le comparazioni:
Fra il Morandi 1936 e il de Staël 1953 si potrebbero condurre confronti
quasi puntuali. Analogo il senso della zona stratificata, spessa, che com-
batte aspramente con la zona contigua, ne nascono, al limite, profili solidi
e inquieti, traiettorie dibattute: un dramma concentrato ed esplicito della
forma e materia tonale in Morandi, della forma e della materia colorata in
de Staël. 54
geli che costituisce la scheda introduttiva al Catalogo della mostra Turner Monet Pollock.
Dal romanticismo all’informale, 166-167 (Spadoni 2006) perché vi si trova la più evidente
riprova del nesso voluto e perseguito da Arcangeli. L’indicazione di Arcangeli viene ri-
badita da una recensione apparsa sul Resto del Carlino del 27 gennaio 1960 (la si legga
ora, sempre in questo catalogo, a p. 200). Un’altra e definitiva testimonianza critica di
questa connessione è rappresentata dal saggio di Andrea Emiliani, Un’impossibile felicità
(1994, 28-33). E a conclusione di questo lavoro non posso non segnalare questo giudizio
di Emiliani che mi trova pienamente consentaneo, e idealmente riferirlo alla scrittura di
Giorgio Bassani, un giudizio che si fonda sulla premessa di un «de Staël restituito al tem-
po della storia e insieme lo riconduce a noi per la profonda moralità dei modi» auspice
e idealmente presente «il nome di Giorgio Morandi a testimone partecipe, non casuale,
della stagione conclusiva di Nicolas de Staël».
494
Le tecniche del vedere nell’opera di Giorgio Bassani
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Gianni Venturi
498
25.
VITTORIO DE SICA
IN «THE GARDEN OF
THE FINZI-CONTINIS»
Notes from an American Classroom
Áine O’Healy
1 Although the film was distributed in English as The Garden of the Finzi-Continis,
499
Áine O’Healy
2 The Garden of the Finzi-Continis is also one of the first Italian feature films that
unfolds almost entirely within the world of Italian Jews during Fascism and the Nazi
occupation. For a useful survey of the treatment of the Holocaust by Italian filmmakers,
see Millicent Marcus’s groundbreaking volume on the filmic representation of the Shoah
from the postwar years to the present (Marcus 2007). Marcus divides Italy’s cinematic
engagement with these events into two distinct time periods. She describes the dominant
representational approach of the earlier period, which spans the years between the end
of the WWII to the end of the Cold War, as «weak memory», as it reflects an era dur-
ing which the historical acquiescence of a large number of Italians to Fascist repression
and to antisemitic persecution was not yet fully acknowledged by a nation still fiercely
attached to the myth of the Resistance. Marcus uses the term «recovered memory» to de-
scribe more recent films about the Holocaust, which reveal a greater degree of openness
to assessing Italian responsibility for participation in (or indifference to) the persecution
of Jewish citizens in their midst.
3 Prior to the screening, I routinely ask students which films about the Holocaust
they have previously viewed. The most frequent response is Benigni’s Life is Beautiful.
In recent years, some students have also viewed The Counterfeiters (Stefan Ruzowitzky
2007). Surprisingly few have seen Steven Spielberg’s blockbuster Schindler’s List (1993),
and as yet not one has reported having seen such landmark documentaries as Alain
Resnais’s Night and Fog (1955) and Claude Lanzmann’s Shoah (1985).
500
Vittorio De Sica in «The Garden of the Finzi-Continis»
tion, that is, with reference to the novel on which it is based. In the ab-
sence of articles focusing on the cinematic text, I continue to assign Mil-
licent Marcus’s landmark essay, published in 1993, to accompany the
screening. Marcus’s study constitutes a chapter in her volume on literary
adaptation, and her analysis of the film is shaped along these lines 4. It
offers, for example, an eloquent discussion of the garden motif in both
novel and film, tracing its origins to the ancient biblical text about the
Garden of Eden (Genesis 3) and its echo in Renaissance literature 5. Her
essay also discusses how the configuration of Micòl, female protagonist
of both novel and film, resonates symbolically with the mythical siren
found in the same literary tradition 6, and, in the specific case of the
film, it suggests how the link to this mythical figure is reinforced by
visual allusions to the siren’s cinematic counterpart, the femme fatale
embodied by such actresses as Marlene Dietrich in films of the 1920s
and 1930s. Most importantly, Marcus links the deployment of the gar-
den motif to the central historical premise of Bassani’s narrative, that is,
the withdrawal of the Finzi-Contini family behind the illusory protec-
tion of the garden walls following the promulgation of the Racial Laws
in 1938, and elaborates on the symbolic link established – particularly in
the novel – between the garden and the cemetery.
As Marcus weaves her analysis of the novel into that of the film,
the fictional narrative to which she refers – the story of the young Jew-
ish protagonist’s unrequited love for his co-religionist, the aristocratic
Micòl, set against the background of rising antisemitism in Ferrara –
expands, becomes fuller, more complete. She fleshes out, for example,
the ‘framing’ event outlined in Bassani’s prologue and entirely omitted
in the film, which alludes to the catastrophe that will eventually engulf
most of the principal characters 7; she also discusses the circumstances
4 Marcus 1993.
5 Here Marcus draws extensively on Bartlett Giamatti’s major study of the topos
notes the mythical element of Bassani’s protagonist: «In order to grasp somewhat the
strange composition of Micòl’s being, one must look beyond the historical and psycho-
logical levels of the narrative to its mythical patterns, its retelling, specifically, of the time-
less story of growth towards manhood, and Micòl’s role as mystagogue to the questing
and ignorant narrator» (Schneider 1974, 44).
7 �������������������������������������������������������������������������������-
veteri many years after the war, a scene that culminates with his reflection on the lack of
burial received by those members of the Finzi-Contini family who had met their deaths
in the Nazi camps. This moment of memorial reflection presumably provides the impetus
501
Áine O’Healy
as the films of emerging directors such as Bernardo Bertolucci and Marco Bellocchio.
502
Vittorio De Sica in «The Garden of the Finzi-Continis»
which features among the ‘extras’ included in the DVD version of the film produced
by Medusa Home Video. Much of the same information is contained in the short essay
Giardini d’autunno written by Manuel De Sica in 2008 and published on the Internet.
10 As Marcus notes, the director subsequently spoke of his work on The Garden of
the Finzi-Continis as providing him with an opportunity to return to his earlier «noble
intentions» (1993, 109). With this, he was undoubtedly referring to his reputation as a
neorealist director who made films with a challenging social dimension. But it is also
likely that he perceived the opportunity to direct the Bassani adaptation as a way of reas-
serting his artistic stature, which had declined considerably since the 1950s.
11 The film does not ascribe a date to the roundup of its Jewish characters by the
police. Historically, however, we know that the first mass arrests took place in Rome in
October 1943, one month after the Badoglio Armistice, following which the northern
half of Italy (including Rome) was occupied by German troops in collaboration with the
Italian Social Republic, the Fascist puppet state. In the final months of 1943 Jews were
rounded up in various other cities and transported to former prisoner-of-war camps in
Italy, notably to Fossoli in Emilia Romagna. Deportations from the Italian transit cen-
ters to the Nazi-administered camps in Germany or occupied Poland began in the early
months of 1944 (Fargion 1986; Zuccotti 2000).
503
Áine O’Healy
504
Vittorio De Sica in «The Garden of the Finzi-Continis»
Giorgio (Lino Capolicchio), whom she has caught spying on her in the
course of a tryst with her lover Malnate (Fabio Testi). Additionally, San-
da’s resemblance to Marlene Dietrich – and particularly to the German
star’s personae in the films of Josef von Sternberg – is heightened through
costuming and lighting effects in both Bertolucci’s and De Sica’s film. In
neither film, however, is Sanda’s assertive sexuality linked to any ability
to transcend the forces of Fascist aggression, as both Anna and Micòl fi-
nally prove incapable of eluding their victimary destiny. Thus, while the
intertextual connections between The Garden of the Finzi- Continis and
The Conformist serve to intensify Micòl’s erotic allure, they also posit
a tenuous link between the baring of flesh and the vulnerability of the
historical victims of a violent regime, victims who were often stripped of
their clothing, their names, and ultimately of their lives.
The casting of Helmut Berger as the reclusive Alberto Finzi-Contini
is fraught with intertextual connotations of a more complex sort. In
1969 the young Austrian actor electrified audiences worldwide with his
role in Visconti’s The Damned as Martin Essenbeck, the polymorphously
perverse scion of a wealthy German family eager to ingratiate them-
selves with the Nazi regime. From an early scene in which Martin, pro-
vocatively attired in drag, performs for his family a song made famous
by Dietrich in Blue Angel to the film’s penultimate sequence in which
he rapes his mother, thus precipitating her suicide, Berger’s character
becomes increasingly sinister and threatening. His role in The Garden of
the Finzi-Continis as the handsome heir of an aristocratic Jewish family
who is ultimately destined to die of an unnamed disease 12 elicits a dif-
ferent kind of performance. Clothed in tennis whites or in white silk pa-
jamas and bathrobe, Berger’s Alberto is a languid, introspective figure,
reluctant to venture beyond the gates of the family estate. Yet, despite the
actor’s effort to convey the fragility and hypersensitivity of the doomed
Finzi-Contini heir, his screen image was by 1970 so overdetermined by
his role in The Damned that the memory of Martin Essenbeck inevitably
hovers over his performance of Alberto for any viewer who has seen
both films 13. Whereas in Bassani’s narrative the young man’s sexuality is
ambiguous – and the possibility of his unrequited attraction to his friend
12 The disease is clearly named in the epilogue of Bassani’s novel, but in the film
Alberto seems to grow ill and die simply as the result of his innate fragility, that is, his
inability to cope with a cruel, unfriendly world.
13 ����������������������������������������������������������������������������������-
ences ‘ in the know’ by the fact that Berger was at the time of the film’s release the long-
term lover of the much older Luchino Visconti.
505
Áine O’Healy
14 In the early Italian reviews of Il giardino dei Finzi Contini, this reading seems to
have been dominant. Emiliano Perra notes that almost no reviewers in Italy emphasized
the historical setting. Instead, the focus of the film was perceived to be the power of
memory and the lingering force of lost youthful love, set in a framework in which the
Holocaust was merely a secondary element (2010, 96).
506
Vittorio De Sica in «The Garden of the Finzi-Continis»
15 These comments are made in the course of an interview with Pirro included in
the ‘extras’ that feature in the DVD version of the film produced by Medusa Film.
507
Áine O’Healy
16 The final version of the screenplay is published in De Santi and De Sica 2005.
17 According to Giacomo Lichtner: «In this sense, at least, the film maintains its
honesty with regard to history, if not to Bassani’s novel» (2008, 138). Like Emiliano
Perra, Lichtner points out that the reception of the film, particularly in Italy, ignored its
innovative foregrounding of the Italian collaboration in rounding up the Jews.
508
Vittorio De Sica in «The Garden of the Finzi-Continis»
banal and inaccurate 18, but also to its re-elaboration of the central char-
acters. Effectively, his comments reveal a sense of violated ownership
vis-à-vis the characters he had originally created in the pages of the nov-
el. His criticism of Pirro’s decision to include Giorgio’s father among
the Jews rounded up by the Fascists is particularly telling in this regard.
Offended by the film’s implication that this character is destined to die
in the Nazi camps, he reveals that Giorgio’s father was in fact based on
his own father, who did not undergo this ordeal. Yet, it must be pointed
out that, in cinematic terms, the inclusion of the captured father in the
sequence set in the schoolroom where Giorgio and Micòl once took
their state exams invests the film’s concluding moments with undeniable
dramatic force. Not only does the moment when Micòl finds herself
unexpectedly addressed by Giorgio’s father, detained with dozens of
other Ferrarese Jews, suggest the erasure of class barriers brought about
by the Nazi genocide, but the encounter also serves a narrative purpose
by revealing to the film’s viewers that Giorgio has escaped the roundup.
The father’s answer to Micòl’s anguished question about the fate of his
son is met with an expression of deep relief, reinforced in the intense
embrace between the man who had once criticized the haughty attitudes
of the Finzi-Contini family and the young woman who had seemed in-
different to Giorgio’s wellbeing. Effectively, the scene conjures up the
sense of ‘too-lateness’ endemic to melodrama, since it implies a much
deeper attachment to the young man on Micòl’s part than she had previ-
ously revealed. In this way, it opens up the interpretive possibility that
her coldness was a ruse calculated to prompt him to leave Ferrara and
hence to save his life.
Despite the sentimental undertones of the concluding encounter of
Micòl and Giorgio’s father, the scene in the classroom explicitly opens
up the film to the scene of history. Gathered in this crowded space are
Jews of every age and social class, while a large map of the world hang-
ing on the wall gestures to the distant locations where they will meet
their death 19. While embracing Micòl, Giorgio’s father expresses the
Bruno Lattes, which, according to Bassani’s reading of the film, seems to occur before the
Armistice of September 1943, that is, at a point when the arrest and detention of Italian
Jews had not yet begun.
19 According to Marcus, «It is in this scene that De Sica announces his definitive
departure from the cinematic ‘garden’ of consolation by literally opening out his film
to universal history. He does so by photographing Micòl and her sobbing grandmother
against the background of a map of the world in the classroom where they are being held
509
Áine O’Healy
desire that all of them, the Jews of Ferrara, will be allowed to stay to-
gether, acknowledging the inevitability of the deportation while seem-
ingly unaware of the random separations that would certainly be en-
acted in the process. As he speaks, the camera pans to the window with
its view of the rooftops of Ferrara and proceeds to scan the streets of
the city, empty of any human presence. In accompaniment the poign-
ant notes of Sholom Katz’s version of the Jewish lament for the dead,
El Malé Rachamim, are heard on the soundtrack. This ancient hymn,
whose Hebrew title translates into English as God, Full of Compassion,
was revised by Katz to incorporate a lamentation for those slaughtered
in the Shoah. As the voice of the cantor soars, the names of three death
camps in occupied Poland – Auschwitz, Majdanek, and Treblinka – are
clearly intelligible even to listeners unable to understand the remainder
of the Hebrew hymn, giving the scene a precise historical contextualiza-
tion while conjuring up a mood of irreparable loss.
It is principally this scene that enables De Sica’s Garden to be con-
sidered a Holocaust film, despite the fact that the screenplay contains
no explicit mention of Hitler’s Final Solution or the ultimate fate of the
Finzi-Contini family. Although the existence of concentration camps in
Germany is revealed to Giorgio half way through the film by a political
dissident previously imprisoned at Dachau, the horror of mass exter-
mination is not alluded to until the introduction of El Malé Rachamim
on the sound track in final sequence. This profoundly moving musi-
cal commentary, however, accompanies radically different visual im-
ages in the two available versions of The Garden of the Finzi-Continis,
further complicating any assessment of the treatment the film accords
to Shoah. In one version, which was widely distributed in the 1970s,
the visual track progresses from shots of the empty streets of Ferrara
to images of the equally empty estate of the Finzi-Continis, now der-
elict and overgrown with weeds. Viewers note the presence of a wire
fence, visually evocative of the distant camps, as well as padlock placed
permanently on the gate, suggesting that the estate has been seized
and isolated by officials of the Fascist republic 20. Contrasting sharply
for detention. The grandmother’s weeping expresses the family members’ collective grief
at a paradise forever lost, and their entrance into a global order whose worst iniquities
will be visited upon them» (1993, 105).
20 On November 30, 1943, the so-called Republic of Salò ordered the arrest of
all Jews and the seizure of their possessions. According to Martin Dean, in the period
from late 1943 to the end of the war, the Italian collaborationist regime confiscated the
property of more than 7,500 Jews (2008, 353).
510
Vittorio De Sica in «The Garden of the Finzi-Continis»
with the lively scenes set in the same locations earlier in the film, these
images evoke a sense of loss and dereliction, and speak to the irrepara-
ble trauma constituted by the deportation of the Jews, an event that is
simultaneously commemorated on the soundtrack in the words of the
Hebrew lament.
In the restored version of the film, however, the stark images of the
abandoned estate are erased. Instead, after a brief excursus through the
empty streets of Ferrara, the scene moves to the Finzi-Contini tennis
court, where Micòl, her brother Alberto, Malnate, and their mutual ac-
quaintance, Bruno Lattes, are happily engaged in a game of tennis 21.
The fact that the game is shown in slow motion, however, alerts the
viewer to its spectral status. Indeed, the narrative has already suggested
that all four players are dead: Alberto has expired of a fatal disease,
Malnate has perished on the Russian front, and both Bruno Lattes and
Micòl have been rounded up by the Fascist police for deportation to
the camps. The striking beauty of the youthful players, enhanced by
lighting techniques, mimics the effects of consolatory memory, which
enables the image of the beloved deceased to be fixed and cherished
in idealized form. In this case, of course, the operation of consolatory
memory is constructed through artistic means, simultaneously alluding
to the presumed power of art to transcend the injuries of history.
The problematical aspects of this operation in a film set during the
Holocaust are more evident today than in 1970. In effect, it is difficult
for any viewer to be seduced by the concluding images in this version
of The Garden of the Finzi-Continis if he or she has engaged with the
challenges implicit in Claude Lanzmann’s Shoah (1988) and many other
films at the center of an intense, ongoing debate on the appropriate rep-
resentation of the massive genocide that Lucy Dawidowicz called «the
war against the Jews» 22. While all representations of events involving
the Holocaust are currently held accountable to what Miriam Hansen
describes as «the task of an anamnestic solidarity with the dead» 23, the
ways in which this solidarity can be achieved are still a matter of con-
troversy. At one extreme, Lanzmann’s well-known documentary, Shoah,
21 �����������������������������������������������������������������������������-
view included in the paratextual material on the disc, Manuel De Sica laments the fact
that his father agreed to shoot this alternative conclusion (apparently at the suggestion
of someone else), and regrets that these images have replaced the original ending in the
restored version of the film.
22 Dawidowicz 1975.
511
Áine O’Healy
24 �������������������������������������������������������������������������������-
tween Schindler’s List and Shoah, noting that even if these two films are not on equal
footing in terms of funding and access to audiences, they are, broadly speaking, part of
the same culture, of the same public sphere (1996, 306).
25 For a range of critical assessments of Schindler’s List, see Loshitzky 1997.
512
Vittorio De Sica in «The Garden of the Finzi-Continis»
27 Ivi, 109.
28 Ibidem.
513
Áine O’Healy
Eugene Borowitz 1980, Emil Fackenheim 1988, and Richard Rubenstein 1992).
32 Wiesel 1996, 103.
514
Vittorio De Sica in «The Garden of the Finzi-Continis»
ister. In this way, images of the Holocaust are repeatedly recycled and
re-consumed in the most varied contexts, as new media and new tech-
nologies render the link between the image and the real increasingly
indeterminate. The weariness brought about by this visual overload may
deter students from engaging in a challenging, critical way – in terms
of history, politics, and theoretical inquiry – with a film that seems, at
least to some of them, old-fashioned, ‘sentimental’, and ‘slow’. But, de-
spite the various criticisms that can be leveled against The Garden of the
Finzi-Continis, its use in the classroom provides multiple angles from
which to approach some of the dominant contemporary concerns about
memory, trauma, and representation, including the ethical imperative
to remember Auschwitz; the issue of how Holocaust memory will be
transmitted in the future and by whom (given the imminent demise of
all surviving first-hand witnesses); the role of literary and audiovisual
texts (both fiction and non-fiction) in the ongoing constitution of its
archive; and the various sympathies, biases, emotions, and expectations
that must be scrutinized while interpreting films set against the back-
drop of traumatic historical events. Although students are sometimes
reluctant even to include The Garden of the Finzi-Continis in the canon
of so-called ‘Holocaust films’, the discussion set in motion by their re-
luctance is often the beginning of a fruitful interpretive process.
Bibliography
515
Áine O’Healy
516
26.
«SE QUESTO MATRIMONIO …
S’HA DA FARE»
Gli occhiali d’oro and the Dynamics
of the Encounter Between Fiction and Film
1
Mandrin (1952, directed by Mario Soldati), Villa Borghese (1953, directed by Gianni
Francolini), La provinciale (1953, directed by Mario Soldati), Il ventaglio (1954, an epi-
sode directed by Mario Soldati in the film Questa è la vita), Casa d’altri (1954, an episode
directed by Alessandro Blasetti in the film Tempi nostri), La mano dello straniero (1954,
directed by Mario Soldati), La romana (1954, directed by Luigi Zampa), La donna del
fiume (1954, directed by Mario Soldati), Senso (1954, directed by Luchino Visconti), Il
prigioniero della montagna (1955, directed by Luis Treniker), and Teresa Étienne (1958,
directed by Denys de la Patellière). On Bassani’s views on the ‘subaltern’ role of the
screenplay writer, see Bassani 1966a, 238.
3 Bassani 1966a, 236. Bassani dubbed Orson Welles in Pasolini’s La ricotta.
517
Cristina Della Coletta
Bassani’s novels and short stories, and underscore his awareness of the
increasingly pervasive presence and socio-cultural relevance of cinema
in the world he was depicting. Conversely, filmmakers showed inter-
est in Bassani’s work, and three of his fictional pieces were adapted to
the screen 4. My reading of Giuliano Montaldo’s adaptation of Bassani’s
short novel Gli occhiali d’oro starts from Bassani’s own reflections on
the translations of novels into films and weighs these reflections against
recent discussions on the adaptive practice 5.
By questioning fidelity-based views of adaptation as the duplication
of the original text and its author’s intent, these discussions have con-
tributed to freeing film from subjection to a hermeneutics of author-
ity. The fidelity argument, with its assumption that the master text is a
source of absolute meaning that is imparted upon a derivative or sub-
altern form, has been replaced by a notion of adaptation as a process of
«transcoding» and reculturalization of diverse intertexts 6. While it de-
fies the primacy of a single authoritative literary source over its reveren-
tial cinematic copies, the latter approach to authorship and adaptation
must come to terms with notions of creative identity and ethical com-
mitment. In Bassani’s case, especially, the writer’s inclusion of a first-
person narrator (a persona for the author-survivor as the caring witness
and pious guardian of a world that the Nazi-Fascist regime had vowed
to obliterate) is important to understand Bassani’s engagement with the
aesthetic enterprise as a fundamentally moral event. Is it possible, then,
to think of adaptation in ways that are neither dismissive of Bassani’s be-
lief in this vital authorial function nor limited to an interpretation of the
director’s role as that of a mere producer of (faithful) replicas? Giuliano
Montaldo’s cinematic adaptation of Bassani’s Gli occhiali d’oro is an ex-
4 The first adaptation from one of Bassani’s stories was La lunga notte del ’43 di-
rected by Florestano Vancini in 1960, followed by De Sica’s Il giardino dei Finzi Contini
in 1970, and Giuliano Montaldo’s Gli occhiali d’oro in 1987.
5 Bassani published Gli occhiali d’oro in 1958. Reprinted in 1960 as part of Le sto-
rie ferraresi, it was revised for the 1974 edition of Il romanzo di Ferrara. A further revision
occurred for the 1980 edition of Il romanzo di Ferrara. All page references in this essay
are to the 1974 edition.
6 For a detailed discussion of how early adaptation studies tended to promote
the «intellectual priority and formal superiority of canonical novels» and have regarded
cinema as «belated, middlebrow, or culturally inferior», see Naremore 2000, 6; Micciché
1972, 153; Leitch 2007, 2-5; Stam 2000, 54-76. In the ample field of fidelity studies, the
defense of a film’s need to remain true to the literary original corroborates the normative
cultural authority of literature over film. Bassani argued against the «complessi di infe-
riorità o superiorità che affliggono tanti uomini di cinema nei confronti della letteratura»
(1966a, 236-237).
518
«Se questo matrimonio … s’ha da fare»
9 In Il giardino tradito, Bassani explains that Documento Film purchased the rights
to adapt Il giardino dei Finzi-Contini in 1963. Directed by Valerio Zurlini, the film was
based on a screenplay by Zurlini and Salvatore Laurani. After the failure of this project,
the producers hired Franco Brusati and Tullio Pinelli to work on a viable script. In Bassa-
ni’s views, these screenwriters merely patched up the original rather than concentrate on
complete rewrites. In 1970, Documento hired Vittorio De Sica to film Il giardino, and Bas-
sani was also employed as consultant. Bassani, however, was disappointed with Vittorio
Bonicelli’s script, which, in his view, provided, once again, a mere «lavoro di ricucitura» of
the earlier mediocre scripts, rather than a new text. Mindful of Bassani’s negative review,
Documento hired Bassani to write a new script with Bonicelli’s collaboration. After the
script was completed, the producers reserved the right to revise it following their own
519
Cristina Della Coletta
novel consisted, for Bassani, in the film’s failure to separate the narra-
tive’s temporal levels: the past of the narrated events and the present of
the narrator’s discours – the present, that is, of memory’s act of willful
aesthetic resuscitation of the dead. While he generally criticized the way
in which De Sica had cast his characters in the film, Bassani reserved
his most scathing attack for the film’s protagonist, Giorgio. Anonymous
narrator in the novel, this character represents the self-consciously pow-
erful figure of the survivor, witness, and artist. Persona of the writer, he
is the custodian of a world that history would have otherwise consigned
to oblivion. Having lost this creative dimension of memory, the cine-
matic Giorgio is a «personaggio sbiadito e minore», rather than the af-
firmation of the «scrittore che ricorda e giudica se stesso da giovane» 10.
De Sica’s Il giardino dei Finzi Contini (just like Camerini’s I promessi
sposi) lacks the broader allegorical dimension of its literary predecessor.
The «spirit» of the text, in Bassani’s view, is, therefore, its creative vital
core: the «I» that, through the act of remembering and writing, resusci-
tates his people and wins over the forces of silence and death.
Bassani’s argument rests on the assumption that a literary work con-
tains an «originary essence» that must be respected in the transition
from fiction to film. Bassani sees the adapter as the perceptive decoder
of the mens auctoris – an ideal reader who shares the author’s «particular
[…] artistic temperament and preoccupations» 11. This view risks seeing
the director as a mere «replicant», charged with the task of duplicating
the sanctioned meaning of a subject matter as its original author had
intended it. In the realm of adaptation studies, this notion corresponds
to what Robert Stam aptly defined the «chimera» of fidelity, the aspira-
tion, that is, of faithfully transposing a novel into a film and evaluating
the film in terms of its closeness to the original. More recently, adapta-
tion scholars have rather suggested that any aesthetic expression has
no exclusive mode of existence, but comes into being only as a partner
in a cooperative intertextual venture with several other narratives and
multiple other interpreters. In this view, the practice of adaptation be-
comes a complex operation, where the linear transaction between an
original (mostly single) authored text and its (ideal or implicit) reader
consultant’s feedback (Ugo Pirro). Failure to consult with Bassani regarding the changes
that Pirro made to the script resulted in a text that, according to Bassani, had «betrayed»
his novel. Bassani sued the producers and obtained the right to have his name removed
from the list of screenwriters for De Sica’s Il giardino dei Finzi Contini.
10 Bassani 1984, 319-320.
520
«Se questo matrimonio … s’ha da fare»
13 Ivi, 6-7.
14 Intervento sul tema: cinema e letteratura (Bassani 1966a, 236). In this uneven
essay, Bassani starts off by defending the shared narrative foundation of both arts, and
thus implying the possibility of a practice of contamination and hybridization between
cinema and literature. In the course of the essay, however, Bassani retreats into the for-
tress of literature. After having advocated the possibility of a «marriage» between the
two arts, he argues this marriage would result in an «abbraccio mortale» (237). Bassani
concludes that «tra cinema e letteratura si leva la barriera discriminante rappresentata
da due ‘mezzi’ fondamentalmente diversi (l’autore cinematografico si esprime per mezzo
dell’immagine in movimento, lo scrittore per mezzo della parola e dei segni d’interpun-
zione)» (ibidem). Undoubtedly, Bassani echoed a widely shared opinion: one can only
think of George Bluestone’s facetious assertion that the similarities between fiction and
film are comparable to those between ballet and architecture (1957, 5). Bassani’s retreat,
however, has less to do with the practice of adaptation proper than with Bassani’s con-
cerns with what he considers the subaltern task of writing screenplays: «Vuole un regista
rivolgere un augurio davvero fraterno a uno scrittore? Sì? E allora lo inviti, invece che a
521
Cristina Della Coletta
collaborare alla stesura delle proprie sceneggiature, a essere più che mai scrittore, a essere
il più possible poeta in proprio, insomma a esprimersi con assoluta e totale pienezza e
libertà nella lingua che è solo sua. Le unioni veramente felici e positive non avvengono
che nella uguaglianza dei diritti» (1966a, 238).
15 Hutcheon 2006, 26.
522
«Se questo matrimonio … s’ha da fare»
insistito per molti anni a drizzare dentro le rosse mura della patria il teatro
della propria letteratura, cioè me stesso. 17
523
Cristina Della Coletta
524
«Se questo matrimonio … s’ha da fare»
spinti ventre contro ventre dalla calca di via San Romano, mostrare di non
conoscerlo. Come Fredric March nel Dottor Jeckyll, il dottor Fadigati aveva
due vite. Ma chi non ne ha? 21
Like Fredric March, the actor playing the double role of Jekyll and Hyde
in Rouben Mamoulian’s adaptation of Robert Louis Stevenson’s novel,
Fadigati has a double life. Respected professional in the daytime and
gay pedestrian prowler at night, Fadigati embodies the duplicity of the
bourgeois norm, a norm that he has internalized to the point of appear-
ing to be its active promoter. Based on a binary ethos (good/evil; day/
night; heterosexual/homosexual; acting/being; insider/outsider), the
bourgeois order tolerates Fadigati (as all ‘others’ and ‘deviants’) only
as long as he accepts upholding the power of the norm. Dissimulation
is the ability that is required of the other to wear the mask of the same,
while underscoring that it is only a mask – that no real wholeness is pos-
sible. In a certain sense, Fadigati imposes an antiphrastic rule to his self:
the successful professional («medico bonario» and «ricco borghese») of
the daytime declaring the very opposite of what the nighttime prowler
reveals. In a reversed mirror image, then, the narrator’s ironic discourse
appropriates Fadigati’s doubleness, brings it back to the binary code
of the bourgeoisie (the rule of the surface appearance as masking or
negating the repressed self) and attacks it, thus actively unmasking and
condemning the hypocrisy to which Fadigati instead submitted himself.
In the central part of the novel (the train sequence), the present
of the narrator’s act of remembering and writing becomes more em-
phasized. The ‘I ’ of the discours (with his many «ricordo» and «vedo»)
stands against the inclusive ‘noi’ of the histoire – the group of college
students who commute on the local train from Ferrara to the University
of Bologna: «siamo tutti quanti assieme, una decina» 22. At the same
time, the use of the present tense, rather than the imperfect, creates
the opposite effect of putting chronological distance into brackets. Both
participant in and detached observer of the narrated events, this fluid
narrator moves freely between two temporal levels, crossing back and
forth from intra- and extra-diegetic narrative levels, to borrow Gérard
Genette’s terminology 23. In this double role, the narrator reconstructs
21 Ivi, 199.
22 Ivi, 10.
23 See, also, Oddo De Stefanis’ perceptive analysis: «non si può fare a meno di sen-
tire ancora nel Narratore un distaccato osservatore che, mimetizzato fra gli altri, li guarda
e li giudica nel loro scambio con Fadigati, l’omosessuale che lentamente si invischia nella
525
Cristina Della Coletta
25 Ivi, 218.
26 Ivi, 226.
526
«Se questo matrimonio … s’ha da fare»
27 Ivi, 227.
28 Ibidem.
29 Ivi, 225.
30 Ivi, 227.
527
Cristina Della Coletta
From this elevated position, the narrator’s gaze pans over the architec-
tural markers signaling the coexistence of Jews and Gentiles in the bos-
om of a nurturing Renaissance town. But the monumental time emerg-
ing from the narrator’s feeling of ancestral wholeness proves to be a
pious construct at best. Ferrara is as duplicitous as its inhabitants are,
and the historic semiotics of communal belonging hides a parallel script
of separation and marginalization: «mi sentivo tagliato fuori, irrimedia-
bilmente un intruso» 33.
Just as social pressure forces Fadigati to live in a state of division,
inhabiting two separate selves, à la Dr. Jekyll and Mr. Hyde, without
promise of synthesis and fullness, the narrator finds that his identity
as Italian and Jew is being torn apart by the impending promulgation
of the race laws: «Che cosa dovrei fare», he asks Fadigati, «Accettare
di essere quello che sono? O meglio: adattarmi ad essere quello che
gli altri vogliono che io sia?» 34. What others want him to be is «un
ebreo e soltanto un ebreo» 35. In a tragic refutation of the myth of the
autonomous self, the narrator denounces the fact that others control
and construct his own individuality. Essentialized by adversarial defi-
nitions of identity, the narrator not only realizes that his self is being
shaped by the ideology of the regime, but, more devastatingly, that the
effortless cohabitation of «Italian» and «Jew», so foundational for his
social sense of self, was, at best, tolerated as a duplicitous fiction. Now,
it is denounced as an impossibility in terms. In this sense, his experi-
ence parallels that of Fadigati who is, simultaneously, and impossibly, a
‘borghese’ and a ‘homosexual’. Once the part of the self that has been
concealed through either repression or marginalization (in the space
35 Ibidem.
528
«Se questo matrimonio … s’ha da fare»
of the night or within the walls of the ghetto) is forced into the open,
it becomes the victim’s sole defining element: «un ebreo e soltanto un
ebreo». In Bassani’s political allegory, therefore, the Aryan-looking De-
liliers and the Nazi-Fascist regime have the same function (in Proppian
terms): that of breaking apart the fiction of ‘bourgeois belonging’, but
not in view of a more open and inclusive form of social participation.
On the contrary, they sever the self from its complex socio-cultural,
sexual, and ethnic identity, blocking it within narrow racist and homo-
phobic parameters.
This allegory of selfhood finds its meaning in intertextual terms,
as Fadigati becomes the mirror image of two literary figures invoked
in the narrative: Sophocles’ Philoctetes and Beatrice, the protagonist
of Nathaniel Hawthorne’s Rappaccini’s Daughter (1844) 36. The Greek
hero and the maiden from Padua share peculiar traits: both are isolated
from their communities and are infected with poison. Abandoned by
his mates on the island of Lemnos, Philoctetes suffers from a wound
caused by snakebite, and his pain is so unbearable that he begs to have
his rotting foot cut off. Beatrice, as innocently beautiful as she is deadly,
is confined to a locked garden lush with poisonous plants. Her father,
the scientist Dr. Rappaccini, has raised her in utter isolation to share the
venomous essence of his strange botanical creations until Giovanni, a
young student from Naples, falls in love with her. Giovanni soon finds
out that he has become poisonous too and, after accusing Beatrice of
corrupting him, he offers her an antidote, which, rather than destroying
the poison inside, kills her outright.
In Hawthorne’s psychosexual allegory, Beatrice dies because of
Giovanni’s inability to accept her complex nature, her mixed human
potential. In his perceptive reading of Rappaccini’s Daughter, Frederick
Crews argues that the poison attributed to Beatrice represents a projec-
tion of Giovanni’s own sexual fears and obsessions 37. Just like Fadigati’s,
Beatrice’s sexuality is constructed as evil. Seen as «morally corrupt» (poi-
sonous), she is believed to spread her venom to those who are exposed
to her, while Giovanni takes on the role of absolute moral judge when,
deciding on a single «‘truth’ for her» 38, he exclaims: «Accursed one!»
36 The epigraph that opens Gli occhiali d’oro is a citation from Sophocles’ Philoc-
tetes. Fadigati cites the plot of Rappaccini’s Daughter in a conversation with the group of
students as they are commuting to Bologna, only to be interrupted by Deliliers’ sarcastic
sexual innuendos (Bassani 1974a, 215-216).
37 Crews 1966, 119.
529
Cristina Della Coletta
with «venomous scorn and anger» 39. Transposed into Bassani’s text,
Hawthorne’s carefully crafted game of mirror images creates an unspo-
ken analogy between Beatrice, Fadigati, and the narrator himself. The im-
plicit subtext evokes the long history, so carefully traced in René Girard’s
The Scapegoat, where anti-Semitic readers interpreted the Jews as har-
bingers and disseminators of poisons and plagues. As a whole, Bassani’s
intertextual clues draw attention to the ideological underpinnings of in-
terpretation – the perspectives by which individuals and communities
impart meanings to people and situations while arguing that these mean-
ings are merely found in, precisely, these very people and situations. The
analogy between Beatrice, Fadigati, and the narrator is that they are placed
within the same hermeneutical framework, and subjected to the same
scapegoating mechanism: they are presented as «exceeding the norm»
in order to be «persuaded to submit to control and confinement» 40.
The way these characters deal with this hermeneutical violence is,
however, substantially different. Beatrice reacts against Giovanni’s vio-
lence and asserts her perspective: «Farewell, Giovanni! Thy words of
hatred are like lead within my heart […]. Oh, was there not, from the
first, more poison in thy nature than in mine?» 41. Fadigati, instead, fully
internalizes the victimization process, making of others’ interpretations
his inner truth:
Dopo ciò che è accaduto l’estate scorsa, non mi riesce più di tollerarmi.
Non posso più; non debbo. Ci crede, se le dico che certe volte non soppor-
to di farmi la barba davanti allo specchio? Potessi almeno vestirmi in un
altro modo! Ma mi vede, lei senza questo cappello … questo pastrano …
questi occhiali da tipo per bene? E d’altra parte, così, mi sento a tal punto
ridicolo, grottesco, assurdo! Eh no, inde redire negant, è proprio il caso di
dirlo! Non c’è più niente da fare, per me, senta! 42
530
«Se questo matrimonio … s’ha da fare»
loathing and utter alienation. Having shown the ‘excess’ that should have
remained concealed, Fadigati is reduced to a pariah and condemned to
social death. In a sense, the citation that opens the novel, Philoctetes’
pained entreaty to cut off his poisoned foot, already contains the end
of Fadigati’s narrative. The self cannot be divided lest dimidiation and
death, as Fadigati – the quintessential victim – tragically knows when he
chooses to commit suicide by drowning himself in the river Po.
The point of closer contact between Fadigati and the narrator is rep-
resented by their mutual solitudes 43. But, unlike Fadigati with Deliliers,
the narrator does not «turn eagerly to those who show, by their contempt
for him, real or apparent, that they do not belong, like him, to the race
of the accursed» 44. By refusing this type of barter, the narrator severs
himself from the pact that still ties his father with the Gentile commu-
nity: «Ero disperato, assolutamente disperato. […] La gioia di mio pa-
dre – pensavo – era quella del bambino cacciato fuori di classe, il quale
dal corridoio deserto dove fu esiliato a espiare una colpa non com-
messa, d’un tratto, contro ogni aspettativa, si veda riaccolto in aula tra i
cari compagni» 45. Though he sees himself as the victim of an injustice,
the narrator’s father falls into the bond of submission and reverence.
The narrator, instead, replaces his father’s compliance with his own
«intense … hatred» 46 only to succumb to the sense of shame that such
hatred causes him: «Goi, goìm: che vergogna, che umiliazione, che ri-
brezzo, a esprimermi così! Eppure ci riuscivo già – mi dicevo –: come
un qualsiasi ebreo dell’Europa orientale che non fosse mai vissuto fuori
dal ghetto» 47.
Bassani’s perceptive analysis of the difficult negotiations of a young
man’s attempts to build his social sense of self in 1937, recalls Hannah
Arendt’s readings of the Jewish condition in We Refugees (1943) and
The Jew as Pariah: A Hidden Tradition (1944). The shamed temptation
to retreat into narrow parochialism and sectarianism that the narrator
demonstrates in a moment of crisis reflects Arendt’s own meditations
on the dangers of seeing Jewish history as separate rather than tied to
that of all other nations 48. Bassani juxtaposes what Arendt called the
43 «Il senso di solitudine, che mi aveva sempre accompagnato in quei due ultimi
mesi, diventava […] ancora più atroce: totale e definitivo» (Ivi, 273).
44 Girard 1965, 178.
46 Girard 1986,10.
531
Cristina Della Coletta
49 Ibidem.
50 Ivi, 63.
52 Ivi, 67.
53 Ivi, 83.
54 Bassani 1974a, 257. See also the narrator’s portrayal of his father in the enclosed spa-
ce of his living room: «Separato, là, chiuso, protetto. Come dentro a un bozzolo luminoso.
Dormiva, avvolto nella sua mantella, col viso ingenuo offerto alla luce […]» (ivi, 274).
55 Arendt 1978a, 90.
56 Ibidem.
57 Ibidem.
532
«Se questo matrimonio … s’ha da fare»
Like Kafka and Arendt, Bassani is aware that isolation festers on the
poison of forgetfulness – the «exhaustion» of a people’s shared memo-
ries: «We were told to forget; and we forgot quicker than anybody ever
could imagine» 58. For the narrator of Gli occhiali d’oro, recapturing the
past means acknowledging the complex workings of identity building
in a relational framework. The act of remembrance and the practice of
writing, then, acquire a vital self-reflexive function. The journey into the
past reveals the tragic fallacy of the belief in the absolute autonomy and
unity of the self, as well as the dangers implicit in strategies of identity
building based on various forms of self-deception. The narrator’s ‘I ’
acquires a sober wisdom, as he learns to recognize and thus, at least
in part, overcome the crushing mechanisms of power, subjection, and
«exhaustion» that, in their most radical and extreme embodiments, nur-
tured the deadly ideologies of Nazi-Fascist Europe.
Giuliano Montaldo’s cinematic adaptation of Gli occhiali d’oro be-
gins with the novel’s ending, at Pontelagoscuro, as we see a small row
boat transporting Fadigati’s body ashore. The rest of the film functions
as an extensive analepsis – a flashback that inexorably leads us towards
this tragic conclusion. By recuperating Bassani’s hermeneutics of mem-
ory in a medium-specific context, Montaldo underscores the fact that
his film is, in a sense, a recollection in the nth degree – his own creative
remembering of Bassani’s half-fictional and half-historical memories of
the events of 1937, as presented through the filter of a first person nar-
rator. The radical switch of ending into beginning underscores Mon-
taldo’s creative engagement with Bassani’s narrative materials, while
infusing the cinematic plot with a sense of predestination. From the be-
ginning, we know that Fadigati will die – his fate is, therefore, a fait ac-
compli. In the film, the emphasis is not on the plot’s tragic dénouement,
but on Montaldo’s engagement with the subjective filters through which
interpretation occurs. Like Bassani, Montaldo works as a ventriloquist
of sorts, focusing on multiple voices and intersecting perspectives that
construct the analysis of what caused Fadigati’s death, why it occurred,
and how its significance exceeds the story of a single individual.
The theme of filtered perspective emerges from the film’s opening
sequence, which consists of a self-consciously slow camera movement,
climaxing in a close-up of what turns out to be a pair of gold-rimmed
spectacles, as they are washed ashore by the sluggish current of the river
533
Cristina Della Coletta
Po. At first, in the desolation of the natural scenery, the glasses do not
represent Fadigati’s well-tailored façade of respectability and wealth.
The camera work and the object in close-up rather underscore the pres-
ence of the various lenses that make the mechanism of interpretation
possible. They also mark the transition from the ‘I ’ of the novel to the
eye/I of the director, with the intersection of subject positions that al-
lows for the construction of meaning in Montaldo’s cinematic adapta-
tion. In a subtle homage to Bassani’s cultured intertextual dialogues,
Montaldo plays out an original hermeneutical encounter here: not with
Hawthorne or Sophocles, however, but with Luigi Pirandello. Montaldo
frames Fadigati’s death by water in light of the plot of Il fu Mattia Pa-
scal, and in connection with the cinematic versions by Marcel l’Herbier,
Pierre Chenal and Mario Monicelli 59. The analogy between Fadigati and
Mattia Pascal highlights the self’s duality, and the sense of estraneità of
the exterior being from its inner core: «rassettandomi gli occhiali sul
naso, provavo una strana impressione: mi pareva quasi di non essere
più io, di non toccare me stesso» 60. It also refers to the notion that self-
hood is a social construct, and, self-consciously, that ‘life stories’ are,
also, ‘storied selves’, that is, representations of narrative identities, built
(and rebuilt) according to the conventions of specific media.
�Contrary to the cliché that, in the Italian language, often refers to
adaptation in terms of riduzione, Montaldo enriches Bassani’s novel
with a number of additions that are not part of the precursor text, but
that create a broader continuity with Bassani’s oeuvre. Montaldo sub-
stitutes for the narrative ‘I ’ of the novel the character of Davide Lattes
(Rupert Everett) and builds the film’s plot on the intersections of two
relationships: that of Davide with Eleonora Treves (Valeria Golino) and
that of Fadigati (Philippe Noiret) with Eraldo Deliliers (Nicola Farron).
Deliliers’ betrayal of Fadigati mirrors Nora’s betrayal of Davide, as she
chooses to move to France and convert to Catholicism. Nora’s mixture
of love and fear, sincerity of emotion and self-preservation, authentic-
ity and calculation, reflects the contradictions in Deliliers’ character.
Montaldo enriches the figure of Deliliers by developing references to
his socio-economic background that are absent from the precursor text.
Reminiscent of Malnate in Il giardino dei Finzi-Contini, Deliliers is not
59 Marcel l’Herbier’s Feu Mathias Pascal was released in 1929. Pirandello’s novel
has also been adapted as L’Homme de nulle part by Pierre Chenal (1937) and Le due vite
di Mattia Pascal by Mario Monicelli, starring Marcello Mastroianni (1985).
60 Pirandello 1988, 101.
534
«Se questo matrimonio … s’ha da fare»
535
Cristina Della Coletta
cynicism become all too apparent when from betrayed he turns into a
betrayer, and he abandons Fadigati after publicly humiliating him and
stealing his belongings. In this sense, Deliliers is a darker mirror image
of Nora, as his rejection of Fadigati is not prompted by the all too real
fears of persecution and death that had inspired Nora’s abandonment
of Davide. By underscoring Deliliers’ duplicity and betrayal, Montaldo
evokes a sinister similarity with the Ferrarese Gentile community, sug-
gesting that it may have displayed attitudes of marginalization of and
disloyalty toward the city’s Jewish population.
The rich and dynamic representation of the social environment
in the cinematic rendition of Gli occhiali d’oro replaces the subjective
development of the narrating ‘I ’ in Bassani’s novel. Davide Lattes’
function in Montaldo’s film is that of a focalizer for the evolution of
the other characters, namely, Nora, Deliliers, and Fadigati. In his com-
mitment to Nora, loyalty to his Jewish roots, friendship with Fadigati,
and political acumen and foresight, Davide is the moral center of the
film. A student at the facoltà di lettere of the University of Bologna,
Davide is a persona of Bassani himself («he became a writer famous
all over the world» reads the caption at the end of the film). Writ-
ing and reading, in fact, constitute a recurring theme in Montaldo’s
Gli occhiali d’oro. Nora scolds Davide for not writing to her while she
was in France, and Fadigati interrupts Davide as he is attempting (and
failing) to write a love letter to Nora. Fadigati himself tries to write a let-
ter to Deliliers and sadly defines his effort as «un manoscritto in una bot-
tiglia». Remembering this encounter at film’s end, Fadigati tells Davide:
«quella sera … ho scritto per due ore ma non era proprio una lettera, era
quasi un testamento. Il testamento di uno che non ha nessuna intenzione
di morire e che gli altri possono a malapena sopportare da vivo».
All these examples emphasize communicative efforts that fail to reach
their targets, and types of writing that remain sterile and self-enclosed.
However, while Fadigati dies a victim of the isolation to which he has
been subjected, Davide does not remain a writer without an audience.
Montaldo introduces a scene where Davide delivers some library books
to Professor Perugia, the Jewish scholar who has lost his post at the Uni-
versity of Bologna, and now teaches evening classes in the ‘ghetto’ of
Ferrara. When the professor asks him to be a guest teacher, Davide ad-
dresses the class by remembering and paraphrasing the words with which
Petrarch praised the art of writing and the consolation of literature in
times of suffering, violence, and strife in a famous letter to Boccaccio in
his Senilium rerum libri (XVII.2). Working from memory, Davide recites:
536
«Se questo matrimonio … s’ha da fare»
Perché leggere. Perché scrivere. Una volta un grande poeta scrisse una let-
tera a un grande scrittore. Il poeta si chiamava Francesco Petrarca e lo
scrittore Giovanni Boccaccio. Adesso io non ricordo esattamente le parole
di quella lettera ma più o meno diceva: «Non c’è cosa più leggera della pen-
na e non ci sono cose più belle delle parole». Uno scrive parole e dopo mille
anni ci saranno persone che continueranno a leggerle e ad amarle. Oggi è
tempo di persecuzioni, di violenza, di guerra, ma quando io leggo una lirica
di Petrarca io sento che è una celebrazione della vita. […] Le ultime parole
della sua lettera le ricordo molto bene: «Poiché devo morire spero che la
morte possa trovarmi intento a leggere e a scrivere.»
Montaldo’s reference to Davide’s translation into Italian of Petrarch’s
words to Boccaccio (originally in Latin) underscores the ties between
writing, memory, and life itself with which an ideal intellectual community
(Petrarch, Boccaccio, and Bassani after them), defied all ideologies of vi-
olence and death. The spiritual brotherhood so movingly evoked by Da-
vide’s extemporaneous lecture has wider implications, too. The classroom
context emphasizes the practice of interpretation and education: «spieghi
a questi studenti», the professor tells him, «cosa vuol dire scrivere, in-
segnare». Davide’s epistolary reference involves the cluster of letters that
include Petrarch’s epistle on his Latin translation of the Griselda tale in
the Decameron. In this letter, Petrarch told his friend and disciple that
he had not neglected «that saying of Horace in his Art of Poetry, ‘You
will not try to render word for word,/You trusty dragoman’». Petrarch
added: «I have told your story in my own words, or rather adding or
changing a few words at some points in the narrative because I believed
that you not only would allow it to be done, but would approve it» 61.
Montaldo’s evocation of the figure of the writer-scholar (Davide, a
persona for Bassani, who freely quotes Petrarch from memory) is also a
representation of the translator-as-interpreter. The often-used analogy
between translation and adaptation is a useful tool if the goal of transla-
tion is intended as not the achievement of an absolute «likeness to the
original» but, rather, as «a transformation and renewal» by which the
«original undergoes a change» 62. Both adaptations and translations can
alter the so-called original by means of what in the context of Montal-
do’s adaptation of Bassani, can be called «principled mistranslations».
Montaldo alters the original script in significant ways. At the same time,
62 Benjamin 1968, 73. «All translation», writes Theo Hermans, «implies a degree
of manipulation of the source text for a certain purpose» (1985, 11). More generally on
adaptation as translation, see Stam 2000, 62-64, and, especially, Cattrysse 1992, 53-70.
537
Cristina Della Coletta
he adheres to, and supports, the ethos of the precursor text – its crucial
commitment to an aesthetics of witnessing, understanding, remember-
ing, and re-counting stories of adversity and resilience (one should re-
call, here, that the topic of the story of the patient Griselda includes
precisely these two themes).
Gli occhiali d’oro reframes the notion of Jewish identity (and the
process of identity building in general) in a relational way as something
specific and changeable, historically grounded and depending upon the
standards and constraints of social interaction. Novel and film tackle
the problem of the construction and preservation of selfhood in a so-
ciety that «has discovered discrimination as the great social weapon by
which one can kill men without bloodshed» 63. As they produced sober
reminders that «the comity of European peoples went to pieces when,
and because, it allowed its weakest members to be excluded and per-
secuted» 64, Bassani and Montaldo also created discursive spaces rich
with intertextual and intermedial encounters. By countering the ideolo-
gies of isolation and exhaustion with their intertextual interconnected-
ness, these discursive spaces included Jewish and Gentile voices in what
Arendt called «the general spiritual life of the Western world» 65. In this
sense, Montaldo also demonstrated his understanding of Bassani’s ideas
about the adaptive practice. The film Gli occhiali d’oro shares the spirit
of the precursor text, but not in an essentialist, normative, and derivative
manner. As the precursor text had already inscribed its narrative with a
notion of authorial agency that was eminently dialogical, relational, and
polyphonic, Montaldo found a measure of originality by enriching and
furthering these dialogues with novel voices and enduring memories.
Bibliography
��
63 Arendt 1978a, 65.
��
64 Ivi, 66.
��
65 Ivi, 68.
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AS HETEROCENTRALIZATION
Giuliano Montaldo’s Film Version
of Giorgio Bassani’s Gli occhiali d’oro
Sections of this essay are republished with the permission of Palgrave Macmillan. See
Watson 2004.
1 Radcliffe-Umstead 1987, 81.
2 Ivi, 77.
541
William Van Watson
542
Adaptation as Heterocentralization
543
William Van Watson
(1986) and Everett for the immense success that he had enjoyed in Italy
in particular for his performance in Mike Newell’s Dance with a Stranger
(1985), so that their star power, their narrative, and especially their
loves scenes far overpower those of the middle-aged Philippe Noiret
as Fadigati and the relatively unknown Nicola Farron as Deliliers. Shot
in a heated red chiaroscuro before a fireplace that throws their inter-
twined bodies into high relief, more than just the nudity, Golino and
Everett’s sex scene arguably contains the most extensive shared close-
up and shot-countershot close-up sequences in the entire film. As such,
the scene constitutes a blatant heterocentrist attempt to compensate
for the original narrative’s otherwise homosexual subject matter. The
scene includes teasing pans of writhing torsos, pumping buttocks, and a
foregrounding Golino’s breasts. The placement of this scene within the
overall structure of the screenplay is especially symptomatic, tellingly
situated as it is between a scene wherein Fadigati sees a naked Eraldo
in the shower and one wherein the boxer is shown driving the doctor in
his new gift, an Alfa Romeo convertible. In other words, the screenplay
at this point thus deflects the nascent homosexual relationship between
Fadigati and Eraldo into a heterosexual love scene between Davide and
his invented girlfriend, Nora.
While homosexuality had technically been criminalized by the
Codice Rocco as early as 1927, Mussolini largely left the policing of
such personal and venal matters to the Catholic Church, in accord with
Italian tradition. Actual incarceration for homosexuality remained fair-
ly nominal until after the composition of the Manifesto della Razza in
1938, as Mussolini mimicked Hitler’s own racial policies. The adoption
of the pseudo-science of eugenics in both countries, aimed at the genetic
improvement of the overall populations, labeled both homosexuality
and Jewish ethnicity as genetically degenerate. The increasing persecu-
tion under the Fascist regime of the Ferrarese Jews as in the Romanzo di
Ferrara thus parallels that of Fadigati in Gli occhiali d’oro. Furthermore,
the cinematic addition of the character of Nora to the narrative of Bas-
sani’s original novel is not without its thematic benefits, however, spe-
cifically highlighting as it does the function of the closet and the politics
of passing. In one scene, the Jewish Nora contemplates the foresight of
her father in not naming her Judith or Sara, or Esther. She examines
her distorted facial features in the reflection of a piece of silver plate,
commenting: «Non si può proprio dire che il mio profilo sia ariano».
Upon the death of her father, Nora forsakes both Davide and her Jew-
ish heritage, marrying a local Fascist dignitary, ingratiating herself into
544
Adaptation as Heterocentralization
545
William Van Watson
546
Adaptation as Heterocentralization
prefers the Fascist point of view, taking his shot instead from Lavezzoli’s
voyeuristic surveillance, the double iris of her binoculars underscoring
the simultaneously alienated and alienating third-person subjectivity.
Later, while at cards she even expresses her censure of Fadigati, warning
him that they are not playing as partners, but as «nemici».
In her eassy Visual Pleasure and Narrative Cinema, Laura Mulvey
asserts: «[T]he male figure cannot bear the burden of sexual objecti-
fication. Man is reluctant to gaze at his exhibitionist self» 19. Despite
Mulvey’s heterocentrist conclusion, the politics of the gaze among men
proves fully operational in a film with a homosexual narrative. When
Eraldo is first seen in the gym, it is as an object of desire from Fadigati’s
point of view. The voyeuristic alienation of the moment and Eraldo’s
seeming unattainability are both emphasized by Montaldo’s use of a
physically realistic long shot and by the window panes which separate
Fadigati from the world of athletic male bonding down below. The last
time Eraldo appears in the film, it is as a lost object of desire, again from
Fadigati’s distanced point of view, again through a window, specifically
the window of a cafe, and again with Fadigati once more left out in the
cold alone. Throughout the entire film, the Adonis-like Eraldo func-
tions as object of the gaze, recurrently en deshabillé; he is shirtless in bed
when his mother awakens him in the morning and in his boxing shorts
when at practice in the gym and during boxing in a match. However,
he is almost always shown from a ‘discreet’ and ‘respectful’ distance by
Montaldo’s camera, which rarely sutures itself to a closer psychological
shot more empathetic to Fadigati’s desire, and herein lies much of the
cinematic weakness of the film in the portrayal of their relationship. In
stark contrast, Montaldo seems to encounter no difficulty using more in-
timate shooting strategies for the asexual relationship between Fadigati
and Davide, who alternate numerous close-ups in their shared scenes.
While Bassani’s rougher Deliliers taunts Fadigati with the prospect that
he might ruin his face in a boxing match, Montaldo’s more visually vain
Eraldo, on the contrary, narcissistically tells Davide: «Mi piace essere
guardato». An overt exhibitionist, Eraldo is very much aware of the
scrutiny under which Ferrara holds him during his first summer vaca-
tion on the costa romagnola. While Fadigati displaces sexuality into the
sound, smell and taste of the ear, nose and throat, Eraldo’s affinity for
exhibitionism displaces his sexuality into the politics of vision and his
547
William Van Watson
548
Adaptation as Heterocentralization
corner fully nude in the shower. The moment lacks the invasive proxim-
ity Visconti had used in his corresponding scene, but Montaldo’s camera
does present the integral male nude that Visconti’s camera could not
show a generation before. The naked Eraldo confirms his exhibitionism
by receiving Fadigati’s gaze with a smile. In the tradition of Lola-Lola
in Von Sternberg’s The Blue Angel, Eraldo may be object of the gaze,
but as such, he is neither passive nor controlled, but rather active and
controlling. It is Eraldo who drives the car, Eraldo who rows the boat,
Eraldo who at will accompanies or neglects Fadigati during their sum-
mer vacation in Riccione, and Eraldo who, in a self-affirming display of
aggressive masculinity, punches Fadigati outside the Grand Hotel.
In his hyperaggressive behavior, Eraldo pays homage to an ethos of
masculinity dating back to ancient Rome: «The passive homosexual was
not judged for his homosexuality, but for his passivity» 21. Such ancient
gender paradigms regarding homosexuality carried forward into Mus-
solini’s Fascist Italy and Bassani’s Ferrara, wherein the crime of «vis-
ible» homosexuality accrued mostly to the effeminate homosexual male.
Goretti and Giartosio observe that for gender Fascism «l’omosessuale
attivo non rappresenta un pericolo, è semplicemente la vittima (guari-
bile) del contagio» 22. Furthermore, they argue, «Il maschio passivo,
infatti, è assimilato alla femmina, passiva per definizione» 23. In such a
configuration, then, the passive male functions both as faux woman and
as the carrier of gender contagion, being passive and masculine. Any
dissent from hetero-normative gender ideology was constructed by Fas-
cism as a sort of social disease against which Mussolini as political leader
also served as «master hygienist» 24. In addition, most strikingly archaic,
being both outwardly masculine and sexually passive, or outwardly ef-
feminate and sexually active was considered inconceivable, and anyone
who performed both active and passive roles was truly a «depravato»
beyond imaginable gender categorization 25.
Eraldo’s tendency to strike recumbent positions and his willingness
to accept the traditionally feminine role as object of the gaze argue for
passivity on his part, for which his violence attempts to compensate.
Spackman notes that «an obsession with virility is one of the distinctive
549
William Van Watson
traits of fascist discourse» even to the extent that the term viricultura
was disseminated by the Fascist regime 26. Eraldo’s «corpo da statua
greca» 27, both because of and despite its being object of the gaze, comes
to embody the Fascist ideal of «perfected (politicized) erotic power» 28
admired by «la maggiore parte degli astanti, dagli uomini come dalle
donne» 29. Furthermore, because Fadigati, though cultured, is not
particularly effeminate, Eraldo feels compelled to assign him this role
publicly by default, by punching him and leaving him with the «bloody
wound», however imaginary, real, or symbolic it may be read by Fascist
Ferrara. While Eraldo briefly ascends to the role of power icon, Fadi-
gati descends to the role of Girardian scapegoat of Ferrarese Fascist
repression. In essence, Fascist patriarchy is shown to accept, at least
outwardly, violence as something of a substitute for sexual preference as
proof for its construction of masculinity. As victor in an ideology whose
only morality is power, Eraldo’s literal crimes of assault and theft, as well
as his personal crime of betrayal of trust, go unquestioned and unpun-
ished. At this point Montaldo’s dialogue replicates Bassani’s text:
Davide: Perché non denunciarlo alla polizia?
Fadigati: Denunciarlo? Ma le sembra possibile? 30
In the film Fadigati naively claims that he and Eraldo «always shared
everything», but Bassani’s narrator clearly identifies the relationship be-
tween Fadigati and Deliliers as one of «uno carnefice, l’altro vittima» 31.
Sexual historian Andre Béjin has described the democratization of sex
as a peculiarly recent contemporary phenomenon 32. Instead, the homo-
sexual relationship described by Bassani’s text belongs to what Italian
gay critic Giovanni Dall’Orto calls «[un] modello arcaico di omoses-
sualità [che] rifiutava di prendere in considerazione come partner gli
altri omosessuali» 33. Thus, to be seen as a desirable partner even by
Fadigati, Eraldo must uphold the myth of his heterosexuality, flirting
and driving off with girls, despite what individual sex acts he may or may
not perform with or without Fadigati on any specific occasion. Accord-
26 Spackmann 1998, 3.
27 Bassani 1980, 192.
28 Schneider 1986, 95.
29 Bassani 1980, 198.
30 Cfr. ivi, 220.
31 Ivi, 234-235.
32 Béjin 1987.
33 Dall’Orto 1990, 162.
550
Adaptation as Heterocentralization
551
William Van Watson
552
Adaptation as Heterocentralization
44 Ivi, 225.
45 Schneider 1986, 93.
553
William Van Watson
554
Adaptation as Heterocentralization
internally exiled homosexuals were. He tells the narrator: «Dopo ciò che
è accaduto l’estate scorsa, non mi riesce più di tollerarmi […], certe volte
non sopporto di farmi la barba davanti allo specchio» 50. Fadigati can no
longer accept the mirror image of the alter ego of his open homosexual-
ity, but neither can he return to the former invisibility of the closet.
Vittorio De Sica’s Umberto D. (1952) concludes with its isolated
protagonist looking for the dog that has been his only point of con-
nection, his only source of affection throughout the film. This poignant
metaphor prompts Gilberto Perez to argue, «No other work so chill-
ingly conveys the mood of suicide» 51. Montaldo’s Gli occhiali d’oro visu-
ally echoes De Sica’s masterpiece when Fadigati searches for the dog
that once befriended him and has now abandoned him. This intertex-
tual connection with De Sica’s work further alludes to Fadigati’s own
‘mood of suicide’. Montaldo’s film and Bassani’s novella thus conform
to the heterosexually determined paradigm whereby homosexuality has
been considered an unlivable condition. Vito Russo even concludes his
landmark study The Celluloid Closet with a necrology of 39 homosexual
characters from major films who die ideological predictable – but often
narratively bizarre – deaths 52. Fully a third of these commit suicide, and
only one survives to old age. In traditional cinema, then, heterocentric
constructs of gender have dictated that «the only good homosexual is a
dead homosexual», or at least an invisible and/or inactive homosexual.
In its own virtually invisible treatment of homosexual intimacy, Mon-
taldo’s overly ‘discreet and delicate’ film is ultimately impaired by the
same strategy of containment that Fascism pursued and that Bassani’s
novella, despite its conformity to a heterosexist narrative paradigm,
does indict in the death of Fadigati.
Bibliography
555
William Van Watson
556
28.
BASSANI TESTIMONE CIVILE
E SCRITTORE AMBIENTALISTA
L’esperienza di Italia Nostra
Cristiano Spila
Nel libro Italia da salvare, uscito nel 2005, che raccoglie gli scritti am-
bientalisti di Giorgio Bassani 1, gli elementi storici e quelli vissuti, còlti
in una prospettiva di attualità o di lotta, sono evidenti nel testo, che è
un diario o, se si vuole, un panorama sull’Italia tra il 1965 e i primi anni
Ottanta. Un diario che ha come protagonista un paese alla ricerca di
una sua moralità e cultura sullo sfondo del post-boom economico e che
riguarda una collettività in cerca di un’identità storico-sociale e politica,
con un destino da interpretare ma anche oggettivamente certificabile in
quanto storia. Che Giorgio Bassani abbia pensato di ricavare un libro
dai vari interventi pronunciati negli anni della sua presidenza di Italia
Nostra è indubitabile 2; ma non credo pensasse a una raccolta di saggi:
si tratta, invero, di un’opera che può definirsi critica, perché contiene
delle sistematiche e significative dichiarazioni di teoria e prese di posi-
zioni ideologiche.
Tale definizione di opera critica, o con tratti critici, corrisponde
alle intenzioni di Bassani di scandire in un testo la vicenda vissuta in
prima persona come intellettuale alle prese coi problemi della salva-
guardia ambientale e della valorizzazione culturale del nostro Paese. Il
libro, dunque, non si limita ad esprimere un’esperienza soggettiva, ma
indica il percorso storico di un gruppo di intellettuali nell’Italia tra gli
anni Cinquanta e gli Ottanta. Riandando alla nascita dell’associazione,
Bassani scrive:
1 Bassani 2005.
2 Vd. Cristiano Spila, in Bassani 2005, XIX-XX.
557
Cristiano Spila
come di «un lirico assistito da una fortissima vocazione critica» (2002, 150). Più in ge-
nerale, la valenza critica del discorso bassaniano, oltre che in diversi interventi sparsi, è
affidata alla sua produzione saggistica, contenuta in Di là dal cuore, ora in Bassani 1998,
945-1350.
5 Bassani 2005, 157.
558
Bassani testimone civile e scrittore ambientalista
559
Cristiano Spila
legata ai grandi temi del rapporto uomo-natura è nel volume di Dolfi-Venturi 2006.
8 La difesa dell’ambiente appartiene al versante critico, si potrebbe dire storici-
(1938). Su questo concetto crociano Bassani torna nell’articolo intitolato Lauro De Bosis,
ora in Bassani 1998, 1040-1046.
10 Bassani 2005, 79.
560
Bassani testimone civile e scrittore ambientalista
sto perché dice del suo mettersi tutto a disposizione, senza alcuna rete
di protezione. La metafora del paese sacro è intesa come un fatto indivi-
dualmente qualificante; ed è da quell’aspirazione che deriva il radicalismo
dell’investimento di Bassani nell’opera di Italia Nostra. La necessità per
lui è quella di determinare questo suo io intellettuale attraverso il mestiere
di scrittore. La natura della scelta bassaniana è agonica e alla letteratura
viene delegata la possibilità di un adempimento esistenziale, di una ri-
cerca di dignità e di valore, di una salvezza della libertà che colmi e raf-
forzi il baratro di un’esistenza in lotta. La letteratura certifica l’esistenza
di questa lotta per la democrazia: essa significa tutto quello che c’è di
essenziale, e ancora di inattuato o appena svelato. Dunque, anche di
una nuova sensibilità. E infatti la consapevolezza di uno scarto, di uno
sprone, di una sterzata necessaria, rappresenta il sentimento prevalente.
Il merito fondamentale di Italia Nostra, la sua originalità assoluta, sta, se-
condo me, proprio nella persuasione che abbiamo avuto fin dal principio
dell’eccezionalità dei valori che ci proponevamo di tutelare. Eravamo con-
vinti, infatti, e continuiamo ad esserlo più che mai, che il patrimonio artisti-
co e naturale italiano appartenga a tutto il mondo, riguardi tutto il mondo,
e che per ciò sia in qualche modo sacro. È in Italia, infatti, che il mondo,
da antico quale era in antico (un mondo di uguali, ma non di liberi), è
diventato moderno. Il ripensamento critico del passato recente e remoto,
effettuato dal rinascimento italiano, ha dato vita all’evo moderno, all’età
nella quale gli uomini di tutti i continenti ancora oggi vivono. 11
11 Ivi, 91.
12 Ivi, 111.
561
Cristiano Spila
co Pratesi, Giorgio Bassani e il mondo della natura, in Gaeta 2004, 171-172; e Gianni
Venturi, La scrittura e l’etica del paesaggio, in Dolfi-Venturi 2006, 233-239. Cristiano
Spila, Identità, storia e cultura negli scritti ambientalisti di Giorgio Bassani, in Grossi
2007, 275-284.
14 Bassani 2005, 79.
15 Ivi, 77.
562
Bassani testimone civile e scrittore ambientalista
563
Cristiano Spila
rara, alla luce della nuova figura di Bassani intellettuale e critico, che ri-
legge se stesso e le sue posizioni. A questo nuovo slancio si accompagna
un cambiamento di mentalità, una diversa piega sentimentale e morale,
che incide nella figura del Bassani scrittore civile e operatore di cultura.
Tutto questo aveva molto poco a che fare con quanto si era visto e
si vedeva fino a quel momento nella nostra letteratura. È anche rispetto
a un certo clima letterario che Bassani sente la necessità di rompere nel
modo più netto. La sua nuova avventura di presidente di Italia Nostra,
dal 1965 al 1980, rappresenta infatti un allontanamento che è difficile
immaginare in senso più deciso verso un altrove non soltanto stilistico
e letterario ma anche in senso profondo antropologico, situato affatto
lontano dalla nostra tradizione. Via e lontano dall’opprimente presente
della letteratura italiana, dal tono artificiale e sterile della neo-avanguar-
dia degli anni Sessanta.
Gli scritti contenuti in Italia da salvare rivelano con grande chia-
rezza quella che si deve riconoscere come la diffusa testimonianza della
rottura nettissima che comincia a operarsi nel Bassani intellettuale: un
moto in cui stanno insieme l’invettiva e la disillusione, la polemica e lo
scontento nei confronti di una realtà, persino il sospetto della propria
insufficienza e il relativo scoramento, ma anche la presenza di un vigore
e di un’energia intellettuale fortissima:
La battaglia nella quale ci siamo ingaggiati da oltre un decennio è ben lon-
tana, purtroppo, dall’essere vinta. In un certo senso, anzi, è appena comin-
ciata. […] Il che significa, se non sbaglio, che i problemi sono sempre gli
stessi: tali e quali: immobili, in attesa di un qualche principio di soluzione.
E che sempre gli stessi siamo anche noi di Italia Nostra dinanzi a loro, ar-
mati di quella medesima proverbiale testardaggine a voler venirne a capo,
che ci ha reso in tanti anni così impopolari e popolari insieme. […] No: te-
mo proprio che tutto potrà essere recuperato, dal passato, ma non la nostra
ingenuità. E che la musica, ormai, dovremo per forza cambiarla. Che cosa
è successo, dunque, in Italia, da tre anni a questa parte, perché il discorso
che mi accingo a farvi debba essere così amaro, così scorato? Questo è
successo: che non è successo niente. […] Ma a questo punto bisogna dire
che anche la pazienza dei santi ha un limite, e che la mancata inclusione
nel programma dell’ultimo governo – dopo tanto gridare, dopo tanto di-
scutere, da parte nostra e dalla pubblicistica nazionale e internazionale più
qualificata, dopo tante promesse – di qualsiasi accenno a una volontà di
tutela del patrimonio artistico e naturale del nostro Paese, ci ha resi, d’un
tratto, perfino noi, rabbiosi e disperati. 17
17 Ivi, 38-45.
564
Bassani testimone civile e scrittore ambientalista
18 Ivi, 48-49.
565
Cristiano Spila
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Bassani testimone civile e scrittore ambientalista
567
Cristiano Spila
22 Ivi, 105.
568
Bassani testimone civile e scrittore ambientalista
suo grado di consapevolezza nei confronti non tanto della storia quanto
dell’esistenza e della realtà complessivamente prese, non può che lascia-
re sorpresi.
La complessità del suo operare come intellettuale, ma più ampia-
mente tutta la visione del «sacro» e del «religioso» non possiede nulla
di mistico: è, anzi, la realizzazione progressiva di un’istanza laica e de-
mocratica, nell’idea di un bene comune da perseguire. Per ciò, il valore
di un’esperienza come Italia Nostra non è mai autonomo, ma si lega in
tutto alla rivelazione di un percorso letterario e storico. E lo storicismo
stesso poi si giustifica proprio come ricerca di una visione commisurata
alla tensione intellettuale e al sentimento delle cose.
L’idea del paese sacro rappresenta il simbolo più approssimato a
una ideale ricostruzione del pensiero bassaniano in termini di civiltà:
una linea – perfetta nell’ordine della autenticità – verso cui tende la de-
finizione di ‘salvaguardia’ e l’auto-definizione dello stesso autore come
mediatore culturale.
Siamo innamorati dell’Italia, si capisce, essendoci nati e vissuti. Ma il no-
stro amore deriva anche dalla consapevolezza che questo Paese merita, anzi
pretende, un trattamento particolare, diciamo pure un po’ speciale. Mi sba-
glio, o non è vero che l’Evo moderno è nato in qualche modo qui, in Italia,
mercé il ripensamento critico del mondo antico attuato dal Rinascimento?
[…] Dunque, il territorio italiano è sacro: rappresenta l’immagine fisica, il
corrispettivo oggettivo – mi si passi l’espressione – di un’operazione men-
tale e culturale di importanza assoluta. 23
23 Ivi, 218.
569
Cristiano Spila
Bibliografia
Bassani, Giorgio (1998). Opere, Roberto Cotroneo (a cura di), Milano, Mon-
dadori.
(2005). Italia da salvare. Scritti civili e battaglie ambientali, Cristiano Spila
(a cura di), Torino, Einaudi.
Camon, Ferdinando (1973). Il mestiere di scrittore, Milano, Garzanti.
Croce, Benedetto (1938). La storia come pensiero e come azione, Bari, Laterza.
Dolfi, Anna - Venturi, Gianni (a cura di) (2006). Ritorno al «Giardino». Una
giornata di studi per Giorgio Bassani (Firenze, 26 marzo 2003), Roma, Bul-
zoni.
Gaeta, Maria Ida (a cura di) (2004). Giorgio Bassani. Uno scrittore da ricordare,
Roma, Fahrenheit 451.
Garboli, Cesare (2002). Pianura proibita, Milano, Adelphi.
Grossi, Paolo (a cura di) (2007). Il romanzo di Ferrara. Atti del convegno inter-
nazionale di studi su Giorgio Bassani (Parigi, 12-13 maggio 2006), Parigi,
Istituto Italiano di Cultura.
Spila, Cristiano - Zagra, Giuliana (a cura di) (2007). Giorgio Bassani ambienta-
lista, Quaderni della Biblioteca nazionale centrale di Roma 12.
570
29.
LA CONOSCENZA E LA DIVERSITÀ
NELL’OPERA DI BASSANI 1
1 Questo saggio, fra le varie fonti culturali, si basa sull’opera del mio maestro
Walter Binni e in particolare Poetica, critica e storia letteraria e altri scritti di metodologia
(Firenze, Le Lettere 1993).
2 Eisner 1976, 266-272.
571
Maurizio Del Ministro
Lang, negli ultimi anni della sua vita, era solito portarsi dietro una
scimmietta di gomma, come se volesse ricordarci, in modo satirico, la
nostra origine arcaica. Quando frequentavo la casa romana di Bassani in
via Giovanni Battista De’ Rossi, mi ha sempre colpito l’affetto e l’atten-
zione che egli aveva per la sua cagnetta Carolina.
Bestiario
In Italia da salvare, di questo amore per gli animali esistono testimonian-
ze inconfutabili:
Ho sempre amato gli animali: per disposizione naturale. Da qualche anno,
tuttavia, diciamo da sei o sette, ho cominciato ad amarli di più, sempre
di più, al punto che, oggi, cani, gatti, cavalli, pennuti di grande e piccola
taglia, tutti gli animali domestici in genere, quelli da cortile e da stalla com-
presi (ma anche le bestie feroci, inclusi i rettili velenosi, nonché i pesci, e i
crostacei, e perfino gli insetti molesti), suscitano in me, soltanto a pensarli,
un élan d’amour […]. So bene che cosa significa un sentimento del genere.
La vita si avvia a lasciarmi, ed è appunto per ciò che la amo tanto, e proprio
nelle sue forme germinali […]. 3
Nella sua difesa appassionata contro gli abusi e gli aspetti irrazionali
della civiltà industriale e tecnologica, Bassani asserisce:
I macelli sono un orrore. Anche le immense stragi di animali di tutti i tipi,
che gli uomini perpetrano giorno dopo giorno per nutrirsi, anche esse, og-
gi, non appaiono meno infami. La civiltà industriale e tecnologica ha per-
messo all’umanità di sconfiggere, o quasi, la morte precoce. Nel corso degli
ultimi cento anni, la popolazione terrestre ha potuto triplicarsi.
E tuttavia gli uomini continuano oggi ancora a nutrirsi come una volta,
come sempre, di carne sanguinante, ancora oggi continuano a fondare la
loro sussistenza sulla morte di altri esseri viventi. La verità è che la civiltà
industriale e tecnologica non va rifiutata, bensì corretta, piegata, dominata.
Capace, come è, di fornire surrogati di tutto, o quasi tutto, perché non le
chiediamo di riscattarci dall’abiezione della più grossa delle nostre con-
traddizioni, l’organizzato assassinio degli animali? 4
3 Bassani 2005, 180. Questo scritto è la prefazione al volume Dalla parte degli
572
La conoscenza e la diversità nell’opera di Bassani
573
Maurizio Del Ministro
574
La conoscenza e la diversità nell’opera di Bassani
matica Silvio D’Amico di Roma dal 1957 al 1967. Cfr. la Cronologia, in Bassani 1998,
LXXVIII.
9 Bassani, 1964, 111-113.
575
Maurizio Del Ministro
In questo brano, al di là del tono scherzoso, con cui gli studenti parlano
tra loro attribuendosi qualità animalesche, si può notare come la cultu-
ra del mondo greco ci rinvia alla metempsicosi, a un passato lontano,
fantastico, primordiale, a una tematica antropologica. Quando vengono
descritte le varie malattie e la scelta da parte di Lattuga di essere micro-
bo, appare il lato orrido della nostra presenza sulla Terra. Il passaggio
continuo tra mondo umano e mondo animale si rifà ad una tradizione
estremamente frequente nella favola, nel mito e nella letteratura.
In un piano sequenza, la poesia Campagna Romana, ci travolge con
la metamorfosi kafkiana dello scrittore nella bestia: privo di un ubi con-
sistam, egli si sente minaccioso, furibondo e rassegnato nella sua identi-
ficazione, divenendo un’immagine ardente, surreale ed espressionista in
un notturno campestre, sciabolato dai fari dell’auto.
Uguale identico mi riconosco d’un tratto al cagnaccio biondastro
vecchio sì e non poco qua e là
spelacchiato ma ancora
abbastanza minaccioso a
vedersi
che chissà dove diretto e chissà da dove
proveniente
a testa bassa con le fauci grandi
mezze aperte a tirare il fiato e con neri occhi amari
furibondi e rassegnati batte
la scura campagna limitrofa alla più distante
periferia
e che allorquando appena dopo un bruno
piccolo ponte in muratura sterzo io rapido via
brucia per un lungo istante al fuoco
dei miei fari. 10
576
La conoscenza e la diversità nell’opera di Bassani
La flora e le pietre
Bassani si interessa al mondo della flora nei Finzi-Contini, quando enu-
mera vari tipi di vegetazione di un giardino ormai scomparso, fantasma-
gorico e surreale:
Tutti gli alberi di grosso fusto, tigli, olmi, faggi, pioppi, platani, ippocastani,
pini, abeti, larici, cedri del Libano, cipressi, querce, lecci e perfino palme
ed eucaliptus, fatti piantare a centinaia da Josette Artom, durante gli ultimi
due anni di guerra sono stati abbattuti per ricavarne legna da ardere, e il
terreno sta già tornando lentamente come era una volta, quando Moisè
577
Maurizio Del Ministro
Finzi-Contini lo comperò dai marchesi Avogli: uno dei tanti grandi orti
compresi dentro le mura urbane. 13
14 Ivi, 109-110.
15 Ivi, 110.
di Maratea, in data 21 luglio 1973, l’autore scrive: «Non le prometto di far strappare le
erbacce e i rovi che la popolazione di Maratea, a quanto Lei asserisce, giudica disdicevoli
alla dignità del luogo. Le erbacce e i rovi sono pur sempre prodotti naturali, e i boschi
ne sono pieni. Se l’immagina, Lei, i boschi attorno a Maratea, ripuliti di rovi e d’erbacce?
Quale orrore!».
17 Cfr. la bella e anticipatrice prefazione a Il giardino dei Finzi-Contini, Vita e morte
di Micòl di Eugenio Montale, in Bassani 1999, V-IX. Il saggio era apparso su Il Corriere
della Sera il 28 febbraio 1962. Scrive con ironia Montale: «I personaggi del suo nuovo
libro Il giardino dei Finzi-Contini non hanno fatto a tempo a leggere Robbe-Grillet o
Beckett, anche perché sono morti con qualche anno di anticipo; e quanto al personaggio-
autore, quel personaggio che dice io ma che tace il suo nome (lo indicheremo con la
lettera B.) è vero che egli – unico scampato alla catastrofe – ha potuto vedere per esempio
L’année dernière à Marienbad, ma gli è rimasta intatta la convinzione che non può esistere
arte là dove manca un minimo di certezza sulle basi stesse della vita: la quale può essere
anche un inganno, ma non un inganno privo di ogni senso». Montale è polemico verso
la sceneggiatura di Robbe-Grillet, ma il film appartiene soprattutto al regista francese.
Nella sua opera Resnais introduce una sequenza, assente nella sceneggiatura di Robbe-
Grillet, ispirata da À la recherche du temps perdu di Proust, quella in cui il narratore
cerca di raggiungere il poliedrico e sfuggente volto di Albertine. Nell’ambiente sepol-
crale dell’albergo, X, lo sconosciuto, ci mostra la possibilità di aver amato A, la donna:
le inquadrature replicano, in modo analogo, con mezzi filmici, la scrittura proustiana.
Per il valore espressivo di Marienbad, cfr. Macchia 1964, 321-322 e Del Ministro 1983,
578
La conoscenza e la diversità nell’opera di Bassani
435-440. Tuttavia una certa influenza dell’École du regard, la ritroviamo, ad esempio, nel
gusto per l’enumerazione degli oggetti, usato da Bassani nella sua narrativa, ma, come
giustamente ci fa intendere Montale, siamo all’opposto dell’opera di Robbe-Grillet.
18 Bassani 1998, 1446.
19 Ivi, 1371. Per un approfondimento del tema della maschera cfr. Del Ministro
1980.
579
Maurizio Del Ministro
580
La conoscenza e la diversità nell’opera di Bassani
Bassani si interessa a quel a quel «silenzio di Dio» a quel lutto del cielo,
espresso in Luci d’inverno (Nattvardsgästerna, 1963) di Bergman, regista
tanto amato dallo scrittore, come viene testimoniato dal suo commen-
to al film, dove possiamo trovare alcune consonanze con le sue poesie
sull’angoscia dell’eros e sul silenzio della divinità.
Dei film stranieri che ho veduto l’anno scorso, mi ha soprattutto colpito
Luci d’inverno di Bergman, straordinario, davvero, per il rigore stilistico,
per la classica semplicità della struttura narrativa, nonché per l’intensità e
la profondità dei suoi significati. Qual è il vero soggetto del film? Non mi
pare che la critica, per quel che ne ho letto, abbia colto con esattezza the
heart of the matter.
È dunque la storia di un uomo di mezza età, che nella passione per una
donna, la moglie, ora defunta, aveva perso ogni ragione di vita, e che da
questo sentimento, terreno e umano, aveva tratto energia e convinzioni suf-
ficienti per durare nella professione di pastore a cui era stato avviato dalla
famiglia paterna, senza altra occasione. Ma poi la moglie morì; ed ecco, do-
po la morte di lei, l’esistenza del vedovo, del sopravvissuto, del prete man-
cato, trasformarsi in un deserto di ghiaccio, in un’arida landa insensata da
cui Dio è stato il primo ad assentarsi. La vita della moglie, della bella donna
amorosa, si è spenta, ad un tratto. Non così quella di lui, che ha continuato
a svolgersi come un seguito di atti meccanici, privi di sostanza spirituale.
Bergman ci inoltra insieme col suo personaggio, ridotto ad una sorta di
23 Ivi, 1480.
24 Ivi, 1363.
581
Maurizio Del Ministro
1964.
582
La conoscenza e la diversità nell’opera di Bassani
Non sappiamo e non ha importanza, forse, sapere chi pilota «nel buio»
e «in silenzio» lo scrittore, ma è il buio e il silenzio dell’esistenza che bal-
za in ‘primo piano’, producendo nel lettore uno scoramento. Si pensa
al viaggio notturno in auto di Campagna romana, così denso di mistero.
In Muore un’epoca il tempo ritorna nel vortice di continue meta-
morfosi, di vite sentite in un continuo trapasso, nel supplizio, quasi dan-
tesco, dato dall’immagine del poeta, «girato perennemente all’indietro»,
costretto a guardare, in una torsione psichico-fisica, l’indifferente pas-
saggio delle ere:
Muore un’epoca l’altra è già qua
affatto nuova e
innocente
ma anche questa lo so non la
potrò vivere che girato
perennemente all’indietro a guardare
583
Maurizio Del Ministro
28 Ivi, 1477-1478.
29 Per i concetti di salto di qualità ed ex-stasis, cfr. Ejzenštejn 1981, 37.
30 Bassani 1998, 1485.
584
La conoscenza e la diversità nell’opera di Bassani
585
Maurizio Del Ministro
Chiamami, sì, vengo, vengo verso la luce, verso la vita! Ma, al tempo stesso,
dice esattamente il contrario: Non svegliarmi, non tirarmi fuori, lasciami
dormire per sempre! Tant’è vero che con la mano sinistra accenna al mon-
do di tenebre e di morte da cui viene. Il teschio è una natura morta, è la
materia. Lasciami, lasciami stare dove sono! Sì, vengo; ma al tempo stesso:
No, lasciami dormire! Voglio rivivere ma, forse, voglio dormire!
Dunque, se questo è il vero soggetto del quadro, l’importanza di esso,
è secondo me, somma. Non dimentichiamoci che questo quadro è coevo
all’Amleto di Shakespeare, un capolavoro fondamentale per la storia della
sensibilità moderna. Cosa dice l’Amleto di Shakespeare se non la stessa
cosa? Quindi, il mondo moderno si inaugura, in fondo, con questi due
grandi, sommi capolavori. 31
Qui si sente il gusto del metodo investigativo caro al Longhi 32, c’è un’in-
dagine ossessiva, fatta di interrogativi da cui traspare il labirinto nella
poetica di Bassani. Questo brano rinvia ad una problematica shakespea-
riana dell’Amleto, al To be or not to be, all’essere non essere, a quel tema
vita e morte che si ritrova nel commento che lo scrittore fa sulla sua
opera più celebre:
[…] i Finzi-Contini non vogliono vivere, appartengono alla morte, amano
la loro casa, il loro giardino, e basta. Micòl soltanto vuol essere diversa,
vuole vivere, è portatrice in qualche modo del mio messaggio. Ho scritto il
libro per identificarmi con Micòl. I poeti si confessano sempre attraverso
uno dei loro personaggi. Anzi: tutti i loro personaggi, se sono tanti, sono
forme del sentimento. Micòl è come me. Non avrei potuto scrivere il ro-
manzo di cui Micòl è la protagonista assoluta, se non fossi somigliato in
qualche modo a lei. 33
Micòl è una creatura che vuol essere «diversa», che «vuole vivere», ma
anch’essa inesorabilmente appartiene ai Finzi-Contini e finisce nel ro-
manzo per essere toccata dal tanathos, per cui, possiamo definirla come
un segno che rinvia a Joyce e Proust. La giovane, con il suo sguardo
misterioso, è un personaggio sdoppiato, polisemico ed infinito: un’in-
termittenza del cuore ed insieme un’epifania che irradia vita e morte,
accettazione o rifiuto, gelo o passione.
32 Sul rapporto tra Roberto Longhi e Giorgio Bassani, cfr. Paola Bassani 2004, 99-
106.
33 Un’intervista inedita [1991], in Bassani 1998, 1346.
586
La conoscenza e la diversità nell’opera di Bassani
L’uomo e la città
Abbiamo visto come registi, quali Hitchcock, Bergman ed altri studiati
profondamente dalla critica, abbiano molte consonanze con lo scrittore
di Ferrara. Pasolini ha voluto Bassani come voce del personaggio del
regista in La ricotta, interpretato da Orson Welles.
Bassani e Pasolini erano amici e certamente ciò che dice la voce
dello scrittore non sono soltanto i pensieri del regista, ma anche la difesa
della cultura contro l’ignoranza dell’«uomo medio», definito dallo scrit-
tore friulano, come «razzista» e «delinquente». Bassani mi ha detto più
volte di avere scritto Gli occhiali d’oro pensando, per i suoi personaggi,
alla sua condizione di ebreo e a quella omosessuale di Pasolini: per gli
studiosi di bioetica, una volta compresa la nostra origine animale, cado-
no tutti gli assurdi pregiudizi su ogni diversità, sia sessuale che razziale.
In questo contesto il lavoro di Bassani a Italia Nostra è militante,
etico e anticipatore. Egli vuole mostrare le rovine fisiche delle pietre,
dei monumenti come testimonianza di uno sfacelo morale che, pro-
prio oggi, ha raggiunto con il ritorno del fascismo mediatico, profe-
tizzato da Pasolini, al tragico e farsesco berlusconismo, uno dei tanti
malesseri del nostro Paese.
Ne Il giardino molti ebrei sono fascisti, Malnate un comunista in-
genuo ed idealista. Lo scrittore è attratto dall’umanità dei personag-
gi, ma rifiuta nettamente l’orrore e la superficialità e l’ignoranza delle
loro ideologie. In questo Bassani è nostro contemporaneo perché la
conoscenza svincolata dai falsi miti, può essere, ieri come oggi, un
incentivo per modificare, migliorare la nostra realtà, al di là di quelle
retoriche ideologie, di cui siamo sommersi in Italia e altrove.
Se si pensa alla biblioteca dello scrittore, al suo amore per i clas-
sici greci e latini, al tormento della sua narrativa avvertibile nelle va-
rie stesure che compongono Il romanzo di Ferrara, al terrore che egli
aveva del dissolversi delle cose nello spazio e nel tempo, non si può
dimenticare una poesia di Brecht, dedicata ad una città antica che
diviene utopia morale per il salvataggio della memoria storica.
Nei giorni in cui la loro caduta era certa
sulle mura già cominciava il lamento funebre
i troiani raddrizzavano pezzetti di legno nelle triplici porte.
E cominciavano ad avere coraggio e buone speranze.
Anche i troiani dunque. 34
587
Maurizio Del Ministro
Bibliografia
588
30.
LAMENTING THE LOST CITY
Gail Holst-Warhaft
1 Shoshana Felman and Dori Laub’s 1992 Testimony illustrates the preoccupation
of modern Holocaust studies with psychoanalytic theory and with trauma as the neces-
sary condition of the survivor.
2 Ericson 1995, 94, noted that certain kinds of disasters affect the traumatized
survivors in ways that not only destroy their belief in basic human decency, but also their
sense of self.
589
Gail Holst-Warhaft
Levi), serve a purpose by giving the reader what La Capra calls a «plau-
sible ‘feel’ for experience and emotion which may be difficult to arrive
at through restricted documentary methods» 3. Is the telling of tale,
with its inevitable re-arrangements of factual events 4, also therapeutic
for the teller? Does it produce a ‘true’ version of what happened, or is
the stored memory of these events always unreliable because it is not
coincident with the events themselves and compelled by the haunted,
traumatic past?
Using Freud’s observations of the «traumatic neuroses» suffered
by those who had fought in World War I as a basis, Cathy Caruth re-
marks on the «literal» return of disastrous events in the dreams of the
traumatized, and singles it out as a hallmark of trauma. She argues that
not only are the returns «literal» but that they are «true to the event» 5.
The insistence on the truth of what is recalled in dream is a reminder
of an ancient and widespread belief in the relationship between pain
and truth. In 5th century BCE Athens, slaves were frequently tortured in
lawsuits until they provided testimony for or against their owners. It was
held that the evidence produced by pain was bound to be true 6.
In cultures where laments for the dead are still performed, the
words of the laments are frequently described as being «true» because
they are induced by pain. I would argue that this is rather different from
being «literal». The truth of pain, lament, and perhaps of the recurring
dream may have in common a symbolic weight that is felt by the listener
to be of greater value than a normal utterance. This truth involves being
on the inside of a traumatic experience, a position that is often fraught
with ambiguity. As LaCapra put it, «Trauma is a disruptive experience
that disarticulates the self and creates holes in existence; it has belated
effects that are controlled only with difficulty and perhaps never fully
mastered» 7.
The disruptive effects of trauma are evident in Dori Laub’s eloquent
description of what it means it to be «inside the event» of the Holo-
caust. Laub reminds us that the experience of disaster does not nec-
4 Ivi, 17, quotes Hayden White’s description of narrative accounts being not only
factual statements […] and arguments but also consisting of «poetic and rhetorical ele-
ment by which what would otherwise be a list of facts is transformed into a story» (empha-
sis LaCapra’s).
5 Caruth 1995, 5 (emphasis Caruth’s).
590
Lamenting the Lost City
9 Ibidem.
10 Ivi, 67.
12 Primo Levi’s name and works are too well-known to require references, but the
591
Gail Holst-Warhaft
that surfaced occasionally and shone the brighter for its rarity. Perhaps
the most striking example of a writer who produced a diverse body of
literature both as a prisoner and immediately after his experiences in
Theresienstadt, Auschwitz, and two labor camps near Buchenwald, is
that of Hans Günther Adler, who wrote in German and whose works
are only now available in English 13. Adler’s exhaustive analysis of camp
organization (Theresienstadt 1941-1945) is still unavailable in English
despite its central place in German Holocaust literature 14. This is sur-
prising in itself but the reaction of German publishers to his novels is
even more difficult to comprehend 15. Despite the recognition of his
literary gifts by other German writers, the book did not find a publisher
until 1962, more than a decade after it was written. The reason for the
delay seems to have been the unwillingness not of writers to use any
kind of literary form to depict their experiences but of the audience of
readers, publishers and critics to accept the idea that a work of aesthetic
ambition and value could be produced under such conditions. Adler
justifies his transformation of a real experience that included the death
of his wife and parents, into a work of art, saying:
it is a question of different categories of reality, and there is nothing to be
gained from holding fast to facts in literature, facts that only a chronicle of
experience or an academic work of history or sociology can properly en-
compass, while in a work of art these experiences are recast, transformed,
even incinerated – a process through which literature arises. 16
13 For a review of the new English translation of Adler’s novels and a discussion of
the reception of his work in post-war Germany, see Ruth Franklin’s article in The New
Yorker (31 January 2011, 74-9).
14 Franklin 2011, 74.
15 When Adler presented the manuscript of his novel The Journey, written in 1950-
51, to the publisher Peter Suhrkamp, Suhrkamp «vowed that the book would not be
published while he was alive» (ivi, 78).
16 Ivi, 79.
592
Lamenting the Lost City
problem, as Levi, Camus, and others understood, was to make the scale
and nature of their experience credible.
The poet Mark Doty, writing in a web forum organized by Sandra
Gilbert to discuss the use of poetry as part of a monument to the victims
of 9/11, said:
I was a little shocked, just a few weeks after 9/11, when calls for contri-
butions to poetry anthologies concerning the event began to circulate. I
understand the human need to say something, to give shape to grief, but
surely the first response to such a rupture in the fabric of the world ought
to be a resonant, enormous silence. To come to quickly to words is, ulti-
mately a form of arrogance; the easy poem suggests loss is graspable […] I
believe that elegy needs to fumble its way toward what sense it can make,
and that meaning wrested out of struggle – with the stubborn refusal of
death to mean – is the only kind worth making. 17
I will return to the idea of the postponement of articulating a response
to traumatic loss when we consider the traditional laments of mourning,
but Doty’s remarks remind us that there is an inner struggle between
the compulsion to tell the world about these events (something Levi felt
strongly), and the refusal to mourn the extraordinary disruption of mass
death in conventional literary language. This disgust with literature’s
conventions is memorably voiced in Dylan Thomas’ A Refusal to Mourn
the Death by Fire, of a Child in London:
The majesty and burning of the child’s death.
I shall not murder
The mankind of her going with a grave truth
Nor blaspheme down the stations of the breath
With any further
Elegy of innocence and youth. 18
and in Neruda’s I Explain Some Things, a poem about the bombing
raids of the Spanish Civil War, in which the poet cannot bring himself to
choose a metaphor for the horror he witnessed:
Bandits with airplanes and with Moors,
bandits with finger-rings and duchesses,
bandits with black friars making blessings,
kept coming from the sky to kill children,
and through the streets the blood of the children
ran simply, like children’s blood. 19
17 Doty 2006.
18 Thomas 2003, 106.
19 Neruda 2003, 925.
593
Gail Holst-Warhaft
Modernity may have offered the writers of the 20th century a broader
range of language with which to address the unspeakable. Dislocation,
interruption, uprootedness, obliqueness – even incomprehensibility, ab-
surdity, experimentation – all contribute to and help express a sense
of loss that pervades so much modern literature. Modern Greek poet
George Seferis spent most of his creative life mourning a loss that re-
mains, for Christian Greeks, the greatest since the Fall of Constantino-
ple and is simply referred to in Greece as ‘The Catastrophe’. I am refer-
ring to the loss of Smyrna following the Greco-Turkish war of 1920-22.
Seferis’ family left Asia Minor before the city was destroyed, and he was
not a direct witness to the devastation. Nor did his family suffer the loss
of their entire livelihood as was the case for most of the more than one
million refugees who were forcibly resettled in Greece after the war.
And yet that event, and the impossibility of visiting, let alone recovering
his ancestral home, caused Seferis to fill his poetry with images of loss
and exile, exile that was repeated when he left with the Greek court for
Egypt in World War II. Doubly displaced and cognizant of the devasta-
tion caused by the German occupation of his country, Seferis felt that
he could not communicate the horror of these events to his readers. He
chose, instead, to speak in fables:
And if I talk to you in fables and parables
it’s because it’s more gentle for you that way; and horror
really can’t be talked about because it’s alive,
because it’s mute and goes on growing:
memory-wounding pain
drips by day drips in sleep. 20
20 Τελευτα ′ιος Σταθµος ′ (Last Stop), written in October, 1944. Translation by Ed-
mund Keeley and Philip Sherrard 1973, 303.
21 The Decision to Forget becomes the title of a later poem by Seferis, written dur-
594
Lamenting the Lost City
regarded as paradigmatic of amnesty, and was linked, even in antiquity, with the first ban
imposed on Phrynichus (Loraux 1998, 86-87).
24 Ivi, 88-89.
595
Gail Holst-Warhaft
reinforced and linked to the spiritual life of the city through the setting
up of an altar to Lethe (Oblivion) on the Acropolis. But the official
banning of memory did not mean that individuals forgot. Rather, it was
a warning that memory was dangerous, even the memory of the dead.
Mourning and its excesses haunt the tragic theater, nowhere more
than in the plays that deal with the history of the House of Atreus.
Clytemnestra and Electra were terrible reminders to the Athenians of the
dangers of the connection between mourning that refuses amnesty (obliv-
ion) and violent retribution. A ban on women’s lamentation in Athenian
funerals pre-dates the two edicts banning remembering, reminding us
that this connection had been made before by the Athenian state, again
in a political context, and with an explicit emphasis on women 26.
It is interesting that it was George Seferis who refused to describe
the horrors he witnessed during the second World War, and yet under-
stood that there was a cost to his (the use of the first person plural also
implicates his contemporaries) decision «to forget». What Seferis seems
to be saying is that however much I, as an individual, am haunted by the
loss of my ancestral home in Asia Minor or the occupation and devasta-
tion of my country by the Nazis, poetry is not the place for me to refer
directly to these events. I have a personal, perhaps civic obligation, to
use the oblique language of myth and fable in order to spare my read-
ers – and myself – pain.
26 In the 6th century BCE in Athens, but also in other Greek city states, bans were
596
Lamenting the Lost City
27 Shoshana Felman’s chapter on Camus’ The Plague in Testimony is the source for
29 Ivi, 6.
30 Ivi, 36.
597
Gail Holst-Warhaft
and thought (Camon 1989). In the short chapter Why Write? (41-43), Levi talks about
his writing as an act of «therapy» and «liberation».
33 Ivi, 42.
34 Ivi, 61.
598
Lamenting the Lost City
The unwillingness of the townspeople to deal with a man who had sur-
vived the concentration camp and returned expecting justice, is some-
thing that Levi would certainly have understood. Memory is kept alive,
Bassani suggests, by the exceptional, by the misfits, the outsiders, the
compulsive witnesses, and by the writers like himself. The ordinary citi-
zens do not wish to hear about, and perhaps cannot even comprehend,
the horrors of the camps unless they are filtered through the structure
of a narrative or poem.
35 Bassani 1960.
36 Ivi, 115-116.
599
Gail Holst-Warhaft
600
Lamenting the Lost City
his identification with Italian Jews on the basis of ethnicity rather than religion: «La mia
religione era quella della libertà. Credevo nella libertà come religione: seguace anche in
questo di Benedetto Croce […]» (Bassani 1998, 1341-1342).
41 Shapiro 1972, 34.
601
Gail Holst-Warhaft
43 Ivi, 27.
44 Ibidem.
45 Ivi, 28.
46 Her long and fascinating meditation on death and mourning is titled Death’s
602
Lamenting the Lost City
form is both surprising and predictable. The Biblical lament for Jerusa-
lem eulogizes the beauty of the fallen city, which is praised as «the Great
Lady among nations/the Princess among states» (Lamentations 1.1) 49.
The city is also described as fine gold that has been tarnished and its
people as golden vessels that have turned to earthernware (4.1-2).
Bassani’s project of transforming his city into a surrogate for Je-
rusalem occupied most of his creative life. The works of fiction that
were collected and revised first in 1974 under the title Il romanzo di
Ferrara and republished with further revisions in 1980, are a testimony
not so much to the fate of individuals, but to the walled city that was
both refuge and prison for its Jewish inhabitants, its dual symbolism
echoed in the titles of three of its parts: Dentro le mura, Il Giardino
dei Finzi-Contini, Dietro la porta. As other critics have remarked 50, the
references to enclosed, walled spaces is ambiguous; just as the walls of
the city protected its inhabitants, including the Jewish community, for
centuries, they offered only an illusion of communal enclosure. With
the decline of Ferrara’s most famous leaders, the Este family, the Catho-
lic Church was quick to revoke the privileges Jews had enjoyed and they
were forced into the poor, medieval streets of the city where they were
distinguished by compulsory yellow badges. Fascism and the racial laws
that began their second exclusion from Ferrara society were merely a
return to that fall from grace Jews had experienced before. The Napo-
leonic wars granted them a brief respite and made it possible for fami-
lies like the Finzi-Continis and for Edgardo Limentani (in L’Airone) to
acquire large estates.
Whether or not Bassani was conscious of the parallel of his Ro-
manzo to the laments for Jerusalem, he wove a multi-layered mixture of
Greek, Roman, Medieval Italian and Jewish myth and symbol into his
portrait of Ferrara and nowhere more obviously than in his Giardino.
He knew that the word ‘Paradise’ once meant a walled estate. The Fin-
zi-Continis live behind the walls of their garden in a state of grace and
refinement that excludes the ordinary citizens of the city, a space within
and beyond the walls. Their Garden of Eden is dominated by a Nordic-
featured beauty whose name, Micòl, is the same as the wife of King
David and who, like her Biblical predecessor, is destined not to bear
children 51. Classical associations add to the layers of Biblical reference
603
Gail Holst-Warhaft
The novel moves from the ancient cemetery of the Etruscans to the Jew-
ish cemetery of Ferrara where the theatrical, grandiose tomb of the Fin-
zi-Continis stands, a temple in a walled space, a monument to the bodi-
less dead. Like their walled garden, the family mausoleum must have
offered an illusion of immortality and substance to the Finzi-Continis.
In fact, the only thing that can rescue them from oblivion is an intruder
at their gate, and at their tomb: the narrator-lamenter, whose task it is
to repopulate the garden and put flesh on the bones of the disappeared.
The mourning of the Finzi-Continis, above all the beautiful Micòl, is the
embodiment of Bassani’s ideal of the free spirit who affirms life in the face of death.
52 Bassani 1998, 356.
53 Ivi, 320.
54 Ibidem.
604
Lamenting the Lost City
57 Ivi, 22.
Saunders makes a detailed and often persuasive case for the connection between lamen-
tation and modernity (2007).
59 Caruth 1995, 6.
605
Gail Holst-Warhaft
Was it recuperative?
It is perhaps impossible to answer this question, but, as Rebecca
Saunders argues, in her study of lamentation and modernity, there is a
way in which the traditional rhetoric of lament seems oddly appropriate
to the sensibility of tradition-averse modernism. Laments are not a form
of consolation. They veer between anger, praise, and bleak acknowl-
edgement of reality. They are performative, and use the devices of the
theater to stage grief. Acknowledging the difficulty of articulating pain
in the immediate aftermath of loss, they substitute one person’s mature
articulation of pain for another’s. The delayed composition of laments is
common. At Greek funerals, for example, a mother who has lost a child
is not expected to compose a lament at the graveside. Instead, a woman
gifted in the art of lament will compose a lament on her behalf, but she
draws on her own experience of personal pain to do so. This ‘aesthetic
of pain’ that is the pre-requisite for what the community judges to be a
‘good’ lament allows for the delayed response of the traumatized, and
the need for an understanding of loss that can only come with time.
The survivors lament their dead and resent them for abandoning
them to life. Making laments is a painful business, but not lamenting
may be worse. An altar to Lethe on the Athenian Acropolis does not
guarantee the mercy of forgetfulness. The mothers of the ‘disappeared’
in Argentina could not be bought off, even by the bones of their dead
children. They made their own lives into an endless quest for the truth
about their children’s death, not to satisfy their private need to know;
most of them knew all too well how they died, but so that the truth
could become public. In their despair and loss the individual Mothers
became a community of mourners and activists. They found a voice.
Perhaps one reason for the delayed response of some writers to the
Holocaust was the fact that their entire community, all those who would
have been fellow-mourners, had disappeared. It took time to assemble a
community of survivors, and for those who had the gift of lament to find
a voice that might express the magnitude of the suffering. Mourning for
the murdered, the disappeared, the dead in war or plague, is always a
desire to keep memory alive. For the lamenter, the task will always be
to speak in whatever form he or she knows will persuade us she or he is
telling the truth about those who cannot tell their own tale, and for the
places where they lived their lives.
606
Lamenting the Lost City
Bibliography
607
Gail Holst-Warhaft
608
APPENDICE
A Concert
Traduzione dall’italiano di Kate Zambon
Intervista inedita a Giorgio Bassani 1
Istituto Italiano di Cultura di New York
in cooperazione con la Radio Italiana, 1966
1 �����������������������������������������������������������������������������-
611
Intervista inedita a Giorgio Bassani
Letteratura, a cui facevano capo gli scrittori fiorentini, ovvero quelli che
abitavano o gravitavano attorno a Firenze tra il ’30 e il ’40.
Io sono nato dunque fiorentino, anche se sono ferrarese, e quelli
sono stati i primi scrittori che mi hanno influenzato, degli scrittori a
me contemporanei anche se un po’ più anziani di me: Loria, Bonsanti,
Landolfi, Antonio Delfini, in una parola, gli scrittori che collaboravano
a questa rivista e che allora erano i maggiori. Poi ho subito anche l’in-
fluenza dell’ermetismo, cominciato in Italia intorno al ’38. Era un’in-
fluenza letteraria. Non che io condividessi intimamente le posizioni
ideologiche dell’ermetismo: non avevo possibilità di scelta, ero troppo
giovane per avere delle posizioni ideologiche mie e andavo a scuola, an-
davo a bottega. Ero come i pittori giovani che vanno a bottega da altri
pittori. Insieme a queste prime letture nel mondo della contemporanei-
tà letteraria, subivo anche l’influenza di alcuni grandi scrittori europei.
Ho cominciato a leggere Proust intorno al ’36. Ho cominciato a leggere
Joyce intorno alla stessa epoca, non il Joyce dell’Ulisse, ma il Joyce dei
Dubliners e di Dedalus. Poi naturalmente ho scoperto, dopo il liceo,
quindi in età critica (non in età critica in senso fisiologico ma nell’età
in cui potevo avere un giudizio critico), ho scoperto Manzoni. Le gran-
di scoperte esaltanti della prosa manzoniana risalgono al mio secondo
anno universitario. Nella stessa epoca scoprii anche quello che conside-
ro uno dei fondamenti, dei pilastri letterari della mia formazione, cioè
Benedetto Croce: la prosa di Benedetto Croce, oltre che l’ideologia e
il pensiero di Benedetto Croce. Tuttavia, nonostante queste siano state
le influenze più importanti, andando avanti ne ho avute diverse altre,
come gli scrittori francesi, come in genere tutta la pléiade dei grandi
scrittori decadenti tra la fine del secolo e l’inizio del Novecento e che
sulla mia formazione hanno esercitato una uguale influenza. Io non pos-
so prescindere né dall’esperienza di Mann né dall’esperienza di Gide
né da quella di Proust, né da quella di Joyce, né da quella di James. E
anche gli scrittori americani tra gli anni trenta e quaranta, sebbene io
li abbia letti in modo diverso da come li leggevano molti scrittori più
anziani di me e già molto più maturi di me, come, per esempio,Vittorini
e Pavese. Io da Hemingway o da Faulkner, risalivo molto volentieri agli
scrittori dell’Ottocento americano, come Hawthorne che è stato – ed è
tutt’ora – uno dei maestri a cui torno continuamente e che non posso
leggere senza provare un’emozione fortissima. I racconti, Le allegorie
del cuore di Hawthorne e soprattutto La lettera scarlatta, sono dei testi
fondamentali per la mia esperienza. Tuttavia, bisogna anche dire che la
mia esperienza letteraria, che il mio periodo di apprentissage letterario,
612
Intervista inedita a Giorgio Bassani
No, no. Jamais! [risata del pubblico] La Bibbia no, non ho mai avuto una
crisi religiosa. Assolutamente no. La crisi che ho avuto, l’interruzione
della mia vocazione letteraria, è avvenuta a causa di una crisi di carattere
politico. Io mi sono completamente dedicato al fare. Ho creduto di es-
sere un uomo politico, di realizzarmi nel fare. E quindi è stata anche una
crisi di carattere religioso, ma di tutt’altro tipo, non mistico, ma esatta-
mente il contrario. Avevo letto Benedetto Croce ed ero pieno della co-
siddetta «crociana religione della libertà». In nome di questa io sentivo
che potevo anche smettere di pensare di diventare uno scrittore. Anzi,
bisogna dire la verità: io non ho mai pensato veramente di diventare
uno scrittore. Forse la cosa che mi ha salvato è che anche nei momenti
ormai lontani in cui imitavo gli scrittori fiorentini del ’900, intimamente
non ho mai pensato di poter diventare uno scrittore. È questo il punto
fondamentale. Mi piaceva moltissimo pensare alla letteratura e tentare
di scrivere, ma senza pensare che avrei potuto veramente scrivere. È una
situazione abbastanza difficile da spiegare, ma era così. Mentre ad un
certo punto la crisi politico-religiosa, se si può chiamare così, mi aveva
coinvolto al punto che pensavo potesse diventare la mia strada. Poi più
tardi, dopo il ’42-’43, le influenze letterarie sono state, diciamo così,
minori. Dopo il ’43, non penso di aver subito l’influenza di nessuno
scrittore, direttamente. Anzi, istintivamente ho cercato di vomitare tutto
quello che avevo accettato precedentemente. Ho sempre tentato di rag-
giungere un’espressione che fosse mia e soltanto mia.
Le racconto come sono andati i fatti. Io non sapevo che copertina l’edi-
tore avrebbe scelto per questo romanzo. C’era stata una mostra di De
Staël nel 1960 a Torino. L’editore, Giulio Einaudi, era particolarmente
innamorato di questo pittore. Era deciso a mettere in copertina de Le
613
Intervista inedita a Giorgio Bassani
614
Intervista inedita a Giorgio Bassani
internamente l’intervista al 1966. In quell’anno esce infatti la raccolta di saggi presso Ei-
naudi. Nel corso dell’intervista, inoltre, si parla molto dei Finzi-Contini (1962), ma non
c’è nessuna menzione de L’airone, uscito due anni dopo. L’ultima domanda si riferisce a
Dietro la porta (1964). Siamo dunque, sicuramente, non oltre il 1966.
615
Intervista inedita a Giorgio Bassani
in senso deteriore, col pulito, col composto. Ma questi non sono vera-
mente i classici: Leopardi che aveva una forma di una nitidezza e di una
politura estrema, era tuttavia uno scrittore e un poeta di violenta carica
polemica. Pensate agli stessi Idilli: a leggerli nell’ambito dell’ideologia
leopardiana, sono delle poesie esplosive, pur nel rigore della loro forma.
Quindi non esiste vero classico che non sia vero polemico. Io amo i clas-
sici, ergo sono un vero polemico.
Eppure i suoi scritti colpiscono per il loro pessimismo, per il senso di tri-
stezza e di solitudine senza speranza che sono caratteri essenzialmente ro-
mantici.
616
Intervista inedita a Giorgio Bassani
histoires dont les témoins se font égorger». Allora, che cosa distingue
un quadro di Cézanne da un quadro di Pissarro, opere che in certi mo-
menti possono sembrare tanto simili? Che Cézanne è veramente «un te-
moin qui se fait égorger». Si sente benissimo l’ansia che c’è dietro la sua
rappresentazione dell’Estaque. Ma che cosa vuole davvero esprimere,
in questo quadro, Cézanne? Sì, va bene, il cubismo, ma ciò a cui Cé-
zanne aspira davvero qui è di dare un’immagine dell’Estaque che sia
vera, anzi più vera del vero, la quintessenza dell’Estaque, e a costo della
sua vita.
Insomma, sono tanti i romanzi contemporanei, magari anche ben
scritti, di cui però non resta memoria, appunto perché nessuno pensa
che siano storie vere, perché c’è in loro qualche cosa che non persuade.
Tutto funziona, in questi romanzi, eccettuata l’unica cosa che si desi-
dererebbe che funzionasse: la buona fede. Moltissima arte e, nella fat-
tispecie la narrativa, è disposta a perpetrare nei confronti dei propri
personaggi delle operazioni di violenza inaudite, incredibili. Quasi nes-
suno scrittore ha rispetto per i propri personaggi, li considera come
delle persone realmente vissute o realmente viventi, quasi nessuno scrit-
tore pretende di mettersi in una posizione morale nei confronti della
propria opera. Ho fatto quindi questa opera di mistificazione non per
ingannare ma per spiegare, per introdurre in un certo senso il lettore in
una dimensione letteraria, in una moralità letteraria diversa da quella
corrente. Questo è il punto fondamentale. Introdurre il lettore in una
dimensione letteraria, in un rapporto letterario di carattere morale e
religioso.
Dunque era vero il pensiero del narratore che Micòl ha avuto una relazio-
ne con Malnate?
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Intervista inedita a Giorgio Bassani
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Intervista inedita a Giorgio Bassani
Lei ha fatto molto bene a pormi questa domanda perché mi riporta nel
solco della domanda precedente. Cosa c’è di vero? Questi personag-
gi sono effettivamente esistiti? Non c’è, ripeto, soltanto il desiderio di
identificarmi con loro, ma dirò fino a che limite c’è il desiderio che questi
personaggi siano considerati delle persone vive, delle persone vissute, di
cui si possa dire che abitavano in quella casa lì, sono morti e sono sepolti
in quel cimitero là. Era questa la mia preoccupazione in un mondo che
tende sempre più a non credere, che non crede più neppure ai testimoni
pronti a farsi sgozzare. Però, circa il rapporto tra me e i miei personaggi,
devo dire che essi sono veri, cioè assomigliano in qualche modo a delle
persone realmente vissute. Potrei trattenermi qui fino a domani mattina
a dire che gli shorts di Micòl appartengono a quella tale signorina che
io ho visto un giorno e mi ha colpito quando ero ragazzo, oppure che
la faccia sudata di Malnate appartiene veramente ad un mio amico che
non si chiama Malnate, ma che si chiama, per esempio, Vincenzo Cico-
gnani, il quale sta a Lugo, ha la faccia sudata quando discute ed è anche
molto alto. Mentre Malnate si chiama, sì, come Franco Malnate, il quale
però non ha niente a che fare con Giampiero Malnate, perché è ben vivo
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Intervista inedita a Giorgio Bassani
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Intervista inedita a Giorgio Bassani
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Intervista inedita a Giorgio Bassani
cosa è ed è stata la loro vita, che significato essa ha avuto per me e per
loro. Poi, nonostante questa pretesa niente affatto poetica, non potrò
far a meno di sperare al tempo stesso di raggiungere la purezza. Insom-
ma, alla base dell’operazione artistica c’è sempre una disperazione, una
contraddizione, una sostanziale tragicità. Questo è il punto. Di questa
contraddizione, l’artista è cosciente nell’atto medesimo in cui opera, ed
è perciò sempre diviso in due parti. Vorrebbe vivere e non può, ed è
compiaciuto di non potere. La sua è una contraddizione insanabile, ma
d’altra parte è la vita ad essere così: non è forse la vita, di per sé, una
contraddizione insanabile, non è forse la vita intimamente legata alla
morte che è il contrario della vita? Chi non accetta la morte non accetta
neanche la vita. Questa contraddizione insanabile sta alla base anche
dell’arte. Chi rifiuta l’idea della morte, chi non vuol morire, chi ha paura
di morire non vuole neanche vivere. E così è l’artista. Il quale vorrebbe
restituire tutta la vita e poi non può non compiacersi per averla restituita
soltanto come puro ritmo e pura visione.
Io penso che lei intenda chiedermi quali sono a mio avviso oggi i legami
tra la letteratura e la nuova coscienza civile dell’Italia. Io parlo, scrivo
in italiano e cerco di introdurre nelle strutture della lingua italiana dei
contenuti, i nuovi contenuti di questo tempo. Io credo che noi stiamo
vivendo una grande crisi, che non è soltanto dei valori della Resistenza,
ma che implica tutta la società, tutto il modo di pensare dell’Italia. E
quindi penso ancora di poter essere in qualche modo testimone, attra-
verso le cose che spero di scrivere, di questo travaglio. Che non è più nei
termini di fascismo e antifascismo o di Resistenza, ma è in termini ana-
loghi, se vuole, in termini di rapporto religioso tra lo scrittore, la società,
l’ambiente e l’Italia. Per esempio, il fenomeno dell’industrializzazione, il
passaggio da una civiltà di tipo agricolo ad una civiltà di tipo industriale,
è un grande tema che può ispirare un poeta. Sono nato in un’Italia agra-
ria e agricola e adesso vivo in una civiltà industriale: anch’io, come del
resto altri scrittori della mia generazione, sento lo strazio e la difficoltà
di tutto questo e intendo cantarlo. Penso che si tratti di un tema vera-
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Intervista inedita a Giorgio Bassani
Questo impegno lei lo testimonia anche in opere che sono state accusate di
essere disimpegnate come «Dietro la porta». Io credo invece che «Dietro la
porta» sia un’opera estremamente impegnata.
[Applauso]
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Lettera di Giorgio Bassani a Edoardo Lèbano
Roma, 20 maggio 1976
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Lettera di Giorgio Bassani a Bruna Lanaro
Indiana University, Bloomington, 21.3.1976
Cara Bruna,
non so come ringraziarla di tutte le sue gentilezze, e degli auguri, in modo parti-
colare. Qui le ore trascorrono lentissime. Vivo in una cittadina composta quasi esclu-
sivamente di villette con giardino, abbastanza graziose, prendendole una per una, ma
nell’insieme piuttosto mortuarie. Al centro della cittadina-accampamento, un complesso
di grandi edifici di stile tra il Neo-gotico e l’Eur, dove ha sede, fra gli alberi, la città
universitaria vera e propria. Lì, io sto. E, in pratica, non esco mai oltre il limite del cosid-
detto campus. La noia è grande, immensa. Il tempo cambia continuamente, oggi freddo
(magari con neve), domani sole e caldo sciroccale. Risultato: non ho molta voglia di la-
vorare, ed è peccato, perché con tutte le ore che ho a disposizione … Ma passerà, passe-
ranno anche questi due mesi. Martedì, per fortuna, vado a Detroit, a fare una conferenza;
in aprile a Berkeley, in California, a vedere.
Ho ricevuto la busta con dentro le lettere, ecc., il 15: dopo dodici giorni che lei
l’aveva spedita. Calcoli, in ogni caso, che ci vuole una decina di giorni perché la posta mi
arrivi. Mi dispiace non essere stato in grado di rispondere al telefono. Ad ogni modo, se
qualcuno volesse mettersi in comunicazione con me, tenga conto che io sono qui alle 10
di ogni mattina, e che perciò deve chiamare non prima delle 18.
[…]
Le notizie dall’Italia le ho, pochissime, attraverso il N.Y.Times. Mi mandi perciò,
insieme con la posta, eventualmente qualche articolo che lei o Vanna Ballio o S. Ma-
donna giudicassero interessante. Ho fatto un’intervista all’Ansa, riguardante I.N. [Italia
Nostra]. È poi uscita ?
Molti saluti affettuosi dal suo
Giorgio Bassani
Dalla trascrizione abbiamo escluso la parte centrale perché di interesse esclusivamente pratico.
Bruna Lanaro fu la segretaria di Giorgio Bassani a Italia Nostra per circa venticinque anni:
durante la sua presidenza, ma anche in seguito, quando lui divenne presidente onorario e
continuò ad avere un suo ufficio a Italia Nostra (in via Niccolò Porpora, a due passi dal suo stu-
dio di via Carissimi). Bassani ci andava tutti i giorni, intorno alle 12, e ci restava in genere per
un’ora e mezzo o due. Bruna Lanaro diventò a poco a poco la sua factotum, ma era anche una
delle colonne dell’Associazione, una delle persone più preparate, sensibili ed efficaci. Assisteva
Bassani in tutte le sue attività, non soltanto in quelle legate a Italia Nostra: pubblicazioni, inse-
gnamento, conferenze, rapporti con il cinema, rapporti epistolari con il mondo intero, viaggi,
appuntamenti, avvocati, ecc. Era Bruna che si occupava di pagargli gli affitti, le bollette del
telefono, gli metteva a posto le carte, anche nel suo studio di via Carissimi, era lei che quando
Bassani era in viaggio faceva persino qualche assegno a suo nome imitandone la calligrafia …
Bruna gli batteva a macchina poesie, pagine di racconti, testi a cui lavorava. Era più giovane di
Bassani di almeno trent’anni. Era una donna molto bella, simpatica, di un’intelligenza viva e
di una grande generosità. Le sue espressioni popolaresche, in dialetto romano, facevano ridere
Bassani che con lei scherzava molto. A volte si scambiavano, da stanza a stanza, dei messaggi
scritti, dal tono buffo e giocoso. Erano diventati amici. Bassani aveva molta fiducia in lei,
ascoltava i suoi consigli ed era attento ai suoi giudizi (come si vede dalla lettera). Bruna è
morta ancora giovane, a soli cinquant’anni, nel 2001, un anno dopo la morte di Bassani. Le è
dedicato il volume Italia da salvare (a cura di Cristiano Spila, Torino, Einaudi 2006). ����������-
mo Paola Bassani per aver condiviso con noi questo affettuoso e vivace ritratto.
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Intervista inedita a Giorgio Bassani
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Sette fotografie inedite di Giorgio Bassani
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Giorgio Bassani e Edoardo Lèbano sotto la magnolia nel cortile
di casa Bassani in Via Cisterna del Follo, a Ferrara
(4 marzo 1979, in occasione del compleanno di Bassani).
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Casa Bassani, a Ferrara. Giorgio Bassani e la madre, Dora Minerbi Bassani (marzo 1979).
Casa Bassani, a Ferrara. Giorgio Bassani scarta un regalo. Di spalle la signora Dora,
sullo sfondo Enrico Bassani, figlio dello scrittore, e a sinistra la Iole, portiera e cameriera
della signora Dora (4 marzo 1979).
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Giorgio Bassani davanti a Ballantine House (Indiana University)
con gli studenti di dottorato iscritti al suo corso. Alla destra di Bassani,
Edoardo Lèbano (primavera 1976).
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A Concert
Traduzione dall’italiano di Kate Zambon
Si ringraziano Paola ed Enrico Bassani per aver concesso i diritti per la prima tradu-
zione in inglese di Un concerto.
1 Giorgio Bassani, Opere, a cura di Roberto Cotroneo, Milano, Mondadori 1998
1527-1539; per la storia editoriale di Storia di Debora e di Una città di pianura, vedi
ivi le Notizie sui testi a cura di Paola Italia, 1795 e 1766. Una città di pianura è stato
ripubblicato abbastanza di recente in un volume separato da un editore ferrarese (Sab-
bioncello San Pietro [Ferrara], 2 G Editrice 2003).
2 Storia di Debora viene tradotto in inglese come parte delle Cinque storie fer-
raresi, in cui è già diventato Lida Mantovani. Con il titolo di Five Stories of Ferrara e
traduzione di William Weaver, la raccolta viene pubblicata negli Stati Uniti nel 1971;
la prima traduzione in inglese risale però al 1962 ed esce in Inghilterra, ad opera di Isa-
bel Quigly (Robin Healey, Twentieth-Century Italian Literature in English Translation.
An Annotated Bibliography 1929-1997, Toronto-Buffalo-London, Toronto University
Press, 216).
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A Concert
3 Opere, 1535.
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Un concerto
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A Concert
A Concert
Giorgio Bassani
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Un concerto
Un concerto
Giorgio Bassani
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A Concert
The evening passed monotonously. The parlor was, all things con-
sidered, unpleasant, and the inhabitants insufferable. The beauty of the
woman, opaque and hazy behind the smoke of too many cigarettes, gave
me a feeling of unease and languor; and I was already torpidly searching
for an excuse to get out of there, when I saw emerge from the semi-
darkness, in the remote corner of the room where I had not yet cast my
gaze, a black grand piano.
Its unsuspected presence struck me. Among the light, nude furni-
ture, the piano established a rhythm, filled a pause; and as I was ab-
sorbed by my discovery, I barely heard Claudio at my back speaking
with faint excitement in his voice, perhaps deceived by an unconscious
gratified air I had assumed in the meantime. He defended «his» parlor
as if I had expressed an opinion on the subject that conflicted with his
own suddenly passionate one; whereas it was in fact favorable, if one
could thus interpret my mild enthusiasm.
But I didn’t care about him anymore. I observed instead the woman
who had silently risen from the armchair, and roamed between the cof-
fee tables and the sofas: with careful and studied movements, as if she
had wanted to conceal from herself the tedium that our conversations
generated, she had approached the instrument little by little, having
rested her hand on the black wood. And close and silent as she was
next to the piano (she seemed without memory, as if she didn’t hear or
see anymore. Who could have possibly read those weary, disillusioned
eyes?), I saw her suddenly compose herself in an intense beauty, only
now and never before revealed. At the same time my dislike of her, due
perhaps, no, certainly, to the influence of a by-now-common tradition,
disappeared without a trace. Instead, a serene admiration arose in me,
without awe, but all the more absurd considering my recent mood and
the opinion I had formed of Elena.
She was a woman of a rather aloof nature. She appeared infre-
quently in society and was rarely mentioned within social circles. She
spoke generally of useless, banal matters, separating her syllables, as if
her voice were unfamiliar to her; an opaque voice, somehow without
resonance, estranged from that light tone of easy laughter that vibrates
at the bottom of the conversation of every woman of our time. Even her
undeniable beauty ended up seeming removed from her, ill-suited to
her; and people mocked her beauty, as well as – stupidly – her proven
ability as a pianist, which seemed a secondary and unimportant gift:
perhaps because, among other things, it coincided with Claudio’s no-
torious tone deafness. All in all, a dull woman of little intelligence, who
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Un concerto
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A Concert
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Un concerto
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A Concert
had just one child, naturally; they would continue to lie to each other
with shrewdness and elegance all their lives, and so on according to
rules by which I was forcibly constrained, believing them to be life, but
which later revealed themselves to me as nothing more than literature,
of banal and bourgeois quality moreover. As such I was later unable to
understand how Claudio with similar principles could have gotten me
to listen to him for even a moment. So much did I only unwillingly recall
his intellectual dictatorship, as a turbulent and dark period, confined by
imprecise boundaries.
I now found the rational, the cold, the practical Claudio married
to a poor, not very intelligent, and moreover sensual woman, judging
from her body. And if their love – as appearances led to believe – was
enduring and great even after four years of marriage, indeed it must
have been somehow degrading, the repeated contact in which the senses
alone desperately participated and nothing else. A carnal love, which
had no doubt overshadowed Claudio, and about which it seemed he
was not completely happy. And in fact – although only recently – he al-
lowed himself to half confess to me on the subject with veiled allusions.
I say only recently because since Claudio was married nearly four years
ago we had rarely gotten together anymore. And with our customary
meetings vanished little by little the memories, the sense of my definitive
youth, and I found myself different now, changed to myself and to oth-
ers, along the path of a different life and a different destiny. If recently
Claudio had gotten close to me again, although he too was profoundly
changed in my eyes, almost a different man, still with him – in a rush –
the sweet past, and a throng of faces, and a tumult of memories returned
to my spirit. And I was given – which had not happened to me for a long
time – to thinking about Dora and to seeing her face often, catching
a glimpse, either glancing in a shop window, or following the moving
windows of a car, or hearing her footstep around the bend of a road. I
lived again for a while with the curious disposition of many years ago,
in a sort of continuous expectation that sometimes made me hold my
breath suddenly as if something were going to rain down on me from
one moment to the next. Therefore, even if Claudio’s countenance was
not exceptionally dear to me – he had never been a true friend to me – I
nevertheless joyfully attached myself to him. I gladly reciprocated his
displays of friendship.
We usually met in the evenings in the old café from when we were
students, and the conversation fell invariably to our current lives, rarely
to times past: we carefully avoided common memories. I often spoke of
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Un concerto
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A Concert
the war in Africa – I had returned a year before – and Claudio watched
me with the irony of his dull eyes. My artificial enthusiasm evidently
made him smile, I would speak, but I watched him soon become dis-
tracted, his thoughts somewhere else entirely. He would tell me then,
almost always, about his wife and, in general, about his married life:
then, so greatly would he become inflamed, that he would lose every
restraint, every precaution that the place – quite well patronized – and
also the nature of our relationship – so ambiguous – required. He spoke
loudly, gesticulating with his hands in front of his glasses. And I knew
the depths of the abyss – the abyss in their house which now seemed
to me more unbridgeable than ever – that the years had excavated be-
tween him and Elena. The woman – it seemed to me – retreated from
him from day to day ever further, isolating herself in her closed fortress,
while in the mean time desire and jealousy grew in him. He had married
her overwhelmed by the purity of her proffered body, he did not want
to know anything about her or about her past; and only later, with the
desperate desire to find a precise object of his own torment which af-
flicts the lonely and the brooding, was he able to imagine that it was this
disregarded life which had stolen Elena from him. But the woman was
silent. Every curiosity, every jealous inquiry was blunted by her impen-
etrable silence; and it was through that, nothing more than the silence of
the impossibility of expressing herself, of yielding herself, even I myself
had to realize at the end of that very same evening, that Elena’s purity
had remained intact throughout the years of unhappy union with my
friend, for whom, instead, every doubt, every new hour of solitude since
the beginning had resulted in continuous and ever increasing desire to
possess her.
To him it had certainly seemed possible to live and love his wife
through the mere possession of her body. He was satiated and infuriated
in vain. But now even he knew that he had been fooling himself. He told
me how new conflicts were born almost daily between them; in reality
Elena’s pregnancy had probably built the last definitive barriers, and the
woman, locked into her new secret, did not even rebel anymore. And
Claudio had the full measure of his solitude.
For this reason alone, I believe, Claudio had recently reconnect-
ed with me. Physically, he looked swollen and gloomy to me: his brow
seemed to have fallen, in fact an incipient corpulence made it look more
ponderous. His face, on the contrary, lengthened and hollowed, striking
because of an agitated and obtuse avidity that no sense of decency could
any longer conceal. He turned up at the Circle quite often, as he never
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Un concerto
mo ora, di rado sui tempi addietro: evitavamo con cura i ricordi comuni.
Io spesso parlavo della guerra d’ Africa – era ritornato da un anno – e
Claudio mi osservava con l’ironia dei suoi occhi smorti. Il mio artificiale
entusiasmo lo faceva evidentemente sorridere, parlavo, ma lo vedevo
presto distrarsi, il suo pensiero era da tutt’altra parte. Mi raccontava
poi, quasi sempre, della moglie e, in genere, della sua vita coniugale:
allora pareva, tanto s’infiammava, che si fosse dimenticato a un tratto
di ogni ritegno, di ogni prudenza che il luogo, piuttosto frequentato di
gente, e insieme la natura dei nostri rapporti, così ambigui e fortuiti, ri-
chiedevano. Parlava ad alta voce, agitando le mani davanti agli occhiali.
Ed io sapevo la profondità dell’abisso – abisso che ora in quella loro
casa più che mai m’appariva incolmabile – che gli anni avevano scavato
tra lui ed Elena. La donna – m’era parso di capire – gli sfuggiva di gior-
no in giorno sempre più, isolandosi dentro una sua chiusa fortezza, e
intanto in lui crescevano desiderio e gelosia. L’aveva sposata sopraffatto
dal candore di quel suo corpo offerto, non aveva voluto conoscere nulla
di lei e del suo passato: e solo più tardi, con la disperata voglia di trovare
un oggetto preciso del proprio tormento che travaglia i solitari, i nevra-
stenici, aveva potuto pensare che fosse quella vita ignorata a rapirgli di
tanto Elena. Ma la donna taceva, ogni curiosità, ogni gelosa indagine si
spuntavano contro l’impenetrabile silenzio di lei; ed era, quello, niente
altro che un silenzio di impossibilità ad esprimersi, a concedersi, dovevo
io stesso ben rendermi conto, al termine di quella medesima sera, che la
purezza di Elena aveva potuto conservarsi intatta attraverso quegli anni
di triste unione col mio amico, per il quale, invece, ogni dubbio, ogni
nuova ora di solitudine s’erano risolti fin dapprincipio in tanto continua
e sempre maggiore smania di possesso.
A lui era certo sembrato di poter vivere e di amare la moglie nel
solo possesso di quel suo corpo, vi si era saziato e inferocito sopra inu-
tilmente. Ma egli stesso ora sapeva che si era ingannato. Mi diceva come
quotidianamente ormai nascessero tra loro dei contrasti; in realtà la gra-
vidanza di Elena doveva aver elevato le ultime e definitive barriere, e
la donna, chiusa nel suo nuovo segreto, non si ribellava neppur più. E
Claudio aveva la misura della sua solitudine.
Solo per questa ragione, penso, Claudio s’era negli ultimi tempi ri-
avvicinato a me. Fisicamente mi pareva ingrossato e incupito: sembrava
che la fronte gli si fosse abbassata, in realtà una incipiente pinguedine la
faceva apparire più massiccia. Il viso, al contrario, allungato e scavato,
colpiva per una sua espressione di stravolta e ottusa avidità che nessun
senso di pudore sapeva più dissimulare. Capitava anche al Circolo abba-
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A Concert
had before. But here the efforts he made to put on airs, the precipitous
eagerness that moved him when he hastened to prevent embarrassing
questions that no one dreamed of asking him, initiating discussions,
as he did, that tended to present him as a man who was satisfactorily
loved by his wife: such comedies did not fool anyone and they even
ended up making him the subject of ironic comments and pity. And that
was evidently what he wanted: that people think he was a satisfied man,
content: many people had heard him casually joke about the intimate
particulars of Elena’s recent pregnancy, which was too greatly at odds
with his usually closed nature, with his proverbial jealousy which had
compelled him to live, as soon as he was married, out of the way in a
small isolated house.
They could have been, these results, essentially a vindication of my
lively principles: or better yet of my sweet disregard for principles and
paradigms. But now, in her house, next to the instrument, the woman
revealed herself to me alone in all her glory. And, as I said, this discovery
did not astonish me. It gave me instead a sense of serenity attained and
of tranquil ownership, as if I had known Elena first, always, and Clau-
dio, with all his rights as her husband, did not exist, had never existed.
I felt as if a gap were miraculously filled, a pause concluded, a rhythm
defined; and the «reason», Elena’s intimate significance, which in short
escaped Claudio and the others, was clear for me now, and evident. So
at this point joy overcame me, the very same which had assailed me
with greater frequency lately, in the moments in which memories of
Dora returned to visit me. Pleasant moments, these, of joyful honesty
with myself but also of perfect sadness, full and absolute precisely for
that reason; namely, when the life that I had lived up to then, just like
the one which was left to me to live, would appear disclosed to me in
the form of a shiny ribbon of which I would discern with extreme clar-
ity beginning and the end, and at the same time every place in that life
was distinct, clarified, useful above all, in that magical lucidity in which
it briefly found itself. Dora only returned in my memory as a synthesis
of moments and details, as a symbol of my better life, of the secret time
in which I had suffered greatly for having to leave her behind: symbol
whose essential significance was necessary and comprehensible to me
alone, and precisely in those moments. Thus, although I could hardly
reconstruct from memory any longer the features of that so beloved
countenance, in a way, during these instants of grace, I found it present
and alive in me like a fundamental «tone» from which my thoughts
sweetly took color. This was the same joy that seized me when I could
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Un concerto
stanza spesso, come mai aveva fatto. Ma qui, gli sforzi che intraprendeva
per darsi un contegno, le precipitose smanie che l’agitavano quando si
affrettava a prevenire ipotetiche domande imbarazzanti che nessuno si
sognava di rivolgergli, intavolando discussioni, come faceva, che tende-
vano a rappresentarlo come un uomo amato a sazietà dalla moglie: tali
commedie non ingannavano nessuno e anzi finivano col renderlo ogget-
to di ironici commenti e di pietà. Questo evidentemente voleva: che la
gente pensasse che egli fosse un uomo soddisfatto, contento: così molti
l’avevano sentito scherzare con leggerezza sopra particolari intimi come
la recente gravidanza di Elena, e ciò era troppo in contrasto con il suo
carattere di solito tanto chiuso, con la proverbiale gelosia che lo aveva
spinto a vivere, appena sposato, in una piccola casa isolata, fuori mano.
Avrebbero potuto, questi risultati, essere in sostanza una rivendica-
zione dei miei allegri principi: anzi della mia dolce noncuranza di prin-
cipi e di schemi. Ma ora, in quella sua casa, accanto allo strumento, la
donna si rivelava a me solo in tutto il suo fascino. E, come ho detto, que-
sta scoperta non mi stupiva, mi dava anzi un senso di serenità raggiunta
e di possesso tranquillo, come se io avessi conosciuto Elena per primo,
da sempre, e Claudio, con tutti i suoi diritti di marito, non esistesse,
non fosse mai esistito. Sentivo che si era miracolosamente colmata una
lacuna, chiusa una pausa, definito un ritmo; e la «ragione», il significato
intimo di Elena, ciò insomma che a Claudio e agli altri sfuggiva, per me
era chiaro, ora, e palese. Sicché a questo punto m’invase la gioia, la me-
desima che mi assaliva con maggiore frequenza negli ultimi tempi, negli
attimi in cui il ricordo di Dora ritornava a visitarmi. Grati momenti,
questi, di gioiosa adesione a me stesso ma anche di perfetta tristezza,
e appunto perciò pieni ed assoluti; quando cioè la vita che fino allora
avevo avuto, così come quella che mi resterebbe da vivere, m’appari-
vano svelate come nella figura di un lucido nastro di cui scorgevo con
estrema chiarezza principio e termine, e intanto ogni luogo di essa vita
era distinto, chiarificato, utile sopra tutto, in quell’evidenza magica nella
quale per poco veniva a trovarsi. Dora solo ritornava nel mio ricordo
come una sintesi di momenti e di particolari, come il simbolo della mia
vita migliore, del tempo segreto in cui avevo tanto sofferto per dover-
mi distaccare da lei: simbolo il cui significato essenziale era necessario
e comprensibile a me solo, e appunto in quei momenti. Così sebbene
non potessi quasi più ricostruire a memoria i lineamenti di quel tanto
caro volto, pure, durante questi istanti di grazia, io lo trovavo presente e
vivace in me come un «tono» fondamentale dal quale prendevano dol-
cemente colore i miei pensieri. Questa era la stessa gioia che mi coglieva
649
A Concert
more happily feel disposed to receive the mysterious and ineffable mes-
sages that seemed to emanate from the things around me to rouse with
sudden wonder my nature of lazy adolescent grown old; joy that I had
experienced for the first time years ago, in Cervia, when during a weari-
some walk with Dora in the evening along the beach, I was astonished
by the tracks her steps left on the wet sand. It seemed to me then that
something extraordinary had happened that far crossed the boundaries
of my usual fantasies, and I believed I could imagine that I would be,
or rather that I already was, the protagonist of a great, of a perfect love:
for which I wanted to suddenly start singing and yelling with happiness
in competition with the sea turned black by the sudden disappearance
of the moon. But that moment of grace passed at once, and the cheerful
silence that I instead maintained Dora never forgave me for. I talked
to her then with excited petulance about I don’t know what, and Dora
responded to me disjointedly, with a sudden hostility and detachment.
She blushed and told me quickly that someone was waiting for her at
home, it was late. It was already too late. As now: the same excessive
curiosity, the same unforgivable tactlessness – I saw her pale markedly
at the thought of an incursion that, however ambiguous and innocent,
violated the circle of her fierce modesty – spurred me to ask Elena to
play.
She did not respond right away; uneasy, she glanced at the husband
who remained silent, she then stammered her assent, but she looked me
in the eyes with a slow desperation so touching as to make me regret
already my request and her consent, as if I knew that it was my fault
that suddenly, between her and me, any possibility of understanding
and affinity was squandered. The husband seemed distracted; sunk into
his armchair, a mechanical disposition towards worry and anxiousness
wrinkled his forehead uncertainly, he opened his mouth from time to
time as if to say something. He did not like music. The grey, fixed eyes
of his disappeared suddenly behind the window of his glasses, I thought
I felt with true irritation his presence in the room, I was surprised to
think: «an insignificant man, a nobody»; until I turned to Elena who,
in the meantime, had turned her back to us. The music chosen from a
rack, she now concentrated on preparing the instrument for the concert;
she did not bother telling us what she would play (the lid that covered
the piano’s strings, raised effortlessly by those white arms, remained o-
blique, held in mid-air by a small, shiny, black brace); she raised then
the music stand (her careful silent gestures seemed prompted by the
time and measure of an angelic grace) and it was almost with caution
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Un concerto
651
A Concert
that she slowly unfolded the sheet of music, and she waited then, al-
ready seated on the low bench, in profile, her hands poised above the
keys. The bright concentrated light of a lamp lit at the height of her
forehead, above the music stand, reached her softened face, swathing it,
the curves of her features, in a soft halo.
Then the husband – I heard him move on my left – as if obeying a
command, stood up from the armchair, he approached the piano stay-
ing on his feet, half hidden by the slanted lid, with his face protruding
above, over the lamp, quite visible to me seated in the shadow, outside
of the cone of light. And the expression of imperious curiosity that I saw
imprinted on his face, seemed suddenly insufferable. I wanted to stand
up, but the first note vibrating in the brief silence of the small room,
nailed me to the sofa.
It was the famous «Capriccio» by Johann Sebastian Bach, com-
posed for the absence of his dearly beloved brother.
***
Dear friends were gathered around a departing man. And while trying
with an affectionate violence to dissuade him from such a step, don’t
leave us, wait, it’s already late, they remained still cheerfully gathered
close around the handsome grey-haired man, strong with a virile and
tender calmness. And there were those who vied to smooth the folds
of his jacket, those who fixed the ribbon of his wig, those who smiling
murmured serene words of affection so that during the long journey
they would return to his mind and accompanying him, console him.
There were those who instead, not yet resigned, were reminding him
with sad eyes of all of the allurements of his tranquil house that he with
his money had built for his peace, and of the flourishing flock of chil-
dren, and of his wife, not yet old, smiling on the threshold. The years
were passing, lovely and right it was, after violent youth, to enjoy all of
this in its own time.
But the departing man smiled gently at these words. And I also
smiled to myself thinking of his smile and of myself. Violent youth was
leaving me little by little, and I remained like some kind of widower,
with the imprecise desire for experiences never had, for sensations never
attained. Now, it would have been worthless to leave, to abandon old
customs, the bourgeois placidity of my life. It was already too late. From
the depths of the years I saw the face of my mother emerge again, and I
would have wished not to find there, once again, that eternal expression
of regret and sorrow that always, in every decisive moment for me, would
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Un concerto
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A Concert
appear in her two distant, melancholy eyes. I had remained by her side,
one thing among the things that had seen me born and raised, and this
certainly should have given her satisfaction. I had dragged myself, as she
had wanted and expected, throughout my twenties and thirties, into the
gray mediocrity of that corroded little provincial town. The war in Africa
had later placated me, that is, a little, and it would have seemed impos-
sible; callously estranged from that which had been nearest to my heart.
Diversions did not allure me anymore, and if, barely returned from that
glare of sun and fire, I was still at times victim of some anxiety, I already
knew how to calm myself quite quickly. I happily repudiated myself.
And the dream of taking Dora away, for which it had not seemed worth
throwing my life away, my life that was nevertheless so often tempted to
end like this, splendidly, it seemed to me later a folly of youth. I laughed
to myself about it, and I joked about it with my friends with an easy im-
propriety; I laughed about it also now. And yet even now I saw that face
of hers, a little too rosy and angelic, of a little girl grown up and caught
red-handed too early, and her forehead uncovered, bent, beneath blond
curls retained by a felt hat; that profound gaze of hers, bright, almost
white, just barely tempered by a quick bat of her black eyelashes, like
one who hides within herself the constant uncertainty of a secret. That
secret that I would have wished to possess and penetrate in those sweet
and desperate days in the middle of September, when we would set off
for the path of sycamores that separated my house from hers, and I
would implore her, harshly shaking her, seizing her by the arms, to make
her talk to me at last and open up to me: and if I told her that I wanted
to take her away, that I would take her away with me because I loved her,
she would look at me beseeching silence, with that deep gaze of hers,
bright, almost white, just barely tempered by a quick bat of her black
eyelashes, like one who hides within herself the constant uncertainty of a
secret. In silence she would wring her hands. All my courage would fall
then, and a closed and gloomy desire to hurt her would assail me.
All of this, after many years, seemed ridiculous to me: my love, my
sorrow, my desire to hurt her. Feelings that had brought me to such a
degree of weakness as to humiliate myself even in front of my mother,
when I would confess my mood to her, crying; she, seated in her chair,
with her hands clinging to the straw, would listen to me silently, watch-
ing me with concern and regret. And I laughed about it now too, that
I could see again with great clarity Dora’s face – now a woman – more
clear, a little inquisitive, with slight disdain beneath her eyelashes. It was
certainly her disdain for my life, so different from the one that I had
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Un concerto
to a lei, una cosa tra le cose che m’avevano veduto nascere e crescere,
e questo certo le avrebbe dovuto dar soddisfazione. M’ero trascinato,
come lei aveva voluto e sperato, tra i venti e i trent’anni, nella grigia
mediocrità di quella cittadina corrosa di provincia. La guerra d’Africa
m’aveva più tardi placato, ecco, un poco, e mi sarebbe sembrato impos-
sibile; disamorato insensibilmente a ciò che più mi era stato a cuore. Le
evasioni non mi attiravano più, e se appena tornato da quei barbagli
di sole e di fuoco fui preda ancora, a volte, di qualche ansia, sapevo
ormai calmarmi abbastanza presto. Rinnegavo felicemente me stesso.
E il sogno di portarmi via Dora, per il quale m’era parso degno di non
gettare via la mia vita che pur veniva tanto sovente tentata a chiudersi
così, splendidamente, mi sembrava, dopo, una pazzia di gioventù. Ne
ridevo tra me, e ne scherzavo con gli amici con una facile impudicizia;
ed anche ora ne ridevo. Eppure anche ora vedevo quel suo viso un po’
troppo roseo e angelico di bambina cresciuta e colta sul fatto anzi tem-
po, e la fronte scoperta, curva, sotto i riccioli biondi frenati da un cap-
pelluccio di feltro; e quel suo sguardo profondo, chiaro quasi bianco,
appena appena temperato da un rapido battere di ciglia nere, come di
chi nasconda in se stesso il dubbio continuo di un segreto. Quel segreto
che avrei voluto possedere e penetrare in quei giorni dolci e insieme
disperanti di mezzo settembre, quando ci incamminavamo per il viale
di platani che separava la mia dalla sua casa, e la supplicavo, duramente
scuotendola, afferrandola per le braccia, perché parlasse alla fine e mi si
aprisse: e se dicevo che avrei voluto portarla via, che l’avrei portata via
con me perché l’amavo, lei mi guardava implorando il silenzio, con quel
suo sguardo profondo, chiaro quasi bianco, appena appena temperato
da un rapido battere di ciglia nere, come di chi nasconda in se stesso
il dubbio continuo di un segreto. In silenzio si torceva le mani. Ogni
mio coraggio cadeva allora, e mi assaliva una chiusa e torbida volontà
di male.
Tutto ciò, dopo tanti anni, mi appariva ridicolo: il mio amore, la
mia pena, la mia volontà di male. Sentimenti che m’avevano portato
a un tal grado di debolezza da umiliarmi perfino davanti a mia madre,
quando le confessavo piangendo il mio stato d’animo; essa, seduta nella
sua seggiola, con le mani aggrappate alla paglia, mi ascoltava tacendo,
guardandomi con preoccupazione e rammarico. E ne ridevo anche ora
che m’era dato rivedere con grande evidenza il viso di Dora – già don-
na – più chiaro, un poco interrogativo, con un lieve disprezzo tra le
ciglia. Era certo il suo disprezzo per la mia vita così diversa da quella
che le avevo promesso: l’avrei condotta al di là del mare, e costruivo
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A Concert
promised her: I would have taken her across the sea, and constructed
on a beach fringed with palms, under an intense sky, a fantastic shelter;
and the years would pass like a broad, indifferent river, we losing, hav-
ing become children again, every pain and remorse of time. Ours would
have been an extraordinary life.
From such dreams she would stir first, turning pale. «Oh you can’t
come with me», I would say looking at my naked knees and thrusting
my fingers into the sand. She was silent. But of this adventure she alone
perhaps, without me, knows now in some measure the mystery. And if
she says other words to the man she married, pregnant she would look
at him with a loving ache, not for him, I know, but for the creature that
thrives in her womb. Him who she wanted after me and whom she does
not love, has never loved. He who shakes her harshly, and seizes her by
the arms, and interrogates her, but Dora and Elena are seated silently,
distracted by the dream of another life, and they don’t implore any-
more. Listening to the life of their wombs and crossing their hands over
their bellies. Thinking that to no man, perhaps not even to their babies
when grown, to the creatures of their own blood, could they tell this
secret. And they smile, disillusioned.
And so, now, this new Dora did not concern me. It all seemed worn-
out and vain to me, even her disdain, after so much time and so much
tedium. I thought, watching Elena, that the only good and beautiful
thing that occurred between Dora and me had been the detachment
even before the love, before this disillusion that digs irreparable fur-
rows; and to this detachment perhaps, I as much as she, owed some
remnant of a dream, some less splendid possibility of escape, very slim
indeed, from our fate. We had never possessed each other, and for this
bitter gift, for this poor anxiety, for this sterile remnant of hope, we
ought nevertheless to congratulate ourselves, isn’t that right Dora?
And the departing man was also engaged, essentially, by similar
thoughts. He looked perplexed through the window down on the vast
plain that he would have to cross. For long days he would travel, stopping
at night at the inns, exposed to the bite of the cold, to the jolting of the
stage coach, and to the ambushes of thieves and brigands. He should not
go away, he knew, leaving his wife and friends, but his brother’s absence
seemed too severe and too ancient for him: it was necessary to reach
him, to soothe with an embrace a common pain, this he had to do. And
if God had wanted the dangers and the toil of the journey to overcome
him, well then His will would have been done as always. Therefore, the
anxiety that he saw on the faces of dear friends made him laugh a little,
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but it was calm laughter, serene, like one who knows what he sees and
what he wants, oh, how different from mine! And the handsome man
could combine in an open smile also the suffering and emotion of that
pain the sincere depth of which he felt. «Oh, Walter – he murmured –
come on, don’t be a baby: you’re not going to cry like a little girl now,
are you?»; and he clapped his hand on Walter’s back, the best friend, the
peer that seemed always a boy to him – even if the years had passed also
for him, and his temples had already turned grey – always, since they
had sung together in the church choir, not more than five years old. And
almost along with him, conquered by emotion, he would have liked to
strike up an old goodbye chorus like back then, if the postilion of the road
hadn’t called, blowing on the hoarse horn, and if he hadn’t heard the call
of the horses’ bell-collars die out in front of the door of the house.
Now the goodbye is happy, almost joyful. The friends yell «hooray,»
the wife on the threshold, still beautiful and young, smiles at him, and
he smiles at her. The children offer their cheeks for a kiss, and while he
brushes them lovingly with his lips, it occurs to him that in love nothing
is better than parting, that love is beautiful only for this instant: it is like
dying and being reborn, bringing back from the shadow to the light a
happiness that sweetly disquiets and that disturbs.
***
Thus, every time that the desire for Dora’s face seizes me, I know where
to return. Elena understands me like no other woman, and only during
these long winter visits, next to her large pregnant body, can I think
again of my youth and of Dora with a marvelous power of recollection.
Elena plays Bach’s Capriccio and follows along through the resounding
fields, the running of the horses among the cheerful festival of hooves
and harness bells, while everything takes on the color of goodbye. Clau-
dio turns now towards me – neither of us recognizes him any longer,
he is a stranger, a condemned man – he smiles at me with the visible
torture of his flesh. He leaves the piano with difficulty and, walking on
his tip toes, he comes to sit at my side. He never says anything; later,
closed within himself, he will accompany me to the door. Now he looks
at Elena with empty dismay in his eyes.
In the room the concert slowly died out: the horses of the stage-
coach could be heard from a distance neighing in response to the weak
calls of goodbye, the globe of cold light invaded the air again. The pi-
anist, alone by the piano, lightly touched the last notes and a vague
weariness descended upon me.
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Gli autori
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Gli autori
Cristina Della Coletta è Associate Dean for Humanities and the Arts e
professore di Letteratura italiana all’Università della Virginia. I suoi in-
teressi si incentrano sulla letteratura italiana, in particolare su romanzo
storico, cinema e studi culturali. I suoi volumi più recenti sono When
Stories Travel: Cross-Cultural Encounters between Fiction and Film (The
Johns Hopkins University Press, i.c.s.) e World’s Fairs, Italian-Style: The
Great Expositions in Turin and Their Narratives, 1850-1915 (Toronto
University Press 2006). Quest’ultimo ha ricevuto nel 2007 il premio
Aldo and Jeanne Scaglione per gli studi d’italianistica della Modern
Language Association of America.
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