Appunti Wittgenstein
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Appunti Wittgenstein
Il Tractatus logico-philosophicus è una delle opere più complesse e importanti del pensiero novecentesco, e
anche una delle più enigmatiche e controverse: assunta in un primo tempo come uno dei principali testi
ispiratori del movimento neopositivistico (e di quanti coltivavano, in generale, un ideale di "filosofia
scientifica"), in anni successivi è stata letta in modi molto diversi, ora come un testo sostanzialmente
kantiano (poiché volto alla ricerca delle condizioni di possibilità e di dicibilità delle cose), ora come una
riflessione anti-razionalistica e a suo modo perfino mistica (poiché si sottolineano soprattutto i limiti del
dicibile e il rilievo di ciò che sta oltre tali limiti, rilievo che non è razional-scientifico, ma etico). Lo stesso
Wittgenstein non ha mai fatto granchè per facilitare la comprensione del suo testo: da un lato egli sembra
incoraggiarne una lettura in chiave spiccatamente logico-epistemologico-scientifica; anzi, il modello di
sapere valorizzato da certe sue dichiarazioni appare di tipo molto forte, oggettivo, assolutizzante (come
quando, nella prefazione del Tractatus , asserisce che " la verità dei pensieri qui comunicati " è " intoccabile
e definitiva " e che ritiene " d'aver definitivamente risolto i problemi affrontati "). Da un altro lato stanno
invece considerazioni di natura molto diversa, che enfatizzano la ristrettezza dell'ambito di praticabilità del
pensare/parlare rigoroso e il peso di quanto si dà fuori di tale ambito. Ma questo non basta: in una famosa
lettera a Ludwig von Ficker, Wittgenstein volle una volta sottolineare la natura fondamentalmente morale
del Tractatus : scriveva che " il senso del libro è un senso etico ". E più avanti aggiungeva: " il mio lavoro
consiste di due parti: di quello che ho scritto ed inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa
seconda parte è quella importante ". La dichiarazione è indubbiamente sconcertante: ma l'apparente
paradosso che contiene si scioglie se la si interpreta come un riferimento a tutto quel mondo di vita e di
esperienza di cui il Tractatus non aveva parlato perché situato fuori da ben precise coordinate logico-
linguistiche (e che invece era quello davvero "importante"). Al di là delle auto-interpretazioni di
Wittgenstein, riconosciuta l'esistenza di svariati significati (e per di più non univoci) della sua opera, resta
certo un fatto: il Tractatus si inserisce a pieno titolo in quell'intensa stagione di riflessioni e ricerche primo-
novecentesche nella quale filosofi di diversa provenienza teorica si posero il problema di una rifondazione
della conoscenza e del sapere. In quest'ottica, il lavoro wittgensteiniano, se certo preannuncia e prepara le
grandi investigazioni neopositivistiche, è anche meno lontano di quanto si possa comunemente immaginare
dai testi del primo Husserl: di quell'Husserl che a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento si era cimentato
nella ricerca dei fondamenti dell'aritmetica, nella riflessione su una logica "pura" e nella costituzione della
filosofia come "scienza rigorosa". Gli antecedenti più prossimi di Wittgenstein sono però altri: Frege, Mach
e, in misura ancora maggiore, Russell. Anche indipendentemente dai temi particolari che legarono il
giovane pensatore austriaco al più maturo filosofo inglese, ciò che è bene sottolineare è la sostanziale
sintonia tra molti loro presupposti e ambizioni generali.
All'origine della "seconda filosofia" di Wittgenstein vi è la revisione di alcune tesi basilari del Tractatus , a
cominciare dalle pretese della logica di presentarsi come l'unica garante del significato delle proposizioni. Il
pensatore austriaco sposta inoltre l'attenzione dalla nozione di significato (come riferimento delle
proposizioni elementari ai fatti) al nesso tra il significato medesimo e il concreto problema del
comprendere le regole del linguaggio nella varietà dei suoi usi e delle sue finalità. Alla base di ciò sta la
riabilitazione del cosiddetto linguaggio ordinario o quotidiano , il quale era stato in qualche modo messo da
parte dagli indirizzi del pensiero (l'atomismo logico, il neopositivismo) orientati a privilegiare il linguaggio
ideale delle scienze formali. Per il "nuovo Wittgenstein", invece, all'interno della " grammatica filosofica "
del linguaggio (questo è il titolo di un suo manoscritto risalente al 1932) devono trovare posto non già i
canoni di un linguaggio ideale, bensì le regole per la comprensione del linguaggio quotidiano.
" Come sarebbe strano se la logica si dovesse occupare di un linguaggio ideale e non del nostro. Che cosa
dovrebbe esprimere infatti quel linguaggio ideale? Di certo quello che esprimiamo nel nostro linguaggio
abituale; ma allora la logica non può che occuparsi di questo. Oppure di qualcos'altro, ma come posso
semplicemente sapere di cosa può trattarsi? L'analisi logica è l'analisi di qualcosa che abbiamo, non di
qualcosa che non abbiamo. Sarà dunque l'analisi delle proposizioni come sono ". (Osservazioni filosofiche,
2)
E' proprio l'assunzione del linguaggio ordinario a terreno dell'analisi logica a dare origine all'importante
teoria del significato come uso , che costituisce il nucleo delle Ricerche filosofiche . In esse, Wittgenstein
scrive che " per una grande classe di casi anche se non per tutti i casi in cui ce ne serviamo, la parola
significato si può definire così: il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio ". L'importanza di
questa teoria è assai notevole, ed è legata ai princìpi rivelatisi estremamente stimolanti e fecondi. Anzitutto
Wittgenstein ridimensiona nettamente il primato della struttura o della sostanza logica del linguaggio e del
correlativo approccio logistico ad esso. Non già ch'egli intenda affermare la "illogicità" delle espressioni
linguistiche, e neppure che contesti l'esistenza di linguaggi formali riconducibili a strutture (formali)
rigorose. La sua tesi è che vi sono tipi di comunicazione linguistica i quali, ben lungi dal poter o dal dover
essere valutati primariamente alla luce di criteri logico-formali (oggettivi e invarianti), rispondono a bisogni,
esigenze e scopi da analizzare alla luce di criteri pratici (non univoci né universali). In secondo luogo,
Wittgenstein riabilita un approccio in qualche modo pragmatico alla realtà linguistica: il linguaggio è, per
lui, prima di ogni altra cosa, un'attività interagente con le più disparate componenti teoriche e pratico-
esistenziali del vivere e del fare umano (con quello che Wittgenstein chiama anche lo " stile di vita ").
Comprendere un'espressione linguistica implica quindi non tanto il riferimento di essa a determinate
essenze o strutture logiche pre-costituite, quanto la comprensione dei molteplici fattori (linguistici ed extra-
linguistici) cooperanti nella determinazione del senso di tale espressione. Sotto questo profilo, la
riconduzione del significato all'uso esprime appunto la reinserzione del fenomeno linguistico entro un
contesto antropologico e socio-culturale più ampio.
Nella prefazione del Tractatus , Wittgenstein chiarisce qual è l'intento del libro: " il libro tratta i problemi
filosofici e mostra, credo, che la formulazione di questi problemi si fonda sul fraintendimento della logica
del nostro linguaggio. Tutto il senso del libro si potrebbe riassumere nelle parole: quanto può dirsi, si può
dir chiaro; e su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere…la verità dei pensieri qui comunicati mi sembra
intangibile e definitiva. Sono dunque dell'avviso d'aver definitivamente risolto nell'essenziale i problemi ".
Sulle orme dello stile adottato da Spinoza nell' Etica , il Tractatus si presenta non come un'opera in qualche
modo discorsiva, ma come un insieme di enunciati numerati (a volte abbastanza ampi e argomentati, a
volte molto brevi e talvolta addirittura brevissimi) e legati tra loro da determinate connessioni logiche
(corollari, deduzioni, inferenze, ecc). Più precisamente, esso muove da una matrice generativa costituita da
7 proposizioni centrali, dalle quali dipende tutta una serie di ulteriori proposizioni riguardanti questioni di
logica, ontologia e filosofia del linguaggio e della matematica: 1) Il mondo è tutto ciò che accade; 2) Ciò che
accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose; 3)L'immagine logica dei fatti è il pensiero; 4) Il pensiero è la
proposizione munita di senso; 5) La proposizione è una funzione di verità elle proposizioni elementari; 6) La
forma generale della funzione di verità è: [pxN(x ) ]; 7) Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere. Su un
piano generale, il Tractatus contiene una concezione della realtà dal punto di vista conoscitivo strettamente
intrecciata (fino a identificarvisi) con una concezione del linguaggio. Si deve idealmente partire da una cosa:
il darsi del mondo. E il mondo è tutto ciò che accade e questo mondo, ovvero questa serie di accadimenti, è
costituito interamente da fatti: ogni fatto (complesso) si compone di una pluralità di fatti elementari, detti
da Wittgenstein " stati di cose ", i quali a loro volta sono connessioni di " oggetti semplici ". Questi ultimi
rappresentano la " sostanza del mondo " e si possono aggregare in svariate composizioni o " configurazioni
". Se è vero che l'esperienza gnoseologica si riferisce essenzialmente a tali configurazioni complesse, è
anche vero che la sostanza del mondo è quella che si è detto: anzi, Wittgenstein sottolinea
significativamente che " l'oggetto [semplice] è il fisso, il sussistente; la configurazione è il vario, l'incostante
" (2.0271). A questa concezione del mondo corrisponde (in un senso molto organico) una concezione del
linguaggio. La prima teoria radicale enunciata in merito da Wittgenstein riguarda il rapporto linguaggio-
pensiero: si potrebbe infatti ritenere che dinanzi al mondo stia prima di tutto il pensiero. Ma non è così: nei
riguardi del pensiero, Wittgenstein assume un atteggiamento anti-materialistica, anti-interioristica e anti-
soggettivistica che non abbandonerà, grosso modo, mai. Anzi, nel Tractatus tale posizione è espressa in un
modo particolarmente radicale, che in un secondo tempo verrà modificato. In primis, Wittgenstein dichiara
che il pensiero è essenzialmente " l'immagine logica dei fatti " (proposizione 3): dove è da notare il
privilegiamento ideale del fatto e la relativa subordinazione ad esso del pensiero, sia la natura logica che il
pensiero degno del nome deve avere. In secundis, si afferma che il pensiero si dà tutto e soltanto nella sua
espressione linguistica; più precisamente, il pensiero è linguaggio organizzato secondo una determinata
forma; esso è, come recita l'enunciato 4, " la proposizione munita di senso ". Dinanzi al mondo, quindi, sta il
linguaggio . Occorre domandarsi come vada interpretata questa seconda polarità o dimensione:
enunciando una tesi che Russell farà integralmente sua, Wittgenstein asserisce che il linguaggio è costituito
da " proposizioni molecolari " complesse, riducibili a " proposizioni atomiche " elementari, non
ulteriormente scomponibili. Queste ultime proposizioni sono gli enunciati linguistici più semplici, dei quali si
può predicare il vero e il falso. In linea di massima, le proposizioni atomiche sono combinazioni di nomi
corrispondenti agli oggetti: " il nome significa l'oggetto. L'oggetto è il suo significato " (3.203).
LA RAFFIGURAZIONE E LE PROPOSIZIONI
Proprio a questo punto sorge uno dei problemi cruciali del Tractatus : quello del rapporto tra linguaggio e
mondo (o tra linguaggio e fatto). E' per risolvere questo problema che Wittgenstein elabora la sua celebre
teoria raffigurativa del linguaggio. Per comprenderla a fondo, è bene ripetere che uno degli obiettivi del
filosofo è di fare a meno della dimensione soggettivo-intenzionale cui una certa tradizione era ricorsa per
spiegare il rapporto linguaggio/mondo. Tale rapporto costituiva un problema in quanto richiedeva che fatti
ben precisi come i segni linguistici esprimessero altri fatti radicalmente diversi come i fenomeni della realtà.
Ora, la soluzione di questo problema attraverso il riferimento a prerogative e funzioni mentali del soggetto
appare a Wittgenstein poco verificabile, e tale da sollevare nuove e più complesse difficoltà. E la teoria
della raffigurazione costituisce la nuova ed audace risposta wittgensteiniana al problema in questione. Il
punto di partenza è, idealmente, il concetto di immagine: il fatto che delle proposizioni possano costituire
una " immagine della realtà " appare sconcertante ed incomprensibile; " a prima vista la proposizione
[quale ad esempio è stampata sulla carta] non sembra un'immagine della realtà della quale tratta " (4.011).
Per comprendere come la proposizione riesca di fatto a raffigurare le cose, conviene pensare al fenomeno
della proiezione, come fa Wittgenstein stesso. Sappiamo che un oggetto reale, tridimensionale può essere
riprodotto proiettivamente secondo una prospettiva formale (geometrica), bidimensionale. Nonostante
ogni possibile stilizzazione e deformazione, tale proiezione consente di riconoscere il modello di partenza;
esiste dunque una sorta di regola attraverso cui un fatto (la proiezione) riproduce effettivamente e in modo
comprensibile un altro fatto diverso. La stessa cosa avviene, sostanzialmente, nell'ambito che interessa a
Wittgenstein: il fatto linguistico raffigura, secondo forme e mezzi propri, l'altro e diverso fatto costituito
dagli oggetti reali. La proprietà di raffigurare un fatto è attribuita nel Tractatus in primis alle proposizioni
elementari (o atomiche): ma come un'immagine dipinta rappresenta solo un fatto plausibile, che non è
necessariamente accaduto, così la proposizione elementare rappresenta solo un fatto possibile ma non
necessariamente reale, effettivo. Si tratta allora di verificarla: per Wittgenstein essa sarà vera se il fatto
raffigurato sussiste effettivamente, falsa nel caso opposto; mentre " il senso della proposizione è la sua
concordanza o discordanza con le possibilità del sussistere e non sussistere degli stati di cose " (4.2), la sua
verità o falsità consiste nell'effettiva esistenza o meno dello " stato di cose " espresso dalla proposizione
stessa (4.25). Per quel che riguarda le proposizioni complesse (o molecolari), poi, che costituiscono la
maggior parte delle espressioni linguistiche, la loro verità o falsità dipende per Wittgenstein dalla verità o
falsità delle proposizioni elementari che le compongono: secondo la terminologia wittgensteiniana, sono "
funzioni di verità " delle proposizioni elementari costituenti. Secondo la dottrina del significato risalente a
Frege (e ripresa da Wittgenstein), solo le proposizioni elementari possono essere significative, ovvero
possono essere immagini di fatti (significativo vuole insomma dire ciò, e solo ciò, che raffigura dei fatti); ma
accanto a queste proposizioni ne esistono altre che possiedono caratteri molto particolari: le proposizioni
della logica , che non sono immagini e non descrivono fatti. Esse sono, nella terminologia wittgensteiniana,
" tautologie ", nel senso che non hanno alcun significato extra-linguistico, " non dicono nulla " sul mondo.
La loro funzione consiste nell'esprimere e analizzare le proprietà formali che le proposizioni devono avere
per eseguire il loro compito raffigurativo: insomma, consiste nell'esame del funzionamento dei simboli e
delle parole. Sotto questo profilo, tali proposizioni sono, in sé e per sé, sempre vere, poiché, dice
Wittgenstein, solo le proposizioni che descrivono fatti possono essere false. Una delle conseguenze di
questa interpretazione delle proposizioni logiche è il rifiuto della concezione realistica della logica,
concezione secondo cui le proposizioni sono valide in rapporto ai fatti di questo mondo. A Wittgenstein tale
tipo di validità pare debole: in effetti, alla luce dell'interpretazione realistica la logica non enuncerebbe
(come vuole il filosofo austriaco) leggi vere per qualsiasi mondo possibile; per corrispondere a
quest'ambizione, la logica deve avere a che fare non col mondo, ma con ciò che rende possibile qualsiasi
descrizione del mondo. Ora, ciò che consente e realizza tale descrizione è il linguaggio. Solo attraverso il
linguaggio le cose che descriviamo assumono volto e sostanza: che ne sarebbe di un mondo (anche ideale)
senza un linguaggio che lo dice? E così, il linguaggio governa il mondo (sempre inteso non in un'accezione
riduttivamente fisica, ma come l'insieme dei fatti, di tutto ciò che accade): lo governa nel senso che
quest'ultimo viene definito solo in rapporto ai caratteri e alle leggi del tramite linguistico. Il che implica che
quelle parti di mondo che non possono obbedire (o meglio, corrispondere) a tali caratteri e leggi non
possono essere dette, e quindi non esistono dal punto di vista razionale-scientifico.
Un'importante conseguenza della concezione del linguaggio tratteggiata nel Tractatus è la sostanziale
vanificazione sia della metafisica sia dello scetticismo . Per Wittgenstein i problemi metafisici non si
possono risolvere in quanto esulano dall'ambito di significanza del linguaggio. Infatti le proposizioni di tipo
metafisico non raffigurano fatti, e quindi non sono formulabili nei termini di un linguaggio sottoponibile alla
verificazione e alla falsificazione. Insensata è quindi la metafisica, ma non meno insensato è il tentativo di
metterla in dubbio o di negarla, giacchè è possibile discutere o confutare solo ciò che è esprimibile in
termini significativi, cioè in termini di verità o di falsità: " d'una risposta che non si può formulare non può
formularsi neppure la domanda. L'enigma non v'è. Se una domanda può porsi, può pure avere una risposta.
Lo scetticismo è non inconfutabile, ma apertamente insensato, se vuol mettere in dubbio ove non si può
domandare. Perché dubbio può sussistere solo ove sussiste una domanda; domanda, solo ove sussiste una
risposta; risposta, solo ove qualcosa può esser detto " (Tractatus, 6.5-6.51). La polemica contro la
metafisica e lo scetticismo, il rigetto degli enigmi nell'ambito dell'esperienza, l'ancoramento della
sensatezza alla dicibilità e verificabilità secondo precise norme logico-linguistiche furono certo alcuni degli
assunti del Tractatus che più entusiasmarono i lettori di ispirazione razionalistico-scientifica (nonché
neopositivistica). Ma il Tractatus non si ferma a questo punto: al contrario, nella parte finale esso
suggerisce, in modo cifrato eppur assai netto, il darsi di qualcosa che esiste anche se non può essere detto
(detto, ovviamente, alla luce dei rigidi dettami di significanza empirica e formale delineati nello stesso
Tractatus ); questo "qualcosa" è da Wittgenstein definito l' " ineffabile ", il mistico " : " v'è davvero
dell'ineffabile. Esso mostra sé, è il mistico " (6.522). Anche se rigurgitante di una miriade di implicazioni
filosofiche, la tesi dell'esistenza dell'ineffabile va interpretata, in primis, entro un preciso contesto logico-
linguistico. Essa costituisce il corollario di quella concezione della possibilità e dei limiti delle proposizioni
dotate di senso di cui prima abbiamo parlato. Wittgenstein vuole anzitutto circoscrivere l'ambito di quel
che può essere detto, l'ambito, cioè, entro il quale il linguaggio vale (il linguaggio può raffigurare, ossia
descrivere, i fatti nella loro struttura logica; e può mostrare la propria struttura logica). Relativamente a ciò,
egli si affretta però a mettere in evidenza l'esistenza di qualcosa che eccede l'ambito del dicibile. Tale
ambito, dice il filosofo, include in primo luogo certe questioni di teoria, anzi tutte le questioni che non sono
esprimibili né in termini di fatti né in termini di enunciati logici: a cominciare da alcune nozioni centrali del
Tractatus , come ad esempio la concezione del linguaggio come condizione di possibilità della descrizione
delle cose; l'esistenza di una dimensione universale e non ricavabile induttivamente come il mondo ( " non
come il mondo è, è il mistico, ma che esso è ", 6.44), la problematica dei fondamenti, i concetti di
raffigurazione, significato e verità. In secondo luogo, il mistico include una serie di princìpi cruciali e di
significati e valori che hanno la duplice caratteristica di esistere e di non essere dicibili/descrivibili secondo i
caratteri del sapere rigoroso; per chiarire il proprio assunto, Wittgenstein dice che " il senso del mondo
dev'essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v'è in esso alcun
valore- né, se vi fosse, avrebbe un valore " (6.41). Ma se questo è vero, se cioè il senso è fuori del mondo,
allora esso è inattingibile razionalmente, e così appartiene al mistico. Stessa cosa accade ad aspetti e nodi
centrali dell'estetica, della morale, della stessa esistenza; tali sfere sono per Wittgenstein piene di questioni
e di interrogativi che, non concernendo a rigore né fatti (cioè il campo del sapere empirico-significativo), né
la struttura formale del linguaggio (cioè il campo delle proposizioni logiche), non sono raffigurabili,
analizzabili, dicibili. Contrariamente all'immagine che una certa tradizione ha amato diffondere di
Wittgenstein, egli fu sempre ben lungi dal sottovalutare le sfere poc'anzi citate. Era anzi profondamente
convinto ch'esse contenessero alcuni dei problemi decisivi per l'essere umano: egli scrive che " noi
sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri
problemi vitali non sono ancora neppur toccati " (6.52).
Il messaggio conclusivo del Tractatus è, in qualche maniera, duplice: per un verso, Wittgenstein sottolinea
che il metodo e il contenuto di una riflessione teorica corretta non possono non coincidere col metodo e il
contenuto del sapere scientifico, ovvero del sapere che descrive i fatti secondo le regole della logica.
Connessi tra loro in un rapporto di isomorfismo (cosa su cui concorda Russell), fatti e proposizioni
configurano senza residui il mondo del dicibile. Per un altro verso, Wittgenstein è il primo ad essere
consapevole dell'esistenza di problemi e campi non esprimibili nel modo richiesto da determinati princìpi
(quelli che governano la scienza dei fatti e le connessioni logiche) e, correlativamente, del fatto che la
filosofia non può ridursi entro l'ambito determinato da tali princìpi. Se è vero, come asserisce un passo del
Tractatus , che " la totalità delle proposizioni vere è la scienza naturale " (intesa come la scienza dei fatti
esistenti), è anche vero che vi sono molte altre cose oltre alla scienza naturale; anzi, la stessa filosofia " non
è una delle scienze naturali ". Ma cosa è, dunque, la filosofia? Essa, secondo Wittgenstein, anzitutto non è
una dottrina, ma è un'attività: vale a dire che non può (e non deve) esprimere enunciati su fatti (che è il
compito del sapere), ma deve svolgere una certa azione. Quest'ultima è caratterizzata già nel Tractatus (e
ancora di più lo sarà negli scritti successivi) dall'essere essenzialmente "negativa" e "terapeutica": negativa ,
nel senso che la filosofia deve dire che cosa il pensiero/linguaggio non può fare, denunciando in particolare
l'illegittimità dell'aspirazione della riflessione corretta a cogliere princìpi assoluti, fondamenti oggettivo-
totalizzanti, conoscenze meta-fattuali. Terapeutica , nel senso che essa deve, prima di tutto, eliminare false
credenze intorno al linguaggio, procedere a quella che viene definita come un'opera di " chiarificazione
logica dei pensieri ", liberare l'uomo da miti e illusioni intorno alle possibilità del sapere. Questa
interpretazione della filosofia (e della scienza) getta tuttavia una luce ambigua e inquietante sulla stessa
opera di Wittgenstein: a ben guardare, il Tractatus non contiene quel discorso di pura scienza logico-
linguistica che alcuni vollero scorgervi, ma è invece un'opera di filosofia, o addirittura di "vecchia filosofia",
che parla di questioni non raffigurabili né mostrabili scientificamente, involgendosi quindi in paradossi e
contraddizioni. E in effetti, essa prescrive limiti rigidi all'esercizio dell'analisi teorica, e subito dopo li viola.
Asserisce che si possono solo descrivere fatti (e strutture logiche intra- e inter-proposizionali), e subito
dopo parla di altro (a cominciare dal linguaggio-mondo); in altri termini, dice cose propriamente indicibili. E
Wittgenstein fu il primo a ravvisare la natura intimamente scissa e antinomica della propria opera. Forse,
però, volle sperare che essa (evidenziando con la sua stessa contradditorietà l'impossibilità del filosofare
alla vecchia maniera) avrebbe potuto essere in qualche modo l'ultimo libro di filosofia, aprendo magari una
nuova fase del pensiero umano. Quel ch'è certo è che nell'ultima pagina del Tractatus (forse la più
enigmatica) Wittgenstein decide di offrire al lettore non una sintesi positiva o un messaggio in qualche
modo consolatorio, ma un riassunto drammaticamente lacerato dei principali temi del suo pensiero: la
necessità per la filosofia seria di farsi scienza e l'impossibilità per essa di riconoscervisi compiutamente (la
filosofia " nulla ha a che fare " con la scienza); la necessità di percorrere il rigoroso itinerario delle
proposizioni dotate di senso, e la scoperta che tale percorso porta non al senso, ma all'insensatezza (alla
presa di coscienza dell'esistenza e della rilevanza di tutto ciò che eccede il senso); la celebre, dolorosa e
severa precisazione di non parlare delle cose che non si possono dire (dire, cioè, in modo logicamente e
linguisticamente corretto) e la vivissima consapevolezza che queste cose indicibili sono tante (e forse sono
le più importanti).
" Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: nulla dire se non ciò che può dirsi:
dunque, proposizioni della scienza naturale- dunque qualcosa che con la filosofia non ha nulla a che fare-, e
poi, ogni volta che altri voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che, a certi segni nelle sue
proposizioni, egli non ha dato significato alcuno. Questo metodo sarebbe insoddisfacente per l'altro- egli
non avrebbe il senso che gli insegniamo filosofia-, eppure esso sarebbe l'unico rigorosamente corretto. Le
mie proposizioni illustrano così: colui che mi comprende infine le riconosce insensate, se è salito per esse-
su esse- oltre esse; (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v'è salito). Egli deve superare
queste proposizioni; allora vede rettamente il mondo. Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere. "
(Tractatus, 6.53-7)