Linguaggio - e - Pensiero L'Ipotesi Di Sapir-Whorf
Linguaggio - e - Pensiero L'Ipotesi Di Sapir-Whorf
Linguaggio - e - Pensiero L'Ipotesi Di Sapir-Whorf
Laurea in filosofia
Prova finale
Relatore
Prof. Carlo Penco
Candidata
Germana Sartori
2
Premessa
In questo volume affronteremo il tema del linguaggio nel suo
rapporto con il pensiero dal punto di vista dell’ipotesi di Sapir-
Whorf. Analizzando il pensiero whorfiano attraverso un
raffronto con altri autori a partire dalla filosofia del linguaggio e
della mente, per arrivare alle teorie della psicologia cognitiva.
Nell’introduzione tratteremo seppur brevemente,
attraverso le teorie filosofiche, lo sviluppo del tema linguaggio e
pensiero dalle origini alle teorie contemporanee.
Nel primo capitolo illustreremo l’ipotesi di Sapir-Whorf,
cercando di acquisirne una conoscenza dettagliata attraverso i
documenti scritti da Whorf e raccolti nel volume di J.B.Carrol
Nel secondo capitolo esamineremo alcune teorie della
psicologia cognitiva che ci porteranno ad analizzare il pensiero
di Whorf attraverso una prospettiva cognitiva, in particolare
attraverso lo studio delle immagini mentali.
Nel terzo capitolo torneremo ad affrontare l’ipotesi di
Sapir-Whorf, oggetto di studio in questa sede, analizzando il
rapporto linguaggio e cultura, ampliandone gli aspetti anche dal
punto di vista di teorie in contrasto con l’ipotesi stessa.
Nella conclusione, discuteremo le idee delle principali
dottrine prese in questione nei capitoli precedenti, a confronto
con l’ipotesi di Sapir-Whorf.
3
Introduzione
Il linguaggio dal pensiero filosofico al pensiero scientifico
1
Dell'Espressione, 16 a, 3-8
1
s'interessa solo a quelle frasi che esprimono verità o falsità.
Attraverso la parola che è univoca, cioè riflette un’unica realtà,
è possibile contrastare l’affermazione scettica dell’impossibilità
di conoscere il vero, in quanto le cose sono tutte egualmente
incerte.
Forse il primo a porre in dubbio il rapporto classico tra
pensiero e linguaggio è stato Locke (1632-1704) affermando che
il possesso di certi vocaboli condiziona il pensiero umano, le
idee generali non possono quindi ritenersi innate in quanto se
confrontate tra lingue diverse presentano profonde divergenze.
Assistiamo così ad un lento delinearsi dell’ipotesi di
relativismo di cui abbiamo brevemente accennato all’inizio di
questo paragrafo.
Ogni lingua, quindi non è solo un rivestimento fonico,
come sosterrà Leibniz (1646-1716) sviluppando le affermazioni
di Locke, non contiene concetti universali espressi in diverse
forme sintattiche ma riflette la storia di un popolo, non solo
non rispecchiando passivamente il mondo ma influenzandone
addirittura la realtà.
2
La tendenza verso il relativismo linguistico si accentua con
la concezione romantica, secondo la quale i concetti attraverso i
quali fondiamo la nostra conoscenza non sono più visti come
una realtà unica ed immutabile alla quale attingere attraverso la
ragione o l’intelletto, ma vengono filtrati attraverso un nuovo
strumento capace di rendere plasmabile la realtà e di fornirne
nuove sfaccettature, questo strumento è il linguaggio, che è
relativo per ogni uomo.
Wilhelm Von Humboldt (1767-1835) pioniere del
determinismo linguistico affermò la priorità del linguaggio sul
pensiero, sottolineando addirittura l’inesistenza del secondo in
assenza del primo. Egli fondò la concezione di weltanschauung
(Visione del mondo) Egli osservò: “il linguaggio in qualche
modo ci fornisce dei mezzi finiti per usi infiniti.”2
Ferdinand de Saussure (1857-1913) precursore in Francia
dello Strutturalismo, nel XX secolo, ripropone la concezione
arbritaristrica del linguaggio di Humboldt. Egli divide il
linguaggio in due parti La Lingua che è il sistema di nessi tra i
termini astratti e La Parola che è invece l’espressione
individuale, l’uso concreto, della lingua.
2
Humboldt - 1835
3
Il linguaggio, a partire da Saussure non è più visto solo in
termini di rappresentazioni, ma come come sistema di relazioni
in cui il valore dei suoni e delle parole ha valore solo all’interno
di tali relazioni.
Con Saussure cominciamo a parlare di Strutturalismo che
divide mentalisti e comportamentisti.
Per Saussure la lingua e il pensiero sono in stretta
relazione, come il fronte e il retro di un foglio di carta, non è
possibile tagliare l’uno senza tagliare l’altro.
E’ con Wittgenstein (1889-1951) che assistiamo al tramonto
dell’ “artistotelismo linguistico”3. La critica di Wittgenstein si
rivolge soprattutto al suo stesso pensiero definito nel classico
Tractatus Logico-Philosophicus (1922) “I limiti del mio linguaggio
sono i limiti del mio mondo” egli riteneva che il modo migliore
di esaminare il pensiero umano fosse di prendere il linguaggio -
l'espressione del pensiero - e di analizzarlo scomponendolo nei
suoi elementi più semplici. L'analogia è con l'atomismo della
fisica antica, vale a dire con l'idea che, se si vuole comprendere
la struttura delle diverse sostanze, le si deve analizzare
riconducendole alla loro struttura atomica.
4
Le parole che io uso significano
esattamente ciò che decido, né più né
meno (Humpty Dumpty Alice attraverso lo
specchio – Lewis Caroll
5
Due ricercatori brittannici Odgen e Richards, in un loro
saggio Significato del significato4, ripubblicato dal 1923, hanno
sistematizzato il linguaggio attraverso un’approccio semiotico e
una prospettiva psicologica. Odgen e Richards analizzano in
una prospettiva dialettica le relazioni che intercorrono tra i
processi mentali: simbolo (segno, parole, significante) e il
referente (l’oggetto, il dato di realtà, l’elemento esterno).
Questa tesi è esposta nel loro celebre triangolo della
significazione (fig. 1)
PENSIERO O REFERENZA
CORRETTO ADEGUATO
Simbolizza Si riferisce ad altra relazione
(relazione causale) causale
SIMBOLO REFERENTE
4
OGDEN C. K. e RICHARDS I. A. The Meaning of Meaning. A Study of the Influence of Language upon Thought
and of the Science of Symbolism. London, Routledge & Kegan Paul, 1960 [prima edizione 1923]. Traduzione italiana
di Luca Pavolini: Il significato del significato.
6
Odgen e Richard sviluppano una visione per cui la cultura e
quindi il linguaggio corrispondente possano influenzare il
pensiero di un popolo. Ciò porta all’affermazione che diversi
tipi di linguaggio formino diversi tipi di pensieri.
7
Ne I limiti del metodo comparativo dell’antropologia5, affermò
l’importanza fondamentale di verifica dei dati archeologici o
etnografici, per poter ritenere valida scientificamente qualsiasi
ipotesi di ricerca. Esigenza primaria era lo studio diversificato
di ogni cultura, studio sviluppato con l’analisi della loro
singolarità negli aspetti linguistici e sociali.
Grazie a Boas si arriva a concepire la natura non manifesta
dei fenomeni culturali, che attraverso il linguaggio plasmano il
pensiero del soggetto, formando degli schemi concettuali
analizzabili solo attraverso uno studio interno della cultura
stessa.
5
Franz Boas – I limiti del metodo comparativo dell’antropologia - 1896
8
"l'uomo ha esperienze nella larga misura in cui le ha, perché le abitudini linguistiche della
sua comunità lo predispongono a certe scelte interpretative".
Edward Sapir
Capitolo 1
Linguaggio e pensiero - L’ipotesi di Sapir- Whorf
9
Gli interessi di Whorf per la linguistica, iniziarono nel
1924, studiando l’ebraico, in seguito approfondì i suoi studi di
linguistica analizzando l’azteco. Nel 1939 scrisse l’articolo La
relazione del pensiero abituale e del comportamento col linguaggio.
Nel quale in seguito alle sue ricerche sulla lingua hopi,
comunità indiana che vive sugli altopiani desertici dell’Arizona,
sviluppò le sue idee sulla relatività linguistica, che approfondì
soltanto attraverso gli studi con Sapir.
Questa ipotesi è divisa in due parti determinismo
linguistico e relatività linguistica, mentre la prima sostiene che
il linguaggio determina il pensiero, il relativismo linguistico
sottolinea come diversi linguaggi formino differenti pensieri.
Cermichael, Hogan & Walzer (1932) hanno condotto un
famoso esperimento a sostegno della tesi della Relatività
Linguistica. L’esperimento consisteva nel mostrare ad alcuni
soggetti questa immagine:
10
l’immagine veniva raffigurata in modi piuttosto differenti, a
seconda che il ricordo che emergeva riguardasse la prima
definizione o la seconda. Questa è una prova a favore della tesi
che il linguaggio influenza il pensiero.
Whorf afferma che “la linguistica è essenzialmente la ricerca
del significato”6 non sono importanti, per lui i processi mentali
con i quali si formula un pensiero ma ciò che è oggetto di
pensiero. Su questo argomento Whorf afferma:
6
B.Lee Whorf – Linguaggio pensiero e realtà – trad. it. Boringhieri, Torino (p. 2)
11
L’ analisi del problema linguistico, secondo il punto di vista di
Whorf, dunque, non trovava sostegno in nessuna delle teorie
psicologiche dell’epoca. L’egemonia del linguaggio sul pensiero
trova una valida spiegazione, secondo Whorf, soltanto nel
carattere simbolico che il linguaggio ha per sua natura, senza
che questo venga analizzato attraverso le connessioni mentali
che avvengono da individuo a individuo. In questo modo le
abitudini, le tradizioni, la storia di un popolo, si riflette in modo
speculare sulla lingua, ed è soltanto attraverso di essa che è
possibile carpirne i veri significati.
Studiando a fondo una lingua è possibile afferrare il
significato globale di abitudini differenti, l’antropologo deve
quindi analizzare il significato di ogni parola usata in una
determinata cultura per comprenderla pienamente.
Come abbiamo già accennato, Whorf studiò attentamente
le abitudini del popolo Hopi, ed osservò che l’unica forma
simbolica con la quale, questo popolo, esprime i propri concetti
è quella che fa parte della cultura e la lingua della società in cui
vive, sarà quindi improbabile che possa condividere con noi, i
concetti di spazio e tempo, che noi riteniamo universali.
Whorf, giunse a dimostrare la sua tesi, affermando che la lingua
12
Hopi non contiene parole, forme grammaticali, espressioni che
si riferiscano a ciò che noi chiamiamo tempo, nel senso appunto
di esteso nel tempo come continuità.
Riguardo a questo Whorf scrive:
“[…]Per quanto riguarda lo spazio, il soggettivo è una sfera
spirituale, una sfera non spaziale in senso oggettivo […] per gli Hopi
non c’è un futuro in senso temporale; non c’è nulla dello stato
soggettivo che corrisponda alle sequenze e alle successioni connesse
con le distanze e con le mutevoli configurazioni fisiche che troviamo
nello stato oggettivo […]”gli Hopi concepiscono il tempo e il
movimento nella sfera oggettiva in senso puramente operativo […]
sicchè l’elemento temporale non è separato dagli elementi spaziali
che intervengono nelle operazioni[…]
13
Adesso analizziamo in dettaglio la “differenza” tra il
determinismo linguistico e relatività linguistica.
Il determinismo linguistico, abbiamo detto, afferma la
facoltà del linguaggio nel determinare il pensiero.
Nell’introduzione abbiamo esposto, seppur brevemente, la
nozione di determinismo, che ricordiamo è in opposizione alla
concezione innatista, in quanto afferma il principio di causalità,
in altri termini, si riferisce al fatto che ogni evento è causa di un
evento successivo. Nel caso del linguaggio, dunque, è
quest’ultimo a causare i pensieri. Le parole che usiamo per
esprimerci determinano la conoscenza che possediamo delle
cose. Il determinismo linguistico afferma che nel comprendere
un esperienza, veniamo limitati non solo da ciò che conosciamo
di quella determinata esperienza, ma anche dalle parole che
usiamo per esprimere ciò di cui veniamo a conoscenza.
L’ipotesi di Sapir-Whorf, dunque, vuol sostenere che
l’esperienza che l’uomo possiede del mondo in cui vive è basata
sulle parole che egli possiede per esprimersi.
Dal determinismo linguistico alla relatività linguistica il
passo è breve, in effetti se affermiamo che il linguaggio ha il
potere di influenzare il pensiero è naturale arrivare a sostenere
14
quanto diversi linguaggi possano formare diversi modi di
pensare.
L’ipotesi di Sapir Whorf è stata influente anche nel
pensiero filosofico e probabilmente ha anche influenzato
l’olismo di Willard Van Orman Quine, filosofo e logico
statunitense, il quale nel saggio l’Indeterminatezza della
traduzione afferma che i singoli enunciati hanno un significato
determinato non isolatamente ma in quanto parte di un più
vasto sistema linguistico (olismo). Quine usa il termine relatività
ontologica per affermare che la realtà dipende dai significati-
stimolo propri di ciascun individuo e del gruppo al quale
appartiene. Le differenze tra i linguaggi sono causate dalle
differenze in cui i parlanti osservano il mondo. Nel volume
Parola e oggetto7 sostiene che il linguaggio è una forma di
comportamento umano. Anche il concetto di
incommensurabilità, proposto dal filosofo della scienza
austriaco, Paul K. Feyerabend (Vienna 1924) ha strette analogie
con le idee del relativismo linguistico di Sapir e Whorf.
L’incommensurabilità delle teorie scientifiche nega l’esistenza
di un metodo scientifico universalmente valido, in quanto come
7
W.V.O.Quine - Parola e Oggetto tr. It. Il Saggiatore Milano 1970
15
per la scienza esistono teorie tra loro incommensurabili cioè
non compatibili, analogamente diversi linguaggi danno vita a
pensieri dissimili. Il punto di riferimento “classico” in storia e
filosofia della scienza è però il filosofo e storico Thomas Kuhn
(1884-1974) che per primo ha parlato di “paradigmi scientifici”
come sistemi concettuali autonomi, solo all’interno dei quali ha
senso porre certi problemi scientifici. La causa della
incommensurabilità delle teorie sta dunque nel sistema di
riferimento concettuale differente, che fà si che i termini di una
teoria non siano “traducibili” esattamente nei termini di
un’altra. Condividendo le idee di Quine, sostiene l’importanza
della comunità scientifica nel suo insieme, dove i rapporti
sociali e il contesto culturale ne condizionano l’attività.
16
contenevano liquido altamente infiammabile, venivano
percepiti come innocui, se veniva scritto “vuoto” su tali
recipienti, anche se in realtà la loro pericolosità rimaneva
immutata, in quanto ancora impregnati di sostanza
infiammabile.
Questo esempio mette in evidenza la relazione che c’è tra le
parole e la percezione. Percepire una determinata parola porta
a formare un determinato pensiero, a formare un immagine
mentale che rispecchi ciò che le parole vogliono significare.
Secondo Whorf, dunque non accade quanto la tradizione
“innatista” ha sempre sostenuto, dando priorità al pensiero
rispetto al linguaggio: al contrario, non si formano i pensieri e
poi li si esprime in un linguaggio ma è proprio quest’ultimo che
ci porterà a percepire un evento che formerà un pensiero
conseguente. Ma tutto ciò può portare a pensieri erronei a
cadere in tranelli linguistici, come nell’esempio whorfiano
riportato più sopra.
Whorf afferma a questo proposito:
[…]La spiegazione di certi comportamenti è data dalle analogie cui
dà origine la formula linguistica in cui la situazione è espressa e
attraverso cui è in qualche misura analizzata, classificata e messa al
17
suo posto in un mondo che è in gran parte inconsciamente
costruito sulle abitudini linguistiche del gruppo […]8
8
B.Lee Whorf – Linguaggio pensiero e realtà – trad. it. Boringhieri, Torino (p. 102)
18
«[...] la corrente che porta le frasi a [..]
fermarsi per un attimo prima d'essere assorbite
dai circuiti della sua mente [...]» 9
Capitolo - 2
Percezione, Rappresentazione e Immagini mentali
9
I. Calvino -. Se una notte d'inverno un viaggiatore, Torino, Einaudi, 1979.
19
Secondo il modello autonomista, il linguaggio ha funzione
innata e come tale non ha alcun collegamento con la
percezione, in quanto, come per Chomsky è un sistema
autonomo “un organo che non si sviluppa ma cresce […] che
matura in modo indipendente dall’ambiente10 “.
Il linguaggio, secondo questa prospettiva non si apprende
attraverso l’interazione con il mondo; o meglio l’interazione con
il mondo ha solo funzione di “attivare” il sistema linguistico
innato.
Ma il linguaggio è anche uno strumento utile ai fini della
socializzazione. La teoria più influente a favore di questa tesi è
quella dello psicologo sovietico Lëw Vygotskij (1896-1934) il
quale nella sua opera più importante Pensiero e linguaggio11
distingue tra linguaggio come strumento di comunicazione e
linguaggio come regolazione del comportamento, egli sostiene,
al contrario dello psicologo svizzero Jean Piaget (1896-1980)
l’importanza nella relazione individuo-ambiente
nell’apprendimento del linguaggio. Il linguaggio che Piaget
chiamava egocentrico secondo Vygotskij non è altro che il
linguaggio non ancora socializzato, e nella sua forma permane
10
Chomsky 1979, trad. it. Pag. 224
11
Vygotskij – Pensiero e Linguaggio - 1934
20
fino all’età adulta trasformandosi in linguaggio interno,
indispensabile nella regolazione del pensiero e nella
pianificazione delle operazioni cognitive.
Se da un lato Chomsky presenta una teoria che è di per sé
neutrale rispetto al relativismo linguistico, anche se
apparentemente se ne distanzia, la linea di pensiero di
Vygostskij ha una maggiore vicinanza alle idee whorfiane. Ma
queste discussioni sono ancora troppo lontane dal problema
specifico del rapporto tra percezione e linguaggio. Occorre per
questo rivolgersi al dibattito contemporaneo in teoria della
percezione, per vedere che contributo può dare a una
valutazione delle tesi sul relativismo linguistico.
Prendiamo le mosse da un dibattito svoltosi tra un allievo
di Chomsky, Jerry Fodor, e alcuni teorici della percezione che
hanno dedicato uno studio particolare al problema delle
immagini mentali. Siamo qui nell’ambito della psicologia
cognitiva.
La psicologia cognitiva studia il linguaggio, essendo esso
stesso un abilità cognitiva che ha strette connessioni con altre
abilità cognitive dell’uomo, tra le quali: la percezione, la
memoria, il pensiero.
21
La percezione collega il linguaggio con il mondo, gli studi
sulla percezione perciò, analizzano il legame tra linguaggio e gli
oggetti reali o immaginari, che percepiamo.
Secondo lo psicologo statunitense Jerry A. Fodor (New
York 1935):
“Le capacità cognitive devono essere sistematiche almeno
quanto le capacità linguistiche, dato che il linguaggio ha la
facoltà di esprimere il pensiero[…]”12
12
Fodor 1987, trad. it. P. 229
22
controversia tra gli autori che sostengono che i linguaggi iconici
abbiano autonomia cognitiva e altri autori che conferiscono
invece ai linguaggi verbali dominio su quelli visivi, i primi - il cui
maggior esponente è Stephen M. Kosslyn - vengono definiti
Pittorialisti13, e i secondi - tra cui Zenon W. Pylyshyn -
Proposizionalisti. Sarebbe opportuno adesso, analizzare un po’
più in dettaglio la differenza tra queste due scuole di pensiero.
I Proposizionalisti, abbiamo visto, non attribuiscono alle
immagini mentali uno status proprio, sostenendo che il
pensiero ricalca il modo in cui viene usato il linguaggio, al cui
interno vi sono segni convenzionali, ciò che questi segni
denotano è di tipo arbitrario, e non in base ad analogie o
somiglianze, in questo modo è quindi necessario, a livello
cognitivo la decodifica di ciò che viene percepito. La
percezione, in questo modo non è autonoma ma sussiste solo se
decodificata e la decodifica è possible solo se guidata dal
linguaggio.
Per i Pittorialisti, al contrario, le immagini mentali
contengono proprietà delle cose in esse rappresentate, in
questo modo ciò che le persone riportano non sono le
13
Per la disputa tra Proposizionalisti e Pittorialisti si rimanda a – Pensiero e Linguaggio – a cura di
Daniele Gambara – La Nuova Italia Scientifica, Roma 1996 – Pag. 110-114
23
proprietà delle loro immagini ma degli oggetti che stanno
immaginando. Per i pittorialisti la percezione è invece
organizzata da operazioni mentali direttamente rivolte a
immagini; la manipolazione di immagini cioé non è mediata dal
linguaggio ma da rappresentazioni figurative o pittoriche.
A sostegno di questa tesi Kosslyn, R.N. Shepard e J. Melzler
hanno dimostrato tramite ormai noti esperimenti, come la
nostra mente sia in grado non soltanto di immaginare un
oggetto, ma anche di formare un immagine mentale dinamica,
che sia in grado di manipolare l’oggetto stesso.
D’importanza significativa a questo riguardo è il noto
esperimento sulla rotazione delle immagini mentali, (fig.2) di
Shepard e Melzler (1971) Secondo questi autori noi siamo in
grado di immaginare un oggetto nel suo stato reale, cioè lo
immaginiamo nello stesso modo in cui lo percepiamo.
L’esperimento consisteva nel presentare ad alcuni soggetti
delle immagini raffiguranti lo stesso oggetto ma in diverse
posizioni, i soggetti dovevano stabilire se si trattava di oggetti
diversi oppure dello stesso oggetto. Ed anche in questo caso i
tempi di reazione erano correlati con quelli di rotazione.
24
Mediante l’esperimento della mappa dell’isola di
Kosslyn14,(Fig. 3) i soggetti dovevano memorizzare la mappa di
un isola sulla quale vi erano disegnati dei simboli che
rappresentavano un punto o un altro dell’isola stessa, quindi
dovevano visualizzare la distanza che intercorreva tra un punto
o l’altro rappresentata dai diversi simboli. Il tempo che veniva
loro impiegato mentalmente, per raggiungere un determinato
punto equivaleva esattamente alla distanza effettiva segnata
sulla mappa, in altre parole se la distanza da un luogo ad un
altro era breve il tempo impiegato era minimo, viceversa se la
distanza era più significativa, richiedeva più tempo per
raggiungere il luogo. Questo dimostra il collegamento tra la
percezione e le immagini.
Questi esperimenti dimostrano l’autonomia delle immagini
nella nostra mente, di come siamo in grado di percepire un
immagine e rielaborarla in diversi punti di vista, l’attività
immaginativa e la percezione vera e propria funzionano allo
stesso modo.
14
Kosslyn, Ball e Reiser 1978
25
Fig -.2 - Esperimento delle rotazioni mentali -– Fonte Shepard, Metzeler, 1971
26
A. Paivio (1971) ha tentato di risolvere la controversia tra
pittorialisti e proposizionalisti proponendo la Teoria della
doppia codifica15, in cui viene esposto l’assunto secondo il quale
esisterebbero due distinti sistemi per la rappresentazione e
l'elaborazione delle informazioni. Un sistema è verbale, che
tratta le informazioni linguistiche e le cui unità
rappresentazionali di base sono i logogens, e un sistema
deputato all'elaborazione delle informazioni non verbali, le cui
unità rappresentazionali sono gli imagens. Ogni sistema è
ulteriormente suddiviso in sottosistemi e i due sistemi simbolici
comunicano tra loro attraverso relazioni tra imagens e logogens.
Secondo questa teoria le rappresentazioni analogiche e
proposizionali sono separate e differenti, anche se
interdipendenti. Tramite le Connessioni referenziali è possibile
che l’immagine di un oggetto produca la descrizione verbale di
tale oggetto o viceversa la descrizione verbale ne susciti
l’mmagine stessa.
15
A. Paivio - Dual coding theory: Retrospect and current status, in “Journal of Psychology. 45 pp.255-287
27
suscettibile di critica, se analizzate posteriormente, attraverso
un raffronto con le nuove teorie della psicologia cognitiva, che
abbiamo appena trattato.
Queste teorie dimostrano come il ruolo delle immagini mentali
sia fondamentale per la formazione del pensiero, ciò è in netto
contrasto con quanto ha affermato Whorf nella sua ipotesi,
dove la coscienza non ha alcun ruolo. Un primo risultato delle
ricerche sulle immagini mentali dunque può essere quello di
mettere in dubbio la tesi di Whorf che per molto tempo è stata
considerata solida e coerente con diverse tesi filosofiche (da
Khun a Quine) e linguistiche (la linguistica strutturalista)
16
Gibson J.J. Outline of a theory of direct visual perception - 1969
28
insoluta la questione di come avvenga l’apprendimento del
linguaggio e dell’esistenza di parole, che non hanno rapporto
con il mondo.
29
«Ascoltare poi uno che sta traducendo da
un'altra lingua implica un fluttuare d'esitazione
intorno alle parole, un margine
d'indeterminatezza e di provvisorietà [...] »17
Capitolo 3
Linguaggio e cultura
17
I.Calvino - Se una notte d'inverno un viaggiatore, Torino, Einaudi, 1979.
30
è possibile che linguaggio e pensiero assieme
contribuiscano a formare questa diversità.
Nella sua forma più forte, che comprende entrambe le tesi
l’ipotesi Sapir-Whorf, afferma che la percezione di un popolo
viene influenzata dalla lingua con la quale si esprime.
Il significato di ogni parola si può trovare soltanto
all’interno della cultura di riferimento attraverso la quale una
lingua si esprime. La struttura della lingua madre ha, secondo
Whorf, un’ influenza notevole sul modo di concepire il mondo.
Gli eschimesi nella loro lingua inuit, possiedono diversi modi
per descrivere la neve. Secondo il suo stato di aggregazione,
consistenza, freschezza e così via, hanno insomma una
percezione differenziata della neve. Come accade nel romanzo
dello scrittore danese Peter Høeg Il senso di Smilla per la neve18,
dove la protagonista, Smilla, grazie alla capacità di riconoscere
la neve in tutti i suoi aspetti, riesce a scoprire un delitto. Høeg
appassionato di scienza e di linguistica, attraverso questo
18
Peter Hoeg - Froken Smillas fornemmelse for sne- Il senso di Smilla per la neve
Traduzione: Bruno Berni Editore: Mondadori, 1994
31
romanzo, ci aiuta a riflettere sul rapporto tra cultura e
linguaggio.
Alcune ricerche hanno condotto ad un analisi critica
sull’ipotesi della relatività linguistica. La relazione tra la
percezione e i nomi dei colori, ad esempio, ha contribuito in
modo determinante nel trattare il tema tra linguaggio e cultura.
Nella lingua italiana e in altre lingue europee i colori puri
come il blu, verde, rosso e giallo vengono denominati con
un'unica parola, se questi colori vengono mescolati ad altri
formano altre gradazioni di colore, vengono quindi denominati
come accade nella lingua inglese ad esempio, come bluish green
(verde bluastro) oppure greenish-yellow (verde-giallastro) Ciò che
si analizza è la questione se noi percepiamo i colori così come
sono oppure ciò è dovuto al nome con il quale siamo abituati a
denominarli.
Eleanor Rosch psicologa cognitiva dell’Università della
California a Berkeley, ha effettuato studi sugli aspetti della
categorizzazione dei colori della tribù dei Dani in Nuova
Guinea, i quali dispongono soltanto di due nomi per i colori.
Attraverso tali studi è emerso che, nonostante i Dani non
posseggano più di due parole per denominare i colori, sono
32
comunque in grado di riconoscerne altri, questo dimostra che il
nesso tra cultura e percezione non svolge alcun ruolo.
Gli antropologi cognitivi B.Berlin e P.Kay19(1969),
dell’Università della California a Berkeley, hanno condotto
diversi interessanti studi a proposito, e sono giunti alla
conclusione, in opposizione alla teoria del relativismo
linguistico, che le categorie cromatiche percettive dipendono da
caratteristiche biologiche del sistema visivo, (Fig 4) in altre
parole, anche in lingue che possiedono solo due termini per
designare i colori, non verrà mai usato il termine rosso per
designare il verde o viceversa.
Queste ricerche dimostrano che la percezione del colore
ha origine biologica e non culturale.
19
Berlin - Kay 1969 = B. Berlin - P. Kay, Basic colour terms. Their Universality and Evolution,
Berkeley - Los Angeles 1969.
33
inglese ed invece felicità in lingua cinese (Fig.5) Ma queste
differenze culturali e linguistiche, che nessuno nega, non si
spingono a creare una effettiva diversità nella percezione, come
sosteneva Whorf.
luce
luce
bianc
rossa
a
oggetto
o rosso Fig. 4 - Come l’occhio vede i colori
Fig. 5 – Esempio di associazioni culturali nei colori (Russo & Boor, 1993)
34
Il rapporto cultura e linguaggio, secondo l’idea del
relativismo linguistico non trova conferma neppure nelle teorie
sulla percezione del colore che attraverso gli esperimenti
effettuati dai ricercatori che abbiamo appena citato fornisce la
conferma che il linguaggio non guida la percezione nel modo
definito da Whorf.
Nonostante l’apparente sconfitta della tesi di Sapir Whorf
da parte degli psicologi cognitivi, la tesi sul relativismo
linguistico continua tutt’oggi ad interessare molti ricercatori.
Tra questi Peter Gordon20, psicologo della Columbia
University di New York, il quale ha effettuato una recente
ricerca (Gordon, 2004) sulle abitudini linguistiche della tribù
dei Pirahã in Brasile, dalla quale è emerso che i componenti di
questa tribù hanno nomi per definire soltanto il numero uno e
il numero due, i numeri superiori vengono sommariamente
definiti con un'unica parola “molti”. Gordon ha rilevato dai suoi
studi, come alcune limitazioni nel linguaggio possano portare
ad una concezione diversa del mondo. Egli sottopose alcuni
Pirahã ad una varietà di tests, il più semplice consisteva nel
presentare loro, una serie di oggetti di uso comune che essi
20
Vedi Science Express (19 August 2004/ Page 1/ 10.1126/science.1094492)
35
dovevano raggruppare per categoria, ebbene il risultato fu che
riuscivano a riunire fino a due oggetti ma se il numero arrivava
a quattro, sei, o oltre dieci, essi non erano più in grado di
catalogare correttamente gli oggetti.
Da queste ricerche, Gordon arriva alla conclusione che
l’assenza, in una determinata lingua, di alcune parole per
descrivere un concetto, può causare difficoltà ai parlanti di tale
lingua nel comprendere quel determinato concetto.
36
Conclusioni
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precostituito, dettato da altri in grado di decidere quale sia la
linea di pensiero da adottare, fornendo una sorta di “parola
magica” che ci trascini verso determinate credenze e abitudini.
Fortunatamente non è proprio ciò che accade. Whorf nel
corso dei suoi studi riguardo gli effetti che il linguaggio ha sul
pensiero, non ha tenuto conto del processo contrario vale a dire
degli effetti che il pensiero ha sul linguaggio.
L’ipotesi del determinismo linguistico viene ridimensionata
se si dà un maggior rilievo al reciproco scambio tra il linguaggio
e il pensiero; non può esistere il primo in assenza del secondo, e
molti degli studi evolutivi e cognitivi più recenti tendono a dare
priorità al pensiero come effetto causale del linguaggio e non
viceversa.
La teoria del determinismo linguistico, come sappiamo, si
espande nel concetto di relatività linguistica ed anche questa
parte della teoria di Sapir e Whorf, come è già stato osservato
più volte, ha il merito di offrire validi spunti di riflessione in
varie discipline dall’antropologia, alla filosofia e alla psicologia
cognitiva.
Dal punto di vista antropologico, il punto di forza
dell’ipotesi di Sapir-Whorf, è senz’altro quello di aver dato alla
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cultura, che risiede nella storia di un popolo, un valore
determinante nello studio della stessa. Le tradizioni portano ad
assumere un particolare comportamento che conduce a
particolari abitudini che caratterizzano una società, ed
attraverso di esse è dunque possibile l’integrazione, ma tali
abitudini hanno bisogno di un linguaggio che le trasmetta o le
renda visibili. Secondo l’ipotesi di Sapir-Whorf, (qui sta la
contraddizione) è il linguaggio stesso che crea siffatte abitudini
che altrimenti non esisterebbero. La visione “rivoluzionaria” di
Whorf è stata in effetti ridimensionata di fronte agli studi che
hanno dato evidenze empiriche per la visione più tradizionale
per cui è il linguaggio, lo strumento attraverso il quale abbiamo
la facoltà di trasmettere i nostri pensieri.
Gli svariati modi che il popolo esquimese adotta per
descrivere la neve, sono l’effetto di una cultura che ha la facoltà
e l’esigenza di conoscere in dettaglio ciò che è presente ed
influisce in modo determinante nella loro vita di sempre. Gli
esquimesi come il popolo Hopi o la tribù dei Pirahã osservati da
Gordon, usano “astutamente” un linguaggio conforme al loro
stile di vita, ma potrebbero modificare il loro modo di parlare se
altre circostanze culturali lo richiedessero, come è risultato dagli
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esperimenti sul popolo Dani, effettuati da Eleanor Rosch. Sulla
percezione dei colori, i Dani, come abbiamo visto, pur usando
solitamente solo due nomi per definire i colori, erano
perfettamente consapevoli dell’esistenza di altri colori anche se
non possedevano un nome per descriverli. L’assenza di parole,
dunque, non preclude la facoltà di percepire ciò che avviene
nella realtà.
Sembra che l’ipotesi di Sapir-Whorf abbia tralasciato un
particolare e, in altre parole, si ha l’impressione che alla teoria
del relativismo linguistico, seppur ricca di stimoli, manchi un
anello di congiunzione che colleghi il linguaggio con il mondo.
Dal punto di vista cognitivo i teorici che abbiamo trattato
precedentemente, hanno dedicato particolare attenzione, negli
ultimi anni, allo studio di ciò che avviene nella nostra mente nel
momento in cui acquisiamo nuove conoscenze. Le immagini
mentali esprimono la facoltà di creare ed elaborare nuove
informazioni, che vengono catturate dall’ambiente in forma
attiva, attraverso le quali l’organismo interagisce in modo
dialettico con l’ambiente stesso. Whorf, invece, sostiene il
potere del linguaggio nel guidare la percezione. Il procedimento
che ci porta ad esprimere determinati pensieri, avviene in modo
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passivo mediato “soltanto” dal linguaggio e in conseguenza dalla
sua cultura di riferimento. Attraverso il punto di vista di Whorf,
dunque, il linguaggio fornisce alla mente informazioni sul
mondo che esso stesso crea, ma se così fosse, se la cultura di
riferimento e quindi il linguaggio che usiamo per esprimerla,
fosse l’unica variabile ad influire suoi nostri pensieri, il tutto
avverrebbe con una circolarità da cui non si comprenderebbe la
fine e tanto meno l’inizio.
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Bibliografia:
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Whorf B. Lee – Linguaggio pensiero e realtà – trad. it. Boringhieri,
Torino
Pagine Web:
http://en.wikpedia.org/wiki/sapir-Whorf_hypotesis
http://www.aber.ac.uk/media/Students/njp0001.html
http://www.geocities.com/CollegePark/4110/whorf.html
http://www.news.harvard.edu/gazette/2004/07.22/21-think.html
http://venus.va.com.au/suggestion/sapir.html
http://www.newscientist.com/article.ns?id=dn6303
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