Quodlibet Studio
Discipline filosofiche
La passione del pensiero
Studi in onore di Enrica Lisciani-Petrini
a cura di Daniela Calabrò
Quodlibet
Prima edizione: dicembre 2021
© 2021 Quodlibet srl
Via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 23 - 62100 Macerata
www.quodlibet.it
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isbn 978-88-229-0796-7
Questo volume è stato pubblicato grazie al contributo dei Fondi Farb del Dipartimento di
Scienze Umane, Filosofiche e della Formazione Università degli Studi di Salerno.
Discipline filosofiche
Collana diretta da Stefano Besoli
Comitato scientifico: Pedro Manuel dos Santos Alves (Universidade de Lisboa), Vincenzo
Costa (Università degli Studi del Molise), Fabrizio Desideri (Università di Firenze),
Massimo Ferrari (Università di Torino), Elio Franzini (Università degli Studi di Milano),
Douglas Hofstadter (Indiana University), Luca Illetterati (Università di Padova), Roberta
Lanfredini (Università di Firenze), Eugenio Mazzarella (Università Federico II di Napoli),
Luigi Perissinotto (Università Ca’ Foscari di Venezia), Dominique Pradelle (Université ParisSorbonne), Frédéric Worms (École normale supérieure – ENS, Paris)
I volumi pubblicati nella collana sono stati sottoposti a procedura di peer-review
Francesco Piro
Stima e amore in Les Passions de l’Âme di Descartes
A Enrica Lisciani-Petrini, in segno di «rispetto,
venerazione, stupore»*
[* Descartes a P. Chanut, 1 febbraio 1647]
Molte voci contestano oggi la tradizionale immagine di Descartes
come filosofo del “dualismo”. In alcuni casi, la richiesta di revisione
deriva da una rilettura funzionalistica del rapporto anima-corpo come
quella proposta da John Cottingham1. In altri casi, è il tema del “terzo
genere di idee”, quelle che riceviamo dai sensi e le passioni, e il modo
in cui l’ultimo Descartes lo affronta – con una sensibilità pre-fenomenologica per gli aspetti “passivi” dell’anima – a guidare la proposta di
revisione. Si vedano le opere recenti di Jean-Luc Marion, che arrivano
a ipotizzare una sottile linea di continuità tra il Cartesio più maturo
e Merleau-Ponty2. Ma anche in studi più specificamente dedicati alla
teoria morale cartesiana, si sottolinea che il soggetto di cui ci parlano
Les Passions de l’Âme non è più una res cogitans, ma un’unità psicofisica che sente grazie al suo corpo e prova, grazie al suo corpo, passioni
senza le quali la sua vita non sarebbe altrettanto felice3. La preoccupa1 J. Cottingham, Descartes, Orion House, London 1997; trad. it. Cartesio, a cura di S.
Brogi, Sansoni, Firenze 1998. Per un’analisi del dibattito anglosassone su Cartesio, cfr. C.
Ferrini, L’invenzione di Cartesio. La disembodied mind negli studi contemporanei: eredità
o mito?, EUT, Trieste 2015.
2 J.-L. Marion, Sur la pensée passive de Descartes, puf, Paris 2013. Un punto in comune tra la prospettiva di Cottingham e quella di Marion è la convinzione che la lettera del
28 giugno 1643 a Elisabetta del Palatinato [lettera 310, AT IV; 690-97], in cui Descartes
classifica le sensazioni e passioni come “terzo genere di idee”, dopo quelle riguardanti
l’anima sola e il corpo solo, segni una discontinuità nell’impresa cartesiana.
3 Cfr. D. Kambouchner, L’homme des passions. Commentaires sur Descartes, Albin Michel, Paris 1995, 2 voll., ma cfr. anche Id., Descartes et la philosophie morale, Hermann, Paris
2008; Deborah J. Brown, Descartes and the Passionate Mind, Cambridge UP 2006, ch. 3.
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francesco piro
zione dell’ultimo Descartes di garantire l’unità – e non solo la distinzione – tra mente e corpo è nota da sempre, data l’evidenza della polemica con Regius. La novità sta nel concepire questa preoccupazione
non come l’aspetto tardivo di un sistema già costituito, ma come un
processo di revisione interna del cartesianesimo, bloccato dalla morte.
In queste pagine, segnalerò la mia condivisione per una lettura
“evolutiva” dell’ultimo Descartes, occupandomi di un caso specifico,
ma che ritengo suggestivo e sicuramente vicino alla sensibilità della
dedicataria di questo saggetto. In particolare, mi occuperò dell’ultima opera cartesiana, Les Passions de l’Ame (d’ora in poi PA), analizzando in particolare la passione della stima (estime) e il suo rapporto
con la passione amorosa. Sosterrò:
(i) che la lettura dell’estime come passione, più esattamente come una
modalità della passione dell’admiration, che troviamo in PA, rivede una
precedente lettura della stima come giudizio sulla perfezione inerente a
un oggetto, ancora presente nella lettera a Pierre Chanut scritta il 1 febbraio 1647, appena due anni prima della pubblicazione di PA.
(ii) che la ragione di questa trasformazione va cercata in una nuova funzione che Descartes attribuisce all’estime, intesa ora come attenzione e considerazione verso una singolarità, piuttosto che come
valutazione del suo grado di perfezione.
(iii) infine che questa trasformazione, pur riaffermando premesse
metafisiche tipicamente cartesiane, tenta una strada nuova per chiarire sia il rapporto del soggetto passionale con se stesso, sia il modo
più felice di stare al mondo e entrare in relazione con altri da parte
di un simile soggetto.
Passo all’analisi dei singoli punti.
1.
L’idea che la stima sia una passione è un tratto originale di Descartes. Estimer nel francese del tempo, ivi compreso quello di Descartes,
stima e amore in les passions de l’âme di descartes
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è usato come quasi sinonimo di juger, giudicare o anche assegnare
un valore o un prezzo. Montaigne aveva discusso della praesumption
o gloire proprio come di un’opinione troppo alta del proprio valore,
cioè come una stima eccessiva di se stessi (s’estimer trop) e insufficiente
per gli altri (n’estimer pas assez autrui)4. Per Montaigne, chi si stima
troppo, lo fa a causa dell’eccessivo amore che nutre per se stesso. Descartes ammetterà che ci si può stimare troppo per amore eccessivo di
se stessi, ma insisterà che ci si può stimare molto per giuste ragioni e
senza togliere nulla agli altri. In ogni caso, l’estime cartesiana non è un
giudizio, ma un modo di considerare una persona e di darle un posto
nei nostri pensieri. Lo stesso Descartes ha evidenti difficoltà a conciliare questo nuovo significato di estime con quello tradizionale. All’inizio
della terza parte di PA, egli ci spiega che, sebbene in genere usiamo le
parole estime e mespris per indicare dei giudizi di valore su singole cose
(opinion de la valeur d’une chose), tuttavia:
… à cause que, de ces opinions, il naît souvent des passions auxquelles on
n’a point donné de noms particuliers, il me semble que ceux-ci leur peuvent être
attribués. Et l’estime, en tant qu’elle est une passion, est une inclination qu’a
l’âme à se représenter la valeur de la chose estimée… [PA § 149: AT XI, 444].
Vi sarebbero dunque due passioni, finora innominate, che Descartes scopre riflettendo sulla tendenza a persistere delle nostre valutazioni. Tale tendenza sarebbe inspiegabile se al giudizio non si accompagnasse una certa dose di quella passione – l’admiration, che di
solito traduciamo con “meraviglia” – che, nata dall’agitazione degli
“spiriti animali” del nostro cervello di fronte a un oggetto inconsueto, riproduce tale agitazione ogni volta che l’oggetto torna ad essere
considerato. Il testo non ci spiega come quest’agitazione degli “spiriti
animali” possa arrivare nel corso di un processo di valutazione. Un’ipotesi potrebbe essere che essa sorga solo quando l’oggetto appare
straordinariamente in alto o in basso rispetto ai nostri standard di
valutazione. La prima presentazione di queste due passioni in PA
sembrerebbe confermare quest’ipotesi:
4 M. de Montaigne, Essais, II, XVII: De la praesumption: «Il y a une autre sorte de
gloire, qui est une trop bonne opinion que nous concevons de nostre valeur. C’est une
affection inconsiderée, dequoy nous cherissons, qui nous represente à nous mesmes autres
que nous ne sommes…...Il y a deux parties en cette gloire: sçavoir est, de s’estimer trop, et
n’estimer pas assez autruy».
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francesco piro
A l’admiration est jointe l’estime ou le mépris, selon que c’est la grandeur
d’un objet ou sa petitesse que nous admirons. Et nous pouvons ainsi nous
estimer ou nous mépriser nous-mêmes; d’où viennent les passions et ensuite les
habitudes de magnanimité ou d’orgueil et d’humilité ou de bassesse [PA, § 54:
AT XI, 373-4].
Mais quand nous estimons ou méprisons d’autres objets que nous considérons comme des causes libres capables de faire du bien ou du mal, de l’estime vient la vénération, et du simple mépris le dédain [PA § 55: AT XI, 374].
Ma, a leggere bene i due paragrafi, ci accorgiamo che le cose sono
più complesse. Le passioni rivolte allo straordinario sono la «venerazione» e il «disdegno», le uniche rivolte per definizione a persone che
veneriamo o giudichiamo spregevoli nella loro totalità. Ma questo
vuol dire che, negli altri casi, non proviamo passioni di stima o disprezzo? La tesi di Descartes è che le proviamo, ma non le rivolgiamo
ad un’intera persona, ma a qualcosa che appartiene a tale persona.
Posso trovare eccellente il modo in cui A suona il violino, senza considerare complessivamente A una persona superiore a me. E tuttavia,
se io continuo a trovare in questa qualità di A qualcosa di «grande»
continuo a provare una passione, più di un semplice giudizio.
Il cuore del problema è dunque questa curiosa qualità che differenzia la stima-passione dalla stima-valutazione: la stima-passione è
sentire qualcosa come più, egualmente, meno «grande» di me stesso.
Non si tratta di attribuire un valore, quanto piuttosto una significatività-per-me. «Grande» e «piccolo» non sono qui misure, ma poli di
un codice interno con cui l’anima si dice qualcosa sull’oggetto stimato e simultaneamente su se stessa. Ma perché a Descartes è venuto in
mente di concepire così la «passione» della stima?
La ragione si può scoprire facilmente. La dottrina cartesiana
dell’estime nasce nel contesto della teoria cartesiana dell’amore e solo
progressivamente si differenzia da essa. Alcuni dei suoi tratti sono già
presenti nell’ampia lettera del 1 febbraio 1647 a Pierre Chanut, che
è appunto dedicata all’amore. In questa lettera, come in PA § 8283, Descartes costruisce una tipologia dell’amore basata sul grado
di stima che proviamo per l’oggetto amato. Se la passione amorosa
è volontà di unirsi con l’amato per formare un «tutto» – il termine
cartesiano è se joindre de volonté –, la stima assegna ai singoli la
loro parte all’interno del tutto. Se io sento me stesso come la parte
stima e amore in les passions de l’âme di descartes
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maggiore del tutto, non sacrificherò me stesso per l’altra parte. PA
denominerà questo amore minore come affection. Se invece io sento
il partner come un eguale a me, allora il sentimento che io provo si
chiama «amicizia» (amitié) e implica una certa disponibilità al sacrificio. Se infine io mi sento la parte minore del tutto sono disponibile
al sacrificio se l’interesse del partner lo esige. Tipicamente l’amore
verso la patria, verso il proprio re, verso Dio, sono questo tipo di
amore che in PA è chiamato devotion, devozione. Vi sono evidentemente infinite sfumature e variazioni di questi sentimenti e ciò spiega
l’imprecisione delle percezioni di «grande» e «piccolo»5.
Sia nella lettera a Chanut che in PA, la stima viene trattata come
l’elemento che dà moralità all’amore. La definizione cartesiana dell’amore-passione come volontà di formare un tutto con un altro essere
riprende tesi tradizionali6. Descartes ne trae però una concezione paradossale e volutamente dissacrante della passione amorosa. Data questa
definizione di amore, vanno considerate come forme di amore anche la
passione di un bruto (brutal nel francese di Descartes) verso la donna
che intende violentare, di un ubriacone verso il vino che intende bere
o la passione di un uomo vanitoso per la gloria, così come, d’altro
lato, l’amore di un buon padre per i figli o quello di un cittadino per
la patria. Qualunque volontà di “restare unito” – qualunque forma di
“attaccamento”, diremmo oggi – rientra nella categoria7.
Come spiegare una lettura così riduttiva e, al tempo stesso, ambivalente della passione amorosa8? Se guardiamo meglio i testi, ci
5 Lettera a Pierre Chanut, 1 febbraio 1647 (lettera 468, AT IV, 612) e PA, § 83
(AT XI, 390). Nella lettera a Chanut, mancano ancora le denominazioni affection, amitié,
devotion.
6 La posizione più autorevole di cui Descartes può avere tenuto conto è quella
dell’Aquinate. Tommaso, richiamandosi allo pseudo-Dionigi (il quale a sua volta riprende
l’erotica platonica), definisce l’amore come vis unitiva (Tommaso d’Aquino, Summa
Theologiae, II-1, quaestio 25, art. 1).
7 Cfr. il celebre passo: «Car par example, encore que les passions qu’un ambitieux
a pour la gloire, un avaricieux pour l’argent, un yvrogne pour le vin, un brutal pour
une femme qu’il veut violer, un homme d’honneur pour son ami ou pour sa maitresse,
et un bon pere pour ses enfants, soient bien differents entre elles, toutefois, en ce qu’elles
participent de l’Amour, elles sont semblables» [PA § 82: AT XI 389].
8 Molto duro su questa dottrina cartesiana il giudizio di Marion in J.-L. Marion,
Questions cartesiennes, ch. VIII, puf, Paris 1991, pp. 189-219. Una ricostruzione più
simpatetica, che sottolinea il rapporto nuovo amore-stima, è quella di D. Kambouchner,
Descartes et la philosophie morale, cit., pp. 129 e sgg.
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accorgiamo che vi è un sotto-testo importante. Secondo la fisiologia
cartesiana, la passione amorosa nascerebbe già nella condizione fetale, quando il nostro corpo era ancora in formazione, ma la nostra
anima era già vigile. In questo periodo, l’anima avrebbe avvertito
una intensa gioia quando il corpo veniva pervaso dall’«alimento»
materno, cioè riceveva forza e vigore dall’unione con il corpo della madre. Dunque, l’amore-passione nasce da quella percezione di
grande calore che proviamo quando qualcosa viene da noi associato per qualsiasi ragione al ricordo dell’«alimento materno»9. Quindi è ovvio che qualunque desiderio intenso di qualcosa sia interpretato come amore. Ma in ciò Descartes vede una sorta di tranello.
Amore e odio, gioia e tristezza, sono passioni pre-natali, da noi
già avvertite quando eravamo nel ventre materno. Ma il desiderio
(come l’ammirazione/meraviglia) è passione propria di un corpo
già formato, non di un corpo in formazione. Ora, un corpo già
formato non può restaurare l’idilliaca situazione di perfetta soddisfazione dei propri bisogni e, al tempo stesso, di fusione con l’altro
in un tutto maggiore della singola parte. L’amante che abbia il solo
fine di realizzare il proprio desiderio, ridurrà l’altro a strumento, a
cosa, come fa – secondo Descartes – colui che ama solo il possesso
dell’oggetto amato (amour de la possession): appunto il bruto, l’ubriacone, il vanaglorioso.
La stima dunque dà consistenza all’oggetto amato, in modo tanto
più forte quanto più lo stimiamo. Quanto più cresce la stima per
l’altro, tanto più esso occupa la scena dei miei pensieri. Il che dà
una realtà non fantasmatica al “tutto”, ma a patto di limitare il desiderio. In breve, la descrizione cartesiana dell’amore comporta una
alternativa senza sconti: solo la rinuncia (totale nella “devozione”,
parziale negli altri casi) a trasformare l’amato in strumento di realizzazione dei propri desideri permette l’esistenza effettiva del tutto, che
altrimenti resterà un mero fantasma destinato a scomparire dopo la
9 Lettera a Chanut, 1 febbraio 1647 [AT IV 604-5]: «l’amour n’était causée, avant
la naissance, que par un aliment convenable qui, entrant abondamment dans le foie, dans
le cœur et dans le poumon, y excitait plus de chaleur que de coutume». Questa eziologia
pre-natale dell’amore-passione è ripresa senza mutamenti in PA § 107 [AT XI, 408]. Cfr.
A. Matheron, Amour, digestion et puissance selon Descartes, «Revue Philosophique de
la France et de l’Etranger», 4, 1988 e, sulla teoria delle “proto-passioni” prenatali, cfr.
C. Talon-Hugon, Les passions rêvées par la raison. Essai sur la théorie des passions de
Descartes et de quelques-uns de ses contemporaines, Vrin, Paris 2002, pp. 182-214.
stima e amore in les passions de l’âme di descartes
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soddisfazione del desiderio10. Ci sono ovviamente casi in cui le due
logiche convivono – il rapporto di un gentiluomo con la sua maîtresse ne è un esempio – ma si tratta di casi di oscillazione tra i due poli,
non un superamento della loro opposizione11.
Fin qui la lettera a Chanut e il testo definitivo di PA espongono
una stessa dottrina. Le cose cambiano però se ci domandiamo: e che
cosa è mai la stima? Nella lettera a Chanut, la stima non è una passione. La stima è una trascrizione in forma sensibile di un giudizio
di perfezione e manifesta dunque un’altra forma di amore, l’amore
intellettuale12. Sia nelle lettere a Elisabetta, sia nella lettera a Chanut,
Descartes espone una dottrina dell’amore intellettuale che non ricomparirà in PA. Il perno di questa dottrina è espresso icasticamente
in una delle lettere a Elisabetta: «….le vray obiet de l’amour est la
perfection….»13.
“Perfezione” è una delle parole centrali del linguaggio metafisico
cartesiano, non è il caso di riepilogarne qui la complessa struttura. Come sappiamo fin dal Discorso sul metodo, la coscienza della
nostra imperfezione contiene un’idea chiara e distinta di perfezione.
La perfezione di cui Descartes parla in genere è la perfezione intesa
come potere causale, propria dunque innanzitutto di Dio e, in secondo luogo, del nostro libero arbitrio. Ma, a fianco di questa perfezione “eminente” o “formale” viene riconosciuto anche un certo spazio alla “perfezione oggettiva”, cioè per quelle manifestazioni di un
potere causale che ne fanno trasparire la grandezza, così come una
macchina ben costruita rivela l’ingegno del suo autore14. L’amore intellettuale nasce dunque dal riconoscimento della presenza della per10 Sul carattere fantasmatico dell’amore nato dalla forza del desiderio, cfr. PA § 90
[AT XI, 395-6].
11 Cfr. PA, § 82, dove Descartes chiosa, dopo aver discusso dell’amicizia: «L’affection
que les hommes d’honneur ont […] pour leur maîtresse en participe beaucoup, mais elle
participe aussi un peu de l’autre» [AT XI, 389].
12 «... je distingue entre l’amour qui est purement intellectuelle ou raisonnable, et celle
qui est une passion» [AT IV, 601].
13 A Elisabetta del Palatinato, 15 settembre 1645 [AT IV, 291]. Ma il tema della
“perfezione” è costante nelle lettere ad Elisabetta del 1644-1645 [AT IV 280-7 e AT IV
290-6]. Si noti che la principessa risponde con rilievi che oggi chiameremmo “relativistici”:
«Pour mesurer le contentement selon la perfection qui le cause, il faudroit voir clairement
la valeur de chacune,...» [13 settembre 1645: AT IV, 289]. Suggerirei che ciò abbia
contribuito a rendere più problematica la concezione cartesiana della stima.
14 Principia Metaphysicae, I § 17 [AT IX 11].
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fezione in un oggetto, riconoscimento che conduce la nostra anima a
volersi unire ad esso, nelle specifiche modalità in cui l’oggetto tollera
l’unione15. Per esempio, nel caso di Dio, chi abbia chiara e distinta
conoscenza di Dio sa che ci si può unire a Dio solo subordinando
totalmente la propria volontà alla sua, non avendo cioè altra volontà
se non che la volontà di Dio sia fatta, scrive Descartes richiamando
implicitamente il Pater Noster16.
Questa concezione dell’amore intellettuale è coerente con le dottrine dell’amour-estime che circolavano nella letteratura morale del
periodo e con la trattatistica religiosa sulla vita devota17. Il testo definitivo di PA ne riterrà la distinzione tra amore e desiderio, nonché la
tesi del ruolo moralizzatore della stima nei confronti dell’amore, ma
cancellerà la dottrina dell’amore intellettuale18. Il punto di continuità
tra le due fasi è dunque solo la definizione della stima come sentire
qualcosa come “più (o egualmente o meno) grande di me stesso”. Ma
anche in questo ultimo caso, vi è una differenza. Nella lettera a Chanut, il “sentire qualcosa come più (o egualmente o meno) grande di
me stesso” è la traduzione immaginativa di un giudizio di perfezione,
non una passione a se stante. Lo si capisce quando Descartes cerca di
dimostrare a Chanut (il quale ne dubitava) che l’amore nei confronti di Dio può diventare un’autentica passione. Ora, come sappiamo,
l’amore-passione è sempre caratterizzato dalla volontà di formare un
tutto con l’amato (cioè nasce dal fantasma dell’unione originaria con
la madre) e dunque è impossibile sentire tale passione nei riguardi di
un essere trascendente e incomparabile con noi. Avviene però che l’anima spontaneamente si rappresenti la propria volontà di obbedire a Dio
immaginandosi come una “minuscola parte” dell’opera di Dio, cioè
dell’immensità dell’universo. E questo sentimento che potremmo chiamare di “solidarietà cosmica” è appunto l’amore passionale per Dio:
15 Nella lettera a Chanut, l’amore intellettuale verso un oggetto comporta che l’anima
voglia congiungervisi «en la façon qu’il lui convient d’être jointe...» [AT IV, 601].
16 «….se joignant entièrement à lui de volonté, il l’aime si parfaitement, qu’il ne veut
plus rien au monde, sinon que la volonté de Dieu soit faite» [AT IV, 609].
17 Cfr. su questo punto la ricostruzione della discussione precartesiana su amore
e stima in A. Levi, S. J., French Moralists. The Theory of the Passions 1585 to 1649,
Clarendon Press, Oxford 1964, pp. 194 sgg.
18 L’importanza della cesura a proposito dell’amore intellettuale è rilevata con
acutezza da L. Renault, La constitution de la morale cartésienne, in F. de Buzon, É. Cassan,
D. Kambouchner, Lectures de Descartes, Ellipses, Paris 2015, 329-358.
stima e amore in les passions de l’âme di descartes
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… nous pouvons imaginer notre amour même, qui consiste en ce que nous
voulons nous unir à quelque objet, c’est-à-dire, au regard de Dieu, nous considérer comme une très petite partie de toute l’immensité des choses qu’il a
créées [...] et la seule idée de cette union suffit pour exciter de la chaleur autour
du cœur, et causer une très violente passion19.
Dunque, in questo testo, il “sentire qualcosa come più (egualmente, meno) grande di me” non è ancora il codice di una passione specifica, ma una specie di schema con cui i giudizi di perfezione dell’intelletto vengono resi sensibili e condizionano gli amori passionali.
Si capisce così perché Descartes possa sostenere che chi proclami di
avere solo sentimenti di «rispetto, venerazione, stupore» verso un’altra persona, in realtà la ama, anche se di quello specifico amore che
proviamo verso il superiore:
Et si je vous demandais, en conscience, si vous n’aimez point cette grande
Reine, auprès de laquelle vous êtes à présent, vous auriez beau dire que vous
n’avez pour elle que du respect, de la vénération et de l’étonnement, je ne
laisserais pas de juger que vous avez aussi une très ardente affection20.
Siamo dunque all’interno di una dottrina decisamente diversa da
quella che caratterizzerà PA.
2.
Ma perché Descartes rivide così radicalmente la sua posizione nel
giro di due anni? Perché decise di fondare la stima sulla passione
dell’admiration piuttosto che sulla capacità dell’anima di cogliere la
perfezione? E perché separò definitivamente stima e amore dal punto
di vista concettuale, pur insistendo sulla loro combinabilità e anzi
sull’opportunità di combinarli?
Il primo candidato per una spiegazione è l’impegno di Descartes
a fondare sull’interazione anima-corpo tutte le passioni. Altrimenti,
risulterebbe impossibile mantenere la tesi della semplicità dell’anima, cioè la riduzione di essa alla coscienza. Se la tradizionale distinzione tra “amore di benevolenza” e “amore di concupiscenza”
19
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AT IV, 610.
AT IV, 611.
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francesco piro
è contestabile, non è perché l’amore non possa avere diverse tipologie (anzi, come abbiamo visto, ve ne sono almeno tre). Il punto
è che questa distinzione lascia pensare a un’anima stratificata, con
una parte più nobile (“superiore”) e una meno nobile (“inferiore”).
Mentre, per contro, per il Descartes di PA, l’anima resta semplice
ma è il corpo a presentarle simultaneamente spinte differenti che
essa deve riunificare creando una molteplicità di passioni “composte” da quelle “primitive”.
Pertanto, anche la stima doveva diventare una passione. Il suo specifico codice (il sentirsi più, egualmente, meno grande di A) doveva
ora essere spiegato in base al fatto che l’anima attribuisce all’oggetto
percepito quelle reazioni neuro-motorie che la sensazione dell’oggetto ha già innescato prima che l’anima lo percepisca. Se avverto
qualcosa come dotato di grande valore è perché qualche suo aspetto
che sto sentendo o ricordando genera grande agitazione negli “spiriti animali”. Il codice percettuale con cui l’anima interpreta questi
stimoli corporei le serve simultaneamente alla percezione di se stessa
(“X è tanto grande” significa “sono tanto piccolo rispetto a X”) e,
sempre attraverso gli spiriti, questa intera percezione/autopercezione
modifica il corpo, generando la peculiare fisiognomica che è propria
di ogni passione21.
Da queste premesse nasce la conclusione che la stima deve essere admiration, la passione che appunto nasce dall’agitazione degli
spiriti del cervello e la ripete ogni volta che l’oggetto si ripresenta.
Ma con ciò cambiava tutto. Diveniva ovvio che, come l’admiration
in genere, la stima-passione può nascere in modi idiosincratici. Gli
uomini sentiranno come pregevole ciò che è soltanto raro o colpisce
la loro immaginazione. Proveranno “venerazione” non solo per una
persona reale, ma anche per una divinità immaginaria creata dalla
superstizione22. Ancora, se nella lettera a Chanut non si discute mai
21 Su questi due livelli dell’interazione corpo-mente, cfr. soprattutto D. Perler, Feelings
Transformed. Philosophical Theories of the Emotions, 1270-1670, translation by T.
Crawford, Oxford University Press, Oxford 2018, pp. 192-205.
22 Cfr. PA § 162 [AT XI, 454-5]. Questa lettura della “venerazione” influenza Spinoza
che però estende alla “devozione” il medesimo carattere superstizioso, facendo insomma
della admiratio – che Spinoza fa regredire da passione a semplice stato di choc – la fonte
della religiosità superstiziosa, a cui opporre una rivisitata dottrina dell’“amore intellettuale
di Dio”. Cfr. C. Jaquet, L’unité du corps et de l’esprit. Affects, actions and passions chez
Spinoza, PUF, Paris 2004, pp. 50-51, 17-88, nonché – per la critica alla psicologia cartesia-
stima e amore in les passions de l’âme di descartes
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del “disprezzo”, ora questa passione diventava importante anche se
Descartes si preoccupa soprattutto di circoscriverne l’uso23. Come
conciliare queste nuove caratteristiche della stima con il ruolo moralizzatore attribuito ad essa?
Per risolvere questo problema dobbiamo dire qualcosa in più
sulla admiration, cioè su quella passione che traduciamo in genere
con “meraviglia”. Non mi soffermerò qui sulla tesi che ho già difeso altrove che Descartes debba molto alla discussione medica sul
tema dell’admiratio, partita perlomeno con Girolamo Fracastoro24.
In seno a questa discussione l’ammirazione/meraviglia si considerava essenzialmente come una “sospensione” dei movimenti corporei
dovuta a quello che, dopo Benjamin, ci viene spontaneo chiamare
“choc”. Infatti le prime lettere cartesiane sul tema si soffermano sul
caso del riso, già sollevato da Fracastoro, e espongono la dottrina
cartesiana che vede nell’agitazione degli spiriti nel cervello (e non in
una stasi del cuore) la causa della sospensione provvisoria dei movimenti25. A un certo punto, però, Descartes scoprì che la discussione
medica sullo choc poteva risultare utile per risolvere un grave problema della sua psicologia della conoscenza. Per un’epistemologia
intuizionistica come quella di Descartes, conoscere la verità non è
na dell’ammirazione in Ethica – il mio F. Piro, L’ammirazione in Cartesio e Spinoza. Classificazione degli affetti e costituzione dello spazio antropologico, «Laboratorio dell’ISPF»,
VI, 2009, pp. 1-19.
23 Nella lettera a Chanut, si parla solo di diversi gradi di stima. In PA, il sentimento
verso quel che sentiamo “più piccolo” di noi diviene “disprezzo”, forse in concomitanza
con l’aggravarsi della diagnosi sulla distruttività dell’amore: il desiderio di possesso è
ora visto come disprezzo. Perciò Descartes postula che nessun essere umano può essere
disprezzato come tale e anzi deve essere sentito come amico: «il n’y a homme si imparfait
qu’on ne puisse avoir pour luy une amitié très parfaite» [PA § 83: AT XI, 390]. Un affetto
misto di amore e disprezzo può essere riservato a cavalli e cani, ma non agli uomini.
24 G. Fracastoro, De Sympathia et Antipathia rerum, caput 20: De admiratione,
ecstasi et risu [1546, ma cfr. oggi l’edizione critica De Sympathia et Antipathia rerum,
a cura di C. Pennuto, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2008]. Su Fracastoro come
antecedente di Descartes, il mio F. Piro, La composizione delle passioni prima di Descartes.
Note su un problema-chiave dell’antropologia filosofica, in A. Allegra, F.F. Calemi, M.
Moschini, Alla fontana di Silöe. Studi in onore di Carlo Vinti, Orthotes, Napoli-Salerno
2019, pp. 493-508. Il più probabile mediatore tra Descartes e le discussioni mediche sul
tema è il libro di M. Cureau de la Chambre, Les caracteres des passions, Rocolet, Paris
1640, chapitre 4: Les caracteres du riz (232-74).
25 Si vedano le lettere di Elisabetta a Descartes sul riso [25 aprile 1646: AT IV, 403-6]
e di Descartes a Elisabetta sulla fisiologia dell’ammirazione/meraviglia [maggio 1646: AT
IV, 409-10].
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difficile, se si fa sufficiente attenzione. Ma l’attenzione è una fatica
per l’anima, un lavoro a cui essa mira a sottrarsi, come ci spiegano
già i Principia Philosophiae del 164426. Come costituire un capitale
durevole di attenzione da cui attingere? La ammirazione/meraviglia
fu la risposta a questa domanda. Non solo l’episodio della sorpresa,
ma perfino il suo ricordo, rendono inquieti gli “spiriti animali” e
destano l’attenzione. Di qui deriva la peculiare funzione che l’ammirazione/meraviglia ha nel testo definitivo di PA (§ 70-78). Descartes non si preoccupa solo di spiegarci che cosa sia l’admiration, ma
come “farne buon uso”: bisogna reagire allo choc, evitando il cieco
estonnement (§77), bisogna inoltre evitare di disperdere la propria
attenzione in troppi rivoli e in troppe curiosità (§ 78). Quanto a chi si
stupisce molto poco, questi dovrà sforzarsi a raggiungere comunque
la «reflexion et attention» che sono necessarie per considerare le cose
in modo non superficiale (§ 76).
L’admiration è stimolo alla conoscenza, ma lo è anche perché
la conoscenza ha un ruolo terapeutico nei confronti dello choc di
partenza. Trovare una spiegazione per un fatto inconsueto significa
rimuoverne la straordinarietà e permetterci di renderlo trascurabile. Ma ciò non significa che la conoscenza abolisca l’ammirazione.
Piuttosto la trasferisce sull’oggetto appropriato di essa, che è il Dio
creatore e conservatore dell’universo. Non perché Descartes immagini una sorta di risalita dal creato al creatore, secondo gli schemi
aristotelico-tomistici, ma perché la nostra idea di una buona spiegazione è così intrisa di presupposti metafisici (leggi semplici, immutabili) da richiamare a una mente abbastanza attenta l’idea di Dio.
Con ciò, il circolo si chiude e l’ammirazione incontra un oggetto che
ne è degno in quanto metafisicamente perfetto. Si può ripetere questo
stesso circuito per l’ammirazione riservata alle azioni o ai modi di
essere altrui, cioè per la “stima”?
Ci accorgiamo subito che il problema è complesso. La stima ci
spinge sì ad avere “considerazione” (termine preferibile qui ad “attenzione”) degli altri e delle loro qualità, ma sembrerebbe ovvio che
questa significatività-per-me venga meno quando ho assimilato quel26 Su questo problema cfr. Principia Philosophiae, I § 73 [AT IX, 37]. Il rapporto
tra ammirazione/meraviglia e attenzione è evidente fin da PA § 70: «L’admiration est une
subite surprise de l’âme, qui fait qu’elle se porte à considérer avec attention les objets qui
lui semblent rares et extraordinaires» [AT XI, 380].
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lo che l’altro può offrirmi. E tuttavia la stima è anche l’elemento
moralizzatore dell’amore e dunque sembrerebbe bene provarne continuativamente. Come risolvere questa contraddizione? Come isolare
nella folla delle cose che siamo sollecitati a stimare o disprezzare ciò
che è veramente degno di continuare ad essere stimato? Questo è il
problema che Descartes cercherà di risolvere nella terza parte del suo
ultimo libro.
3.
Il tema della terza parte di PA non è la stima, ma l’autostima.
Descartes considera come un fatto empiricamente constatabile – dai
gesti e dalle posture corporee – che gli uomini provano per se stessi
intense passioni di stima o disprezzo e cerca di capire come si possa
trovare una giusta misura di questo sentimento. Pochi veloci paragrafi [PA §§ 151-152] ci spiegano che l’unica cosa che valga la pena
di stimare in noi stessi è il nostro modo di fare uso del libero arbitrio,
confermando così che gli oggetti degni di un’ammirazione persistente
sono proprio quelli che la metafisica cartesiana pone come dotati di
perfezione eminente: Dio e il libero arbitrio.
E tuttavia, in questo percorso, dal risultato prevedibile, vi sono
molte peculiarità. Come è possibile un rapporto passionale con se
stessi? Soprattutto, come può nascere dall’admiration, passione generata dalla sorpresa? Solo ipotizzando un soggetto che ha già un corpo
e una storia, l’auto-stima diviene comprensibile, ovvero diviene concepibile un io che si “stupisce” di essere riuscito a fare qualcosa che
prima gli appariva “troppo grande” per lui. L’autostima è pertanto
una passione nata nel tempo e bisognosa di conferme. Lo dimostra
il fatto che essa può persistere solo grazie alla “generosità”, cioè a
quella passione mista di stima per se stessi, amore (verso se e verso
le cose di cui ci si prende cura) e gioia, che ci spinge a continuare a
usare bene il nostro potere di agire27.
Né lo stesso libero arbitrio appare più una facoltà tutta interna
all’anima. La scoperta saliente del generoso non è quella di “avere il
27 Cfr. in particolare i §§ 153 (la generosità come virtù che fonda l’autostima
legittima), § 160 (la generosità come passione composta di auto-stima, amore e gioia, che
– a differenza dell’orgoglio – può divenire stabile).
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libero arbitrio”, verità di cui l’anima è già certa grazie al potere di sospendere il giudizio. La scoperta saliente è “poter fare buon uso” del
libero arbitrio, cioè godere di potentia agendi, di capacità di governo
delle proprie azioni. E il generoso non esita un momento a trarre,
dalla propria scoperta di avere tale capacità, la persuasion che gli
altri corpi umani hanno menti dotate dello stesso potere:
Ceux qui ont cette connaissance et ce sentiment d’eux-mêmes se persuadent
facilement que chacun des autres hommes les peut aussi avoir de soi, parce
qu’il n’y a rien en cela qui dépende d’autrui. C’est pourquoi ils ne méprisent jamais personne [….]. Et, comme ils ne pensent point être de beaucoup inférieurs
à ceux qui ont plus de bien ou d’honneurs, ou même qui ont plus d’esprit, plus
de savoir, plus de beauté, ou généralement qui les surpassent en quelques autres
perfections, aussi ne s’estiment-ils point beaucoup au-dessus de ceux qu’ils surpassent, à cause que toutes ces choses leur semblent être fort peu considérables,
à comparaison de la bonne volonté, pour laquelle seule ils s’estiment, et laquelle ils supposent aussi être ou du moins pouvoir être en chacun des autres
hommes [PA, § 154: AT; XI, 446-7].
Anche senza voler attribuire a Descartes intenzioni che vanno oltre il suo tempo – una “costituzione dell’intersoggettività”, per usare
il nostro linguaggio filosofico – si può rilevare il fatto che egli usa
il caso dell’autostima come una sorta di esperimento rivelatore per
capire come si può “considerare” a sufficienza gli altri, pur riuscendo a essere selettivi rispetto alle troppe sollecitazioni che riceviamo
dalla nostra esposizione ad essi. La riflessione su noi stessi in quanto
soggetti agenti ci permette di ottenere questo risultato, perché essa
ci fa trovare qualcosa di comune a tutti e però anche assolutamente
singolarizzante: la capacità di agire in modo autonomo.
Come interpretare queste novità cartesiane? Certamente, si può
vedere PA come il testo aurorale di un tipo di morale che è caratteristico della modernità, quello che privilegia l’autonomia della persona
(e il “rispetto” che le è dovuto) sull’amore o sul bene comune. Va
detto però che il proclamatore più coerente di questo tipo di morale,
Kant, sottolineò, nella Critica della ragion pratica, la differenza tra
la Achtung, il rispetto morale per la persona, e la Bewunderung, la
meraviglia, che si rivolge alle cose e non alle persone28. Descartes
28
I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft, I Theil, I Buch, 3. Hauptstück.
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– e sono convinto che Kant stesse pensando proprio a lui – non distingue i due casi. Nulla gli è più lontano che offrirci la fondazione
“trascendentale” di una morale personalistica. Nella sua prospettiva,
la costruzione di una regola universale per l’attribuzione della stima
è innanzitutto un rimedio omeopatico contro l’esposizione agli altri
ovvero all’admiration. Si tratta di un problema vitale prima che morale.
Questa impressione viene confermata se individuiamo un sottotesto implicito nella terza parte di PA. L’obiettivo di stabilire una passione legittima del Sé ha un sapore senz’altro polemico nei confronti
dei teologi e delle loro prediche contro “l’amor proprio” e l’orgoglio.
Descartes aveva già segnalato il suo scontento in una lettera del 1645
a Elisabetta, in cui negava che ci si debba per forza «disprezzare»29.
Ma si deve supporre che, nella composizione di PA, egli abbia maturato un progetto più ambizioso di ritorsione. Si concede la condanna
dell’orgoglio nobiliare, ma la figura del «generoso» viene costruita
a bella posta per idealizzare alcuni tratti dell’etica aristocratica – la
visione della vita come auto-sfida – e inocularli nei non-nobili, cioè
in coloro che hanno «difetti di nascita», come il filosofo scrive letteralmente30. Si tratta dunque di difendere il valore della vita mondana e dell’agire. All’interno di un simile programma, le passioni non
potevano più essere un accidente a cui resistere, ma dovevano essere
valorizzate come ciò che soltanto può rendere dolce la vita terrena,
come spiega l’ultimo paragrafo di PA31. Ed è ciò quel che spiega la
29 «Au reste, encore que la vanité qui fait qu’on a meilleure opinion de soy qu’on ne
doit, soit un vice qui n’appartient aux ames foibles et basses, ce n’est pas à dire que les
plus fortes et genereuses se doivent mespriser, mais il faut faire iustice à soy mesme...» [a
Elisabetta, 6 ottobre 1645: AT IV, 307-8].
30 PA § 161 [AT XI 453]. Qui Descartes parte dal presupposto che la «bonne
naissance», cioè l’appartenenza alla nobiltà, sia la causa più frequente dell’abito a stimarsi
in base alle azioni, per poi concedere che «il est certain néanmoins que la bonne institution
sert beaucoup pour corriger les défauts de la naissance». La connotazione di PA come un
testo che tramanda un’etica eroica di matrice aristocratica è usuale a partire almeno da P.
Bénichou, Morales du grand siècle, Gallimard, Paris 1948. La mia ipotesi di una polemica
nascosta contro le morali neo-agostiniane rende più comprensibile la convivenza in PA di
queste tonalità aristocratiche e di un’etica universalistica dell’amicizia.
31 PA § 212 (AT XI, 488]: «Au reste, l’âme peut avoir ses plaisirs à part; mais pour
ceux qui lui sont communs avec le corps, ils dépendent entièrement des passions, en sorte
que les hommes qu’elles peuvent le plus émouvoir sont capables de goûter le plus de
douceur en cette vie».
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decisione di Descartes di aprire la roccaforte dell’anima, rinunciando
a molte soluzioni “dualistiche” della sua precedente filosofia e inventandone altre che partissero dall’analisi di ciò che viviamo in quanto
esseri corporei e in relazione gli uni con gli altri.