Academia.eduAcademia.edu

Moralità e stoicismo ne "Le passioni dell'anima" di Descartes

Je suis maître de moi comme de l'universe; Je le suis, je veux l'être.

MORALITÀ E STOICISMO NE “LE PASSIONI DELL’ANIMA” DI DESCARTES Stefano Pelizzari Je suis maître de moi comme de l’universe; Je le suis, je veux l’être. P. CORNEILLE , Cinna 1. Premessa L’immagine di un Descartes stoico, ripresa e sostenuta anche di recente, era già ampiamente diffusa presso i suoi contemporanei, nonostante egli avesse a più riprese ribadito di non essere si sevère in campo etico e di non appartenere in nessun modo «al numero di quei filosofi crudeli che vogliono che il loro saggio sia insensibile»1. Scrivendo a Elisabetta del Palatinato, egli aveva esplicitamente preso le distanze dall’idea di virtù propria degli stoici, affermando che essa era «così severa e ostile alla voluttà, che solo dei melanconici, o degli spiriti interamente distaccati dal corpo hanno potuto essere suoi seguaci»2; e, in apertura de Le passioni dell’anima (1649), aveva alacremente deplorato le manchevolezze degli antichi nel concepimento e nel trattamento delle passioni, da loro condannate senza appello come fattori destabilizzanti di turbamento e di perdita della ragione3. Staccandosi da questa lunga e consolidata tradizione, di cui anche Hobbes faceva parte, egli 1 Cfr. Descartes a Elisabetta, 18 maggio 1645, B 494 (AT IV 200-204: CCCLXXV), in Tutte le lettere 1619 – 1650, a cura di G. Belgioioso, Milano 2005, p. 2009. Sulle possibili affinità tra Descartes e lo stoicismo: cfr. V. Brochard, Descartes stoïcien. Contribution à l’histoire de la philosophie cartésienne, in Id. Etudes de philosophie ancienne et moderne, Paris 1966, pp. 320-326; J.E. D’Angers, Sénèque, Epictète et le stoïcisme dans l’oeuvre de Renè Descartes, in “Revue de théologie et de philosophie”, IV (1954), pp. 169-196; J. Delhez, Descartes lecteur de Sénèque, in Aa.Vv., Hommage à Marie Delcourt, Bruxelles 1970, pp. 392-401; H. Gouhier, Les premières pensèes de Descartes, Paris 1958, p. 65. 2 Cfr. Descartes a Elisabetta, 18 agosto 1645, B 517 (AT IV 271-278: CCCXCIX) in R. Descartes, Op.cit., p. 2071. 3 Cfr. R. Cartesio, Le passioni dell’anima, a cura di A. Zamboni, Lanciano 1928, p. 2, Capo I: «quel che gli antichi ne hanno detto è così poco, e per la maggior parte così poco credibile, che io non posso avere alcuna speranza di avvicinarmi alla verità, se non allontanandomi dalle vie che essi hanno battute». -1- tendeva piuttosto a rivalutare la loro funzione propulsiva nell’economia generale dell’anima e a considerarle, nelle loro sfumature, come il vero sale della vita: «Esaminandole, le ho trovate quasi tutte buone, e tanto utili alla vita, che la nostra anima non avrebbe motivo di voler restare un sol momento unita al corpo se non potesse provarle»4. Eppure, nonostante la chiarezza di queste affermazioni, già nel 1631, un suo estimatore come Guez de Balzac, in una delle sue lettere, poteva candidamente confidargli che: «quando mi raffiguro il saggio stoico, che solo era libero, solo ricco, solo re, io vedo che da molto tempo era predetta la vostra venuta e Zenone ha creato solo l’immagine del Signor Des Cartes»5. E, più tardi, dopo la veemente polemica spinoziana, anche Leibniz giunse a dichiarare perentoriamente che, in ambito morale, la filosofia cartesiana si rivelava uguale a quella stoica: in re morali eadem est (PhS, IV, 275). Il sorgere di un simile stereotipo merita perciò di essere compreso più da vicino. In questo breve lavoro, in particolare, vorrei centrare l’attenzione su alcune tematiche e posizioni filosofiche espresse da Descartes nella sua ultima opera, le Passioni dell’anima (1649), mostrando come il recupero di alcune concezioni e tecniche spirituali di chiara matrice stoica si vada a innestare su una visione del mondo e dell’uomo che è tuttavia completamente nuova e diversa; a partire da ciò vorrei soffermarmi sulla novità della sua proposta morale, che, restituendo preminenza assiologica alla dimensione emotiva e desiderativa della vita umana, esalta la funzione terapeutica ed eudemonistica della comprensione e della padronanza di sé, individuando la chiave della souveraine félicité nel saggio ammaestramento delle proprie passioni e nella completa signoria delle proprie disposizioni interiori. 2. L’epistolario con Elisabetta: la filosofia come terapia dell’anima Nel 1649, a un anno dalla morte, Descartes pubblicò la sua ultima e tormentata opera, Le passioni dell’anima. Quando la stampa fu ultimata, il filosofo si trovava già a Stoccolma, dove svolgeva la mansione di precettore privato al servizio della regina Cristina di Svezia. La prima redazione 4 Descartes a Chanut, 1 novembre 1646, B 580 (AT IV 534-538: CDLIII), in R. Descartes, Op.cit., p. 2325. 5 Balzac a Descartes, 25 aprile 1631, B 42 (AT I 199-202: XXXII), Ivi, p. 195. Su JeanLouis Guez de Balzac: cfr. J. Jehasse, Guèz de Balzac et le génié romain, Lyon 1977. -2- tuttavia, come sappiamo da Baillet, risale probabilmente all’inverno del 1646, quando Descartes abbozzò «un piccolo trattato sulla natura delle passioni dell’anima»6 per la principessa Elisabetta, figlia di Federico V, elettore palatino e re di Boemia, con la quale aveva da tempo avviato un intenso rapporto epistolare e un fecondo sodalizio intellettuale7. Questa «giovane Principessa, che per l’aspetto e l’età ricorda non Minerva dagli occhi azzurri, o qualcuna delle Muse, ma piuttosto una Grazia»8, era una vera studiosa, dotata di un’intelligenza limpida e di una sensibilità straordinaria, ma che soffriva anche di oscuri e profondi stati depressivi, dovuti a varie vicende personali e all’accumularsi di disgrazie familiari. Aveva 23 anni quando scrisse per la prima volta a Descartes nel 1642, esprimendogli ammirazione per le Meditazioni da poco pubblicate. Da quel giorno nacque un rapporto di stima e di amicizia che durò fino alla morte del filosofo. Nelle sue lettere trovavano posto non solo vivaci richieste filosofiche e scientifiche, ma anche domande personali sul proprio stato di salute e sulla propria condotta di vita. A Descartes si rivolgeva come al «medico della [propria] anima»9, come a colui alla cui saggezza e capacità introspettiva rimetteva e affidava l’equilibrio e la salute della sua vita interiore. In una lettera gli confidava che: «i medici che mi rigirano tutti i giorni ed esaminano tutti i sintomi del mio male non ne hanno trovato la causa, né ordinato rimedi così salutari come avete fatto voi da lontano. Qualora fossero stati così ricchi di dottrina da avanzare dei dubbi sulla parte avuta dalla mia mente nel disordine del corpo, non avrei avuto la franchezza di confessarlo. Ma con voi, Signore, lo faccio senza scrupolo […]. Sappiate dunque che il mio corpo è imbevuto da una gran parte dalle debolezze del mio sesso, così che risente molto facilmente 6 Cfr. A. Baillet, La vie de Monseur Des-Cartes, New York 1987; Una notizia, questa, che trova conferma in una lettera indirizzata da Descartes, il 15 giugno del 1646, a HectorPierre Chanut (1601-1662): «Quest’inverno ho abbozzato un piccolo Trattato sulla Natura delle Passioni dell’Anima, senza avere tuttavia l’intenzione di rivederlo» (cfr. Descartes a Chanut, 15 giugno 1946, in Op.cit.) e in altre lettere a Elisabetta. 7 Sui rapporti tra Descartes e Elisabetta del Palatinato: cfr. E. Michel, Descartes und Prinzessin Elisabeth von Böhmen, “Sudetenland”, 22, 1980, pp. 250-254; L. Shapiro, Princess Elisabeth and Descartes: the union of soul and body and the practice of philosophy, in “British journal for the history of philosophy”, 7, 1999, 3, pp. 503-520; F. de Careil, Descartes, la princesse Elisabeth et la Reine Christine, Paris 1879; V. de Swarte, Descartes, directeur spirituel, Paris 1905; L. Oeing-Hannoff, Descartes und Elisabeth von der Pfalz, in “Philosophisches Jahrbuch”, XCI (1984), pp. 82-106. 8 R. Descartes, Principi della filosofia, in Opere filosofiche, a cura di E. Garin, Bari 1968, p. 51; 9 Elisabetta a Descartes, 6/16 maggio 1643, B 391 (AT III 660-662: CCCI), in Op.cit., p. 1745. -3- delle afflizioni dell’anima e non ha la forza di rimettersi con essa […]. Penso che se la mia vita vi fosse interamente nota, trovereste assai più strano che una mente come la mia si sia conservata così a lungo, tra tante traversie, in un corpo così debole, senz’altro consiglio che quello del proprio ragionamento e senz’altra consolazione che quella della propria coscienza, piuttosto che considerare tali traversie le cause della presente malattia»10 Descartes, di solito così prudente e riservato in tutte le relazioni, si sentì molto coinvolto dalla confidenza mostratagli, e ad ella si aprì completamente. «Vedendo uscire dei discorsi più che umani da un corpo così simile a quello che i pittori attribuiscono agli angeli» egli rimase colpito ed estasiato, «allo stesso modo in cui credo debbano esserlo coloro che, provenendo dalla terra, sono appena entrati in cielo»11. Proprio il filosofo del larvatus prodeo, che, in una nota giovanile, aveva scritto di voler procedere «mascherato» sulla «scena mondana»12, gettò la maschera e si abbandonò con lei ad un dialogo diretto e confidenziale. Le disse delle sue malattie infantili, del modo in cui si era abituato ad affrontare il dolore, dei rimedi migliori che in condizioni di tristezza potevano favorire il benessere del corpo; ma soprattutto la esortò e la spronò alla cura della sua anima, scrivendole che: «c’è da temere che non ne possiate essere liberata, se, in forza della vostra virtù non rasserenate la vostra anima, malgrado i colpi avversi della fortuna. […] Credo che la differenza che passa tra le anime più grandi e quelle basse e volgari consista principalmente nel fatto che le anime volgari si lasciano andare alle loro passioni e sono felici o infelici semplicemente a seconda che le cose che capitano loro siano gradevoli o spiacevoli; mentre le altre seguono ragionamenti così forti e potenti che, benché abbiano anch’esse delle passioni, spesso anche più violente di quelle della gente comune, la loro ragione resta tuttavia sempre padrona e fa in modo che anche le afflizioni servano loro e contribuiscano alla perfetta felicità di cui godono fin da questa vita»13 Non avendo altro desiderio che di «vederla felice e contenta quanto merita», nelle sue lettere si mise a «parlare dei mezzi che la filosofia ci insegna per 10 Elisabetta a Descartes, 24 maggio 1645, B 496 (AT IV 207-211: CCCLXXVII), ivi, p. 2015. 11 Descartes a Elisabetta, 21 maggio 1643, B 392 (AT III 663-668: CCCII), ivi, p. 1747. 12 Cfr. R. Descartes, Cogitationes privatae, in Opere filosofiche, cit. 13 Descartes a Elisabetta, 18 maggio 1645, cit. alla nt. 2. -4- raggiungere quella somma felicità che le anime volgari attendono invano dalla sorte, e che non possiamo avere che da noi stessi»14. E, appoggiandosi alla lettura del De vita beata di Seneca, cominciò ad individuare alcuni esercizi spirituali che, opportunamente messi in pratica, potevano fungere da rimedio e antidoto alle componenti più perturbanti e distruttive delle passioni, portandone alla luce, per converso, gli effetti più benefici e positivi15. Come ben si vede, proprio questa concezione della filosofia come medicina animi e quest’idea della possibile educabilità delle passioni costituiscono il nucleo più profondo e insieme più originario della riflessione svolta più ampiamente e rigorosamente da Descartes ne Le passioni dell’anima. La convinzione di fondo è quella per cui la pratica filosofica, specialmente in ambito morale, non si possa ridurre agli astratti e sterili ragionamenti «che fa un uomo di lettere nel suo studio»16, ma che, ellenisticamente, si debba porre come una therapia, una τέχνη περί βίον, finalizzata alla felicità e alla salute interiore del soggetto. Tale concezione, è bene notarlo, rivela una prima forte affinità tra il pensiero di Descartes e la tradizione stoica. Come aveva scritto Epitteto in un celebre passo: «La filosofia non promette di procurare all’uomo qualcuno dei beni esterni, altrimenti si assumerebbe un compito che è fuori della propria materia. La materia del falegname è il legno, dello scultore il bronzo; allo stesso modo, l’arte del vivere ha per materia la vita stessa di ciascuno».17 E la metafora medica, a lungo presente negli scritti tardo antichi e nello stoicismo latino, era stata esplicitamente ripresa da Seneca nelle sue lettere a Lucilio: «Ti dirò allora che cosa mi è stato di conforto: ma prima voglio dirti che queste cose in cui trovavo sollievo hanno avuto per me l’efficacia di una medicina; i buoni conforti si trasformano in medicine, e, qualunque cosa 14 Descartes a Elisabetta, 21 luglio 1645, B 511 (AT IV 251-253: CCCXCII), in Op.cit., p. 2051. 15 «Uno di questi mezzi (e mi sembra dei più utili) è esaminare quello che gli antichi ne hanno scritto e cercare di superarli aggiungendo qualcosa ai loro precetti: così, infatti, possiamo appropriarci di questi precetti e disporci a metterli in pratica. […] e, affinché le mie lettere non siano del tutto vuote e inutili, mi propongo di riempirle d’ora in poi di considerazioni che trarrò dalla lettura di un libro, ossia quello scritto da Seneca De vita beata» (Ibidem). 16 Cfr. R. Descartes, Discorso sul metodo, a cura di M. Renzoni, Milano 2010, p. 12. 17 Cfr. Epitteto, Le diatribe e i frammenti, a cura di R. Laurenti, Roma-Bari 1989, I, 15, 2, p. 43. -5- sollevi l’anima finisce col giovare anche al corpo. Gli studi sono stati la mia salvezza; è merito della filosofia se mi sono alzato dal letto, se sono guarito: a lei sono debitore della vita, anche se questo è il debito minore che ho con lei».18 Per Descartes, così, proprio come per gli stoici, la filosofia si configura come un’ars vivendi. Essa «educa e forma l’animo, regola la vita, governa le azioni, mostra ciò che si deve o non si deve fare, siede al timone e dirige la rotta attraverso i pericoli di un mare agitato»19. Ma, pur partendo da questa idea di base, il tipo di terapia che giunge a prospettare risulta, nelle forme e nelle finalità, profondamente diverso da quello delineato dai filosofi del Portico. Alla base infatti si trova una concezione diametralmente opposta delle passioni e del loro valore esistenziale, e, di conseguenza, un’idea del tutto diversa di cosa sia salute e di cosa malattia. Su questa concezione occorrerà ora soffermarsi più da vicino. 3. Le passioni come «beni di natura» e la loro base fisiologica Le passioni dell’anima sono tutte costruite attorno a questo assunto fondamentale: dalle passioni dipendono «tutto il bene e il male di questa vita»20. Non dal giudizio degli altri, non dal successo materiale, non dalla gloria, né da nessun’altra delle condizioni esterne. La possibilità della felicità è un seme piantato solo in noi stessi, che si nutre e si sostenta delle nostre tonalità emotive e affettive; sta a noi averne cura e coltivarlo assiduamente, affinché germogliando e mettendo radici, possa abitare la nostra vita. Contro tutta una sedimentata tradizione che aveva considerato le passioni come dei mali da estirpare e come nemici da sconfiggere, Descartes le rimette al centro della vita morale, compiendo un’opera di formidabile riabilitazione del loro valore fisico ed esistenziale. In questo, mi sembra, si segna il primo e fondamentale scarto rispetto alla morale stoica. Esse non vanno affatto estinte alla stregua di un incendio che nella sua indomabilità sa solo essere funesto e distruttivo; e non vanno nemmeno espulse e bandite per sempre dalla cittadella interiore della nostra anima, come energie Cfr. Seneca, Lettere a Lucilio, 78, 3; «Senza la filosofia l’anima è malata; anche il corpo, se pure è in forze, è sano come può esserlo quello di un pazzo o di un forsennato. Perciò, se vorrai star bene, cura soprattutto la salute dell’anima, e poi quella del corpo» (Ivi, 15, 1-2) 19 Id., Epistulae, II, 16, 3. 20 Cfr. PA, Parte III, Capo CCXII, p. 174. 18 -6- demoniache o cieche perversioni della retta ragione21. Esse vanno piuttosto comprese nella loro piena naturalità e nella loro essenziale funzionalità fisiologica: «Mi sembra che si possa in generale definirle: percezioni o sentimenti o emozioni dell’anima che si riferiscono particolarmente ad essa e che sono prodotti, conservati e corroborati per mezzo di qualche movimento degli spiriti» (Capo XXVII)22 «esse dispongono l’anima a volere le cose che la natura ci indica come utili, e a persistere in questa volontà: così come la medesima agitazione degli spiriti, che suole produrle, dispone i corpi ai movimenti che servono ad eseguire queste cose» (Capo LII)23 «non abbiamo affatto ragione di temerle […] Perché vediamo che sono tutte buone per natura, e che noi non abbiamo da evitare che i loro cattivi usi o i loro eccessi» (Capo CCXI)24 Secondo la teoria psicofisiologica cartesiana le passioni sono dei beni di natura, la cui utilità e funzionalità risulta comprensibile solo se studiata in relazione al loro meccanismo corporeo. Egli, in tal senso, riprende la concezione galenica e stoica degli «spiriti animali», reinterpretandola però creativamente in un senso rigorosamente meccanicistico25: le passioni Sull’immagine della cittadella dell’anima: cfr. Marc. Aur., VIII, 48: «Devi ricordare che la facoltà sovrana riesce inespugnabile il giorno in cui in se stessa raccolta decide fermamente di non far cosa contraria al proprio volere; persino se questo suo potere insista nel pretendere cosa contraria alla ragione. E potrà avvenire dunque quando, seguendo la ragione, pronunci sentenza profondamente ponderata? Questo è il motivo per cui la mente è acropoli libera da passioni. Vedi, l’uomo non ha rocca più munita da al suo rifugio, ove per l’avvenire sarà sicuro; nessuno lo potrà afferrare. E allora, chi non ha veduto tale acropoli sarà ignorante; ma chi l’ha veduta e non vi si rifugia, sciagurato»; P. Hadot, La cittadella interiore. Introduzione ai “Pensieri” di Marco Aurelio, Milano 2006; sul concetto di volontà e morale negli stoici vedi, tra gli altri: G. Rodis-Lewis, La morale stoïcienne, Paris 1970; B. Inwood, Ethics and Human Action in Early Stoicism, Oxford 1985. 22 PA, Parte I, Capo XXVII, p. 38. 23 Ivi, Parte II, Capo LII, p.62. 24 Ivi, Parte III, Capo CCXI, p.172. 25 Nota a tal proposito A. Faggi che si tratta di una «dottrina che somiglia a quella degli stoici, i quali ammettevano che dalla sede centrale dell’anima (il cuore per i più, ma per alcuni il cervello) si distendesse in tante correnti e per tanti canali (quasi tentacoli di un polipo) il pneuma, l’aria sottile, lo spirito vitale fino agli organi periferici» (cfr. A. Faggi, Cartesio e le passioni dell’anima, in “Rendiconti del R. Istituto Lombardo di sc. e lett.” Serie II, vol. XLII, 1909; si vedano anche: M. Catapano, Fisiologia e stoicismo nelle Passioni dell’anima di Cartesio, in Syzetesis, aprile 2013; G. Hatfield, Descartes’ 21 -7- dell’anima sono prodotte, conservate e corroborate per mezzo di pura materia in movimento – simile a «un’aria o un vento sottilissimo»26 costituita dalle parti più sottili e attive del sangue, che, uscendo dal cuore, giungono al cervello attraverso i piccoli varchi che permettono l’accesso alle cavità cerebrali; qui determinano un certo movimento della ghiandola pineale, producendo nell’anima la passione, e questo movimento, a sua volta, ne determina meccanicamente degli altri che provocano una certa reazione nel corpo27. In questo modo esse ci predispongono all’azione, ci fanno desiderare le cose utili alla nostra conservazione e «fortificano e fanno persistere nell’anima dei pensieri, i quali è bene che essa conservi, e che potrebbero facilmente, senza [di esse] venir cancellati»28. Il loro radicamento ontologico nella dimensione organica del corpo, in altri termini, fa sì che tutte siano funzionalmente indirizzate alla conservazione della vita e della buona salute e che tutte siano per natura dotate di una loro intrinseca utilità. Non abbiamo da temere che i loro cattivi usi e le loro eccedenze. In tale prospettiva, dunque, non risultano più le passioni tout court le malattie dalle quali ci deve guarire la pratica filosofica; l’ideale regolativo non può più essere quello del raggiungimento di una distaccata apatia mediante una dolorosa soppressione della nostra dimensione emozionale e desiderativa; e la terapia prospettata non è più quella “d’urto” dell’amputazione o dell’estirpazione ad ogni costo. Per Descartes, piuttosto, la condizione patologica si determina solamente nel caso in cui, per mancanza di saggezza o debolezza di volontà, le passioni si tramutano in eccessi in grado di deformare la visione della realtà e di renderci dipendenti dalla fortuna e dagli avvenimenti esterni, rendendoci vulnerabili e fluttuanti. L’idea cui egli fa costante riferimento è quella per cui nostro compito e nostra responsabilità sia quella di restare saldamente padroni in casa nostra. E la terapia, in questo senso, non consiste in altro che in una sorta di ‘training autogeno’, volto a trasformare e a educare abilmente le passioni e a ristabilire la piena signoria della volontà sul reame vasto e silenzioso della nostra vita interiore. physiology and its relation to his psychology, in J. Cottingham (a cura di), Cambridge Companion to Descartes, Cambridge University Press, Cambridge 2005, pp. 21-57, p. 45. 26 Cfr. PA, Parte I, Capo VII, p. 22. 27 Cfr. Ivi, Parte I, Capo XL; XLI; pp. 48-49. 28 Cfr. Ivi, Parte II, Capo LXXIV, p. 73. -8- 4. Esercizi stoici: il dressage, la prémeditation e la maîtrise de soi Descartes ha piena fiducia nel fatto che «anche quelli che hanno le anime più deboli, potrebbero acquisire un dominio assoluto sulle passioni, se solo si dedicassero con industria e arte a educarle e a guidarle»29. La saggezza, a suo parere, dovrebbe insegnare proprio «a rendersene talmente maestri e a maneggiarle con tanta destrezza che i mali da esse causati [diventino] sopportabilissimi, e da tutte si ricavi della gioia»30. Per giungere a questo scopo, ne Le passioni dell’anima, individua ed espone dei veri e propri «esercizi spirituali»31, di chiaro sapore stoico, in grado di condurci alla padronanza dei nostri moti passionali e di far fiorire progressivamente il germe della felicità. Come nel Discorso sul metodo (1623) aveva fornito delle regole procedurali per la ‘ragione teoretica’, così ora fornisce delle indicazioni e un metodo anche per la ‘ragione pratica’. Una breve rassegna di queste tecniche spirituali e dei loro effetti terapeutici ci rivelerà l’approccio cartesiano al problema delle passioni e la peculiarità innovativa della sua proposta morale. Il perno di questi esercizi di controllo e di trasformazione è la volontà, «così libera per sua natura che non può mai subir costrizione»32. Essa ha un’estensione infinita, che giustifica, agli occhi di Descartes, la nostra somiglianza con Dio, ed è ciò che ci rende liberi, responsabili e diversi da tutti gli altri enti. Interrompendo l’automatismo della machine du corps essa è in grado di «far sì che la piccola glandola, alla quale è strettamente congiunta, si disponga nella maniera richiesta»33, consentendoci di deliberare liberamente e di governare i nostri pensieri e le nostre azioni. Le passioni, tuttavia, «non possono direttamente essere eccitate né ostacolate dalla nostra volontà, ma possono esserlo indirettamente dalla 29 La traduzione è mia. Il testo francese recita: «et que ceux même qui ont les plus faibles âmes pourraient acquérir un empire très absolu sur toutes leurs passions, si on employait assez d'industrie à les dresser et à les conduire.». Non trovo del tutto soddisfacente la traduzione di Adolfo Zamboni, in quanto non sembra del tutto fedele alla lettera cartesiana e fraintende, a mio avviso, il fatto che siano le passioni e non gli uomini che necessitino di essere educate e guidate: «anche quelli che hanno le anime più deboli potranno acquistare un dominio assoluto su tutte le loro passioni, se si avrà molta cura nell’indirizzarli e guidarli». (cfr. p. 60) 30 Cfr. PA, Parte III, Capo CCXII, p. 174. 31 Per una definizione generale di questo tipo di tecniche in riferimento alla pratica filosofica: cfr. P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Torino 2008; Id. La filosofia come maniera di vivere, Torino 2008. 32 Cfr. PA, Parte I, Capo XLI, p. 48. Sul tema della volontà in riferimento alle passioni: cfr. R. Bodei, Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità: filosofia e uso politico, Milano 2010, pp. 272-287. 33 Cfr. PA, Parte I, Capo XLI, p. 49. -9- rappresentazione delle cose che vanno congiunte con le passioni che vogliamo avere e che sono contrarie a quelle che vogliamo respingere»34. Così ad esempio: «per suscitare in se stessi l’ardire e impedire la paura, non basta averne la volontà, ma bisogna applicarsi a considerar le ragioni, gli oggetti o gli esempi, i quali persuadono che il pericolo non è grande; che vi è più sicurezza nella difesa che nella fuga; che si avrà la gloria e la gioia di aver vinto, mentre dalla fuga non possono che derivare che rimorso e vergogna, e simili».35 La volontà, in altri termini, non può contrastare direttamente le passioni o i loro eccessi, ma può esercitare una forma di controllo indiretto passando attraverso il meccanismo corporeo che le produce. Stante il fatto che ogni passione è legata al movimento degli spiriti messo in moto da una certa rappresentazione mentale, noi possiamo lavorare su questa rappresentazione mentale in modo da mutarne l’aspetto e da agire così sulla passione correlata. Descartes, in tal modo, giunge a teorizzare, come primo esercizio spirituale, un vero e proprio dressage fisiologico degli affetti36, una sorta di addestramento interiore volto a ricombinare in maniera diversa passioni e abitudini, istituendo nuovi legami tra determinate situazioni esterne e le rappresentazioni mentali che le accompagnano: «Così, quando un cane vede una pernice, naturalmente è portato a correrle dietro, e quando sente lo sparo d’un fucile è naturalmente incitato dal rumore a fuggire; ma, nondimeno, si addestrano d’ordinario i cani da fermo in maniera che la vista d’una pernice fa sì che essi si arrestino, e il rumore che odono quando si tira addosso all’uccello, fa che essi accorrano. Ora, queste cose sono utili a sapersi, per dare a uno qualunque il coraggio di studiarsi a regolare le sue passioni. Infatti, dal momento che si può, con qualche cura, cambiare i movimenti del cervello agli animali sprovvisti di ragione, è evidente che lo si può ancor meglio negli uomini»37 In particolare, come scrive a Elisabetta, nel fare questo, si avrà cura di «liberare interamente la mente da ogni pensiero triste […] e di considerare 34 Cfr. PA, Parte I, Capo XLV, p. 52. Ibidem. 36 Cfr. R. Bodei, Op.cit., pp. 270-271. 37 Cfr. PA, Parte I, Capo L, pp.59-60. 35 - 10 - le cose dal lato che ce le può rendere più piacevoli» in modo da addestrarci a considerare il volto luminoso degli avvenimenti e a fare sì che «la nostra principale soddisfazione non dipenda che da noi soli»38. Il consolidarsi di queste nuove abitudini consentirà a ciascuno di cambiare se stesso e di far trionfare gioiosamente la propria volontà. Si tratterà, per dirla con Plotino, di «scolpire la propria statua»39, di forgiare e plasmare – stoicamente – la propria natura. Il secondo esercizio spirituale che Descartes giunge a proporre riguarda invece il saggio e ponderato disciplinamento delle nostre inclinazioni e dei nostri desideri. Posto che «le passioni non ci possono indurre ad alcuna azione se non per mezzo del desiderio che esse suscitano»; allora, per essere felici, «dobbiamo precisamente aver cura di regolare questo desiderio; in ciò consiste la principale utilità della Morale»40. Come aveva scritto nel Discorso sul metodo, si tratterà di «cercare di vincere noi stessi piuttosto che la fortuna, e di cambiare i nostri desideri anziché l’ordine del mondo e, in generale di assuefarci a credere che non vi è nulla interamente in nostro potere, se non i nostri pensieri»41. In accordo con tutta la tradizione stoica, Descartes, individua il segreto della vita serena e della tranquillitas animi nel saper orientare le proprie aspirazioni verso ciò che effettivamente dipende da noi, astenendosi dal «desiderare con passione» le cose che invece sfuggono al nostro controllo; e questo: «non soltanto a cagione che [queste cose] possono non verificarsi, e quindi addolorarci tanto più profondamente quanto più le avevamo desiderate; ma soprattutto perché, tenendo occupato il nostro pensiero, esse impediscono che noi possiamo rivolgere il nostro affetto ad altre cose, la cui acquisizione dipende da noi»42 Egli, in questo modo, non ha un concetto punitivo e auto-costrittivo del volere e della ragione. Non tende a una sconfitta e a un asservimento 38 Descartes a Elisabetta, maggio o giugno 1645, B 498 (AT IV 218-222: CCCLXXX), in Op.cit., p. 2021. 39 Cfr. Plotino, Enneadi, a cura di G. Faggin, Milano 1992, I, 6, 9, pp. 141-143: «Ritorna in te stesso e guarda: se non ti vedi ancora interiormente bello, fa’ come lo scultore di una statua che deve diventar bella. Egli toglie, raschia, liscia, ripulisce, finché nel marmo appaia la bella immagine: come lui, leva tu il superfluo, raddrizza ciò che è obliquo, purifica ciò che è fosco e rendilo brillante e non cessare di scolpire la tua propria statua, finché non ti si manifesti lo splendore divino della virtù». 40 Cfr. PA, Parte II, Capo CXLIV, p.125. 41 R. Descartes, Discorso sul metodo, cit., pp. 27-28. 42 Cfr. PA, Parte II, Capo CXLV, p. 126. - 11 - doloroso dei desideri ribelli. Mira semmai a canalizzare la loro energia propulsiva verso mete reali e raggiungibili, in modo da evitare una frustrante dispersione e da procurare in ogni momento una piena e autentica soddisfazione43. Da questa prospettiva, quindi, egli si oppone a tutte le etiche della rinuncia che propugnano una soppressione del desiderio tramite il richiamo ai principi morali o l’utilizzo di tecniche devozionali44; per lui il problema, infatti, non è «che si desideri troppo, ma che si desideri troppo poco»: «E il rimedio sovrano in tal caso consiste nel liberare il più possibile lo spirito da ogni specie di altri desideri meno utili, e poi di studiarsi di conoscere ben chiaramente, e di considerare con attenzione la bontà di ciò che merita di essere desiderato»45 L’esercizio interiore, in questo senso, consisterà in una accurata prémeditation, in una «riflessione anticipata» volta a «distinguere esattamente in tutte le cose ciò che dipende soltanto da noi, per estendere a questo solo il nostro desiderio»46; e, per quanto riguarda le cose che non dipendono da noi, nel «convincersi che tutto è stabilito dalla Provvidenza divina, il cui decreto eterno è così infallibile e immutabile che […] non possiamo senza errore desiderare che avvenga diversamente». In questo modo eviteremo di vincolare la nostra felicità a ciò che sfugge al nostro controllo e, rendendoci invulnerabili ai colpi della fortuna, conseguiremo quell’intima soddisfazione interiore che è la gioia più alta di cui possiamo godere in questa vita. Il richiamo alla morale stoica è sotto questo profilo chiaro ed esplicito: «Riconosco che ci vuole un lungo esercizio e una meditazione spesso rinnovata, per abituarsi a considerare tutte le cose da questo punto di vista, 43 Claude Bénichou ha ben colto, in questo senso, le intenzioni di Descartes: in lui «la perfezione morale sembra consistere appunto in un’armonia tra il desiderio e la libertà; essa si realizza nei cuori magnanimi in quanto desiderio, mirando a oggetti degni; non aliena la libertà dell’io, che è solo un altro nome della sua dignità […]. Non va dimenticato che il principale motivo ispiratore di questa morale è la volontà di valorizzare pienamente l’io, di renderlo sovrano, sovranità che sarebbe compromessa sia dall’esplodere del desiderio, sia dal suo soffocamento» (cfr. C. Bénichou, Morali del ‘Grand Siècle’. Cultura e società nel Seicento francese, Bologna 1990, p.20). 44 Ad esempio: cfr. F. de Sales, Introducion à la vie dévote, III, XXVII: Les désirs, in Oeuvres, Paris 1969, trad.it. Introduzione alla vita devota, Milano 1986, pp. 296 sgg.; cfr. L. Chatellier, L’Europe des dévots, Paris 1987. 45 Cfr. PA, Parte II, Capo CXLIV, pp.125-126. 46 Cfr. Ivi, Parte II, Capo CXLVI, pp. 127-128. - 12 - ma io credo che in questo soprattutto consistesse il segreto di quei filosofi che in altri tempi sono riusciti a sottrarsi all’impero della fortuna e, nonostante tutti i dolori e le indigenze, a gareggiare in beatitudine con le loro divinità. Infatti […] si convincevano a tal punto che nulla era in loro potere oltre i loro pensieri, che questo solo bastava a impedire loro di avere qualche attaccamento per le altre cose; e dei loro pensieri erano padroni in modo così completo che non del tutto a torto ritenevano di essere più ricchi, più potenti, più liberi e più felici di tutti gli altri uomini».47 Il terzo e ultimo esercizio spirituale individuato da Descartes ne Le passioni dell’anima viene da lui considerato come «il rimedio più generale e più facile a praticarsi, contro tutti gli eccessi delle passioni», e deve arrivare, come egli stesso ci avvisa, dove i due precedentemente enunciati non giungono: «Poiché ho messi fra questi rimedi la premeditazione e l’arte colla quale si possono correggere i difetti della propria natura, studiandosi di separare in sé i movimenti del sangue e degli spiriti dai pensieri ai quali sono di solito uniti: confesso che vi sono pochi che si siano sufficientemente preparati in questo senso contro ogni sorta di occasioni, e che questi movimenti eccitati nel sangue dagli oggetti delle passioni, derivano in modo così immediato dalle impressioni che si formano nel cervello […] che non esiste saggezza umana capace di resister loro quando non vi si è sufficientemente preparati»48 La varietà delle vicende umane e l’imprevedibilità imponderabile degli eventi fanno sì che non si possa essere sempre preparati ad affrontare tutte le situazioni e tutte le passioni che ci si presentano. Descartes, così immerso nello studio del gran «libro del mondo»49, non può che esserne consapevole. Ciò nonostante egli rimane convinto che di fronte a qualsiasi avvenimento si possa sempre restare padroni della propria disposizione interiore e che, grazie all’esercizio della volontà, si possa ugualmente raggiungere la padronanza delle proprie emozioni, la maîtrise de soi. Basterà ricordarsi che: 47 R. Descartes, Discorso sul metodo, cit., p. 28-29. Cfr. PA, Parte III, Capo CCXI, p.172. 49 R. Descartes, Discorso sul metodo, cit., p. 13. 48 - 13 - «tutto ciò che si presenta all’immaginazione, tende ad ingannare l’animo e a fargli apparire assai più forti che non siano tutte le ragioni che servono a persuadere dell’oggetto della sua passione e assai più deboli quelle che servono a dissuaderlo» E, cercando di «distrarsi con altri pensieri fin tanto che il tempo ed il riposo abbiano calmata l’agitazione del sangue», fare in modo che «la volontà si porti principalmente a considerare e a seguire le ragioni contrarie a quelle dettate dalla passione, anche se sembrano meno forti»50. Per lo scienziato Descartes, che si era a lungo occupato di ottica, le passioni funzionano esattamente come delle lenti di ingrandimento, che, ingigantendo i loro oggetti «fanno sempre apparire molto più grandi ed importanti del vero tanto i beni quanto i mali»51; e, se fuori controllo, esse possono presentare ai sensi e all’immaginazione un’immagine sfalsata e deformata della realtà. Tramite la direzione della volontà e l’uso sapiente dell’intelletto è però sempre possibile ridimensionare il formato delle immagini del desiderio e delle opinioni infondate, riducendole a proporzioni adeguate e diminuendone l’incidenza perturbativa sull’anima. Una giusta presa di distanza e una lucida comprensione intellettuale consentono di correggere la loro aberrazione ottica e di mettere meglio a fuoco il mondo, limitando lo strapotere delle cause esterne e rendendoci padroni consapevoli delle nostre risposte emotive. 5. Conclusione Per Descartes così, la libera volontà e la luce dell’intelletto possono condurre, se ben diretti, alla saggia padronanza delle proprie passioni e a quella joye intellectuelle che deriva all’anima dalla conoscenza della sua potenza e perfezione52. L’uomo virtuoso, quasi maître et possesseur de la nature, non risulta affatto caratterizzato da un apatico distacco, ma è piuttosto pervaso dalla tonalità emotiva della ‘generosità’, per cui egli «si stima al più alto grado» per «questa libera disposizione della sua volontà» e per la «ferma e costante risoluzione a usarne bene»53. Artefice di se stesso e 50 Cfr. PA, Parte III, Capo CCXI, p. 174. Cfr. Ivi, Parte II, Capo CXXXVIII, p. 120. 52 Cfr. Ivi, Parte II, Capo CXLVII; Capo CXLVIII. 53 Cfr. Ivi, Parte III, Capo CLIII, pp.134-135. 51 - 14 - delle proprie disposizioni interiori, egli vive una vita che cerca la vita e non una vita che cerca la morte54. L’affinità che sotto il profilo morale possiamo rinvenire tra il pensiero cartesiano e quello degli stoici, merita dunque di essere ripensata in termini più precisi e rigorosi. Se innegabile è la ripresa puntuale di alcune classiche tecniche di controllo e del compito terapeutico della filosofia, altrettanto evidente risulta però essere, per converso, la distanza nella concezione dei fenomeni passionali e nelle finalità con cui tali tecniche devono venir applicate. Nel contesto seicentesco di rinascita dello stoicismo, entro cui, a diverso titolo, si situano anche Charron, Giusto Lipsio e Guillaume du Vair, l’opera di Descartes occupa quindi, a ben vedere, un posto del tutto particolare. Nata sul terreno dell’esperienza personale, essa si pone come un interessantissimo caso di conciliazione fra il vecchio e il nuovo, come un originale tentativo di ricomposizione delle classiche istanze morali ed etiche con le scoperte della nuova fisiologia meccanicista. E questo in nome di quella medesima vocazione pratica che, ai suoi occhi, doveva ricostituirsi come il tratto saliente e fondamentale della nuova filosofia. 54 Secondo la bella immagine di Davide Rondoni: «i sentimenti cambiano, non la lotta / tra la vita che cerca la vita / e la vita che cerca la morte» (da L’amore all’inizio e alla fine in D. Rondoni, Apocalisse Amore, Milano 2008). - 15 -