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Capitolo 3
Diritti umani e differenza culturale
di Javier González Díez e Cristina Vargas Montoya
1.
Premessa
L’antropologia è uno dei campi di studio delle scienze umane e sociali più
inscindibilmente e profondamente legati al relativismo culturale. Molto spesso gli
antropologi si sono quindi limitati a liquidare il concetto di diritti umani molto
rapidamente, vedendo in esso delle pretese universali che poco si accordano con lo
spirito e i risultati ottenuti dalla ricerca antropologica, privilegiante invece la
differenza culturale. Sul fronte opposto, i diritti umani e la Dichiarazione del 1948
sono stati invece oggetto di un vero e proprio processo di
naturalizzazione/sacralizzazione da parte di un ampio fronte scientifico-politico
che ha voluto sottrarli alla loro condizione di prodotto storico ben contestualizzato
e radicato nell’ambito di una cultura specifica, quella euro-americana, che ha
sempre avuto un’elevata vocazione universalista a scapito di tutte le altre forme di
cultura e umanità.
Fra queste due posizioni estreme esistono però ampi spazi di riflessione, alcuni
– pochi – già battuti, altri – molti – ancora da percorrere. Il vuoto si evidenzia nel
fatto che, al momento, il dibattito ha interessato soltanto alcuni settori
dell’antropologia americana, essendo ignorato da praticamente quasi tutte le
scuole accademiche europee e dalla maggior parti delle correnti di pensiero di
successo dell’antropologia contemporanea.
Questo capitolo è frutto di una riflessione comune iniziata nell’ambito del ciclo di seminari
“Fare Antropologia Oggi”, organizzato nel 2007 dai dottorandi Dipartimento di Scienze
Antropologiche, Archeologiche e Storico-Territoriali dell’Università di Torino. Benché la
progettazione e la ricerca bibliografica siano frutto di un lavoro comune, nell’economia della
ricerca sono stati redatti da Javier González Díez i paragrafi 1, 2, 3, 5, 6, da Cristina Vargas
Montoya i paragrafi 4, 7, 8, 9.
Diritti umani e differenza culturale
Noi riteniamo che questo vuoto sia da deplorare, in quanto rinunciando ad
affrontare in modo serio il rapporto con i diritti umani, l’antropologia e gli
antropologi rinunciano a esprimersi su una delle questioni-chiave della nostra
epoca; tutto ciò da una parte facendo torto al proprio spirito di disciplina di
interpretazione e dialogo fra le culture – ampiamente evidenziato invece nella
pratica della ricerca etnografica – dall’altra lasciando in mano a estremisti di tutti i
tipi – dai fautori interessati di un relativismo estremo e grezzo ai fondamentalisti
di un concetto di diritti umani quasi trascendente e indiscutibile – delle questioni
sulle quali i risultati di oltre un secolo di ricerche e studi possono contribuire
invece a dire qualcosa.
Non dimentichiamo che la pratica della ricerca etnografica ha posto gli
antropologi a stretto contatto con un’ampia serie di situazioni (violenza, conflitti
per l’accesso alle risorse, situazioni di dominio/sottomissione/sfruttamento,
richieste di riconoscimento, ecc) nelle quali spesso la neutralità del ricercatore è
messa a dura prova; la profonda conoscenza dei contesti etnografici e la continua
frequentazione di luoghi extra-occidentali hanno reso la figura dell’antropologo
abbastanza emblematica, in molti casi una sorta di portavoce dei gruppi umani
maggiormente esclusi ed emarginati.
Come rapportare il lavoro e i frutti della ricerca antropologica con il sistema e il
linguaggio, oggi dominante a livello internazionale, dei diritti umani, sopratutto
quando spesso questo è rifiutato o adottato esplicitamente e consapevolmente
dalle popolazioni con le quali gli etnografi lavorano, è un tema di grande interesse
per la nostra disciplina. Le pagine che seguono non pretendono essere esaustive di
questo ampio argomento, ma piuttosto cercheranno di presentare alcuni spunti di
riflessione e molte questioni aperte, che speriamo possano contribuire a uno
sviluppo del dibattito in ambito italiano.
2.
Il nodo relativista
Il rapporto fra i diritti umani e l’antropologia culturale è sempre stato ambivalente
e problematico. Se da una parte, infatti, le ricerche antropologiche hanno
fortemente contribuito alla costruzione di quel clima scientifico, culturale e
intellettuale sul quale si fonda la Dichiarazione universale dei diritti umani del
1948, dall’altra, la stessa Dichiarazione è stata spesso investita di un valore
universalista che allontana da sé il relativismo dell’antropologia, considerandolo
allo stesso tempo una minaccia dalla quale difendersi e un avversario da
combattere. Il relativismo antropologico, d’altro canto, è stato usato spesso anche
per negare la validità della Dichiarazione, o, meglio, delle sue pretese di
Questioni di confine
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assolutezza e di validità universale. Si tratta senz’altro di un destino paradossale
per una prospettiva senza i cui risultati intellettuali – la confutazione
dell’etnocentrismo e del razzismo, l’affermazione del pluralismo e della pari
dignità fra individui e culture – sarebbe difficile immaginare il concetto stesso di
diritti umani.
Le nostre riflessioni inizieranno dal dibattito sul relativismo culturale che
caratterizza la nostra società e che, come vedremo, ha avuto una componente di
rilievo nel difficile rapporto fra l’antropologia e i Diritti umani. Il relativismo
culturale, ormai dato per scontato dalla quasi totalità degli antropologi, è una
prospettiva che desta però molte inquietudini e preoccupazioni in ambienti molto
diversi. La maggioranza degli antropologi fanno fatica a pensare alla loro
disciplina senza l’assunto di base del relativismo, costantemente alimentato e
rinforzato dai risultati scientifici della ricerca stessa.
Per gli antropologi, il relativismo è il concetto che si oppone all’etnocentrismo,
al razzismo, all’idea evoluzionista di una gerarchia morale fra le culture e le
società. Spesso risulta quindi sconcertante per un antropologo “scoprire” che
queste idee, contemporaneamente fondamento e risultato del suo lavoro, non solo
non siano approvate da tutti, ma vengano persino osteggiate e avversate come il
“male assoluto” della nostra civiltà. In primo luogo dalla Chiesa cattolica e dal
Papa, da alcuni anni impegnati in una seria crociata contro la “dittatura del
relativismo”, contro il degrado morale e nichilista che la nostra società subisce a
causa di questa prospettiva intellettuale161. Oltre alla Chiesa cattolica e a tanti altri
movimenti religiosi, l’antropologo rimane però spesso ancora più spiazzato
quando a combattere il relativismo sono soggetti più laici e secolari, intellettuali
senza connotazioni religiose, filosofi162 e politologi e, infine, molti studiosi ed
esperti dei diritti umani163. Una strana alleanza sembra unire tutti questi soggetti in
apparenza molto diversi fra loro nell’opporsi categoricamente alla prospettiva
relativista164.
161
Per una discussione di questi temi, cfr. F. REMOTTI, Contro natura. Una lettera al Papa, Roma-
Bari, 2009.
162
Un esempio recente: D. MARCONI, Per la verità: relativismo e filosofia, Torino, 2007.
163
J. DONNELLY, Universal Human Rights in Theory and Practice, Ithaca, 2003.
164
Appare quindi particolare che l’edizione italiana di un volume collettaneo sui diritti umani
comprendente gli scritti di intellettuali anglo-sassoni assai poco sospetti di connotazioni religiose
(S. SHUTE, S. HURLEY (eds.), I diritti umani. Oxford Amnesty Lectures 1993, Milano, 1994), reciti nella
quarta di copertina che “la questione dei diritti umani è centrale in un’epoca come la nostra,
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Diritti umani e differenza culturale
Il complesso rapporto fra antropologia e diritti umani si gioca quindi a partire
da tale questione, dalla contrapposizione fra una prospettiva relativista che vede
tali diritti come una costruzione culturale storicamente e geograficamente ben
determinata e un’altra che, all’opposto, tende a considerarli dotati di
un’universalità che si sottrae alle particolarità locali e contestuali presentate dalle
varie culture.
3.
Le origini
Questa opposizione risale già al 1947 quando, un anno prima della pubblicazione
della Dichiarazione universale dei diritti umani, “American Anthropologist”,
rivista ufficiale dell’American Anthropologist Association (AAA) pubblicò un
documento intitolato Statement on Human Rights, a firma dell’Executive Board
dell’Associazione165. Il documento era stato redatto da Melville Herskovits,
all’epoca membro del Board dell’AAA nonché uno dei più eminenti antropologi
americani del tempo. La dichiarazione era il risultato di una richiesta di parere che
era stata chiesta allo stesso Herskovits dall’UNESCO in quanto egli ricopriva la
carica di presidente del Comitato per la cooperazione internazionale in
antropologia del Consiglio Nazionale delle Ricerche americano. L’UNESCO stava
raccogliendo all’epoca tutta una serie di pareri che sarebbero stati poi inviati alla
commissione che alle Nazioni Unite stava redigendo la Dichiarazione. Dopo avere
redatto lo Statement per questi fini, Herskovits lo sottopose al Board dell’AAA e
questi decise di farlo proprio e di darne pubblicazione166.
Lo Statement poneva delle serie critiche all’idea di redigere una Dichiarazione
universale sui diritti umani, che rientravano nell’ordine delle osservazioni
epistemologiche, empiriche ed etiche. Da un punto di vista epistemologico,
Herskovits considerava che l’antropologia, o meglio i risultati della ricerca
antropologica, non potessero essere usati per legittimare l’idea dei diritti umani
universali. Secondo il suo parere, infatti, le scienze umane non avevano sviluppato
dei metodi che consentissero di poter valutare un ipotetico elenco di presunti
diritti umani in rapporto a tutti gli altri sistemi morali e legali esistenti nel mondo
165
American Anthropologist Association (AAA), Statement on Human Rights, in “American
Anthropologist”, 1947, 49, pp. 539-543.
166
Mark Goodale ha ricostruito che, contrariamente a quanto invece è stato spesso affermato,
dilaniata da feroci conflitti e contemporaneamente sospesa tra l’aspirazione all’universalità e il
lo Statement fu chiesto a Herskovits personalmente in virtù della sua posizione e della sua fama, e
dubbio scettico e relativista”; un lessico molto vicino a quello attuale del Papa, e neanche troppo
non direttamente all’American Anthropologist Association, che solo in un secondo tempo venne
lontano concettualmente dal suo continuo accostamento fra mali del mondo e relativismo
coinvolta e che quindi non faceva parte di tutte quelle istituzioni consultate dall’UNESCO. Cfr. M.
culturale.
GOODALE, Surrendering to Utopia. An Anthropology of Human Rights, Stanford, 2009, pp. 19-25.
Questioni di confine
79
e che spesso si scontravano con la lista di diritti che le Nazioni Unite stavano
prendendo in considerazione. L’antropologia non poteva risolvere questi conflitti
fra sistemi morali diversi fornendo i dati necessari per appoggiare scientificamente
l’idea dell’esistenza di diritti universali o naturali.
Da un punto di vista empirico, tuttavia, Herskovits andava oltre, indicando che
l’evidenza di un cinquantennio di ricerche etnografiche indicava che non solo era
difficile rintracciare qualcosa che fosse inteso come un diritto universale, ma che,
anzi, “le molte maniere in cui l’uomo risolve il problema della sussistenza, della
vita sociale, della regolamentazione politica della vita del gruppo, di cercare un
accordo con l’universo e di soddisfare le proprie strade estetiche” emergevano in
maniera tale che non si sarebbero trovati due popoli che “facessero tutto ciò
esattamente allo stesso modo”, impiegando invece metodi completamente diversi
e contrastanti fra loro167.
Lo Statement distingueva nel concetto di diritti umani due dimensioni, una
descrittiva e una prescrittiva. Herskovits considerava i diritti umani inesistenti da
un punto di vista descrittivo, in quanto essi erano epistemologicamente
impensabili ed empiricamente irrintracciabili agli occhi della scienza
antropologica. Da un punto di vista prescrittivo, invece, i diritti umani potevano
essere postulati, ma anche in questo caso Herskovits muoveva delle critiche,
questa volta di tipo etico. Innanzitutto, egli osservava che la bozza di
Dichiarazione delle Nazioni Unite si muoveva in direzione opposta a quanto da lui
auspicato metodologicamente. Invece di cercare da un punto di vista empirico
cosa sarebbe stato possibile considerare come diritti umani, elaborando quindi una
dichiarazione che fosse interculturale, la Commissione per i diritti umani guidata
da Eleanor Roosevelt lavorava per creare concetti ancorati esclusivamente alla
filosofia politica occidentale. Il rischio era, secondo Herskovits, di creare un nuovo
sistema di pensiero con pretese universali che si sarebbe considerato superiore agli
altri, una dottrina che sarebbe stata impiegata “per accrescere lo sfruttamento
economico e [...] negare a milioni di persone in tutto il mondo il diritto di controllo
sui propri affari”168. La Dichiarazione universale sarebbe stata una “cortina di
fumo legale per l’oppressione di un gruppo di esseri umani da parte di un altro”169,
in linea con la storia europea di dominio sul resto del mondo in nome dei principi
e dei valori. Herskovits considerava che la Dichiarazione non fosse altro che “una
serie di aspirazioni circoscritte dai criteri di un’unica cultura”170, quindi fosse di
167
AAA, Statement on Human Rights, cit., p. 542.
168
Ivi, p. 543.
169
Ibidem.
170
Ibidem.
80
Diritti umani e differenza culturale
portata limitata. Nel reclamarsi universale, essa avrebbe escluso molta più gente di
quanta avrebbe voluto includere.
Questo approccio così negativo e – bisogna riconoscerlo – controcorrente che
l’antropologia americana adottò in quegli anni nei confronti del sistema dei diritti
umani rispondeva però a due cause fondamentali. Da una parte, il culturalismo
forte che connotava l’antropologia americana in quegli anni e che tutti gli allievi di
Franz Boas (Melville Herskovits, Ruth Benedict, Margareth Mead, Gregory
Bateson, ecc) condividevano come paradigma e programma di lavoro. Il
culturalismo considerava le culture nella loro particolarità storico-geografica e
rifiutava l’idea di un percorso evolutivo unilineare comune a tutti i popoli. Il
relativismo culturale era una conseguenza di questa prospettiva scientifica
attraverso la quale la disciplina era riuscita a liberarsi dal vecchio paradigma
evoluzionista. Esso era quindi inteso sia come un punto forte della teoria
antropologica che come un principio etico e deontologico della professione. Le due
cose andavano di pari passo e per Herskovits difendere il relativismo voleva dire
fare ricerca in modo corretto quanto difendere la dignità e i diritti delle
popolazioni indigene di tutto il mondo. Gli antropologi americani si sentivano
allora – come oggi – i portavoce dei popoli studiati e il fatto stesso che le Nazioni
Unite all’epoca contassero soltanto una cinquantina di Stati, escludendo tutte le
colonie, rendeva ai loro occhi la Dichiarazione come meno rappresentativa.
La seconda causa era più generale e riguardava il clima politico e intellettuale
di quei tempi. La fine della Seconda guerra mondiale, gli orrori del nazismo e del
fascismo, la paura negli USA del comunismo, erano tutte esperienze che la classe
intellettuale voleva lasciarsi alle spalle. Ma così come Eleanor Roosevelt vedeva la
Dichiarazione come il mezzo per allontanarsi da questa esperienza, Melville
Herskovits la avversava in quanto la considerava un nuovo strumento di
oppressione e dominio, di negazione e distruzione della diversità culturale.
Paradossalmente, condividendo le stesse preoccupazioni, antropologi da una
parte, giuristi, politologi e filosofi dall’altra, raggiungevano conclusioni e posizioni
opposte.
Lo Statement lasciò un’eredità abbastanza pesante nell’antropologia,
allontanandola dal sistema dei Diritti umani. Nei decenni successivi, gli
antropologi si disinteressarono quasi totalmente da questo argomento, al punto di
eliminarlo dall’orizzonte della riflessione teorica ed epistemologica. Soltanto negli
anni Ottanta inizia di nuovo a manifestarsi un interesse nei confronti del rapporto
fra antropologia e diritti umani, e inizia a svilupparsi un progressivo dibattito sia
teorico che etico-professionale.
Questioni di confine
4.
81
I decenni di mezzo
Il percorso che portò gli antropologi a “riavvicinarsi” al tema dei diritti umani è
stato piuttosto accidentato e discontinuo. Dopo il 1948 l’attenzione per
l’argomento sembrò subire una battuta d’arresto, per riacquistare importanza solo
negli anni Ottanta, all’insegna dell’attivismo in favore dei diritti dei popoli
indigeni
Ammettere che, con poche eccezioni, il tema dei diritti umani scomparve dal
panorama antropologico per quasi quarant’anni, non implica tuttavia affermare
che non ci fossero altri ambiti in cui si manifestasse l’impegno pubblico degli
antropologi171: ne sono esempio il coinvolgimento di Claude Lévi-Strauss172 e
Ashley Montagu nell’elaborazione della Dichiarazione sulla razza dell’UNESCO
del 1950, o la partecipazione di alcuni antropologi nella questione dei diritti civili e
nella tutela dei diritti dei popoli indigeni e dei nativi americani. Tuttavia, il
discorso sui diritti umani non fu né il motore né il referente principale di questi
interventi antropologici, le cui motivazioni vanno inizialmente cercate nella lotta
contro il razzismo, nella critica al colonialismo e nel marxismo.
Nel corso degli anni Cinquanta, ma soprattutto nei decenni successivi, la
questione
dell’impegno
sociale
e
politico
dell’antropologia
acquisì
progressivamente importanza, ponendosi in modo sempre più pregnante e
consapevole. Le trasformazioni disciplinari andavano di pari passo con la
diffusione e il radicamento dei grandi movimenti sociali che segnarono gli anni
Sessanta e Settanta: le richieste di uguaglianza giuridica degli afroamericani, i
processi di decolonizzazione in Africa, il sessantotto, le lotte rivoluzionarie in
America Latina, le proteste contro l’invasione del Vietnam, il femminismo.
Le scienze sociali e umane, fra cui l’antropologia, non furono estranee a queste
dinamiche sociali. I movimenti africani di decolonizzazione e la pubblicazione di
lavori come I dannati della terra di Frantz Fanon173 comportarono necessariamente,
anche se non immediatamente, un ripensamento del rapporto fra antropologia e
colonialismo e, negli anni Settanta, vennero pubblicati i primi lavori integralmente
dedicati all’argomento174. Una forte ondata di auto-critica portò a rileggere sotto
una luce nuova la storia dell’antropologia, giungendo a riconoscere i complessi
legami che uniscono la nascita della disciplina stessa al passato coloniale.
82
Diritti umani e differenza culturale
Benché nel pensiero antropologico vi fosse già una tendenza forte a mettere
discussione i presupposti del pensiero occidentale, la cui rappresentazione in
termini di “universalità” o “naturalità” tendeva a oscurare il loro carattere di
costruzione culturale storicamente situata e il loro carico di etnocentrismo175, era
necessario anche prendere atto del ruolo della storia coloniale europea nella
costruzione del sapere antropologico.
Queste riflessioni andavano di pari passo con una maggiore attenzione al ruolo
della politica e all’incidenza delle dinamiche di potere nel rapporto fra
l’antropologo e la società studiata. La consapevolezza che il sapere antropologico
poteva, in sé, configurarsi come strumento di legittimazione del dominio coloniale
e postcoloniale, innescò un ripensamento profondo che investì alcune delle
categorie più consolidate dell’antropologia, fra cui il concetto stesso di cultura.
L’attenzione al ruolo del potere egemonico europeo, dunque, si snodava su due
linee: da una parte non era più accettabile fornire delle descrizioni etnografiche
della vita quotidiana, le istituzioni, i riti o i sistemi politici tradizionali dei popoli
colonizzati, senza tenere conto della storia coloniale e delle sue implicazioni;
dall’altra era necessario riconoscere che tale storia impregnava profondamente i
presupposti teorici dell’antropologia. Come ha scritto Talal Asad “il potere
europeo, in quanto discorso e in quanto pratica, è sempre stato parte della realtà
che gli antropologi cercavano di capire e del modo in cui cercavano di capirla”.176
Molti anni più tardi Arturo Escobar avrebbe parlato del paradosso
dell’antropologia, una disciplina che “è allo stesso tempo inestricabilmente legata
alla dominazione storica ed epistemologica occidentale e principio radicale di
critica ad essa”177.
Questa ondata di auto critica portò anche con sé una nuova idea del ruolo
dell’antropologo nella società. Più che come “osservatori neutrali”, un buon
numero di antropologi sentì il bisogno di posizionarsi attivamente, diventando
portavoci di quelle rivendicazioni di uguaglianza e di liberazione nate all’interno
dei popoli da loro studiati. Questo posizionamento si declinò in prima istanza in
senso politico e lo spazio del discorso sui diritti umani occupò, quantomeno
inizialmente, una posizione marginale.
Fra i temi che stavano maggiormente a cuore agli antropologi c’erano,
indubbiamente, il colonialismo e la condizione di sottomissione, emarginazione e
175
171
della sua scuola, come Ruth Benedict e Margaret Mead.
Successivamente, Claude Lévi-Strauss scriverà anche Race and History, in Race Question in
Western Hegemony in G. STOCKING, Colonial situations. Essays on the Contextualization of Ethnographic
2009.
172
Come si evidenzia, per citare solo un esempio, nei lavori di Franz Boas e altri antropologi
M. GOODALE (ed.), Human Rights: An Anthropological Reader, Malden-Oxford-Chischerter,
176
Modern Science, Vol. 4, UNESCO, 1958
173
F. FANON, Les Damnés de la Terre, Paris , 1961.
174
Cfr. TALAL ASAD (ed.), Anthropology and the Colonial Encounter, London, 1973.
TALAL ASAD, Afterword. From the History of Colonial Anthropology to the Anthropology of
Knowledge, Wisconsin, 1991, p. 315, (corsivo nostro).
177
Arturo Escobar, citato in M. HERZFELD, Antropologia. Pratica della teoria nella cultura e nella
società, Firenze, 2006, p. 185.
Questioni di confine
83
sfruttamento in cui versavano (e, in buona misura, versano ancora oggi) i popoli
indigeni. Non possiamo ignorare che, rispetto a tali questioni la dichiarazione dei
diritti umani si dimostrava uno strumento assai problematico.
Per quanto la dichiarazione trovasse la propria legittimità in un principio di
universalità, e, sulla carta, dichiarasse la pari dignità fra tutti gli esseri umani e
garantisse dei diritti a ogni individuo a prescindere dalla razza, dalla condizione
sociale, dalla fede religiosa o dal genere, molti degli Stati che la sottoscrissero in
realtà “non mettevano in pratica ciò che predicavano”178. Il dominio coloniale e le
molte forme di oppressione, fra cui la discriminazione razziale, che avevano luogo
nei confronti di particolare gruppi all’interno dei confini degli Stati firmatari,
erano realtà ben lontane dagli ideali di cui la dichiarazione voleva farsi portavoce.
Lo Statement coglieva efficacemente queste contraddizioni: “non vi può essere
libertà individuale”, dichiarava Herskovits “se il gruppo sociale con cui
l’individuo si identifica non è libero”179. I diritti individuali non possono essere
estrapolati dal quadro concreto di relazioni di potere fra gruppi sociali e
l’individualità stessa, potremmo affermare seguendo le riflessioni di Herskovits,
non può svilupparsi pienamente finché la società alla quale l’individuo appartiene
è sottoposta al dominio coloniale e il modo di vivere del suo gruppo è ritenuto
inferiore o è denigrato da coloro che detengono il potere.
Alcuni anni più tardi, nel 1960 con l’adozione della Dichiarazione sulla
concessione dell'indipendenza ai paesi e ai popoli coloniali, anche l’ONU prese posizione
contro il colonialismo, affermando che “tutti i popoli hanno diritto alla libera
determinazione” (art. 2) e facendo proprio l'impegno a porre fine all'uso della
violenza coercitiva per mantenere i regimi coloniali (art. 4). L’applicazione di tali
misure divenne un impegno formale e i membri delle Nazioni Unite che avevano
ancora delle colonie dovettero adeguare le loro normative interne. Benché le lotte
di liberazione interne, i movimenti sociali e la pressione internazionale avessero
segnato la fine del colonialismo, su molti altri fronti, rimaneva irrisolta la
questione del distacco fra gli ideali contenuti nella dichiarazione e la prassi politica
degli stati firmatari.
Come denunciava la Carta di Algeri del 1976, la situazione di dominio
proseguiva “attraverso l'intervento diretto o indiretto, utilizzando le società
multinazionali, appoggiandosi sulla corruzione delle polizie locali, prestando il
suo aiuto a regimi militari fondati sulla repressione poliziesca, la tortura e la
distruzione fisica dei suoi avversari, servendosi di tutte le strutture e attività alle
quali è stato dato il nome di neo-colonialismo”180.
84
Diritti umani e differenza culturale
Verso la metà degli anni Settanta si sviluppò un approccio all’antropologia
impegnato, in alcuni casi persino militante, che aveva come priorità la
partecipazione attiva nei processi di cambiamento sociale. Il pensiero di Marx ebbe
un ruolo importante in questa fase. L’antropologia marxista, in senso stretto,
trovava i suoi fondamenti nel materialismo dialettico e nella rilettura del pensiero
marxiano a opera di autori come Althusser e, in Italia, Gramsci. Tuttavia
l’influenza del pensiero marxiano fu molto più ampia e sfumata e, al di là delle
specificità teoriche e le derive più connotate in senso ideologico, divenne un punto
di riferimento ineludibile. Come afferma Sherry Ortner, in quegli anni Marx fu “il
simbolo portante dei nuovi criticismi e delle nuove alternative teoriche che
avrebbero sostituito i vecchi modelli”181.
Nella maggior parte dei contesti, tuttavia, questo tipo di approccio non
sopravvisse alla fine della guerra fredda, alla caduta del muro di Berlino, al
declino delle grandi narrative politiche del comunismo, all’economia neoliberista e
alla post-modernità. La corrente di pensiero che avrebbe segnato in modo più
duraturo l’antropologia è stata invece quella interpretativa, il cui manifesto è
indubbiamente il volume The interpretation of cultures: selected essays di Clifford
Geertz182.
Per semplificare, potremmo affermare con Alessandro Dal Lago che, fra gli
elementi che distinguono i risultati empirici del nuovo approccio interpretativo,
troviamo l’interesse per la dimensione linguistica e comunicativa dei rapporti
sociali, l’attenzione per la vita quotidiana piuttosto che per le grandi strutture, la
capacità di prendere in considerazione i paradossi, le ambiguità, i margini della
vita sociale e, infine, “l’inevitabile propensione all’interpretazione creativa dei fatti
sociale più che alla loro analisi oggettiva e neutrale” 183.
Ricordando in poche parole quella stagione in Italia, Fabio Dei riassume
efficacemente il significato di una trasformazione che non investiva solo gli aspetti
accademici e teorici della disciplina, ma che aveva anche una valenza etica, in
quanto il nuovo approccio era percepito come portatore “delle istanze più radicali
di superamento dell’etnocentrismo e di riconoscimento dell’altro” laddove il
naturalismo tenderebbe ad assolutizzare acriticamente le categorie dell’Occidente,
e, almeno implicitamente, ad appoggiarne e giustificarne le pratiche di dominio.”
184
181
S. ORTNER, Theory in Anthropology since the Sixties, in NICOLAS B. DIRK - GEOFF ELEY -
SHERRY B. (eds.), Culture/Power/history. A reader in Contemporary Social Theory, Princeton, 1994,
pp. 372-411, p. 383.
182
178
M. IGNATIEFF, Una ragionevole apologia dei diritti umani, Milano, 2003, p. 10.
179
AAA, Statement on Human Rights, cit., p. 541.
180
Carta di Algeri. Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli, Algeri, 4 luglio 1976.
C. GEERTZ, Interpretazione di culture, Bologna, 1998).
183
A. DAL LAGO, Prefazione, in C. GEERTZ, Interpretazione di culture, cit., pp. VIII- IX.
184
Dei prosegue evidenziando come quell’immagine iniziale si sia in parte modificata, forse
addirittura rovesciata Per approfondimenti vedere F. DEI, Antropologia e genocidio, in
Questioni di confine
85
La prospettiva interpretativa, ponendo l’accento sulla dimensione dialogica e
intersoggettiva e aprendo le porte ad un nuovo approccio fondato
sull’interpretazione e la riflessività, implicava un nuovo modo di conoscere - e
riconoscere - l’“altro” che ha favorito un nuovo modo di porsi di fronte al suo
dolore, alle sue sofferenze e alla profonda violenza che è implicita nelle asimmetrie
di potere e nelle disuguaglianze sociali.
All’insegna di queste nuove prospettive e in un contesto di rapporti politici
globali in rapida trasformazione, la questione dei diritti umani riemerse nella
riflessione antropologica nel corso degli anni Ottanta. Gradualmente, alcuni
antropologi cominciarono a rileggere i diritti umani come strumenti di azione in
favore delle popolazioni native, e si riaprì il dibattito sul relativismo e le sue
implicazioni intorno alla questione dei diritti umani.185
Nel contempo, il diritto umanitario si stava progressivamente imponendo
come un linguaggio sociale dotato di ampio riconoscimento internazionale e
veniva sempre più spesso usato dalle popolazioni stesse come strumento di azione
politica.
Gli anni Novanta si aprirono con la pubblicazione dell’articolo Anthropology
and Human Rights186 di Ellen Messer, divenuto un punto di riferimento quasi
obbligato in ogni lavoro sul rapporto fra antropologia e diritti umani. Questo
articolo, in molti sensi, è una chiamata all’azione in cui vengono sottolineati alcuni
dei modi in cui l’antropologia può contribuire allo sviluppo dei diritti umani, che
possiamo brevemente ripercorrere: a) attraverso l’analisi della retorica dei diritti
umani e i modi in cui questa retorica viene utilizzata in ogni specifico contesto; b)
nella diffusione e nella promozione dei diritti socioeconomici e culturali; c)
nell’analisi delle circostanze storiche in cui si generano, si espandono o si
contraggono particolari diritti, o particolari richieste di diritti; d) mettendo in luce
le relazioni fra i diversi piani di coinvolgimento con i diritti umani, dalle
mobilizzazioni sociali (dal basso verso l’alto), alle politiche delle organizzazioni
internazionali (dall’alto verso il basso) ed e) nella prevenzione e nella risoluzione
del conflitto interetnico.
Alcune di queste suggestioni sono state accolte favorevolmente, su altre si sono
sviluppate delle polemiche che in questa sede non è possibile ripercorrere, In ogni
86
Diritti umani e differenza culturale
caso il grande merito del lavoro di Messer è stato quello di riportare al centro del
dibattito disciplinare la questione dei diritti umani. Negli anni successivi, tale
dibattito si è arricchito grazie ai contributi di autori come Terence Turner187 e
l’équipe di antropologi del comitato per i diritti umani dell’AAA, e
successivamente autori come Sally Engle Merry188, Mark Goodale189 e altri, alla
pubblicazione di raccolte di saggi come Identities, Politics and Rights190 o Culture and
Rights. Anthropological Perspectives191 e ai numeri dedicati in cui sono stati raccolti
numerosi articoli sull’argomento in riviste specializzate.
Oggi uno dei più promettenti indirizzi nell’antropologia dei diritti umani, e
uno dei modi in cui la nostra disciplina può contribuire più efficacemente al
perfezionamento e allo sviluppo del diritto umanitario, è proprio attraverso la
ricerca etnografica nei contesti in cui emerge il discorso sui diritti umani e
vengono messe in atto delle pratiche dei diritti umani. Lo sguardo ravvicinato
dell’etnologo permette, infatti, un’analisi contestuale, sensibile al ruolo della
cultura e attento ai modi in cui si intersecano i rapporti di potere locale e quelli
globali in ognuna delle situazioni prese in esame.
Prima di concentrarci su questa nuova fase, però vale la pena analizzare le
ragioni del lungo silenzio dell’antropologia sulla questione dei diritti umani. Per
Ellen Messer le ragioni dello scarso coinvolgimento degli antropologi in questo
campo sono da attribuirsi, in primo luogo, a quello che è stato chiamato “il fardello
del relativismo culturale”, e, in secondo luogo, ad un maggiore interesse
disciplinare verso i diritti delle collettività rispetto ai diritti dei singoli individui,
su cui era incentrata la formulazione originale della Dichiarazione del 1948192.
Se la seconda affermazione appare largamente condivisibile, la prima è più
problematica. L’espressione “fardello” evocata dall’antropologa statunitense, è
187
T. TURNER, Human rights, Human difference. Anthropology’s Contribution to an Emancipatory
Cultural Politics, in “Journal of Anthropological Research”, 1997, 53, pp. 273-291.
188
Fra i suoi contributi: S. ENGLE MERRY – M. GOODALE (eds.), The Practice of Human Rights.
Tracking Law Between the Global and the Local, Cambridge, 2007; S. ENGLE MERRY, Human Rights and
Gender Violence. Translating International Law into Local Justice, Chicago, 2006.
189
Fra i numerosi contributi di questo autore possiamo citare: Introduction to “Anthropology
and Human Rights in a New Key”, in “American Anthropologist”, 2006, 108, 1, pp. 1-8; Ethical Theory
as Social Practice, in “American Anthropologist”, 2006, 108, 1, pp. 25-37; Toward a Critical
Anthropology of Human Rights, in “Current Anthropology”, 2006, 47, 3, pp. 485-511; (ed.), Human
“Parolechiave”, 2004, 31, pp. 185-203 e ID,Perché si uccide in guerra?, in “Parolechiave”, 1999, 20-21,
pp. 281-301.
185
Per esempio A. DUNDES RENTELN, Relativism and the Search for Human Rights, in “American
Anthropologist”, 1988, 90, 1, pp. 56-72.
186
E. MESSER, Antropology and Human Rights, in “Annual Review of Anthropology”, 1993, 22,
pp. 221-249.
Rights: An Anthropological Reader, cit.
190
A. SARAT – TH. R. KEARNS, Identities, Politics and Rights, Michigan, 1997.
191
J. K. COWAN – M.-B. DEMBOUR – R. A. WILSON (eds.), Culture and Rights. Anthropological
Perspectives, Cambridge, 2003.
192
E. MESSER, Anthropology Human Rights and Social Transformation, in E. MORAN (ed.),
Transforming Societies, Transforming Anthropology, Michigan, 1996, p. 166.
Questioni di confine
87
scelta con cura e da essa traspare una visione piuttosto negativa del relativismo
culturale che è resa esplicita poche pagine più avanti quando, riferendosi allo
Statement del 1947, Messer scrive: “gli antropologi che difendono la tolleranza
verso tutti i valori culturali tendono ad essere intolleranti verso le norme culturali
intolleranti, e se loro sono intolleranti verso l’intolleranza allora la loro posizione è
una finzione”193 .
Ora, è chiaro che Ellen Messer ha in mente una forma di relativismo culturale
estremo, che impone una sospensione assoluta del giudizio morale e che,
contrariamente a quanto spesso viene sottolineato da chi difende una posizione
anti-relativista, è piuttosto periferica all’interno dell’antropologia. La prima
questione che risulta essenziale sollevare, dunque, riguarda la definizione stessa
del relativismo.
Il relativismo estremo tratteggiato da Messer, tuttavia, rispecchia più
fedelmente il modo in cui gli antirelativisti intendono il relativismo che non la
posizione dei relativisti stessi. Contrariamente a quanto si può pensare il tipo di
relativismo sostenuto dagli antropologi si riferisce soprattutto ad un approccio
epistemologico alla realtà, che parte da un riconoscimento della particolarità dei
sistemi culturali umani, e dal presupposto che “tutte le manifestazioni culturali
hanno significato e validità soltanto all’interno del loro contesto”194.
Non si tratta, dunque, di un’affermazione acritica di equivalenza fra tutti i
sistemi di valore, ma di un’attenzione per il particolare a partire dalla quale
muoversi verso l’abbattimento dei postulati etnocentrici e verso il riconoscimento
di una pari dignità fra le diverse società umane.
Tale approccio non esclude una visione dell’antropologo come un attore sociale
che, al pari degli altri, ha il dovere e la capacità di assumere una posizione di
responsabilità. All’insegna di queste riflessioni Michael Herzfeld, per esempio,
invita a riconoscere che “tutte le ideologie sociali sono situate in contesti sociali e
questi contesti (…) impongono la presa di coscienza di enormi quantità di
ambiguità e di contraddizioni nell’applicazioni di tali valori”195.
Se dovessimo collegare queste riflessioni all’ambito di applicazioni dei diritti
umani dovremmo in primo luogo riconoscere che ogni insieme di pratiche sociali
(nostre e altrui) è percorso da rapporti di potere (a livello micro e macro), e che
questi rapporti di potere incidono in modo profondo nella costruzione dei valori
sociali. I diritti umani, in quanto pratica sociale, non sono esclusi da queste
dinamiche: essi, come abbiamo visto ripercorrendo la loro storia, sono il frutto di
88
Diritti umani e differenza culturale
un particolare momento storico, di un certo tipo di pensiero e di un modo di
organizzare i rapporti di potere a livello internazionale.
L’argomentazione della Messer ci permette di focalizzare un’altra questione,
che ci sta particolarmente a cuore perché ha a che fare direttamente con l’impegno
antropologico nell’ambito dei diritti umani: una posizione relativista è davvero un
“fardello” che impedisce ogni possibilità di impegno sociale? O, detto in altri
termini, una posizione universalista è davvero l’unica compatibile con il lavoro
nell’ambito dei diritti umani oppure vi può essere una forma di impegno che trovi
il suo fondamento nel relativismo?
5.
Decostruire l’universalismo
La prospettiva relativista è stata usata in relazione ai diritti umani in modo molto
vario. Molto del lavoro degli antropologi si è concentrato sulla decostruzione del
preteso fondamento universalista della Dichiarazione del 1948, evidenziando come
essa sia il frutto di processi storici e culturali propri al mondo occidentale. Le
tematiche prese in considerazione da parte degli antropologi sono state varie: oltre
alla Dichiarazione stessa, sono stati analizzati criticamente molte sue parti
specifiche, fra cui i fondamenti universali dei diritti delle donne196, dei bambini197,
del rifiuto della tortura.
I contributi degli antropologi si sono spesso concentrati su una critica del
diritto internazionale in tutti quei casi dove, semplificando e riducendo la
complessità della diversità culturale, esso origina dei modelli legali e morali
limitati che tendono a voler omologare le culture fra loro. Il diritto internazionale,
nel suo sforzo per astrarre categorie e generalizzare situazioni, spesso non fa altro
che portare avanti un processo di radicale decomplessificazione della realtà. Più
alta è la generalizzazione, più è possibile una sorta di comparazione fra casi e
196
Fra i contributi più recenti, cfr. E. BREMS, Enemies or Allies? Feminism and Cultural Relativism
as Dissidents Voices in Human Rights Discourse, in “Human Rights Quarterly”, 1997, 19, 1, pp. 136164; C. NAGENGAST, Women, Minorities, and Indigenous Peoples: Universalism and Cultural Relativity,
in “Journal of Anthropological Research”, 1997, 53, 3, pp. 349-369; A. GRIFFITHS, Gendering culture:
toward a plural perspective on Kwena women’s rights, in J. K. COWAN – M.-B. DEMBOUR – R. A. WILSON
(eds.), Culture and Rights, Anthropological Perspectives, New York, 2001, pp. 102-126; L. ABULUGHOD, Do Muslim Women Really Need Saving? Anthropological Reflections on Cultural Relativism
and Its Others, in “American Anthropologist”, 2002, 104, 3, pp. 783-790.
J. S. LA FONTAINE, Child Sexual Abuse, Cambridge, 1990; H. MONTGOMERY, Imposing rights?
193
Ivi, p. 175.
194
U. FABIETTI - F. REMOTTI (a cura di), Dizionario di antropologia. Bologna, 1997, p. 620.
A case study of child prostitution in Thailand, in COWAN - DEMBOUR -WILSON (eds.), Culture and
M. HERZFELD, Antropologia, cit., p. 38
Rights, cit., pp. 80-101.
195
197
Questioni di confine
89
situazioni che però, più che evidenziare specificità e particolarità, tende a renderle
identiche, anonime e slegate dai loro contesti.
Un esempio di questo tipo di riflessioni sono i dibattiti intorno all’articolo 5
della Dichiarazione (“Nessuno potrà essere sottoposto a tortura o a trattamenti e
punizioni crudeli, inumani o degradanti”), fra i quali emergono i contributi di
Talal Asad198 e Abdullahi Ahmed An-Na’im199.
Entrambi si concentrano sull’analisi della categoria di “trattamento/punizione
crudele, inumana o degradante”, tentando di decostruirla e contestualizzarla.
Entrambi condividono la premessa che per dare un contenuto alla categoria
bisogna prima avere chiara quale idea di umanità si prende in considerazione. Dal
momento, infatti, che tutte le culture elaborano una propria idea di essere umano,
è ovvio che quei comportamenti considerati “inumani” o “degradanti” possono
variare da una società all’altra.
Asad concentra la sua analisi su una prospettiva storica che, partendo da
Michel Foucault e la sua storia della tortura200, ripercorre la nascita della
concezione moderna e secolare di umanità. Secondo Foucault, il declino della
tortura e delle punizioni corporali in Europa si ha a partire dal XVIII secolo, con il
passaggio da un sistema di pena basato fondamentalmente sul castigo del corpo a
quello attuale, basato invece sul sistema carcerario di reclusione. Questo passaggio
ha a che fare con la trasformazione dell’esercizio del potere come sovranità,
all’esercizio del potere inteso come disciplinamento dei corpi.
Nella lettura che Asad fa di Foucault, l’elemento che avrebbe agevolato questo
passaggio è la nascita dello Stato moderno e la sua volontà di inquadramento e
controllo degli individui, in primo luogo attraverso l’assoggettamento dei loro
corpi disciplinati. Asad ripercorre il pensiero foucaultiano soffermandosi
sull’introduzione delle teorie illuministe sul dolore come un’essenza
quantificabile, che aprono strada all’idea di una comparabilità della sofferenza.
Questa comparabilità permetterebbe la formulazione di giudizi comparativi su
quelle che resterebbero altrimenti qualità incommensurabili fra loro (punizione
corporale o imprigionamento) e, conseguentemente, un “calcolo” utilitaristico
della pena che ammette il dolore soltanto se è adeguato allo scopo da raggiungere.
La tortura va quindi scomparendo in quanto produttrice di un dolore ritenuto
198
TALAL ASAD, On Torture, or Cruel, Inhumain, and Degrading Treatment, in A. KLEINMAN - V.
DAS - M. LOCK (eds.), Social Suffering, Berkeley, 1997, pp. 285-308. (Trad. it.: Tortura e trattamenti
crudeli, inumani e degradanti, in F. DEI (a cura di), Antropologia della violenza, Roma, 2005, pp. 183214).
199
90
Diritti umani e differenza culturale
esagerato e ingiustificato rispetto al modello “civilizzato” messo in pratica dal
sistema carcerario, che mira più a creare nuovi soggetti plasmando le menti che
non a punirli fisicamente. Essa però non scompare del tutto ma, come fa notare
Asad, riemerge periodicamente nel sistema di controllo e potere dello Stato,
sempre nel quadro di questa concezione di “calcolo” che la presenta infatti come
“pressione fisica e psicologica” necessaria al raggiungimento degli scopi del potere
statale.
Per Talal Asad, quindi, la categoria di “trattamento/punizione crudele,
inumana o degradante” ha una precisa storia che la rende storicamente e
culturalmente connotata. Di conseguenza l’articolo 5, che presenta un criterio
culturalmente universale nella formulazione di giudizi morali e di norme
legislative sul dolore e la sofferenza, assume però una connotazione operativa
fortemente contestualizzata culturalmente e storicamente.
La convenzionalità dell’articolo 5 è ripresa da An-Na’im, che ripercorrendo la
storia dei dibattiti interni alle Nazioni Unite sulla sua applicazione, evidenzia
come la categoria di “trattamento/punizione crudele, inumana o degradante” sia
sempre stata problematica. Benchè ripresa integralmente nell’articolo 7 della
Convenzione sui Diritti Civili e Politici, fra il 1952 e il 1958 vi furono numerose
discussioni all’interno della Commissione per i Diritti Umani sulla sua esatta
formulazione, con numerose proposte di cambiamento. Fallirono anche numerosi
sforzi di dare un contenuto specifico a questi trattamenti/punizioni che
permettesse di riconoscerli in modo univoco, limitandosi le Nazioni Unite a una
serie di raccomandazioni molto elastiche o fornendo una serie di esempi che
benché “possano essere usati nell’indicare il tipo di trattamento o punizione che si
vuole considerare violazione di questo diritto umano, non forniscono un criterio
autorevole di applicazione generale”201.
Asad si colloca sulla scia del culturalismo americano, sostenendo che se i
tentativi di concettualizzazione della sofferenza presenti nella Dichiarazione si
ritengono universali nella portata, è inevitabile che essi siano particolari nel
contenuto, rendendo la categoria di “trattamento/punizione crudele, inumana o
degradante” poco chiara e instabile, se non contraddittoria nella sua pretesa di
paragonare modelli di comportamento ritenuti incommensurabili fra loro.
Diverse le conclusioni di An-Na’im che, pur condividendo il carattere culturale
dell’articolo 5, ritiene di poterlo “salvare” attraverso un ricorso alle concezioni
locali di “crudeltà” e “disumanità”. Soltanto analizzando le varie concezioni di
umanità e disumanità è possibile dare un contenuto non etnocentrico all’articolo 5,
anche se ciò comporta, come estrema conseguenza, il dover riconoscere la validità
A. AHMED AN-NA’IM, Toward a Cross-Cultural Approach to Defining International Standards of
Human Rights: The Meaning of Cruel, Inhuman, or Degrading Treatment or Punishment, in ID. (ed.),
Human Rights in Cross-Cultural Perspectives: A Quest for Consensus, Philadelphia, 1992, pp. 19-43.
200
M. FOUCAULT, Sorvegliare e punire, Torino, 1976.
201
A. AN-NA’IM, Toward a Cross-Cultural Approach to Defining International Standards of Human
Rights, cit., p. 76.
Questioni di confine
91
di sistemi giuridici dove, a differenza che nel mondo occidentale, le punizioni
corporali sono presenti e socialmente accettate. An-Na’im sostiene però che il
concetto di diritti umani possa essere un incentivo al cambiamento interno alla
società, a patto però che le pressioni esterne siano riconducibili a un dialogo
interculturale e non a un’imposizione dall’alto.
Sia Asad che An-Na’im si collocano in una prospettiva costruttivista del diritto
che, come ha riassunto Clifford Geertz si fonda sul “rendersi conto che i fatti
giuridici non sono innati, ma sono socialmente costruiti”202 e che qualsiasi sistema
giuridico “non è limitato ad una serie di norme, di regole, di principi e valori
qualsiasi da cui si possano trarre risposte giuridiche ad eventi particolare, ma è
parte di un modo particolare di immaginare il reale”203. Il contributo e lo sforzo
dell’antropologo è quello di far capire che quel qualsiasi in realtà non è tale, e che
bisogna stabilire sempre un collegamento fra norme giuridiche diverse dalle
nostre, per quanto assurde e incivili possano sembrare, e la visione del mondo che
ne è alla base. Dopodiché, secondo An-Na’im, il fatto che le norme giuridiche
siano costruite culturalmente implica che non siano mai assolute, e che possano
cambiare. Vediamo quindi come l’idea di un relativismo culturale estremo che
consideri le singole culture come inamovibili, così come avverrebbe se portato
all’estremo, in realtà è smentita dalla stessa ricerca antropologica.
6.
Relativismo e differenza culturale
Le considerazioni di questi autori ci rimandano a un altro livello di analisi,
attraverso il quale l’antropologia ha criticato, sopratutto in anni recenti, l’ipocrisia
del mondo occidentale riguardo all’applicazione dei diritti umani. I contributi di
questo tipo sono nati come risposta a coloro che hanno accusato gli antropologi di
essere “cinici”, notando come la difesa a oltranza della diversità culturale spesso
venga invocata per legittimare situazioni di violazione palese dei diritti umani. Da
parte loro, molti antropologi non hanno potuto fare a meno di notare come invece
i diritti umani siano continuamente utilizzati da parte delle élites, per lo più euroamericane, nei confronti del resto del mondo per imporre situazioni di dominio e
controllo. In nome dell’esportazione dei diritti umani americani ed europei hanno
imposto la loro particolare visione del mondo a molte altre popolazioni,
presentando come “universali” concetti e valori che invece appartengono alla loro
cultura.
92
Diritti umani e differenza culturale
Questa forma di “imperialismo dei diritti umani” ha spesso originato prese di
posizione abbastanza provocatorie, come quella di Lila Abu-Lughod, che
all’indomani della guerra in Afghanistan, presentata dalla propaganda americana
con continui riferimenti alla democrazia e ai diritti umani (in particolare quelli
delle donne), si chiedeva se “davvero le donne mussulmane abbiano bisogno di
essere salvate”, denunciando il poco spazio che la differenza culturale occupa nel
discorso contemporaneo sui diritti umani e auspicando un approccio meno
“missionario” alla questione204.
Ciò che emerge quindi da queste riflessioni è la critica di una concezione
uniculturale dei diritti umani. L’idea che dentro l’umanità esista una diversità
culturale è poco contemplata, se non temuta, dagli specialisti e operatori dei diritti
umani, e viene spesso relegata al fenomeno che Marie-Bénédicte Dembour ha
definito “La nota a piè di pagina numero 10”205. Questo fenomeno consiste non
soltanto nel dare per scontata l’universalità del sistema dei diritti umani, ma
sopratutto nell’ignorare e sottovalutare l’importanza, l’entità e la varietà della
differenza culturale, ridotta al rango di “costume” accidentale al di sotto del quale
emergerebbe la vera “natura” umana206. Questa concezione, molto diffusa nel
pensiero filosofico occidentale, identifica i diritti umani con tale “natura”, negando
quindi tre cose: in primo luogo, l’origine culturale e storica del sistema dei diritti
umani; in secondo, la validità e la dignità di sistemi morali e culturali alternativi;
infine, in terzo luogo, l’idea stessa che possano esistere una pluralità di concezioni
della persona e dei suoi diritti, invece che una sola universale.
In quest’ottica la prospettiva relativista può essere intesa come un mezzo per
cercare di introdurre una maggiore pluralità di vedute all’interno del sistema dei
diritti umani, per eliminare il rischio, paventato da tutta l’antropologia da
Herskovits in poi, di un ordine mondiale fondato su un unico modello di pensiero,
quello occidentale. L’irriducibilità della questione, e l’inevitabilità del dover
comunque affrontare il tema della diversità è ben riassunto da Talal Asad, quando
afferma che “né il tentativo degli euro-americani di imporre ad altri i loro modelli
attraverso l’uso della forza, né l’invocazione di questi modelli da parte dei popoli
204
ABU-LUGHOD, Do Muslim Women Really Need Saving?, cit., p. 789.
205
La Dembour conia questa definizione prendendo spunto dal caso di un importante testo sui
diritti umani (R. WALLACE, International Human Rights: Texts and Materials, London, 1997) dove in
oltre 800 pagine la questione del relativismo e della diversità delle culture è trattata soltanto
brevemente nella decima nota del I capitolo. Cfr. DEMBOUR, Between universalism and relativism, cit.,
202
C. GEERTZ, Local Knowdledge. Further Essays in Interpretative Anthropology, New York, Basics
Books, 1977 (Traduzione italiana: Antropologia interpretativa, Bologna, 1988, p. 216).
203
Ivi, p. 217, (corsivo nostro).
p. 73.
206
Su questi temi cfr. F. REMOTTI, Noi, primitivi. Lo specchio dell’antropologia, Torino, Bollati
Boringhieri, 1991; ID., Contro natura, cit.
Questioni di confine
93
più deboli nel Terzo Mondo riesce a rendere i modelli stabili e universali:
semplicemente, li globalizza”207.
Certamente, la questione è tuttora aperta, e se da una parte il tema della
differenza culturale è ben lontano dall’essere presente nel discorso di giuristi,
politologi e operatori dei diritti umani, l’antropologia non si è mostrata ancora
troppo in grado di avanzare le sue argomentazioni senza esorcizzare lo
spauracchio cinico e nichilista che molti vedono in essa.
Sebbene la soluzione sia lontana, la necessità di uscire dalle rispettive posizioni
è stata ben segnalata da molti autori recenti, che hanno però esplorato due
direzioni sostanzialmente opposte. Da una parte, troviamo la ricerca di una sintesi
fra universalismo e relativismo208, espressa da tutta una serie di formule quali
“unversalismo mediato e parziale”209 o “relativismo ben temperato”210. Questa
impostazione, che cerca di superare la distinzione fra “universalisti arroganti” e
“relativisti indifferenti” è stata però oggetto di molte critiche, in quanto i suoi
fondamenti epistemologici sono spesso poco solidi. Questo dibattito, come è stato
notato dalla Dembour, è per di più troppo asimmetrico e sbilanciato a favore dei
sostenitori dell’universalismo, in una logica di attacco che vede i sostenitori del
relativismo cercare di difendersi dalle accuse di cinismo e nichilismo211, quasi
dover giustificare l’esistenza di un “lato buono del relativismo”212.
Molti antropologi, riconoscendo la difficoltà di elaborare improbabili sintesi fra
le due prospettive, si sono rivolti in una direzione opposta, che cerca di uscire
dalla contrapposizione frontale senza però rinunciare a una coesistenza fra
universalismo e relativismo. Clifford Geertz, pur non volendo più difendere il
relativismo si sente obbligato invece a criticare l’antirelativismo che toglie valore e
nega la diversità culturale213. La Dembour, da parte sua, considera universalismo e
relativismo due poli contrapposti e irriducibili e, usando l’immagine del pendolo,
auspica non una “via media”, ma una “posizione di mezzo” (in-between
position)214, attraverso una teoria che “piuttosto che farci scegliere uno dei due
207
ASAD, On Torture, or Cruel, Inhumain, and Degrading Treatment, cit., p. 208.
208
Fra gli autori che maggiormente hanno cercato di trovare una sintesi fra le due prospettive,
94
Diritti umani e differenza culturale
poli [...] riconosca che nessuno dei due è sostenibile senza la consapevolezza
dell’altro”215. Questa idea della coesistenza di fatto fra le due prospettive
contrapposte è anche ripresa da Mark Goodale, il quale usa una suggestiva
metafora:
“Dalla parte dei diritti umani ci sono i ricci, coloro che credono nella possibilità
di scoprire o creare dei sistemi onni-comprensivi conoscitivi, morali e legali. Dalla
parte del relativismo ci sono diversi tipi di volpi, coloro che sono ripugnati dalla
vera nozione di un sistema onni-comprensivo e che passano le loro vite seguendo
– e apprezzando – le forze che si staccano dalle tendenze centripete dei costruttori
del sistema. Le volpi sanno (per citare Yeats) che il centro non può essere trovato, e
imparano a ricavare da ciò una sorta di ironico piacere. I ricci, al contrario, fanno
difficoltà a immaginare un mondo senza centri, persino quando è chiaro che tutti i
centri sono corrotti, instabili o in disperato bisogno di essere riformati. Per
risolvere insieme i problemi del relativismo e dei diritti umani, le volpi devono
essere disponibili a considerare la possibilità di una struttura unificata, anche se
ciò significa dover ignorare un certo numero di lampanti contraddizioni o dilemmi
strutturali. I ricci, a loro volta, devono essere disponibili a riconoscere queste
contraddizioni e dilemmi e individuare la contingenza laddove in altri tempi
avrebbero invece visto certezze”216.
Per concludere questa sezione, possiamo dire che ciò che gli antropologi hanno
cercato, attraverso la contrapposizione fra relativismo e universalismo, non è tanto
distruggere o delegittimare il sistema dei diritti umani, ma introdurre in esso la
questione della differenza culturale. Riprendendo la Dembour, criticare
l’universalismo della dichiarazione non vuol dire “sostenere che il concetto di
diritti umani debba essere spiazzato, ma richiedere un concetto che permetta alle
circostanze locali di essere prese in conto, di fare parte dell’equazione”, di creare
una “interfaccia fra principio e pratica”217. In altre parole, come detto da An-Na’im,
bisogna trovare un approccio trans-culturale ai diritti umani.
cfr. R. PANNIKAR, Is the Notion of Human Rights a Western Concept?, in “Diogenes”, 1982, 120,
pp. 75-102.
209
NAGENGAST, Women, Minorities, and Indigenous Peoples, cit., p. 349.
210
J. DONNELLY, Universal Human Rights in Theory and Practice, Ithaca, 2003.
211
DEMBOUR, Between universalism and relativism, cit., p. 73.
212
E. HATCH, The Good Side of the Relativism, in “Journal of Anthropological Research”, 1997,
7.
La pratica dei diritti umani
Per poter accogliere l’invito di An-Na’im quando propone di creare “un’interfaccia
fra principio e pratica”, è dunque necessario spostare la nostra attenzione sul
53, 3, pp. 371-381.
213
C. GEERTZ, Distinguished Lecture: Anti Anti-Realativism, in “American Anthropologist”, 1984,
86, 2, pp. 263-278.
214
DEMBOUR, Between universalism and relativism, cit., p. 70.
215
Ivi, p. 75.
216
GOODALE, Surrendering to Utopia, cit., pp. 60-61.
217
DEMBOUR, Between universalism and relativism, cit., p. 72.
Questioni di confine
95
rapporto fra la dimensione teorica e la sfera delle pratiche dei diritti umani. E,
anche se a prima vista può apparire scontato, dobbiamo cominciare dal definire
che cosa intendiamo con “pratica dei diritti umani”.
Mark Goodale, nell’introduzione al volume The Practice of Human Rights
curato insieme a Sally Engle Merry, adotta una prospettiva particolarmente ampia
e interessante che vale la pena ripercorrere brevemente.
Per Goodale l’espressione “pratica dei diritti umani” fa riferimento ai molti
modi in cui gli attori sociali interagiscono con l’idea dei diritti umani nelle sue
molteplici manifestazioni. Parliamo, dunque, di tutte le forme di azione legale che
implicano il ricorso agli strumenti giuridici internazionali legati ai diritti umani e
ai principi del Diritto Internazionale Umanitario; delle forme che assume il
discorso pubblico sui diritti umani – la critica, la difesa, la divulgazione – e anche
della produzione teorica e concettuale sulle questioni inerenti i diritti umani.
“Adottare una definizione così ampia delle pratiche dei diritti umani”,
prosegue Goodale, “implica necessariamente respingere le tradizionali divisioni
che sono state usate per separare le diverse modalità di coinvolgimento con i diritti
umani”218. Tali divisioni, infatti, rischiano di produrre un divario artificiale fra gli
aspetti filosofico-teorici e gli aspetti pratici e operativi; o, quel che ci interessa in
particolare, fra una visione dei diritti umani fondata su assunti astratti e
universalistici e le caotiche, talvolta contraddittorie, applicazioni degli stessi a
livello locale.
Ricondurre alla sfera delle pratiche anche la dimensione teorica e discorsiva,
oltre a quella più esplicitamente operativa, mette in evidenza il fatto che ogni
forma di sapere – nell’ambito dei diritti umani come in altri ambiti – può essere
considerato una “pratica teorica”219 in quanto è frutto di processi storici che hanno
risvolti sociali, culturali e politici. Allo stesso tempo, la produzione teorica fa parte
di quell’insieme di meccanismi che usiamo per interpretare la nostra realtà
esperita e concorre nel “dare forma” all’agency dei soggetti.
Oltre alle riflessioni teoriche sui diritti umani che si sono sviluppate in seno
all’antropologia, che abbiamo ripercorso nei precedenti paragrafi, è interessante
osservare come si sono rapportati gli antropologi alle “pratiche dei diritti umani”.
Nello svolgimento del lavoro sul campo molti antropologi sono stati testimoni
diretti di innumerevoli abusi, non di rado presentati come tentativi di
“modernizzazione” o giustificati con imponenti retoriche economico-politiche: dal
genocidio esplicito alle più subdole forme di violenza simbolica o strutturale;
dall’espropriazione delle terre allo sfruttamento indiscriminato delle risorse
96
Diritti umani e differenza culturale
ambientali; dalle disuguaglianze economiche alle numerose, spesso invisibili,
forme di discriminazione razziale, religiosa o di genere.
Come si può constatare sul campo, soprattutto quando ci si occupa di temi
sensibili come la violenza, la quotidianità dei nostri interlocutori è costellata da
violazioni dei diritti umani e, parallelamente, le “pratiche dei diritti umani” sono
sempre più presenti nelle loro modalità di azione sociale.
Qual è il ruolo dell’antropologo di fronte a tali situazioni? È necessario
mantenere una neutralità che a lungo è sembrata un requisito indispensabile del
rigore scientifico? Oppure la situazione impone delle scelte di azione? E, se si
sceglie di intervenire, fino a che punto è possibile spingersi? Dov’è il confine che
separa l’attivista dal ricercatore? Nessuna di queste questioni si può considerare
risolta ed esse sono ancora oggetto di dibattito all’interno della disciplina.
L’antropologia della violenza è uno degli ambiti in cui la questione dei diritti
umani è chiamata in causa in modo più esplicito. Nel corso della ricerca sul campo
è necessario misurarsi, in senso etico e teorico, con la sofferenza delle vittime;
aprire spazio alle loro voci e alle loro testimonianze spesso inascoltate o rese
invisibili; dare visibilità alle loro modalità di risposta e reazione; fare i conti con i
percorsi legali di denuncia da loro intrapresi.
Calandoci in uno specifico contesto etnografico possiamo osservare come il
tema dei diritti umani sia un dato sociale ineludibile. Prendiamo in
considerazione, ad esempio, il ruolo delle pratiche dei diritti umani nel conflitto
colombiano220: la Colombia è da molti anni una priorità nell’agenda di numerose
organizzazioni internazionali che operano nel campo dei diritti umani ed è oggetto
di attenta sorveglianza da parte degli organismi internazionali221. Fra le situazioni
più preoccupanti possiamo elencare la diffusione capillare della violenza;
l’impunità; le sistematiche violazioni delle convenzioni internazionali del diritto
umanitario da parte di tutti gli attori armati; il coinvolgimento di civili e di minori
nella guerra; le uccisioni a sindacalisti e attivisti nel campo dei diritti umani; i
desaparecidos, e, più recentemente, la drammatica situazione dei profughi interni.
I massacri, una delle più frequenti e drammatiche manifestazioni della violenza
in Colombia, sono caratterizzati da modalità di aggressione al corpo dei vivi e dei
morti la cui brutalità, apparentemente inutile, oltrepassa di gran lunga la
dimensione “strumentale” della violenza: mutilazioni, decapitazioni, torture,
220
Sul tema è possibile consultare il sito web del Equipo Nizkor, che ha generato un ampio
database
consultabile
in
parte
on
line
http://www.derechos.org/nizkor/colombia,
e
l’organizzazione Noche y Niebla che ha raccolto e reso pubblici un buon numero di documenti e
informazioni sul tema, disponibili presso http://www.nocheyniebla.org.
218
219
GOODALE - ENGLE MERRY, The Practice of Human Rights , cit., p. 25.
Cfr. HERZFELD, Antropologia, cit.
221
I documenti dell’Alto Commissario delle Nazioni Uniti sulla Colombia sono consultabili
presso http://www.hchr.org.co/.
Questioni di confine
97
umiliazioni di ogni genere. In questi massacri, di cui si sono resi responsabili
soprattutto i gruppi paramilitari, il potere locale si esprime attraverso un uso
sistematico e parossistico del terrore, che distrugge il corpo della vittima e con esso
annienta la sua integrità, negando la sua individualità, il suo ruolo sociale e la sua
umanità222.
Uno dei principali obiettivi dell’uso sistematico del terrore è, infatti, quello di
appropriarsi di un determinato territorio, provocando dei fenomeni di migrazione
di massa. Oggi in Colombia ci sono oltre tre milioni di profughi interni: i
desplazados223. Il desplazamiento, temporaneo o permanente, ha assunto le
proporzioni di una vera e propria crisi umanitaria, che colpisce in particolar modo
le popolazioni rurali e le minoranze indigene e nere.
Di fronte fenomeni come i massacri o il desplazamiento, una delle più
importanti risorse delle vittime o dei loro familiari è stata la creazione di
associazioni. Fondate e gestite dai familiari stessi, talvolta con la collaborazione di
ONG nazionali e internazionali, queste associazioni sono un punto di riferimento
concreto per chi ha perso una persona cara nel conflitto armato, per chi ha dovuto
abbandonare le proprie terre o per chi è stato vittima diretta di violenze, abusi di
potere o torture.
Fra le diverse associazioni si è lentamente generata una fitta rete che si estende
in ogni angolo del paese e che, in buona misura, fonda il proprio discorso sul
rispetto dei diritti umani. Queste associazioni hanno un ruolo centrale
nell’attivazione dei processi di denuncia, in particolare nei casi in cui c’è un
coinvolgimento diretto dell’esercito o altre forze statali. Non di rado i tribunali
nazionali si dimostrano ciechi e sordi di fronte alle richieste dei denuncianti e
molte pratiche finiscono per arenarsi nelle lunghe trafile burocratiche: in questi
casi il ricorso ai tribunali internazionali, in primo luogo la Comisión
222
Fra i lavori pubblicati in ambito antropologico sull’attuale conflitto colombiano possiamo
ricordare gli scritti di M. TAUSSIG, Terror as Usual: Walter Benjamin's Theory of History as a State of
Siege, in «Social Text», 1989, 23, pp. 3-20; ID., Cocaina. Per un’antropologia della polvere bianca,
Milano, 2005). Cfr. anche i lavori delle antropologhe colombiane M. V. URIBE ALARCÓN,
Antropología de la inhumanidad. Un ensayo interpretativo sobre el terror en Colombia, Bogotá, 2004; E.
BLAIR, Conflicto armado y militares en Colombia. Cultos, símbolos e. imaginarios, Medellín, Universidad
de Antioquia – CINEP, 1999. Sul tema dei massacri cfr. C. VARGAS, Violenze corpi e memorie.
98
Diritti umani e differenza culturale
Interamericana de Derechos Humanos, è l’unico strumento capace di varcare i
confini dello Stato e a porre dei limiti al suo potere, aprendo spazi alle voci delle
vittime e alle loro richieste di giustizia e riparazione.
Allo stesso modo i rapporti periodici dell’Alto Commissario delle Nazioni
Unite per i Diritti Umani, in cui vengono prese in esame le violazioni ai diritti
umani compiute da tutte le forze - lo Stato, le guerriglie, i paramilitari e le forze
irregolari sorte dopo il recente disarmo di questi ultimi gruppi - sono finestre
attraverso le quali è possibile generare strategie transnazionali di azione a favore
della tutela dei gruppi più vulnerabili.
In un clima sociale di negazione, in cui è forte la tendenza a colpevolizzare le
vittime stesse “perché qualcosa dovevano aver fatto”, in cui il dolore dei familiari
e dei sopravvissuti è spesso invisibilizzato e “messo a tacere”, il processo di
denuncia acquisisce un valore umano che va oltre la dimensione legale. Essa
permette di attivare processi di ricostruzione del tessuto sociale, e restituisce alle
vittime e ai loro familiari, al meno in parte, quella dignità che era stata loro
sottratta, aprendo la strada ad una rielaborazione della memoria in senso
individuale e collettivo.
Fra i molti esempi possibili, vale la pena ricordare il massacro di Trujillo224, che
ebbe luogo fra il 31 marzo e il 2 aprile del 1990, il primo che sia stato oggetto di
un’indagine giudiziaria sistematica da parte della Comisión Interamericana de
Derechos Humanos. Il rapporto finale e le raccomandazioni del tribunale
internazionale hanno portato a un’ammissione di responsabilità da parte del
governo, cosa che allora non aveva precedenti nella storia colombiana.
Benché oggi i diritti umani in Colombia siano uno strumento ampiamente
usato, non tutte le forme di violenza vengono interpretate o affrontate attraverso
forme riconducibili a quelle che abbiamo definito “pratiche dei diritti umani”.
Mentre le associazioni di familiari delle vittime hanno trovato in tali pratiche un
valido appiglio, fra i milioni di persone che vivono in condizioni di povertà o di
povertà estrema225 nelle enormi baraccopoli che circondano le grandi città, pochi
fanno appello ai diritti umani o interpretano la propria condizione come una
violazione di essi.
Osservando la situazione colombiana, sembrerebbe quasi che gli strumenti del
diritto internazionale siano più efficaci di fronte a situazioni di emergenza o atti
palesi di violenza, ma che siano invece molto meno cogenti in altri ambiti, più
Riflessioni antropologiche sui massacri in Colombia, Torino, 2009; ID., La quotidianità e la guerra.
Violenza statale e parastatale nel conflitto colombiano, in “Antropologia. Annuario”, Roma, Anno 8,
n. 9-10, 2008, pp. 215-235.
223
Cfr. M.N. BELLO - E. MARTÍN CARDINAL - F.J. ARIAS, Efectos psicosociales y culturales del
desplazamiento, Bogotá, 2002; A. CASTILLEJO CUELLAR, Poética de lo otro: una antropología de la guerra,
224
Caso 11.007 della Comisión Interamericana de Derechos Humanos. Una ricostruzione
dettagliata di questo massacro in C. VARGAS, Violenze, corpi e memorie, cit., cap. 3.
225
A livello statistico è considerata “povera” il 46% della popolazione. La “povertà estrema”
la soledad y el exilio interno en Colombia, Bogotá, 2000; A. MOLANO, Desterrados. Cronicas del
(indigencia) invece riguarda il 17,8% secondo le statistiche ufficiali del DANE (Dipartimento
desarraigo, Bogotá, 2005.
Amministrativo Nazionale di Statistica in Colombia) per il 2008.
Questioni di confine
99
sfumati e invisibili, fra cui la violenza strutturale. Paul Farmer226 ha definito e
analizzato il campo di una “violenza strutturale”, fatta di dinamiche di
“produzione di sofferenza”, inserite nell’organizzazione stessa della società, che
non si presentano come eventi contingenti, ma che pervadono la vita dei soggetti
in quanto elementi permanenti della quotidianità. Parliamo di fenomeni come la
povertà, la discriminazione razziale o di genere, l’oppressione, l’emarginazione o
altre forme di violenza simbolica, spesso più subdole e invisibili, ma non perciò
meno incisive nell’esperienza umana.
In quali casi un’esperienza di violenza viene narrata e gestita facendo ricorso al
linguaggio dei diritti umani e in quali casi no? Chi ha accesso a questi strumenti
legali e chi ne è escluso? Come si conciliano gli aspetti specificamente locali con le
formulazioni astratte e universali del diritto? Come far sì che la tutela dei diritti
economici e sociali dei popoli “altri” non si trasformi automaticamente in una
sorta di “diritto ad essere occidentali”? E, viceversa, come evitare che la diversità
culturale mascheri questioni di indole specificamente economico-sociale, come la
povertà ?
Queste domande, e le molte altre questioni sollevate a partire dall’analisi di
specifiche realtà locali, suggeriscono che i “diritti umani” debbano essere pensati
come strumenti “in costruzione”, la cui nascita, il cui sviluppo e la cui efficacia
sono legate inscindibilmente a) alle contingenze storiche e politiche in cui si è
verificata la formulazione dei diritti e b) alla giurisprudenza internazionale, nata a
partire dalle precise caratteristiche di ogni ambito di applicazione contestuale di
ciascuno dei diritti in questione.
Che lo si riconosca o meno, dalle pratiche locali dei diritti umani e dai tentativi
concreti di applicazione di questi in differente circostanze, nascono costantemente
nuove esigenze, possono essere sollevate osservazioni critiche, emergono i limiti,
le ambiguità e le contraddizioni che sulla carta possono sfuggire.
L’attenzione alla dimensione locale ci pone di fronte anche alla questione delle
asimmetrie nella distribuzione delle risorse e del potere a livello internazionale e
all’interno di ogni singolo Stato.
Tali asimmetrie pervadono anche l’applicazione dei diritti umani. Se in alcuni
casi è possibile (e doveroso) applicare sanzioni internazionali o usare gli altri
strumenti di coercizione di cui dispongono le Nazioni Unite per costringere uno
Stato a “far applicare” un determinato diritto, in altre occasioni, invece, l’ingerenza
esterna si configura come un tentativo di imposizione di un particolare modello a
discapito di altri, o come un mezzo per legittimare azioni che, a ben vedere, sono
motivate da interessi economici o politici più che umanitari.
226
100
Diritti umani e differenza culturale
Sarebbe necessario aprire un intero capitolo su questi argomenti, in questa
sede, tuttavia, potremmo limitarci ad affermare che nessuna risposta è valida in
tutti i contesti e che ciò che appare pertinente in una determinata circostanza in
un’altra può essere del tutto inadeguato. In questa prospettiva, sviluppare quella
“interfaccia” fra principi e pratiche auspicata da An-Na’im è un compito urgente
ed essenziale, nel quale il contributo antropologico può dimostrarsi
particolarmente efficace.
8.
La definizione di “popolo” e i diritti delle collettività
Il filone di riflessione sul rapporto fra il relativismo e i diritti umani che ci ha
portato a sottolineare il carattere contestuale e situato dei diritti umani -nella sua
formulazione e nella sua applicazione- ci permette di ritornare alla seconda delle
concause che Ellen Messer identificava alla base dell’allontanamento
dell’antropologia dalla partecipazione attiva nel dibattito sui diritti umani, ovvero
la tendenza a dare un peso maggiore ai diritti delle collettività rispetto ai diritti dei
singoli individui, a partire dalla constatazione che i diritti individuali non possono
essere estrapolati artificialmente dal contesto sociale e politico in cui è inserita la
popolazione (o il gruppo sociale) di cui tale individuo fa parte. Una delle più
importanti intuizioni critiche di Herskovits aveva a che fare proprio con il
carattere individuale dei diritti elencati nella dichiarazione del 1948. Sulla scia di
Locke e della tradizione illuminista, la filosofia politica dei diritti umani
presuppone infatti una concezione individualistica della società e dello Stato, in
contrasto con la prospettiva organicista per cui la società e lo Stato sarebbero al di
sopra degli individui227.
Come potrebbe spiegarci ogni persona che si occupa dei diritti umani, esistono
diverse tipologie - o generazioni - di diritti. I diritti civili e politici, detti anche di
“prima generazione”, riguardano nello specifico l’ambito della tutela della persona
e della libertà individuale, fra questi troviamo il diritto alla vita e all’integrità
fisica, così come tutti quei diritti legati alla libertà di pensiero, di religione, di
espressione, di associazione e di partecipazione politica.
I diritti economici, sociali e politici, chiamati diritti di “seconda generazione”,
sono quelli di cui è titolare l’individuo in quanto parte di una collettività. Fra essi
possiamo elencare il diritto all’istruzione, al lavoro, alla casa, alla salute. Questi
diritti sono “positivi”, vale a dire che richiedono l’intervento dello Stato per la loro
garanzia.
P. FARMER, Sofferenza, Diritti Umani e Giustizia sociale in I. QUARANTA (a cura di),
Antropologia Medica. I testi fondamentali, Milano, 2006.
227
Su questi temi cfr. N. BOBBIO, L’età dei diritti, Torino, 1990.
Questioni di confine
101
In anni più recenti si è sviluppata una “terza generazione” di diritti228, che, a
differenza delle prime due, ha un carattere collettivo. I titolari di questi diritti,
dunque, non sono i singoli individui, ma i popoli.
Un punto di partenza per analizzare questi diritti è il Patto sui diritti
economici, sociali e culturali, ratificato dall’assemblea generale delle Nazioni Unite
il 16 dicembre del 1966. Nella prima parte del patto sono elencati due concetti
essenziali: a) il diritto dei popoli all'autodeterminazione (art. 1) e b) il diritto dei
popoli a “perseguire liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale”
(art. 1) cui consegue il diritto di “disporre liberamente delle proprie ricchezze e
delle proprie risorse naturali” (art. 2).
Il Patto, tuttavia, lasciava aperte molte questioni, la prime e più importante
delle quali riguarda il definire che cos’è un popolo. Il patto, infatti, non stabiliva
dei criteri che permettessero di definire in modo univoco quali collettività umane
avrebbero potuto essere considerate “popoli”, e, di conseguenza, sarebbero state
titolari del diritto collettivo all’autodeterminazione.
Vi era tuttavia una definizione implicita di “popolo” che può essere ricostruita
analizzando il percorso che portò alla formulazione del concetto di “diritto
all’autodeterminazione”. Tale postulato era già stato formulato in un precedente
documento delle Nazioni Unite: la Dichiarazione sulla concessione
dell'indipendenza alle nazioni ed ai popoli coloniali del 1960.
Attraverso questa dichiarazione l’ONU riconosceva che l’assoggettamento, lo
sfruttamento o la sottomissione di un popolo al dominio di una nazione straniera,
“costituisce una violazione dei diritti umani fondamentali” (art. 1) e, di
conseguenza, si riconosceva a tutti i popoli colonizzati “il diritto
all’autodeterminazione”, in virtù del quale essi potevano liberamente determinare
il proprio status politico (art. 2).
Il “diritto all’autodeterminazione”, dunque, è stato postulato in prima istanza
come risposta all’urgenza di prendere posizione contro il colonialismo, questione
che, come abbiamo ricordato nei precedenti paragrafi, era rimasta irrisolta nella
Dichiarazione del 1948 ed era stata successivamente messa in evidenza soprattutto
dagli stessi popoli colonizzati, cosa che è ammessa esplicitamente nel documento
del 1960, quando si fa riferimento al “desiderio struggente di libertà dei popoli
dipendenti” e “al ruolo decisivo che questi popoli hanno avuto nel
raggiungimento della loro indipendenza”. 229
228
102
Tali postulati sono stati ampiamente ripresi, arricchiti e rielaborati in
documenti adottati da istituzioni continentali, come la Carta africana dei diritti
dell'uomo e dei popoli, del 28 giugno 1981, in cui i diritti all’autodeterminazione e
all’uguaglianza (art. 19) sono esplicitamente connessi alla possibilità di agire
contro i poteri coloniali: “I popoli colonizzati o oppressi hanno il diritto di liberarsi
dalla loro condizione di dominazione ricorrendo a tutti i mezzi riconosciuti dalla
comunità internazionale” (art. 20 comma 2).
Nei documenti, dunque, il concetto di “popolo”, prima ancora che ad un’unità
sociale, linguistica o culturale, si riferisce alla popolazione di una determinata area,
dipendente o indipendente, e adotta un criterio territoriale.
Questo concetto fortemente territorializzato di “popolo”, corrisponde, in una
certa misura, ad una modalità di rappresentazione del rapporto fra spazio, cultura
e politica che è stata analizzata da antropologi come Akhil Gupta e James
Ferguson230. I due studiosi hanno parlato di una concettualizzazione implicita del
mondo come un “mosaico di culture differenti”, ciascuna delle quali associata ad
una precisa società, localizzata e delimitata. Lo spazio socio-politico, di
conseguenza, è concepito in termini di unità discrete, che hanno un carattere
discontinuo e frammentato: ogni unità politica corrisponde a un gruppo umano
ben definito e a un territorio dai confini chiaramente delimitati.
Questa visione dello spazio emerge chiaramente nella rappresentazione
geografica: una mappa politica ci presenta una serie di paesi, ognuno
contraddistinto da un colore diverso, a cui si presuppone corrispondano altrettanti
“governi”, “popoli” e “culture”. Come hanno dimostrato studiosi come Erik
Hobsbawm231, l’idea di una corrispondenza fra unità politica e unità etnicoculturale -la nazione- percorre l’immaginario politico dei paesi europei ed è stata
imposta come modello per la riorganizzazione dei confini territoriali in seguito alla
decolonizzazione.
Una definizione di “popolo” su base territoriale-nazionale, come quella che
prevalse nei Patti e nei documenti delle Nazioni Unite, tuttavia, presentava dei
punti problematici, fra cui possiamo elencare alcuni dei più salienti:
a) Non veniva fornita una risposta alla questione dei popoli indigeni, delle
minoranze interne e di quelle società che in quegli anni venivano definite “popoli
tribali”, presenti all’interno dei confini degli Stati. Di fatto, i confini fra gli Stati
erano stati spesso tracciati “a tavolino” durante il periodo coloniale o “azzerati” a
vantaggio dell’amministrazione centrale nei processi di colonizzazione interna.
Si comincia, infine, a parlare di una “quarta generazione” di diritti, che non è ancora stata
elaborata con precisione, essendo riferita a fenomeni piuttosto recenti nel campo delle
manipolazioni genetiche, della bioetica e delle nuove tecnologie di comunicazione.
229
Diritti umani e differenza culturale
Declaration on the Granting of Independence to Colonial Countries and Peoples, General
Assembly resolution 1514 (XV) of 14 December 1960.
230
A. GUPTA – J. FERGUSON, Culture, Power, Place: Ethnography at the End of an Era, in A. GUPTA –
J. FERGUSON (eds.), Culture Power, Place. Explorations in Critical Anthropology, Durham, 1997, pp. 17.
231
E. HOBSBAWM, Nazioni e nazionalismi dal 1780. Programma, mito, realtà, Torino, 1991.
Questioni di confine
103
b) Restavano in sospeso i fenomeni di fluidità, le società globali, transnazionali
o trans-locali,232 in cui persone di diversa provenienza e che si riconoscono in
sistemi culturali differenti, convivono in uno stesso spazio sociale. Parallelamente,
era necessario prendere in considerazione il tema, sempre più attuale, delle
comunità delocalizzate, sorte in seguito a fenomeni di diaspora o di emigrazione, e
mantenute attivamente da persone che pur non condividendo uno stesso territorio,
si autorappresentano come parte di una medesima collettività233;
c) Gli spazi contesi, quei luoghi in cui è presente un conflitto, aperto o
potenziale, per il controllo di un territorio e le sue risorse su cui diversi gruppi
avanzano pretese, sono un ulteriore nodo problematico aperto, che non si può in
alcun modo considerare risolto234.
Torniamo per il momento al punto a), il tema dei popoli indigeni e dei diritti
delle minoranze. Di fatto, la legislazione internazionale in questo ambito si è
sviluppata in modo parallelo, molto più lento e travagliato rispetto al tema
dell’autodeterminazione dei popoli.
Il primo dei documenti che stabilì una posizione ufficiale in materia è la
Convenzione sui popoli indigeni e tribali del 1957235. Figlia del suo tempo, la
convenzione si apriva stabilendo che i diritti in essa elencati sono da applicarsi “ai
membri delle popolazioni tribali o semi-tribali” che vivono all’interno di uno Stato
indipendente e che si trovano in “un livello di sviluppo inferiore rispetto al livello
raggiunto da altri settori della comunità nazionale” (art.1a).
Il primo passo necessario, dunque, era stabilire dei criteri per definire chi
poteva essere considerato membro di una popolazione “tribale o semi-tribale”. Il
comma b. del primo articolo ci fornisce una risposta: gli individui “sono
considerati indigeni in virtù della loro discendenza dalle popolazioni che
abitavano il paese, o la regione geografica alla quale il paese appartiene, ai tempi
232
Legati, i primi, all’economia globale, alla crescente flessibilità a livello di capitali, luoghi di
produzione e lavoro; i secondi alla mobilità internazionale della popolazione e gli ultimi
all’impatto di tecnologie e mezzi di informazione di livello globale nella realtà locale. S. M. LOW –
D. LAWRENCE-ZÚÑIGA, Locating Culture, p. 25, in
S. M. LOW – D. LAWRENCE-ZÚÑIGA, The
Anthropology of Space and Place: Locating Culture, Blackwell Publishing, USA, Oxford, 2003.
233
Queste questioni sono state ampiamente analizzate nell’antropologia contemporanea. Fra i
104
Diritti umani e differenza culturale
della conquista e della colonizzazione e che (…) vivono in un modo che è più
conforme alle istituzioni economiche, sociali e culturali di quel tempo, rispetto a
quelle della nazione a cui appartengono”.
I criteri per definire la titolarità del diritto e gli obiettivi della Convenzione del
1957, fondati su un approccio fortemente assimilazionista, erano a dir poco
problematici. Fra i numerosi aspetti che possono essere messi in luce è interessante
evidenziarne due: a) la convenzione non riconosceva dei diritti collettivi ai popoli
indigeni, ma i titolari dei diritti erano i membri di queste collettività in quanto
individui e b) i criteri essenziali236 per stabilire l’appartenenza di un individuo ad
un gruppo sociale erano legati al fatto di discendere da popolazioni indigene; alla
possibilità di dimostrare il radicamento di queste popolazioni nel territorio in
questione prima della colonizzazione e al mantenimento di un modello di vita
“precoloniale”.
Non bisogna dimenticare che, almeno fino al 1989237, la Convenzione del 1957
rimase uno dei pochi documenti ufficiali, riconosciuti a livello internazionale dalle
Nazioni Unite, sui diritti dei popoli indigeni.
Non stupisce, dunque, che i movimenti sociali in favore degli indigeni e le
organizzazioni indigene stesse abbiano fatto proprio il bisogno di dimostrare la
propria “autenticità”, rivendicando un’appartenenza radicata in “qualcosa” di
oggettivo, di concreto, di dimostrabile. Il riconoscimento dei diritti, in un certo
senso, doveva passare attraverso la possibilità di dimostrare il radicamento di una
società in una storia “territorializzata”, in una “diversità originaria” le cui radici
dovevano essere rintracciabili in un periodo precoloniale, spesso difficilmente
ricostruibile.
Vittime di sfruttamento secolare, molte comunità “tribali”, le stesse che gli
antropologi stessi un tempo chiamavano “primitive”, avevano in mano uno
strumento per rivendicare dei diritti a loro negati per secoli, ma tale
riconoscimento passava in primo luogo attraverso la dimostrazione “scientifica”
dell’esistenza di una “diversità” etnica riconoscibile.
Molti antropologi si trovavano nella posizione di dover “certificare la
diversità”, di dover fornire “prove certe” della storia del radicamento di una
popolazione in uno specifico territorio o dell’“autenticità” di una determinata
cultura, dove è “autentico” ciò che precede l’incontro coloniale.
più importanti lavori possiamo citare JEAN-LOUP AMSELLE, Logiche meticce. Antropologia dell'identità
in Africa e altrove, Torino, 1999; ID., Connessioni: antropologia dell'universalità delle culture, Torino,
2001; A. APPADURAI, Modernità in polvere, Roma, 2001.
234
Sul tema cfr. A. APPADURAI, Sicuri da morire. La violenza nell’epoca della globalizzazione, Roma,
2005; M. KALDOR, Le nuove guerre. La violenza organizzata nell’età globale, Roma, 1999; A. MBEMBE,
Necropolitics, in «Public Culture», 2003, 15, (1), pp. 11-40.
235
Redatto e adottato dalla conferenza generale dell’Organizzazione Internazionale del
Lavoro. Doc. 107, Indigenous and Tribal Populations Convention and Recommendations, 1957
236
Sfumato dal comma c e d. che introducono il concetto di “semi-tribali”, per riferirsi alla
condizione di quegli individui che stanno perdendo il modo di vita tradizionale, ma che non si
sono ancora integrati nel modello di vita nazionale.
237
Anno in cui venne redatta il documento Indigenous and Tribal Peoples Convention, 1989 (No.
169), adottato dalla conferenza generale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro ed entrato
in vigore il 5 Settembre del 1991.
Questioni di confine
105
Un’idea così essenzialista e oggettivista di “appartenenza” (etnica o culturale),
perde di vista il carattere fluido, contingente e relazionale delle identità,
riproducendo, stavolta all’interno dei confini di uno Stato, la stessa idea di
frammentazione in “unità discrete” dello spazio politico, sociale e culturale dei
gruppi umani238. Il rischio più immediato è quello di favorire la sovrapposizione
fra etnicità e politica, aprendo le porte all’affermazione di nazionalismi o
rivendicazioni etniche e, nei casi più gravi, a forme di violenza.
Tali questioni continuano a segnare il rapporto fra le popolazioni indigene e
gli Stati: basta pensare alle rivendicazioni del popolo mapuche nei confronti dello
Stato cileno, e alle risposte statali di fronte alla cuestión mapuche, che si declinano,
da una parte e dall’altra, simultaneamente in senso territoriale e politico, culturale
e identitario.
Nel 1989, troviamo i primi tentativi di ripensare il rapporto fra Stato e popoli
indigeni. Innanzitutto vi è una nuova immagine del nativo: la diversità non è più
connotata come arretratezza239 ed è riconosciuta l'aspirazione dei popoli indigeni
“a prendere il controllo delle loro istituzioni, dei loro stili di vita e del loro
sviluppo economico, nonché a mantenere e sviluppare la propria identità, la
propria lingua e la propria religione, nell'ambito degli Stati in cui vivono”. Titolari
dei diritti della nuova convenzione sono “i popoli tribali nei paesi indipendenti”,
la nuova convenzione, dunque, riconosce i diritti alle collettività indigene, ma al
punto 3 del primo articolo tale riconoscimento viene esplicitamente circoscritto
all’ambito di applicazione della convenzione stessa: “l’uso del termine “popoli”
nella presente convenzione, non può essere interpretato come avente implicazioni
di alcun tipo per quanto riguarda i diritti collegati a questo termine nel diritto
internazionale”.
Riconoscere dei diritti “limitati”, circoscritti alla Convenzione, non rischia di
riprodurre una relazione gerarchica fra Stato e minoranze, perpetuando le
politiche di sfruttamento che a lungo hanno segnato tali rapporti? E, d’altra parte,
se dovessimo ipotizzare uno scenario in cui vengono riconosciuti dei diritti
collettivi alle minoranze in quanto popoli, senza restrizioni nell’utilizzo di questa
espressione, non sarebbe questa una via per rivendicazioni di tipo nazionalista o
per lo sviluppo di movimenti separatisti? Non si correrebbe il rischio di una
frammentazione delle unità politiche che andrebbe a minare le basi stesse dello
Stato?
238
Per una riflessione antropologica su questi temi ved. U. FABIETTI, L’identità etnica, Roma,
106
Diritti umani e differenza culturale
Queste restrizioni scompaiono nella recente Dichiarazione sui diritti dei popoli
indigeni, adottata il 13 settembre del 2007, tuttavia, l’articolo 46 in cui è stabilito
che “nulla di ciò che è contenuto nella presente dichiarazione potrà essere
interpretato (…) come un modo per autorizzare o incoraggiare qualsiasi tipo di
azione che possa danneggiare o disarticolare, in modo parziale o totale, l’integrità
territoriale e l’unità politica di uno Stato sovrano e indipendente”. Tale articolo
rappresenta a tutti gli effetti, un tentativo di mediazione fra il riconoscimento dei
diritti dei popoli indigeni e la conservazione dell’unità degli Stati che devono farsi
garante di tali diritti.
La nuova Dichiarazione riconosce un ampio ventaglio di diritti ai popoli
indigeni, e può essere considerata un valido strumento, frutto di un lungo e
faticoso processo i cui protagonisti sono stati soprattutto gli indigeni stessi.
Questo, certamente, non significa che non sia possibile fare delle osservazioni
critiche.
Sullo sfondo del documento, infatti, è possibile individuare una visione
implicita piuttosto irrigidita di concetti come “popolo”, “società” e “cultura”. La
nozione di cultura, per esempio, benché stemperata in alcuni punti, appare
imperniata in un’idea di permanenza, di tradizione e di autenticità piuttosto che di
flusso, cambiamento e contatto240. Questa prospettiva è in diretta relazione con una
rappresentazione dei “popoli indigeni” come “entità” separate, unità localizzabili
dai confini ben definiti, chiaramente differenziate e differenziabili dal resto della
popolazione.
Una definizione di “popoli indigeni” di questo genere non è in grado di tenere
conto delle realtà ibride, fluide, plurali e meticcie. Essa appare ancora insufficiente
per far fronte a situazioni dinamiche, segnate dalla mobilità e dallo scambio, in cui
non vi è una convergenza automatica fra unità politica, unità culturale e territorio.
Questo non vuol dire che gli aspetti territoriali non siano importanti, al
contrario, uno dei punti critici delle tensioni fra i popoli indigeni e gli Stati,
riguarda proprio il territorio e le modalità di sfruttamento delle risorse naturali.
Un buon esempio delle complessità del tema è il caso degli indigeni U’wa, che
inizia nel 1995, quando la multinazionale Oxy, ottenne dallo Stato colombiano una
licenza per lo sfruttamento delle risorse petrolifere presenti nel territorio di questa
comunità. La presenza della multinazionale e l’attività estrattiva ebbe un impatto
immediato sull’ambientale e sulle condizioni di vita ella popolazione. Le proteste
non si fecero attendere e con esse, immediata, la risposta repressiva da parte di
forze statali e parastatali, più volte denunciata dai rappresentanti della comunità
indigena.
2001; F. REMOTTI, Contro l’identità, Roma-Bari, 1996.
239
Al contrario è sottolineato il “contributo dei popoli indigeni “alla diversità culturale e
all'armonia sociale ed ecologica dell'umanità, nonché alla cooperazione e alla comprensione
internazionali”.
240
Cfr. TH. HYLLAND ERIKSSEN, Between Universalism and Relativism. A critique of the UNESCO
Concept of Culture, in COWAN - DEMBOUR, - WILSON (eds.), Culture and rights, cit., pp. 127-148.
Questioni di confine
107
Nel 2002, la pressione internazionale, la forza del movimento in favore degli
U’wa - sostenuto da indigeni, studenti, ambientalisti e attivisti a livello nazionale e
internazionale - e l’apertura di una causa di fronte alla Comisión Interamericana241,
spinsero la multinazionale Oxy a ritirarsi dal territorio U’wa cedendo i diritti di
sfruttamento a Ecopetrol, la compagnia petrolifera colombiana. Lo Stato ridisegnò
i confini della riserva indigena, lasciando fuori dalle aree protette i pozzi
produttivi. Anche se, in questo momento, i progetti di espansione dei pozzi e delle
aree interessate dallo sfruttamento petrolifero, sono fermi in attesa di trovare un
compromesso fra le parti, la comunità, continua a denunciare l’impatto ambientale
irreversibile provocato dall’intervento di Ecopetrol e a segnalare la crescente
militarizzazione del loro territorio, compresa la costruzione di basi militari in
punti strategici e la restrizione dell’accesso degli indigeni a intere aree della
foresta.
È importante segnalare che, di fronte a queste situazioni, l’opinione pubblica è
tutt’altro che omogenea. Come in molti altri paesi, in Colombia sono diffusi e
persistenti gli stereotipi che tendono a rappresentare gli indigeni come gruppi
“ancorati” a modi di vita “arretrati”, che “ostacolano la modernizzazione”.
Simultaneamente la retorica del progresso è spesso una “carta vincente”, giocata
da governi e multinazionali per portare a termini grandi progetti di intervento che,
spesso, intaccano l’ecosistema e disarticolano i sistemi di produzione locale.
L’esempio U’wa ci mostra chiaramente fenomeni apparentemente locali, si
ramificano e si intrecciano con dinamiche di ordine globale. Ci mostra anche come
sia indispensabile sviluppare ancora degli strumenti concettuali capaci di “tenere
insieme” modelli diversi, talvolta opposti come nel caso della produzione e della
gestione delle risorse: modelli come quello degli U’wa incentrati sulla
conservazione delle risorse della foresta, o come quello dello Stato colombiano,
fondato sullo sfruttamento (spesso indiscriminato) di quelle risorse, alla ricerca di
un progresso economico e tecnologico. Ci mostra infine, come sia ancora lungo il
sentiero da percorrere fra la legislazione internazionale e l’applicazione di essa nei
particolari contesti locali e come sia necessario contestualizzare ogni postulato
universalistico, perché esso possa risultare efficace e attinente in un particolare
contesto sociale.
241
P. U'WA. Caso Nº 11.754. La Comisión Interamericana de Derechos Humanos, in seguito
alla denuncia per sfruttamento delle risorse petrolifere del territorio U’wa senza il consenso o la
consultazione preliminare della comunità indigena in questione, esortò il governo colombiano ad
intraprendere un processo pacifico di negoziazione per stabilire delle modalità concordate di
intervento sul territorio.
108
9.
Diritti umani e differenza culturale
Riflessioni conclusive
Spesso i diritti umani sono rappresentati come qualcosa di “universale”, sintesi di
ciò che di meglio c’è nell’essere umano. Tale rappresentazione affonda le sue radici
nella forte vocazione universalista del pensiero occidentale ed è, dal nostro punto
di vista di vista, una costruzione culturale che tende a sottrarre i diritti umani al
confronto con la pluralità delle culture e delle società umane. Se ripercorriamo la
storia della dichiarazione dei diritti umani, tuttavia, osserviamo chiaramente i
diritti umani sono invece situati in senso storico e politico e trovano fondamento in
una particolare concezione dell’essere umano propria del pensiero occidentale.
Ciononostante, vedere i diritti umani come un “costrutto sociale”, situato in
senso storico e politico, piuttosto che come la sintesi di una serie di postulati
“universali” e “naturali”, non deve necessariamente sottrarre validità a questi
strumenti. Al contrario la ricchezza (e il potenziale) delle dichiarazioni, dei patti
internazionali e della giurisprudenza fino ad oggi prodotta intorno alla questione
dei diritti umani, dovrebbe derivare dalla loro potenzialità operativa, all’insegna
di una ricerca costante di modi condivisi per la regolazione e gestione dei conflitti
sociali.
I diritti umani infatti possono considerarsi a pieno titolo strumenti trasversali
che, lo si voglia riconoscere o meno, sono nati dal dibattito, dalla riflessione critica,
dall’attività di particolari gruppi, dalle rivendicazioni e le contestazioni originate
in diversi luoghi e contesti, dalla riflessione su esperienze dolorose e tragiche come
la seconda guerra mondiale, il colonialismo o, in anni più recenti, da fenomeni
come il genocidio rwandese.
Se ammettiamo che i sistemi giuridici sono costruzioni umane, strumenti di
regolazione dei conflitti sociali che permettono di collocare gli eventi reali in una
rappresentazione normativa del mondo, allora dobbiamo anche ammettere che il
diritto umanitario, come ogni altro ambito del diritto, non può che essere
contestuale e situato e, per avere una qualsiasi efficacia in termini sociali, deve
necessariamente essere condiviso sia da coloro che lo usano per portare avanti le
proprie rivendicazioni sia dagli Stati che si impegnano a rispettarlo.
In questo senso il contributo etnografico potrebbe acquisire una centralità
senza precedenti, non più, come nei decenni precedenti, come mezzo per
decostruire l’idea di universalità dei diritti umani, ma, al contrario, a partire dal
presupposto che i diritti umani sono delle “tecniche di convivenza”, dei dispositivi
di azione “in costruzione” che, come suggerisce An-Na’im, dovrebbero svilupparsi
rendendo le particolarità locali “parte dell’equazione”. Una prospettiva di questo
genere renderebbe più sfumato il divario fra le letture universalistiche e il
relativismo, spesso pensato come “incompatibile” con il tema dei diritti umani.
Questioni di confine
109
Un approccio più attento alla dimensione locale, più contestuale, più sfumato,
più fluido e, in fin dei conti, più relativista, mostra la sua validità soprattutto a
livello operativo, quando i diritti cessano di essere qualcosa di astratto e diventano
“pratiche dei diritti umani”.
Tale approccio è, in buona parte, ancora da costruire e il nostro augurio è che
l’antropologia possa contribuire a questo processo. Come scrive Alexander Laban
Hinton gli strumenti di indagine propri dell’antropologia:
… possono offrire un contributo significativo non solo a quelli che hanno come
obiettivo la conoscenza di una società, ma anche per quelli che sperano di
trasformarla. Comprendere l’architettura di una società non è qualcosa che ha solo
un valore conoscitivo in sé – cosa che interessa principalmente l’antropologo – ma
permette anche di tracciare dei percorsi di cambiamento poiché permette di
identificare le condizioni che possono portare a situazioni di violazioni dei diritti
umani e di sviluppare degli interventi mirati, specifici per quella realtà.242
242
IX-X.
A. LABAN HINTON, 2002, Annihilating difference. The anthropology of genocide, Los Angeles, pp.
112
Capitolo 4
Diritti e sicurezza: il futuro nei muri della città
di Emanuele Russo
1.
Introduzione: un nuovo scenario per la difesa dei diritti
fondamentali
TRANTOR…[…] La sua urbanizzazione, con un incremento costante,
aveva infine raggiunto il limite massimo. L’intera superficie del pianeta, 75 milioni di miglia quadrate,
era diventata un’unica città. La popolazione aveva raggiunto i quaranta miliardi di abitanti.
I. ASIMOV, Trilogia della Fondazione
Il futuro dell’umanità è un futuro urbano. Nel 2008, stando al World Urbanization
Prospect delle Nazioni Unite, la popolazione urbana mondiale ha per la prima volta
superato quella rurale243. Le previsioni sono di un proseguimento di questa
tendenza, che potrebbe portare nel 2050 la popolazione urbana ad eguagliare, in
sostanza, quella totale di oggi. L’urbanizzazione del pianeta è un fenomeno
complesso, tuttavia è innegabile che una delle cause maggiori risieda nella fuga di
parti sempre più consistenti della popolazione rurale dalle campagne che,
nell’impossibilità di garantirsi un sostentamento dalla coltivazione della terra o
dall’allevamento, fugge in città con la speranza di trovare un’occupazione. La
rapidità e l’incontrollabilità del processo, tuttavia, ha impedito, specialmente nei
paesi a bassa industrializzazione - ma non solo – di garantire le infrastrutture
adeguate, e tanto meno i posti di lavoro. A oggi, una stima attendibile ritiene che
la popolazione urbana abusiva sia intorno al miliardo di individui, quasi uno ogni
sei abitanti del pianeta244. Città come Bombay, una delle cinque città più popolate
243
Consultabile in http://esa.un.org/unup/.
244
R. NEUWIRTH, Città ombra, Roma, 2007, p. 15.
Diritti e sicurezza: il futuro nei muri della città
del mondo, hanno oggi una popolazione “illegale” uguale a quella regolare. La
città è, oggi più che mai, luogo di enormi disuguaglianze e di conflitti sociali,
teatro di scontri o di vere e proprie guerre tra poveri all’ombra delle cinte murarie
elettrificate che sempre più spesso circondano i quartieri benestanti, di forze di
polizia impegnate a contenere le guerre tra gang criminali all’interno dei quartieri
popolari, trasformati a volte in veri e propri ghetti, di carceri divenuti oramai
dimora periodica di porzioni sempre maggiori di popolazione.
L’avvenire dei diritti fondamentali, posto che ne abbiano uno, avrà dunque
come scenario questa Trantor sempre meno fantascientifica: nell’eterno e artificiale
presente delle sue dorate gated community, nel coprifuoco imposto agli abitanti dei
suoi quartieri abbandonati, nelle sue strade multietniche e nella sua classe media
sempre più esigua. Se la prospettiva di chi studia i diritti umani da un punto di
vista teorico continua ad essere quella del rapporto stato-individuo e, con uno
sguardo più ampio, del rapporto comunità internazionale-individuo, per
un’analisi della loro implementazione diventa oggi necessario, molto più che in
passato, tener conto di una componente spaziale specifica, che differenzi
all’interno degli stati tra aree rurali e aree urbane. Da un punto di vista strategico,
conviene però focalizzarsi maggiormente su queste ultime, divenendo la
componente rurale sempre più residuale nella rappresentazione dell’habitat tipico
dell’essere umano.
Inoltre, è importante notare fin da subito che le differenze tra le grandi
metropoli mondiali tendono a ridursi molto più rapidamente delle disparità tra i
diversi Paesi. Detto altrimenti, PIL più elevati o industrializzazione avanzata non
hanno permesso ai grandi agglomerati urbani del Nord del mondo di evitare i
problemi strutturali di metropoli come Lagos o Città del Messico, ma solo di
ritardarli in parte, e neanche sempre. Per fare un esempio, è stata Los Angeles, la
più occidentale tra le città, a dare i natali ad alcune delle più temibili gang
giovanili, che sono una delle costanti delle maggiori metropoli globalizzate. La
Mara Salvatrucha 13, nata nel centro californiano da immigrati salvadoregni negli
Anni ’80 in opposizione (ed imitazione) alle famose e ben radicate gang
afroamericane Crips and Bloods245, è oggi un problema per la sicurezza non solo in
California, ma in tutte le aree urbane del Centro America. Ed è sempre stata Los
Angeles, e con lei tutta la California del Sud, a inventare le “gated community”,
ovvero le aree residenziali per le classi agiate, completamente privatizzate e
autosufficienti sia nei servizi che nella sicurezza, che oggi sono la norma nei ricchi
quartieri di tutte le città africane e sudamericane. Sovrappopolazione, servizi
insufficienti, criminalità e grandi divari sociali sono caratteristiche comuni delle
città di ogni latitudine, dunque uno studio che si focalizzi su di esse può avere un
245
M. DAVIS, Città di Quarzo, Roma 2008, pp. 247-293.
Questioni di confine
113
orizzonte più esteso rispetto ad altri focalizzati su aree più eterogenee quali quelle
rurali. È da notare comunque fin da subito che le città occidentali, e specialmente
quelle europee, sono però profondamente diverse dalle metropoli del resto del
mondo per quanto riguarda le dimensioni demografiche. Per esempio, una
metropoli come Londra, la più grande città europea, è con sei milioni di abitanti
paragonabile a decine di città di medie dimensioni cinesi, indiane o africane. Però,
pur essendo decisamente minoritario su scala globale, il modello europeo di area
urbana incide ancora fortemente sulla creazione dei parametri, che fissano la soglia
critica di passaggio dalla città alla metropoli ancora intorno al milione di persone.
Ciò significa che, allo stato attuale non si dispone ancora di parametri adeguati alla
misurazione delle dimensioni delle nuove città globali.
Infine, rappresentando una sintesi degli estremi di ogni Paese, le grandi
metropoli sono, in un certo senso, l’osservatorio privilegiato per analizzare le
conseguenze delle due politiche che, a livello globale, hanno assediato negli ultimi
trent’anni, quasi sempre con successo, il complesso giuridico dei diritti
fondamentali: quella neoliberista che, a partire dai primi Anni ’80, ha posto le basi
per il processo di globalizzazione in economia e, più recentemente, quella di
sicurezza condotta in nome della lotta al terrorismo seguita all’11 Settembre 2001.
Se le scelte di Reagan e Thatcher hanno minato alla base lo stato sociale, che
difendeva nei diversi Paesi, seppur in modo diversificato, una categoria di diritti
molto controversa246, il Patriot Act americano e le leggi analoghe apparse
grossomodo ovunque in seguito all’attentato alle Torri Gemelle e al Pentagono
hanno intaccato gravemente l’istituto dei diritti civili e politici, fondamento
insieme ai principi democratici del cosiddetto Mondo libero.
In un’analisi del livello raggiunto nella difesa dei diritti fondamentali, una
volta delimitata l’area di analisi, che almeno per il momento è da considerarsi il
grande agglomerato urbano247, è opportuno interrogarsi sullo status giuridico dei
fruitori degli stessi. Seguendo la lezione di Luigi Ferrajoli248, storicamente un
114
Diritti e sicurezza: il futuro nei muri della città
individuo, per poter essere titolare per lo meno di alcuni diritti, doveva godere dei
seguenti status giuridici: personalità, cittadinanza, capacità di agire. É chiaro,
tuttavia, che la non appartenenza al primo di questi, la personalità, impediva
all’individuo di essere considerato una persona, e di conseguenza anche di venire
incluso, eventualmente, nelle seguenti più ristrette categorie. Ferrajoli afferma che,
a livello teorico, lo status di personalità può dirsi superato; ciò significa che le
uniche categorie ancora utilizzate per limitare giuridicamente i diritti
fondamentali sono quelle di cittadinanza e di capacità di agire. Se nel mondo delle
idee quest’affermazione può considerarsi vera, in quanto nessuno studioso
apertamente razzista o misogino potrebbe conquistare con le sue teorie il pubblico
accademico mondiale, la realtà che emerge dalla cronaca della vita nelle strade
delle nostre città, e purtroppo non di rado anche dei nostri Parlamenti, è
decisamente diversa. Per fare un esempio su tutti, John M. Hagedorn, autore di
uno studio sulle gang giovanili delle principali aree metropolitane mondiali,
afferma senza mezzi termini che “le gang odierne e altri gruppi di giovani armati
non possono essere compresi senza un’analisi della storia di oppressione e di
resistenza razziale, etnica e religiosa”249. Razza, genere, religione e, si può
aggiungere, orientamento sessuale, sono sempre stati determinanti nel
conferimento dello status di persona, e se un accordo teorico sulla irrilevanza di
queste categorie per il riconoscimento dei diritti fondamentali può dirsi esistente,
certo non si può affermare lo stesso per la realtà quotidiana di ogni area del
mondo. A questo livello di analisi, dunque, sembra inevitabile ripartire da capo, e
domandarsi quanto le questioni relative allo status della personalità incidano sulla
fruizione dei diritti fondamentali.
2.
I diritti fondamentali e il roll-back
Il Pangbourne Village […] Tutta l’area comprensoriale, che si estende per circa trentadue acri,
246
I diritti economici e sociali, fin dall’approvazione della Dichiarazione universale dei diritti
è circondata da una recinzione metallica dotata di un sistema di allarme elettronico […]
umani del 1948, sono stati il contributo in materia di diritti umani del blocco sovietico. Alla fine
regolarmente pattugliata da sorveglianti muniti di ricetrasmittente e con un paio di cani da guardia al
del periodo di recessione degli anni ’70 del ‘900, la loro difesa è stata considerata sia dalla
guinzaglio.
Thatcher che da Reagan come un problema, perché impediva, in un’ottica liberista, la ripresa
economica e rappresentava un avallo del sistema di valori dei paesi socialisti.
247
Il World Urbanization Prospect delle Nazioni Unite considera agglomerato urbano
qualsiasi città che superi i 750.000 abitanti. Data la dimensione raggiunta da alcune megalopoli,
positiva (a prestazioni) o negativa (a non lesioni) ascritta ad un soggetto da una norma giuridica, e per
questo limite andrebbe forse rivisto, in quanto ciò porta a considerare alla stessa stregua
‘status’ la condizione di un soggetto prevista anch’essa da una norma giuridica positiva quale presupposto
l’agglomerato urbano di Torino (1.652.000 nel 2007) e Bombay (18.978.000 nello stesso anno).
della sua idoneità ad essere titolare di situazioni giuridiche e/o autore degli atti che ne sono esercizio. In L.
248
Si ricorda qui la definizione di “diritti fondamentali” dell’autore: sono ‘diritti fondamentali’
tutti quei diritti soggettivi che spettano universalmente a ‘tutti’ gli esseri umani in quanto dotati dello status
di persone, o di cittadini o di persone capaci di agire; inteso per ‘diritto soggettivo’ qualunque aspettativa
FERRAJOLI, Diritti fondamentali, Roma-Bari 2002, p. 5.
249
p. 55.
J. M. HAGEDORN, A world of gangs. Armed young men and Gangsta culture, Minneapolis, 2008,
115
Questioni di confine
Nessun estraneo poteva varcare i cancelli del Village senza appuntamento
e i viali e gli accessi alle abitazioni erano costantemente controllati da telecamere tele comandate.
J. G. BALLARD, Un gioco da bambini
La politica di difesa dei diritti fondamentali è oggi non solo stagnante, ma
decisamente in ritirata, nonostante l’esistenza, in America Latina e in altre parti del
mondo, di importanti, per quanto accidentati, processi di democratizzazione. È
come se, da trent’anni a questa parte, si fosse deciso di applicare,
progressivamente ma inesorabilmente, una strategia di roll-back, in modo da
ricacciare indietro tutti i traguardi raggiunti in materia dal 1948. La prima di
queste politiche prende il nome dal Presidente statunitense che l’ha supportata e
applicata, una versione reale dei modelli economici di supply-side e di trickle down,
la reaganomics di Ronald Reagan. In reazione alle crisi petrolifere che negli Anni ’70
avevano causato il più grave periodo di recessione economica dalla Grande
Depressione, l’Amministrazione repubblicana lanciò un progetto di riforma
economica radicale che, attraverso l’abbattimento delle imposte sui redditi da
lavoro e da capitale, avrebbe ridotto le entrate federali, ma anche lasciato una
maggiore disponibilità di denaro ai privati pronta per l’investimento, creando
quindi, almeno potenzialmente, maggiori opportunità lavorative. Coerente con la
sua idea di stato minimo, e al fine di avere più fondi per riprendere la corsa agli
armamenti che avrebbe permesso agli USA di eliminare - e ribaltare - il gap
militare con l’URSS apparentemente creatosi negli Anni ’70, Reagan tentò inoltre
di operare un drastico taglio alla pubblica amministrazione e soprattutto al welfare
state nazionale, in modo da renderlo sempre più residuale e quindi indirizzato ai
soli indigenti. Pur se in forme diverse, questa politica di tagli alle possibilità
d’intervento statale nella società fu applicata anche nel Regno Unito dalla
Thatcher, e si diffuse lentamente in quasi tutto il mondo. Ciò avvenne certamente
perché l’insostenibilità economica dei welfare state tradizionali era percepita da
tutti250, ma soprattutto perché la dottrina neoliberista, che prevede un ritiro
unilaterale dello stato da ogni campo nel quale possano essere applicate logiche di
mercato, divenne, dal 1980, una sorta di pensiero unico in campo economico.
Anche se in un primo tempo questa politica economica sembrò un enorme
successo, poiché permise agli USA di ridurre drasticamente l’inflazione e la
disoccupazione e di entrare in un periodo di boom economico che sarebbe durato
anche per buona parte del decennio successivo, i risultati di lungo periodo
presentano un quadro molto più complesso e drammatico. In primo luogo, la
diminuzione del tasso di disoccupazione si ottenne in larga misura attraverso la
precarizzazione del lavoro, che divenne meno sicuro e meno retribuito, generando
116
un impoverimento della classe media e delle classi più basse. In secondo luogo, la
maggior disponibilità di denaro non produsse affatto maggiori investimenti, bensì
maggiori consumi, composti oltretutto in gran parte da beni d’importazione a
causa del dollaro forte e dell’incapacità dell’industria americana di soddisfare la
crescita della domanda251. Il deficit nazionale quindi si aggravò, facendo diventare
gli USA il maggior debitore mondiale. In terzo luogo, il sistema assistenziale USA
non si ridimensionò come previsto, mantenendo quasi invariati i dipendenti e
quindi non smettendo di gravare sulla bilancia dei pagamenti, ma indirizzandosi
sempre più alle sole classi inferiori scatenò su di esse una spirale di
marginalizzazione, e lasciò porzioni sempre maggiori della classe media senza
supporto alcuno, in quanto troppo ricche per essere aiutate, ma troppo povere per
assicurarsi privatamente i servizi252. Fu quindi proprio la classe media, che più di
altri aveva protestato verso la fine degli Anni ‘70 per l’eccessiva pressione fiscale
richiedendo maggiore libertà di spesa, a venir più danneggiata da queste politiche.
Fino all’attuale crisi finanziaria, il paradigma neoliberista è stato applicato in
tutte le scelte di politica economica dei maggiori paesi, ed ha inciso anche sugli
stati che beneficiano di aiuti internazionali in quanto unico modello economico
accettato da istituzioni quali il Fondo Monetario e la Banca Mondiale.
Dal punto di vista dei diritti economici e sociali, le reaganomics sono state una
bufera dalla quale è difficile prevedere i tempi di uscita. Aldilà di ogni ulteriore
discorso di ordine pratico, il neoliberismo è responsabile di aver imposto una
visione dei diritti economici e sociali non già come di legittime aspettative positive
degli individui nei confronti dello stato, bensì come di semplici servizi che lo stato
concede in parte solo ai più poveri, purché non diventino una scusa per non
lavorare, senza prevedere alcun supporto per tutti gli altri, classi medie e classi
elevate senza distinzione, alle quali si lascia la “libertà” di decidere i servizi di cui
usufruire mediante l’acquisto di essi sul mercato. Il risultato è una lower-class
fortemente stigmatizzata e, nelle nostre società sempre più multietniche, spesso
discriminata in base a pregiudizi razziali, una middle-class sempre più esigua e
precaria e una upper-class che grazie alla disponibilità economica vede i suoi diritti
251
Ad eccezion fatta dei paesi scandinavi e in parte, negli ultimi tempi, della Spagna.
È da notare comunque che l’abbattimento del welfare state trasferisce i costi dei servizi,
prima offerti a titolo gratuito o a prezzo politico, interamente sul potenziale fruitore. Siccome
bisogni essenziali quali istruzione e sanità rimangono immutati a prescindere dall’ordinamento
politico ed economico, e l’eventuale aumento di reddito generato dall’abbattimento delle tasse non
è sufficiente a coprire i costi di un servizio pubblico privatizzato, ne consegue che la porzione di
popolazione che può usufruire, ad esempio, di un’istruzione di buon livello, con politiche di
stampo liberista tende a ridursi.
252
250
Diritti e sicurezza: il futuro nei muri della città
G. MAMMARELLA, Destini incrociati. Europa e Stati Uniti 1900-2003, Roma-Bari, 2003, pp. 237-
250 e R. FRANK, Richistan, Milano, 2008, pp. 132-140.
Questioni di confine
117
garantiti o, per meglio dire, può permettersi una gamma sempre più vasta di
privilegi.
A conferma di questa visione dei diritti economici e sociali come non-diritti
basta soffermarsi sul principio cardine dell’economia trickle-down, che prevede un
“naturale” incremento di forme di carità da parte dei più ricchi a favore dei più
poveri a fine di alleviarne la penosa situazione se solo lo stato permette ai primi di
arricchirsi senza opprimerli con le tasse253. Si tratta di un ritorno del filantropismo
anglosassone e delle opere di carità cristiana del XIX secolo, una negazione di tutta
una tradizione politica che ha difeso il diritto all’accesso universale degli individui
alle risorse necessarie per il proprio sostentamento, l’istruzione e la salute.
Seguendo la categorizzazione dei diritti proposta da Bobbio254, si potrebbe dire, in
altre parole, che paradossalmente nel campo dei diritti economici e sociali si
richiede agli stati di avere lo stesso comportamento che è ottimale, però, solo per la
difesa dei diritti civili, cioè il non intervento. Infatti, se nel caso di arresti arbitrari è
evidente come l’inazione delle autorità si traduca in un diritto dell’individuo alla
libertà dallo stato, è molto difficile capire in che modo, ad esempio nel campo
dell’istruzione e della sanità, un ritiro dell’intervento statale possa tradursi in una
libertà di accesso per l’individuo a servizi come la scuola o l’ospedale. Servizi
fondamentali, che con la privatizzazione diventano a pagamento, e non proprio a
buon mercato. Se a questo quadro teorico generale si aggiunge poi la componente
non trascurabile della cittadinanza, status giuridico normalmente richiesto in molti
sistemi statali per poter accedere in pieno al welfare state, si vede come il
potenziale danno sociale causato da uno smantellamento totale di tale sistema, che
già risulta deficitario in un’epoca storica di enormi flussi migratori, sia enorme.
Sotto questo aspetto, posizioni sedicenti progressiste ed ex parte populi sostenute
dalle correnti neo-marshalliane, riemerse a partire dai primi Anni ’90, sembrano
rafforzare255, più che contrastare, il percorso iniziato da Reagan.
Si potrebbe affermare che, se da un lato il paradigma neoliberista ha inflitto un
colpo quasi mortale all’istituto dei diritti economici e sociali, dall’altro lato ha
difeso, anche oltre misura, i diritti civili. Anche se la repressione dei moti di
protesta contro la nascita del WTO avvenuti a Seattle nel 1999 e contro i summit
delle grandi potenze di Goteborg e Genova permetterebbero di avanzare fondati
dubbi in merito a questa affermazione, si può in parte sostenere che essa contenga
118
Diritti e sicurezza: il futuro nei muri della città
un fondo di verità256. In ogni caso, ogni discorso che faccia propria questa linea di
pensiero perde legittimità a partire dagli attentati dell’11 settembre 2001, che
hanno dato via ad una brusca inversione di tendenza anche in questo campo. Il
Patriot Act e la legislazione che vi è seguita, varata dall’Amministrazione
americana più neoliberista dai tempi di Reagan, hanno inaugurato una stagione di
riforme liberticide in nome della sicurezza e della lotta al terrorismo che ha
investito tutto il mondo. Con la scusa della minaccia terroristica paesi europei e
democratici come l’Italia hanno permesso ai servizi segreti statunitensi
l’esecuzione di decine di arresti e reclusioni arbitrarie sul proprio territorio
nazionale, la più famosa delle quali è quella di Abu Omar, creando di fatto un
doppio sistema di tutela da ingerenze esterne per italiani e immigrati, mentre stati
autoritari come la Cina hanno inasprito le proprie politiche repressive nei
confronti delle Province autonome del Tibet e soprattutto del Sinkiang, abitato
dalla popolazione uigura di religione musulmana257. Parallelamente, in diversi
paesi sono stati inaspriti e estesi i codici penali, e in nome della sicurezza delle
città sono state istallate tecnologie di controllo e ripresa di azioni “potenzialmente
illecite” in ogni quartiere dei maggiori centri abitati. A questa esplosione di forme
penitenziarie di controllo nelle strade delle città non è corrisposto però un
incremento delle risorse messe a disposizione delle forze di polizia, che in molti
casi hanno anzi visto i loro budget ridursi drasticamente, cosa che ha impedito
loro di svolgere anche le attività di controllo ordinario258.
Sebbene sia forse eccessivo, ma non troppo, sostenere che Guantanamo sia
diventato una sorta di modello ideale per la gestione della sicurezza259, conviene
chiedersi almeno perché da un lato, in diversi paesi tra cui l’Italia, si approntino
avanzati sistemi di controllo - e intrusione potenziale nella sfera privata - di ogni
individuo e si dispieghi l’esercito in tempo di pace nelle città al fine di assicurare la
sicurezza delle strade, e dall’altro si taglino i fondi alla sola istituzione che avrebbe
il diritto di garantirla, la polizia. Di questo ripiegamento dei diritti civili, che a
differenza di quelli politici, economici e sociali sono sempre stati garantiti a tutti
gli individui (pur con l’esclusione, non irrilevante, dei diritti di residenza e di
256
Sembra comunque che la tutela si sia indirizzata in realtà quasi esclusivamente verso la
libertà di impresa e generalmente verso i diritti di proprietà che, seguendo la lezione di Ferrajoli,
non possono essere considerati diritti fondamentali in quanto strutturalmente diversi dalle altre
253
F. GIROTTI, Welfare State, Roma, 2004, pp. 323-336 e R. FRANK, Richistan, cit.
254
N. BOBBIO, L’età dei diritti, Torino, 1990, p. 27.
255
T. H. MARSHALL, Cittadinanza e classe sociale, Torino, 1976. Il dibattito sulla cittadinanza è
troppo esteso per poter essere pienamente riportato. Rimando quindi alla raccolta di saggi
contenuta in D. ZOLO (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Roma-Bari 1994 e
L. FERRAJOLI, Diritti fondamentali, Roma-Bari, 2002.
categorie qui in oggetto.
257
AMNESTY INTERNATIONAL, Voli segreti, Torino, 2006, Invisibili, EGA, Torino 2006 e
Lampedusa, ingresso vietato, EGA, Torino 2005.
258
A. CUSTODERO, Polizia, mancano i soldi, ferma un’auto su tre, www.repubblica.it/2009/
03/sezioni/cronaca/polizia-auto/polizia-auto/polizia-auto.html.
259
A. DAL LAGO, Il filo spinato che ci circonda, il manifesto, 29/03/2008. Su Guantanamo, tra gli
altri, C. BONINI, Guantanamo, Torino, 2004 e N. SASSI, Prigioniero 325, Delta Camp, Torino, 2006.
Questioni di confine
119
spostamento), possono già trovarsi casi particolarmente avanzati, che
rappresentano un’inquietante anticipazione di quello che potrebbe essere il futuro
delle nostre metropoli: sempre a Los Angeles, ad esempio, i coprifuoco nei
quartieri poveri e a maggioranza latina e afroamericana dopo il tramonto è una
realtà quotidiana fin dagli Anni ’80260. Si tratta di intere aree urbane sottoposte ad
un regime di guerra perché definite dal Los Angeles Police Department (LAPD)
come pericolose per la sicurezza. Non si tratta di zone abusive né di aree abitate
solo da immigrati. Il LAPD, tra l’altro, è stato il primo corpo di polizia ad essere
completamente interconnesso, fin dal 1984, con un prototipo militare di rete web,
nonché il primo ad usare tattiche e attrezzature militari nella guerra contro le
gang. In California e nel resto degli Stati Uniti la popolazione carceraria ha subito
un forte incremento negli ultimi anni261, così come in molti paesi262 non solo
europei, e le percentuali delle minoranze etniche tra i detenuti sono decisamente
superiori alla media delle stesse nel contesto nazionale263. In alcuni casi si ha la
sensazione che il carcere stia prendendo lentamente il posto del welfare state come
principale strumento di gestione delle disparità sociali264. C’è da chiedersi se
questo sia un sistema sostenibile, anche solo dal punto di vista economico.
In ogni campo, il movimento per la rivendicazione di una piena difesa dei
diritti fondamentali si trova dunque a combattere battaglie già vinte in passato, e
in alcuni casi a veder messa in discussione, da parte dell’autorità, non solo
l’applicabilità teorica universale dei diritti umani, ma la stessa validità erga omnes
del Diritto nel contesto nazionale.
260
M. DAVIS, Città di quarzo, cit., pp. 215-245 e p. 262.
261
Stando ai dati ufficiali, la popolazione carceraria degli Stati Uniti è passata dalle poco più di
500.000 unità del 1980, alle quasi 2.300.000 unità del 2007. Nel 2007 più di sette milioni di
americani, cioè più del 2% della popolazione, hanno avuto a che fare, in un modo o nell’altro, con
il sistema carcerario americano. Delle cinquanta maggiori giurisdizioni carcerarie americane, un
quinto si trovano in California, e la giurisdizione di Los Angeles è la prima del Paese. Fonte:
Bureau of justice Satistics, http://www.ojp.usdoj.gov/bjs/glance/tables/corr2tab.htm.
Da questi dati sono esclusi i detenuti in carceri private.
262
In Italia la popolazione carceraria a fine 2008 era di poco superiore alle 58.000 unità. Nel
1991, primo anno disponibile sul sito dell’ISTAT, la popolazione carceraria era di poco più di
31.000 unità. Il dato odierno si avvicina alle circa 61.000 unità di incarcerati prima dell’indulto del
2006. La percentuale di detenuti sulla popolazione totale è inferiore all’1%. Fonte:
http://www.giustizia.it/statistiche/statistiche_dap.
120
3.
Diritti e sicurezza: il futuro nei muri della città
Contro il niente: la condizione degli ultimi e l’elaborazione di
strategie di opposizione
You better wake up and smell the real flavour
Cause 911 is a fake life saver.
PUBLIC ENEMY, 911 is a joke
It’s not my imagination I’ve got a gun on my back!
BLACK FLAG, Revenge
Bronzeville, Chicago o Skid Row, Los Angeles non sono altro che zone di guerra
nel territorio cittadino separate dai quartieri della gente onesta da una “sottile
linea blu” 265. In questa metafora usata nel 1965 dal capo del LAPD Daryl Gates
durante la rivolta afroamericana di Watts è racchiusa un’intera filosofia di
intervento nei confronti dei quartieri più poveri delle città, che concepisce il
problema di zone urbane con alte percentuali di povertà esclusivamente come una
questione di contenimento, da affrontare con forze di polizia ben equipaggiate e
disposte, in alcuni casi, anche a militarizzarsi. Anche se in modo non sempre
coerente, come è stato sottolineato più sopra, si può affermare che tale prospettiva
non sia cambiata molto negli anni, né a Los Angeles né altrove. Ne consegue che
gli abitanti delle aree depresse delle metropoli vengono spesso stigmatizzati come
se fossero dei criminali a prescindere dall’aver o meno compiuto attività illegali e,
nel caso di zone in cui sono attive gang giovanili, vengono automaticamente
considerati loro adepti, o quantomeno loro complici. In inglese questi quartieri
“fuori cartina” vengono chiamati slum: la parola stessa ha una connotazione
fortemente negativa, in quanto rimanda ad un’idea di posto sovraffollato, sporco e
pericoloso266, molto spesso abitato da abusivi, cioè da persone che violano la
proprietà altrui. In questi luoghi, la polizia entra raramente e di solito durante
operazioni antidroga in cui non sono infrequenti episodi di brutalità gratuita; i
servizi pubblici, dai trasporti alla fornitura di elettricità, sono intermittenti o
mancanti e gruppi criminali di varia natura agiscono incontrastati. La nascita e
l’espansione di queste aree in tutte le città del mondo ha diverse ragioni, che
vanno dall’inurbamento massiccio della popolazione rurale, a seguito di carestie o
più semplicemente a causa del crollo generalizzato dei prezzi dei beni alimentari,
che hanno reso impossibile ai piccoli coltivatori di vivere solo di agricoltura,
In Italia, a fronte del 6,5% di stranieri in rapporto alla popolazione nazionale (2008), si
263
riscontrava nel 2007 una popolazione carceraria di origine straniera superiore al 37%. Fonte:
ISTAT.
264
A. DAVIS, Aboliamo le prigioni?, Roma, 2009.
265
M. DAVIS, Città di quarzo, cit., p. 412.
266
R. NEUWIRTH, Città ombra, cit., pp. 21-22.
Questioni di confine
121
all’inesistenza di piani regolatori cittadini o al mancato rispetto di essi.
Certamente, ha influito molto l’apprezzamento dei terreni edificabili, che ha
impedito a sempre più persone l’accesso alle aree più servite della città, troppo
care per potervi acquistare un appartamento o anche solo per affittarlo. Di fatto, in
queste zone risiederà, entro breve tempo, la metà della popolazione urbana del
pianeta. Interi spazi rurali che un tempo si estendevano al di fuori delle metropoli
in paesi come l’Indonesia vengono da esse assorbite in questi quartieri amorfi,
andando a creare un ibrido tra città e campagna che potrebbe diventare la forma di
urbanesimo dei prossimi anni267. Ci sono slum che sono ormai divenuti centrali
nelle metropoli, a causa dello spostamento del centro finanziario in zone
periferiche di nuova costruzione o perché site in vecchie aree industriali dismesse
e poi abbandonate. Altri, semplicemente, sono divenuti centrali perché la
campagna aperta alle loro spalle è stata inurbata. Ciò significa che chi vive anche
lontano dalla città, contadino, allevatore o pescatore che sia, posto che riesca a
sopravvivere e quindi a non emigrare in città, può sempre trovarsi ad un certo
punto con la città che bussa alla sua porta. In alcuni di questi casi, i proprietari dei
terreni o delle abitazioni hanno deciso di valorizzare il quartiere in modo da trarre
profitto dalla nuova posizione favorevole, avviando processi di ristrutturazione
urbana che hanno fatto lievitare i prezzi a tal punto da rendere impossibile ai
vecchi inquilini di restare, costringendo intere famiglie a spostarsi altrove per far
posto a persone più facoltose. Hagedorn, che parlando di Chicago nota che spesso
in questo “rinnovamento” dei quartieri a cambiare è in primo luogo l’etnia
prevalente, ha affermato che “se Chicago fosse la Bosnia, certamente, la creazione
di sfollati interni sarebbe chiamata pulizia etnica”268.
Il problema centrale di queste aree, citate solo negli articoli di cronaca nera, non
dovrebbe essere considerato l’alto tasso di criminalità, bensì la questione della
proprietà della terra. Non si tratta certo di un lettura originale quella che vede nel
possesso o meno di un territorio l’origine della disuguaglianza tra gli individui269,
ma rappresenta il nodo cruciale per contrastare concretamente il declino sociale
delle città. Da un lato, infatti, la possibilità di acquistare enormi territori cittadini e
suburbani a scapito del benessere di intere metropoli è ciò che permette a pochi
individui di privatizzare all’interno delle gated community la maggior parte delle
risorse a disposizione; dall’altro, l’impossibilità di ottenere alcuna sicurezza a
267
268
Diritti e sicurezza: il futuro nei muri della città
causa del mancato possesso della terra per coloro che abitano negli slum o negli
insediamenti abusivi, impedisce qualsiasi lavoro di ristrutturazione e costruzione
di infrastrutture diverso dal semplice radere al suolo e costruire per altri
pianificato dai proprietari, e obbliga i primi ad affidarsi alle gang criminali per
ottenere ciò che lo stato si rifiuta di dare.
Per affrontare il problema, è possibile prendere diverse strade: ci si può
interrogare sulla possibilità di riproporre una versione aggiornata di
collettivizzazione delle terre urbanizzate oppure studiare le condizioni che, se
soddisfatte, rischiano di condurre le gang ad unirsi per una rivolta armata dei
“dimenticati”. In alternativa, seguendo in certa misura la strada aperta dai cultural
studies, si può scegliere una sorta di terza via, cioè di impegnarsi in un’analisi dei
bisogni degli abitanti delle città e dell’idea che essi hanno di sé stessi, non
trascurando né i primi, gli abitanti delle “gated community”, né gli ultimi, cioè
coloro che abitano nei bassifondi. Per i primi, è importante sottolineare fin da
subito che nella stragrande maggioranza dei casi non si parla più – solo – degli
abitanti del Richistan globale, secondo un felice neologismo dell’esperto del Wall
Street Journal Robert Frank, ma, come si è visto, di una classe media sempre più
terrorizzata dalla criminalità e orientata ad emulare i più abbienti, che arriva anche
a polverizzare i propri risparmi e indebitarsi pur di sentirsi più sicura. Le ricerche
sulle ragioni sottostanti ad una scelta di auto-segregazione sono ormai numerose,
anche se prevalentemente legate al contesto statunitense, ed evidenziano in alcuni
casi il bisogno di vivere in un ambiente esclusivo, ma anche e soprattutto la
necessità di avere una casa sicura e un mondo fuori in cui lasciar uscire i propri
figli senza paura270. Si tratta degli stessi bisogni espressi dagli abitanti dei quartieri
più poveri, nel cui caso si aggiungono però le preoccupazioni per un lavoro
instabile o inesistente, per la presenza di forze di polizia, quando ci sono,
esclusivamente come minaccia e non come garanzia di sicurezza, per l’assoluta
insufficienza di servizi minimi di qualità accessibili. Anche in questo caso la
letteratura esiste ma, seguendo il consiglio di Hagedorn, forse è più utile partire
dalla sterminata produzione musicale che esce da queste aree, unica forma di
espressione artistica accessibile veramente a tutti271. L’autore di A world of gangs si
sofferma sulla cultura hip-hop e sul gangsta rap, ormai diventata la colonna
sonora delle periferie dimenticate di tutto il mondo272, dai ghetti di Los Angeles
alle favelas di Rio de Janeiro, passando dalle banlieues parigine; ma esiste un’altra
M. DAVIS, Il pianeta degli slum, cit., p. 17.
J. M. HAGEDORN, A world of gangs. Armed young men and Gangsta culture, cit., p. 124. Il
termine inglese per definire questo fenomeno e gentrification. In Italia viene solitamente usato e
quindi non tradotto ma alcuni autori lo italianizzano, e parlano quindi di “gentrificazione”.
269
122
Il punto di partenza più ovvio è chiaramente il Rousseau del Contratto sociale I, IX e del
Discorso sull'origine e i fondamenti dell'ineguaglianza tra gli uomini.
270
Tra gli altri, E.J. BLAKELY - M.G. SNYDER, Fortress America, gated communities in the United
States, , Washington D.C., 1997.
271
J. M. HAGEDORN, A world of gangs. Armed young men and Gangsta culture, cit., p. 142.
272
Si pensi anche solo al cantante Emmanuel Jal, star del rap africano, ex bambino soldato
sudanese che racconta attraverso le canzoni la sua storia.
Questioni di confine
123
forma musicale di protesta e di riscatto sociale nata dai quartieri-dormitorio
occidentali, spesso bianchi ma non solo, capace di esprimere gli stessi bisogni e la
stessa voglia di riscatto, che è il punk. Il punk, nelle sue molteplici sfaccettature,
che comprendono anche la deriva razziale e razzista del cosiddetto “nazi-rock”, ha
dato e continua a dare ad intere generazioni di giovani bianchi, ma non solo, un
modo per esprimere la realtà delle zone peggiori delle nostre città273. L’approccio
di Hagedorn allo studio della cultura delle gang può apparire, e certamente lo è,
non ortodosso. Ad esempio, si focalizza poco sui dati statistici, che forniscono una
lettura “oggettiva” della composizione dei quartieri, ed evita una ricostruzione dei
conflitti urbani da un punto di vista di lotte di classe. Sembra, invece, più
interessato alla linea di confine determinata dal colore della pelle, indifferente
quindi al reddito o alla classe di appartenenza, e ai questionari quantitativi sembra
preferire analisi più approfondite e, forse, meno generalizzabili, che derivano da
interviste in profondità ai protagonisti della guerra tra gang. A rendere il tutto
ancora più complesso, poi, aggiunge anche l’analisi dei testi delle canzoni, che
fungono sia da strumento di denuncia diretto degli abitanti degli slum sia da
volano preferito da essi per la costruzione e promozione della figura mitica del
gangster e del suo spericolato way of life. Un’analisi più lineare di tipo
quantitativo avrebbe potuto a prima vista sembrare più adatta per fornire un
quadro chiaro delle condizioni di vita delle città, ma avrebbe corso il rischio di
ridurre il grado di complessità al punto da rendere infruttuosa la ricerca di
soluzioni. La realtà delle metropoli è magmatica, e richiede, per essere studiata, un
approccio rigoroso ma parimenti multiforme. Innanzitutto, è importante
cominciare attraverso l’analisi il più possibile ampia del cambiamento delle città
negli ultimi anni a ogni latitudine, in modo da rintracciare le linee di tendenza
principali e creare una sorta di categorizzazione delle diverse aree urbane. Come è
stato accennato, infatti, esistono le grandi megalopoli, che spesso sono le capitali
nazionali, per le quali esistono pianificazioni più o meno strutturate e dove sono
presenti le maggiori risorse economiche del paese, ma esistono soprattutto città di
medie dimensioni che subiscono sconvolgimenti demografici di pari natura senza
avere gli strumenti politici ed economici per farvi fronte. Tra queste ultime, poi, si
trovano quegli ibridi urbano-rurali per l’analisi dei quali i parametri tradizionali
sembrano non funzionare più. Le fonti più complete per questo tipo di analisi
sociale sono senza dubbio gli studi condotti secondo la metodologia degli urban
273
124
Diritti e sicurezza: il futuro nei muri della città
studies, prodotti sia nei paesi europei che extra-europei. Questi studi sono utili
anche per porre in evidenza la parziale incomparabilità della realtà europea con il
resto del mondo.
Una volta completata l’analisi, possibilmente facendo uso di fonti di prima
mano, del territorio su cui si vuole operare, ci si deve concentrare sul tema dei
diritti. Ciò significa analizzare, a cominciare dalle ricerche sul tema già esistenti,
quali sono i diritti fondamentali maggiormente violati nelle aree urbane nel
mondo che, chiaramente, hanno uno stretto legame con la struttura urbana stessa,
come ad esempio la mancanza di servizi sanitari in ogni quartiere, o di scuole.
L’obiettivo di questa analisi è delimitare l’area di ricerca ad un nucleo comune di
diritti fondamentali che, se rispettati, permetterebbero di soddisfare i bisogni
sentiti come primari dai cittadini globali. La sfida è quella di riuscire a fare lo
stesso lavoro sia per gli abitanti degli slum che delle gated community, riuscire, in
altre parole, ad abbracciare la città al di qua e al di là dei suoi muri. Nello studio
della condizione degli slummers, può contribuire a rendere più completa l’analisi
un ascolto il più possibile immediato delle canzoni di gruppi o cantanti
particolarmente significativi, le cui canzoni, contribuendo a costruire la
rappresentazione della realtà di determinati gruppi ne costruiscono la cultura
effettiva, per proseguire con un’analisi linguistica (ad esempio attraverso un
software del tipo TACT274) che evidenzi quali sono i temi ricorrenti. Una volta
terminata la ricognizione di testi e ricerche accademici e realizzato un primo
studio sulla produzione musicale e culturale di alcune aree selezionate come
campioni significativi, è possibile alla ricerca sul campo vera e propria. Un periodo
di ricerca sul campo è utile sia per incontrare esperti capaci di convalidare, o
confutare, le ipotesi costruite nelle fasi di studio, sia per il reperimento di altri testi
fondamentali per il completamento dell’analisi delle unità minime di
informazione, o dei memi, per usare il termine coniato da Richard Dawkins275, che
permettano di avere un quadro complessivo del problema del rispetto dei diritti
fondamentali. Senza un bagaglio di informazioni reperito direttamente sul campo
attraverso interviste, infatti, il solo ausilio dell’analisi delle canzoni oltre ai testi
accademici potrebbe essere fuorviante. Per fare un esempio, un artista rap molto
famoso ha di solito un grande potere, perché non solo riesce a far sapere a tutti
qual è la sua visione del mondo, ma può anche plasmare quella di chi lo ascolta. Se
l’unica fonte “immediata” fossero le sue canzoni, sarebbe difficile una distinzione
tra la realtà e la versione poetica o romanzata di essa. Le interviste in profondità e
Per citare solo quattro dei contributi principali:
S. BLUSH, American hardcore, a tribal history, Los Angeles – New York, 2001,
274
www.chass.utoronto.ca/tact/. Si tratta di un software per l’analisi testuale utilizzato, nella
J. SAVAGE, England’s dreaming, 1991, trad. It. Il sogno inglese, Roma, 2002,
nostra Università, da Michelangelo Conoscenti nel saggio Language engineering and media
V. MARCHI, Nazi-rock, pop music e destra radicale, Roma, 1997,
management strategies in recent wars, Roma, 2004.
I. GLASPER, Anarcopunk, il punk politico inglese, Milano, 2008.
275
R. DAWKINS, Il gene egoista, Milano, 1994.
Questioni di confine
125
le storie di vita di soggetti significativi raccolte di prima mano sul posto
permettono di scongiurare questo rischio. Di grande aiuto, poi, è l’analisi degli
esperimenti riusciti a livello istituzionale e nel mondo del volontariato o delle
ONG di tutela dei diritti fondamentali nelle aree urbane, in modo da elaborare un
possibile approccio realistico al problema.
Si tratta, certo, di un approccio non accademico, o almeno non accademico nel
senso tradizionale e soprattutto italiano del termine. Però, verso la ricerca di
soluzioni per il rispetto dei diritti fondamentali a partire dall’ascolto diretto dei
cosiddetti stakeholders si stanno muovendo, negli ultimi anni, non più soltanto i
movimenti “altermondialisti”, ma anche alcune delle più importanti ed
istituzionalizzate ONG specializzate sul tema. Per fare un esempio su tutti, questa
è la strategia politica delle nuova Campagna mondiale di Amnesty International,
la Demand Dignity, lanciata ufficialmente a maggio del 2009, e che rivoluzionerà
completamente, nei prossimi anni, l’azione del Movimento.
4.
La “Demand Dignity” e il nuovo approccio di Amnesty
International
Può essere utile accennare brevemente al percorso politico compiuto da uno dei
più importanti movimenti a difesa dei diritti fondamentali, in modo da porre in
evidenza la prospettiva abbracciata da chi promuove un’applicazione universale
della legislazione internazionale sui diritti umani. Amnesty International,
movimento di individui nato a Londra ad opera dell’avvocato Peter Benenson nel
1961, non nasce come associazione di difesa dei diritti umani. Piuttosto, si pone
come gruppo di persone interessate a difendere in tutto il mondo la libertà di
opinione e di religione, il che significa che l’attenzione dei primi volontari si
focalizza sostanzialmente solo sugli articoli 9 e 18 della Dichiarazione Universale
dei Diritti Umani del 1948 e, in parte, sull’art. 5, che prevede il divieto di tortura.
Dal 1961 il Movimento impiega quasi quarant’anni per passare da un approccio
detto prisoner oriented e poi victim oriented ad uno propriamente human rights
oriented, cosa che avviene completamente solo nel 1999. Parimenti graduale è il
processo che porta a non porsi più soltanto in chiave oppositiva delle violazioni,
ma anche promozionale del rispetto dei diritti umani, attraverso programmi di
educazione specifici per ogni paese (1991, International Council of the Movement
di Yokohama). E soprattutto, è sempre solo dal 1991 che Amnesty si apre ai diritti
economici , sociali e culturali. Questo cammino, iniziato ormai quasi vent’anni fa,
arriva con la Campagna Demand Dignity a suo compimento. Per quanto non sia
126
Diritti e sicurezza: il futuro nei muri della città
ancora possibile dire come verrà presentata ufficialmente276, è chiaro che, già dal
nome, questa iniziativa di Amnesty, senza dubbio molto ambiziosa, rappresenta
un potenziale cambiamento nel discorso internazionale dei diritti umani notevole.
Infatti, quello che si dice non è più che i diritti umani sono importanti per tutti e
che gli stati firmatari dei trattati, così come le imprese e soggetti politici
indipendenti come i gruppi armati, sono tenuti a rispettarli, ma si lega per la prima
volta, in modo esplicito, la mancanza diritti umani come causa di perdita di
dignità per l’individuo. In altre parole, si sostiene che la dignità di una persona è
data, da un lato, dalla tutela dei diritti civili, attraverso la non-azione dello stato, e
dei diritti politici, attraverso l’esistenza di esso come regime democratico;
dall’altro dal rispetto dei diritti economici, sociali e culturali attraverso l’accesso
alle risorse. Questa affermazione può risultare, secondo una prospettiva
culturalista, ancora più arrogante della posizione secondo cui esistono diritti che
spettano a tutti gli individui a prescindere da qualsiasi peculiarità culturale. Ma al
di là del conflitto tra posizioni teoriche, esistono problemi di ordine pratico: ad
esempio, prendendo il diritto alla casa, chi stabilisce lo standard minimo che deve
avere un’abitazione per essere considerata dignitosa? Si tratta di un quesito
insidioso,molto più difficile da affrontare, rispetto al battersi “semplicemente” per
un diritto all’abitazione. Per ovviare a questo problema, che investe, chiaramente,
molto più la sfera dei diritti economici, sociali e culturali rispetto alle altre
categorie di diritti, Amnesty ha deciso di partire dal basso, concentrandosi
sull’analisi dei bisogni espressa dagli stakeholders stessi, mediante un lavoro in
collaborazione con le associazioni e gli attivisti locali, per poi elaborare strategie
globali utilizzando le proprie competenze e la propria esperienza in tema di diritti
umani. La tecnica rappresenta un ribaltamento dell’azione tradizionale del
Movimento, che in genere ha sempre avuto con le associazioni locali un rapporto
più “paternalistico”, andando in sostanza in loro difesa, in quanto grande ONG
internazionale, quando un governo o un soggetto economico forte minacciava il
loro operato. Non è possibile stabilire se Amnesty International, così come altre
grandi ONG e OI, riuscirà ad adattare la propria struttura a questo nuovo
approccio, che richiede una permeabilità, una flessibilità e soprattutto una capacità
di autocritica che solitamente manca alle grandi istituzioni. Certo è che questo
generale sforzo, per quanto al momento solo sulla carta, di rinnovamento nel
mondo dei grandi protagonisti della difesa dei diritti umani, mostra il consolidarsi
a livello globale dell’idea che sia giunto il momento affrontare il problema della
scarsità di collegamenti tra i grandi progetti internazionali, che tendono ad
incidere poco sul territorio risultando più autoreferenziali che realmente efficaci,
276
Cfr I. KHAN, The unheard truth, London, 2009.
Questioni di confine
127
ed i piccoli progetti locali, che sono spesso di successo ma producono effetti
benefici su troppe poche persone.
5.
Conclusioni
In questo breve articolo si è cercato di delineare lo scenario di azione futuro per
coloro che, a diversi livelli, si troveranno ad affrontare tematiche legate al rispetto
dei diritti umani. Ciò che è sempre importante tenere a mente, comunque, è che si
sta parlando di persone, problemi e situazioni concrete. I diritti umani, come viene
affermato nella Dichiarazione Universale delle Nazioni Unite, sono quelle libertà e
quelle possibilità senza le quali l’essere umano è privato della propria dignità.
Esistono certo differenze culturali, situazioni di emergenza, divergenti
impostazioni politiche, ma è difficile negare che, almeno nei bisogni primari, come
la casa o la salute fisica, esista una sostanziale comunanza di vedute per gli esseri
umani di ogni latitudine. Dietro ogni diritto proclamato nella Dichiarazione e nei
trattati ad essa seguiti esiste un bisogno concreto ed universale. Ciò che universale,
nel senso di unico, non può essere, è il modo in cui a questo bisogno si potrà
rispondere. I trattati sui diritti umani dovrebbero essere visti come un elenco, certo
mai completo e sempre ampliabile, di bisogni umani primari messi in positivo. Nel
difenderli, ognuno dovrebbe poi interrogarsi sulla via migliore per realizzarli a
partire dalla situazione concreta. Una teoria generale applicata dall’alto senza
nessuna conoscenza del luogo e delle persone che lo abitano rischia di essere
inefficace e spesso dannosa; un’azione di difesa dei diritti di una popolazione
condotta senza avere un quadro concettuale chiaro e generale non avrà, parimenti,
risultati migliori.
Da ultimo è importante tenere presente che la concezione di società alla base
dei diritti umani è individualistica. Sono note le ragioni storiche di questa
impostazione, e cioè il fatto che la culla dei diritti umani è l’Occidente. Innegabile
è, inoltre, che per molti diritti il focalizzarsi esclusivamente sull’individuo, non
tenendo conto della comunità in cui è inserito, porta inevitabilmente a perdere la
battaglia per la loro difesa. Non ha senso, infatti, sostenere di tutelare la libertà di
un Mapuche cileno a mantener viva la propria lingua d’origine perché non lo si
arresta quando la parla, se contemporaneamente si impedisce ai giovani di
studiarla se lo desiderano. Tuttavia, una sostituzione dei diritti umani con i diritti
della comunità di origine impedirebbe all’individuo che per qualche motivo
vedesse i propri bisogni fondamentali non soddisfatti nella propria comunità di
venire difeso. Allo stesso modo, impedirebbe la difesa di un individuo che per
qualche motivo si trovasse a non avere una comunità di riferimento perché
128
Diritti e sicurezza: il futuro nei muri della città
lontano o cacciato da essa. Se sembrano situazioni ipotetiche, si pensi ai più di
settecento milioni di migranti a oggi presenti nel mondo, o agli omosessuali.
In questa lettura, i diritti umani smettono di essere una fede o un
instrumentum regni nelle mani dei governi, soprattutto occidentali. Diventano,
invece, uno strumento politico primario nelle mani dei loro stessi titolari, la stella
polare per l’elaborazione di efficaci strategie di opposizione agli abusi da parte
dell’autorità, di qualsiasi natura essa sia.
130
Capitolo 5
Immigrazione e tutela dei Diritti Umani nel diritto
internazionale ed europeo
di Mario Carta
Per lungo tempo i fenomeni migratori sono sfuggiti alla interpretazione e alle
esigenze di classificazione degli studiosi e dei ricercatori del diritto, e non solo
loro per la verità, in ragione di fattori riconducibili a cause e motivi assai diversi
tra i quali va sicuramente annoverata la complessità che presenta il fenomeno in
questione. Tale complessità, dovuta in parte al fatto stesso che l’immigrazione
riguarda flussi, movimenti di persone che si spostano o attraversano frontiere di
paesi diversi, spesso tra loro assai lontani e con culture differenti, ha favorito un
approccio non settoriale al tema ma, anzi, ispirato ad un metodo interdisciplinare,
valorizzando il contributo di scienze tra loro assai eterogenee quali quelle
economiche, la demografia, le relazioni internazionali, la sociologia e sicuramente
il diritto.
Anche però da una prospettiva più strettamente giuridica, dove si pongono
problemi di governo del fenomeno in una prospettiva di medio-lungo periodo,
altro aspetto di tale complessità, in molti documenti internazionali ed europei (ad
esempio il Programma dell’Aja che si chiude nel 2009 o quello di Stoccolma che ci
accompagnerà sino al 2014) si privilegia quello che è stata definito “l’approccio
globale” o integrato al fenomeno migratorio. È significativo che persino gli
strumenti esplicitamente dedicati all’aspetto repressivo del fenomeno, come il
Protocollo alla Convenzione di Palermo adottato nell’ambito delle Nazioni Unite
del 2000 e volto a contrastare il traffico di migranti, traducano al loro interno in
disposizioni e regole di condotta per gli Stati la necessità di affrontare in modo
più ampio e coordinato le problematiche sollevate dalle migrazioni.
Un’importanza prioritaria è, ad esempio,
riconosciuta agli obblighi di
cooperazione tra gli Stati, proprio ai fini di una efficace prevenzione del fenomeno
del contrabbando dei migranti. Obblighi di cooperazione che sono previsti in
maniera così estesa da ricomprendervi l’azione volta a favorire interventi in loco,
negli Stati di origine dei flussi, con programmi di sviluppo e cooperazione
Immigrazione e diritti umani nel diritto internazionale
destinati, in particolare, alle zone socialmente ed economicamente depresse al fine,
si dice testualmente ne Protocollo, “di combattere le cause di carattere socioeconomico che sono alla base del traffico di migranti come la povertà ed il
sottosviluppo”.
Per quanto riguarda la realtà italiana, più vicina, occorre tener presente che
un’attenzione specifica al fenomeno si è manifestata solo di recente, probabilmente in ragione del fatto che lo stesso legislatore ha provveduto a disciplinare
la materia da non molto tempo: il primo provvedimento legislativo organico in
materia di immigrazione, il testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero la c.d. TurcoNapolitano è del 1998, adottato quindi solo poco più di dieci anni fa, con una
presenza di stranieri nel nostro paese che da allora si è pressoché triplicata, fattore
questo che ha richiesto inevitabilmente numerosi altri interventi normativi volti a
governare il fenomeno.
Tuttavia già in questo primo strumento legislativo, troviamo una delle
caratteristica tipiche che presenta una qualsiasi forma di disciplina del fenomeno: i
diversi livelli di governo che lo stesso necessariamente richiede per essere
efficacemente affrontato e governato, anche sotto il profilo della tutela dei diritti
fondamentali, tanto da poter essere definito un classico esempio di sistema
multilivello. La logica sottesa a tale impostazione è che per le dimensioni attuali la
risposta a tale fenomeno sempre più difficilmente può essere fornita al solo
livello nazionale ma rimanda ad un livello internazionale, europeo e ad una
politica comune europea in tema d’immigrazione. In effetti accanto infatti alla
espressa, dichiarata prevalenza, sulle norme nazionali, di quelle internazionali e
comunitarie più favorevoli («comunque vigenti nel territorio dello Stato», articolo
1, 3° comma) la Turco-Napolitano, ma anche tutte la legislazione italiana sulla
materia successiva, riconosce in ogni caso allo straniero, anche irregolare o
clandestino («comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato»,
articolo 2, 1° comma), i diritti fondamentali della persona previsti sia dalle norme
di diritto interno, sia dalle convenzioni internazionali, sia dai principi di diritto
internazionale generalmente riconosciuti. Inoltre tale influenza tocca
trasversalmente le varie fasi dell’immigrazione: dal momento dell’ingresso dello
straniero nel territorio statale, e dunque all’attraversamento della frontiera, alla
successiva permanenza del migrante quando ormai risiede sul territorio statale,
per incidere infine sulle delicate procedure, soprattutto giurisdizionali, di
allontanamento ed espulsione dal territorio nazionale ove più accentuata è la
vulnerabilità della posizione del migrante. L’apertura ai valori e principi
internazionali contenuta nella legge citata, ma ribadita anche dalle leggi
intervenute successivamente, è d’altronde pienamente in linea con quanto previsto
dalla Costituzione che, all’art. 10 c.2, (prevede una riserva di legge rinforzata),
Questioni di confine
131
quando stabilisce che "la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge
in conformità delle norme e dei trattati internazionali". Pertanto, al fine di valutare
la legittimità costituzionale della normativa in materia di immigrazione è
indispensabile rispettare tale duplice garanzia: da una parte la disciplina
fondamentale della condizione giuridica dello straniero deve essere contenuta in
una legge o in un atto ad essa equiparato, e dall’altra deve rispettare le norme
internazionali consuetudinarie e pattizie vigenti. Il dato legislativo sembra dunque
tradurre in norma quella consapevolezza alla quale si è prima accennato e cioè la
necessità del rinvio, per la regolamentazione del fenomeno, a piani ordinamentali
differenti.
In virtù del richiamo al diritto internazionale le garanzie di tutela in materia di
tutela dei diritti fondamentali risultano, tra gli altri, essere fornite Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo, dalla Convenzione internazionale per la
protezione di tutti i lavoratori migranti e familiari, dai Patti sui diritti civili e
politici e sui diritti economici, sociali e culturali, dalla Convenzione per
l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, dalla Convenzione
europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (da ora CEDU) e dai suoi
protocolli, che interessano 47 stati europei, tra i quali naturalmente l’Italia. Dalla
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea strumento vincolante dopo
l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona il 1° dicembre 2009 e che afferma che
l’Unione europea riposa «su principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali e dello stato di diritto, principi che sono
comuni agli Stati membri».
I meccanismi di tutela ed il decalogo dei diritti contenuti nei diversi strumenti
sono accompagnati da un rapporto, a volte problematico, tra giurisdizioni: Corti
costituzionali e giudici nazionali, Corte di giustizia dell’Unione europea, Corte
europea dei diritti dell’uomo ciascuna con compiti propri, anche se non sono
mancate reciproche interferenze. Le giurisdizioni interne chiamate ad assicurare il
controllo di compatibilità delle prassi e della legislazione nazionale con i principi
di diritto interno ed internazionale in materia di diritti fondamentali. I giudici di
Lussemburgo competenti a garantire i principi di libertà democrazia e rispetto dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali sui quali si fonda l’Unione valutando
il rispetto dei diritti dell’individuo da parte degli Stati membri quanto attuano il
diritto comunitario e assicurando, nel contempo, la legalità della legislazione
dell’U.E. I giudici di Strasburgo competenti ad intervenire in via sussidiaria,
quando gli ordinamenti nazionali non sono riusciti a riparare il torto subito e la
violazione ai diritti contenuti nella Convenzione commessa dagli Stati, nei
confronti degli individui soggetti alla loro giurisdizione.
I diversi livelli sono preordinati a fornire garanzie e tutela dei diritti
fondamentali in funzione del diverso status e della differente condizione che
132
Immigrazione e diritti umani nel diritto internazionale
caratterizza le persone che vanno a comporre tali flussi. Infatti da quando hanno
cessato di essere un fenomeno quasi elitario per diventare un fenomeno di massa,
muovendo oramai milioni di persone in prevalenza dagli Stati in via di sviluppo
verso gli Stati industrializzati, coloro che si spostano appartengono a categorie tra
loro assai diverse, con differenti standards di protezione dei loro diritti, perché
diverse sono le cause all’origine dei loro movimenti.
Vi è chi entra, o cerca di entrare, in uno Stato per svolgere un’attività
lavorativa e migliorare così la propria condizione, e dunque per motivi
essenzialmente economici, per poi trovarsi, sul territorio dello Stato di ingresso
una volta entrati, in una condizione di regolarità o irregolarità definita in base alle
discipline nazionali. Ma vi sono anche coloro che fuggono dal proprio paese per
un fondato timore di subire persecuzioni per motivi di razza, religione,
nazionalità, appartenenza ad un gruppo sociale o opinioni politiche, e dunque i
rifugiati ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951. Questi ultimi, che
migranti in senso proprio non possono essere considerati ma richiedenti asilo o
rifugiati e dunque bisognosi di una specifica protezione internazionale,
rappresentano una parte cospicua dei flussi costituendo, almeno per l’Italia, un
terzo di coloro che sono entrati nel nostro paese dal 1990 ad oggi.
Occorre poi considerare che il nostro paese, in quanto parte di una
Organizzazione internazionale quale l’U.E. che ha competenza sia in materia di
immigrazione che di libera circolazione delle persone, conosce anche spostamenti
di persone-ora cittadini europei - che provengono dallo stesso spazio comune
europeo, dove sono eliminati i controlli alle frontiere interne tra i 27 stati membri
dell’Unione addirittura sui documenti validi per l’espatrio. In basi ai trattati
comunitari la nozione e la definizione stessa di straniero alla quale eravamo in
precedenza abituati, ha pertanto subito delle importanti modifiche risultando a
volte anche di problematica definizione. In effetti in virtù dell’attuale accezione
legislativa contenuta nella Turco Napolitano (all'art. 1, D. Lgs. 286/98 Testo unico
delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero), a seguito dell’influenza del diritto comunitario, viene
considerato straniero il cittadino di uno Stato non appartenente all'Unione
europea, o apolide, mentre per la precedente legge sulla cittadinanza, L. 91/92,
"straniero" è ritenuto - più in generale - colui che non possiede la cittadinanza
italiana. Un cittadino dell’Unione europea, comunitario, dunque, ai sensi del testo
unico che recepisce le disposizioni comunitarie in materia,
non è più
(tecnicamente) uno straniero, per il nostro ordinamento, e dunque il suo
spostamento, all’interno del territorio dell’Unione, non può più essere considerato
e legato al fenomeno migratorio, che implica l’esistenza di una frontiera interna da
attraversare oggi eliminata tra i paesi dell’Unione, ma risulta al più un soggetto
che esercita una delle libertà fondamentale del trattato, quale la libera circolazione
Questioni di confine
133
delle persone. Pertanto i cittadini rumeni, come quelli bulgari o slovacchi,
polacchi, ecc... ma un domani i croati, i macedoni, i serbi e gli albanesi in quanto
cittadini europei già beneficiano, o beneficeranno, di una serie di diritti scaturenti
dalla cittadinanza europea quali la libertà di soggiorno, il diritto di elettorato
attivo e passivo alle elezioni comunali ad esempio, la parità di trattamento ed il
divieto di discriminazione con i cittadini nazionali per quanto riguarda le
condizioni di lavoro e le retribuzioni, l’accesso agli impieghi, le prestazioni
sanitarie, l’istruzione, l’edilizia residenziale pubblica.
Dall’altra parte non saranno ad essi applicabili quelle misure di contrasto
all’immigrazione clandestina relative ad esempio al regime ordinario delle
espulsioni o al trattenimento nei centri di identificazione o al recente contestato
reato di ingresso e permanenza illegale nel territorio dello Stato (reato di
clandestinità) normative che presuppongono per la loro applicazione la qualità di
cittadini di un paese terzo e quindi extracomunitario. In buona sostanza, ad
eccezione di quelle attività che partecipano di poteri pubblici o per ragioni dettate
da motivi di ordine pubblico, sicurezza pubblica e sanità pubblica, vi è una
sostanziale parificazione e assimilazione tra i regimi giuridici applicabili al
cittadino nazionale e quello comunitario.
Quali sono allora dinanzi all’imponenza e alle dimensioni di tali flussi
migratori in particolare provenienti da paesi extracomunitari, le politiche di
ingresso degli Stati di destinazione? La domanda ha una seria ragione di porsi in
quanto l’immigrazione presuppone di per sé l’esistenza di una frontiera o di un
confine affidato al controllo dello Stato territoriale (prerogativa, ancor oggi che
rimane espressione tipica dell’esercizio della sovranità statuale) e dunque, secondo
il diritto internazionale consuetudinario, non sussiste allo stato attuale il diritto
dello straniero all’ingresso nel territorio di un dato Stato, e tanto meno il diritto di
risiedervi stabilmente. Contrariamente, invece, a quanto accade per il diritto di
uscita o di emigrazione, riconosciuto nei più importanti strumenti di protezione
dei diritti fondamentali sia a livello di Nazioni Unite che regionali. Le politiche
seguite dai governi non sono univoche, ma oscillano tra due differenti profili: tra
quanti considerano l’immigrazione un’opportunità ed una risorsa, legata alla
necessità di avere a disposizione manodopera in uno scenario europeo ove si
registra una bassa natalità, e coloro che richiedono politiche di intervento volte a
privilegiare il contrasto ai fenomeni legati alla clandestinità, allo sfruttamento dei
migranti e più in generale ai problemi di ordine pubblico che scaturiscono dai
flussi migratori di massa. Il rischio legato a tali oscillazione, e a volte ambiguità di
atteggiamenti, è che si possa perdere di vista la fondamentale distinzione, anche
per quanto attiene le rispettive discipline giuridiche, tra le problematiche sollevate
dall’immigrazione legale da una parte e quella illegale, dall’altra. Anche se ormai
nella prassi è dimostrato il ruolo che una seria politica volta a regolamentare i
134
Immigrazione e diritti umani nel diritto internazionale
canali di ingresso legale può avere nel contenere l’immigrazione clandestina, è
chiaro che gli interventi che si realizzano in ciascuno dei due ambiti devono
rimanere necessariamente distinti perché le finalità da essi perseguite rispondono
ad esigenze diverse: integrazione dei migranti nel tessuto sociale dello Stato di
ultima destinazione per i migranti regolari; eventualmente contrasto per chi non è
in possesso di un valido titolo di soggiorno o ingresso per gli irregolari.
Il limite che in ogni caso deve essere rispettato nei confronti di tutti i migranti,
sia che si trovi nella condizione di migrante regolare o irregolare, è rappresentato
dalla tutela dei diritti fondamentali la cui titolarità prescinde dunque dal legame
della cittadinanza e dal ricorrere di alcuna clausola di reciprocità, con una tutela
che opera anche quando la nazione o lo Stato dal quale lo straniero proviene non
riconosce quei diritti che sono riconosciuti allo straniero in base al nostro
ordinamento.
Per chi è regolarmente soggiornante, invece, vale un’ottica che potremmo
definire incrementale nel senso che la titolarità ed il godimento dei diritti aumenta
in maniera proporzionale alla durata del soggiorno nel paese di destinazione. Per
cui lo straniero regolarmente soggiornante di lungo periodo godrà degli stessi
diritti civili riconosciuti al cittadini, libertà di circolazione e soggiorno nel territorio
dello Stato, di scegliervi liberamente la residenza, e la libertà di uscirvi e di
rientrarvi, la libertà di associazione, il diritto alla unità familiare, la libertà di
contrarre matrimonio, la libertà di professione religiosa, la libertà di
manifestazione del pensiero, con il limite posto però, a differenza dei cittadini del
godimento dei diritti politici ed in particolare l’elettorato attivo e passivo alle
elezioni politiche.
A chiunque spetta un elementare diritto alla salute ed all’assistenza sanitaria,
valido anche per gli stranieri che si trovano senza titolo legittimo sul territorio
dello Stato, riconosciuto dalla Corte Costituzionale trattandosi di un nucleo
irriducibile di diritti garantiti dall’art. 32 della Costituzione. Vi sono inoltre una
serie di tutele giurisdizionali e processuali (diritto di difesa) che circondano di
particolari garanzie la delicata fase del procedimento di espulsione dove più
facilmente possono essere conculcati i diritti fondamentali dei migranti, regolari ed
irregolari. La Convenzione di Strasburgo traduce in concreto tali esigenze
imponendo, ad esempio, che qualsiasi atto di un’autorità nazionale venga
sottoposto a sindacato giurisdizionale: e così il cittadino di Paese terzo deve poter
usufruire di mezzi di ricorso effettivo di fronte ad autorità giudiziaria,
amministrativa o ad un altro organo competente che sia composto da membri
imparziali che offrano garanzie di indipendenza. Tali organi, che hanno la facoltà
di riesaminare anche nel merito le decisioni di rimpatrio, devono poter anche
sospendere l’esecuzione del provvedimento di allontanamento, devono
provvedere a che sia garantita la necessaria assistenza legale gratuita durante
Questioni di confine
135
questa fase processuale, e, se vi sono provvedimenti di restrizione della libertà,
questi devono essere previsti per legge, attribuendo all’individuo il diritto ad
essere informato al più presto in una lingua a lui comprensibile dei motivi
dell’arresto e di ogni accusa elevata a suo carico; infine il diritto alla riparazione
per violazione delle disposizioni precedenti.
Assai interessante è invece la tutela che la Corte è riuscita ad assicurare
interpretando, in mancanza di una norma espressa in tema di immigrazione ed
asilo, alcune disposizioni della Convenzione poste a tutela di diritti di natura
”sostanziale”. È una tutela indiretta o ”par ricochet” legata in particolare
all’applicazione dell’art. 3 (divieto di tortura, trattamenti disumani e degradanti)
ed all’art. 8 (rispetto alla vita privata e familiare del domicilio e della
corrispondenza) che spetta a chiunque si trovi sottoposto alla giurisdizione della
Corte e dunque non già soltanto ai cittadini, con la conseguenza che i diritti sopra
enunciati spettano alla stessa stregua al non-cittadino.
L’art. 3 della Convenzione in particolare brilla per la sua laconicità ma anche
chiarezza laddove dispone che “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene
o trattamenti inumani o degradanti”. La Corte interpretandolo in maniera più
ampia ne ha dedotto per l’individuo una tutela quando l’espulsione può, ad
esempio, causare grave sofferenza per la paura di un rimpatrio nel Paese dove
l’individuo era già stato concretamente oggetto di torture o in un Paese dove vi è il
pericolo prevedibile di essere sottoposto a torture o a trattamento o punizione
disumane e degradanti e, dunque, con un divieto che opera anche in relazione, in
questo secondo caso, ad una violazione definita “virtuale”. Ad avviso della Corte, i
divieti stabiliti dall’art. 3 CEDU hanno valore assoluto e tale disposizione non
prevede limitazioni o deroghe. Ciò vuol dire che, secondo la Corte, gli Stati parti
della Convenzione, nel valutare l’eventualità dell’adozione di un provvedimento
di espulsione, non possono mettere in bilanciamento il rischio che il soggetto da
espellere sia sottoposto a trattamenti contrari all’art. 3 CEDU nel paese di
destinazione con la pericolosità sociale del medesimo soggetto, legata ad esempio
alla commissione di reati o per il fatto di appartenere ad associazioni di stampo
terroristico, escludendosi così ogni forma di automatismo tra condanna ed
espulsione in questi casi. (Tale giurisprudenza è stata ribadita di recente da una
sentenza riguardante l’Italia Causa Saadi c. Italia – Grande Camera – sentenza 28
febbraio 2008, ricorso n.37201/0).
Anche il ricorso alla garanzie indiretta offerta dall’art.8, che tutela la vita
privata e familiare, ha consentito alla Corte, in una nutrita serie di sentenza in
materia di espulsioni, di prevedere significative garanzie a favore dello straniero
nel caso di espulsione a motivo della commissione di un reato, qualora
quest’ultimo, nel periodo di permanenza nello Stato, abbiano stretto legami
familiari o affettivi ancorando così al grado di “attacco sociale” e quindi al grado
136
Immigrazione e diritti umani nel diritto internazionale
di integrazione della persona alla realtà del paese di destinazione, la valutazione
delle legittimità del provvedimento di espulsione. La privazione di tali legami, che
il provvedimento di allontanamento necessariamente comporta, potrebbe infatti
integrare, a giudizio della Corte, gli estremi di una violazione dell’art. 8 CEDU. La
giurisprudenza della Corte ha operato un bilanciamento tra tale diritto, proprio
perché non assoluto a differenza dell’art. 3, in rapporto alle esigenze di ordine
pubblico: si può dire che essa eserciti un controllo di proporzionalità tra
quest’obiettivo legittimo e la necessità di preservare la vita privata e familiare.
Nella ricerca del giusto equilibrio tra ordine pubblico e sicurezza e diritti dello
straniero che viene espulso, la Corte dovrà verificare anzitutto se l’ingerenza dello
Stato lamentata dal ricorrente in riferimento ad un certo diritto abbia una base
legale, uno scopo legittimo e sia necessaria in una società democratica (vale a dire
giustificata da un bisogno sociale imperativo ma soprattutto dalla proporzionalità
rispetto allo scopo perseguito).
In generale la Corte è sensibile alla gravità delle infrazioni commesse dallo
straniero considerate quale indice della gravità della minaccia che il suo
mantenimento sul territorio dello Stato comporta per l’ordine pubblico
evidentemente quando i reati commessi sono di grave allarme sociale, quali il
traffico di stupefacenti o anche le attività terroristiche che fanno pendere in questi
casi la bilancia nettamente a favore dello Stato e quindi consentono l’espulsione
pur in presenza di tali legami familiari. Per contro la giurisprudenza europea ha
dimostrato ampiamente come ci siano però circostanze nelle quali l’espulsione
dello straniero implica una violazione dell’art. 8 CEDU. Una simile valutazione
viene compiuta dalla Corte mediante il ricorso ai cd. “criteri Boultif”, criteri
enunciati dal giudice europeo per la prima volta nel caso Boultif c. Svizzera,
sentenza del 2 agosto 2001 (ric. n. 54273/00) ove il ricorrente, arrivato in Svizzera
nel 1992, sposatosi nel 1993, otteneva un permesso di soggiorno non rinnovato in
seguito ad una condanna nel 1997. La Corte, constatato che il ricorrente non aveva
avuto recidive nei sei anni che erano trascorsi sino alla sua espulsione, che in
carcere aveva seguito un corso di formazione professionale da cameriere e
lavorato come imbianchino, che era stato ammesso alla liberazione condizionale
per buona condotta, ha considerato nella fattispecie l’espulsione una violazione
dell’art. 8 CEDU. Pur ribadendo che un diritto assoluto alla non espulsione dello
straniero di lunga durata non può farsi discendere dall’art. CEDU, i parametri
utilizzati dalla Corte nel valutare il grado di integrazione e l’attacco sociale del
ricorrente, che hanno poi fatto pendere la bilancia a favore dell’illegittimità del
provvedimento di espulsione per violazione della vita privata e familiare, sono
stati definiti in maniera ben precisa. Essa ha considerato ai fini della valutazione
della legittimità del provvedimento di espulsione:
Questioni di confine
137
a) La data di arrivo nel paese di accoglienza, immigrati di seconda
generazione o G2. Uno straniero nato nel paese ospite o che vi è arrivato molto
giovane è sicuramente più protetto che un altro straniero. Ancor più se coniugato
con un cittadino dello Stato ospitante;
b) la nazionalità delle persone coinvolte, la situazione familiare del ricorrente
(durata del matrimonio, e altri elementi che attestino il carattere effettivo della vita
di coppia); la nascita di figli legittimi ed eventualmente la loro età;
c) il mantenimento o l’assenza di legami con il paese di origine: se
inesistenti, al punto che in alcuni casi si dimentica addirittura la propria lingua di
origine, l’espulsione è più difficile;
In pratica il diverso trattamento di cui godono i cittadini, per i quali solo vige
un divieto di espulsione, e gli stranieri in alcuni casi, quali appunto quello degli
stranieri lungo-residenti o integrati nel territorio nazionale o di seconda
generazione, tende ad attenuarsi sino a far affermare alla Corte che la cittadinanza
può non riflettere la condizione presente in termini umani di uno straniero che ha
maturato determinati legami familiari e sociali in un paese. In tale situazione
l’espulsione costituisce una tale privazione che soltanto in circostanze eccezionali
può essere giustificata come proporzionata allo scopo perseguito dall’art. 8 par.2.
Accanto alla non espulsione dal territorio, il diritto al ricongiungimento
familiare è la principale espressione del diritto al rispetto dell’unità della vita
familiare in materia di immigrazione. Se il primo riguarda il diritto di un migrante
già presente sul territorio a non essere espulso in ragione dei legami familiari con
persone che hanno titolo a risiedere nel territorio, il secondo invece concerne
l’ipotesi in cui uno straniero legalmente stabilito sul territorio di uno Stato parte
della Convenzione invoca il diritto di essere raggiunto, al fine della convivenza,
dagli altri membri della sua famiglia. La norma che merita attenzione, in quanto
riguarda un fenomeno col quale i paesi europei, sempre più meta di destinazione
di flussi migratori in provenienza di paesi di area islamica, devono confrontarsi è
quella contenuta nella direttiva sul ricongiungimento familiare e riguarda il
matrimonio poligamico, che è uno dei punti sui quali maggiormente vengono in
contrasto da un lato il diritto alla libertà religiosa e dall'altro il principio di
eguaglianza tra coniugi.
L'art. 4 par. 4 della direttiva 2003/86/CE sul diritto al ricongiungimento
familiare prevede infatti che, in caso di matrimonio poligamico, lo Stato non
autorizza il ricongiungimento familiare di un altro coniuge e può limitare il
ricongiungimento dei figli minorenni del soggiornante e di un altro coniuge.
Entrambe le norme potrebbero sollevare qualche problema di compatibilità con le
disposizioni a tutela della vita familiare, previste dalla Cedu e dagli altri trattati
sui diritti umani, ma soprattutto con l'esigenza, espressa nella Convenzione dei
diritti del fanciullo, di tutelare l'interesse superiore del fanciullo. Piuttosto che
138
Immigrazione e diritti umani nel diritto internazionale
cristallizzare nel dettato normativo soluzioni che potrebbero non essere adeguate
ai conflitti tra culture differenti, ci sembra più corretto e ragionevole lasciare al
giudice la valutazione del caso concreto, al fine di effettuare un delicato
bilanciamento tra la tutela del principio di eguaglianza tra uomo e donna e
l'interesse del figlio minore.
E così dopo una prima sentenza che ha considerato la poligamia in contrasto
con l'ordine pubblico internazionale, altre pronunce hanno preso in considerazione
situazioni più complesse dove i giudici hanno (cfr. Corte di appello Torino, 18
aprile 2001, e Tribunale Bologna, 12 marzo 2003) autorizzato il ricongiungimento
della seconda moglie. Tale soluzione ha portato ad autorizzare il ricongiungimento
familiare in quanto esso viene concesso “nell'interesse del figlio minore, per
garantirgli la vicinanza del genitore, indipendentemente dal fatto che questo sia o
meno sposato con l'altro genitore del figlio, e che sia sposato in regime
monogamico o poligamico” (Corte appello Torino, dec. 18 aprile 2001). La Corte dà
la prevalenza all'interesse del minore e quindi premia il principio posto a
protezione di tale interesse, preferito al principio di eguaglianza che tutela
l'interesse della seconda moglie: in tal modo opera un bilanciamento fra i principi
costituzionali che non impedisce l'applicazione della regola islamica sul
matrimonio poligamico. A questo filone di ascrive un'altra decisione che consente
il ricongiungimento familiare fra un figlio, regolarmente residente in Italia, e la
propria madre, il cui marito pure risiede in Italia con l'altra moglie (Tribunale
Bologna, ord. 12 marzo 2003). Anche in questo caso il diritto al ricongiungimento
prevale sul principio di eguaglianza fra uomo e donna e riesce così a coesistere con
la regola islamica sul matrimonio poligamico.
Infine l’altra garanzia in favore degli stranieri è assicurata dall’articolo 4 del
Protocollo 4 alla CEDU che vieta le espulsioni collettive: per tali debbono
intendersi, hanno sempre specificato gli organi di controllo della CEDU, quelle
mediante le quali “ ogni autorità competente costringa gli stranieri, in quanto
gruppo, a lasciare un paese salvo il caso in cui una tale misura sia presa al termine
di un esame ragionevole ed oggettivo della situazione particolare di ciascuno degli
stranieri che costituiscono il gruppo”.
Un discorso ed un cenno a parte meritano la situazione dei richiedenti asilo o
rifugiati ai quali è riconosciuta una disciplina ed una protezione specifica ai sensi
della Convenzione di Ginevra e dalla Costituzione. L’art. 10 c. 3 riconosce il diritto
soggettivo di asilo a tutti coloro ai quali sia impedito nel proprio paese l’effettivo
esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione, delineando così
una tutela a livello costituzionale addirittura più ampia di quella prevista per i
rifugiati dalla Convenzione di Ginevra: nel caso del diritto di asilo infatti è
sufficiente accertare che il soggetto richiedente non goda nel proprio paese delle
libertà democratiche garantite dalla Costituzione indipendentemente dal motivo
Questioni di confine
139
della limitazione. Per la Convenzione di Ginevra dovrà essere accertata invece la
persecuzione o il timore della persecuzione per uno dei motivi indicati ovvero di
razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un gruppo sociale o opinioni
politiche. In definitiva la nozione di asilo costituzionale è tale da includere quella
di rifugiato ai sensi della convenzione di Ginevra ma non viceversa. Il problema è
che nonostante la grande apertura contenuta nel dettato costituzionale la concreta
operatività della norma è rimessa all’adozione di una legge ordinaria che stabilisca
le condizioni di esercizio del diritto di asilo, adozione che non è ancora
intervenuta, nonostante le iniziative parlamentari in proposito, con il rischio di un
significativo pregiudizio al pieno esercizio del diritto di asilo come prefigurato
nella Costituzione dal nostro ordinamento (considerato anche circa un terzo dei
flussi migratori giunti in Italia dal 1990 ad oggi è costituito proprio da esodi di
massa di popolazioni interessate a persecuzioni, guerre civili, disordini
generalizzati). Certamente una legge di attuazione in materia già adottata avrebbe
potuto contribuire, ad esempio, a chiarire la portata del principio cardine della
Convenzione di Ginevra previsto all’art. 33 che disciplina il principio del non
refoulement in virtù del quale gli Stati non possono espellere o respingere un
rifugiato verso le frontiere di territori dove la sua vita o la sua libertà siano
minacciate a causa della sua razza, della sua religione, della sua nazionalità, della
sua appartenenza ad una determinata categoria sociale o delle sue opinioni
politiche. Alla luce della normativa nazionale si sarebbe potuto sicuramente
valutare meglio, ad esempio, la legittimità o meno della attuale prassi dei
respingimenti in mare praticata di recente dalla autorità italiane per le
imbarcazioni proveniente soprattutto dalla Libia. È noto infatti che
l’interpretazione e l’applicazione da parte delle autorità italiane al principio del
divieto di respingimento così come formulato dalla Convenzione di Ginevra, e
dunque già con un ambito di applicazione più ristretto rispetto a quanto previsto a
livello costituzionale, è stato oggetto di osservazioni critiche avanzate da parte di
organismi internazionali. Dubbi sono stati espressi su di un presunto limite di
applicazione all’alto mare del principio di non-refoulement dall’Ufficio delle
Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) che ha preso posizione con un parere
escludendo che esso possa trovare applicazione solo quando i migranti si trovino
sul territorio o in acque nazionali. Infatti l’esistenza di questo limite
extraterritoriale potrebbe indurre le autorità dei pesi costieri a pratiche assai
discutibili consistenti nello spingere le imbarcazioni verso acque internazionali,
ove il principio non opererebbe, così escludendo la responsabilità dello Stato. I
respingimenti delle autorità italiane verso la Libia e il comportamento delle
autorità maltesi che non avrebbero soccorso i migranti hanno determinato anche la
Commissione europea e di recente il Consiglio d’Europa a chiedere chiarimenti.
140
Immigrazione e diritti umani nel diritto internazionale
A conforto della propria posizione, la Commissione ricorda la giurisprudenza
della Corte europea dei diritti dell’uomo che affrontando il tema della
responsabilità per atti commessi al di fuori del proprio territorio, ha affermato che
le azioni svolte in alto mare da un’unità navale dello Stato costituiscono un caso di
esercizio della giurisdizione extraterritoriale e possono comportare il sorgere della
responsabilità dello Stato coinvolto.
Ed in effetti è proprio di qualche giorno fa, precisamente del 18 novembre del
2009, la notizia che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha deciso di trasmettere
al governo italiano, dopo una prima valutazione sommaria sulla fondatezza delle
doglianze avanzate, un ricorso presentato in favore dei 24 somali ed eritrei
intercettati in mare aperto il 6 maggio scorso e respinti verso la Libia per la
presunta violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo
(divieto della tortura) e della relativa giurisprudenza della Corte, secondo cui tale
divieto comporta l'obbligo degli Stati aderenti di non espellere o respingere, come
abbiamo visto, persone verso Stati dove rischiano di essere sottoposte a pratiche
lesive della loro integrità psico-fisica. Potrebbe essere questo il caso della Libia
dove, sostengono i ricorrenti, i respinti rischiano di subire maltrattamenti nei
centri di detenzione e di essere rimpatriati verso i rispettivi Paesi d’origine, senza
poter avvalersi della protezione offerta dalla Convenzione di Ginevra relativa allo
status dei rifugiati di cui la Libia non fa parte.
Volendo trarre delle conclusioni in materia è difficile non aver presente
l’opinione di chi, in ragion della complessità del fenomeno, è giunto ad affermare
che la complessità dell’immigrazione è certamente una delle ragioni perché non
solo “politiche chiare siano così difficili da formulare, ma anche conclusioni chiare
siano così difficili da raggiungere”. Cercando solo di essere un po’ meno pessimisti
ed al di là delle semplificazioni che vorrebbero privilegiare, anche in funzione
delle emergenze che si manifestano di volta in volta, ora le esigenze di controllo
delle frontiere esterne e del territorio nazionale, e dunque di sicurezza interna, ora
gli obblighi di rispetto, da parte degli Stati, dei diritti fondamentali di cui sono
titolari gli stranieri che fanno ingresso e risiedono nel loro territorio, a nostro
avviso, il quadro di riferimento giuridico fornito dagli strumenti internazionali ed
europei in materia di diritti fondamentali fornisce un prezioso punto di
riferimento nell’assicurare tale corretto bilanciamento all’interno del quale deve
muoversi l’azione dei singoli Stati ed esercitarsi l’ampia discrezionalità di cui essi
ancor oggi godono. È questa una sfida valida anche per quegli ordinamenti che
hanno formalmente e pienamente recepito l’insieme dei principi volti alla tutela
dei diritti fondamentali nel proprio tessuto normativo, come quello italiano, e che
consiste, al di là della loro proclamazione, nel garantirne la piena effettività ed
osservanza.
Finito di stampare nel luglio 2010
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