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L'esperienza etica. Per una filosofia delle cose umane

2012

This book is, first of all, an inquiry in the nature of moral philosophy. The understanding of such discipline as a rational enterprise aiming at establishing very general rules and principles is criticized. Thanks to an original reinterpretation of the method and purpose of Aristotle’s Practical Philosophy, in particular the so-called "method of aporias", another picture of moral theory is outlined. For practical philosophy to regain its connection with the moral life of human beings, it has to start from a special class of situations in which people sometimes find themselves. These “no-leeway situations” cause a particular form of suffering called "spiritual suffering": it makes itself visible in the lack of words and concepts to articulate one's own experience and find a place for different forms of value. Moral philosophy should offer conceptual distinctions allowing people to understand (and respond to) these situations. A comparison with the work of Stanley Cavell is carried out to deepen this understanding of practical philosophy. The lack of concepts characterizing “no-leeway situations” should not be understood against the background of an individualistic conception of the agent: the poverty of symbolic tools available to a person depends on the symbolic misery of the society to which she belongs. The relationship between society and the cultural dimension is investigated through the examination of the theories of Émile Durkheim, Clifford Geertz and Yuri Lotman: particular attention is paid to the link between practical resources (the so-called "customs") and symbolic resources.

Riccardo Fanciullacci L’esperienza etica Per una ilosoia delle cose umane Nella collana Ethica Orthotes Editrice pubblica esclusivamente testi scientiici valutati e approvati dal Comitato scientiico-editoriale e sottoposti a peer review. Tutti i diritti riservati Prima edizione: ottobre 2012 Copyright © 2012 Orthotes Editrice Via Palermo 22/B 80010 Napoli www.orthotes.com isbn 978-88-97806-19-6 Prefazione L’esperienza etica P er avere a che fare con un fenomeno quale che sia occorre avere interiorizzato un complesso di modalità secondo cui rapportarsi a esso e avervi a che fare (ossia praticarlo) in maniera ordinata, cioè in una maniera che perlomeno può essere riconosciuta e ripresa. Tutto questo lo potremmo formulare dicendo che per avere a che fare con un fenomeno, occorre un’etica. Tra i vari fenomeni con cui si può avere a che fare vi sono anche gli enunciati. D’altronde è un’esperienza comune, anche se non forse quotidiana, quella in cui non si sa come prendere o trattare un enunciato. Si presti ora attenzione a questo elenco di enunciati: “Questa è una buona azione”, “Comportarsi così è sbagliato”, “Saper reagire in un modo sifatto è una virtù”, “Una situazione come questa è un sopruso”, “Il primo principio che deve regolare l’agire è quello che chiede che si rispettino gli altri sempre anche come ini in sé e mai semplicemente come mezzi”. Anche senza cercare di stabilire se hanno efettivamente qualcosa in comune o che cosa sia, possiamo riconoscere tra loro un’aria di famiglia. È grazie a questa certa somiglianza che li possiamo raggruppare insieme sotto l’etichetta generale di asserti morali. Si noti che c’è un modo di avere a che fare con asserti morali che gode di un certo prestigio in ilosoia: è quel trattamento in cui ci si chiede e si tenta di stabilire se sono veri. Ebbene, invece di dedicarci a tale trattamento, proviamo a considerarlo solo al ine di astrarre da esso la nozione più generale di “rapporto quale che sia agli asserti morali”. È come se, dopo aver portato l’attenzione su dei concreti pronunciamenti (sinceri) di asserti morali, ci chiedessimo chi è che li compie, anche solo dentro di sé o quando e come li usa. Quello che sto proponendo di fare sembra insomma descrivibile come un’interrogazione sull’etica secondo cui oggi si ha a che fare con gli asserti morali, cioè sulle forme d’ordine secondo cui si usano e processano quegli asserti. In realtà, però, questa è ancora una descrizione troppo limitata. I modi in cui ci si rapporta agli asserti morali sono solo una 7 8 L’esperienza etica parte delle forme d’ordine secondo cui si ha a che fare con la questione morale tout court1 ed è questo complesso di forme d’ordine la vera posta in gioco qui. Detto altrimenti: abbiamo preso le mosse da un oggetto facilmente circoscrivibile, gli asserti morali, per poi considerare il modo in cui ci si rapporta a essi (il gioco con essi), ma la vera mira è data dall’insieme variegato dei modi in cui, in generale, gli esseri umani tentano di afrontare, trattare e avere a che fare con la questione morale in sé e per sé. A questo punto, non si manchi di notare la seguente signiicativa circostanza: se l’accezione di etica prima introdotta è applicata al rapporto generale tra gli esseri umani e la questione morale, allora l’oggetto teorico che ci si trova innanzi, cioè le forme d’ordine secondo cui avere a che fare con la questione morale, coincide esattamente con il signiicato tradizionale (perlomeno nella tradizione aristotelico-hegeliana) di etica: le forme socialmente operanti e soggettivamente interiorizzate, che si pongono come buone o giuste, secondo cui avere a che fare con gli altri, se stessi e i fenomeni e le situazioni del mondo2. I primi capitoli di questo volume non si rivolgeranno all’intero complesso dei modi di avere a che fare con la questione morale, ma guarderà a una sottoclasse speciica di tali modi, la classe dei modi di 1 Perlomeno in Occidente, molti modi di avere a che fare con la questione morale sono accomunati dal fare spazio ad un qualche uso ed elaborazione di asserti morali. 2 Si noti: l’accezione di etica che abbiamo introdotto per prima può operare anche all’interno di una domanda puramente descrittiva, ad esempio questa: quali sono le forme che ordinano il modo in cui un certo gruppo umano si rapporta alla morte? E al posto della morte ci sarebbe potuta essere la “questione morale”. Queste sono le domande che guidano lo studio dei costumi e dell’eticità di un gruppo umano. È ovvio che lo studio dei modi in cui una certa società, ad esempio la propria, si rapporta alla questione morale non si risolve in una ricerca morale, cioè nella ricerca su come rapportarsi in modo giusto agli altri, a sé e alle situazioni del mondo. Se tuttavia la prima domanda non è giocata solo in senso descrittivo, ma è praticata da qualcuno che si riconosce coinvolto nel rapporto su cui si interroga, allora diventa parte della domanda su come rapportarsi e avere a che fare con la cosa in questione (sia essa la morte oppure la questione morale). Ebbene, la tesi avanzata nel testo è: chiedersi come avere a che fare con la questione morale è un modo concreto di chiedersi come rapportarsi in modo giusto agli altri, a se stessi e alle situazioni del mondo; la domanda sulle buone forme d’ordine per il rapporto alla questione morale inisce per essere parte della domanda sulle buone forme d’ordine per il rapporto agli altri, a sé e alle situazioni del mondo. E quest’ultima domanda è la domanda dell’etica nell’accezione che vibra all’interno della tradizione aristotelico-hegeliana. Prefazione 9 rapporto realizzati dalla stessa ilosoia morale. Tra coloro che si occupano della questione morale ci sono coloro che se ne occupano ilosoicamente: è a questa porzione del campo che ora ci rivolgeremo. Lo faremo innanzitutto perché è in questa porzione che dovremo diferenziare e fare spazio alla maniera proposta in questo libro di lavorare ilosoicamente la questione morale cui gli esseri umani sono continuamente rimandati. In secondo luogo, lo faremo perché molte delle modalità di lavoro della ilosoia morale non sembrano saper pescare nell’esperienza degli esseri umani e dunque destinano quella ilosoia all’autoreferenzialità. Un esempio in proposito è dato dal ragionare su una certa situazione problematica realmente vissuta da alcuni, proiettandola nella serie delle sue possibili varianti costruibili attraverso un libero uso delle ipotesi controfattuali: è quel “ragionamento morale” che afronta i casi reali alla luce degli hard cases o che esamina un’esperienza alla luce dei casi rappresentati in qualche iction televisiva. In questo modo di lavorare sulla questione morale, il presente dell’esperienza è ridotto a uno dei casi virtualmente possibili, mentre ciò che si fa oscuramente sentire ma per dare parola al quale bisognerebbe prestare un più lungo ascolto all’esperienza, e che dunque non è immediatamente enucleabile in un “tratto saliente” di quella “variazione che è di fatto data nel mondo attuale”, viene semplicemente accantonato. Come ho ricordato all’inizio, spesso la ilosoia morale si preoccupa di stabilire quali siano gli asserti morali veri o validi e quale sia il modo giusto di ragionare per capirlo. Il suo uso di quegli asserti è un tentare di fondarli o di rigettarli con argomentazioni, oppure uno svilupparne le implicazioni o un chiarirne i presupposti. Tutte queste operazioni si esprimono in altrettanti asserti, che, ovviamente, pretendo a loro volta di essere veri. Un testo di ilosoia morale include dunque una molteplicità di asserti: alcuni sono i veri e propri asserti morali, altri riguardano i primi in maniera più o meno stretta; tutti o quasi sono accomunati dal pretendere di essere veri. Ma, ci si chieda, un simile testo è felice solo se gli asserti che lo compongono sono veri? In quanto testo reso pubblico, non spera forse anche di essere letto? Ora, esser letto ed esser vero, non sono certo condizioni che hanno lo stesso valore per un trattato di ilosoia, ma anche la prima ha un suo rilievo. Sofermiamoci un istante su di essa. Esser letto, esser compreso: ma da chi? E poi: a che scopo? Per quale ine? Una 10 L’esperienza etica risposta possibile è: perché una certa verità o grappolo di verità, cioè la verità o le verità che si pretende di aver espresso negli asserti che compongono il testo, siano apprese anche da altri e divengano condivise. Questa risposta ha due problemi: uno consiste nel dare per scontato che sia sempre un ine degno di essere perseguito il comunicare una qualche verità, quando è ovvio che, perlomeno nel tempo storico, non ogni verità merita di essere appresa. In secondo luogo, quella risposta riduce la diferenza della ilosoia morale rispetto a qualunque altro sapere, al semplice fatto che la ilosoia morale ha un campo tematico che non è quello degli altri saperi: al di là di questa ovvia diferenza, però, non ve ne sarebbero altre, giacché anche la ilosoia morale mira unicamente a scoprire alcune verità. Ora, nella nostra tradizione, esiste anche un’altra concezione della ilosoia morale, quella per cui la ilosoia morale è la ilosoia pratica e non si appaga soltanto nello stabilire alcune verità, né dunque i testi in cui si esprime trovano la loro felicità solo nell’informare intorno ad alcune verità. Soprattutto i capitoli della prima parte esplorano questa concezione di origine aristotelica, ne delucidano i presupposti e tentano di mostrare in che senso una pratica della ilosoia morale che si ispiri a questo modello ottenga una sorta di necessità esistenziale se è capace di far fronte ad alcune questioni nodali innanzi a cui invece altre modalità di dedicarsi a questa ilosoia soccombono. Questa concezione della ilosoia morale come ilosoia pratica è una in cui la dimensione dell’agire umano non sta semplicemente innanzi nella posizione dell’oggetto da indagare, eventualmente per poi disciplinarlo: l’orizzonte dell’agire è l’orizzonte dell’esperienza in cui la stessa interrogazione ilosoica si solleva e in cui si dispiega nella misura in cui è anch’essa una certa condotta. L’orizzonte dell’esperienza è dunque la dimensione in cui anche la ilosoia pratica è già da sempre presa: è la dimensione per noi prima. Il percorso che sarà compiuto nei primi tre capitoli di questo lavoro ha innanzitutto il compito di mostrare come la ilosoia morale possa soddisfare la sua antica e originale aspirazione di non essere solo un coerente e vero discorso che però è chiuso su problemi che sono unicamente i suoi, bensì un discorso che si rivolge e riesce ad incontrare le questioni pratiche che efettivamente stringono gli esseri umani in carne e ossa, solo qualora riesca a collocarsi saldamente nell’orizzonte dell’esperienza e a muoversi in essa come una ilosoia delle cose umane. Si tratta insomma, per la ilosoia morale, di ri-addestrarsi a muovere da ciò che Prefazione 11 è efettivamente il primo per noi, ossia da ciò che si ofre per primo a noi esseri umani impegnati nella comprensione di ciò che ci investe nell’esperienza e nell’elaborazione di una risposta pratica ad esso. Perché si compia tale riaddestramento, occorre innanzitutto delucidare, perlomeno a grandi linee, il modello che va recuperato e cioè la ilosoia delle cose umane di impronta aristotelica (cfr. capitolo I, § 1; capitolo II). Tuttavia, poiché è tutt’altro che semplice o naturale saper muovere dal primo per noi e saper fare leva sulle risorse che gli appartengono, allora non basta aver chiaro il modello che si tratta di far rivivere, ma occorre imparare a riaccordarsi con la posizione soggettiva che è necessario assumere per poterlo far rivivere, una posizione che abbiamo la forte tendenza a voler sostituire con una postura, un atteggiamento, un metodo che ci sembrano migliori e che invece ci fanno perdere il contatto con quelle cose umane che sono appunto il primo per noi. Insomma, occorre una certa decisione pratica e una conversione dello sguardo che facciano sì che la disposizione pratica di fondo che guida la coordinazione della ricerca non sia ciò che con Cavell chiameremo: l’istanza scettica (cfr. capitolo I, § 2; capitolo III). Comunque sia e lo vedremo determinatamente nel capitolo IV, ricollocarsi nell’esperienza quotidiana, non signiica afatto trovare una dimensione in cui tutto è già in ordine e l’agire va da sé. Detto altrimenti: non è che ciò che fa diicoltà sia solo una parvenza soggettiva che si dissolve non appena la coscienza si ponga nella giusta posizione rispetto all’esperienza, in particolare nella posizione di chi la elabora riconoscendo di esservi innanzitutto esposto. Che quel che fa diicoltà agli esseri umani sia solo una parvenza è innanzitutto falso in assoluto: l’agire non si ordina da sé o spontaneamente, né tantomeno in maniera spontanea, cioè grazie alla prima natura; in efetti, non smettono di presentarsi situazioni in cui occorre deliberare per stabilire come agire, e spesso non si sa neppure da che parte cominciare una tale deliberazione. In secondo luogo, che le diicoltà si dissolvano tutte con il cambio di posizione soggettiva promossa nel capitolo III è speciicatamente falso nel mondo moderno, dove la complessità della vita richiede continuamente il lavoro della rilessione pratica. (Più esattamente, l’aumentata complessità rende sempre più diicile che le forme d’ordine ricevute, nel loro operare come una seconda natura, possano essere suicienti; diferenziandosi la società in cui esse operano, infatti, accade che o divengano molto generali, ma allora tali da poter essere applicate solo attraverso il medio della rilessione, o si 12 L’esperienza etica mantengano particolari e determinate, ma allora tali da non riuscire più a dare ordine all’intera esistenza ma solo a qualche porzione circoscritta, mentre il problema della composizione generale resta aperto). La dimensione dell’esperienza appare dunque attraversata sia da diicoltà irriducibili ai rompicapi cui la ilosoia è condotta dall’inquietudine scettica, sia da soluzioni e inquadramenti delle stesse, elaborati socialmente, che si rivelano, agli agenti, inadeguate. La ilosoia delle cose umane deve allora preparasi ad includere in sé un lavoro critico di dimensioni ben superiori a quelle previste nel modello aristotelico: ciò che si fa innanzi per primo a noi esseri umani che abitiamo in società moderne o ipermoderne include immagini e rappresentazioni dello stesso primo per noi, dell’esperienza, della vita quotidiana, dell’agire e interagire umano, che non possono essere accettate come ovvietà. Quel che è noto a proposito dell’esperienza pratica non realizza una conoscenza della stessa suiciente ad una ilosoia delle cose umane, ma neppure una comprensione suiciente a guidare una risposta pratica appropriata a quanto esperito. A questo punto ci si può chiedere: se è necessaria tanta cautela, come deve essere impostato un esame dei tratti fondamentali che appartengono alla dimensione delle cose umane? La proposta difesa nella seconda parte di questo lavoro è di porre al centro la nozione di agire che risponde all’esperienza e di introdurre progressivamente le determinazioni che concretano questa igura e le nozioni attraverso cui articolarla, ad esempio, la nozione di esperienza mediata, quella di risorse socio-culturali per la mediazione, quella di mediazioni culturali ricevute, quella di rielaborazione dell’esperienza. Le nozioni introdotte criticamente in questa seconda parte, però, pur costituendo già dei guadagni positivi, non sono ancora tutte quelle suicienti: manca la trattazione delle nozioni che riguardano il modo in cui il fare esperienza e l’agire sono legati alla questione del senso e alle ulteriori problematiche che tale questione porta con sé, in particolare la problematica degli ideali e dei grandi ini. A questo sarà dedicata la parte terza del lavoro, come è chiarito anche nell’introduzione. Nelle lezioni del 1819 dedicate alla Dottrina del diritto, dei doveri e della religione e poi conluite nella cosiddetta Propedeutica ilosoica, Hegel aferma: L’uomo è, da un lato, un essere naturale. Come tale egli si comporta secondo arbitrio e casualità, come un essere instabile, soggettivo. […] In secondo luogo è un essere spirituale, razionale. Da questo Prefazione 13 lato egli non è naturalmente ciò che deve essere. L’animale non ha bisogno di cultura poiché esso è naturalmente ciò che deve essere. Esso è soltanto un essere naturale. L’uomo però deve far concordare i suoi due lati, ossia rendere predominante l’ultimo. Poiché l’essere umano «non è naturalmente ciò che deve essere», allora è naturalmente quell’essere che ha bisogno della cultura per essere ciò che ha da essere, per regolare il suo rapporto con ciò che trova in sé (come gli appetiti) e fuori di sé (come l’ambiente oppure, ad esempio, il suo esser mortale). La cultura cui Hegel qui si riferisce è l’acculturazione, la cultura che un essere umano fa sua attraverso il processo della formazione culturale. La cultura di cui un essere umano si appropria, tuttavia, non è opera sua, e ancor meno è l’opera che egli “naturalmente” produce al ine di usarla poi per divenire ciò che ha da essere. La cultura che un essere umano acquisisce è innanzitutto la cultura che lo precede e che lo accoglie, quella che gli viene tramandata da quegli altri che pure lo precedono. La cultura che precede questo o quell’essere umano è la cultura che ordina la società di cui quegli esseri umani vanno a far parte. Essa plasma il lato naturale della vita umana: non lo dissolve, ma gli dà forma integrando le forme che già gli appartengono (il “lato naturale” infatti non è pura materia indeterminata) e che da sole non sono suicienti a garantire la ioritura dell’umano, il suo divenire ciò che ha da essere (e che dunque già è a livello della destinazione). Il tesoro delle forme e delle mediazioni approntate dalle generazioni precedenti per dare ordine ai più signiicativi tipi o igure d’esperienza (l’intreccio tra libertà e legami, la morte, la trasmissione del sapere ecc.) è un ingrediente fondamentale dell’esperienza etica di ciascuno, dunque è un tema irrinunciabile per una ilosoia delle cose umane. Questo punto può essere ulteriormente chiarito avanzando alcune tesi che troveranno sviluppo e difesa soprattutto nei capitoli della seconda parte. Si deinisca l’esperire umano in generale come l’apertura umana sull’essere (dunque anche su di sé, sugli altri, sui fenomeni e le situazioni del mondo, sulle questioni che tali situazioni sollevano). Ora, tale esperire è innanzitutto un accedere all’essere, ma altrettanto anche un dovervi rispondere nell’agire. L’essere umano non è solo uno sguar3 G.F.W. Hegel, Propedeutica ilosoica, trad. it. di G. Radetti, Sansoni, Firenze 1951, p. 61 (§ 41). 14 L’esperienza etica do in contemplazione dello spettacolo dell’essere, ma è continuamente rimandato al compito di avere a che fare con ciò che gli si fa incontro; il suo vivere non è solo vedere, ma anche aver a che fare con ciò che gli si fa presente. Più esattamente, l’incontro con ciò che si fa innanzi impone il problema di come avere a che fare con esso, del modo di dar seguito all’incontro. A diferenza dell’animale che anche Hegel evoca nel passo citato, l’essere umano non dispone di un sapere innato che lo dispensi da questo problema; non ha risposte codiicate nell’apparato istintuale o comunque nella spontaneità naturale. Quand’anche avesse inclinazioni o disposizioni naturali ad avere a che fare in certi modi speciici con le cose (o almeno con certe classi di cose – e questo è più plausibile), comunque tali inclinazioni e disposizioni non sarebbero tali da dispensarlo dal problema citato (eventualmente, da questa sua individuazione: il contesto singolare presente è o no uno in cui attivare quelle inclinazioni o disposizioni?). Ora, al problema di come avere a che fare con la situazione in cui, volta a volta, si trova confrontato, ciascun essere umano non deve rispondere da solo, né potrebbe farlo: la formazione e l’educazione che sono parte costitutiva del processo di socializzazione e soggettivazione gli mettono a disposizione le risposte culturali a quel problema. Quella che all’inizio di questa prefazione abbiamo chiamato l’etica (le forme secondo cui avere a che fare con i vari fenomeni del mondo) è dapprima un ricevuto. Detto altrimenti: l’essere umano, che per sé è esposto al problema di come avere a che fare con ciò che gli si fa incontro, di fatto ha ricevuto nel processo di socializzazione degli habitus in cui sono codiicate forme di risposta, strategie per avere a che fare con le cose, inquadramenti delle varie questioni che le rendono in qualche modo trattabili. Ad esempio, una certa immagine tradizionale della donna e delle forme delle interazioni con le donne, che può e deve giustamente essere criticata per il dominio che veicolava, va anche compresa nella sua realtà funzionale: era un modo di inquadrare il problema di come avere a che fare con il desiderio femminile e con il desiderio maschile del desiderio femminile. Rilevare questo non richiede di provare alcuna nostalgia per quelle forme, ma mostra chiaramente come la loro negazione e il loro oltrepassamento imponga l’esigenza di elaborare forme nuove che, senza veicolare dominio, riescano a rendere più trattabile la questione di come avere a che fare con la diferenza sessuale. Analoghi esempi si potrebbero fare per le forme secondo cui avere a che fare con la morte dei propri cari, con la malattia degenerativa, con il radicale squilibrio nella distribuzione delle risorse ecc. Prefazione 15 Le forme culturali rendono in qualche modo trattabili le situazioni del mondo, anzi, è all’interno di tali forme che quelle situazioni si fanno innanzi. Non è detto però che il trattamento consentito sia adeguato, o meglio sia soddisfacente alla luce degli ideali che si fanno valere all’interno del fare esperienza: potrebbero ad esempio non consentire una comprensione o mediazione di quel che accade suicientemente aderente a ciò che si fa sentire, oppure capace di divenire parte di una narrazione sensata (anche se non necessariamente tale da riconciliare ogni soferenza), oppure, ancora, potrebbero non consentire di rinvenire la risposta pratica giusta. Esempi in proposito continuano a presentarsi: una situazione che si presenta agli esseri umani che vi sono coinvolti, in questo caso degli operai, come caratterizzata dall’alternativa tra il lavoro, necessario alla sopravvivenza di quegli operai e delle loro famiglie, e la salvaguardia dell’ambiente in cui quegli operai e le loro famiglie vivranno e che è minacciato dalla fabbrica in cui lavorano, ecco, questa situazione e le forme che la conigurano così non sembrano consentire una risposta giusta. Ebbene, in questi casi, le forme diventano ciò che va sfondato ainché sia davvero possibile fare ciò che di solito esse consentono di fare e in intenzione pretendono di consentire: una mediazione appropriata dell’esperienza e dunque una risposta giusta a ciò che nell’esperienza si fa innanzi. L’intreccio tra il problema etico e le forme culturali, dunque, è molto complesso e ha diversi lati: innanzitutto, quel problema si rende riconoscibile e si fa incontrare articolato a queste forme, cioè declinato attraverso di esse; in secondo luogo, quel problema non si riduce alla declinazione in cui di fatto appare ed è per questo che quella declinazione può essere messa in questione; in terzo luogo, ciò che accade in seguito a questa messa in questione non è mai un rapporto al problema etico al di là di qualunque forma, ma la tras-formazione della sua declinazione, una trasformazione che pretende di dar luogo ad una formulazione inalmente capace di trovare adeguata risposta. A tutto ciò si aggiunga inine che la stessa trasformazione delle forme ricevute, ad esempio la loro messa in questione critica, ha tra le sue condizioni di possibilità delle speciiche forme: neppure essa è un’attività che l’essere umano realizza da sé e a prescindere dalle forme e competenze (ad esempio una certa abilità dialettica) che ha acquisito nel processo di socializzazione. Insomma, le forme culturali sono sia (a) parte di ciò di cui si fa esperienza, sia (b) parte di ciò che rende possibile il fare esperienza, sia (c) parte di ciò che è messo in questione 16 L’esperienza etica e trasformato in alcuni tipi speciici di esperienze (le esperienze in cui ciò che accade è un trasformare o quantomeno un sottoporre a critica), sia, inine, (d) parte di ciò che rende possibile persino queste ultimi tipi speciici di esperienza. Tutto questo spiega perché sia stato così importante mettere al centro della seconda parte di questa ricerca indirizzata a una ilosoia delle cose umane, la problematica connessa alle forme della cultura e alle mediazioni ricevute4. La cultura è sì opera umana, ma non è aferrabile come il prodotto di un agire strumentalmente ordinato ad un qualche ine (ad esempio la sopravvivenza), determinabile e determinato al di fuori e a prescindere da qualunque orizzonte culturale. Invece, la cultura è insieme opera umana e condizione e scenario del concreto operare di questo o quell’uomo, questo o quel gruppo di esseri umani. Anzi, per i singoli esseri umani è in primis qualcosa che essi “trovano davanti a sé” o intorno a sé: il contesto di signiicati in cui sono gettati e si ritrovano. Ciò detto, resta vero che il concreto operare degli esseri umani torna a modiicare gli scenari e le costellazioni di signiicato in cui si è dispiegato e ha potuto dispiegarsi: lo modiica anzitutto per via degli efetti inintenzionali dell’agire, ma, in circostanze particolari, anche in seguito ad un’intenzione critico-trasformativa. Questa intenzione che, ripeto, ha essa stessa delle condizione di attivazione e non è a disposizione del singolo isolatamente considerato, può essere dettata e motivata dal desiderio di fuoriuscire da un’esperienza in cui le forme culturalmente a disposizione (o quelle dominanti tra esse) si rivelano incapaci di far luire l’esperienza, si rivelano sofocanti. Il capitolo VII 4 A ciò che qui ho appena denominato le “forme della cultura” e le “mediazioni ricevute” ho dedicato anche un altro studio che esce quasi in contemporanea con questo; si tratta del volume: Forme dell’agire. Ontologia sociale e ideologia in un confronto con Louis Althusser (Orthotes, Napoli). Questi due lavori si incontrano in alcuni luoghi e avanzano tesi che o convergono o possono essere integrate, tuttavia, sono il frutto di due ricerche che muovono da punti di partenza diferenti: qui si parte dall’esperienza soggettiva e progressivamente si sfonda la sua rappresentazione soggettivistica, là si parte da uno sguardo sul complesso sociale che intende essere libero dall’illusione soggettivistica e si mostra come esso non possa comunque rinunciare a una nozione di soggetto e di esperienza soggettiva – anche se può e deve lasciar cadere la nozione “umanistica” di soggetto. Ciò detto, bisogna aggiungere che, mentre il percorso che struttura L’esperienza etica, soprattutto se considerata nella sua interezza, è più complesso di quello che ordina Le forme dell’agire, il trattamento là compiuto della nozione qui denominata “forme della cultura” e delle questioni che vi sono connesse è più approfondito. Prefazione 17 è dedicato all’analisi di alcune modalità generali in cui si può produrre questo sofocamento, in cui la cultura data può divenire asissiante. Quando le risorse di mediazione dell’esperienza etica, cioè dell’esperienza delle cose umane, non consentono una mediazione di quest’esperienza capace di incontrare gli ideali e le istanze normative cui il soggetto non è disposto a cedere, allora si produce ciò che chiamo: una strettura. E può sollevarsi il desiderio di abitare la dimora delle cose umane in un modo che consenta a quelle istanze, la giustizia, la libertà, la felicità e altre, di realizzarsi con maggiore intensità. La ilosoia pratica deve farsi trovare da questo desiderio di trasformazione: la possibilità di soccorrerlo con il suo lavoro di articolazione teorica e simbolica e di farlo vivere grazie alla sua inclinazione a tenere aperti gli orizzonti del signiicato sono la sua occasione per uscire dalla superluità. Uscire dalla superluità e divenire ciò che ha da essere. §§§ C’è una proposizione che mi aveva impressionato quando, nel 2001, ho letto per la prima volta l’Etica Nicomachea frequentando l’università; si trova nel capitolo 7 del terzo libro (1114 a 20-21). In essa Aristotele dice che «all’inizio» anche l’ingiusto e l’intemperante avrebbero potuto non diventare persone di quel tipo e dunque che se lo sono diventate ne hanno la responsabilità (e hanno la responsabilità delle azioni in cui i loro vizi si manifestano), tutto ciò sebbene, aggiunge, una volta che sono diventati il tipo di persone che sono, allora «non hanno più la possibilità di non esserlo». La perentorietà dell’afermazione inale mi colpiva. Dopo tutto, non c’è modo di cambiare quello che siamo? E la ilosoia pratica, allora, a che serve? Perché, mi chiedevo, Aristotele scrive la Nicomachea, se le persone si portano dietro il carattere che hanno e che è quello che si è formato nell’educazione pratica ricevuta soprattutto in tenera età? Mi interrogavo insomma su quello che viene talvolta chiamato il “determinismo del carattere” e prendevo la questione dal lato della praticità della ilosoia morale. L’impianto antropologico di Aristotele, che rendeva così bene conto dell’inerzia al cambiamento che sentivo in me e intorno a me, mi ha protetto dal farmi un’immagine troppo generosa della potenza della ilosoia (non ho mai creduto che la ilosoia potesse curare dalla soferenza, tantomeno dall’angoscia per il divenire); all’opposto, non riuscivo a concedere che la ilosoia pratica, in ultima analisi, non potesse proprio nulla, non lo riuscivo a concedere perché sentivo che le cose che andavo studiando producevano alcuni spostamenti nella mia esperienza e nel mio modo di rapportami ad essa. In questo grappolo di questioni, mi pare di vedere l’antica origine del presente scritto. 18 L’esperienza etica La prima versione di questo libro, che è anche la prima rielaborazione, certo molto mediata, di quelle questioni è la mia Tesi di laurea, che ho discusso nel 2003 e che si intitolava: Per una critica dell’esperienza etica. Esigenze di lessibilità e desiderio di legami. Tranne alcuni punti, comunque importanti, tra quel testo e questo libro ci sono somiglianze più verbali che sostanziali, ma io non riesco a non guardare con afetto a quel lavoro. È nato quando si parlava di new economy e incominciava a farsi largo l’ideologia della lessibilità nel lavoro: avevo individuato una strettura nel rapporto tra l’esigenza di lessibilità portata dal “nuovo spirito del nuovo capitalismo” e il desiderio di legami che durante gli anni dell’università, grazie ad alcuni corsi, in particolare quello di ilosoia morale, e grazie ad alcune esperienze che nel frattempo vivevo, avevo imparato a riconoscere negli strati più profondi dell’essere umano. La prima determinazione della nozione di esperienze di strettura, l’ho dunque tentata in quel lavoro. Negli anni trascorsi da quel primo scritto a oggi, ho incontrato e discusso con tante persone e, anche senza volerlo, mi sono trovato a riportare le loro idee alla mia questione, per saggiare la forza o l’eicacia di quelle, ma anche per trasformare la mia comprensione di essa. E così sono molte le persone che ora avrei da ringraziare se potessi prendermi lo spazio necessario a farlo. Tre persone, però, le voglio ringraziare più di tutte. Senza di loro questo libro non ci sarebbe stato. Ed è per questo che è a loro dedicato. La prima è Carmelo Vigna, che non solo non ha mai smesso di credere nel progetto, in dalla Tesi, ma mi ha dato anche il primo e vivo esempio di una ilosoia pratica che cerca di incontrare gli esseri umani. La seconda è Francesco Callegaro che non solo ha avuto il coraggio di salutare ogni mio altro lavoro con le parole: “ben fatto, ma io aspetto L’esperienza etica”, ma ha anche dedicato un’attenzione immeritata, da vero amico, a una versione intermedia, facendo sì che potesse poi diventare questa versione inale. La terza è Stefania Ferrando: ora non dirò nulla del resto, che è tantissimo, perché vorrei concentrare tutto il ringraziamento in un solo punto; mi riferisco al giorno in cui non riuscivo più a riconoscermi nel progetto e correvo disorientato dietro a parole e marche ilosoiche (ad esempio: “critica dell’esperienza”) per trovare un qualche bandolo della matassa; lei, come una guardia attenta, ha visto quel che succedeva e mi ha ricordato la questione di cui avevo sempre parlato con entusiasmo, in da quando ci siamo conosciuti. Come accennato, questo libro ha origine negli anni dell’università e dunque deve molto ai professori del Dipartimento di ilosoia dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Dopo l’inaggirabile menzione di Emanuele Severino, mi limito a ringraziare esplicitamente coloro che hanno avuto un rapporto diretto con questo lavoro: Lucio Cortella, Luigi Perissinotto e Carlo Natali. I corsi di Natali sull’Etica Nicomachea, cui devo così tanto, li frequentavo con Francesco Callegaro e con Alberto Masala: ringrazio dunque qui pure Alberto: per l’amicizia che ci lega, ma anche per le obiezioni temibili di cui mi fa sempre dono. Prefazione 19 Quando mi ero ormai laureato ho conosciuto a Venezia anche Paolo Pagani: dalle acute osservazioni che ha fatto sulla prima o seconda versione del lavoro ho ricavato moltissimo e dalla benevolenza con cui me le ha porte una salda amicizia. Questo libro deve molto anche alle discussioni che facevo con Andrea Grillo e, più recentemente, agli scambi con Luisa Muraro. Discussioni e amicizia mi legano e mi impongono il così piacevole compito di ringraziare ora anche Paolo Bettineschi, Susy Zanardo, Luigi Francesco Clemente, Diego Giordano, Paola Filosa, Pierpaolo Marrone, Annarosa Buttarelli, Alessandra Tonon, Gaia Nardilli, Francesco Saccardi, Gian Pietro Soliani, Santo Peli, Alessandro Bellan, Federica Gregoratto, Matteo Giannasi, Diego Zucca, Nicolò Fazioni. Un ringraziamento speciale mi viene spontaneo pensando ad Alessia Dal Bello e Maddalena Pezzato. Vorrei poi testimoniare la mia gratitudine a Giuseppe Draperi e a Riccardo Sirello, miei primi maestri di ilosoia e a Fernando Vincenzi perché le discussioni con lui hanno continuato ad alimentare le mie rilessioni e le mie ricerche in questi anni. Il lavoro a questo libro è stato reso possibile, oltre che dal Dipartimento di Filosoia dell’Università Ca’ Foscari, anche dall’Almo Collegio Borromeo di Pavia e dall’Istituto Veritatis Splendor di Bologna: a queste istituzioni e a chi le dirige va uno speciale ringraziamento. Grazie inine a mio fratello Simone e Antonietta, Nadia e Gian, Antonella e Luigi, i miei zii Gilda e Giò, ma soprattutto a mia mamma e a mio papà. Riccardo Fanciullacci Padova, 20 settembre 2012 Introduzione La filosofia pratica 1 . Schopenhauer apre la quarta ed ultima parte de Il mondo come volontà e rappresentazione dichiarando che essa, poiché riguarda le azioni umane (die Handlungen der Menschen), è la più importante e aggiunge che il medesimo rilievo è riconosciuto e deve essere riconosciuto a questo tema in qualunque ricerca ilosoica sistematica1. La ragione è che il luogo dell’agire è il luogo dove si apre la questione del senso o del ine e dunque è in rapporto a esso che un’indagine può dare prova del suo senso e del suo ine, del suo rilievo per la vita umana. Perché dedicare un pezzo della propria vita a trattare di una certa questione ilosoica e poi a scrivere un certo libro? Perché dedicare tempo a leggere questo libro? Sulla base di quale idea della vita ofrire la possibilità di una tale lettura e dunque anche chiederla, sebbene certo non come un’imposizione? A queste domande, chi opera all’interno di altri saperi può non rispondere, o meglio, può non pensare aidandosi alla risposta che è implicita nel riconoscimento sociale di quei saperi: la ragione che si suppone la società abbia per attribuire valore a quel sapere, che sia la biochimica, l’ingegneria edile o la ilologia romanza, è la stessa ragione che si suppone giustiichi sia la propria ricerca sia l’attenzione che si chiede di riservargli. Rispetto a tutto questo, la ilosoia sta ancora una volta in una posizione meno rassicurante. Forse a causa della sua inclinazione caratteriale che le rende disagevole appoggiarsi ad un presupposto, perlomeno quando lo ha riconosciuto come tale, non riesce a non saggiare e valutare quel tipo di ragioni e così ne vede tutta la fragilità. Ci sono saperi giustiicati dalla loro utilità, ma è utilità rispetto a quali ini e a quale immagine dell’essere umano? In rapporto ad altri si dice che contribuiscono alla ricchezza spirituale e culturale della società che li alimenta, ma 1 Cfr. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione (1819), trad. it. di S. Giametta, Bompiani, Milano 2006, p. 355. 21 22 Introduzione il problema delle condizioni efettive (dalla capacità di attenzione e fruizione di un libro, alla disponibilità reale di questo ecc.) ainché questo arricchimento e questa crescita possano realizzarsi è un problema che ci si guarda bene dall’afrontare seriamente. E poi c’è la verità, il cui valore si pretende capace da solo di giustiicare un sapere che si propone di raggiungerla, dimenticando con ciò che le verità indagabili sono ininite e certo non tutte meritano di essere indagate di fatto. Soprattutto comunque, quel rinvio al valore della verità non prende suicientemente sul serio una domanda paradossale che però forse va formulata; Heidegger la suggerisce quando osserva: «Si potrebbe persino arrivare a pensare che una scienza che conduce a simili possibilità di distruzione, abbia qualcosa che non va»2; ebbene, la domanda paradossale è questa: se l’idea corrente di accesso veritiero alle cose è disponibile all’apertura di quelle possibilità di distruzione e disumanizzazione, se si pretende indiferente rispetto al problema dell’uso di ciò che viene scoperto e con ciò inquadra il rapporto umano a tali scoperte come un problema subordinato e appunto di “uso”, forse che allora non è un’idea suicientemente profonda di verità? Ad ogni modo, la ilosoia non ha il diritto di farsi sconti su queste domande che riguardano il sapere al di là di ogni delimitazione del territorio epistemologico o gnoseologico. E si interroga tematicamente anche sul suo rapporto con l’agire umano: nel determinare questo rapporto, determina il suo senso – senso che può anche consistere nel testimoniare e dimostrare l’illusorietà del problema pratico e di quell’immagine del vivere che è centrata su di esso. Il luogo di tale interrogazione, ma che non ospita solo questa interrogazione, lo potremmo chiamare: “ilosoia pratica” o “momento pratico della ilosoia”. A questo punto, però, Schopenhauer ci mette in guardia con le seguenti parole: Ma a mio modo di vedere, la ilosoia è sempre teoretica; in quanto è suo carattere essenziale, qualunque sia l’oggetto immediato della ricerca, di considerare, d’indagare, non di prescrivere (nicht vorzuschreiben). Quelle di applicarsi alla pratica, di regolare l’agire e riformare il carattere, sono vecchie pretese a cui, dopo una rilessione matura, dovrebbe ormai rinunziare. Qui dove si tratta del valore di un’esistenza, di salvezza o dannazione, ciò che decide non sono i mor2 M. Heidegger, Seminari (1977), trad. it. di M. Bonola, Adelphi, Milano 1992, p. 197. La ilosoia pratica 23 ti concetti della ilosoia, ma l’intimo essere dell’uomo, il demone che lo guida […]3. Per il ilosofo tedesco, l’idea di una ilosoia pratica è inseparabile da una messa in opera di prescrizioni e, soprattutto, dalla pretesa di regolare l’agire e riformare il carattere. A fronte di tutto questo, l’unica alternativa che sembra ammessa è quella che vede la ilosoia fare dell’agire l’oggetto (Gegenstand) di una considerazione puramente speculativa. Muovendo da un confronto con il modello di ilosoia pratica esempliicato da Aristotele soprattutto nell’Etica Nicomachea, ma anche trasformandolo là dove sembra necessario doverlo fare per restare fedeli all’istanza profonda che lo guida, che è quella di elaborare un discorso ilosoico che riesca a dimorare nella dimensione delle cose umane, tra le opportunità e le diicoltà che la attraversano, ecco, muovendo da lì cercheremo di forzare la scelta che Schopenhauer pare presentare come obbligata. In questa ricerca, che è sì teoretica, ma è anche ricerca di una ilosoia che sappia non essere, e non pretenda di essere, solo una contemplazione delle strutture dell’agire, comunque, non potremo semplicemente scartare e distanziarci dall’osservazione di Schopenhauer appena citata. E la ragione è che essa dice qualcosa di profondamente vero. E dice pure qualcosa di profondamente aristotelico – la qual cosa per noi si trova anch’essa ad avere un certo rilievo. Come abbiamo visto, Schopenhauer cita esplicitamente l’idea platonica del demone che guida l’uomo e fa implicito riferimento al mito di Er narrato al termine de La Repubblica, inoltre, subito dopo richiama la nozione kantiana del carattere intellegibile. Comunque, la tesi che i concetti e discorsi ilosoici non possano da soli dar forma, e dunque anche trasformare, un carattere o regolare la condotta è anche una tesi aristotelica. È una tesi che lo Stagirita aferma esplicitamente, ma soprattutto è conseguenza diretta, e porta dunque in sé le tracce, dell’intera antropologia che emerge nell’Etica Nicomachea, un’antropologia che appunto non ruota intorno a un’immagine intellettualistica dell’essere umano e del riorientamento del suo agire. 3 Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, p. 355 (trad. modiicata). 24 Introduzione 2 . C’è un’afermazione muovendosi a spirale intorno alla quale si potrebbe ricostruire l’intero impianto etico e antropologico dell’Etica Nicomachea evitando di proiettare sul discorso in essa espresso quelle immagini dell’uomo che ancora gravano sulla nostra elaborazione spontanea dell’esperienza: l’immagine intellettualistica, che rappresenta l’uomo come un essere che non smette di deliberare e calcolare quale azione compiere (anche se certo può deliberare e calcolare male) e l’immagine che pone al centro di ogni essere umano la forza di volontà, quella che si può eventualmente imputargli di non aver usato nel modo appropriato per vincere questa o quell’inclinazione. Ecco dunque l’afermazione che potrebbe fare da ilo conduttore per cogliere la novità per noi di quest’opera che pure è un classico e dunque un pilastro della cultura occidentale: Non è dunque una diferenza di poco conto, se in dalla nascita veniamo abituati (e)JizeJai) in un modo piuttosto che in un altro, è importantissima, anzi, è tutto (ma=llon de\ to\ pa=n)4. «Anzi, è tutto». Nel più intimo di ogni essere umano c’è quell’esterno che è dato dai rapporti in cui è preso e in cui è diventato il soggetto che è, in cui ha ricevuto gli habitus e quei savoir vivre grazie a cui ora si relazione in certi modi a se stesso, agli altri, alla tradizione e al passato, alla natura e alle istituzioni, alle norme e alla verità. E questi rapporti in cui è preso non sono semplici rapporti duali, la cosiddetta “intersoggettività”: come Aristotele ha precisato poco prima, nelle modalità dell’educazione, anche quella impartita nel nucleo familiare a cui tornerà a fare riferimento al termine dell’Etica Nicomachea, si esprimono i nomoi, cioè le leggi, e i costumi (ethos) della città5. La verità di quei rapporti è dunque la polis stessa, il complesso delle idee e dei valori che regolano la vita che si dispiega al suo interno. La forma delle future 4 Aristotele, Ethica Nicomachea, B 2, 1103 b 23-25. (Salvo precisazioni esplicite, le traduzioni dei testi antichi citate in questo libro sono quelle indicate nella bibliograia inale: quella dell’Etica Nicomachea, ad esempio, è sempre quella di Carlo Natali, appunto salvo controindicazioni debitamente indicate. Ciò nonostante, non ho indicato la pagina delle edizioni moderne, ma mi sono attenuto all’impaginazione classica che è riportata in quasi ogni traduzione moderna). 5 Lo strettissimo rapporto tra nomos e ethos è continuamente testimoniato nell’opera di Aristotele (cfr. come pars pro toto: Politica, B 8, 1269 a 20-21) e obbliga a non proiettare sulla prima nozione l’idea moderna di legge. La ilosoia pratica 25 azioni, che ha questa o quella qualità etica, è innanzitutto la forma degli habitus ricevuti e ricevuta è persino la coltivazione della capacità di sottoporre a critica (ossia di porsi intellettualmente a distanza da) i propri habitus pratici, il proprio carattere, e tentarne una qualche “riforma” (certo non semplicemente con una critica intellettuale, ma ad esempio partecipando a pratiche che provochino una sorta di nuova “abituazione” o e)Jismo/j). La stessa questione del bene e della sua attrattiva, su cui si apre la Nicomachea («Ogni arte e ogni indagine, come pure ogni azione e scelta, a quanto si crede, persegue un qualche bene, e per questo il bene è stato deinito, in modo appropriato, come ciò cui tutto tende»)6 si impone agli esseri umani all’interno della polis, cioè in quanto sono esseri sociali. La società, dove si riceve tanto la formazione pratica, quanto gli insegnamenti (didaskali/a)7 e ciò che presuppongono, cioè l’uso competente del linguaggio e della ragione, è una delle condizioni indispensabili in cui diventano visibili in generale, e dunque anche accessibili a ciascuno, sia la questione del bene, sia quella del giusto8. È dunque questa la dimensione in cui perlomeno si apre, se non anche si chiude come probabilmente riteneva Aristotele, la problematica etica per gli esseri umani. La seconda parte di questo volume, conviene anticiparlo, intende contribuire al consolidamento di quest’impostazione del discorso sull’essere umano, cioè sull’essere dell’essere umano, e sul suo problema etico, che è il nostro. Intende contribuire all’impostazione di questi discorsi che muove saldamente dal riconoscimento della costitutiva socialità del soggetto umano. Questa socialità, più profonda di ogni socievolezza o non socievolezza, è ciò che si trova nei fatti disconosciuto in entrambe le immagini dell’uomo evocate poc’anzi, quella che lo rappresenta a calcolare e lo fa senza interrogare le condizioni sociali grazie a cui è divenuto efettivamente capace di farlo e quella che lo rappresenta a lottare con le sue inclinazioni senza capire che questa stessa lotta intestina è già una forma d’ordine della sfera emozional-desiderativa, forma a sua volta ricevuta e appresa, depositata in un modello socialmente riconosciuto di soggettivazione. I capitoli della seconda parte intendono contribuire a questa impostazione non operando una sovrapposizione del piano sociale al piano che ha per protagonisti gli 6 7 8 Aristotele, Ethica Nicomachea, A 1, 1094 a 1-3. Cfr. Aristotele, Ethica Nicomachea, B 1, 1103 a 15. Cfr. Aristotele, Politica, A 2, 1253 a 1-29. 26 Introduzione agenti individuali: l’alternativa non è tra la prospettiva che vede solo il movimento del sistema sociale e che riduce gli esseri umani a portatori di funzioni sociali e la prospettiva che aderisce ingenuamente al punto di vista dei soggetti agenti, cioè poi alla loro rappresentazione del loro afaccendarsi pratico, quella rappresentazione che può arrivare ad inquadrare la società come ciò di cui è stato ed è “utile” far parte perché agevola la risoluzione del problema della sopravvivenza materiale. Al di là dell’opposizione tra un discorso che, cancellando ogni agire soggettivo in favore della dialettica sociale, distrugge il senso stesso del problema etico e un discorso che cede a quello che Jacques Lacan ha chiamato una volta il “credo delle sciocchezze” umanistico9, qui si tenta di tracciare, metro per metro, un’altra via. Si procede introducendo criticamente tutto quell’“esterno” cui è di fatto annodata la situazione del soggetto pratico e che dunque si rivela di fatto anche interno, sebbene non sia immediatamente a disposizione di quel soggetto e sebbene costui per lo più disconosca questo annodamento nella rappresentazione che si fa di sé e della sua situazione. In questo movimento di introduzione critica e progressiva che parte dai nodi efettivamente rinvenibili nel tessuto apparentemente solo soggettivo dell’esperienza, si comincia dal già evocato complesso di idee e valori, spesso incarnati in forme dell’agire, altre volte espressi in discorsi che godono di una più o meno grande autorevolezza (e che sono dunque una sorta di endoxa). Si comincia dall’esame della struttura di questo complesso di idee e valori che chiameremo “cultura” perché il modo in cui esso si annoda alla situazione del soggetto e al suo modo di farne esperienza e rispondervi è un contribuire a determinare niente meno che l’ordine interno di quella situazione e di questa esperienza. Invece, il modo in cui, nella situazione e nella sua esperienza, intessute entrambe con la cultura, non cessino di scriversi la questione del senso e del bene e la questione del giusto, questo è qui solo intravisto, ma sarà il tema della terza parte di quest’opera, quella che dovrà occupare da sola un prossimo volume10. 9 Cfr. J. Lacan, “Dei-Nomi-del-Padre”. Seguito da: “Il trionfo della religione”, trad. it. di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2006, p. 67. 10 Preciso che il tipo di movimento che ho appena descritto, quello per cui parto dalla rappresentazione soggettiva del soggettivo fare esperienza per reintrodurvi ciò che di fatto caratterizza, attraversa o si annoda a tale esperire, spesso con efetti desoggettivanti e comunque producendo un’efrazione di quella rappresentazione, ecco, questo tipo di movimento non l’ho seguito solo nel presente libro. Un mio preceden- La ilosoia pratica 27 3 . L’afermazione aristotelica prima citata, comunque, proprio in quanto raccoglie in sé ciò che più facilmente oggi ci sfugge dell’antropologia etica di Aristotele, e che per questo è più essenziale tener fermo, ha conseguenze importanti anche in rapporto alla problematica per così dire “meta-teorica” sul senso della ilosoia pratica. Lo si può vedere prestando attenzione al rapporto tra quell’afermazione e una celebre proposizione di Aristotele sulle sue ricerche consegnate ai trattati di etica, una proposizione che, tra l’altro, segue immediatamente l’afermazione sull’educazione: quest’ultima infatti chiude il capitolo primo del libro B, l’altra apre il capitolo secondo. Eccola: Siccome la presente trattazione non si propone la pura conoscenza (Jewri/aj), come le altre (infatti non stiamo indagando per sapere che cos’è la virtù, ma per diventare buoni, perché altrimenti non vi sarebbe nulla di utile in questa trattazione), allora è necessario esaminare il campo delle azioni […]11. Ora, il rapporto tra le afermazioni contenute nelle due citazioni non è afatto quello che si potrebbe esplicitare così: “poiché si tratta di diventare buoni, poiché è questa la posta in gioco ultima, allora l’educazione è molto importante, ma anche la presente trattazione deve cercare lì, nel far diventare buoni, la sua ragion d’essere, la sua utilità”. No, quel rapporto diventa comprensibile capovolgendo questa interpretazione e dicendo al suo posto: “poiché è nell’educazione pratica (ossia nell’abituazione), che si gioca l’essenziale di quella partita la cui posta in gioco è il diventare buoni, allora quale può essere la ragion d’essere della presente trattazione? O meglio, dove e come questa trattazione può trovare la sua ragion d’essere? Come può essere qualcosa di diverso da una pura teoria della pratica?”. Le implicazioni riguardanti la natura della trattazione di “ilosoia pratica” della tesi, avanzata e difesa nel libro B, secondo cui le virtù etiche non si trasmettono attraverso l’insegnamento teorico, Aristotele le considera te lavoro, La misura del vero (Orthotes, Napoli 2012), è assolutamente disponibile a farsi interpretare in questo modo: lì si trattava di mostrare che e come nell’esperienza soggettiva non smetta di scriversi la questione della verità e il riferimento ad essa come a ciò che fa da misura e che non si lascia padroneggiare, anche se, appunto, lascia che ci si misuri e si misurino i propri giudizi su di essa. Qualcosa di simile si potrebbe pure dire per Volontà e assenso (Orthotes, Napoli). 11 Aristotele, Ethica Nicomachea, B 2, 1103 b 26-29. 28 Introduzione nel modo più approfondito nell’ultimo capitolo dell’ultimo libro, il capitolo 10 del libro K. Sebbene non sia una prefazione il luogo per un commento dettagliato di questo brano, conviene riportarlo per intero, sia per la sua grande bellezza, sia per la testimonianza che porta, la testimonianza di come Aristotele riuscisse a tener fede all’istanza pratica di questa parte delle sue ricerche, senza “raccontarsi storie” sulla potenza dei discorsi ilosoici. In conclusione, dal momento che abbiamo detto abbastanza, per grandi linee, sia su questi temi sia sulle virtù, nonché riguardo ad amicizia e piacere, dobbiamo credere che il nostro intento sia giunto alla sua realizzazione? Oppure, come si suol dire, nel campo dell’agire la realizzazione non consiste nel conoscere teoreticamente ogni aspetto, ma piuttosto nel metterlo in pratica? E quindi, riguardo alle virtù, non è suiciente conoscerle, ma dobbiamo sforzarci di possederle e di farne uso, o di sapere se in qualche altro modo possiamo diventare buoni. Ora, se i discorsi fossero suicienti a renderci persone per bene “farebbero di certo afari d’oro”, come dice Teognide, e dovremmo procurarceli; in realtà, è chiaro che i discorsi conducono (protre/yasJai) i giovani d’animo generoso a raforzare la propria disposizione (tw=n ne/wn tou\j e)leuJeri/ouj i)sxu/ein – quelli che sono di spirito libero, tra i giovani, a raforzarsi in ciò), e li incoraggiano (parormh=sai), rendono un carattere nobile (eu)gene\j – ben nato) e veramente amante del bello adatto ad ospitare la virtù, ma non hanno la capacità di condurre (protre/yasJai) la massa (tou\j pollou\j) all’eccellenza morale (pro\j kalogagaJi/an)12. Nel contesto presente, di queste righe possiamo limitarci a sottolineare due elementi. Il primo è che Aristotele trova una certa eicacia e funzione pratica ai discorsi consegnati a opere come la Nicomachea: tale eicacia, tuttavia, ha condizioni molto precise per potersi estrinsecare e manifestare e la creazione di queste condizioni è, ovviamente, al di là delle possibilità di quei discorsi o di altri discorsi. Le condizioni consistono nel fatto che coloro cui i discorsi si rivolgono abbiano già un animo generoso e siano ben nati, cioè poi abbiano ricevuto una buona educazione pratica; la funzione e l’eicacia dei discorsi sta nel consolidare i principi di questa educazione e nel produrre un incoraggiamento e un raforzamento. Che cosa può signiicare? Ecco 12 Aristotele, Ethica Nicomachea, K 10, 1179 a 33 – b 10. La ilosoia pratica 29 la formulazione abbreviata di un’ipotesi ragionata: come è noto, per schematizzare la struttura dell’azione, Aristotele introduce la nozione di sillogismo pratico; nel caso paradigmatico dell’agire virtuosi, ciò che sta nel posto della premessa maggiore è quanto viene fornito dalle virtù etiche, mentre nel posto della premessa minore c’è il prodotto del lavoro della phronesis, cioè la concretizzazione o particolarizzazione del ine, che fa sì che l’orientamento generale su di esso si individui nell’investimento della forza desiderante su questa speciica azione, l’esecuzione di questa azione, che a questo punto si produce, è la “conclusione” del sillogismo13; ora, nel posto della premessa maggiore sta il ine verso cui dispongono e orientano le virtù etiche, le quali sono plasmate nell’educazione e che dunque incorporano le idee e i valori che conigurano il complesso dei nomoi e dei costumi (l’ethos); di queste idee e valori, o dei più profondi tra questi, esistono anche espressioni discorsive (i nomoi ne sono un esempio, ma non tutta l’espressione linguistica della normatività che costituisce l’eticità, normatività che, lo ripeto, non è comunque tutta espressa in discorsi giacché vive anche immediatamente incorporata in pratiche e istituzioni, ecco, non tutta l’espressione linguistica di tale normatività è quella che accade nelle leggi, scritte e orali: esistono ad esempio anche i racconti morali e gli insegnamenti morali impliciti nei racconti mitici); ebbene, il lavoro intellettuale della ilosoia pratica, operando su questi discorsi ricevuti, può difendere con ragioni alcuni di questi principi profondi e nel caso, proporne correzioni o ricalibrature (tutte cose che di fatto Aristotele fa, ad esempio quando illustra le ragioni del valore dell’amicizia, oppure il senso di una certa virtù pratica o critica alcune delle idee riguardo alla crematistica e all’arte di arricchirsi, che erano socialmente operative, ossia che regolavano efettivamente dei comportamenti e dunque godevano di una certa normatività, perlomeno quella del modello autorevole). Questo tipo di lavoro, dice Aristotele 13 Un’analisi eccellente del sillogismo pratico è quella oferta da C. Natali, La saggezza di Aristotele, Bibliopolis, Napoli 1989, pp. 143-215. La tesi ermeneutica di Natali è stata ripresa recentemente anche da Maria Silvia Vaccarezza che discute anche la letteratura critica più recente, valorizzando in particolare la recente ricostruzione oferta (all’interno del quinto capitolo dell’opera ora citata) da C.D.C. Reeve: cfr. C.D.C. Reeve, Action, Contemplation, and Happiness. An Essay on Aristotle, Harvard University Press, Cambridge (MA) 2012; M.S. Vaccarezza, Le ragioni del contingente. La saggezza pratica tra Aristotele e Tommaso d’Aquino, Orthotes, Napoli 2012, pp. 49-58. 30 Introduzione nella pagina citata, ha un valore per i giovani che hanno già familiarizzato con i buoni principi dell’ethos: in efetti, questo lavoro criticoteorico può valere come una difesa contro la scepsi soistica, di cui sappiamo perlomeno dal processo a Socrate, che era ritenuta capace di corrompere le buone disposizioni pratiche. Potremmo allora dire che nella sua ilosoia pratica, Aristotele, come Platone prima di lui, si proponeva di elaborare e ofrire ragioni che potessero vincere le false argomentazioni soistiche nelle menti di coloro che hanno ricevuto un’educazione grazie a cui sono ora capaci di considerare discorsi e di ascoltarli in sede pratica (insomma coloro che da un lato erano più esposti alla soistica, ma dall’altro anche potenziali soggetti alla forza della ilosoia). Il secondo elemento da enucleare dalla pagina citata riguarda “i molti”, “la massa”. In rapporto a ciascuno dei molti, i discorsi della ilosoia pratica sono impotenti, cioè non hanno quella determinata potenza che hanno nei confronti di coloro che hanno ricevuto una buona e speciica educazione. Questo dice Aristotele, ma esso non implica che l’Etica Nicomachea afondi in una prospettiva elitista o altrimenti aristocratica. Il fatto che i molti non siano potenziali fruitori delle lezioni aristoteliche non signiica che non possano, attraverso una mediazione più lunga, trarne proitto. Questa mediazione più lunga è quella di cui lo Stagirita tratta nella parte restante del capitolo conclusivo della Nicomachea e poi nel trattato cui questo capitolo rimanda esplicitamente – e rimanda dicendo che solo se si passerà per tale trattato si potrà completare la ilosoia delle cose umane (h( peri\ ta\ a)nJrw/pina filosofi/a) qui impostata e sviluppata in alcune delle sue parti14. Tale mediazione è la mediazione politica, di cui Aristotele si occupa ne La politica. È solo uno schema platonico, o meglio platonistico, cioè pseudo-platonico, quello che porta a vedere la chiusura della Nicomachea nell’elogio della vita contemplativa: questa visione è piuttosto un disconoscimento della vera conclusione che, tra l’altro, è proprio là dove ci si aspetterebbe di trovarla: alla ine. E tale conclusione inale è un passaggio alla politica. Che non si tratti di un passaggio esteriore, dettato da un’astratta esigenza sistematica di cucitura di trattati per sé isolati e autonomi, lo prova il ragionamento che stiamo illustrando. I discorsi di ilosoia pratica, che riescono ad avere anche un efetto pratico su alcuni singoli, quelli che possono 14 Aristotele, Ethica Nicomachea, Κ 10, 1181 b 13-16 La ilosoia pratica 31 fruirli (per cui ad esempio hanno del tempo libero da dedicare loro) e sanno fruirli (cioè hanno la capacità di capirli e di tenerne poi conto al momento dell’agire – a diferenza ad esempio di coloro che sono acratici, cioè non sanno seguire le buone indicazioni che la loro ragionevolezza sa elaborare), ecco, questi discorsi arrivano ad avere effetti anche su tutti gli altri inluenzando (ma non dirigendo – sarebbe loro impossibile dato il carattere “tipologico” e “non dettagliato” che li caratterizza)15 la deliberazione politica e la legislazione, cioè il luogo dove vengono modellate le pratiche educative, cioè quelle che sono importantissime, anzi: tutto. E qui si può capire come la centralità dell’educazione pratica non conduca Aristotele in una forma di irrazionalismo: non è una praticità pre-razionale che apparecchia lo spazio e la scena al lavoro della ragione; piuttosto, presupposto dell’esercizio concreto della ragione da parte di uomini in carne e ossa è la praticità di pratiche modellate politicamente e dunque anche attraverso la ragione. “Si tratta di una sorta di circolo!”, si potrebbe obiettare considerando che alla vita politica partecipano uomini che hanno ricevuto una qualche educazione pratica. Ecco, questa è una giusta obiezione cui non risponderò battezzando questo circolo un “circolo virtuoso”. Sifatti abracadabra mi pare abbiano fatto il loro tempo. Invece, la risoluzione di questo punto, cioè l’esibizione determinata della non viziosità di questo circolo, cioè del suo non essere davvero e semplicemente un circolo, è, al di là dell’analisi interna agli scritti di Aristotele, la posta in gioco dell’intera opera di cui il presente volume fa parte. Ritengo che tutti gli elementi che verranno introdotti siano essenziali alla corretta risoluzione inale, che qui non posso anticipare. Tali elementi danno consistenza efettiva alla generica tesi secondo cui questo “circolo” diventa pensabile solo in quanto non lo si collochi al livello del singolo, bensì al livello del complesso sociale che si distende su più generazioni. Due sono gli ingredienti più importanti della soluzione che verrà elaborata in questo e nel prossimo volume: da un lato l’irriducibile molteplicità che, sotto più rispetti, caratterizza il mondo umano (molteplici tradizioni in una stessa società, molteplicità di tempi che dispongono su piani diferenti le idee e i valori ricevuti, molteplicità di generazioni che si incontrano 15 Si rammenti: «tutto il discorso sulla prassi (o) peri\ tw=n praktw=n lo/ goj) deve essere sviluppato a grandi linee (tu/p%) e senza entrare nei dettagli (ou)k a)kribw=j)», Aristotele, Ethica Nicomachea, B 2, 1104 a 1-2 (trad. modiicata). 32 Introduzione in qualunque data fase, molteplicità di esistenze che si interrogano sul senso di quel che loro capita, molteplicità di società che non smettono di incontrarsi, sebbene con intensità diverse in epoche diverse), dall’altro la presenza di alcuni invarianti che essendo parte della struttura del mondo umano, non cessano di scriversi in qualunque formazione sociale (tra essi, la questione del senso e del bene, la problematica del giusto, la verità in posizione di misura, il fatto che i modi in cui si fa fronte a tali questioni abbiano sempre anche una dimensione simbolico-rilessiva e dunque, in senso ampio, razionale). 4 . Come abbiamo visto, Aristotele trova il modo di legare i contenuti delle sue ricerche di ilosoia pratica ai “molti”. Allentando solo un poco il riferimento stretto al suo impianto teorico, possiamo domandare: l’orientamento pratico, le cui buone nervature essenziali indaga anche la ilosoia pratica, è per i molti semplicemente un ricevuto? Ossia, al di fuori di ogni linguaggio aristocratico: possono davvero esserci molti esseri umani per cui l’orientamento pratico, cioè la determinazione dei grandi Fini e degli ideali degni di essere investiti dal desiderio e di orientare le varie scelte, sia solo un ricevuto? È davvero possibile che per molti i valori da fare propri, cioè da rendere i punti di riferimento del proprio vivere e agire, siano semplicemente quelli consegnati dalla tradizione o dalla cultura dominante nella società cui quei molti appartengono? Ora, queste domande possono essere interpretate in due modi. Stando al primo, quando si chiedono se “sia davvero possibile” una certa cosa, si stanno chiedendo se sia davvero giusto che accada questa cosa, stando al secondo invece, quelle domande riguardano efettivamente la possibilità pratica di quella cosa. La prima interpretazione porta dritta alla problematica della ilosoia politica. Noi non andremo ora in questa direzione, ma possiamo perlomeno articolare un poco la questione così declinata. Nel secondo libro della Politica, Aristotele, nel contesto di un certo ragionamento, riporta come un’evidenza questa tesi: «in generale, tutti cercano non quel che è tradizionale (to\ pa/trion – tramandato dai padri), bensì quel che è bene»16. Ciò signiica che anche quando ci si attiene al ricevuto, lo si fa supponendolo buono. Ora, tale supposizione è per lo più operata tacitamente, è cioè un impegno implicito nell’adesione pratica ai costumi e alle leggi; talvolta potrà essere espli16 Aristotele, Politica, B 8, 1269 a 3-4 (trad. modiicata). La ilosoia pratica 33 citata e alcune di queste volte potrà persino essere riafermata o ribadita dopo che il nesso tra le norme ricevute e il bene sia stato messo in questione e saggiato. Ecco, chi rispetta le norme tradizionali dopo essere tornato a vederne in atto la bontà e dunque la validità è colui che realizza l’adesione pratica ad esse nella maniera più libera e autonoma. Torniamo ora alle domande formulate nel capoverso precedente: esse chiedono se sia giusto che solo quelli che non fanno parte de “i molti” possano realizzare un’adesione alle norme ricevute così profondamente iltrata dalla ragione, se sia giusto che ai molti sia riservata solo la supposizione tacita della bontà di ciò su cui regolano e orientano le loro condotte, cioè la supposizione a cui sono stati educati e alla luce della quale sono cresciuti. È giusto che per loro la ragione della bontà di quelle norme stia tutta al di fuori delle loro menti? Sia chiaro: questa ragione è sempre anche al di fuori delle menti degli agenti, è infatti là dove stanno le norme e le norme stanno nella società, sono cioè realtà sovra-soggettive che godono di un riconoscimento che non è il prodotto di una somma di riconoscimenti individuali (come sarebbe se fossero norme stabilite per contratto – cioè poi attenendosi ad altre norme di sfondo che sono presupposte dal convenire contrattuale); il problema è che per alcuni, quella ragione non sta solo fuori, essi cioè sono capaci e messi in condizione di riconoscerla; questi, cioè, esercitando la ragione che sono stati educati ad esercitare, possono vedere la razionalità, cioè la validità del trattare come buone le norme che sono state tramandate (e persino, in alcune speciali condizioni, di vedere ed evidenziare la non validità o non bontà di alcune di queste norme); per gli altri, invece, questa validità è semplicemente l’oggetto di una supposizione tacita che è essa stessa un “tramandato dai padri”. È giusto tutto questo? Come anticipato, questa domanda porta alla problematica della ilosoia politica, lo si intuisce anche rivolgendo un istante l’attenzione a questa autorevole risposta: no, non è giusto, ed è per questo che alla legislazione e alla deliberazione politica, luoghi in cui la domanda sulla bontà del ricevuto è esplicitamente formulata, devono poter (= devono avere il diritto di, ma anche essere messi nelle condizioni materiali ed intellettuali per) prendere parte tutti, democraticamente, ad esempio attraverso quel meccanismo della turnazione nella partecipazione all’assemblea, che vigeva ad Atene e che Aristotele descrive nella Politica (e nella Costituzione di Atene)17. Quello qui schematizzato non è l’argomento con cui Aristotele giunge a difendere il regime democratico e questo per la semplice ragione che la posizione di Aristotele sulla democrazia ha una complessità che la rende irriducibile all’alternativa 17 34 Introduzione 5 . Come anticipato, le domande formulate nel punto 4 possono anche non essere lette come domande su ciò che è giusto, bensì su ciò che è di fatto praticamente possibile. Consideriamole ora in questo modo e riferiamole ancor più precisamente a che cosa è praticamente possibile in società altamente diferenziate, come le società moderne e, a maggior ragione, quelle contemporanee. Come vedremo nel capitolo IV, in queste società è accaduto qualcosa al concetto di individuo, che è molto importante per la ilosoia pratica. Non mi riferisco al concetto ontologico di ente individuale, né, del concetto di individuo umano, mi riferisco al lato più propriamente ontologico, quello cioè che enuclea alcune caratteristiche che si pretende appartengano a qualunque essere umano: mi riferisco al principio dell’individualità, al principio per cui è individuo chiunque sia un centro di senso e libertà e che esercita questa capacità di produrre una libera tessitura del senso ad esempio nel progettare la sua vita o nel contribuire a deinire i contesti pratici cui partecipa18. Ebbene, ciò che accade nelle società moderne a questo principio e che ha così grande rilevanza per la ilosoia pratica è che esso viene distribuito su ogni essere umano: ogni essere umano, che sia uno dei “molti” o uno dei “pochi”, è supposto essere un’individualità ed è socialmente cresciuto (ossia è soggettivato) in un modo che lo porta ad introiettare questo principio. Ora, questa circostanza, che pur essendo per sé contingente, va di fatto a far parte della struttura delle società moderne (per cui non può accadere al loro interno qualcosa che sia incompatibile con questo esser difuso su tutti del principio di individualità), ecco, questa circostanza rende impraticabile quella conigurazione del rapporto agli ideali e ai valori per cui essi sono semplicemente un ricevuto per “i molti”, e dunque per molti. Due ordini di fatti, intrecciati a quella circostanza, rendono ragione di questa impraticabilità. Da un lato, la valorizzazione di ciascuno come un centro di senso irripetibile porta naturalmente con sé la valorizzazione e la suppotra l’essere pro o l’essere contro. Una ricostruzione sintetica ma acuta della posizione aristotelica (che valorizza la valorizzazione aristotelica dei meccanismi caratteristici della democrazia) è quella oferta da C.C.W. Taylor, Politics, in J. Barnes, he Cambridge Companion to Aristotle, Cambridge University Press, Cambridge 1995, pp. 233-258. Si veda anche quanto emerge a proposito della posizione di Aristotele nel contesto delle rilessioni greche sulla democrazia in: C. Castoriadis, La Cité et les Lois. Ce qui fait la Grèce, Séminaires 1983-84, Seuil, Paris 2008. 18 Come si vedrà anche nel capitolo citato, è decisivo per le distinzioni appena accennate: L. Dumont, Saggi sull’individualismo. Una prospettiva antropologica sull’ideologia moderna, trad. it. di C. Sborgi, Adelphi, Milano 1993. La ilosoia pratica 35 sizione della sua creatività e dunque, visto che quella valorizzazione plasma le modalità sociali di formazione dei soggetti, allora porta con sé pure il fatto che ciascuno si supponga e si senta capace di creatività. Ora, tutto questo contrasta col fare di molti dei semplici recettori di orientamenti e ideali tramandati: ciascuno e ciascuna vuole poter marcare con la sua singolarità il grappolo di modelli di vita socialmente promossi e valorizzati. Se il buon modello di vita è quello che è conveniens con ciò che a esso deve aderire, se cioè è il modello che porta a perfezione il, ma anche si adatta al, tipo di essere alla cui vita pretende di far da modello, ora accade che nessuno si riconosca più semplicemente nell’essere un esemplare tra gli altri dell’Uomo: il suo modello di vita deve rispondere anche a ciò che egli o lei è nella sua singolarità. (Si noti: non è inevitabile che tale idea dell’autenticità sia declinata come rinnegamento di ciò che si ha anche in comune con gli altri, il punto fondamentale e irrinunciabile è che quel che si ha di diferente dagli altri non sia rubricato nell’inessenziale o nell’accidentale)19. Oltre a questo c’è anche un secondo lato o un secondo ordine di fatti da considerare: il carattere altamente diferenziato e complesso delle società moderne esclude di fatto la situazione per cui i vari membri della società abbiano al massimo un ristretto grappolo di modelli di vita su cui orientarsi per trovare, ciascuno, una forma d’ordine che integri i compiti e le funzioni che ha da svolgere. No, una sola esistenza attraversa quasi quotidianamente una così grande quantità di contesti, ciascuno ordinato autonomamente e caratterizzato da una sua propria temporalità, da essere continuamente rimandata a una declinazione singolare del problema dell’integrazione o della messa in ordine. Insomma, a quegli individui soggettivati come singolarità irriducibili sono di fatto consegnati problemi singolari di tessitura della propria vita: non si tratta solo di portare la propria irma su un modello di vita, ossia su un modo di orientarsi sugli ideali riconosciuti, che per sé sarebbe adatto a tutti o a moltissimi, ma di forgiare un proprio modo di rivolgersi a quegli ideali (o ad alcuni di essi, visto che neppure quelli si conciliano senza resti) a partire dalle situazioni concrete e parzialmente irriducibili che ci trova ad attraversare. I contesti pratici e i compiti da svolgere sono cresciuti enormemente, inoltre i principi 19 La distinzione tra il principio di autenticità e la sua contemporanea declinazione soggettivistica è una delle poste teoriche del lavoro di Charles Taylor: cfr. ad esempio C. Taylor, Il disagio della modernità (1991), trad. it. di F. Ferrara degli Uberti, Laterza, Roma-Bari 1999. 36 Introduzione che li ordinano dall’interno li isolano gli uni dagli altri, per cui le possibilità di combinazione aumentano in maniera anche più massiccia: per ciascuna di queste combinazioni non c’è una forma che ordini e orienti agli ideali riconosciuti la vita che si dispiega in quella combinazione; questa forma adatta, ciascuno ha da forgiarsela. Ciascuno è inoltre trattato come capace di forgiarsela ed è cresciuto con l’idea di avere questa capacità, ma se ce l’abbia davvero e se sia davvero messo in condizioni di averla ed esercitarla, questo è tutt’altro problema. La soferenza da disorientamento, così difusa nelle società ipermoderne e iperrilessive (cioè che chiedono a quegli esseri umani trattati come individualità capaci di ogni meraviglia grazie alla rilessione libera di risolvere da soli il problema del senso delle loro vita, esercitando appunto questa rilessione), sembra votare contro un’afrettata risposta afermativa. Ed è qui che la ilosoia pratica trova innanzi a sé nuovi spazi, ma anche nuove questioni che la interrogano e la provocano ad uscire dalla messa in scena sempre ripetuta di modalità di pensiero tanto tradizionali, quanto indiferenti all’esperienza reale degli esseri umani. Sia chiaro: sarebbe ingenuo credere che le società diferenziate distribuiscano su ciascuno dei loro membri le condizioni richieste da Aristotele ainché i discorsi di ilosoia possano avere anche un’immediata efettualità esperienziale oltre che una possibile efettualità politica; ciò che piuttosto accade è una distribuzione su ciascuno del problema di trovare-inventare un senso al suo rapporto con ciò che capita e si fa innanzi nell’esperienza. Il problema del senso non è più solo un problema della comunità, ma anche di ciascuno, o meglio: il problema comune e unitario del senso si complica e declina come un problema che ciascuno ha anche in proprio e che non può dunque trovare a livello sociale una risposta generale ma completa che sia poi tramandabile; il problema comune del senso si articola e in parte diventa quello di mettere ciascuno in condizioni migliori per far fronte al suo problema del senso (ad esempio anche ofrendogli risorse simboliche da riprendere e integrare piuttosto che pseudosoluzioni complete). Ora, questa conigurazione conduce nuovi temi e questioni innanzi allo sguardo di una ilosoia pratica che, sulla scorta di Aristotele, voglia essere così profondamente una “ilosoia delle cose umane” da non poter accettare di non saper incontrare gli esseri umani nella concretezza della loro esperienza e delle diicoltà che la stringono. La ilosoia pratica 6 37 . Quelli poc’anzi evocati sono alcuni dei tratti della nuova cornice problematica a cui ha da coordinarsi una ilosoia pratica che, lasciate cadere le pretese stigmatizzate da Schopenhauer (riformare il carattere o guidare l’agire solo attraverso le sue concatenazioni di parole e concetti), non cerchi soddisfazione solo nella determinazione o giustiicazione razionale di una norma generalissima, la quale o già anima dei costumi, ma in questo caso non è l’esigenza della sua fondazione ad essere impellente, quanto piuttosto un lavoro che l’articoli per renderla capace di far fronte alle situazioni nuove o la metta in rapporto con altri principi e istanze divenuti importanti, oppure non anima alcun costume ed è semplicemente una formula che circola nello spazio dei discorsi e allora l’argomentazione fondativa che la ilosoia vuole fornirle rischia di diventare altrettanto lettera morta da un punto di vista pratico. Di fronte a una ilosoia pratica che non pretende di essere una psicagogia, ma che, nell’abbandonare questo falso obiettivo, non si rinserra in un’astrattissima fondazione di norme dimentica della questione delle condizioni di efettualità di queste, diventa importante la nozione di esperienze di strettura. Con la locuzione: “esperienze di strettura”, ho denominato una igura che compare più volte, esplicitamente e implicitamente, nel presente volume, ma che sarà criticamente delucidata nel prossimo: è la igura di quelle esperienze in cui un essere umano riconosce di non saper comporre, a livello della sua elaborazione esperienziale e dunque poi a livello della sua risposta pratica, le istanze normative e/o fattuali che pure si innestano nella situazione in cui si trova e sono parte delle caratteristiche distintive di questa. Quando si vive una di queste esperienze, ci si trova come stretti tra la situazione data, e che si fa sentire, e le risorse simboliche a disposizione per mediarla ed elaborare una risposta che le sia appropriata, ma che sia anche giusta nei confronti delle istanze normative e ideali su cui non si vuol cedere. Il disorientamento è un esempio paradigmatico di esperienza di strettura: si è disorientati perché si avverte, anche se non la si sa soddisfare, l’esigenza di orientarsi, di non agire come capita, ma di fare sì che la propria risposta mantenga un legame con alcune istanze orientanti in cui ci si riconosce. L’esperienza di strettura è anche una realtà esistenzialmente più complessa di un’aporia: può darsi che la dimensione cognitiva di una strettura possa essere ricostruita come un’aporia, ma ciò 38 Introduzione non accade sempre e comunque questa ricostruzione lascia da parte la dimensione emozionale della strettura20. Ebbene, ogni esperienza di strettura è sempre anche un’invocazione alla ilosoia pratica ainché si attrezzi per intervenire. L’intervento atteso e che la ilosoia può efettivamente ofrire non è un soccorso clinico, che cioè si rivolge alla singolarità di un caso che porta un nome proprio; non si estrinseca neppure, però, nella posizione di norme o precetti più o meno generali. Non è il lavoro della clinica, non è il lavoro della legislazione, non è il lavoro della saggezza. Il possibile soccorso portato dalla ilosoia delle cose umane ai singoli che a causa delle stretture in cui sono presi tornano a prestarle orecchio è piuttosto un lavoro di articolazione concettuale, di luidiicazione dei concetti a disposizione che sono impiegati in quelle rielaborazioni esperienziali che si rivelano sofocanti. Questa articolazione concettuale dunque porta indirettamente un contributo, da un lato, all’attività di elaborazione esperienziale compiuta da ogni singolo, ma, dall’altro, anche a quel lavoro di mediazione simbolica che sopravviene sulle attività dei singoli e sui contagi che si producono tra queste e che dà luogo appunto a quelle mediazioni che sono poi a disposizione di ciascuno ofrendosi nella semiosfera sociale. Queste mediazioni sono forme culturalmente disponibili di comprensione di alcune igure esperienziali che tutti, a partire da storie e situazioni diferenti, si trovano ad incrociare (di queste igure sono esempio: il nesso tra libertà e legami, la malattia, la morte, la genitorialità, la diferenza sessuale ecc.). Ora, a tale lavoro di mediazione, la ilosoia delle cose umane può contribuire con particolare lucidità per la sua inclinazione a sfondare ogni chiusura anticipata dell’orizzonte di signiicazione. E questa inclinazione, tra l’altro, fa sì che la ilosoia non sia per principio incompatibile con un serio confronto con le scienze umane, quel confronto che invece, al di là delle vuote dichiarazioni a favore dell’interdisciplinarità, continua ad essere rimandato, quando non sofocato. Ad ogni modo, la ilosoia pratica, anche se non si vuole riconoscere bisognosa di un confronto con le scienze sociali per esplorare il modo umano e intervenire nel lavoro di mediazione appena evocato, non può comunque 20 Qualcosa di simile si deve dire del rapporto tra strettura e dilemma: la strettura può non avere la forma di un dilemma, può essere semplicemente una situazione in cui non ci si raccapezza (non però come non ci si raccapezza davanti ad un diicile rebus: nella strettura ne va di qualcosa che si fa sentire come esistenzialmente importante). La ilosoia pratica 39 disconoscere la propria posteriorità rispetto al lavoro sociale di mediazione poc’anzi evocato. Tale lavoro, in quanto si produce al di sopra dei sogni di padronanza di chiunque, va collocato su quel piano di creatività e produttività che può essere detta sociale, se con ciò non si pensa all’automovimento del sistema sociale, oppure politica, se con ciò non si pensa solo alla politica istituzionale e proceduralizzata, oppure ancora etica, se con ciò non si pensa a un singolo che afronta i suoi dilemmi più o meno immaginari ascoltando e iltrando la voce della sua coscienza o del dovere, bensì alla tessitura continua dell’eticità comune. L’eticità che poi si riproduce e si tramanda, esponendosi a nuove trasformazioni, nell’educazione, quell’educazione che è importantissima, anzi, è tutto. Ripresa conclusiva N ella prima parte di questo libro, abbiamo difeso e sviluppato la tesi secondo cui il primo per noi della ilosoia pratica sia l’esperienza delle cose umane: ciò signiica che è quest’esperienza a poter innescare il lavoro della ilosoia pratica, dandogli così una necessità esistenziale, liberandolo dalla superluità che cala su qualunque discorso nella misura in cui è uno dei tanti che circolano. Quella tesi signiica altresì che è nel mondo delle cose umane che quel lavoro si dispiega e signiica, inine, che è a un certo ritorno sull’esperienza pratica che la ilosoia delle cose umane deve mirare. Come vada pensato questo ritorno, non è ancora stato deinito in maniera dettagliata, lo sarà nella terza parte del volume, ma per il momento è possibile ribadire che ha senso parlare di ritorno se c’è allontanamento e ha senso invocare o promuovere il ritorno se c’è perlomeno il rischio dell’erranza, cioè, se può accadere o accade che il movimento della ilosoia morale nell’alveo delle cose umane sia un disperdersi in esso, il divenire un altro dei discorsi che circolano non in virtù della loro verità né perché capaci di toccare, provocandola, la libertà. In questi casi, la ilosoia morale non riesce a tornare al mondo umano in un modo che sia all’altezza del nodo esistenziale che, per certi versi, risveglia in chi ne è stretto una qualche attenzione a ciò che può arrivare dalla ilosoia, insomma, in questi casi la ilosoia morale non si fa davvero ilosoia delle cose umane, ilosoia pratica. Ad ogni modo, per esaminare il senso del ritorno sulla dimensione delle cose umane, era necessario tentare di sviluppare una concezione più deinita di questa dimensione: è il compito di cui si sono incaricati i capitoli V e VI. Lo studio e l’esplorazione di questa dimensione non si è dispiegato come un inventario o un elenco e ciò, non perché non ce ne fosse lo spazio o il tempo, ma per una ragione di principio: quella dimensione non è una somma di cose, non è un raggruppamento di cose, l’unità che vi è coinvolta non è quella di un insieme di elementi o di un insieme di insiemi di elementi. Vi sono invece vari altri tipi di unità coinvolti nella dimensione delle cose umane e che coinvolgono le cose umane; prima fra tutte, è l’unità di ciò che prende comune- 483 484 Ripresa conclusiva mente il nome di società. La ragione per cui la speciale unità della società è “prima fra tutte” va intesa così: solo in quanto siano ricondotti all’orizzonte sociale cui appartengono, il vivere e l’agire umani diventano comprensibili, separati sono invece astrazioni vuote. È stata appena richiamata la tesi per cui quel modo di raccogliere in unità le cose umane che corrisponde all’applicazione del concetto di società è indispensabile per comprendere che cos’è il vivere e l’agire umani1. Facendo leva sull’accezione della parola “mondo” per cui il mondo di una cosa è l’orizzonte di piena intelligibilità di quella cosa, potremmo riformulare la tesi precedente così: il mondo umano è per ciascun soggetto la sua società. Questa formulazione sembra disconoscere il ruolo della natura: una parte del mondo umano non è forse data dalla natura? In realtà, quella tesi è ben compatibile con l’afermazione dell’irriducibilità della natura alla cultura: il fatto è che la difesa dell’irriducibilità non va confusa con l’afermazione della separatezza e della semplice giustapposizione dei due ambiti. Il mondo naturale, infatti, opera e ha efetti sulla vita degli esseri umani non a prescindere dal modo in cui è culturalmente compreso2. 1 Riesposizione. Si immagini di avere innanzi una pluralità di cose disparate; lo sguardo che le riconosce come una pluralità, nel fare questo le sta raccogliendo in una certa unità; si tratta di un’unità debole, è l’unità di una pluralità quale che sia. Ora, se quelle cose sono dichiarate parti di una stessa società, allora sono raccolte in un’unità più forte: di esse viene afermato che sono unite in un modo più signiicativo di quello secondo cui sono uniti gli elementi di una pluralità quale che sia. Ebbene, la tesi in questione dice che se la cosa in questione è un esempio di agire umano, allora esso può essere appropriatamente compreso solo se è riconosciuto come parte di una totalità sociale, cioè se è rapportato a quello speciico tipo di unità che è l’unità di una società, della società di cui esso è parte. 2 Sul rapporto tra mondo naturale e società ci siamo sofermati nel capitolo V: si tratta in efetti di un rapporto che ha molti lati. Prescindendo per un momento dall’ulteriore complicazione che viene a questo discorso dal fatto che vi sono società che disconoscono la loro capacità di auto-istituzione e si rappresentano come parte dell’ordine naturale, possiamo perlomeno ricordare due osservazioni che sono state in precedenza sviluppate. La prima è che la natura è ciò che la società distingue da sé attraverso la categoria del non istituito: esistono dunque rappresentazioni, le quali appartengono in quanto tali alla società, che inquadrano e deiniscono la natura e l’ordine naturale; l’ordine naturale è esso stesso rappresentato nella cultura e per questo gli esseri umani, non solo lo subiscono, ma anche vi si rapportano e tentano di tenerne conto (ad esempio, per intervenire tecnicamente). La natura, tuttavia, non è solo il contenuto di alcune rappresentazioni, quelle che appunto riguardano il non istituito: la dimensione naturale è anche una delle dimensioni da cui sorgono le questioni che spiazzano la società. Detto altrimenti: la natura non si riduce alle condizioni non L’esperienza etica 485 Invece, il rischio della formulazione precedente non sta tanto nel presunto disconoscimento della natura, ma nel disconoscimento della pluralità di culture: il mondo umano complessivamente considerato, il mondo che gli esseri umani abitano, non è un’unica grande società, non ha l’unità di una società. Torniamo un istante su questo punto. Ho scritto: il mondo è per ciascun essere umano la sua società, giacché anche i suoi rapporti con la natura (dal lavorarla al contemplarla) e anche le sue credenze e le sue pratiche che riguardano la trascendenza (ad esempio le credenze e le pratiche di una certa religione), se anche non sono istituzioni sociali, sono mediate e ricevono una forma anche grazie alla società3. Ho scritto altresì: il mondo umano, complessivaistituite che la società tiene presenti nel suo operare istituente (ad esempio: la quantità di materie prime, le proprietà di queste materie); sotto questo proilo, sarebbe più esatto dire che la natura è interna alla società, piuttosto che il contrario, infatti, sebbene non istituita, è socialmente tenuta presente o in conto, è rappresentata. C’è però il secondo proilo prima accennato, quello che obbliga a ritornare, ripensandola, alla formula che pone la società all’interno della natura: questo proilo muove dal fatto che quella società che si autoistituisce tenendo conto delle condizioni naturali e dunque portandole al suo interno è, nel complesso, ancora esposta a contingenze che non controlla neppure a livello delle sue rappresentazioni; sono le contingenze che obbligano a estendere o trasformare l’ordine delle rappresentazioni, sono quelle i cui efetti fanno sentire di sfuggire agli inquadramenti e alle mediazioni simboliche a disposizione e dunque pongono la questione del rinnovamento e del potenziamento di questi inquadramenti e mediazioni. Queste contingenze le abbiamo chiamate: insorgenze di problemi. Alcuni di questi problemi sono questioni inaggirabili (come la morte), sempre mediate e mai risolte una volta per tutte da un qualche gruppo determinato di mediazioni – in questo caso la contingenza riguarda il riemergere della questione o l’emergere del non essere più soddisfacenti delle mediazioni ricevute – altre volte sono problemi locali e dunque doppiamente contingenti (è contingente che sorga il tal problema e che si faccia sentire ora e così). Ad ogni modo, una parte di queste insorgenze di problema possono essere ricondotte a qualcosa che merita il nome di natura. 3 Per afermare la salienza dell’unità sociale in merito alla comprensione del vivere umano, non è afatto necessario credere che la religione sia un’istituzione sociale e neppure assumere metodologicamente tale tesi. A riprova di ciò, proviamo ad assumere la tesi opposta: “Dio, che non è un’istituzione sociale, ispira attivamente il rapporto umano a sé, dunque neppure tale rapporto è un’istituzione sociale”. A questo punto, si potrebbe domandare se ogni dettaglio di questo concreto rapporto, che include credenze, atti linguistici, rituali e cerimonie, è responsabilità di Dio o se anche la storia sociale ha un qualche ruolo di determinazione: se la risposta è la seconda, allora la conigurazione concreta può essere compresa solo tenendo presente l’orizzonte sociale; ma ipotizziamo pure che la risposta sia la prima e che dunque si sostenga che in tutta la sua concreta conigurazione, il rapporto a Dio non è un’istitu- 486 Ripresa conclusiva mente considerato, non è una società. Formalmente, la compatibilità tra le due tesi è garantita dalle diferenti accezioni in cui ciascuna usa la parola “mondo”: un’accezione esperienzial-fenomenologica, nel primo caso, un’accezione oggettiva-oggettivistica, nel secondo; il mondo come l’orizzonte all’interno di cui vanno riportate, per divenire concretamente comprensibili, le condotte umane, anche quelle che riguardano l’al di là della società, e il mondo come la Terra in quanto è abitata da esseri umani o come lo spazio in generale in cui vivono tutti gli umani. Il problema è che queste due accezioni della parola “mondo” tendono oggi a sfumare l’una nell’altra: una pluralità di fenomeni, commerciali, politici, bellici, cultural-comunicativi, fanno sempre più sì che l’orizzonte interpretativo di ciascun essere umano vada a coincidere con il mondo umano complessivamente considerato. Detto altrimenti: la pluralità di società del mondo non è soggetta solo all’uniicazione implicita nello sguardo teorico che la pone, non è solo l’unità a posteriori che appartiene a una pluralità che uno sguardo raccoglie insieme per indicarla appunto come una pluralità. Piuttosto, fenomeni reali fanno aumentare i rapporti tra le varie società e tendono a rendere una mera astrazione la loro considerazione isolata: tendono a fare sì che non si comprenda più che cosa è una certa società viva se la si isola dai processi globalizzanti o mondializzanti. Accade così che si produca una nuova forma di unità, non solo teorica, che è superiore all’unità di una società: tale unità ha già dei nomi (uno dei primi è stato: villaggio globale), ma manca ancora un concetto zione sociale, ossia, che non vi è nulla di socialmente determinato, ebbene, neppure in questo caso si può saltare l’orizzonte sociale giacché è solo all’interno di esso che diventa comprensibile la relazione tra i tempi e i luoghi del rapporto a Dio e i tempi e i luoghi dedicati alle altre attività. Obiezione: e se l’intero sistema delle condotte e dunque l’intera conigurazione della forma di vita fosse rappresentata come ispirata nel dettaglio da Dio? In questo caso avremmo uno dei casi in cui una società non si rappresenta come autoistituita. Ora, questa posizione non è efettivamente compatibile con il discorso qui sviluppato, d’altronde, in una società di questo tipo non vi sarebbe spazio per le scienze sociali. Scopo di questa nota non era sostenere che qualunque società è compatibile con le scienze sociali e le verità che esse difendono (a modo loro, ovviamente, e questo modo non dà luogo a giustiicazioni incontrovertibili – d’altronde non è difesa da una giustiicazione sifatta neppure la regola che bisogna sospendere tutte le tesi non incontrovertibilmente giustiicate); scopo della nota era sostenere che non ogni società che faccia spazio alla religione è così incompatibile: vi sono società che senza dover disconoscere le loro credenze religiose, possono riconoscere le ragioni delle scienze sociali e, in primis, la tesi, che appartiene anche alla ilosoia delle cose umane, che riconosce una salienza particolare all’orizzonte sociale nella comprensione e interpretazione dell’agire e del vivere umani. L’esperienza etica 487 rigoroso e condiviso per pensarla; vi sono comunque varie ragioni per negare che tale concetto possa essere quello di società: qualunque cosa sia ciò che i fenomeni di globalizzazione stanno producendo, esso non è un’unica e grande società, né, per ora, qualcosa che distrugga ogni tipo di unità sociale rendendo obsoleta la nozione stessa di formazione sociale4. Semmai, questo tipo di processi reali impongono una revisione di alcune concezioni di che cosa è una società, ribadendo che una nozione adeguata di società deve saper rendere conto sia degli scambi tra una società e il suo esterno, sia del fatto che questo “esterno” non comprende solo la cosiddetta “natura” ed eventualmente la trascendenza, ma anche altre società o soggetti che provengono da altre società sia, inine, deve saper rendere conto del fatto che poiché la società sa, in vari modi e a vari gradi (che variano storicamente)5, di questo esterno, allora esso è sotto molti rispetti un interno o una complicazione interna dell’unità sociale6. Alcune determinazioni fondamentali su che cosa sia una formazione sociale e alcuni strumenti concettuali che sono necessari per svolgere questo compito di deinizione sono stati forniti nei capito4 Queste tesi, le ho argomentate nel saggio: R. Fanciullacci, Di fronte alla molteplicità culturale. Per una ricerca sulla natura della cultura, in C. Vigna – E. Bonan (a cura di), Multiculturalismo e interculturalità. L’etica in questione, Vita e Pensiero, Milano 2011, pp. 171-206. In questo testo ho anche esaminato anche alcuni dei concetti che sono stati introdotti per pensare la natura e gli efetti dei processi di globalizzazione. 5 Dato quanto detto nei capitoli precedenti, possiamo ora permetterci la formulazione abbreviata: “la società sa che…”, senza rischiare di incorrere in un’ipostatizzazione o addirittura di una personiicazione-soggettivazione della società. Dire che la società sa del suo esterno signiica che la distinzione tra istituito e non istituito è una distinzione che appartiene all’ordine della rappresentazione di quella società, ossia è una distinzione che informa delle pratiche di quella società e dunque contribuisce a fare sì che quella società abbia l’articolatezza (o conigurazione concreta) che ha. Detto ancora altrimenti: quella distinzione segna concettualmente o rappresentativamente una diferenza che fa diferenza nella vita che accade in quella società, una diferenza che è riconosciuta e il riconoscimento della quale non lascia indiferente l’agire. 6 Tra i molti rispetti in cui l’esterno è interno, spiccano quelli considerati nella nota 3: (a) quello per cui l’esterno è sì rappresentato e inquadrato come esterno, ma appunto lo è all’interno e (b) quello per cui è sì ciò da cui vengono gli spiazzamenti delle rappresentazioni e degli inquadramenti dati, ma è anche rappresentato in questo suo essere fonte di spiazzamenti; quest’ultima rappresentazione non è un inquadramento dell’esterno, altrimenti il secondo caso si ridurrebbe al primo, è invece la rappresentazione che la società produce del suo essere esposta, del suo essere attraversata da contingenze, del suo non essere un “Soggetto assoluto”. 488 Ripresa conclusiva li precedenti. Particolarmente importante è, ad esempio, il concetto di semiosfera, che non si pone come concetto sostitutivo di quello di società, ma appunto come concetto necessario per rendere intellegibili dei fenomeni sociali, tra i quali anche quelli legati alla cosiddetta globalizzazione. Che questi ultimi fenomeni debbano essere letti come semiotici, lo si può riconoscere facilmente: si pensi ad esempio ai fenomeni di trasformazione degli ordini che regolano la vita di una società, come l’ordine delle pratiche economiche, pratiche che devono divenire capaci di interpretare e rispondere a poteri e logiche extranazionali; oppure, si pensi ai cosiddetti fenomeni di creolizzazione, che inducono trasformazioni a livello del linguaggio verbale o dei vari linguaggi gestuali, come la prossemica o le maniere; oppure, ancora, si pensi alla trasformazione degli ideali, delle norme e dei valori su cui i membri di una società si orientano nella loro elaborazione semioticosimbolica dell’esperienza e nella progettazione dell’agire. Comunque sia, la necessità prima del concetto di semiosfera non è legata al compito di pensare i fenomeni connessi alla globalizzazione, ma a quello di rendere intellegibile quella dimensione di una società che è la sua cultura. In rapporto alla parola “cultura” è importante innanzitutto distinguere, più che due accezioni, due direttrici di interrogazione: la prima è quella che abbiamo ricavato dalla tradizione dell’antropologia culturale (in particolare da Tylor e Malinowski) e che attribuisce alla parola il signiicato più comprensivo, la seconda è quella che si può ricavare dalla tradizione sociologica e che attribuisce alla parola un signiicato più ristretto, adatto a pensare uno dei tratti speciici delle società moderne. La prima direttrice, l’abbiamo sviluppata ino a distillare un concetto di cultura tale per cui la cultura è il complesso delle forme semiotiche (che comprendono pure le rappresentazioni simboliche, le cosiddette “idee verbalizzate”) che regolano, ossia danno un ordine, alla vita e all’attività (azioni, interazioni, lavori ecc.) dei membri di un gruppo umano. Invece, il concetto di cultura che può essere deinito all’interno della seconda direttrice è introducibile speciicando il concetto più generale appena richiamato, così: alcune culture (nell’accezione comprensiva), in particolare quelle moderne o comunque altamente diferenziate, sono tali che il lavoro di elaborazione e tessitura delle forme e delle rappresentazioni che regolano la vita al loro interno, o perlomeno delle forme e delle rappresentazioni gerarchicamente più importanti (che condizionano quelle subordinate), è L’esperienza etica 489 un lavoro di cui tende ad incaricarsi una sfera speciica tra quelle che si sono diferenziate; tale sfera diferenziatasi e autonomizzatasi che si incarica della funzione di tessitura dell’ordine della rappresentazione è ciò che è chiamato “cultura” nell’accezione ristretta; “agenti culturali”, in questa accezione ristretta, sono coloro che partecipano speciicatamente alle pratiche che svolgono il lavoro indicato7. Come abbiamo cominciato a vedere nel capitolo IV, il processo storico-sociale che, distinguendola, produce la cultura nella “seconda accezione” (= produce il referente della seconda accezione di “cultura”), ha grandi virtualità, ma innesca anche una molteplicità di problemi, alcuni di immediato interesse per una ilosoia delle cose umane: su alcuni di questi problemi ci siamo sofermati nel capitolo VII. È anche per poter pensare questi problemi che abbiamo anteposto l’accezione comprensiva di cultura a quella più ristretta: attraverso questa mossa concettuale, non abbiamo diicoltà di principio a capire come sia possibile che, pure là dove si è autonomizzata la “cultura”, continuino a veriicarsi processi di tessitura di forme d’ordine anche nelle pratiche non strettamente “culturali”, oppure, che anche coloro che non sono, in senso stretto, “agenti culturali”, non sono solo “fruitori e utilizzatori, a diversi gradi, della cultura prodotta dagli agenti culturali”, ma sono essi pure degli agenti culturali, però, nel senso ampio e comprensivo. La cultura, anche se intesa nel senso più comprensivo e profondo – e per questo speculativamente prioritario rispetto all’altro – non coincide con la società: quest’ultima è piuttosto la vita umana efettiva ordinata e plasmata dalle forme che sono la cultura. Più esattamente, non è che la società sia una sorta di materiale vitale che si unisce alla 7 Ho appena richiamato la distinzione tra le società in cui la produzione delle forme e delle mediazioni che regolano la vita è presa in carico da una sfera diferenziatasi e autonomizzatasi (che prende il nome di “cultura” nell’accezione ristretta) e quelle in cui questo tipo di diferenziazione manca. Questa distinzione tra società è, in una certa misura, un idealtipo che tende a calzare adeguatamente solo per le società moderne vere e proprie, da un lato, e per le società arcaiche o società del mito, dall’altro. Tale distinzione idealtipica, comunque, non è così ingenua da disconoscere realtà sociali come la casta sacerdotale o la casta degli scribi: realtà come queste sembrano testimoniare che anche nelle società più antiche la produzione che oggi chiameremmo “culturale” era presa in carico solo da una parte diferenziata della società. D’altro canto e sul versante opposto, non abbiamo forse mostrato (cap. IV, § 3) come la diferenziazione sociale moderna induca un aumento del tasso di rilessione ed elaborazione simbolica in tutti i membri della società? 490 Ripresa conclusiva forma culturale per dare luogo alla realtà concreta che incontriamo nell’esperienza e a cui apparteniamo: la società è semmai proprio questa realtà concreta per esporre l’articolatezza della quale serve anche la nozione di cultura. Detto altrimenti e astrattamente, la cultura è un ingrediente della società e non è semplicemente l’ingrediente “forma” nel senso per cui non resta che un altro ingrediente, la materia per sé indeterminata e informe: se partissimo da questa astrazione della materia indeterminata, allora dovremmo dire che le forme culturali sono una parte delle forme che plasmano e determinano quella materia indeterminata, ma è più semplice e più appropriato non partire afatto da quell’astrazione e dire che le forme della cultura regolano l’esistenza e le interazioni degli esseri umani di un gruppo coinvolto in circostanze spazio-temporali più o meno comuni8. Una molteplicità di esseri che hanno la forma dell’essere umano e l’insieme variabile delle circostanze in cui si trovano sono gli altri ingredienti della società. L’unità in cui questi “ingredienti” sono presi, la vita sociale, è efettivamente qualcosa di più che la loro somma, l’efetto di un loro esteriore accostamento, tuttavia, non è tale da rendere la loro considerazione isolata una pura astrazione razionale: questa considerazione isolata, ad esempio, non dà luogo al tipo di separazione che accade quando si separa in assoluto l’istanza formale dall’istanza materiale in una realtà concreta quale che sia9. Per dar prova di quest’afermazione, non c’è che da tratteggiare una considerazione isolata dei tre ingredienti. (1) Le forme della cultura vivono sì in quanto efettivamente danno forma e plasmano l’operare di esseri umani, ma avrebbero potuto informare l’operare di altri esseri umani rispetto a quelli il cui operare efettivamente plasmano e potrebbero, almeno in parte, andare ad informare 8 I membri di una società che attraversa diverse generazioni non abitano tutti lo stesso tempo, sebbene vi siano rapporti signiicativi tra i tempi che ciascuna generazione abita. I membri di una società nomade o che compie un esodo non abitano lo stesso spazio, anche se vi sono rapporti signiicativi tra gli spazi che abitano. 9 Se l’intera istanza della forma stesse dalla parte della cultura, allora, compiuta l’astrazione intellettualistica che isola la forma, avremmo innanzi solo una materialità indeterminata, solo il generico supporto della forma: sarebbe dunque impossibile dire o pensare cose come il fatto che questo tal essere umano avrebbe potuto essere membro di un’altra società o cultura, sarebbe cioè impossibile afermare o anche solo ipotizzare la contingenza del nesso tra un essere umano e la cultura-società in cui di fatto è nato e cresciuto. (Sarebbe impossibile perché per potersi riferire a quell’essere umano, occorre che esso sia individuato da qualcosa e non sia solo un pezzo qualunque di materia indeterminata). L’esperienza etica 491 l’esistenza di un gruppo diverso (nel caso in cui questo raccogliesse l’eredità culturale del primo). (2) Un gruppo di esseri umani vivono sì all’interno di una data cultura, ma avrebbero potuto nascere e crescere in un’altra e, almeno in parte, potrebbero abbandonare la loro cultura di provenienza e entrare in un’altra; in generale, comunque e sotto le condizioni su cui ci siamo sofermati più volte, gli esseri umani che appartengono a una cultura possono aprire contese trasformative sulle forme della loro cultura e dunque con le forme della loro cultura. (3) E per quanto riguarda le circostanze non culturalmente istituite, è vero sia che esse potrebbero addirittura sussistere anche in assenza di esseri umani e cultura, sia che esse operano come circum-stantiae sull’operare umano solo in unità con le circostanze culturali e avvolte all’interno di rappresentazioni culturali. Il vivere, l’esistere di un gruppo di esseri umani, che è dunque un rispondere alle situazioni che le circostanze determinano, che si estrinseca e deinisce mettendo all’opera le mediazioni culturali e le risorse di mediazione ricevute, lo abbiamo chiamato anche: “Agire”. Ciò, non per suggerire che il vivere non sia altro che compiere azioni, ma per sottolineare che tutto ciò che appartiene al vivere umano trova adeguata comprensione se è deinita la sua relazione con l’agire; l’esperienza, ad esempio, che è anche esperienza emozionale e dunque passione, è esperienza di ciò cui l’agire risponde o manca di rispondere. Ora, il punto è che, se tanto un determinato agire, quanto l’articolazione dell’esperienza della situazione cui esso risponde o in cui si dispiega, sono elaborati grazie alle forme della cultura, allora è solo in quanto parte della vita sociale, cioè della vita che accade in quelle forme, che quel determinato agire diventa comprensibile. L a cultura di una società è dunque il complesso delle forme d’ordine della vita che accade in quella società, cioè è il complesso delle forme che plasmano e plasmando danno un ordine ai rapporti tra gli esseri umani e all’agire e al reagire di questi. Queste forme le abbiamo chiamate anche mediazioni giacché consentono di mediare le situazioni e le questioni che gli esseri umani hanno da afrontare pur senza esser nati già capaci di afrontarle, pur senza aver codiicato nel loro corredo naturale il modo secondo cui avere a che fare con tali situazioni e questioni. Le mediazioni culturali sono appunto dei modi di avere a che fare con queste situazioni e questioni; per ciascun essere umano, tali mediazioni sono innanzitutto qualcosa di ricevuto, 492 Ripresa conclusiva ma anche, in taluni casi e comunque subordinatamente, qualcosa di cui può riappropriarsi originalmente: il complesso delle mediazioni, infatti, include anche le risorse di mediazione (i linguaggi in cui le mediazioni efettive sono intessute e le competenze e gli habitus in virtù di cui sono intessute e usate), le quali possono essere impiegate anche per produrre mediazioni efettive (o testi) un poco diferenti e per aprire, là dove possibile, contese e contrattazioni sulle mediazioni ricevute. In quanto ha le caratteristiche appena richiamate, la cultura possiede uno statuto ontologico speciale: pur essendo, per certi aspetti, un prodotto umano, non sta sul piano dei prodotti di cui gli esseri umani dispongono a loro piacimento. La cultura cui appartiene ha, per ciascun singolo, anche la realtà dell’ambiente: è qualcosa che costui o costei può modiicare, ma dipendendone. A questa dipendenza dei soggetti dalla cultura corrisponde una certa indipendenza della cultura da ciò che un singolo o un gruppo di singoli può fare e realizzare immediatamente. Ebbene, questa indipendenza fa parte della realtà stessa della cultura, della sua natura: va nettamente distinta dalla fossilizzazione o sostanzializzazione o reiicazione cui una cultura può andare soggetta. Queste ultime condizioni possono riguardare una cultura non per ciò che essa è in quanto è una cultura, ma per come si è di fatto conigurata in un certo periodo storico (o anche per tutta la sua singolare esistenza, cioè per tutta l’esistenza che ha in quanto è quella cultura lì e non semplicemente una cultura). La diferenza tra l’indipendenza che è connaturale ad ogni cultura (e che è la sua “terzità” rispetto a coloro che interagiscono all’interno degli scenari da essa disegnati) e la fossilizzazione, che è la condizione contingente e patologica in cui può versare una cultura, può essere afferrata così: i membri di una cultura che non è fossilizzata si valgono sì liberamente di essa per elaborare e rispondere alla loro esperienza, ma non per questo arrivano a disporre della loro cultura come di qualcosa da cui non dipendono. Detto altrimenti: la cultura fossilizzata è una cultura che si ofre esteriormente ai suoi membri, ma l’al di là di questo ofrirsi esteriormente non è un ofrirsi senza alcuna indipendenza. Se vogliamo dire, come è legittimo e, per certi versi, intelligente fare, che chi non è soggetto a una cultura fossilizzata è qualcuno che si riconosce nella sua cultura, dobbiamo fare attenzione a non intendere questo “riconoscersi” come se signiicasse “rapportarsi alla propria cultura come a un proprio prodotto che si ha a disposizione”: un tale rapportarsi, lungi dall’essere il modo non patologico di avere a che L’esperienza etica 493 fare con l’indipendenza connaturale alla cultura, è a sua volta una forma patologica; in tale forma è proprio l’indipendenza a essere disconosciuta, mentre nelle forme connesse alla fossilizzazione è disconosciuta la partecipabilità alla cultura e la ricontrattabilità della cultura. Il rapporto non patologico è dunque quello in cui trova spazio sia il fatto che la cultura non è a disposizione (= ha una sua indipendenza o terzità), sia il fatto che gli esseri umani, attraverso vari modi, possono ricontrattarla, trasformarla, svilupparne la tessitura. (Della patologia connessa al disconoscimento della terzità della cultura non mi sono occupato, né mi occuperò in questo volume nel modo che sarebbe necessario: si tratta di una patologia oggi molto importante, che si traduce in una rappresentazione volontaristica del rapporto tra i soggetti e le forme che ordinano il loro interagire, la rappresentazione per cui tali forme possono essere create e sostituite solo volendolo ed eventualmente stipulando accordi e convenzioni. Ciò che rende patologici questi tentativi non è il fatto che disconoscono qualcosa come la “sacralità” delle forme tradizionali, quasi che quelle forme, solo perché ricevute, dovessero essere conservate10. Li rende patologici il fatto che sono destinati all’ineicacia: vi sono forme convenzionalmente istituite, ma non ogni forma ha questa natura, né può averla; anzi, le forme convenzionali hanno eicacia perché ve ne sono altre che operano senza essere convenzioni: queste altre forme sono ad esempio i vincoli normativi presupposti dalla messa in opera di una convezione o di un accordo contrattuale, ma sono anche le mediazioni che danno un posto alla trascendenza11. L’ineicacia dell’atteggia10 Ciò che è ricevuto non è, solo per questo, da conservare, tanto quanto non è, solo per questo, da distruggere: le ragioni per la conservazione o la distruzione vanno cercate altrove rispetto al suo essere ricevuto. Ciò vale in generale o in astratto, ma, di fatto, talvolta occorre distruggere il ricevuto in quanto è tale solo per rinnovare il rapporto al dato, mentre altre volte occorre conservare il ricevuto in quanto è tale solo per dare la forza della continuità al rinnovamento. 11 Ho citato due tipi di mediazioni o forme normative irriducibili all’accordo convenzionale: il primo tipo è dato dai nessi normativi (impegni e aspettative reciproche) che l’accordarsi e il dare luogo a convenzioni presuppongono, tra queste c’è la forma grazie a cui si sa contrarre e mantenere un impegno; su questo primo tipo la letteratura critica è ampia, un’eicace introduzione critica è ad esempio sviluppata da Michael Sandel nella sua critica dell’idea liberale di contratto sociale, cfr. M.J. Sandel, Il liberalismo e i limiti della giustizia (1982), trad. it. di S. D’Amico, Feltrinelli, Milano 1994. Sullo sfondo di “meta-norme” che rendono possibile e dunque non si riducono né alle regole convenzionalmente istituite, né al sorgere di quella 494 Ripresa conclusiva mento volontaristico o decisionistico – anche di quell’atteggiamento che vorrebbe che la decisione fosse il frutto di un dibattimento razionale – nei confronti delle forme culturali lascia tracce sottoforma di soferenza spirituale presso i soggetti: l’avvertimento dello spreco delle proprie energie, l’esperienza dell’insuicienza della mediazione inventata e che si è immaginato di rendere operativa con una decisione. Come accennato, di questa complessa classe di patologie e soferenze annesse, non mi occupo: il luogo appropriato per studiarla sarebbe forse un lavoro sulla natura dell’azione politica, che non è l’unica, ma è per eccellenza l’azione in cui la volontà trasformativa dei soggetti riesce a divenire eicace; lo studio delle variegate combinazioni di condizioni in cui tale eicacia può realizzarsi travalica i limiti del lavoro presente). sorta di regole prudenziali o strumentali che deiniscono i giochi dell’interazione in cui ciascuno mira alla massimizzazione della sua utilità, insiste pure (sottolineando anche il nesso tra queste norme di fondo e le mediazioni del secondo tipo che stiamo per considerare): A.B. Seligman, La scommessa della modernità. L’autorità, il Sé, la trascendenza (2000), trad. it. di M. Bortolini, Meltemi, Roma 2002. Il secondo tipo di mediazione non convenzionale è quella che impiega simboli che fanno riferimento alla dimensione trascendente e lo fa per dare un qualche posto a questa dimensione o a qualche suo lato: i rituali religiosi sono mediazioni di questo tipo, in essi i conini della vita storica sono trascesi attraverso la messa in opera di un punto di vista più ampio. La speciicità di queste mediazioni e la loro irriducibilità a convenzioni può essere compresa e riconosciuta anche da chi non aderisce ad alcuna religione, ma crede che null’altro vi sia oltre un insensato divenire di tutte le cose: tali speciicità e irriducibilità possono essere aferrate pensando che non può funzionare una mediazione che si presenta sia come prodotta dalla decisione umana (e tale è la convenzione), sia, però, anche come capace di dire qualcosa a proposito di ciò che è deinito come trascendente l’essere umano e le pretese della sua volontà. Proporsi la creazione di un simbolo religioso è proporsi un progetto autocontraddittorio e la cui autocontraddittorietà può e deve riconoscere anche chi pensa che la religione sia un inganno ideologico (costui penserà che i simboli religiosi sono stati inventati, ma non da quegli stessi che poi vi aderiscono nel modo richiesto dai simboli stessi). Un problema capitale che a questo punto si può formulare con chiarezza, ma che non tratterò è il seguente: vi sono nodi esperienziali (ad esempio la morte) che, se mai possono essere mediati in modo soddisfacente, lo possono solo da parte di mediazioni religiose? Se la risposta dovesse risultare positiva, allora, l’atteggiamento che cerca di produrre mediazioni convenzionali, se applicato a questi nodi, non potrebbe che dare come esito soluzioni fallimentari, cioè soluzioni troppo dispendiose a livello delle soferenze spirituali che lasciano dietro di sé. Tra le più profonde trattazioni di ciò che ho qui chiamato le “mediazioni religiose” o “mediazioni che danno un posto alla trascendenza”, spicca: E. Voegelin, Order and History, 5 voll., Louisiana University Press, Baton Rouge 1956-1987. L’esperienza etica 495 Quando una cultura è fossilizzata, c’è qualcosa che non va nella vita dei suoi membri. Quest’ultima asserzione non esprime una scoperta, ma realizza l’esplicitazione di una conseguenza implicita nei concetti adoperati: dire di una certa cultura che è fossilizzata signiica, stanti i signiicati introdotti nel presente lavoro, sostenere che presso i membri di quella cultura sono state riscontrate delle esperienze di soferenza spirituale la cui causa è quella conigurazione culturale che non forma soggetti che si valgono liberamente delle mediazioni culturali tramandate. Nell’ampia classe delle soferenze spirituali, abbiamo chiamato disagi esistenziali quelle che sono attorcigliate alla questione del senso, in particolare alla diicoltà di situare in una cornice di senso una qualche esperienza da cui si è attraversati. Chi sofre di un tale disagio è soggetto a un disorientamento di fronte alla propria vita o a una sua parte (ad esempio il rapporto con qualcuno o con qualche problematica), per cui non ci si sa riconoscere in essa, né dunque si riesce a trattarla. La fossilizzazione che causa tali disagi esistenziali non è interpretabile come una circostanza esterna che blocca l’accesso dei soggetti a un patrimonio culturale che per sé è ricco e adeguato: la fossilizzazione è essa stessa un fenomeno socio-culturale, è un tratto della conigurazione storica della cultura in questione. Naturalmente, diverse sono le possibili posizioni che il soggetto può prendere rispetto alle diicoltà con la questione del senso appena nominate e, a seconda della posizione presa, le tracce di disagio si manifesteranno diversamente. Abbiamo chiamato alienazione esistenziale la posizione in cui il soggetto subisce l’estraneità della sua cultura: si identiica con tale cultura, ma è colpito alle spalle dagli efetti della sua inadeguatezza, ad esempio trovando pezzi della sua esperienza non mediati, non rielaborati o rielaborati in maniera sforzata e instabile. Dimensioni della propria vita sono colate in stampini troppo poveri che, se anche funzionano contestualmente, diicilmente possono dare luogo a narrazioni più ampie e comprensive, che sappiano cioè dare un senso anche alle altre dimensioni della vita: ad esempio, le mediazioni centrate sull’immaginario del management e dell’autopromozione, posto che riescano a dare un ordine all’attività lavorativa, si oppongono a (= non si amalgamano con) altre mediazioni centrate su altre immagini e ideali, usate per contesti diferenti – da qui il tentativo di estendere le mediazioni del management anche alle altre dimensioni, 496 Ripresa conclusiva con l’efetto di alimentare un rapporto alla propria intera vita come a un prodotto da gestire e valorizzare nel mercato delle relazioni12. Sulla base di una formale combinazione delle possibilità, accanto al caso dell’alienazione esistenziale si dovrebbe porre il caso in cui il soggetto si identiica con le mediazioni ricevute, cerca di farsele bastare, e vi riesce, ossia, non è sorpreso da alcun contraccolpo sottoforma di soferenza spirituale, bensì gode di un’illimitata egosintonia. Se questa possibilità, formalmente concepibile, fosse davvero una possibilità aperta nel mondo umano che conosciamo, allora dovremmo complicare un poco il nostro discorso sul rapporto tra l’esperienza e la ilosoia delle cose umane: presso coloro che si trovassero nella condizione appena descritta, infatti, non sorgerebbe quella domanda che la ilosoia delle cose umane può raccogliere per trovare una via attraverso cui dar corso alla sua originale intenzione pratica. Ma, come abbiamo accennato (cap. VII, § 3.5), ci sono ragioni per sospettare dell’efettiva riscontrabilità empirica di una così perfetta egosintonia. Si noti però questa importante variante del caso dell’identiicazione egosintonica con la cultura ricevuta: non è che sia assente qualunque traccia di soferenza, tuttavia, questa stessa soferenza è inquadrata attraverso mediazioni già a disposizione e adottate con piena identiicazione – e, in questo senso, è devitalizzato il potenziale di negazione dello stato di cose presente, che una soferenza può portare in sé. Su questa variante si soferma, ad esempio, Slavoj Žižek quando sottolinea il carattere ideologico dei discorsi circolanti e standardizzati sulla “ricchezza della propria vita interiore” che viene esteriormente opposta a ciò che il sistema dei ruoli e la divisione del lavoro impone di fare: questa opposizione non è più la negazione esistenziale, interiormente vissuta, dell’esteriorità di quel sistema alienante e disumanizzante, anche se si presenta così e dunque si riallaccia alla storia di questa negazione, ma è divenuta parte del modo, apparecchiato da quel sistema, per partecipare ad esso. Invece di chiedere l’identiica12 Una ricostruzione della genesi di questo modo, socialmente costituito, di disporsi nei confronti della propria vita è oferta da Michel Foucault nei suoi studi sulla genesi del liberalismo: cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979) (2004), trad. it. di M. Bertani – V. Zini, Feltrinelli, Milano 2005. In esplicito riferimento al mondo contemporaneo, sono molto interessanti: M. Lazzarato, La Fabrique de l’homme endetté. Essai sur la condition néolibérale, Éditions Amsterdam, Paris 2011; A. Ogien, L’esprit gestionnaire. Une analyse de l´air du temps, Éditions de l’École des hautes études en sciences sociales, Paris 1995. L’esperienza etica 497 zione al ruolo, cioè di ofrire solo l’identiicazione come mediazione attraverso cui dare senso al proprio fare ciò che il ruolo impone, la cultura oggi dominante ofre (anche) un’altra mediazione, che stereotipizza quella che fu una negazione del ruolo e la rende funzionale ad esso. Di questo tipo è, ad esempio, la mediazione che fa ricorso all’immaginario buddista: «il “buddismo occidentale” è un feticcio di questo genere: permette di partecipare pienamente al frenetico gioco capitalista, alimentando al tempo stesso la percezione che non se ne faccia parte, che si sia ben consapevoli di come tutto lo spettacolo sia privo di senso, dal momento che ciò che realmente conta è la pace del sé interiore in cui ci si può sempre ritirare»13. La variante di identiicazione egosintonica appena accennata è come una messa in scena, non compiuta intenzionalmente dai soggetti, di quell’altra posizione soggettiva nei confronti dell’estraneità culturale che abbiamo esaminato in questo capitolo, la postura di estraniamento, che è caratterizzata dal disinvestimento nei confronti della cultura. Qui ci si identiica, dolorosamente, con ciò che sfugge, scarta o fa resto, mentre la cultura è liquidata come ciò che è altro da sé. Questa posizione in cui ci si identiica con lo scarto segnala la propria irriducibilità alle mediazioni ricevute, ma è sempre a rischio di cadere vittima della seguente illusione: l’illusione di poter aferrare quell’irriducibilità al di là di ogni mediazione, cioè immediatamente. Si tratta di un’illusione perché non è possibile un simile “rinvenimento del sé autentico”: la propria irriducibilità non è un luogo in cui ci si possa insediare (non è la casa in cui si possa tornare), ma è un potenziale da mettere all’opera. E l’opera in cui può essere investito quel potenziale è la luidiicazione di quanto si è fossilizzato, è la mediazione trasformativa, è la “riappropriazione” e la ricontrattazione della cultura divenuta esterio13 S. Žižek, Dalla tragedia alla farsa. Ideologia della crisi e superamento del capitalismo (2009), trad. it. di C. Arruzza, Ponte alle Grazie, Milano 2010, pp. 86-87. Cfr. anche, ibi, pp. 53-59. Già Debord sottolineava il fatto che «la beata accettazione di ciò che esiste può altresì accompagnarsi come un’unica cosa alla rivolta puramente spettacolare»: questo divenir “spettacolare” (cioè parte dell’accettazione) da parte della rivolta è per Debord il divenire merce della stessa «insoddisfazione». Insomma, l’insoddisfazione e dunque anche le soferenze e i disagi ricevono inquadramenti simbolici che immunizzano il loro potenziale critico. Cfr. G. Debord, La società dello spettacolo, Commentari sulla società dello spettacolo (1967, 1988), trad. it. di P. Salvadori – F. Vasarri, Baldini & Castoldi, Milano 1997, p. 79. 498 Ripresa conclusiva re. Tale cultura produce efetti di soferenza e disagio sui vissuti soggettivi perché questi sono animati da un desiderio che torna sempre a far vibrare alcuni ideali che rendono impossibile agli esseri umani di trovare soddisfacenti risposte dimezzate ed esteriori. Le esperienze di strettura sono le esperienze in cui ci si sente sofocati dall’incapacità di mediare tra quegli ideali, come la libertà e la giustizia, e la situazione in cui ci si trova, ingombrata da mediazioni ineicaci. La questione del senso è appunto l’interrogazione su come operare questa mediazione simbolica e pratica – non è afatto semplicemente la domanda di una narrazione rassicurante che, rivolgendosi alle cose come sono, ne faccia una rappresentazione in cui tutto è già composto e riconciliato. Come gli ideali evocati non smettano di animare il desiderio umano, inscrivendosi nella conigurazione culturale di qualunque formazione sociale, non lo abbiamo ancora mostrato. Tuttavia, sulla base di quanto è ino ad ora stato introdotto, siamo già in grado di intuire come a questa articolazione critico-trasformativa delle mediazioni ricevute anche la ilosoia delle cose umane possa dare il suo contributo. La ilosoia pratica, intesa come ilosoia delle cose umane, può intervenire lucidamente su questa ricerca di una comprensione della propria esperienza, che accomuna gli esseri umani: può intervenire per fare sì che questa ricerca non si misuri soltanto su delle immagini del bene, della giustizia o della libertà. E operando così, questa ilosoia risponde al suo desiderio di non essere solo una teoria dell’agire, infatti, la ricerca di comprensione a cui porta soccorso è anche ricerca di un agire che, indirizzandosi verso quegli ideali, cominci già ad essere una loro pratica. Indice 7 Prefazione. L’esperienza etica 21 Introduzione. La ilosoia pratica Parte Prima Il ‘primo per noi’ della ilosoia pratica è l’esperienza delle cose umane 43 Capitolo Primo Il problema del cominciamento della ilosoia pratica 1. La ilosoia morale come ilosoia delle cose umane, 43 1.1. h( peri\ ta\ a)nJrw/pina filosofi/a, 43 1.2. Il proemio dell’Etica Nicomachea come luogo di orientamento per la presente ricerca, 52 2. L’inquietudine per il cominciamento e la sua tradizione cartesiana, 65 2.1. Il sorgere dell’inquietudine, 65 2.2. La soluzione cartesiana: la diidenza metodica come messa in forma dell’inquietudine, 70 2.3. Come spezzare il fascino del metodo del distacco, 74 2.4. Addenda sul groviglio tra diferenza sessuale e metodo del distacco, 78 93 Capitolo Secondo La ilosoia delle cose umane al di là della questione del cominciamento 1. Come la ilosoia pratica di Aristotele abita l’orizzonte dell’esperienza umana, 93 1.1. Il procedere diaporetico di Aristotele, 93 2.2. Una sosta sul gesto aristotelico del “recupero”, 99 2.3. Sul cominciamento inevitabile: il primo per noi e gli endoxa, 101 2.4. Tra diaporetica e dialettica: la questione della verità e l’orizzonte dell’esperienza, 121 2.5. Molteplici forme di ragione di fronte all’unica questione della verità dell’esperienza, 138 535 536 Indice 2.6. Apaideusìa e inezza epistemologica, 151 2.7. Il potere orientante delle aporie e dei nodi dell’esperienza, 156 2. Al di là del problema del cominciamento: rispondere a ciò da cui si è investiti , 161 2.1. L’implicazione della soggettività nell’inserzione del nuovo, incancellabile dal cominciare, 161 2.2. Ciò che costringe a pensare e lo spazio per la responsabilità, 165 183 Capitolo Terzo Scetticismo, estraniazione e riconoscimento. Riscoprire l’ordinario con Stanley Cavell 1. Che cosa ci porta a dimenticare quello che è primo per noi e come possiamo tornare a ricordarcene?, 183 2. Lo scetticismo (secondo Cavell) e l’insuicienza del contrapporvi le certezze comuni, 192 2.1. Lo scetticismo come estraniazione, 192 2.2. Insuicienza della contrapposizione delle certezze comuni ai dubbi scettici, 194 2.3. Dalla domanda dello scettico alla risposta scettica, 197 3. L’esperienza di estraniazione, la dispendiosa gestione scettica, il mondo umano, 201 3.1. Ciò che precede e conduce alla domanda scettica, 201 3.2. L’ esperienza di estraniazione: esser separati dalla forma di vita, 204 3.3. Lo scetticismo sugli altri, l’esperienza che lo fonda, l’etica, 209 3.4. Il mondo umano, 219 4. Storicità e naturalità dell’inquietudine scettica, 224 5. La parabola scettica di fronte all’etica, 232 5.1. La terapia antiscettica come gesto etico, 232 5.2. Verso una pratica del coinvolgimento riconoscente: forme di terapia antiscettica, 237 5.3. Limiti della portata etica del buon governo dell’inquietudine scettica, 244 5.4. Tra distanziamento e riscoperta del primo per noi: il signiicato dello scetticismo per l’etica, 248 253 Capitolo Quarto Il coinvolgimento della rilessione nell’esperienza 1. Prossimità e distanza del primo per noi, 253 2. L’intreccio tra rilessione ed esperienza nelle società moderne, 258 2.1. La rilessione come clima di fondo della vita moderna, 258 2.2. Durkheim su modernità, diferenziazione e rilessione, 263 L’esperienza etica 537 3. Gli efetti sulla vita della diferenziazione sociale e dell’aumento del tasso di rilessione, 268 3.1. Gli efetti sulla vita del singolo e gli efetti sulla vita sociale, 270 3.2. L’aumento del tasso di rilessione e la crisi motivazionale, 274 4. La diferenziazione delle pratiche culturali e la loro possibile deriva autoreferenziale, 282 4.1. Pratiche di produzione simbolica e autoelaborazione esperienziale, 284 4.2. Disorientamento esistenziale e cultura autoreferenziale, 289 5. Ricapitolazione e impostazione del discorso successivo, 295 Parte Seconda La dimora delle cose umane 305 Capitolo Quinto La cultura come momento e come ambiente del fare esperienza e dell’agire 1. Annotazioni preliminari su cultura, natura, società e mondo umano, 305 1.1. Cultura e società nell’alveo del mondo umano, 305 1.2. Su natura e cultura: come intendere gli universali antropologici, 309 2. Ciò che si ofre all’interno della cultura senza essere propriamente culturale, 318 2.1. Il signiicato preliminare e comprensivo di ‘cultura’ elaborato da Malinowski, 318 2.2. Ciò che trascende la cultura e i ‘problemi concreti’, 319 2.3. Digressione su due tipi di trascendenza di un problema, 321 2.4. L’esperienza della trascendenza del problema e la trascendenza dell’esperienza rispetto alla cultura, 323 3. La cultura non come apparato dell’uomo, ma come ambiente degli esseri umani, 327 3.1. Il riassestamento nella concezione della cultura che consegue alla messa al centro della nozione di esperienza del problema, 327 3.2. Un chiarimento della nozione di problema, 328 3.3. Sulla luidità del desiderio, cioè sulla possibilità di interrogare e rielaborare il proprio desiderio, 331 3.4. Il sentire e la cultura, 334 4. Il ruolo della cultura nell’accesso umano al mondo. Chiarimenti epistemologici, 337 538 Indice 4.1. La cultura come condizione della nostra accessibilità all’articolatezza del mondo, 337 4.2. Contro le interpretazioni dualistiche e idealistiche del ruolo della cultura nell’accesso umano al mondo, 338 4.3. L’orizzonte dell’intellegibile e quello del culturalmente rappresentato, 346 5. La cultura come momento del fare esperienza e dell’agire, 349 5.1. Agire è rispondere ad una situazione sulla base del modo in cui la si è compresa, 349 5.2. Ancora sulla mediazione anonima dell’esperienza, 354 5.3. La cultura non è sic et simpliciter prodotto dell’agire, 355 359 Capitolo Sesto Il mondo umano come semiosfera 1. Leggere una situazione per potervi rispondere, 359 1.1. Ripresa ordinata delle tesi, 359 1.2. Diferenza dall’impostazione dell’interazionismo simbolico, 363 1.3. Alcune osservazioni sui modi del mutamento socio-culturale, 365 1.4. Sull’uso del concetto di informazione: leggere una situazione, 370 2. La situazione come testo e la distinzione tra articolatezza e articolazione, 375 2.1. L’articolatezza della situazione come sua testualità, 375 2.2. I signiicati naturali e la diferenza tra leggibilità e razionalità, 378 2.3. Articolatezza sociale e articolazione culturale, 382 3. La semiosfera e la sua stratiicazione e molteplicità interna, 389 3.1. La cultura come “semiosfera” (J. Lotman) e la sua unitarietà, 389 3.2. La molteplicità interna della semiosfera, 394 3.3. Le forme culturali pratico-percettive ed emozionali, 396 3.4. I beni di consumo e gli strumenti di produzione come prodotti culturali, 402 4. Le risorse simboliche della cultura e le possibilità che aprono, 405 4.1. Le risorse simboliche nello spazio delle risorse semiotiche, 405 4.2. Il carattere distintivo delle risorse simbolico-linguistiche rispetto alle altre risorse culturali, 410 4.3. La ri-articolazione simbolica e il suo valore: l’idea di Pasolini, 413 L’esperienza etica 539 419 Capitolo Settimo Il divenir esteriore della cultura e i suoi efetti sull’esperienza 1. Soferenze soggettive e patologie socio-culturali, 419 2. Esser semplici consumatori delle mediazioni culturali ricevute, 428 2.1. Attribuzione e sottrazione della possibilità di essere creativi, 428 2.2. Dalle soferenze spirituali alla loro diagnosi, 436 3. Il fossilizzarsi della cultura, 439 3.1. Impostazione, 439 3.2. Esperienze di esteriorità della cultura, 441 3.3. La fossilizzazione della cultura: sua apparenza reale e sua realtà in apparente, 444 3.4. Due modi di vivere la soferenza per la fossilizzazione della cultura: estraniarsi ed essere alienati, 447 3.5. La nozione di alienazione esistenziale tra gli strumenti teorici di una ilosoia delle cose umane. Un chiarimento, 453 3.6. Ripresa conclusiva. Con Dubufet sulla cultura asissiante, 458 4. Limiti del processo di acculturazione come processo di riappropriazione della cultura, 466 4.1. Sul processo socio-culturale di acculturazione, 466 4.2. La coltivazione della propria cultura come riappropriazione della cultura esteriore. La posizione di Hegel, 468 4.3. Dell’esteriorità che neppure l’autorilessione moderna riesce a governare, 473 4.4. Lo spazio della contingenza come luogo aperto alla ilosoia delle cose umane, 479 483 Ripresa conclusiva 499 Bibliografia 527 Indice dei nomi