PIERGIORGIO DONATELLI
L’etica, l’immaginazione e il concetto
di natura umana
1. L’immaginazione e il pensiero morale
Una tradizione all’interno dell’etica analitica ha sottolineato che le risorse del pensiero morale sono varie e
disomogenee e che non dovremmo tentare di unificarle
sotto un’immagine unitaria della natura del linguaggio
e delle ragioni in etica. Bernard Williams, la cui lunga biografia intellettuale può essere letta anche in questa luce, è tornato sul tema in uno degli ultimi scritti e
ha sostenuto che possiamo sperare di rendere conto del
nostro pensiero morale «soltanto se abbandoniamo, insieme ad altre ambizioni della teoria etica, il tentativo di
trovare un insieme di idee che rappresentino le richieste
dell’etica in tutte le sfere alle quali si applica l’esperienza etica»1. In particolare, ha criticato un modo caratteristico di eludere questa disomogeneità – quello di raffigurarsi il pensiero morale secondo un insieme di concetti «sottili», come «giusto», «dovere», «buono», capaci di
essere portati in contatto con qualsiasi circostanza della
vita e di chiamare in causa ragioni valide sempre e co1 B. Williams, Modernity and the Substance of Ethical Life, in Id., In
the Beginning Was the Deed, a cura di G. Hawthorn, Princeton, Princeton
University Press, 2005, pp. 40-51, trad. it. di C. Del Bò con il titolo La
modernità e la sostanza della vita etica, in Id., In principio era l’azione. Realismo e moralismo nella teoria politica, Milano, Feltrinelli, 2007, pp. 49-62,
qui p. 60. Per la critica alla nozione di teoria in etica cfr. inoltre B.. Williams, Ethics and the Limits of Philosophy, London, Fontana Press, 1985,
trad. it. di R. Rini con il titolo L’etica e i limiti della filosofia, Roma-Bari,
Laterza, 1987.
RIVISTA DI FILOSOFIA / vol. XCIX, n. 2, agosto 2008
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munque – di cui l’utilitarismo e il kantismo forniscono i
due principali esempi. Al contrario, per comprendere e
guidare le nostre attività intellettuali e morali, e
in particolare per cercare di comprendere noi stessi, abbiamo bisogno di
concetti e di spiegazioni che siano radicati nelle nostre pratiche più locali,
nella nostra cultura e nella nostra storia, e questi non possono essere sostituiti da concetti che potremmo condividere con ricercatori del mondo molto
diversi da noi2.
In questo articolo vogliamo mettere in primo piano
la prospettiva secondo cui i materiali dell’etica sono disomogenei, e un modo di raffigurarsi tale disomogeneità
è di riconoscere differenze nei concetti. Una linea particolare nell’etica analitica ha messo in primo piano una
tale prospettiva. Nei suoi scritti filosofici Iris Murdoch
ha elaborato questa idea. Inoltre, il lavoro di Cora Diamond ha reso più chiara e articolata la prospettiva e
l’ha messa in collegamento con la filosofia di Wittgenstein e con il suo invito costante a non generalizzare e
a mettere in luce le differenze3. Murdoch ha scritto che
i concetti con cui gli esseri umani vivono costituiscono
un dominio evanescente e mutevole: «penso che dovremmo resistere alla tentazione di unificare l’immagine
cercando di stabilire, guidati dalla nostra concezione di
ciò che è l’etica in generale, ciò che questi concetti devono essere»4. Vi è qui una vicinanza con la lezione di
Wittgenstein. Uno dei motivi principali che attraversano
la sua riflessione matura, e in particolare le Ricerche filo2 B. Williams, Philosophy as a Humanistic Discipline, in Id., Philosophy
as a Humanistic Discipline, a cura di A.W. Moore, Princeton, Princeton
University Press, 2006, pp. 180-99, qui pp. 186-87.
3 Cfr. C. Diamond, The Realistic Spirit. Wittgenstein, Philosophy, and
the Mind, Cambridge (MA), MIT Press, 1991; cfr. inoltre L’immaginazione
e la vita morale, a cura di P. Donatelli, Roma, Carocci, 2006.
4 I. Murdoch, Metaphysics and Ethics, in Id., Existentialists and Mystics. Writings on Philosophy and Literature, Allen Lane, Harmondsworth,
1998, pp. 59-75, trad. it. di E. Costantino, M. Fiorini e F. Elefante con
il titolo Etica e metafisica, in Id., Esistenzialisti e mistici. Scritti di filosofia
e letteratura, Milano, Il Saggiatore, 2006, pp. 88-102, qui p. 75 (qui ci si
discosta dalla traduzione italiana citata).
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sofiche, è che la comprensione della nostra vita concettuale è un compito che è condotto contro l’inclinazione
costante a falsificare quella stessa vita concettuale. Tendiamo a farci un’immagine impoverita del linguaggio e
assumiamo che essa possa funzionare come fondamento delle nostre pratiche linguistiche. L’idea dell’impoverimento del linguaggio e il tentativo di individuare un
fondamento nella teoria, cioè un meccanismo linguistico
che tenga in piedi tutti gli altri usi, si richiamano a vicenda. La teoria, infatti, semplifica i materiali della nostra comprensione e propone un meccanismo unitario,
diseducando l’attenzione e la sensibilità per la varietà e
le differenze. Lasciare dietro di noi un paesaggio ricco
di usi e di possibilità linguistiche e offrire un modello
unificato sono aspetti che nella diagnosi di Wittgenstein
si ritorcono contro di noi. Questa idea è espressa ad
esempio nella sezione 107 delle Ricerche filosofiche5.
Quanto più rigorosamente consideriamo il linguaggio effettivo, tanto più
forte diventa il conflitto tra esso e le nostre esigenze. (La purezza cristallina
della logica non mi si era affatto data come un risultato; era un’esigenza.)
Il conflitto diventa intollerabile; l’esigenza minaccia a questo punto di trasformarsi in qualcosa di vacuo. – Siamo finiti su una lastra di ghiaccio dove
manca l’attrito e perciò le condizioni sono in certo senso ideali, ma appunto
per questo non possiamo muoverci. Vogliamo camminare, dunque abbiamo
bisogno dell’attrito. Torniamo sul terreno scabro.
Abbiamo bisogno dell’attrito con il terreno scabro
per camminare. Perciò, Murdoch scrive che la filosofia
non dovrebbe essere meno varia delle differenze che
cerca di descrivere6.
Un elemento di riflessione importante è costituito
dalla natura di queste differenze e, quindi, dalla diso5
L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen. Philosophical Investigations, a cura di G.E.M. Anscombe e R. Rhees, Oxford, Blackwell, 1953,
3a ed. 1967, trad. it. di M. Trinchero con il titolo Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1983, § 107.
6 Cfr. I. Murdoch, Vision and Choice in Morality, in Id., Existentialists
and Mystics, cit., pp. 76-98, qui p. 97, trad. it. di E. Costantino, M. Fiorini
e F. Elefante con il titolo Visione e scelta in ambito morale, in Id., Esistenzialisti e mistici, cit., pp. 103-20, qui p. 120.
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mogeneità dello spazio dei concetti morali. Vi sono due
immagini dei concetti che, in maniere diverse, non rendono conto delle disomogeneità filosoficamente significative, suggerendo che non si dà nessun vero problema
nel modo in cui noi otteniamo le parole necessarie per
esprimerci. Una di queste immagini deriva dall’empirismo, l’altra dal kantismo. Cominciamo con la prima. Ha
scritto Diamond:
Stando alla concezione empirista, non possiamo fare a meno di avere
tutte le parole di cui abbiamo bisogno per la nostra esperienza – parole, cioè,
che siano adeguate per rappresentarla almeno a noi stessi, dal momento che
ogni qual volta che mancano le parole per un certo tipo di esperienza non c’è
alcuna difficoltà a coniarne di nuove. L’unico problema che potrebbe sorgere
risiederebbe a questo punto nella comunicazione con gli altri, e deriverebbe
dal nostro ignorare l’uso corrente di alcune parole7.
Questa idea deriva da una nozione di linguaggio comune secondo cui, come spiega tra l’altro Murdoch, i
significati sono semplicemente a disposizione di qualsiasi
osservatore per essere indagati. Non si ritrova nessuna
difficoltà nel nostro uso delle parole e nella possibilità
di esprimerci. Il linguaggio è essenzialmente uno strumento congegnato per uno scopo e non ci sono difficoltà nell’ottenere i mezzi appropriati per realizzare i
propri scopi espressivi8; qualora sia necessario possiamo
sempre inventare nuove espressioni o riformare il lin7 C. Diamond, Losing Your Concepts, «Ethics», LXXXVIII, 1988, pp.
255-77, trad. it. di M. Falomi con il titolo Perdere i propri concetti, in L’immaginazione e la vita morale, cit., pp. 59-86, qui p. 77. Per lo stesso punto si veda inoltre I. Murdoch, The Idea of Perfection, in Id., The Sovereignty of Good, London, Routledge, 1970, pp. 1-45, qui p. 29, trad. it. di
E. Costantino, M. Fiorini e F. Elefante con il titolo L’idea di perfezione,
in Id., Esistenzialisti e mistici, cit., pp. 301-35, alle pp. 322-23; S. Cavell,
The Claim of Reason, Oxford-New York, Oxford University Press, 1979,
pp. 173-74, trad. it. parziale di B. Agnese con il titolo La riscoperta dell’ordinario, Roma, Carocci, 2001, p. 234.
8 Sulla contrapposizione tra questa concezione strumentale del linguaggio e una concezione del linguaggio come espressivo della forma di vita
umana, cfr. C. Taylor, Language and Human Nature, in Id., Human Agency and Language. Philosophical Papers 1, Cambridge, Cambridge University
Press, 1985, pp. 215-47.
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guaggio secondo i nostri scopi per ottenere la precisione ricercata. Murdoch scrive che questo atteggiamento
nei confronti del linguaggio non può che essere in parte
«nemico delle parole»9. Questo perché il linguaggio contempla una varietà di usi che sono connessi a visioni e a
modi di vita che dobbiamo conquistarci almeno immaginativamente per essere in grado di entrarvi dentro, per
farli nostri e riuscire a dire dall’interno che una serie
di cose si tengono assieme concettualmente. L’idea che
abbiamo tutte le parole che ci servono per esprimere la
nostra esperienza nasconde il fatto che le parole possono portare con sé particolari visioni, e cioè modi di
raggruppare le cose, atteggiamenti, reazioni, possibilità
di risposta e di condotta. La possibilità di essere interni
a ciascuna di queste dimensioni concettuali richiede una
condivisone di quella vita o una comprensione immaginativa di ciò che significa vivere in quel tipo di mondo.
Si osservi che John Stuart Mill, all’interno della tradizione empirista, era consapevole di questi problemi.
Nel Sistema di logica, mette in luce i meriti di una concezione strumentale e revisionista del linguaggio, tipica
della tradizione empirista e illuminista-sensista. Tale concezione è funzionale alla possibilità di piegare una materia così confusa e imprecisa come il linguaggio ordinario a compiti precisi come quelli di cui si incaricano
le scienze. Tuttavia, una tale concezione del linguaggio è
inadatta a trattare le questioni morali, nelle quali invece
dobbiamo essere in grado di rispettare la profondità del
linguaggio comune. Con Coleridge Mill sostiene che la
«lingua è la depositaria del corpo di esperienze, alla cui
accumulazione hanno dato il loro contributo tutte le età
precedenti, e che costituisce il retaggio di tutte le epoche ancora a venire»10. Nel linguaggio si sono depositate
9 I. Murdoch, The Sublime and the Beautiful Revisited, in Id., Existentialists and Mystics, cit., pp. 261-86, alla p. 267, trad. it. di E. Costantino,
M. Fiorini e F. Elefante con il titolo Il sublime e il bello rivisitati, in Id.,
Esistenzialisti e mistici, cit., pp. 267-89, qui p. 273.
10 J.S. Mill, System of Logic: Ratiocinative and Inductive, a cura di J.M.
Robson, Toronto-London, University of Toronto Press-Routledge, 1973,
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le esperienze del passato e la possibilità di condividere
almeno immaginativamente tali esperienze richiede che
facciamo nostri gli usi linguistici a cui esse hanno dato
forma. Perciò l’immagine del linguaggio come un mero
strumento per degli scopi, anziché come uno spazio vivo
di cui appropriarsi facendolo proprio, corrisponde a una
concezione impoverita della vita umana. La difesa che
Mill fa di un miglioramento individuale ha bisogno, tra
gli altri elementi, anche di una più ricca nozione del linguaggio e della vita concettuale11.
L’altra concezione, secondo la quale non si dà nessun
vero problema rispetto alle parole di cui ci serviamo, è
quella kantiana. Murdoch scrive che nella concezione
kantiana gli esseri morali vivono tutti nello stesso mondo, nessuno è messo mai a confronto con qualcuno veramente diverso o con idee che potrebbe non comprendere12. Certo, per Kant il linguaggio non è un veicolo
neutro ma presuppone possibilità concettuali, nel senso
che il modo in cui parliamo delle azioni presuppone che
esse appartengano al regno dell’intelligibilità. Tuttavia,
l’immagine kantiana dello spazio concettuale non ammette disomogeneità, non ci sono al suo interno confronti
e distanze reali; nei concetti umani non si depositano le
esperienze del passato, non è lasciata traccia di questa
contingenza. Perciò, nell’immagine kantiana, la ragione
priva l’immagine dello spazio concettuale di un qualsiasi
ruolo effettivo. Murdoch è particolarmente critica contro questa immagine, perché la vede collegata con l’idea
che la deliberazione sia ricondotta ai soli movimenti di
questo meccanismo puro (la volontà, la ragione pratica)
VIII, p. 685, trad. it. di M. Trinchero con il titolo Sistema di logica deduttiva e induttiva, Torino, UTET, 1996, p. 911.
11 Cfr. su questo P. Donatelli, John Stuart Mill e la cultura del sé, «Iride», XIX, 2006, pp. 319-30; Introduzione a Mill, Roma-Bari, Laterza, 2007.
12 I. Murdoch, Vision and Choice in Morality, cit., p. 82, trad. it. cit.,
p. 109; Against Dryness, in Id., Existentialists and Mystics, cit., pp. 287-95,
qui p. 288, trad. it. di E. Costantino, M. Fiorini e F. Elefante con il titolo
Contro l’aridità, in Id., Esistenzialisti e mistici, cit., pp. 290-97, qui p. 291.
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che agisce nel vuoto13. È la superficie senza attrito che
era anche nell’immagine di Wittgenstein14. Nell’immagine kantiana non possiamo rappresentarci differenze concettuali che non siano quelle che risultano dalla mancata applicazione dei poteri della ragione, cioè dei poteri
che condividiamo tutti allo stesso modo in quanto esseri morali; mentre Murdoch è interessata proprio alle
differenze che ci allontanano gli uni dagli altri e che ci
rendono esseri umani e morali proprio perché possiamo
essere così lontani. Murdoch sostiene che a renderci esseri umani e morali è «la storia, gli esseri reali e il reale
cambiamento, qualunque cosa risulti contingente, privo
di ordine e di limiti, infinitamente particolare e sempre
ancora da spiegare», mentre nell’immagine kantiana a
essere ricercato è l’ordine necessario e perfetto15.
Murdoch sostiene, quindi, che l’immagine dello spazio concettuale deve considerare che vi sono visioni
concettuali distinte, ossia che i concetti non sono semplicemente a disposizione della nostra comprensione, in
virtù delle nostre capacità di osservazione e di calcolo o
in virtù della nostra condizione trascendentale di esseri
razionali. Non essere semplicemente a disposizione significa che i concetti sono espressione di materiali diversi
da quelli presi in esame dall’empirismo e dal kantismo.
Sono espressione innanzitutto del materiale della storia:
del fatto che un concetto vive in un contesto costituito da esseri umani che condividono pratiche, attività e
atteggiamenti, del fatto che quel contesto ha un presente e una storia; inoltre del fatto che quei concetti sono
espressione del materiale costituito dall’interiorità di
ognuno, dalla vita personale. Come scrive Murdoch:
13
I. Murdoch, On «God» and «Good», in Id., The Sovereignty of
Good, cit., pp. 46-76, alla p. 55, trad. it. di E. Costantino, M. Fiorini e F.
Elefante con il titolo Sul «Dio» e il «bene», Id., Esistenzialisti e mistici, pp.
336-59, qui p. 343.
14 Per questo confronto si veda P. Donatelli, La filosofia morale, RomaBari, Laterza, 2001, pp. 70-80.
15 I. Murdoch, The Sublime and the Beautiful Revisited, cit., p. 274,
trad. it. cit., p. 278.
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Piergiorgio Donatelli
Non si può dire semplicemente che, grazie alla razionalità e alla conoscenza del linguaggio ordinario «conosciamo» il significato di tutte le parole
morali necessarie. È possibile che dobbiamo imparare tale significato; e poiché
siamo individui umani storici il movimento della comprensione è rivolto in
avanti verso una sfera sempre più privata, nella direzione del limite ideale, e
non indietro, verso una genesi nelle regole di un linguaggio pubblico impersonale16.
Murdoch scrive che nell’usare un concetto e nel riflettere su di esso, ad esempio se ciò che una persona
prova è veramente pentimento, essa trae certamente la
sua riflessione dal concetto pubblico di pentimento,
dal fatto che si dà qualcosa come il pentimento e che
la vita di questo concetto si sedimenta in tutto ciò con
cui accompagnamo il pentimento: le parole, gli atteggiamenti, quel che troviamo appropriato, significativo o superficiale. Ma se questa persona si muove in questi usi,
allora ha fatto proprio il concetto di pentimento, e se il
pentimento è un concetto che ha un posto nella sua vita
ed è in grado di regolare la sua visione e la sua condotta allora essa lo ha approfondito dentro di sé, ne ha
fatto qualcosa di suo, nel senso che la comprensione dei
suoi pensieri e delle sue azioni richiederà di comprendere cosa significa per questa persona pentimento, significherà andare oltre il significato convenzionale di questa
parola17. Perciò la comprensione delle risorse concettuali che appartengono al linguaggio è sempre anche una
comprensione personale e immaginativa18.
L’idea che lo spazio del pensiero morale sia costituito dai concetti con cui viviamo, concetti che hanno
16
I. Murdoch, The Idea of Perfection, cit., p. 29, trad. it. cit., p. 323
(trad. modificata).
17
I. Murdoch, The Idea of Perfection, cit., pp. 25-26, trad. it. cit., p.
321.
18
I due aspetti – storico e personale – sono stati sottolineati anche
da B. Williams, What Might Philosophy Become?, in Id., Philosophy as a
Humanistic Discipline, cit., pp. 200-13, qui p. 212. Si osservi tuttavia la trasformazione del concetto di immaginazione che ha luogo in Williams da
Ragioni interne ed esterne (in Moral Luck, Cambridge, Cambridge University Press, 1981, pp. 101-13, trad. it. di R. Rini con il titolo Ragioni interne
ed esterne, in Id., Sorte morale, Milano, Il Saggiatore, 1987, pp. 133-47) a
questo scritto.
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una vita pubblica e personale, chiama in causa il ruolo
dell’immaginazione, concepita come la capacità di vedere e sentire cosa significa vivere in un mondo strutturato da certi concetti, in un mondo in cui consideriamo
normali certe cose, rispondiamo con certi atteggiamenti
e non altri, diamo importanza a determinati fatti. Ora,
vi è un senso secondo cui l’immaginazione è sempre
chiamata in causa nel pensiero morale. Se si considera
che il pensiero morale ha a che fare con la comprensione e l’immedesimazione in vite e circostanze che ci
sono in qualche misura estranee, è facile osservare che
esso sarebbe impoverito o forse reso del tutto sterile se
non fosse coadiuvato dall’immaginazione. Non a caso le
concezioni etiche che hanno messo al centro le capacità
sentimentali degli esseri umani – tra cui quella difesa da
David Hume e dalla linea sentimentalista19 – hanno insistito sull’importanza dell’immaginazione. Ma la nozione
di immaginazione che abbiamo chiamato in causa presuppone la capacità di appropriarsi di un intero mondo
governato da una rete di concetti: qualcosa di diverso
da ciò che comporta invece una nozione di simpatia o
di immedesimazione empatica, che non ammette che i
concetti abbiano il potere di articolare le nostre esperienze. La nozione di immaginazione che appartiene
alla tradizione che stiamo richiamando qui deve affrontare le difficoltà caratteristiche che si pongono quando
si tratta di entrare in un certo orizzonte concettuale e
tali difficoltà non sono solo difficoltà dei sentimenti ma
segnalano differenze nei concetti, difficoltà nella comprensione20.
19
Si v. su questo E. Lecaldano, Le emozioni morali e l’argomentazione
in etica, in Filosofia ed emozioni, a cura di T. Magri, Milano, Feltrinelli,
1999, pp. 135-63.
20 Sono difficoltà che chiamano in causa sia la nostra capacità di sentire sia quella di comprendere. Gli scritti etici di John McDowell sono un
esempio dell’esigenza di tenere insieme i due punti di vista. Si vedano ad
esempio i saggi raccolti in Mind, Value and Reality, Cambridge (MA), Harvard University Press, 1998, parti I e II.
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2. Il confronto tra liberali e metafisici
Trattare il pensiero morale come lo spazio di concetti
differenti che richiedono l’esercizio delle nostre capacità immaginative fornisce anche un contributo per comprendere meglio alcuni dei dibattiti che sono al centro
della riflessione morale nelle nostre società. Come è stato osservato da più autori, ad esempio da Michael Sandel21, il confronto tradizionale tra kantiani e utilitaristi,
tra ragioni fondate sull’autonomia e ragioni che fanno
appello alla massimizzazione degli interessi, non spiega
adeguatamente alcuni nostri significativi dilemmi morali.
Dovremmo riuscire a raffigurarci tali dilemmi in modo
diverso (non cioè come il confronto tra ragioni che si
muovono su un paesaggio concettualmente indifferente)
e a portare in primo piano i concetti che danno forma
a questi dibattiti. Vogliamo ora provare a mostrare che
cosa significa tradurre questi dibattiti in confronti concettuali. A questo scopo, affrontiamo un tema particolare: il ruolo rivestito dal concetto di natura umana all’interno delle attuali discussioni bioetiche. Il modo in cui
il confronto è normalmente articolato è di questo tipo.
Da una parte abbiamo le concezioni etiche che mettono al centro la scelta dell’individuo. Lo si può fare in
vari modi: vi sono almeno due importanti fonti dell’idea
che al centro della scena morale vi sono individui, con
i loro interessi e la loro visione della vita, che deliberano e scelgono. La prima fonte è il concetto di autonomia individuale, la seconda è l’idea di soddisfare e
promuovere gli interessi in gioco e quindi il benessere e
la qualità della vita. In queste fonti riconosciamo le due
fondamentali famiglie di posizioni morali, il kantismo e
l’utilitarismo. Le due fonti possono andare bene insieme,
21 M.J. Sandel, The Case Against Perfection. Ethics in the Age of Genetic Engineering, Cambridge (MA), Harvard University Press, 2007, trad. it.
di S. Galli con il titolo Contro la perfezione. L’etica nell’età dell’ingegneria
genetica, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
L’etica, l’immaginazione e il concetto di natura umana
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come è illustrato negli scritti di Mill22, ma possono anche generare considerazioni che entrano in conflitto. Un
autore come Ronald Dworkin ha sottolineato, ad esempio, che l’idea liberale di autonomia va definita proprio
in contrasto con l’idea della promozione del benessere
generale23. Tuttavia, non vi è dubbio che entrambe le
fonti appartengono alla stessa concezione dell’etica come
lo spazio della deliberazione e della scelta individuale.
Questa idea di etica si contrappone a quella che non
mette al centro gli individui ma la natura24. Anche qui
siamo costretti a semplificare il discorso. Se al centro
della scena etica vi è la natura e quindi il tipo di ordine, o potremmo dire di finalismo intrinseco, che riusciamo a ravvisare nelle varie circostanze naturali, lo spazio
della scelta degli individui appare come il conformarsi
più o meno virtuoso, più o meno eccellente, all’ordine
naturale. In un certo senso, lo spazio della scelta così
come se lo raffigurano le concezioni che mettono al
centro l’individuo non c’è proprio. In effetti, le concezioni fondate sulla centralità dell’individuo hanno mostrato che spazi nuovi di deliberazione e di scelta, come
l’intera area della responsabilità procreativa, ad esempio,
sono emersi proprio guadagnandoli dalla natura, cioè
facendoli affiorare come aree di scelta, di progettazione
della propria vita e di responsabilità verso i nascituri, in
contrasto con il loro essere semplici «fatti naturali».
22 Sulla scia di Mill, le posizioni in bioetica di Eugenio Lecaldano
sono espressione di questa idea di una collaborazione. Cfr. il suo Bioetica.
Le scelte morali, Roma-Bari, Laterza, 2005.
23 Si veda il saggio omonimo nel volume Taking Rights Seriously, Cambridge (MA), Harvard University Press, 1977, trad. it. parziale di F. Oriana
con il titolo I diritti presi sul serio, Bologna, Il Mulino, 1982, pp. 265-92.
24 Le posizioni dell’etica cattolica hanno tradizionalmente fatto appello
alla natura, con diverse strategie argomentative e retoriche. Nelle trattazioni
filosofiche più recenti il posto della natura è significativamente guadagnato facendo attenzione a ridimensionare le pretese di una metafisica privata
dello spazio riflessivo caratteristico degli esseri umani. Si veda, ad esempio,
J. Finnis, Natural Law and Natural Rights, Oxford, Clarendon Press, 1980,
trad. it. di F. Di Blasi con il titolo Legge naturale e diritti naturali, Torino,
Giappichelli, 1996; Fundamentals of Ethics, Washington, Georgetown University Press, 1983.
240
Piergiorgio Donatelli
A fronteggiarsi sono in fondo queste due visioni etiche: chi da una parte vede aree di scelta e di libertà, e
quindi diritti da difendere e interessi da promuovere, e
chi dall’altra vede aree della natura da onorare e rispettare. Se la situazione è questa, sembra che non vi sia
alternativa tra, da una parte, accettare un quadro che
mette al centro la scelta e la responsabilità dell’individuo negando ogni ruolo al concetto di natura e, dall’altra, mettere al centro il concetto di natura e perdere
con ciò le risorse per difendere alcune linee centrali e
irrinunciabili della cultura morale moderna.
Possiamo provare invece a muoverci nella direzione di una reinterpretazione dell’alternativa in campo e
quindi dello scontro tra queste due posizioni, che possiamo chiamare – per aiutarci – liberale e metafisica, tra
coloro che mettono al centro l’individuo e coloro che
mettono al centro la natura. È possibile non trattare
queste prospettive come se fossero chiuse e incomunicabili, e offrirne una reinterpretazione mostrando che esse
chiamano in causa due diverse nozioni di natura. Così
facendo riusciamo a far emergere all’interno della riflessione morale uno spazio riservato ai concetti chiamati
in causa – nel nostro caso i concetti connessi all’idea di
natura umana. Non i concetti specializzati di cui fanno
uso le scienze ma i concetti non specializzati che rientrano nella nostra comprensione e negli atteggiamenti
e sentimenti con cui ci rivolgiamo e agiamo nel mondo (i concetti locali e storici di cui parla Williams): ad
esempio, il concetto ordinario di nascita (e non quello
specializzato della biologia e della medicina), rispetto al
quale sono appropriate una varietà di reazioni e attività,
come la celebrazione della nascita, il senso di responsabilità o il dramma di una nascita non voluta. In questo
spazio della riflessione, possiamo immaginare cosa significa vedere, valutare e scegliere alla luce di concetti diversi. Perciò, la reinterpretazione del confronto tra liberali e metafisici, visto come un confronto che chiama in
causa (tra le altre cose) concetti diversi di procreazione
e di nascita, può consentire di apprezzare l’importanza
L’etica, l’immaginazione e il concetto di natura umana
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dell’immaginazione come una precisa modalità di riflessione in etica.
3. Il concetto di natura umana rivisto
È possibile operare questa reinterpretazione, ma abbiamo bisogno di una nozione di pensiero morale diversa da quella che ci forniscono le due visioni. E qui
torniamo all’idea centrale di questo articolo presentata
all’inizio: l’esigenza di superare la concezione del pensiero morale come spazio omogeneo e di mettere in primo
piano i concetti e le differenze che essi portano con sé.
La visione liberale mette al centro della scena gli individui e, per ricostruire uno spazio appropriato di libertà
deliberativa, respinge l’idea che gli individui si muovano
in spazi concettuali, ad esempio nello spazio concettuale della natura. L’idea di responsabilità procreativa è ricostruita spesso in questo modo, come la negazione che
vi sia qualcosa di intrinsecamente saliente dal punto di
vista morale nei modi in cui si nasce e nel fatto stesso di nascere dal corpo di una donna. Vi è come uno
slittamento, intenzionale e particolarmente chiaro in un
autore come Peter Singer, da affermazioni che appaiono
filosoficamente poco problematiche, come quella secondo cui non ha nessun rilievo morale che la gravidanza
cominci con la fecondazione naturale anziché, poniamo,
con la FIVET, a tesi che sono invece filosoficamente
più problematiche, come quella secondo cui nessun fatto naturale è mai moralmente rilevante e a essere rilevanti sono invece gli interessi in gioco25. La nozione di
interesse in Singer è precisamente uno di quei concet25
Affermazioni enfatiche sull’importanza che gli esseri umani riescano
a sollevarsi al di sopra della contingenza della natura a cui li ha condotti
l’evoluzione si trovano in P. Singer, A Darwinian Left, New Haven, Yale
University Press, 2000, trad. it. di E. Recchia con il titolo Una sinistra darwiniana. Politica, evoluzione, cooperazione, Milano, Edizioni di Comunità,
2000. Cfr. inoltre Rethinking Life and Death: The Collapse of Our Traditional Ethics, Oxford, Oxford University Press, 1995, trad. it. di S. Rini
242
Piergiorgio Donatelli
ti «sottili» che gli consentono di introdurre una descrizione a cui collegare la teoria utilitarista, mantenendosi
neutrale rispetto a qualsiasi elaborazione concettuale di
che cosa significhi avere interessi. In modo significativo, infatti, qualsiasi essere senziente ha interessi: quindi
la nostra comprensione di cosa significhi avere interessi
non ci chiede di immaginare nessun contesto specifico,
neppure biologico, né tantomeno culturale e personale,
in cui abbia senso parlare di interessi.
La visione metafisica presenta invece l’idea di uno
spazio concettuale della natura ma lo fa in modo tale
da respingere altre idee centrali nella modernità liberale.
Ad esempio, concepisce il finalismo in concorrenza con
la descrizione scientifica, seguendo una strada che è certamente assai problematica. Oppure concepisce il finalismo in concorrenza con l’idea di uno spazio personale
di deliberazione e di scelta.
Possiamo provare a offrire una reinterpretazione
delle due posizioni. Cominciamo con l’idea liberale.
Si può pensare che anche la posizione liberale in realtà presupponga spazi concettuali e, in particolare, lo
spazio concettuale della natura umana. Consideriamo,
infatti, che le libertà e la qualità della vita a cui tengono i liberali hanno a che fare con determinate esperienze degli esseri umani. Quelli che sono visti come
beni centrali dai liberali, che i teorici dei diritti considerano diritti irrinunciabili e che gli utilitaristi vogliono
promuovere come scopi, sono collegati al tipo di esseri
che sono gli esseri umani. Considerare certe sfere della
vita come la sessualità e la procreazione o il pensiero, i
sentimenti, i legami e l’amore e così via come sfere che
hanno un’importanza cruciale dipende dal fatto che
siamo esseri che nascono e che muoiono, che si mettono in relazione in molti modi e che hanno una varietà
di reazioni e di atteggiamenti verso il mondo. Prendiamo come esempio la libertà procreativa. La possibilità
con il titolo Ripensare la vita. La vecchia morale non serve più, Milano, Il
Saggiatore, 1997.
L’etica, l’immaginazione e il concetto di natura umana
243
di individuare questo bene dipende dal fatto che siamo
esseri che nascono dal corpo delle donne, che la gravidanza è un processo lungo e complicato che coinvolge
il corpo e le emozioni della donna. Applicata all’inizio
della vita, l’idea liberale di privacy ha un senso solo
perché nasciamo in questo preciso modo. Se nascessimo in un modo diverso, avremmo difficoltà a definire
il concetto in questione.
Possiamo aiutarci a elaborare questo punto con un
esempio tratto dal romanzo di Aldous Huxley Il mondo
nuovo. In quel romanzo i bambini nascono per ectogenesi. Non è importante per gli scopi del nostro ragionamento che nel romanzo vi siano molti altri fatti sociali
rilevanti come il controllo centrale e una politica razzista. Ci interessa qui portare l’attenzione sul fatto che
nel romanzo di Huxley i personaggi femminili, posti di
fronte alla riproduzione vivipara, dal corpo della donna, sono colpiti da sentimenti di orrore e di disgusto;
essi vedono sovvertito il loro concetto di nascita e di
ciò che è naturale. Linda, una donna del mondo nuovo che per un incidente rimane confinata nella riserva
dei «selvaggi» rimasti estranei al progresso della società,
non riesce a evitare la gravidanza e parla di se stessa in
questo modo: «Trasformata in una selvaggia […]. Avere
dei piccoli, come un animale»26. La relazione biologica
con la propria prole è caratterizzata come qualcosa di
animalesco, di osceno e rivoltante. Così Huxley descrive la reazione di un’altra donna, Lenina, che è in visita
alla riserva: «Lo spettacolo di due giovani madri che allattavano i loro bambini la fece arrossire e la costrinse
a voltar via la faccia. Non aveva mai visto in vita sua
una cosa tanto indecente […] questa rivoltante scena
vivipara»27.
26
A. Huxley, Brave New World, London, Chatto and Windus, 1932,
trad. it. di L. Gigli e L. Bianciardi con il titolo Il mondo nuovo. Ritorno al
mondo nuovo, Milano, Mondadori, 1971, p. 120.
27
A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 107.
244
Piergiorgio Donatelli
Il punto che interessa sottolineare qui è che il cambiamento nei fatti porta con sé un cambiamento nei
concetti. Il senso di orrore e di disgusto, quando non
sono convenzionali, esprimono il senso di una natura
pervertita, rivelano che il senso di ciò che è naturale
è messo a repentaglio o è stato rovesciato. Nel mondo
nuovo di Huxley il senso di disgusto e orrore è rivolto
verso l’idea della riproduzione biologica. Gli abitanti
del mondo nuovo percepiscono la riproduzione vivipara degli esseri umani come un pervertimento di ciò che
è naturale: ciò dipende da atteggiamenti e credenze,
ma anche da fatti, dal fatto che in quella società gli esseri umani non nascono dal corpo delle donne. Questo
esempio interessante mostra come il concetto di nascita
presupponga anche fatti e che il cambiamento dei fatti
trasforma il concetto. Come ha osservato Wittgenstein:
«Chi crede che certi concetti siano senz’altro quelli
giusti e che colui che ne possedesse altri non si renderebbe conto di quello di cui ci rendiamo conto noi, –
potrebbe immaginare certi fatti generalissimi della natura in modo diverso da quello in cui noi siamo soliti
immaginarli; e formazioni di concetti diverse da quelle
abituali gli diventerebbero comprensibili»28. In una società dove i nuovi esseri nascono per ectogenesi, i problemi morali che riguardano l’inizio della vita sono diversi da quelli che si pongono nella nostra società. Nel
mondo di Huxley non è possibile ricostruire il significato della privatezza della gravidanza e della nascita,
il suo legame intimo con la donna e quindi con la sua
interiorità. In questo contesto i liberali avrebbero difficoltà a introdurre il loro concetto di privacy. Beni fondamentali legati alla sovranità della donna sulla procreazione sono qui invisibili: semplicemente non c’è posto
per essi.
Questo è un punto importante per la linea di pensiero che stiamo sviluppando. La difesa di certi valo28
L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., II parte, § XII.
L’etica, l’immaginazione e il concetto di natura umana
245
ri anziché di altri ha un posto che dipende dal tipo di
esseri che siamo, e questa è una questione sia biologica
sia sociale e tecnica. Il fatto che siamo un certo tipo di
esseri biologici e tecnologici e che attorno a questi fatti abbiamo intessuto un’intera vita, che si esprime ad
esempio nel modo in cui trattiamo la nascita di un nuovo essere umano, tutto questo crea il contesto in cui si
muove il pensiero morale conferendogli una fisionomia.
Si tratta di una tesi che non viene frequentemente associata alla difesa della posizione liberale. Anzi, importanti
linee interne a questa prospettiva hanno ritenuto che i
valori liberali non dipendano da contingenze naturali e
concrete di questo tipo. Forse la linea utilitarista rappresentata da Singer è stata la più coerente nell’individuare il compito del pensiero morale proprio nel sollevarsi
al di sopra delle contingenze; ma anche la linea kantiana, sviluppata ad esempio da John Rawls, ha ispirato la
stessa irresponsabilità nei confronti delle contingenze da
cui dipendono i grandi valori29. Di contro, Bernard Williams è l’autore che, lungo tutto l’arco della sua biografia intellettuale, ha attaccato in uno spirito che è vicino
a quello che vorremmo difendere qui sia la linea utilitarista sia quella kantiana30.
Ma allora che cosa stanno facendo i liberali, quando
sostengono che la natura non è una fonte di valori, ad
esempio nelle questioni legate alla nascita? Insistere sul
fatto che la natura non ha un ruolo e quindi che non
contano i modi in cui si nasce, attraverso un rapporto
29 J. Rawls, A Theory of Justice, Cambridge (MA), Harvard University
Press, 1971, trad. it. di U. Santini riveduta da S. Maffettone con il titolo di
Una teoria della giustizia, Milano, Feltrinelli, 1982.
30 Si vedano ad esempio vari saggi in Sorte morale, cit., fino ad alcuni
interventi raccolti nel volume postumo Philosophy as a Humanistic Discipline, cit., tra cui il saggio inedito The Human Prejudice, pp. 135-52. Su
questa critica al modello neutralista e sull’esigenza di evitare al contempo il
modello comunitario cfr. inoltre La modernità e la sostanza della vita etica,
cit., p. 61; Pluralism, Community and Left Wittgensteinianism, in Id., In the
Beginning Was the Deed, cit., pp. 29-39, trad. it. di C. Del Bò con il titolo Pluralismo, comunità e sinistra wittgensteiniana, in Id., In principio era
l’azione, cit., pp. 36-48.
246
Piergiorgio Donatelli
sessuale o senza di esso con l’ausilio delle tecniche, ma
ciò che importa sono le preferenze delle persone coinvolte, è un modo di cambiare il paesaggio concettuale,
un modo di trasformare il concetto del procreare, del
dare alla luce. Si vuole dire che vi è ancora nascita anche in questo modo, anzi che fare nascere bambini è legato a una libertà che è connessa con la sottovalutazione
di questi fatti. Quindi, una volta reinterpretati – come
abbiamo fatto sopra, suggerendo che anch’essi presuppongono aspetti contingenti nella loro difesa dei valori
universali – i liberali non stanno negando ogni ruolo
alla natura, ma stanno trasformando il concetto di natura umana e concetti come quello di nascita, di sessualità
e di procreazione. Ma le risorse con cui lo fanno dipendono sempre dal contesto biologico e sociale in cui ci
troviamo. Essi mettono in luce certi fatti, come il desiderio della donna, la possibilità di scelta, l’essere soggetti di questa scelta e la capacità medica di intervento,
mentre ridimensionano l’importanza di altri fatti, come
il legame tra sessualità e riproduzione o la circostanza
che la nascita sia lasciata al caso.
Nella stessa luce possiamo anche rileggere la posizione metafisica, perché essa sembra fare qualcosa di analogo ma opposto. Una volta reinterpretata, essa sembra
affermare che certi fatti sono invece proprio irrinunciabili perché sono costitutivi. Se i bambini non nascono
in quel modo, si sostiene, perdiamo il concetto stesso
di nascita e di procreazione, perdiamo cioè il concetto
(umano e non specializzato) del fare i bambini, con tutto ciò che di speciale, di misterioso e di reverenziale vi
è in esso. Come ha sostenuto Elizabeth Anscombe, che
in alcuni scritti ha presentato l’appello alla natura come
un argomento concettuale, gli esseri umani sono animali
la cui vita vegetativa e animale è configurata dai modi
tipicamente umani di svolgere quelle funzioni, connessi
con il nostro intelletto, con i nostri sentimenti estetici e
morali. Se trattiamo la riproduzione come un fatto meramente biologico – essa sostiene – separandolo dalla
sessualità e dai modi caratteristici di onorare il processo
L’etica, l’immaginazione e il concetto di natura umana
247
della gravidanza, perdiamo il concetto di procreazione
così come lo abbiamo31.
Tuttavia questa non è la linea avanzata in genere dalla posizione metafisica, la quale non presenta le cose in
questa maniera. L’idea di inscrivere nella natura un finalismo, ad esempio, uno dei modi più seguiti per affermare l’irrinunciabilità di certi fatti, è proprio un modo
per nascondere che la natura di cui si sta parlando è un
nostro concetto. Beni come quelli coinvolti nella nascita dipendono infatti da come nasciamo e dagli atteggiamenti con cui avvolgiamo questi fatti, dipendono in ultima analisi da ciò che gli esseri umani hanno fatto, nelle
loro vite, culturali, storiche e personali, di questi fatti.
Viceversa l’idea di iscrivere nella natura un finalismo
chiama in causa una dimensione diversa, fa appello in
genere a un uso speciale della ragione e quindi finisce
con il sollevarsi al di sopra della vastità di contingenze
da cui dipende il concetto di nascita, di gravidanza, di
procreazione. In modo chiaramente diverso rispetto alle
altre due linee, quella kantiana e quella utilitarista, si
tratta ancora una volta di una mossa che si solleva al di
sopra di ciò che viene considerato inessenziale, secondario, contingente32.
4. Una critica concettuale
Con la doppia rilettura delle due prospettive, quella liberale e quella metafisica, possiamo vedere come
31 G.E.M. Anscombe, The Dignity of the Human Being, in Id., Human
Life, Action and Ethics, a cura di M. Geach e L. Gormally, Exeter, Imprint
Academic, 2005, pp. 67-73.
32 Una linea significativa nelle rivisitazioni dell’argomento finalista è caratterizzata dal tentativo di rispondere a questo tipo di obiezioni. Si veda,
ad esempio, M. Thompson, Tre gradi di bontà naturale, «Iride», XVI, 2003,
pp. 191-97, che difende Philippa Foot da questa accusa (della quale si veda
Natural Goodness, Oxford, Clarendon Press, 2001, trad. it. di E. Lalumera
con il titolo La natura del bene, Bologna, Il Mulino, 2007), nella scia degli
argomenti esposti da J. McDowell, Two Sorts of Naturalism, in Id., Mind,
Value and Reality, cit., pp. 167-97.
248
Piergiorgio Donatelli
vi sia un modo di trattare questo contrasto che mette
in comunicazione le due posizioni. Lo spazio di questa
comunicazione è costituito da un disaccordo sul concetto di natura umana, ma diverso da quello che appariva
all’inizio. All’inizio sembrava che si trattasse o di rifiutare il concetto di natura o di rimetterlo al centro della
scena morale. Dopo la rilettura appare invece che le due
posizioni stanno facendo qualcosa di diverso: propongono trasformazioni o difese di certi concetti legati alla
costituzione degli esseri umani, dei concetti di nascita
e di procreazione e quindi anche di natura umana. Ciò
che emerge è che vi è uno spazio della riflessione morale che ha il carattere della critica concettuale, un tipo
di critica che non ha di mira innanzitutto cosa è giusto
fare, ma con quali concetti vorremmo vivere. La posizione liberale difende, ad esempio, un certo concetto di
nascita e di sessualità; quella metafisica altri concetti.
Lo spazio concettuale diventa quindi una dimensione che ci possiamo proporre di mettere in luce e al
contempo di rendere oggetto di riflessione per valutare
cosa significa vivere con un determinato orizzonte concettuale. In questa prospettiva i concetti stessi diventano
dei beni. È un’idea avanzata da Diamond: ci sono dei
beni concettuali, se vogliamo esprimerci così33. Perciò,
i liberali, che difendono la separazione tra sessualità e
procreazione e l’uso delle tecniche, difendono un certo concetto di riproduzione e di sessualità, pensano che
sia un bene vivere in un orizzonte concettuale di questo
tipo. Essi affermano che in questo orizzonte possiamo
riconoscere beni che altrimenti non vedremmo, beni legati ad esempio alla sessualità concepita come possibile
sviluppo creativo della propria personalità; o beni legati
alla procreazione intesa come ciò di cui ci assumiamo la
responsabilità autonomamente. Qui il contrasto riguarda
da una parte l’assumersi responsabilità di ciò che liberamente scegliamo e dall’altra l’assumersi responsabilità
33
Si veda in particolare il saggio Perdere i propri concetti, cit.
L’etica, l’immaginazione e il concetto di natura umana
249
di ciò che non abbiamo scelto. Infatti noi assumiamo
responsabilità di impegni che abbiamo scelto, ma assumiamo anche responsabilità di cose che non abbiamo
scelto, ad esempio il fatto di avere dei genitori, verso i
quali sentiamo dei doveri speciali. Il tipo di legame e di
lealtà verso i propri genitori è tale proprio perché non
è il legame e la lealtà verso un amico che invece ci siamo scelti. I liberali vogliono spostare il concetto di procreazione nella responsabilità verso ciò che si è scelto.
I loro oppositori metafisici tendono invece a difendere
un concetto di riproduzione e di nascita connesso alla
responsabilità verso ciò che non si è scelto.
È importante individuare il peculiare spazio in cui ha
luogo questo confronto, uno spazio concettuale, di confronto tra concetti o trasformazione e modificazione di
concetti. È uno spazio in cui è chiamata in causa l’immaginazione. Comprendere cosa significa vivere con questi concetti e valutare quindi i diversi beni concettuali
corrispondenti non chiama in causa tanto certe capacità
di ragionamento, come quelle richieste dal riconoscere
che una certa situazione cade sotto un principio generale o dal calcolare le conseguenze in termini di interessi.
Qui invece ci si chiede di immaginare che cosa significa,
ad esempio, considerare l’avere bambini come qualcosa
che scegliamo, connesso a quella specifica responsabilità,
o come un diverso concetto. Dobbiamo riuscire a vedere
e a tenere insieme un intero mondo, se vogliamo, e cioè
fatti, atteggiamenti e sentimenti34. Ma un tale esercizio
immaginativo è anche riflessivo, appartiene a pieno diritto alle capacità critiche degli esseri umani. Infatti, all’interno di questo esercizio immaginativo riusciamo anche
a fare confronti, a soppesare beni, cioè a riconoscere
che una dimensione concettuale dà spazio a beni che
non sono accessibili a un’altra e ad arrivare per questa
via a fornire ragioni a favore di un orientamento mora34 Per questa idea di «mondo», si vedano vari scritti di J. McDowell,
ad esempio, The Role of Eudaimonia in Aristotle’s Ethics, in Id., Mind, Value and Reality, cit., pp. 3-22, qui pp. 21-22.
250
Piergiorgio Donatelli
le rispetto a un altro. La tentazione qui potrebbe essere
quella di cercare criteri esterni, ma non ve ne sono. I
criteri che usiamo per esprimere valutazioni in confronti
di questo genere appartengono alla prospettiva in cui ci
troviamo, cioè se riusciamo a ritenere un miglioramento
o un peggioramento la possibilità di vivere in un mondo
concettuale diverso. Come ha scritto Williams in modo
incisivo:
Siamo circondati da un mondo che possiamo guardare attraverso una
larga varietà di reazioni: stupore, gioia, simpatia, disgusto, orrore. Per come
siamo fatti, possiamo riflettere su queste reazioni e modificarle fino a un certo
punto. Possiamo riflettere su come debba essere governata questa proprietà
o questa colonia umana e sul suo impatto sull’ambiente circostante. Ma è
una totale illusione pensare che questa impresa possa essere legittimata per
alcuni aspetti e condannata per altri sulla base di credenziali che vengono
da un’altra fonte, una fonte che non è coinvolta essa stessa nelle peculiarità
dell’impresa umana35.
Il pensiero morale contempla tutta una serie di limitazioni o di miglioramenti ma sono movimenti che sono
guadagnati sempre da un certo punto di vista36.
5. Habermas e il concetto di essere umano
Possiamo fare ancora un passo in avanti verso la conclusione. Abbiamo sostenuto che dovremmo concepire
il pensiero morale come qualcosa di eterogeneo, contro
l’inclinazione a farne uno spazio omogeneo delle ragioni.
L’idea è che il pensiero morale si muove dentro dimensioni concettuali, che hanno connessioni, che sono imparentate. Si può andare da una parte all’altra di que35
B. Williams, The Human Prejudice, cit., p. 147. Una considerazione
simile si trova in L’etica e i limiti della filosofia, cit., p. 145.
36
Questa idea della critica, interna agli spazi concettuali, è stata difesa
tra gli altri anche da Charles Taylor. Si veda, ad esempio, Explanation and
Practical Reason, in Id., Philosophical Arguments, Cambridge (MA), Harvard University Press, 1995, pp. 34-60, trad. it. di P. Costa con il titolo
Spiegazione e ragion pratica, in Id., Etica e umanità, a cura di P. Costa, Milano, Vita e Pensiero, 2004, pp. 193-227.
L’etica, l’immaginazione e il concetto di natura umana
251
sto paesaggio variegato, ma ci sono dei cambiamenti di
scena; alcuni cambiamenti ci colpiscono come salti radicali, come trasformazioni della scena che non riusciamo a contenere nella nostra mente. In effetti, alcune situazioni ci colpiscono come cambiamenti che sembrano
trasformare radicalmente il paesaggio concettuale fino a
stravolgere l’orizzonte in cui si muove il nostro pensiero
morale. La bioetica ci offre vari esempi di cambiamenti concettuali di questo tipo, in cui è chiamato in causa
il concetto di natura, vale a dire di cambiamenti in cui
sembra non già che la nostra natura umana e i nostri
concetti di procreazione e di nascita siano trasformati in
vari modi, ma che siano del tutto dissolti, che perdiamo
proprio ciò che ci caratterizza come quel tipo di esseri biologici e che perdiamo quindi le risorse stesse per
pensarci come esseri umani. Questo è, tra gli altri, un
tema centrale del libro di Jürgen Habermas sul Futuro
della natura umana37.
Possiamo leggere il quadro filosofico che egli presenta
e all’interno del quale tratta le questioni che gli stanno a
cuore – tra cui l’uso delle nuove tecniche all’inizio della
vita come la diagnosi preimpianto, la ricerca sulle cellule
staminali e le possibili prospettive della cosiddetta genetica liberale – come una versione di un argomento concettuale. Habermas sostiene che i nostri concetti morali
centrali, che egli descrive kantianamente come la possibilità di trattarsi come eguali, dipendono da quella che
egli chiama un’autocomprensione etica del genere umano, un’autocomprensione di sé come esseri biologici di
un particolare tipo38. I concetti della nostra vita morale
dipendono in particolare da una distinzione tra lo sfondo naturale e gli esseri umani che si muovono su que37
J. Habermas, Die Zukunft der menschlichen Natur. Auf dem Weg zu
einer liberalen Eugenik?, Frankfurt, Suhrkamp, 2001, trad. it. di L. Ceppa
con il titolo Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale,
Torino, Einaudi, 2002. Per una discussione complessiva si veda C.A. Viano,
Antiche ragioni per nuove paure: Habermas e la genetica, «Rivista di filosofia», XCV, 2004, pp. 277-96.
38
J. Habermas, Il futuro della natura umana, cit., p. 28.
252
Piergiorgio Donatelli
sto sfondo. Habermas sostiene che è perché siamo esseri
biologici di un certo tipo, perché nasciamo in un certo
modo, perché avvolgiamo la nascita con sentimenti e atteggiamenti peculiari, che ci vediamo come esseri umani,
come esseri che appartengono a quello spazio di libertà e
di autonomia che Habermas delucida in termini kantiani.
Habermas vuole dire che se modifichiamo oltre una certa
soglia la natura, se modifichiamo oltre un certo confine il
modo in cui nasciamo, se trattiamo la nascita come una
questione largamente tecnica, allora rischiamo di perdere
il concetto stesso di essere umano e quindi di morale39.
Per sostenere questo ragionamento, Habermas mette
in luce la distanza che separa, da una parte, gli atteggiamenti di rispetto nei confronti della vita umana nascente
e, dall’altra, nei confronti degli esseri umani, delle persone. Sostiene che vi è una dignità della vita prenatale che
va distinta dalla dignità delle persone: chiama la prima
indisponibilità e la seconda inviolabilità40. Perciò, bisogna
distinguere tra la dignità della vita umana e quella dignità dell’uomo che
viene giuridicamente garantita a ogni persona: una distinzione che si riflette
del resto nella fenomenologia dei rapporti sentimentali che intratteniamo con
i defunti. […] Per contro, se dilatiamo oltre misura concetti giuridici moralmente saturi quali «diritti umani» o «dignità dell’uomo», noi li priviamo della
nitidezza del loro contorno nonché del loro potenziale critico41.
Quindi Habermas distingue da un lato la dignità degli esseri umani, protetta dai diritti, e dall’altro la dignità che attiene al rispetto della vita prepersonale, qualcosa di simile al rispetto che nutriamo nei confronti della
39
Questa idea della «soglia» è stata suggerita da vari autori, tra cui:
R. Norman, Interfering with Nature, «Journal of Applied Philosophy»,
XIII, 1996, pp. 1-11; R. Dworkin, Playing God: Genes, Clones, and Luck,
in Id., Sovereign Virtue. The Theory and Practice of Equality, Cambridge
(MA), Harvard University Press, 2000, pp. 427-52 (la trad. it. parziale di
G. Bettini dal titolo Virtù sovrana: teoria dell’uguaglianza, Milano, Feltrinelli, 2002, non contiene questo saggio); S. Holland, Bioethics. A Philosophical
Introduction, Cambridge, Polity, 2003, parte IV.
40 J. Habermas, Il futuro della natura umana, cit., pp. 29, 33-34.
41 J. Habermas, Il futuro della natura umana, cit., pp. 38, 39.
L’etica, l’immaginazione e il concetto di natura umana
253
salma, anche se diverso perché non ha il medesimo grado di individualizzazione.
Vi sono quindi due concetti, che sono connessi a due
famiglie diverse di sentimenti e di atteggiamenti. Habermas scrive in modo molto lucido che il tipo di reazione
di fronte alla violazione della dignità della vita nascente
si esprime in un sentimento che non è
una indignazione morale, quanto una sorta di ripugnanza di fronte a qualcosa
di osceno. Si tratta del capogiro che ci afferra quando un terreno che credevamo sicuro ci sfugge da sotto i piedi. Sintomatico è il disgusto alla vista
delle creature chimeriche che nascono dalla violazione genetica dei confini tra
le specie (confini che noi davamo ingenuamente per «immodificabili»)42.
Diamo per acquisito uno sfondo naturale rispetto al
quale individuiamo ciò che gli esseri umani fanno, del
mondo e di se stessi. Habermas sostiene che con le nuove tecniche abbiamo a che fare proprio con lo spostamento del confine che segna la separazione tra lo sfondo naturale e gli esseri umani che si muovono su quello
sfondo43. Noi avvertiamo questo spostamento come una
forma di vertigine e con sentimenti come l’orrore e il
disgusto che segnalano, sul piano concettuale, la perdita o il vacillare del concetto stesso di essere umano. Al
contrario, i sentimenti di attenzione e di cura, potremmo dire di riverenza, nei confronti della nascita naturale, sono invece costitutivi dell’avere il concetto di essere
umano, di non averlo perduto.
Non ci soffermiamo qui a mettere in luce le esitazioni nell’argomentazione di Habermas: in realtà egli non
difende in modo chiaro la sua posizione come un tipo
di argomentazione concettuale, su ciò che significa avere
o perdere concetti, e in vari punti del libro presenta le
conseguenze delle nuove tecniche nei termini di un dan42 J. Habermas, Il futuro della natura umana, cit., p. 42. Sulla nozione
di disgusto in etica si veda M. Nussbaum, Hiding from Humanity. Disgust,
Shame, and the Law, Princeton, Princeton University Press, 2004, trad. it.
di C. Corradi con il titolo Nascondere l’umanità. Il disgusto, la vergogna, la
legge, Roma, Carocci, 2005.
43 J. Habermas, Il futuro della natura umana, cit., p. 30.
254
Piergiorgio Donatelli
no recato all’identità del nascituro, che costituisce invece un argomento piuttosto debole44. Come ha mostrato
Lecaldano45, le questioni di identità mascherano in realtà considerazioni di ordine diverso, alcune delle quali
sono psicologiche: spesso Habermas si esprime come se
fosse in gioco la questione psicologica del danno, costituito dalla sofferenza causata dalla consapevolezza che
il nuovo individuo ricostruirà circa le modalità in cui è
avvenuta la sua nascita46. Obiezioni di questo tipo sono
deboli perché, da una parte, fanno leva su una conoscenza delle circostanze future che è come minimo assai
incerta e, dall’altra, lasciano aperta la possibilità di rendere responsabile di questo danno non già chi procrea
in questo modo ma la società che non ha accolto questa
nuova forma di procreazione.
È interessante invece vedere la conseguenza che Habermas trae da questa contrapposizione tra i due concetti di dignità e tra le due famiglie di sentimenti. Una volta distinti i concetti e i sentimenti in questo modo, egli
sostiene che il tipo di pensiero che appartiene a concetti
come quello della dignità delle persone, dell’autonomia e
dei diritti presenta una discontinuità con il tipo di pensiero in cui si muovono concetti come quelli di rispetto
e di riverenza verso la vita umana nascente. Per segnare
questa discontinuità si serve della distinzione hegeliana
tra etica e morale e scrive che il presupposto biologico
che indica lo sfondo e che configura il tipo di essere
umano che ha anche una morale è un presupposto etico
(parla infatti di giudizio etico di genere). Secondo Habermas, la distinzione tra etica e morale di per sé è funzionale all’idea di una convergenza sulla morale kantiana
del rispetto reciproco e di un pluralismo delle visioni
etiche e cioè delle forme di vita sociali47. Tuttavia, nel
44 J. Habermas, Il futuro della natura umana, cit., p. 29 e, nel poscritto, p. 82.
45 E. Lecaldano, Bioetica, cit., pp. 235-44.
46 J. Habermas, Il futuro della natura umana, cit., pp. 54-61.
47 J. Habermas, Il futuro della natura umana, cit., pp. 40-41.
L’etica, l’immaginazione e il concetto di natura umana
255
caso dell’etica del genere, non si può ammettere un tale
pluralismo. Egli scrive che nelle questioni concernenti la
vita umana prepersonale i problemi
non riguardano questa o quella differenza nella varietà delle forme culturali di
vita, bensì quelle autodescrizioni intuitive per cui ci identifichiamo nel nostro
essere uomini e ci differenziamo dagli altri esseri viventi. Insomma, riguardano
la nostra autocomprensione come esseri-di-genere. Non si tratta dunque della
cultura che è in ogni luogo diversa, bensì dell’immagine che le diverse culture
si fanno dell’uomo: di quell’uomo che è in ogni luogo identico a sé sul piano
della universalità antropologica48.
C’è qualcosa di importante nell’idea di distinguere i
due insiemi di concetti e di sentimenti e quindi di sottolineare la disomogeneità degli spazi morali in cui i due
rispettivi insiemi si muovono. È il tipo di disomogeneità
a cui si faceva accenno all’inizio. Da una parte abbiamo
le ragioni a cui alludono le teorie di ispirazione kantiana, ma potrebbero anche essere utilitariste o altre ancora, ragioni che si muovono dentro concetti consolidati,
e in particolare dentro il concetto di essere umano, e
dall’altra abbiamo considerazioni e sentimenti che sono
rivolti alla configurazione complessiva di questi concetti. Il sentimento di cura e di timore reverenziale verso
la vita nascente o il senso di orrore verso l’incrocio tra
le specie di cui parla Habermas hanno a che fare con
questo secondo tipo di spazio. L’idea di questo contrasto importante nella geografia dei nostri concetti è stata
ribadita nella linea filosofica che è stata ricostruita qui,
e in particolare è stata sostenuta da autrici come Anscombe49 e Diamond. Consideriamo brevemente la questione avanzata da Diamond. Essa ha scritto:
48
J. Habermas, Il futuro della natura umana, cit., p. 41.
Cfr. in particolare G.E.M. Anscombe, Contraception and Chastity,
London, Catholic Truth Society, 1975, riedito in Why Humanae Vitae Was
Right: A Reader, a cura di J.E. Smith, San Francisco, Ignatius Press, 1993,
pp. 121-46; The Dignity of the Human Being, cit. L’idea stessa di una geografia di casi in cui trova applicazione un concetto è messa alla prova in
modo magistrale nel suo Intention, Oxford, Basil Blackwell, 1957, 2a ed.
1958, riedito Cambridge (MA), Harvard University Press, 2000, trad. it. di
C. Sagliani con il titolo Intenzione, Roma, Edizioni Università della Santa
49
256
Piergiorgio Donatelli
Possiamo parlare in modo del tutto naturale di un tipo di azione come
moralmente sbagliata quando abbiamo una qualche ferma comprensione del
tipo di esseri che sono coinvolti. Ma ci sono alcune azioni, come il dare il
nome alle persone, che fanno parte del modo in cui arriviamo a capire e a
mostrare la nostra comprensione di che tipo di essere è quello con cui abbiamo a che fare. E «moralmente sbagliato» spesso non si adatta al nostro
rifiuto di agire o al nostro agire in modo opposto a come fa Gradgrind
quando chiama una bambina «Bambina numero venti». Rifiutare di darle un
nome non è come rifiutare di darle l’eredità a cui ha diritto e per la quale
ha un interesse. Piuttosto, Gradgrind vive in un mondo, o vorrebbe vivere
in un mondo, in cui non fa differenza se la bambina ha un nome, mentre un
numero è più efficiente, un mondo in cui un essere umano non è: qualcosa
da essere nominato, e non numerato50.
Cose come dare un nome ai neonati, come nell’esempio dickensiano di Diamond, o seppellire i morti anziché lasciarli sulla strada insieme all’immondizia, sono
tutte cose che vanno a determinare quale tipo di concetto sia quello di «essere umano». Analogamente per l’avere doveri verso gli esseri umani. Questa
non è una conseguenza di ciò che gli esseri umani sono, non è giustificato da
ciò che gli esseri umani sono: è essa stessa una delle cose che determinano la
nostra nozione di esseri umani51.
Il pensiero di Diamond va in questa direzione: vi
sono una quantità di cose che costituiscono il concetto
di essere umano, una quantità di attività, atteggiamenti,
reazioni e anche fatti naturali. Diamond mette in luce la
differenza che separa la riflessione sul tipo di fatti che
tengono in piedi il concetto di essere umano rispetto
alla riflessione su aspetti delle nostre attività che riconosciamo come umani ma che non colleghiamo intimamente con l’esistenza del concetto stesso. In questo senso,
essa scrive che rifiutare di dare un nome a una bambina
non è lo stesso che rifiutare di darle l’eredità, perché in
questo secondo caso facciamo una cosa profondamente ingiusta ma che appartiene all’arco delle possibilità
Croce, 2004. Non entriamo qui nel merito delle posizioni sostantive, molto discutibili, difese da Anscombe, ma facciamo riferimento alle sue analisi
della natura dei concetti.
50
C. Diamond, Eating Meat and Eating People, in Id., The Realistic
Spirit, cit., pp. 319-34, qui p. 323.
51
C. Diamond, Eating Meat and Eating People, cit., p. 324.
L’etica, l’immaginazione e il concetto di natura umana
257
inscritte in un’azione rivolta a un altro essere umano,
quella di essere ad esempio giusta o ingiusta. Invece,
rifiutare di darle un nome è come mancare di riconoscere che è una bambina, quindi un essere umano come
noi. La distinzione che Habermas traccia tra l’operare
dei concetti morali di obbligazione e di diritti (che legge nel quadro kantiano) e quelli etici di rispetto della
vita umana, e quindi tra i sentimenti di indignazione e
di orrore, richiama la distinzione elaborata da Anscombe e Diamond tra i concetti e i sentimenti che si muovono alla luce del concetto di essere umano e i concetti
e i sentimenti che lo revocano in dubbio, rispondendo a
trasformazioni che appaiono dissolverlo.
A questo punto possiamo collocare la motivazione
che ispira il lavoro di Habermas in un contesto filosofico più ampio, che mostra un’insoddisfazione nei confronti del modo in cui è articolato il dibattito in etica.
Habermas vuole mettere al centro l’idea che c’è qualcosa come il concetto di «essere umano», a cui noi colleghiamo le nozioni di diritti, di doveri, di scrupoli morali
più in generale, ancorato a fatti e pratiche di vari tipi, e
che c’è il pericolo di perdere il concetto di essere umano se cambiano troppo quei fatti e quelle pratiche. Questa idea è stata ripresa di recente anche da Sandel, che
ha messo assieme molte attività, legate non solo ai nuovi
modi di nascere ma anche ad altre modificazioni della
natura biologica e culturale degli esseri umani, come ad
esempio nello sport e nell’educazione, come esempi di
circostanze in cui abbiamo l’impressione di perdere il
concetto di essere umano, considerato come un orizzonte più grande di noi verso il quale ci rivolgiamo con un
senso di rispetto e di riconoscimento. In questo contesto, egli ha sostenuto che ciò che è oggetto del pensiero
critico non è tanto se queste attività siano giuste o sbagliate, ma se esse non finiscano con il mettere a repentaglio la nostra stessa natura, che è ciò che presuppongono i concetti con cui descriviamo quelle stesse attività
(procreare, gareggiare nello sport, educare la prole) e in
cui hanno un posto anche i concetti della morale (giu-
258
Piergiorgio Donatelli
sto, sbagliato) con cui ci interroghiamo normalmente su
di esse. Se l’attività sportiva finisce con il modificare la
stessa natura biologica degli sportivi non siamo più sicuri che una tale attività sia ancora «fare dello sport»,
che presuppone il mettere alla prova i propri talenti e
non modificare la base biologica della loro formazione.
Questo tipo di interrogativo riguarda il significato del
concetto di sport e il suo collegamento con il fatto di
avere una natura biologica di un certo tipo. Il tema del
pensiero critico è quindi l’aspirazione prometeica a rifare daccapo la nostra natura52.
Una considerazione simile è stata espressa anche da
Williams. Egli ha scritto che è importante prendere sul
serio una specie di timore prometeico «di prendere
troppo alla leggera o in modo incoerente le nostre relazioni con la natura». Esse non possono essere comprese solo nei termini dei concetti morali di bene e di
diritti, ma esprimono invece il «senso di un’opposizione tra noi e la natura, come un vecchio nemico, senza
vincoli e potenzialmente pericoloso, che domanda rispetto», la natura come «indipendente da noi, qualcosa
che non abbiamo fatto e che non controlliamo in modo
adeguato»53. Questi autori vogliono trovare spazio per il
concetto di natura, intesa non come la fonte metafisica
di tutte le considerazioni, ma come uno dei concetti che
danno forma al nostro pensiero morale. Lo sviluppo della modernità aveva messo in secondo piano il concetto
di natura e aveva dato spazio a concetti che articolavano il posto centrale occupato dagli esseri umani. Ma la
crescita della capacità di intervento e di controllo della
natura ha fatto riaffiorare il timore di perdere il senso
52
M.J. Sandel, Contro la perfezione, cit., cap. 2.
B. Williams, Must a Concern for the Environment Be Centred on
Human Beings?, in Id., Making Sense of Humanity and Other Philosophical Papers (1982-1993), Cambridge, Cambridge University Press, 1995, pp.
233-40, qui p. 239 (il saggio non è incluso nella trad. it. parziale del volume di V. Ottonelli con il titolo Comprendere l’umanità, Bologna, Il Mulino, 2006). Le considerazioni di Williams riguardano l’ambiente naturale ma
possono essere applicate anche alla natura umana.
53
L’etica, l’immaginazione e il concetto di natura umana
259
della natura come qualcosa di vasto e di grande sul cui
sfondo si stagliano i movimenti, le scelte e l’individualità
stessa, creativa e indefinita, degli esseri umani.
6. Conclusione
Sulla scia di questi autori e di queste motivazioni filosofiche, possiamo riconoscere la mossa aggiuntiva che
Habermas fa nel suo argomento e che appare inadeguata. Egli non vuole solo segnare questa discontinuità per
difendere lo spazio del concetto di essere umano. Il timore prometeico nei confronti della trasformazione della
natura umana lo conduce a immaginare di poter mettere
al riparo il concetto di essere umano da ogni mutevolezza e trasformazione. Egli non vede che anche le trasformazioni più radicali dei concetti sono trasformazioni che
possiamo rendere oggetto della nostra riflessione. Non è
quindi una buona mossa quella di affermare che il concetto di essere umano è un universale antropologico,
sottratto alla riflessione o al cambiamento nei modi di
vita. In realtà, la sua stessa difesa, la difesa del tipo di
concetto di essere umano che (a suo giudizio) condividiamo, è qualcosa che appartiene alla riflessione morale,
come vi appartiene la possibilità di immaginare di avere
un concetto di essere umano diverso. Una volta riletto
alla luce dell’idea di etica come critica concettuale, possiamo vedere che Habermas, in fondo, sta difendendo
un certo concetto di essere umano.
In questa luce, potremmo pensare di rispondere alla
sua difesa e affermare, ad esempio, che le attività e le
tecniche che egli discute, come la diagnosi preimpianto
e il consolidarsi di nuove aree di scelta nella sfera della procreazione, non stanno dissolvendo il concetto di
essere umano, ma lo stanno trasformando in direzioni
che troviamo buone, che costituiscono dei miglioramenti. Noi riflettiamo su cosa significa vivere con il concetto
di avere figli legato alla scelta e alla responsabilità delle conseguenze anziché del caso, e riconosciamo che la
260
Piergiorgio Donatelli
vita con questo concetto di procreazione è un bene. Può
sembrare che la possibilità di intervenire agli inizi della
vita dissolva il carattere speciale della procreazione e la
sposti inevitabilmente nell’area delle cose di cui disponiamo per il nostro interesse, dissolva cioè quel senso
di noi stessi come qualcosa di più grande delle nostre
singole scelte, che merita il tipo di rispetto di cui parla Sandel. In questo spirito, Mary Warnock ha osservato
che se pensiamo alla procreazione come a qualcosa che
ci è dovuto, in virtù delle possibilità di intervento e delle idee di autonomia e libertà, potremmo dimenticare il
vecchio senso di stupore e gratitudine che accompagna
il venire al mondo di un figlio54. Così Habermas teme
che la diagnosi preimpianto e le altre tecniche conducano ad assumere un atteggiamento da fabbricatori di un
prodotto. Questo è certo reso possibile dai cambiamenti
nei modi di nascere e dalla trasformazione della nostra
natura biologica55, ma è molto più fedele all’esperienza
delle persone riconoscere che il sentimento di rispetto e di gratitudine verso il processo della gravidanza è
conservato insieme alle nuove tecniche e alle nuove idee
morali di responsabilità e di autonomia. Ad esempio,
i genitori che si apprestano ad accedere alla diagnosi
preimpianto, vogliono evitare al proprio figlio una vita
disgraziata e considerano la diagnosi e la selezione come
parte di quel processo verso la nascita che essi avvolgono con le loro attese e con il loro senso di rispetto.
La conclusione che abbiamo tratto rafforza l’idea da
cui siamo partiti, secondo cui il pensiero morale è costituito da una paesaggio concettuale disomogeneo. I con54
M. Warnock, Making Babies: Is There a Right To Have Children?,
Oxford, Oxford University Press, 2002, trad. it. di S. Pollo con il titolo
Fare bambini. Esiste un diritto ad avere figli?, Torino, Einaudi, 2002, p.
102. Warnock prosegue: «Gratitudine a chi? A Dio o alla natura, o alla
levatrice o al dottore, o al principio della continuità e del rinnovamento
della vita stessa. Non importa. Come ho detto, però, la gratitudine non è
ciò che si prova quando tutto ciò che si ha avuto è quanto era dovuto».
55
Su questo si vedano i casi trattati da M.J. Sandel, Contro la perfezione, cit.
L’etica, l’immaginazione e il concetto di natura umana
261
cetti di autonomia e responsabilità, tradotti ad esempio
nelle concezioni kantiane e utilitariste dell’etica, hanno
contribuito a configurare il concetto di procreazione
come una nozione legata alla scelta e alla responsabilità;
ma tali concetti convivono con concetti molto diversi,
come quello di rispetto per la natura come qualcosa di
vasto e fuori dal nostro controllo (secondo l’immagine di
Williams). Il pensiero che si interroga sulla vita con questi diversi concetti o con modificazioni importanti di essi
fa parte del pensiero morale, anche se è molto diverso
dall’applicare un principio di giustizia o dal calcolare le
conseguenze in termini di interessi. È una parte del pensiero morale che procede per confronti e delucidazioni
concettuali e che chiama in causa l’immaginazione. Alcuni filosofi non vedono proprio questo spazio della riflessione morale, altri lo vedono ma lo vogliono allontanare
dalla presa del pensiero critico. In questo articolo abbiamo voluto prendere le distanze da entrambe le posizioni.
Summary. Ethics, Imagination and the Concept of Human Nature
The paper suggests that imagination may involve more than empathic identification with someone and may require the capacity to
see and experience what it means to live in a world constituted by
certain concepts. Moral thought shaped by such notion of imagination may help to understand some significant moral dilemmas in
our societies, such as those in bioethics which involve the notion
of human nature. The traditional dispute between Kantians and
Utilitarians, on one side, and defenders of a moral order inscribed
in nature, on the other, make it difficult to see that a conceptual
confrontation is taking place, which concerns different notions of
human nature and of concepts such as birth and sexuality. Moral
thought takes the form here of the defense of a certain conceptual
horizon, e.g., one in which birth is connected to choice and responsibility or another in which it is tied to the acceptance of what
happens in one’s life. Moral thought proceeds by comparisons and
conceptual elucidations and involves imagination, conceived as the
capacity to see the goods and the evils that a certain conceptual
world opens up as a possibility.
Keywords: Human Nature, Concepts, Ethics