Archivio d’Annunzio
Vol. 5 – Ottobre 2018
e-ISSN 2421-292X
ISSN 2421-4213
Gabriele d’Annunzio
«grande plagiario al cospetto di Dio»
Maria Rosa Giacon
(Università Ca’ Foscari Venezia, Italia)
Abstract After a brief illustration of the problem of plagiarism between the late nineteenth and
early twentieth centuries, the essay aims to reconstruct and analyse, with a wide-ranging text sampling, the positions of two of the leading exponents of ‘contra d’Annunzio’ in that period: Enrico
Thovez and Gian Pietro Lucini. In addition to the specific contribution on the affaire des plagiats,
in which d’Annunzio himself was involved, the essay aims to highlight the anti-plagiarism struggle
conducted by the two polemists, as a relevant episode of Italian cultural history in the early twentieth century.
Sommario 1 Plagiari e plagiati. – 2 ‘Contra d’Annunzio’: 1895-1914. Investigazioni, inchieste,
‘processi’. – 3 Dalle battaglie alla guerra: Antidannunziana di Gian Pietro Lucini.
Keywords Plagiarism. Enrico Thovez. Gian Pietro Lucini. Essayism. Italian Culture.
Judice non opus est nostris, nec vindice libris:
Stat contra, dicitque tibi tua pagina: fur es
(Marziale, Epigrammata)
1
Plagiari e plagiati
«L’albero del plagio non ha mandato mai come ai giorni nostri rami sì
ubertosi; esso pare trapiantato nella terra di Canaan», lamentava nel 1902
Alberto Lumbroso;1 gli avrebbe fatto eco Domenico Giuriati: «l’Autore è
venuto nel convincimento che ai tempi nostri il plagio sia cresciuto tanto
per la diffusione quanto per la malizia».2 E attestazioni di tal genere sarebbero molteplici. Se invero nel corso dei secoli si era visto un gran numero
di api suggere «flores ad mel faciendum idoneos», all’uscita del XIX sem-
1 Da Scaramucce e Avvisaglie, un confuso regesto di Plagi, imitazioni e traduzioni tuttavia
storicamente interessante: cf. Lumbroso 1902, XVIII.
In apertura a Il plagio, preziosa raccolta di testimonianze relative alla storia del plagio
anche in senso giuridico: cf. Giuriati 1903, VII.
2
DOI 10.30687/AdA/2421-292X/2018/05/002
Submission 2018-03-08 | Acceptance 2018-05-10
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bravano predominare piuttosto le formiche, che, senza troppi riguardi per
nessuno, si accaparravano «le grain entier».3 Altrimenti, il consolidarsi del
moderno mercato librario, il diffondersi su scala industriale delle opere
dell’ingegno e il loro circolare di paese in paese attraverso la pratica, non
sempre rispettosa, della traduzione non erano bilanciati dalla presenza di
un’adeguata legislazione, né nazionale né internazionale, a tutela degli
autori e degli stessi editori. Sempre più frequenti, pertanto, erano divenuti
i casi di pirateria sia come plagio che come contraffazione. È vero che a
partire dal secondo Ottocento molti erano stati gli studi, i trattati e i regesti
esplicativi su tale materia da parte di insigni giuristi ed economisti europei
e anche americani,4 ma gli apporti individuali non potevano porre rimedio
al vuoto legislativo interno alle nazioni e alla stessa comunità internazionale. E del resto ancora in corso di accadimento, o troppo recente perché
se ne potessero cogliere i frutti, era la celebrazione dei Congressi di Parigi
(1900), Vevey (1901), Berlino (1908), che, sulla spinta della Convenzione
di Berna (1886), affrontarono la spinosa questione della proprietà artistico-letteraria e del diritto d’autore.5 Indubbia, fra questi incontri plenari,
l’importanza del Congresso di Parigi ove «per la prima volta si proclamò
il diritto morale degli autori alla intangibilità dell’opera loro, indipendentemente da qualsivoglia considerazione di danno materiale o di utile pecuniario» (Giuriati 1903, 106). Tuttavia, se con ciò si riconosceva il carattere
inalienabile della proprietà intellettuale, non veniva propriamente risolto
il problema del plagio. Diversamente dal caso della contraffazione, misurabile appunto in termini di «danno materiale», quell’impalpabile «diritto
morale» non si prestava né a misurazione né a quantificazione di sorta.
Come valutarlo pertanto? O come giudicarlo? «Donde», lamenta il Giuriati,
«una varietà sterminata di criteri» e di «eccezioni» assolutrici. Soprattutto
in Italia, dove «è più facile commettere il plagio a man salva [...] che [...]
ristabilire il buon diritto a prò de’ poveri plagiati» (Giuriati 1903, 90). In
breve, tra la fine dell’Ottocento e l’ingresso nel nuovo secolo, il plagio
poteva dirsi costituire, specie nel mondo delle lettere nostrano, una piaga
sociale: certo non peggiore delle molte che affliggevano l’Italia umbertina,
Dal celebre luogo di Seneca, Epistulae morales ad Lucilium, 84.3, a sua volta memore
delle Georgiche virgiliane (4.163-164); la similitudine delle formiche ‘plagiarie’ è invece
tratta da Charles Nodier, riportante a sua volta il celebre detto del Lamothe-La-Vayer: cf.
Nodier 1812, 4.
3
Per un tracciato degli apporti recati in materia di plagio da studiosi italiani e soprattutto
stranieri, cf. Giuriati 1903, 101-43.
4
Per un quadro complessivo si veda la dettagliata ricostruzione dello studioso coevo
André Petit (cf. 1911). Quanto alla Convenzione di Berna, essa aveva stabilito per la prima
volta il riconoscimento reciproco del diritto d’autore tra i paesi aderenti. Sulle sue ripetute
revisioni sarebbe finalmente sorta l’«Unione Internazionale per la protezione delle opere
letterarie e artistiche» (Berna, 1914). Ma la difficoltà d’una efficiente regolamentazione
legislativa continuerà ad emergere sino ai giorni nostri.
5
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una piaga, tuttavia, per coloro che, sprovvisti di speciali doti e fortune, dovessero sbarcar lunario affidandosi alle opere del loro ingegno. Era allora
naturale che un astro abbagliante, dotato non d’ingegno solamente, ma di
genio e inarrivabile maestria; provvisto (perché no?) d’infallibile fiuto di
mercato e capace di tradurre ogni suo costume in opportuna réclame; oggetto d’adorazione del pubblico di ambo i sessi, fosse ammirato, invidiato,
guardato con sospetto. Tanto più che siffatto monstrum era indotto, dalla
sua «prepotente personalità artistica»,6 a rispecchiarsi nell’opera altrui
con un moto di spontanea (almeno in prima istanza) adesione sensoriale,
sì da appropriarsene con spregiudicata innocenza, improntando la materia
assunta di un’orma propria e originale. Tuttavia, nel contesto dei tempi,
tal genere di appropriazione spesso non fu inteso nella sua effettiva luce,
bensì confuso con i tanti casi di pirateria ai danni di scrittori o di opere
poco noti, e con l’aggravante della sproporzione tra le forze in campo. Tale
dunque la vicenda in cui incorse il ‘superplagiario’ d’Italia e forse d’Europa
Gabriele d’Annunzio.
2
‘Contra d’Annunzio’: 1895-1914. Investigazioni, inchieste,
‘processi’
2.1 La Gazzetta Letteraria e le battaglie di Enrico Thovez
D’Annunzio, è ben noto, s’era rivolto oltralpe sin dagli anni giovanili, strutturando il proprio alfabeto narrativo sulla lezione del realismo e naturalismo francesi. Da Terra vergine (1882, 1884) al Libro delle vergini (1884),
egli avrebbe prestamente attraversato Verga ricorrendo a Zola e a Flaubert. Ciò non era sfuggito ai più attenti recensori di quelle prime raccolte,7
e sebbene allora non si notasse il grosso debito del San Pantaleone (1886)
nei confronti di Maupassant,8 è pur vero che, a voler parlare di ‘plagio’,
vi sarebbe stata ampia materia. Ma le critiche, generalmente benevole,9
furono mosse tutt’al più sul piano dello stile ritenuto eccessivamente in-
Celebre definizione crociana, sulla quale si ritornerà in seguito (§ 2.2), riportante l’eco
della polemica sui ‘plagi’ dannunziani a proposito del San Pantaleone: cf. Croce 1904a, 14.
6
Quali Ugo Fleres e soprattutto Guido Mazzoni, che rilevarono varie reminiscenze zoliane
e flaubertiane: al riguardo cf. Giacon 2014, 46-7.
7
A causa della recenziorità delle novelle maupassantiane uscite pressoché a ridosso di
questa terza raccolta. Per tali emprunts di d’Annunzio, cf. in special modo Tosi 1981, 59-69,
mentre, per un quadro ricostruttivo aggiornato, cf. Giacon 2016, 134-8 e 157-9.
8
Di simile intonazione furono anche le recensioni del Libro delle Vergini e del San Pantaleone comparse sulla Gazzetta Letteraria, che nel seguente decennio diverrà l’organo ufficiale
del «contra d’Annunzio». Per questo riferimento e i successivi all’attività della rivista, si
veda Mirandola 1970, 298-324 (300, per il ragguaglio su riportato).
9
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franciosato. Benché, dunque, l’affaire dannunziana fosse nell’aria già sul
finire degli anni ’80,10 si sarebbe dovuto attendere il decennio successivo
perché essa acquistasse effettiva consistenza con l’accostamento sempre
più frequente del poeta e del romanziere agli autori stranieri, e nell’ospitalità compiaciuta che talune riviste riservavano al tema del plagio.11 A dar
corpo alla nouvelle vague mancava soltanto una figura dotata di buone
letture e singolare acribia. E tale sarebbe stato il ruolo di Enrico Thovez,
qualche anno dopo, sulla Gazzetta Letteraria. Condizionata da un forte
moralismo che la privava di critico respiro, nel 1895 la rivista dava segni
d’una certa stanchezza, ben visibili nello scarso mordente della polemica
mossa al niccianesimo delle Vergini delle rocce. Ma a ravvivare gli spiriti
della Gazzetta avrebbe presto provveduto quel ventiseienne collaboratore,
il maggiore esponente italiano del ‘contra d’Annunzio’ di fine secolo. E fin
dal suo primo intervento: La farsa del Superuomo, comparsa il 7 dicembre
1895 (Thovez [1895] 1921, 22-31). Muovendo appunto dall’ultima veste
del trasformismo dannunziano, questo giovane colto e feroce aveva buon
gioco a prendersela col già noto autore del Roman russe (1886), Melchior
de Vogüé, che di recente salutava nel Pescarese il rappresentante del
rinato genio latino.12 L’infelice visconte veniva tacciato (fra le varie) di
affermare «spropositi» (26) e anche di un atteggiamento di superiorità,
tipico della «Francia più progredita e schifiltosa» (28), nei confronti del
nostro «pittoresco» (27) Paese. E però qui stava il punto: dimostrando
che la renaissance latine era un’invenzione uscita dalla pura testa del de
Vogüé, Thovez sottolineava la falsità stessa dell’opera di d’Annunzio: come,
in particolare, la «colossale facezia del Superuomo» altro non fosse che
«un audace colpo» di penna per aggiornare la fiera delle proprie immagini
e ammantare di qualche idealità un’assoluta «mancanza di senso morale» (24). Erano le premesse dell’imminente denuncia plagiaria: il cinico
asservimento alle strategie di mercato e la mancanza di sincerità dell’ispirazione costituiranno il principio costantemente sotteso alla disamina
dell’opera di d’Annunzio negli interventi, incentrati sull’accusa di plagio,
del gennaio e febbraio 1896.
Quando Tito Allievi rilevò sulla Gazzetta il plagio della lirica del Tommaseo Gl’Italiani
morti in Ispagna nell’ode Per gl’Italiani morti in Africa del nostro poeta: cf. Allievi 1887, 79.
10
Come la Cronaca d’Arte di Milano, che il 1° febbraio 1891 pubblicava uno scritto del
Pagliara, «Per la storia dei plagi», denunciante la presenza di prelievi verlainiani nell’Isottèo
(cf. Giuriati 1903, 80-1); derivazioni da Verlaine e Banville, Goethe e Shelley verranno
segnalate, per le Elegie Romane, sulla Gazzetta Letteraria nel luglio dell’anno successivo
(cf. Bolognese 1892), mentre l’eccessivo peso dei narratori russi sul d’Annunzio dell’Episcopo e dell’Innocente era stato poco prima commentato dal Capuana sulla Tavola Rotonda
(in Scuderi 1972).
11
12 Con un cospicuo articolo comparso sulla Revue des Deux Mondes del 1° gennaio: cf.
de Vogüé 1895. Di sicuro interesse è anche la recensione che il de Vogüé avrebbe dedicato
alle Vergini delle rocce, in de Vogüé 1898.
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Il nugolo di anatemi dei ‘d’annunzietti’ a seguito della Farsa del Superuomo non tratteneva infatti Thovez dal condurre una minuziosa aratura
della poesia dannunziana edita sino ad allora (L’arte del comporre di Gabriele d’Annunzio, 4 gennaio 1896, in Thovez [1986a] 1921). Ironizzati ora
come «traduzioni», ora «derivazioni», ora (fuor di antifrasi) «copiature», i
tanti ‘corpi di reato’ sparsi nella lirica del Pescarese, dall’ode Per gl’Italiani
morti in Africa all’Intermezzo, dall’Isottèo-Chimera alle Elegie romane,
dal Poema paradisiaco alle Odi navali, sfilavano associati, con puntuale
campionatura, ai nomi e ai luoghi dei loro creditori: il Tommaseo degli
Italiani morti in Ispagna;13 il Flaubert della Tentation de Saint Antoine,
dell’Hérodias, di Madame Bovary e del meno noto Novembre; il Baudelaire
di Calumet de paix, che il poeta francese aveva, «Poveretto!», onestamente
dichiarato «imité de Longfellow»; Shelley nella traduzione francese del
Rabbe; il Maeterlinck delle Serres chaudes; il Verlaine di Sagesse;14 il
Mendès dei Soirs Moroses; Whitman con l’ode in morte del presidente
Lincoln. In realtà, condizionata da un forte moralismo, l’intelligenza critica
di Thovez non poteva ammettere che alla sconcertante puntualità materiale di simili prelievi si accompagnasse una veste straniata che li rendeva
come irriconoscibili: segno dell’alto grado di re-invenzione del ‘plagiario’.15
Nel successivo (18 gennaio 1896) I fondi segreti del Superuomo e il
mistero del nuovo Rinascimento, non pago del dileggio cui già l’aveva
sottoposto, il critico torinese ritorna al de Vogüé per versargli addosso
una buona razione di acido supplementare. Perché, se al vicomte le origini
del neo-nato Rinascimento erano rimaste «occulte nella nebbia che vela
le nascite divine», egli, Enrico Thovez, era ben in grado di palesarle (Thovez [1896b] 1921, 48). Difatti, seguendo lo stesso metodo del confronto
ravvicinato, il critico veniva esibendo un gran numero di passi del Piacere
puntualmente mutuati dall’Initiation sentimentale (1887) di cui d’Annunzio
s’era avvalso in numerosi riferimenti pittorici e nel clima di pruriginosa
mondanità del romanzo. Insomma, quel «Povero rettorico signor de Vogüé»
aveva scambiato «per una polla genuina di italianità intatta l’articolo di
Parigi camuffato all’italiana!» (49). A onor del vero qui a Thovez non si
può dare torto del tutto, dovendo riconoscere che le abilità di montaggio intertestuale dell’esordiente romanziere non erano ancora affinate al
punto da governare un quadro di tanto complesso eclettismo come quello
13
Cf. supra nota 11.
14
Thovez [1896a] 1921, 41, cita infatti i primi due versi della lirica Beauté des femmes.
15 O, adattando al caso d’Annunzio una classica definizione, «Siamo di fronte a un testo
che, nel suo costituirsi, ha come caratteristica genetica [...] la capacità di ‘assorbire e distruggere nel medesimo tempo gli altri testi dello spazio intertestuale’»: cf. Kristeva 1978,
210. Il riporto è già in Bertazzoli (2016, 24), ricostruzione teoricamente aggiornata del
modus operandi di d’Annunzio in rapporto alla materia delle fonti.
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del Piacere.16 In effetti, nel caso degli imprestiti da Péladan la fatica di
assimilazione del giovane d’Annunzio era riuscita solo in parte, risultando
essi privi di quel tono originale che Croce e Borgese avrebbero affermato
per la generalità degli emprunts dannunziani.17
Nell’ultimo intervento, Le briciole del superuomo (29 febbraio 1896,
in Thovez [1896c] 1921), Thovez andrà completando il corredo delle sue
denunce con l’aggiunta di fonti significative. Fra le varie, contano soprattutto le derivazioni dal Flaubert di Un cœur simple di cui il nostro conteur
s’era avvalso negli Annali d’Anna; o da Maupassant, che aveva ‘imprestato’
all’Innocente non solo l’episodio dell’Usignuolo,18 ma anche, con «La Confession» (Toine, 1885), il nucleo ideativo dello scioglimento del romanzo.19
Inoltre, nei raffronti ravvicinati del critico torinese si rendeva evidente
la fruizione delle novelle «L’Abandonné» e «La ficelle»20 rispettivamente
nella «Siesta» e nella «Fine di Candia» del San Pantaleone; né mancava,
in riferimento all’Idillio della vedova, un richiamo all’Alexis di Après la
bataille.21 Quanto agli Annali d’Anna, la derivazione da Flaubert era già
ben nota, ma sarebbero proprio i fitti riscontri comparati di Thovez a porre
in luce, oltre alla ripresa di dettagli descrittivi, la trasposizione di snodi
diegetici rilevanti. In merito a Maupassant, anche in tal caso non tutto
era farina di Thovez, l’emprunt della «Confession» avendo già sollevato
certo scalpore in Francia (cf. § 3), mentre la derivazione dal rossignol
maupassantiano era stata poco prima segnalata da Emilio Toscano nello
scambio di battute, anche su posizioni diverse, che le rivelazioni di Thovez
andavano suscitando sulle colonne della rivista.22 Diversamente, vi è da
osservare che, in anticipo sui rilievi di Édouard Maynial (cf. 3) e di Alberto
Lumbroso (1905, 519-42), al giovane critico sarebbe spettata, in contesto
16
Per l’eclettismo derivazionale del Piacere, cf. Giacon 2016, 139-41.
Circa il Croce, cf. il seguito del testo. Lapidaria, quanto efficace, l’osservazione del
Borgese: «Il d’Annunzio ha rubato spunti, materie, strofe, periodi, situazioni, tutto fuorché
l’intonazione; ed è il tono che fa la canzone» (Borgese 1909, 124).
17
18
Riecheggiante la novella «Une partie de campagne» (La Maison Tellier, 1881 e 1891).
Ovvero l’assassinio di Raimondo. Il protagonista della «Confession» si sbarazzava del
figlio avuto dall’amante esponendolo all’aria invernale: in tal modo Hermil avrebbe ucciso
il figlio di Giuliana.
19
20
Uscite rispettivamente nelle raccolte Yvette (1885) e Miss Harriet (1884).
21 «Après la bataille» era comparso nelle Soirées de Médan (1880), antologia dei migliori
risultati del conte naturalista. Successiva a Thovez è invece la scoperta che, grazie ad un
abile intassellamento, il racconto di Alexis si contamina con il maupassantiano «Le regret»
(Miss Harriet, 1884).
Come nel caso di Mario Pilo, che sulla Gazzetta del 7 marzo mediava un po’ le cose:
se il plagio va assolutamente condannato, del d’Annunzio bisogna tuttavia riconoscere «il
forte ingegno di cui è dotato, la tempra d’artista, la spiccata originalità»: cf. Pilo 1896, [1].
Per la segnalazione dell’emprunt dell’Usignuolo, cf. invece Toscano 1896.
22
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italiano, l’attestazione della presenza di Maupassant entro le novelle del
Pescarese. E così, in modo alquanto paradossale, un’azione finalizzata alla
denuncia della frode plagiaria avrebbe finito per rendere un buon servizio
alla storia dell’intertestualità dannunziana.
Oltre a ciò, le Briciole presentano un notevole interesse d’ordine storico,
immettendo nel cuore di un acceso débat. Si trattava dell’inchiesta ‘processuale’ promossa dal «Capitan Cortese» che nelle rivelazioni di Thovez
aveva trovato occasione per un ottimo scoop: «potranno le accuse mosse
a D’Annunzio intaccare il valore della sua grande produzione?» (Giuriati
1903, 22-3). A seguito di tale quête, che non fu la sola,23 avveniva che
l’accusatore, trasformatosi in accusato («se i plagi vi sono la colpa è di
Thovez, il quale ha fatto male a rilevarli»...),24 sentisse la necessità di difendersi: egli non aveva certo inteso demolire il valore artistico dell’opera
dannunziana, bensì «protestare (questo sì, adesso e sempre) [...] contro
un’arte che sotto l’enfatico culto della bellezza nasconde la corruzione
intellettuale e la miseria del cuore» (Thovez [1896c] 1921, 91-2). Essere
perciò accusato di denigrazione e persino d’opportunismo («insinuare il
suo nomuccio su qualche giornale di Francia e d’Italia»)25 era a suo sentire
una vera e propria iniquità. In buona sostanza si trattò d’una gran brutta
faccenda, di cui avrebbe fatto le spese non tanto d’Annunzio, quanto l’incauto giornalista, perché sparare contro quel colosso era come andare
a caccia di «elefanti con carabine da bersaglio» (Mirandola 1970, 308).26
2.2 Altre battaglie di Enrico Thovez: il débat con Benedetto Croce
La sostanziale rettitudine del polemista torinese trova sicura conferma
nel Pastore, il Gregge e la Zampogna (1910), raccolta di scritti illustranti
una formazione estetico-letteraria ben radicata nella classicità e, modernamente, nel Romanticismo italiano e tedesco quanto nella lezione del
Carducci. Da qui Thovez aveva estratto e consolidato la sua visione di
23 L’esempio del «Capitan Cortese» sarà subito colto da un «referendo» promosso dalla
«Domenica Letteraria», cui prenderà parte anche il giovane Lucini (cf. § 3).
24 Una dettagliata ricostruzione dell’evento si legge in Giuriati 1903, 22-35. Lo studioso
riporta, non senza lepida ironia, le diverse risposte fornite dal «senato» degli «intelligenti»
interpellati (Giuriati 1903, 24).
25 Così Ugo Ojetti in Thovez [1986c] 1921, 73. Accuse del tutto analoghe, mosse da Diego
Angeli, Luciano Zùccoli e da altri ancora, si leggono sempre in Thovez ([1896c], 1921, 73,
92, 93-4); il medesimo riporto è in Giuriati 1903, 24-6.
26 V’è da aggiungere che lo scrittore torinese avrebbe fatto le spese della propria franchezza qualche anno dopo, sempre sia vero quello ch’egli dichiarerà rammentando il suo
esordio poetico del 1901: se il Poema dell’adolescenza era stato oggetto di feroci stroncature,
ciò sarebbe dipeso da quella polemica antidannunziana (Thovez 1910, 341-2).
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poesia quale frutto di un’ispirazione motivata e profonda, espressione
sincera del più intimo sentire, com’egli aveva ribadito nelle sue battaglie
antidannunziane sulla Gazzetta e cercato di realizzare in proprio nella
sperimentazione stilistica e metrica del Poema dell’adolescenza (1901).27
In senso metrico, precisamente, egli ora avrebbe dichiarato piena ammirazione per il magistrale ardiri di cui d’Annunzio aveva dato prova nella
Laus vitae, definendola, in accordo col giudizio di Borgese, il «maggior
sforzo di ingegno che dalla Divina Commedia in poi sia stato compiuto nella
poesia italiana» («Laus vitae», in Thovez 1910, 348).28 Ma se in tal modo
veniva affermata la grandezza dell’artifex, nulla era mutato nel giudizio
di Thovez sul poeta ‘a mosaico’: gli imprestiti dannunziani testimoniavano tutta la falsità d’ispirazione d’una poesia di parole, non di «cuore», e
per ciò incapace della «potenza emotiva e persuasiva del vero e legittimo
capolavoro» («Il Camaleonte», in Thovez 1910, 185). Un’aporia ‒ ché, condannandone la pratica, si sminuiva anche l’artefice ‒ sicuramente dovuta
a debolezza d’ordine critico. Simile insufficienza si rende evidentissima
nei saggi della raccolta dedicati al tema plagiario. Viziati da un moralismo affatto anacronistico, nelle ripetute accuse di trasformismo e «falsità
sentimentale» (cf. «La truffa del sentimento», in Thovez 1910, 206-8), tali
scritti azzardano un incauto débat con Benedetto Croce, che nel maggio
1909 aveva pubblicato sulla Critica la prima puntata delle «reminiscenze»
dannunziane. In particolare, il saggio «Il tuo e il mio», già sulla Stampa
nel luglio 1909 col titolo «Il ragionamento di don Ferrante», s’incentra
sugli interrogativi che, a parere dell’autore, Croce aveva lasciati irrisolti.
Quali lumi alla «verità estetica, logica e morale sul plagio» aveva mai
fornito l’olimpico filosofo? (Thovez 1910, 194). Nessun lume, bensì un
dilemmatico rompicapo: «‘Quando l’opera [d’arte] c’è, non si risolve nelle
sue fonti; e quando si risolve, l’opera d’arte non c’è’» (196).29 E inoltre, per
la definizione del fenomeno, qual vantaggio si ricavava dall’affermazione
che il plagio riguarda non la letteratura, ma la sola morale essendo una
«‘falsificazione della verità storica’»? (202-3).30 S’intende come le categorie del giudizio estetico crociano sfuggissero completamente a Thovez,
Riguardo all’innovazione metrica tentata da Thovez, che lascia presentire il verso
libero, cf. Bertoni 1995, 215-25.
27
Borgese 1909, 139-41 infatti vedeva in Laus vitae il capolavoro delle Laudi per la piena
rispondenza tra inventio ed elocutio.
28
29 È il celeberrimo passo in cui il filosofo motivava la rassegna Reminiscenze e imitazioni:
«Un’opera letteraria è tale, perchè ha una nota propria, originale, nuova; studiarla nelle
sue fonti [...] vale, dunque, andarla a cercare dove essa non è [...]». E tuttavia «il richiamo e
l’indicazione delle fonti adempie anche, talvolta, un ufficio utile, quando serve al comento
dell’opera»: cf. Croce 1909a, 165-6.
30 Per la distinzione crociana tra piano letterario e morale circa il concetto di plagio, cf.
Croce 1903, 468-70.
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che, accanendosi sulle sue datate proposizioni, tornava a rammentare i
plagi della lirica del Tommaseo e delle novelle del Maupassant: dov’era in
simili «ruberie» quella «‘nota […] originale’» di cui discorreva il filosofo
riconoscendola in d’Annunzio? Altro argomento, cioè, egli non trovava che
rammentare: l’«elemento fondamentale del plagio» è «l’elemento furtivo»
(201),31 e d’Annunzio ne aveva dato prova trascegliendo autori od opere
in Italia poco noti. Infine, resta da richiamare il saggio, peraltro d’indubbia suggestione, «Il Camaleonte». Fraintendendo gli argomenti di Croce sull’artista «dilettante di sensazioni», Thovez qui s’appellava al locus
communis della «vitalità [...] puramente sensuale», o della ‘freddezza di
cuore’ di d’Annunzio per negare al poeta l’esistenza del «calore intimo di
una fiamma interiore» (182-3).32 Tuttavia, anche così fosse stato, ciò nulla
avrebbe tolto al potere di rifusione-creazione della fucina di d’Annunzio.
Se questi, come voleva Thovez, attingeva «all’esterno» le «categorie più
alte delle sensazioni e delle emozioni», non era certo per l’assenza d’«un
organo centrale di sensibilità e creazione» (182), per l’eccesso, invece,
o la prepotenza (come intendeva Croce) delle spinte che da quell’organo promanavano risolvendosi, empaticamente, nella materia assunta. Da
qui – anche nel caso dei ‘plagi’ pertanto – sarebbe uscita la «nota propria,
originale, nuova» cui si riferiva il filosofo.
3
Dalle battaglie alla guerra: Antidannunziana
di Gian Pietro Lucini
«On le crut fini» scriveva nel 1908, riferendosi a «le scandale des plagiats»,
Filippo Tommaso Marinetti. E d’Annunzio, benché avesse pur avuto i suoi
fastidi, ne era uscito egregiamente: in virtù della fortuna, che gli aveva
dato per nemici «un jeune inconnu et une pauvre petite revue» (Marinetti
1908, 102), e anche del suo magnifico aplomb, che certo l’aveva aiutato a
fronteggiare gli attacchi congiunti della stampa italiana e francese. Infatti,
anche nella nazione cui doveva la propria fama sul piano europeo e una
bella fetta del suo mercato, egli era stato criticato e in più occasioni: dalle
31 Al critico, dunque, che nel suo Ragionamento lo accusava di aver trascurato «l’elemento furtivo» del plagio, proprio come l’erudito secentesco l’evidenza della peste, il filosofo
avrebbe risposto nel novembre successivo con una «Noterella polemica» premessa alla seconda rassegna delle Reminiscenze: «intorno alla questione del plagio, scrissi già, nel primo
anno di questa rivista, provandomi a definirne esattamente i termini» (Croce 1909b, 425).
Su questi luoghi della vulgata antidannunziana, Croce s’era pronunciato nel 1904,
evidenziando come «l’asserita freddezza del d’Annunzio» rispondesse all’«atteggiamento
di un originale spirito contemplatore, il cui fervore è tutto concentrato nell’opera stessa
della contemplazione » (Croce 1904a, 2).
32
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accuse di plagio riguardanti L’Intrus (1893) e L’Enfant de volupté (1895)33
agli articoli accablants che Gaston Deschamps pubblicava su Le Temps a
seguito delle denunce di Enrico Thovez.34 A tali attacchi che gli venivano
mossi dal cuore di France la douce non si può credere che d’Annunzio
fosse rimasto indifferente.35 Dinnanzi a simili accuse egli sempre protestò la propria innocenza nell’intima persuasione che i materiali prelevati
fossero di ben poco conto rispetto alla virtù di ‘transustanziazione’ del
suo genio creatore. Il fatto, però, che sentisse la necessità di difendersi
con una «Lettre» sul Figaro appellandosi ai principi del Banville è chiara
testimonianza del suo disagio.36 D’altro canto, dopo l’ultimo intervento di
Thovez sulla Gazzetta, la fase più violenta della tempesta di fine secolo era
in via di esaurimento. La polemica sulla rivista torinese sarebbe sì continuata per buona parte del ’96, ma sempre più stancamente, suscitando le
perplessità dei lettori più avvertiti.37 Di conseguenza, anche oltralpe gli
echi più accesi andranno via via spegnendosi. È significativo che, già ben
prima dell’importante contributo di Lucien Duplessy sulle sources di Gabriele d’Annunzio (Duplessy 1927, 345-65), Édouard Maynial prendesse in
esame gli emprunts maupassantiani delle Novelle della Pescara per mezzo
di modalità comparative sottratte ad ogni carattere accusatorio (Maynial
1904, 289-315). A dispetto di taluni codazzi polemici,38 la quête sui plagi
Ossia L’Innocente e Il Piacere in veste francese, con emprunts rispettivamente da Maupassant (cf. § 2.1) e da Bourget. Della riprovazione dei critici francesi si coglie testimonianza
nel carteggio del poeta col traduttore Georges Hérelle: si vedano Cimini 2004, 320, 138-9,
e, per un riporto commentato, Giacon 2014, 55-6.
33
Avvalendosi, ma anche con certa infedeltà, degli scritti del critico italiano, il Deschamps dava grande spicco ai prelievi dal Péladan che, diversamente dall’edizione francese del
Piacere, erano stati mantenuti nella veste italiana del 1894. Per gli articoli del Deschamps
(26 gennaio e 2 febbraio 1896), cf. Maurevert 1922, 248-9. Nella sua ampia rassegna dei più
grandi plagiari francesi, l’autore faceva eccezionalmente spazio a d’Annunzio: cf. il saggio,
breve ma significativo, «Gabriele d’Annunzio, écrivain italo-français» (247-57).
34
Prova ne sia la Lettre che Remy de Gourmont inviava al nostro poeta nell’aprile del 1896.
Dopo aver investito d’un giudizio sprezzante la figura di Gaston Deschamps («Ce critique
n’a aucune autorité parmi nous», giacché «[n]aturellement amorphe»), l’illustre letterato
provvedeva a rassicurare d’Annunzio: «Pour ce que l’on vous reproche? Non; c’est si peu de
chose [...] | N’ayez pas de chagrin d’un tel malentendu et croyez vous que si nous goutâmes
les autres en vous, nous y goûtons aussi vous-mêmes, et avec moins de défiance que vous
ne pourriez le supposer» (de Gourmont 1903, 35 e 38; corsivo aggiunto).
35
36 Nei tempi più vicini a d’Annunzio, Banville era stato, insieme ad Anatole France, un
appassionato fautore del diritto di plagio. Nella celebre «Lettre» pubblicata sul Figaro il
1 febbraio 1896 e indirizzata ad André Maurel, d’Annunzio attingeva a piene mani a «Le
Plagiat» delle Lettres chimériques: cf. d’Annunzio 1896, 3, poi in Andreoli 2003.
Quali Francesco Gaeta, che metteva in guardia i detrattori dannunziani da risibili forme
di notomizzazione testuale in luogo d’una considerazione estetica complessiva (Gaeta 1896).
37
Come l’attacco a sfondo osceno di Camille Pittolet a proposito dell’usignolo dell’Innocente: cf. Pitollet 1920.
38
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dannunziani poteva dirsi pressoché giunta a termine, in Italia come in
Francia, all’ingresso del nuovo secolo.
Antidannunziana di Gian Pietro Lucini venne pertanto alla luce quando
non solo il fervore polemico s’era ovunque attutito, ma anche le circostanze generali erano divenute delle più infauste. La prima parte dell’opera,
«D’Annunzio al vaglio della critica», fu edita nel 1914 a pochi mesi dalla
morte dell’autore e dallo scoppio in Europa del conflitto mondiale: fattori
che fecero sì che non se ne potesse pubblicare la seconda, «D’Annunzio al
vaglio dell’Humorismo», già pronta per la stampa in tutt’uno con lo scritto
Antimilitarismo.39 Di seguito, l’entrata in guerra dell’Italia e la celebrazione di d’Annunzio come eroe della Patria avrebbero privato la sezione già
edita di rinomanza; l’inedita, poi, avrebbe dovuto attendere gli anni ’70 del
secolo scorso per venire alla luce grazie alle note cure di Edoardo Sanguineti (1989). In breve, come nel caso di buona parte dell’opera luciniana
che, vivo il poeta, pochi riconoscimenti rispetto ai suoi meriti riscosse presso la critica, anche il forte messaggio morale, ideologico ed estetico di
Antidannunziana sarebbe rimasto inascoltato e come fuori tempo. Un’indubbia perdita per la nostra cultura protonovecentesca, giacché Antidannunziana costituisce, insieme al Verso Libero,40 uno sforzo teorico di notabile portata e indubbiamente superiore ad ogni precedente intervento
‘contra d’Annunzio’. Beninteso, essa ha tutt’altro che il dono della chiarezza. Raccolta di scritti vari, fra i quali un gran numero da parte di poeti,
critici e studiosi coi quali lo scrittore si confronta o polemizza; saggi, dunque, sia editi che inediti, disposti sul doppio registro di note copiosissime
e contrassegnati dall’intrudersi dell’autore entro il corpo citazionale, Antidannunziana esibisce i tratti d’affascinante disorganicità caratteristici di
questo artista geniale e immaginoso: non una struttura compatta, bensì un
labirintico «cibreo di notizie», di «giudizii [...], e di glosse industriose»,
come l’autore stesso ebbe a dichiarare nella vivace fictio dialogica coll’hypocrite lecteur (Lucini 1914, 34).41 Indubbiamente, alcune coordinate
di tanta materia non sono nuove: in comune col Thovez i principi oppositi-
39 Espressione dello spirito ribelle di Lucini, tale scritto fu reso inattuale dallo scoppio
della guerra e «buttato al macero» (Baldassarri 1974, 16). In realtà, come sul piano letterario, molto complesso e infine ingannevole è inquadrare questo scrittore in un movimento
di pensiero politico, anche se punti fissi rimasero lo spirito antimonarchico, fortemente
legato a Mazzini, e anticlericale. Di tale posizione libertaria si colgono chiari i riflessi in
Antidannunziana.
Uscito nel 1908 presso le Edizioni futuriste di «Poesia», questo «monstrum della [...]
saggistica primonovecentesca» (Ferro 2008, XXXI; corsivo nell’originale), dal respiro criticamente irriducibile e costantemente in progress, lievita di continuo nelle pagine di Antidannunziana.
40
41 Il lungo dialogo con «Tizio», nella premessa all’opera datata «20 agosto 1912». A tale
anno, attestato in più luoghi di Antidannunziana, sembrano dunque risalire l’inizio della
raccolta dei materiali e la composizione delle note: cf. Lucini 1914, 57.
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vi all’arte di d’Annunzio quali la poesia come espressione di sincerità e
fonte di «commozione» per il lettore;42 la crescita civile che da tal mezzo
consegue; l’affermazione che la mens dannunziana, scarsamente dotata di
capacità speculativa, non sa produrre concetti nuovi. Tuttavia, rispetto al
saggista torinese, si scorgono alcuni significativi distinguo, a partire dal
riconoscimento della maestria dell’artefice d’Annunzio, che, oggetto in
Thovez di sicura ammirazione, qui suona riduttivo e sottoposto a lapidaria
confutatio: «verrò a riconoscerne l’ingegno grande e l’attitudine maestrevole [...] di maneggiare tutto che si presta all’arte delle parole: ma la sua
erudizione [...] non ha fatto corpo colla sua emozione [...]; dà imagine lucida [...]; ma [...] non estrae un concetto vitale, una sintesi d’universalità»
(Lucini 1914, 30). In realtà, il complesso delle due sezioni di Antidannunziana configura una sorta d’autobiografia, che ricostruisce quasi passo a
passo la storia d’un ‘fratricidio’. Ché tale fu per Lucini l’attraversamento
di d’Annunzio: di gran lunga il più arduo dei numerosi, tra Scapigliatura,
Simbolismo, Futurismo, sperimentati dal poeta di Breglia, e che durò, può
dirsi, un’intera vita. Nel 1896, in un «referendo» sul valore di d’Annunzio,
il giovane Lucini pronunciava un verdetto sostanzialmente favorevole,43
come del resto Il Libro delle Figurazioni Ideali (1894) recava impressa
l’ascendenza dell’Isottèo-Chimera.44 Ma, a partire dal «contraveleno» della Prima ora dell’Academia (1898) (Lucini 1914, 18), lo scrittore lariano
scatenerà contro d’Annunzio una guerra senza frontiere. Mentre, cioè, la
stessa poesia reca in filigrana il disegno d’una incessante opposizione ideologica e stilistica all’opera del Pescarese, al «vaglio» di Antidannunziana
nessun aspetto di d’Annunzio si salva: letterario (arte come espressione
del «Conformismo» e del «Superlativo», fusi nello «Stagno della Retorica»:
Lucini 1914, 20-1; corsivi nell’originale); ideologico e politico (alleanza con
la monarchia, col nazionalismo e il colonialismo); morale (insincerità e
avidità di lucro); psicologico (egoismo, narcisismo, megalomania). E infine,
impaludato nella sua retorica insincera, d’Annunzio si palesa affatto privo
dell’humorismo, che è costume di vita e insieme di poesia: l’espandersi
generoso, partecipe del dolore altrui, d’una «coscienza in sé commossa e
riflessiva nello stesso tempo» (in Sanguineti 1989, 45; corsivo nell’origina-
«[D]esidero di commuovere rendermi, cioè, padrone della sensibilità del mio lettore,
accumunarlo alla mia passion, farlo vibrare insieme» (Lucini 1914, 35; corsivi nell’originale). Tal genere d’intenzione s’inquadra nella poetica generale dell’humorismo: cf. il seguito
del testo.
42
Sulle orme del Capitan Cortese, anche la Domenica Letteraria, di cui Lucini era divenuto
redattore, «volle illustrarsi in una specie di referendo [...]: Quale posto assegnate oggi, a
Gabriele D’Annunzio, considerato come poeta e romanziere?» (Lucini 1914, 14; ; corsivi nell’originale). La risposta di Lucini uscirà sulla rivista il 23 febbraio 1896: cf. Lucini 1914, 16-17.
43
44 Con echi ben precisi, tanto da far parlare i coevi di plagio: si vedano i rilievi di Manfredini 2005, LVII-LX, e già di Curi 1970, 199-248, 204 in particolare.
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le). Nulla di più lontano, allora, dell’eloquio dannunziano, che, «opaco all’anima, si rifiuta alla cinetica morale» (Lucini, in Sanguineti 1989, 56; corsivo nell’originale). «Così», poteva dichiarare Lucini, «mi pare oggi far
un’altra volta onore alla mia firma il dichiararmi [...]: Antidannunziano»
(Lucini 1914, 34-5; grassetto nell’originale). Si osserva dunque agire in
Antidannunziana la fortissima tensione allegorica che aveva condotto il
poeta ad incarnare in personae i temi della sua satira sociale e politica
(come gli attori dei Drami delle Maschere o di Revolverate). Maschera,
infatti, è d’Annunzio, colpito in quanto «indice e tendenza» (Lucini 1914,
35; corsivo nell’originale), vivente catalogo dei disvalori di cui l’autore
registrava il dilagare nell’Italia contemporanea.45 Se questa è la corretta
prospettiva in cui inquadrare l’antidannunzianesimo integrale dello scrittore lombardo, ciò non toglie che la critica luciniana spesso si traduca in
un attacco acre e risentito dal quale, più che l’indignazione contro la maschera, traspare la sofferenza di un artista e di un uomo, essendo incompreso il valore dell’uno e inascoltato il messaggio dell’altro. Valga per tutti da esempio il giudizio sulla metrica delle Laudi: benché ovunque se ne
esalti la novità facendone un magistrale modello di ‘verso libero’, quella
dannunziana è solo «vecchia prosodia», induttrice d’una «melopea stracca,
uniforme, senza colorito» (Lucini 1914, 177); nulla, pertanto, ha essa a che
vedere con il genuino «verso libero», il cui auctor non è certo d’Annunzio,
bensì, nella teoria come nella pratica, il polemista-poeta…46 In simile varietà di argomenti e intonazioni, il tema antiplagiario non solo occupa una
parte cospicua, ma funge, anche, da imprescindibile filo conduttore. L’accusa mossa ai plagi dannunziani è infatti l’arma con cui aggredire la concrezione più detestabile, per un poeta «humorista», della malattia morale
dei tempi: il vanto d’un successo immeritato perché conseguito con la
frode. Non a caso, la disposizione degli scritti raccolti nella prima parte di
Antidannunziana, che più interessa l’argomento plagiario, evidenzia un
crescente ricorso al leit-motiv dell’insufficienza inventivo-creativa del Pescarese. Il plagio, se ne ricava, è condizione necessaria e permanente
dell’arte dannunziana: dalla poesia al romanzo al teatro, la decantata grandezza di d’Annunzio ad altro non si deve che alla «lettura de’ suoi colleghi
di altra patria e lingua», essendo egli inetto «a creare veramente per sè e
da sè solo il pensiero e le imagini» (Lucini 1914, 48, 74). Un’insufficienza,
«La ‘critica integrale’», ossia quella praticata da Lucini, «ha come oggetto la correlazione storicamente determinata tra il ‘carattere dell’artista’ e il ‘carattere del tempo’. Il suo
strumento è precisamente la “maschera”»: Sanguineti 1989, IX.
45
46 Cf. «Del Verso Libero d’annunziano», in Lucini 1914, 169-94. Con la sdegnosa rivendicazione di tale paternità (170) fanno tutt’uno le polemiche con Onofri e con Buzzi, che non
avevano tributato al poeta il riconoscimento dovuto (169-71). La novità del verso delle Laudi
era però confutata a partire da Maia: cf. «Il gran Pan eterno immortale», in Lucini 1914,
91-119, 110-11 in particolare.
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precisa Lucini tradendo Croce ma aggiungendo un tassello alle proposizioni di Thovez,47 che si spiega coll’essere d’Annunzio un «esteta passivo»,
incapace d’elaborare la sua «emozione di sentimento» nella forma superiore dell’«emozione estetica» tipica dell’opera d’arte; avendo infatti coltivato la pratica del plagio sin da fanciullo, egli «ha abituato la sua mente a
far senza della necessaria ginnastica del creare per sè», ed è divenuto «una
pulce. Sacra pulce di letteratura, piccolo insetto parassita dell’opera altrui»
(Lucini 1914, 211 e 269; corsivi nell’originale). Tali pittoresche accuse
dovrebbero trovare conferma nella fitta prova documentale esibita nel Mastro de’ Plagi, che, assieme ai due scritti su Fedra (1909),48 costituisce il
cuore della denuncia dello sfacciato «pifferaro abruzzese» (Lucini 1914,
249). In questa sezione dell’opera, dopo un’ampia premessa sulla storia
giuridica del plagium, Lucini riporta le fonti segnalate da Thovez e da altri
estensori sulla Gazzetta, e le reminiscenze uscite sulla rivista crociana dal
1909 al 1911. Articolato in 28 lemmi, l’arco cronologico del regesto luciniano si estende da Primo vere alla Pisanelle, quest’ultima ancora «in corso di stampa e di rappresentazione».49 Salvo per il cospicuo ‘plagio’ della
Fedra di Swinburne e pochi altri riferimenti a poeti o studiosi a lui familiari,50
Lucini non produce nulla di nuovo, né pretende di farlo; la sua piuttosto
vuol essere un’organica attestazione di quella pratica ‘furtiva’ ove, e non
altrove, il poeta di Pescara troverebbe il «vantato [da Croce] tono proprio
ed originale» (Lucini 1914, 245 nota 14; corsivo nell’originale).51 E però
l’estensore del Mastro spesso incorre in notabili errori. Se l’onomastica
diffusamente scorretta e taluni svarioni memoriali dipenderebbero da frettolosità di stesura o di revisione delle bozze,52 appaiono invece ingiustifi-
47
Cf. il saggio «Il Camaleonte», in Thovez 1910, 182-3, già richiamato in § 2.2.
48 Cf. Rassegna di “Fedre” e L’Indimenticabile risciacquatura delle molte “Fedre”, rispettivamente su La Giovine Italia e La Ragione del 1909. Lucini vi denunciava con raffronti
minuziosi il cospicuo ‘plagio’ dannunziano ai danni della Fedra di Swinburne.
Ma della quale erano usciti estratti su rivista, cui Lucini si richiama nel proprio commento: cf. Lucini 1914, 229; corsivo nell’originale.
49
50 Così per Romolo Quaglino a proposito di Laus vitae, e per Umberto Silvagni su Fedra
(Lucini 1914, 223 e 227).
51
In Lucini 1914, 245 nota 14.
Segnalando qui soltanto i casi più evidenti, cf. Mastro de’ Plagi, 3. Intermezzo di Rime,
215: Song de Kiawetha (Hiawatha), e 216: E. Meynial (per Maynial, ma l’errore è già in Croce
1909, 168); 5. San Pantaleone, 216: La Regina Anna (La Vergine); 6. Isaotta Guttadauro,
217: Les Tentations [de Saint Antoine] (La Tentation [...]), ma idem in 8. Elegie romane, 219, e
in 24. La Nave, 227; 7. Il Piacere, 218: Mount Edcumbe (Edgcumbe); 9. Giovanni Episcopo,
219: Krotknia (Krotkaja), in cui errato è anche il riferimento della novella dostoevskjiana
all’Episcopo anziché all’Innocente, e il madornale «Delitto e castigo del Marmeladoff»; 10.
Poema Paradisiaco, 220: Imitation sentimentale (Initiation); 13. Le Vergini delle Roccie,
221: Guido Fortebrani (Fortebracci); 19. Laudi del Cielo del Mare…, 224: Giuseppe Cesare
Alba (scilicet Abba); 24. La Nave, 227: Salambò (Salammbô); 26. Forse che sì forse che no,
52
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cabili le cadute concettuali. Tra i plagi figurano infatti la memoria dei
classici antichi e moderni;53 l’impiego di anglicismi, l’utilizzo di fonti vocabolaristiche, di guide turistiche,54 di fonti storiografiche;55 inattendibili rumores sul Fuoco;56 l’autocitazione;57 l’addebito, infine, a d’Annunzio d’aver
plagiato nella Pisanelle (mentr’era dunque in Francia…) l’inno di «Kritias
mio» nelle Nottole ed i Vasi (1912) del medesimo scrittore lariano.58 Simili
abbagli v’erano certo stati, e in gran numero, durante l’affaire di fine secolo, ma da parte di critici mediocri e di lettori inesperti, disattenti, talvolta in malafede.59 In un intellettuale onesto e di gran vaglia come Lucini,
essi restano razionalmente incomprensibili. La loro spiegazione sarebbe
dunque da ricercarsi altrove: in quella psicologia risentita che, ben avvertibile in più luoghi della raccolta, avrebbe sminuito l’oggettività e il fondamento metodologico di tale ambizioso regesto. Il che non riduce, però, il
senso e il valore di Antidannunziana, testimonianza appassionata d’un capitolo di storia della cultura e, al contempo, inedita specola dalla quale
cogliere, con parziale ma intrigante prospettiva, la figura di due poeti diversamente grandi.
Bibliografia
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giovane e il verismo = Atti del primo Convegno Internazionale di Studi
228: Miss Imagen (Imogen). Inoltre, nella Rassegna di Fedre, si veda l’impiego di Maurice
in luogo del Maxime della Curée (Lucini 1914, 251).
Lucini 1914, 222-23, 227: per le reminiscenze di Alceo e di Foscolo in Laus vitae, di
Boccaccio nella Francesca da Rimini.
53
Ossia l’utilizzo del vocabolo doghi in Laus vitae; del Guglielmotti nelle Odi navali; del
Baedeker nelle Città del silenzio: Lucini 1914, 220 e 223.
54
Il romanzo storico Rienzi, l’ultimo dei tribuni romani di Edward Bulwer-Lytton per il Cola
di Rienzo, e la Vie de Beethoven di Romain Rolland in Più che l’amore: Lucini 1914, 225 e 226.
55
In cui figurerebbero scritti del Conti e della Duse, nonché i racconti di un immaginoso
convitato del poeta: Lucini 1914, 221-2.
56
Lucini 1914, 223 e 229: sulla ripresa dell’Intermezzo nell’alcionia Stabat nuda aestas e
dei «mercanti della “Francesca e di Fedra”» nella Pisanelle.
57
58
Lucini 1914, 230-1.
Alcuni fra costoro infondatamente persuasi, proprio come Lucini, d’essere stati vittime
di plagio: è il caso di Guido Fortebracci, che accusava d’Annunzio d’aver plagiato, nelle
Vergini delle rocce, il suo Ante lucem per il sol fatto che in entrambi i testi figurava un medesimo passo tratto da Erodoto (cf. Fortebracci 1896).
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