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L'ipotesi ontologica I. Dell'essere (2017)

Goethe diceva che senza l'assillo dell'editore un libro non si pubblicherebbe mai, ma in questo caso devo dire che è stato il contrario: senza la fiducia e la pazienza, la più discreta che si possa immaginare, di Maurizio Zanardi, che guarda solo all'essenziale e ha saputo attendere per un tempo, la cui durata mi vergogno di rendere nota, questo libro non sarebbe qui. devo ricordare, senza i cui affondi dialettici molte parti di questo testo sarebbero peggiori di quanto non siano. dicati dell'essere in generale; muovendo dalla necessità di essere stabili nella nostra fede per prosperare, abbiamo fatto sì che il mondo «vero» non sia un mondo che muta e diviene, ma un mondo che è" 5 .

piani NOME DEL PROPRIE TARIO Cronopio Collana diretta da Gianfranco Borrelli (Università degli Studi di Napoli) Bruno Moroncini (Università degli Studi di Salerno) Comitato scientifico Simona Forti (Università degli Studi del Piemonte Orientale) Thierry Menissier (Università di Grenoble) Stefano Petrucciani (Università degli Studi di Roma “La Sapienza”) Valerio Romitelli (Università degli Studi di Bologna) Cornel Zwierlein (Università di Bochum) Dare voce alla ricerca che opera su instabili piani di confine. Indagine creativa e multidisciplinare, impegnata a sovvertire l’insostenibile rigidità di “ragioni fondanti” e intenzionata a riconvertire angoscia e spaesamento nell’annuncio di un nuovo inizio per singolarità diverse e inedite soggettivazioni. I testi pubblicati sono sottoposti a un processo di peer-review Nicola Russo L’ipotesi ontologica I Dell’essere Questo volume è stato pubblicato con il contributo del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università “Federico II” di Napoli © 2017 Edizioni Cronopio Via Broggia, 11 – 80135 Napoli Tel./fax 0815518778 shop.cronopio.it e-mail: [email protected] ISBN 978-88-89367-25-2 Goethe diceva che senza l’assillo dell’editore un libro non si pubblicherebbe mai, ma in questo caso devo dire che è stato il contrario: senza la fiducia e la pazienza, la più discreta che si possa immaginare, di Maurizio Zanardi, che guarda solo all’essenziale e ha saputo attendere per un tempo, la cui durata mi vergogno di rendere nota, questo libro non sarebbe qui. Un aiuto prezioso mi è venuto poi da Pierandrea Amato, Paolo Amodio, Cesare Azan, Romolo Borrelli, Lorenzo De Stefano, Elisa, Gianluca Giannini, Luigi Laino, Felice Masi, Joaquin Mutchinick, Francesco Pisano, Lucia Urbani Ulivi e Simona Venezia. È però innanzitutto Alessandro De Cesaris che devo ricordare, senza i cui affondi dialettici molte parti di questo testo sarebbero peggiori di quanto non siano. Indice Prefazione Introduzione Poche premesse circa lo statuto della teoria dell’ipotesi ontologica I. Il nesso ontologico I.1 Logos I.2 On II. II.1 II.2 II.3 II.4 II.5 II.6 II.7 II.8 Dell’essere e del suo significato. Ovvero: Metafisica della grammatica sive grammatica della metafisica La grammatica del verbo essere (1) «Essere e non essere» nel De interpretatione Il nome dell’affermazione L’essere e l’identità ne I principi della matematica di Russell La chimera e l’ircocervo La grammatica del verbo essere (2) Sic et non L’ora e il sempre 9 19 27 32 36 47 55 61 101 106 131 157 171 182 Prefazione “Parmenide ha detto: «non si pensa ciò che non è» – noi ci troviamo all’altra estremità e diciamo: «ciò che si può pensare dev’essere certamente fittizio». Il pensiero non ha presa sul reale, ma solo su – – –”1. Solo su che cosa? Questi trattini sospensivi, con i quali Nietzsche tronca un appunto della primavera del 1888, sono unicamente l’indice di una perplessità? Surrogano forse una parola non trovata? O magari un intero discorso, che qui egli avrà ritenuto superfluo iniziare o ripetere? Oppure ciò che qui si ha di mira, ciò su cui solamente avrebbe presa il pensiero, proprio in quanto altro dal pensiero non può non rimanere in qualche misura sempre indicibile? E dunque evocabile solo con l’assenza della parola? Ma magari Nietzsche intendeva dire l’esatto contrario, ossia che proprio in quanto il pensiero può aver presa solo sul pensiero stesso, il reale gli è fatalmente sottratto. Oppure... Quante altre possibilità nascondono quei trattini, compresa la possibilità che non alludano a nulla di particolare? Sì, perché in effetti non si può escludere che nel momento in cui stendeva queste righe a Nietzsche interessasse innanzitutto sottolineare la sua posizione all’altra estremità di Parmenide, piuttosto che tematizzare esplicitamente una questione sulla quale non aveva mai smesso di interrogarsi e scrivere, tanto che possiamo dirla la questione cardine di tutto il suo pensiero: il problema della verità. Un problema che già nelle opere giovanili si condensa nel paradosso, per cui l’unica verità è quella di “essere condannato eternamente alla non ve- 1 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-89, tr. it. di S. Giametta, in Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, Vol. VIII, t. III, fr. 14 [148], Adelphi, Milano 1974, p. 121. 9 rità”2. E appunto perché “ciò che si può pensare dev’essere certamente fittizio”. Vale a dire veramente falso... Ma c’era bisogno di arrivare all’altra estremità di Parmenide, per tornare indietro in una posizione che in fondo già Aristotele aveva affrontato per tempo col suo celeberrimo elenchos a favore del principio di non contraddizione? Elenchos che mette capo a una triplice negazione: non è possibile che tutto sia vero, né che tutto sia insieme vero e falso, né che tutto sia falso. All’interno di questa scansione, ma solo all’interno di essa, Nietzsche sarebbe effettivamente all’altra estremità di Parmenide, poiché era proprio a partire dal principio parmenideo che il logos è sempre e solo dello on, che il sofista descritto da Platone poteva sostenere che ogni discorso è immancabilmente vero. E contro tale conclusione proprio Platone aveva dovuto evocare per primo il “veramente falso” e fondarne la possibilità logica e ontologica nel μὴ ὄν in quanto ἕτερον (Soph. 266e1). Naturalmente non è lo stesso veramente falso che secondo Nietzsche è carattere costitutivo del pensiero: per Platone si tratta di definire le condizioni alle quali è possibile dire in verità che un certo giudizio è falso, il che implica una qualche dicibilità anche del non-essente e non solo dell’ente. Per Nietzsche, invece, ogni giudizio è falso, proprio perché è l’ente a essere radicalmente indicibile, perché “il pensiero non ha presa sul reale”. Dicibile è solo ciò che non è veramente e dunque logos e on non si incontrano mai... E rispetto a ciò, la circostanza che una simile tesi non sia esprimibile logicamente senza generare subito un’autocontraddizione – «penso che ogni pensiero sia falso, dunque anche questo pensiero è falso, dunque non è vero che ogni pensiero è falso» – non è certo per Nietzsche un problema serio: proprio la sua critica ultima alla cogenza ontologica della logica disinnesca immediatamente la confutazione: il non poter asserire e negare contemporaneamente, il non poter dire in termini coerentemente logici l’impossibilità della verità vera, è per lui appunto solo un «non potere», un’impotenza del logos che non dimostra nulla di esterno al logos3. Il che è sostanzialmente coerente: se la logica non è potenza della verità, il fatto 2 Id., Sul pathos della verità, tr. it. di G. Colli, in Opere di Friedrich Nietzsche, cit., Vol. III, t. II, p. 216. 3 Cfr. Id., Frammenti postumi 1887-88, tr. it. di S. Giametta, in Opere..., cit., Vol. VIII, t. II, fr. 9[97], pp. 46 ss. 10 che non si possa dire logicamente la verità – ossia che non c’è verità – è semplicemente necessario, niente affatto un’aporia, ma qualcosa che ci si deve anzi attendere. E tuttavia rimane qui un problema e anche più di uno: nel dire che logos e on non si incontrano mai e che per questo ciò che può essere detto e pensato è certamente fittizio, suo malgrado Nietzsche rimane per qualche verso impigliato nella concezione metafisica della verità come adeguazione tra logos e on, per quanto caratterizzi tale adeguazione come impossibile. È infatti solo sulla base della concezione della verità come adaequatio che può dire in verità che non c’è verità: questo suo dire è adeguato alla relazione di incomunicabilità tra logos e on. Ma come può un dire essere adeguato a ciò a cui non ha accesso? Proprio se è vero che il logos è incapace di cogliere lo on, come possiamo mai sapere questo stesso fatto? A dire il vero, è Nietzsche stesso ad asserirlo molto chiaramente, alludendo al vicolo cieco dell’impresa kantiana: “Si dovrebbe sapere che cosa è l’essere, per decidere se questo o quello sia reale (per esempio «i fatti della coscienza»); così anche che cos’è la certezza, che cos’è la conoscenza e via discorrendo. – Ma poiché non lo sappiamo, una critica della facoltà conoscitiva non ha senso; come potrebbe lo strumento criticare se stesso, se può adoperare appunto solo se stesso per la critica?”4. E tuttavia è innegabile, che sin da Su verità e menzogna in senso extramorale e fino al Crepuscolo degli idoli, pur con mutamenti sostanziali Nietzsche per molti versi rimanga entro la tradizione critica kantiana, che è però da lui interpretata da un punto di vista genealogico: le condizioni di possibilità della conoscenza non vengono analizzate come forme trascendentali statiche nel contesto di una teoria strettamente gnoseologica, ma nel loro divenire storico, antropologico e infine biologico. Ed è per questa via che Nietzsche produce un’imponente critica del logos: ciò che sancisce infatti la falsità degli schemi logici e che quindi determina la natura fittizia del pensiero è proprio l’origine delle ipostasi concettuali fondamentali – soggetto, cosa, essere... –, un’origine vitale che non ha nulla a che vedere con la conoscenza pura e quindi con la verità: “noi abbiamo proiettato le nostre condizioni di conservazione come pre- 4 Id., Frammenti postumi 1885-87, tr. it. di S. Giametta, in Opere..., cit., Vol. VIII, t. I, fr. 2[87], pp. 92 s. 11 dicati dell’essere in generale; muovendo dalla necessità di essere stabili nella nostra fede per prosperare, abbiamo fatto sì che il mondo «vero» non sia un mondo che muta e diviene, ma un mondo che è”5. Il «mondo vero», ossia il mondo così come pensato dal logos, è dunque falso, poiché è un mondo dell’essere stabile che non corrisponde al mondo «reale» del divenire, vale a dire al vero mondo vero, che è a sua volta, misurato sul criterio della verità logica, di nuovo un mondo falso... Così almeno si legge qui e in vari altri luoghi6. E se la cosa si limitasse a questo, allora Nietzsche, rispetto alla questione ontologica in senso stretto, non sarebbe neanche un passo oltre gli antagonisti più o meno vagamente «eraclitei» di Platone: “Te lo dirò e non si tratta di una concezione di poco conto: nessuna cosa è in se stessa una e non si può ascriverle qualcosa in modo corretto, né un qualsiasi predicato, ma se la si definisce grande appare anche piccola, se pesante appare anche leggera, e analogamente per tutte quante le determinazioni, dal momento che non c’è niente che sia uno, determinato e in possesso di un qualsiasi attributo; invece tutte le cose che diciamo che sono, esprimendoci in modo non corretto, si originano in realtà a partire dalla traslazione, dal movimento e dalla mescolanza reciproca, poiché nulla è mai, ma diviene sempre. E su questo punto tutti i sapienti, uno dopo l’altro, con la sola eccezione di Parmenide, sono d’accordo: Protagora, Eraclito, Empedocle” (Theaet. 152 d2-e4). E poco più avanti: “Da tutte queste considerazioni risulta dunque che, come si diceva dall’inizio, nulla è in se stesso unitario, ma sempre diviene in rapporto a qualcosa e che perciò andrebbe abolito completamente l’uso dell’espressione «essere», sebbene noi numerose volte, e anche poco fa, siamo costretti a servircene per abitudine e per ignoranza”7. Per abitudine e per ignoranza... – l’ironia è qui del tutto evidente. Vi è forse, infatti, un altro modo? Fossimo pure consapevoli che, almeno in certe circostanze, dire l’essere del divenire può risultare improprio rispetto all’intenzione, non rimane forse necessario? O l’essere del non essere?: “E, inoltre, noi diciamo anche altre cose del genere: che ciò che è divenuto «è» divenuto e ciò che diviene «è» diveniente e, ancora, che ciò che è sul punto di divenire in futuro «è» 5 Id., Frammenti postumi 1887-1888, cit., fr. 9[38], pp. 14 s. Cfr., per esempio, ivi, fr. 5[19], p. 181. 7 Theaet. 157a7-b3, ma vedi anche 183a2ss. 6 12 sul punto di divenire e che ciò che non è «è» non essente, cose che diciamo senza nessuna esattezza” (Tim. 38a8-b3). Ma che non possiamo non dire, se rimane vero che “la parola «qualcosa» la diciamo sempre in riferimento a una cosa che è”, e che dunque qualsiasi cosa diciamo la diciamo in quanto essente (Soph. 237d1-2). Ma questo anche Nietzsche lo sapeva fin troppo bene: “Ammettere l’essere è necessario per poter pensare e dedurre: la logica adopera solo formule per ciò che rimane sempre uguale a se stesso. Perciò questo postulato sarebbe ancora privo di forza dimostrativa per la realtà: l’«essere» appartiene alla nostra prospettiva […]. Il mondo fittizio di soggetto, sostanza, «ragione», ecc. è necessario: è in noi un potere che ordina, semplifica, falsifica, separa artificialmente […]. Il carattere del mondo in divenire come non formulabile, come «falso», come «contraddittorio». Conoscenza e divenire si escludono a vicenda. Conseguentemente la «conoscenza» dev’essere qualcosa d’altro; deve precederla una volontà di rendere conoscibile, una specie del divenire stesso deve creare l’illusione dell’essere”8. Abbiamo dunque a che fare con una costrizione logico-linguistica, che a sua volta deriva da necessità di ordine vitale – il riconoscimento, la comunicazione, la stabilità, il calcolo, senza i quali non vi sarebbero né memoria, né progetto, né intesa tra gli uomini –, una costrizione inaggirabile: “Soluzione fondamentale: – crediamo alla ragione; ma questa è la filosofia dei pallidi concetti. La lingua è costruita in base ai pregiudizi più ingenui. Ora leggiamo nelle cose disarmonie e problemi, perché pensiamo solo nella forma della lingua – quindi crediamo alla «verità eterna» della «ragione» (per esempio soggetto, predicato, ecc.). Noi cessiamo di pensare se non vogliamo farlo nella costrizione linguistica, giungiamo persino al dubbio di vedere qui una frontiera come frontiera. Pensare razionalmente significa interpretare secondo uno schema che non possiamo rigettare”9. 8 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-88, cit., fr. 9[89], pp. 40 s. Ma si veda anche Id., Frammenti postumi 1885-87, cit., fr. 7[63], p. 302: “Qui c’è una barriera: il nostro stesso pensare implica quella fede (con la sua distinzione di sostanza e accidente, fare e autore, ecc.); farla cadere significa non poter più pensare. Ma che una fede, per necessaria che sia alla conservazione degli esseri, non abbia nulla a che fare con la verità [...]”. 9 Ivi, fr. 5[22], pp. 182 s. 13 L’intento di questo mio libro, diciamolo pure subito, è proprio pensare e dire questa frontiera in quanto frontiera, senza pretendere di poterla scavalcare o eludere per nessuna via traversa. E soprattutto evitando la logica dei sensi dell’essere e della verità, e ogni duplicazione possibile che immancabilmente ne deriva. Anche in Nietzsche, che nel suo continuo oscillare tra vero e falso rispetto al mondo pensato o a quello fenomenico, rispetto alla parola o alla cosa, all’essere o al divenire, e infine anche alla verità stessa e alla parvenza, finisce per rimanere soggiogato dalla stessa seduzione alla quale riteneva aver soggiaciuto Democrito: “Una volta si prendeva la trasformazione, il cangiamento, il divenire in generale come una prova dell’apparenza, come indice che doveva esserci qualcosa a indurci in errore. Viceversa oggi, esattamente nella misura in cui il pregiudizio della ragione ci costringe a fissare unità, identità, durata, sostanza, causa, cosalità, essere, ci vediamo in certo modo irretiti in errore, necessitati all’errore: per quanto si sia intimamente certi, sulla base di una rigorosa verifica di se stessi, che qui sta l’errore. È lo stesso di quel che accade nei movimenti delle grandi costellazioni: nel caso di queste l’errore ha il costante patrocinio del nostro occhio, nel nostro caso invece ha quello del nostro linguaggio. Il linguaggio, quanto alla sua origine, appartiene all’epoca della più rudimentale psicologia: noi entriamo in un grossolano feticismo se acquistiamo consapevolezza dei presupposti fondamentali della metafisica del linguaggio, ossia, per esprimerci chiaramente, della ragione. Tale feticismo vede dappertutto uomini che agiscono e azioni: crede alla volontà come essere, all’io come sostanza, e proietta la fede nell’io come sostanza in tutte le cose – soltanto in tal modo crea il concetto «cosa»... L’essere viene ovunque pensato, interpolato come intima causa delle cose; dal concepimento dell’«io» consegue, come derivato da esso, il concetto di «essere»... Al principio sta l’errore, grandemente funesto, che la volontà sia qualcosa di agente, che la volontà sia una facoltà... Oggi sappiamo che essa è soltanto una parola... Assai più tardi, in un mondo reso chiaro in mille forme, la sicurezza, la soggettiva certezza nel maneggiare le categorie della ragione giunse sorprendentemente alla coscienza dei filosofi: essi conclusero che queste non potevano avere un’origine empirica – ma che anzi l’intera esperienza era in contraddizione con esse. Dove sta dunque la loro origine? – E in India come in Grecia si è commesso lo stesso errore: «Dobbiamo già avere dimorato una volta in un mondo superiore (– invece di dire: in un mondo molto 14 inferiore: ciò che sarebbe stata la verità), dobbiamo essere stati divini, giacché abbiamo la ragione!»... In realtà, nulla fino a oggi ha posseduto una più ingenua forza di persuasione che l’errore dell’essere, come fu formulato, ad esempio, dagli Eleati: esso ha anzi a suo favore ogni parola, ogni frase che noi pronunciamo! – Anche gli avversari degli Eleati soggiacquero alla seduzione del loro concetto dell’essere: tra gli altri Democrito, quando escogitò il suo atomo... La «ragione» nel linguaggio: ah, quale vecchia donnaccola truffatrice! Temo che non ci sbarazzeremo di Dio perché crediamo ancora alla grammatica...”10. In questa pagina del Crepuscolo degli idoli, che condensa magistralmente un’intera messe di appunti e note stesi nell’ultima fase e la più veemente del suo pensiero, Nietzsche pone alcuni punti chiave. Questi quelli che qui più ci interessano: 1) Il pensiero è possibile a partire dal pre-giudizio, dal già preliminarmente giudicato e posto: unità, identità, cosalità, essere... 2) Tale pregiudizio, che fonda ogni possibile verità del logos, sancisce al tempo stesso la sua necessaria erroneità: il vero logico è ipso facto falso. 3) Al di fuori del linguaggio, che ha intrinsecamente un contenuto metafisico, non c’è pensiero. 4) L’«errore» dell’essere è incarnato in ogni singola parola o giudizio. Come si avrà occasione di vedere, per quanto rimodulati talora anche in maniera essenziale, questi rimangono capisaldi dell’ipotesi ontologica, che in effetti deriva dalla riflessione sulle aporie che sono contenute nel discorso di Nietzsche e che cerca di superare. Una su tutte: in che senso diciamo di essere irretiti nell’errore? Poiché in tutti i modi della nostra coscienza proiettiamo l’essere sul divenire, occultandolo nel suo vero essere... Per questo, come diceva già il giovane Nietzsche, “essere e pensare sono assolutamente due cose distinte. Il pensiero dev’essere incapace di avvicinarsi all’essere e impadronirsene”11. Ed è in tal senso, per tornare al frammento con cui abbiamo cominciato, che il pensiero non ha presa sul reale, poiché ciò che prende è quel che ha già posto. E tuttavia, lo ha posto 10 F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, tr. it. di F. Masini, in Opere..., cit., Vol. VI, t. III, pp. 72 s. 11 Id., Frammenti postumi 1869-74, tr. it. di M. Carpitella, in Opere..., cit., Vol. III, t. III, fr. 5[92], p. 115. 15 nel divenire, trasfigurandolo: ma allora in definitiva ha presa sul «reale», ammesso che realmente essente sia appunto il divenire... E vi ha presa esattamente in quanto essente, a partire dalla costrizione del pregiudizio della ragione, ossia dalla prospettiva dell’essere, dell’essere in quanto prospettiva del logos. E dunque anche qui continua a valere che «non si pensa ciò che non è». E poiché pensare l’essere è essere nella verità, allora non siamo affatto irretiti dall’errore, ma dovremmo piuttosto dire di essere in una situazione ancor più problematica: irretiti nella verità... Ma se è così, allora si può davvero dire che siamo all’altra estremità di Parmenide? Se riteniamo che pensare è fatalmente a partire dal pregiudizio dell’essere, per quanto possiamo enfatizzare che si tratta appunto solo di un pregiudizio, non siamo comunque ancora fedeli all’interdetto parmenideo? In un certo senso, si potrebbe dire, come i suoi esecutori testamentari, ma comunque entro una linea di continuità e non di opposizione radicale, e quindi all’altra estremità solo come sull’altro versante di una stessa montagna. In fondo Heidegger ha avuto ragione nel dire che l’antimetafisica è, proprio in quanto nichilismo, ancora metafisica: è il frutto maturo della metafisica, che è sin dall’inizio intrinsecamente nichilista. Se è così, allora non è solo sensato, ma addirittura richiesto il tentativo di formulare un nichilismo parmenideo. Di tutti questi temi e concetti qui appena allusi non si troverà quasi nulla nel testo e soprattutto non vi si troverà un confronto serrato con Nietzsche, né la ripresa dei suoi termini, se non secondo accezioni diverse. E dunque non mi stupirebbe affatto che, alla fine della lettura, in molti possano ritenere che Nietzsche con l’ipotesi ontologica non c’entri proprio niente, giacché per certi versi avrebbero ragione. Ma è esattamente questo il motivo che mi induce, nello spazio più libero di una prefazione, a ricordare innanzitutto ancora il mio debito verso un pensiero al quale devo quasi tutto l’essenziale – e l’essenziale sono ovviamente le domande e il modo di porle, non certo le risposte. Come scriveva Adorno, Nietzsche non ci ha insegnato pensieri, ma innanzitutto a pensare. Ed è questa forse anche una delle ragioni per le quali, pur essendo «il mio autore» per eccellenza, non ho mai scritto tematicamente su di lui e non credo che lo farò, poiché mi è sempre parso più urgente pensare non intorno a Nietzsche, bensì a partire da Nietzsche. E se questo mi ha infine condotto su altre vie, anche molto distanti dalle sue, ebbene ciò non diminuisce per niente il mio debito, anzi lo accresce. 16 Valga questa anche come risposta a quanti continuano a chiedermi se l’ipotesi ontologica ha a che fare con il trascendentale, con la fenomenologia dello spirito o con la questione dell’essere, domande che mi mettono sempre in grande imbarazzo e alle quali non so rispondere se non con Nietzsche e Platone. Il che non toglie che nell’ipotesi spicchino motivi kantiani, heideggeriani e soprattutto hegeliani, ma tale è il suo risultato, mentre qui volevo dire solo qualcosa sulle sue origini. E sia anche sufficiente quel che ho detto. Ufficio di una prefazione, però, è anche rendere conto della stesura del testo che ci si accinge a leggere. Ebbene, rispetto a ciò l’unica cosa sensata da dire, è che questo è un libro che ha resistito ostinatamente a lasciarsi scrivere come intendevo, e che ha stravinto. In una prima versione dell’introduzione dicevo di voler presentare solo lo scheletro dell’ipotesi, in termini puramente teoretici, un quadro nudo, già del tutto a valle della tradizione. La tradizione, però, non si lascia affatto scavalcare, anche su questo aveva ragione Heidegger – e se gli sto dando tante volte ragione ora, è perché poi andranno intonati diversi controcanti. Per cui, dopo mesi di tentativi sterili, ho dovuto ammettere la mia sconfitta, ossia l’impossibilità di dare corpo alla teoria senza ritornare su almeno alcuni luoghi assolutamente cruciali, e innanzitutto sui primi paragrafi del De interpretatione di Aristotele12. Questo per poter anche solo porre coerentemente una serie di domande, o se si vuole anche un’unica domanda, e proprio quella heideggeriana intorno al senso dell’essere. Per oltrepassare quella domanda. Una conseguenza di ciò è che questo libro non contiene l’esposizione dell’intera teoria, ma solo della sua prima parte, di certo molto importante e anche vasta, ma ancora quasi solo una premessa al nucleo, che si gioca intorno alla definizione della struttura ontologica dell’ente e soprattutto alla differenza cosa-ente. Di tali temi si parlerà anche qui e molte volte, ma più come di una promessa ancora da mantenere, promessa che tuttavia con questo primo volume mi sembra essere posta su basi solide: non avrò forse scritto l’ipotesi ontologica come volevo, ma nel lasciarsi scrivere come ha voluto lei, in molti punti ne è risultata arricchita. 12 In effetti, si potrebbe scrivere una parte non esigua di storia della filosofia nella forma di un commento ai commenti al De interpretatione, che si susseguono ininterrottamente dalla tarda antichità ad oggi. 17 Ad ogni modo, la struttura complessiva dell’opera rimane immutata: al breve capitolo intorno al nesso ontologico, segue quello sull’essere, che originariamente pure avrei voluto breve, ma che si è accresciuto fino ad occupare gran parte di questo primo volume. Nel secondo, seguiranno i capitoli sulla struttura dell’ente, sul concetto di ipotesi e sulla differenza cosa-ente. In prospettiva, prevedo poi un terzo volume interamente dedicato alla genealogia del linguaggio. Ulteriore conseguenza di tale divisione è che di questo libro non vi è una vera e propria introduzione, che notoriamente si scrive solo una volta completato il tutto: il breve testo che ne fa le veci vuole solamente offrire un primo orientamento di massima sulle coordinate del discorso. E forse questa circostanza, qui obbligata, è anche favorevole: l’ipotesi si deve innanzitutto dire, poi si potrà anche dire intorno ad essa e introdurla... Rimane, però, che la vera introduzione è solo la storia della filosofia e il nostro esservi già stati introdotti. Due parole, infine, e davvero solo due riguardo al metodo. Come mi fa notare Alessandro De Cesaris, a cui devo tante domande essenziali, che hanno richiesto risposte alla loro altezza, l’ipotesi ontologica, differenziandosi tipicamente in ciò da molte teorie in voga soprattutto in ambito analitico, non ha alcuna intenzione normativa, non si propone come una Normierung der Sprache – intenzione che anzi contesta come irrealizzabile e di per sé poco sensata –, quanto piuttosto, almeno in questo suo primo momento, come un’analisi in sostanza descrittiva di ciò che avviene quando parliamo e pensiamo. È speculativa (e dialettica), insomma, nella stessa misura in cui è empirica. Conseguentemente, il suo unico principio euristico rimane quello platonico: “ὁ λόγος αὐτὸς ἂν δηλώσειε μέτρια βασανισθείς – è il logos stesso a manifestarlo, misuratamente torturato” (Soph. 237b2-3). 18 Introduzione Poche premesse circa lo statuto della teoria dell’ipotesi ontologica Tutto quel che può essere detto prima dell’esposizione di una teoria è fatalmente provvisorio e incompleto, poiché si riferisce a qualcosa di non ancora esplicito e lo presuppone: è la situazione tipica di ogni introduzione, che richiede all’autore una decisione circa ciò che si propone da essa. In queste prime pagine il mio scopo è unicamente tracciare una linea sommaria di demarcazione, affinché il lettore possa orientarsi ed avere sin dall’inizio un’idea sufficientemente chiara del territorio nel quale sta per entrare. A tal fine, è utile cominciare da alcune considerazioni circa il titolo del libro, che indica il suo argomento centrale, ciò di cui esso mette a tema i lineamenti più essenziali e che tiene in unità tutto il resto: l’ipotesi ontologica. Tale espressione, dunque, a rigori indica l’oggetto della teoria e solo per metonimia la teoria stessa, scambio che avviene in tante circostanze analoghe e in genere in maniera naturale e aproblematica (come quando si parla semplicemente di «evoluzione» e non di «teoria dell’evoluzione»). In questo caso, tuttavia, è necessario mettere subito chiaramente in luce il punto, poiché vi si annida un’insidia che può generare facilmente alcuni fraintendimenti, sia rispetto alla teoria, che al suo oggetto. Come nome della teoria, infatti, «ipotesi ontologica» pare voler banalmente dire che si tratta di una riflessione, la cui natura rimane congetturale, intorno a ciò di cui si occupa l’ontologia, un’ipotesi circa l’ontologia. E in qualche modo è proprio così: gran parte dei temi classici dell’ontologia vi sono trattati, e con l’ovvia consapevolezza che le tesi proposte sono l’esito di un tentativo ermeneutico, che si può giudicare per la capacità che ha o non ha di gettare luce su di essi, ma che non può esibire alcuna fondazione ultima e certa. 19 Tuttavia, intendere la «teoria dell’ipotesi ontologica» – così a rigori andrebbe sempre chiamata per intero, ma anche qui si userà per lo più la forma abbreviata – come un’ontologia congetturale non è del tutto corretto, per almeno due ragioni: perché la forma logica, entro cui trova espressione quello che rimane comunque solo un tentativo, ha però uno spiccato carattere anipotetico (il che, come ben sapeva Aristotele, non è affatto una «dimostrazione»1); e poi perché ciò di cui si parla qui forse non è neanche «ontologia» o, se lo è, allora in un senso peculiare. Come nome dell’oggetto della teoria, invece, «ipotesi» non vuol dire affatto congettura o supposizione, se non nel senso etimologico che la parola latina suppositio condivide con il greco ὑπόθεσις: un «porre sotto», che è sempre anche «porre prima», come fondamento e principio. Ipotesi che è definita «ontologica» poiché riguarda esattamente – e anzi costituisce – il nesso tra logos e on: è l’ipotesi logica dell’entità degli enti. Cosa questa formula appena più estesa di «ipotesi ontologica» voglia compiutamente dire, lo si vedrà nel testo, per il momento sia sufficiente aver chiarito all’ingrosso i valori semantici dei termini elementari: la teoria dell’ipotesi ontologica è un tentativo di interpretazione del nesso tra logos e on nei termini di una posizione logica preliminare e fondativa dell’entità degli enti. Ebbene, come notavo, una simile teoria forse non è neanche ontologia nel senso della disciplina che storicamente ha avuto questo nome, tant’è che molti degli studiosi che se ne occupano oggi contesterebbero, e dal loro punto di vista senz’altro a ragion veduta, che essa meriti tale titolo. Alcuni direbbero, e in buona misura giustamente, che è piuttosto una tinologia, altri che è una specie di logica trascendentale, altri che è metaontologia... e quante altre cose ancora lo si vedrà. Il nome di per sé ovviamente non ha nessuna importanza e a me non interessa granché stabilire una posizione disciplinare univoca per l’ipotesi ontologica, mi basta riconoscervi un esercizio filosofico profondamente radicato in tutta la tradizione, 1 A rigori, anzi, è proprio lo stigma dell’impossibilità di convalidare la teoria, di comprovarla, se ciò vuole significare l’esibizione di un criterio della sua verità, e questo per una ragione del tutto intrinseca al suo statuto: essa riguarda infatti il momento istitutivo a partire da cui soltanto può darsi qualcosa come la verità e la differenza tra verità e falsità. E nel descrivere quel momento ne è ovviamente già interamente dipendente e condizionata. 20 capace di dialogare con essa fino ai suoi esiti odierni. Tuttavia, e sempre in vista di un orientamento solo di massima e preliminare, alcune brevissime considerazioni vanno fatte2. La parola «ontologia» viene coniata nella prima modernità in analogia a termini come cosmologia, psicologia e così via. Intende dunque un discorso, in forma di scienza, intorno all’ente, vale a dire a ciò che è. E questo «ciò che è» è stato tradizionalmente inteso in due modi principali: l’esistente o l’essente nel senso proprio dell’essenza, della quidditas. Da tale punto di vista, dunque, l’ontologia si occupa per un verso delle cose che esistono, per l’altro delle essenze universali: delle cose che esistono si propone di individuare i tipi, le classi, le modalità, i generi, le specie e così via. Delle essenze la loro natura e consistenza, il grado di universalità, le relazioni reciproche e con gli esistenti in generale, la loro conoscibilità, etc. Ora, questo tipo di discorso effettivamente rientra solo in parte nella teoria dell’ipotesi ontologica, poiché essa non vuole essere una scienza dell’ente, se non in maniera derivata e secondaria rispetto al suo oggetto, che ricomprende indubbiamente anche l’ente e in una posizione del tutto centrale, ma considerato non a sé stante, bensì nella sua unità inscindibile e originaria con il logos. Ontologia dunque qui non significa logos scientifico intorno allo on, bensì intorno al nesso tra logos e on, a quel che chiamo appunto nesso ontologico. E «ipotesi» indica esattamente il modo in cui il nesso è interpretato: logos e on sono uniti, poiché lo on è ipotesi del logos. Cominciamo col dire così, a partire semplicemente dal nome: onto-logia; ma con l’avvertenza che questa: «lo on è ipotesi del logos» – è una formulazione del tutto parziale, unilaterale e da rivedere e migliorare, quando i termini in gioco saranno definiti più chiaramente. Accenniamo invece subito al motivo per il quale in questa impostazione vi è sicuramente una tinologia e anche una sorta di logi- 2 Possiamo limitarci a davvero pochi cenni, poiché in parte il tema è già trattato in N. Russo, La cosa e l’ente, Cronopio, Napoli 2012, pp. 16 ss. In quel testo, il cui sottotitolo recita Verso l’ipotesi ontologica, la teoria era già presupposta e messa alla prova su di un tema specifico e più ridotto, la relazione tra ente ed essenza. Va da sé, però, che molti elementi dell’ipotesi vi fossero accennati o anche già parzialmente esposti, e qui, che si ha di mira una formulazione completa, andranno necessariamente ripetuti. 21 ca trascendentale. Il termine tinologia viene di nuovo da logos e dalla parola greca τι, che può avere valore interrogativo o pronominale: τί ἐστιν; è la cosiddetta domanda socratica: Che è? Che cos’è? Mentre come pronome τι significa «qualcosa», «una qualche cosa». Corrisponde dunque ai latini quid e aliquid. Apparentemente insignificante, τι è invece termine che gioca un ruolo decisivo già nel Sofista di Platone, ove questi definisce il logos come sempre λόγος τινός: di un che, di un qualcosa (Soph. 262e6). Un qualcosa che è immancabilmente un ente, vale a dire qualcosa che è. Ed è in questo modo che Platone interpreta il detto parmenideo che pensiero ed essere sono lo stesso, e vi aderisce: qualsiasi che intorno a cui il logos parli è ipso facto uno on, un ente. E questo è anche il modo in cui intendo io la cosa e una delle ragioni fondamentali, per le quali pongo che logos e on sono in un nesso inscindibile: in ogni suo contenuto ed espressione, il logos dice sempre l’ente (e, dall’altro versante, l’ente è propriamente detto dal logos). Da questo punto di vista, tinologia e ontologia coincidono integralmente, poiché il λόγος τινός è sempre λόγος τοῦ ὄντος. Nella tarda tradizione medievale, però, per tutta una serie di ragioni che in parte vedremo più avanti, assistiamo ad una sfasatura se non a una vera e propria divaricazione tra il τι e lo on, poiché il τι vi viene considerato non semplicemente come «qualcosa», ma in senso più ristretto come «qualcosa di pensabile» (opinabile), che può essere distinto dal concretamente esistente, a cui viene a sua volta ridotto lo on. Il che invero radicalizza la tendenza della tinologia a non riguardare l’ente in se stesso, posto oggettivamente come un che di esterno al logos, bensì i modi elementari in cui si dà un qualsiasi contenuto possibile del logos. E proprio in questa forma è evidentemente un’impostazione molto prossima a quella dell’ipotesi ontologica come teoria del nesso, al cui interno è anzi interamente contenuta una tinologia, ma anche elementi che la oltrepassano. Sia perché, come appena detto, non vi è la riduzione dello on al concretamente esistente, né del qualcosa al qualcosa di pensabile – e quindi sostanzialmente a una categoria riflessiva e in quanto tale posteriore e derivata3. Sia anche perché in essa non ci si chiede solo come sia pensabile 3 In E. Lask, La logica della filosofia e la dottrina delle categorie, a cura di F. Masi, Quodlibet, Macerata 2016, pp. 144 ss., il «qualcosa» diviene categoria centrale, poiché in grado di ricomprendere sia l’ambito dell’essere, che quello del va- 22 qualsiasi cosa pensabile, ma anche 1) a partire da cosa ciò avvenga e 2) come ciò precondizioni ogni incontro del logos con gli enti, vale a dire anche con le cose concretamente esistenti. In tal senso l’ipotesi ontologica procede dunque verso la logica trascendentale, che però pure travalica, poiché a partire dall’analisi lore. Ha dunque maggiore estensione dell’ente e viene posta da Lask esplicitamente come comprensiva di tutto il pensabile. In buona misura, però, questa posizione dipende più che altro da una scelta terminologica, che Lask stesso riconosce come in parte arbitraria, ovvero la scelta di porre come categoria del sensibile l’essere, che immediatamente rende gli enti solo un regno all’interno del qualcosa in generale. Ma Lask è anche ben consapevole, che «essere» può ben dirsi anche degli oggetti che ricadono sotto la categoria del valore, e se lo si assume così, allora l’ente e il qualcosa tornano coestensivi. Tuttavia, il suo discorso, anche se emendato in tal senso, rimane distante da quello dell’ipotesi ontologica, in primo luogo poiché in essa né l’essere, né l’ente, né il qualcosa sono categorie. Inoltre, il carattere astratto delle categorie riflessive non pertiene prima facie al «qualcosa»: il τι è il primo, non l’ultimo, non l’esito di un processo di astrazione che cancella tutte le differenze tra enti e valenti e si ritrova in mano solo il qualcosa. Ed è il primo perché già sempre presente nella domanda che chiede circa l’essenza, nel τί ἐστιν. Non ci sono prima le singole domande: «che cos’è scienza?”, «che cosa il bello?» o «il cavallo?»..., da cui poi, tralasciando le differenze, avremmo «che cos’è qualcosa?», poiché invece ogni singola domanda già sempre chiede: «questo qualcosa – che nominiamo scienza – cosa è?». Il soggetto, insomma, prima di essere determinato dal predicato, è solo «qualcosa». Ma la domanda è sempre identificativa di un qualcosa, anche dal lato del predicato: dell’essenza di un che, del significato di un concetto o anche semplicemente dell’identità di un nonnoto. Questo è anzi il caso più elementare e più puro: si chiede «che cos’è?» quando ci si ritrova di fronte a un qualcosa di cui non conosciamo neppure il nome. Porre il qualcosa come categoria riflessiva è così altrettanto problematico di porre in tali termini anche il qualcuno: come se solo riflettendo sulla mia conoscenza di Joaquin, Luigi o Lorenzo io potessi formarmi la categoria «qualcuno», e non fosse invece la prima evidenza dell’aver a che fare con qualcuno a indurmi a chiedere «chi sei?». Incidentalmente, la posizione di Lask è curiosamente prossima a quella stoica criticata da Alessandro di Afrodisia: “Se è qualcosa allora è chiaro che è anche ente; e se ente, allora si dirà di esso ciò che si dice dell’ente. Senonché costoro si sono posti il vincolo che l’ente si dica solo dei corpi, e così riuscirebbero a sottrarsi all’aporia: difatti, per loro il qualcosa è più universale dell’ente, proprio perché non è solo il predicato dei corpi, ma anche degli incorporei”. L’attenzione degli antichi circa i nessi tra uno, on e τι è variamente testimoniata, per esempio in un commento anonimo alle Categorie: “tre sono gli omonimi generalissimi, uno, ente e qualcosa; infatti si rapportano a tutto ciò che è. Platone propende per l’uno, Aristotele per l’ente, gli stoici per il qualcosa” (cit. in Stoici Antichi, a cura di R. Radice, Bompiani, Milano 2006, p. 511, ma vedi anche a p. 527 le testimonianze di Plotino, e infra, nota 143 a p. 140, di Seneca). 23 del τι non costruisce solo la griglia formale delle condizioni di possibilità della conoscibilità dell’oggetto fenomenico, bensì della presenza in generale di un qualsiasi ente per il logos e quindi, in ultima analisi, anche del logos stesso. In entrambi i casi, dunque, nell’ipotesi ontologica il nesso logos-on è più stretto e proprio ciò la apre ad un ambito più vasto, senz’altro più vasto di quello della gnoseologia. In una formula si può provare a dirlo così: lì si pone che il pensiero abbia già costituita in sé la struttura del qualcosa di pensabile in generale, lo schema di apprendibilità dei suoi contenuti, e che quindi il logos sia una forma entro cui si elabora ciò che è. Nell’ipotesi ontologica questo è parzialmente ancora vero, anzi per certi versi ancor più radicalmente vero, ma con almeno una differenza essenziale: anche «ciò che è» vi è pensato come derivante da una prestazione del logos, e invero dalla prima «prestazione», quella che costituisce insieme logos e on4. Conseguentemente, non si può più intendere il logos come forma che si applica all’ente, poiché l’entità stessa è ipotizzata dal logos. Vale a dire: alla struttura formale del qualcosa di pensabile in generale appartiene innanzitutto, e anzi la costituisce originariamente, l’esser ente del qualcosa. Il logos, insomma, non dice solo circa l’ente, ma dice innanzitutto l’ente, e quindi non si applica sullo on, ma semmai lo applica – e tuttavia vedremo che questo modo di intendere il nesso, nel senso di un’applicazione o aggiunta, è sostanzialmente fuorviante e in tanti modi errato: su che cosa, infatti, si potrebbe mai applicare l’ente? Logicamente su qualcosa che ente non è, su qualcosa di non essente, su niente... Il che è plausibile solo in un senso molto ristretto, solo nel senso che questo «ciò su cui» si applicherebbe la forma logica, rigorosamente non possiamo neanche pensarlo come un «ciò». E dunque neanche al modo della «cosa in sé» kantiana, che in ultima analisi rimane lo scheletro vuoto di un ente, che il logos non 4 «Prestazione» che, come si vedrà, va considerata non come un atto logico puntuale, ma più nel senso della prima impressio di cui parlano Avicenna (Metafisica, a cura di P. Porro, Bompiani, Milano 2002, p. 69: “res et ens et necesse talia sunt quod statim imprimuntur in anima prima impressione, quae non acquiritur ex aliis notioribus se) e poi sistematicamente Alessandro di Hales, Summa Theologiae, I, tract. III, n. 72, ediz. Quaracchi, vol. I, p. 113. Cfr. anche J.A. Aertsen, Medieval Philosophy as Transcendental Thought, Brill NV, Leiden 2012, pp. 140 ss., 213 ss. 24 raggiunge mai a causa dei suoi limiti, vale a dire esattamente a causa dell’applicazione della sua forma. Nel contesto della tinologia e anche della logica trascendentale, dunque, le alternative sono sostanzialmente due: o si assume che logos e on, per quanto separati, in qualche modo concordino – e bisogna poi trovare da qualche altra parte la garanzia di tale concordanza; o va ammesso che il logos è necessariamente come un prisma che distorce l’immagine dell’ente e che dunque ciò che è «veramente» gli rimanga fatalmente nascosto, sia in qualche modo postulabile, ma non conoscibile, poiché la conoscenza è esattamente la sua distorsione. Ebbene, la teoria dell’ipotesi ontologica è al di fuori di tale alternativa, perché non pone affatto come separati logos e on: essi non concordano a posteriori, ma si costituiscono insieme. Il che è asserito sia dal punto di vista logico-ontologico, sia anche dal punto di vista genealogico. La loro concordanza è originaria e non si fonda su null’altro oltre se stessa, oltre la sua ipotesi, la sua posizione preliminare. D’altro canto è evidente che il logos è prospettiva e insieme orizzonte di manifestatività degli enti, centro e circonferenza, e che lo è in un senso fortemente attivo: il logos plasma e trasforma, la sua è potenza metaforica. Ciò che arriva a cogliere, dunque, non è mai la verità oggettiva di un ente in sé, ma non perché il logos non possa conoscere tale ente, come vuole Kant, bensì semplicemente perché l’idea della conoscenza di qualcosa che rimanga puramente in sé è del tutto autocontraddittoria – o, detto più duramente, perché non vi è alcun ente in sé. Nell’accogliere dunque tutto in quanto ente, il logos non innalza uno schermo che gli impedirebbe di cogliere l’ente di per sé, l’ente vero, ma anzi si dispone a incontrare tutto quel che incontra e che effettivamente conosce. Si potrebbero ovviamente dire tante altre cose, ma mi limito a condensare il discorso in due sole asserzioni: porre che l’ipotesi dell’entità precostituisca il qualcosa sempre come qualcosa di essente, e non solo di pensabile, impone di tenere gli enti non al di là del pensiero intorno agli enti, mentre nella tinologia è ancora del tutto coerente e quasi necessario separare il pensabile dall’essente, così come nella logica trascendentale le categorie dell’intelletto dal molteplice dell’intuizione e in ultima analisi dalla cosa in sé. E, in secondo luogo, l’ipotesi ontologica non tematizza solo la prestazione del logos nella costituzione dello on, ma anche viceversa – e, di nuovo, sia in termini logico-ontologici, che, almeno in prospettiva, ge25 nealogici: e qui mi riferisco innanzitutto alla formazione del linguaggio e quindi, in ultima analisi, alla storia dell’ominazione. Bastino queste annotazioni, già sin troppo vaste e in realtà premature, poiché tutto quel che abbiamo detto sinora è ancora molto vago e impreciso, dal momento che in questo primo approssimarci al tema ci stiamo appoggiando ad un uso in qualche modo generico dei suoi termini centrali, e innanzitutto proprio di logos e on. Termini e concetti – come quello di nesso ontologico, al quale pure ci siamo limitati a dare solo specificazioni estremamente esigue – che per ora sono solo nomi di luoghi e percorsi appena menzionati, e quindi solo promesse di destinazioni ancora da raggiungere. Ricominciamo, allora, innanzitutto delimitando in maniera chiara i valori dei concetti elementari dell’ontologia del nesso. 26 I Il nesso ontologico τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι Parmenide, DK 28B3 Il nesso che unisce logos e on è stato tematizzato sin dagli albori della filosofia: in Eraclito nel segno dello ὁμολογεῖν, del corrispondere che dice lo stesso; in Parmenide addirittura come identità. Da allora non ha mai smesso di essere un tema centrale – anche nei pensatori che, come Gorgia, lo hanno esplicitamente negato –, e questo perché il nesso ontologico è la forma della verità: vero è il logos che dice lo on, che vi corrisponde, che si adegua ad esso... E tutta la filosofia, in tanti modi, compreso lo scetticismo, rimane preda del pathos della verità e deve dunque sempre ritornare a tematizzare quel nesso. Limpida nell’asserirlo, oltre che molto densa e bella, è una pagina dal Nietzsche di Heidegger: “Domandiamo della definizione nietzschiana dell’essenza della conoscenza. La conoscenza è cogliere e tenere saldo il vero. La verità e il coglimento della verità sono «condizioni» della vita. La conoscenza si attua nel pensiero asseverativo, che, come rappresentazione dell’ente, regna in tutti i modi della percezione sensibile, dell’intuizione non sensibile e in ogni specie di esperienza e di sentire. Ovunque e sempre in tali comportamenti e portamenti l’uomo si rapporta all’ente; ovunque e sempre ciò a cui l’uomo si rapporta viene percepito come essente. Percepire vuol dire qui: prendere sin dall’inizio come essente in questo o quel modo, come non essente o come essente altrimenti. Ciò che in tale percepire viene percepito è l’ente, ha il carattere di ciò di cui noi diciamo: è. E viceversa: l’ente in quanto tale si apre soltanto a un siffatto percepire. È questo che vuol dire il detto di Parmenide: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι (DK 28B3): «Lo stesso è però percezione e anche essere». È lo stesso – cioè: si coappartiene nell’essen27 za; senza percezione l’ente non è essente, cioè presente, in quanto ente. Ma anche la percezione (Vernehmung) non può prendere (nehmen) là dove non c’è ente, dove l’essere non ha la possibilità di venire all’aperto. Da allora, ogni pensatore occidentale non ha potuto non ripensare questo detto, ciascuno lo ha pensato unicamente a suo modo e nessuno esaurirà mai la sua profondità”1. La questione della verità, dunque, va radicata non in una semplice relazione, ma nella coappartenenza di νοεῖν τε καὶ εἶναι – e che Heidegger chiami in causa questo tema proprio parlando di Nietzsche è un indice ancora, se mai ve ne fosse bisogno, della sua straordinaria intelligenza ermeneutica, poiché proprio nella più radicale negazione nichilistica – dell’essere e della verità è nulla! – la connessione dei termini emerge, per quanto in negativo, nella maniera più pura. Anche rispetto alla traduzione del verso parmenideo, Heidegger opera una scelta inusuale e a prima vista strana, ma per nulla arbitraria e molto condivisibile: “Lo stesso è però percezione e anche essere”, e non, come siamo abituati a dire, “pensiero ed essere”. Percezione: Vernehmen è il termine scelto da Heidegger e non Wahrnehmen. Vale a dire che non intende la percezione sensibile in senso stretto, bensì insieme ad essa anche e innanzitutto l’essere avvertiti, l’avere presente, l’apprendere e l’aver chiaro. Il termine coinvolge quindi tutta la sfera psichica e non solo la sensibilità, ed è un termine effettivamente più fedele all’originale greco, ove compare il verbo νοεῖν, che solo a partire dall’epoca classica comincerà a specificarsi sempre più in direzione di un significato noetico, intellettuale, mentre nel momento in cui scriveva Parmenide aveva un’ampiezza semantica più vasta, che comprende qualsiasi consapevolezza di qualcosa, da quella percettiva a quella più puramente intellettuale. Più fedele alla lettera, la traduzione di Heidegger è poi anche più aderente al fatto stesso: non solo il pensiero puramente intellettuale, ma ogni dimensione della coscienza e della percezione, della presenza a se stesso del logos, è affetta, cominciamo a dire così, dall’essere. Heidegger è del tutto esplicito: in qualsiasi Verhalten, in qualsiasi comportamento, dalla percezione all’intuizione, in ogni specie di esperienza e di sentire, ovunque e sempre... l’uomo si rap1 435 s. 28 M. Heidegger, Nietzsche, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994, pp. porta all’ente. Una consapevolezza, questa, che da Parmenide in poi attraversa gran parte della storia della filosofia, trovando espressione non solo entro la metafisica, ma più o meno esplicitamente in ogni ontologia. Non si tratta dunque di una scoperta heideggeriana, né semplicemente del recupero di una tradizione antica e in qualche modo perduta, ma di un leitmotiv costantemente vivo, le cui due espressioni più nette, dopo Parmenide, sono forse da rinvenirsi in Aristotele e nella speculazione medievale intorno ai trascendentali: Aristotele pone l’uno e l’ente, insieme, come le note universalissime, le più universali, che si accompagnano ad ogni cognizione; mentre per i medievali l’ens è il primo contenuto dell’intelletto, anche qui sempre compresente in ogni ulteriore intellezione. Il problema, dunque, non è tanto argomentare questo dato, bensì rendere conto della sua forma, della sua origine e delle sue implicazioni, che sono poi esattamente i temi che verranno affrontati qui. Relativamente al primo, alla forma del nesso, troviamo ancora nella pagina heideggeriana alcuni elementi del tutto essenziali. Il logos, nell’interezza delle sue dimensioni, è un “prendere sin dall’inizio”, vale a dire già sempre e preliminarmente: nei miei termini, ipoteticamente. Un prendere “come essente in questo o quel modo, come non essente o come essente altrimenti”, vale a dire secondo le modalità più elementari d’essere: determinatezza, negazione e alterità – nei termini platonici dei generi sommi: ὄν, μὴ ὄν e ἕτερον. Ciò che viene così appreso, lo è dunque sempre “in quanto ente”, dove questo “in quanto”2 marca del tutto nettamente la funzione generativa del logos: “senza percezione l’ente non è essente, cioè presente, in quanto ente”, ossia, in ultima analisi, non è affatto presente. Solo per il logos vi è ente, dunque, ma d’altro canto il logos è possibile sempre e solo in relazione all’ente: la coappartenenza è così anche un’integrale interdipendenza. E sin qui pare che non vi sia quasi alcuna differenza tra la posizione heideggeriana della domanda circa l’essere e la teoria dell’ipotesi ontologica, affinità che evidenzio da subito, forzandola fin quasi alla coincidenza lessicale, proprio perché siano poi altrettanto 2 Al riguardo, cfr. M. Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt, Endlichkeit, Einsamkeit, Vittorio Klostermann, Frankfurt a. M. 20043, pp. 416 ss., 435 ss. 29 chiare le differenze invece irredimibili dei due discorsi. Differenze che, come si vedrà, riguardano già i termini elementari: ente, essere e logos. E tuttavia, assumendo tali termini in maniera ancora non del tutto determinata, le considerazioni qui proposte da Heidegger coincidono pienamente con la formulazione minima della struttura elementare del nesso entro l’ipotesi ontologica: Il logos non è senza lo on, poiché dice sempre e solo lo on. L’on non è senza il logos, poiché è sempre solo detto dal logos. Il nesso ontologico è dunque originario e inscindibile. Per il momento solo asserzioni, il cui contenuto deve essere ancora chiarito e dispiegato, per quanto si potrà nella maniera più organica possibile, seguendo l’indicazione delle domande più semplici, e invero immediate, che queste tesi implicano: 1) Nel dire l’ente, cosa dice effettivamente il logos? Vale a dire, se tutto ciò che apprende, lo apprende «in quanto ente», ebbene, cos’è proprio a ciò che è «in quanto ente»? Nei termini più classici della tradizione metafisica è la domanda aristotelica sullo ὂν ῇ ὂν καὶ τὰ τούτῳ ὑπάρχοντα καθ’αὑτό (Met. 1030a20). Domanda a cui cercherò di rispondere già in questo capitolo e poi tematicamente in quello dedicato alla struttura ontologica dell’ente. 2) D’altro canto, se lo on è solo detto dal logos, ovvero se non vi è qualcosa come l’ente al di fuori del logos che lo dice e lo pensa, questo “prendere” o apprendere, di cui parla Heidegger, che natura ha? È integralmente un porre o è solo un filtrare? Un rispecchiare o un trasfigurare? È un atto, più o meno puro, o una passione, ovvero è spontaneo o ricettivo, o forse una via di mezzo? Ha la forma del giudizio o del pregiudizio?... Tutte domande, queste e varie altre che vi sono connesse, cui sarà dedicato il capitolo sul concetto di ipotesi. 3) E in ultimo: proprio se il nesso è originario e inscindibile, vale a dire se i due elementi che lo compongono si danno sin dall’inizio e sempre insieme o non si danno affatto3, è anche solo possibile 3 È forse opportuno notare subito qualcosa al riguardo, poiché parlare di inscindibilità del nesso potrebbe suscitare la falsa impressione, che qui si ponga un’istanza di carattere metafisico: il nesso non è inscindibile nel senso che non può essere rotto, ma solo perché, una volta che lo sia, vengono meno anche gli elementi che lo compongono. A rigori sono dunque gli elementi che non possono essere scissi senza annullarsi: il nesso o si dà intero o non si dà 30 porre, per non dire rispondere ad una terza domanda, la più spinosa e aporetica, e che tuttavia deriva immediatamente dalla seconda e rimane inevitabile? Una domanda quindi in qualche modo necessaria e al tempo stesso impossibile, che nei termini heideggeriani qui introdotti può essere espressa così: posto che appartenga costitutivamente al logos questo “prendere in quanto ente” senza il quale l’ente non è essente, ebbene, cosa viene così appreso e posto in quanto ente? Che non è di nuovo la prima domanda, giacché lì si chiedeva cosa dice il logos dicendo «ente», mentre qui ci si chiede di che cosa dica così l’entità, di che cosa la ipotizzi, ovvero l’abbia già sempre posta prima e sotto... Un «che cosa» che pare dover sempre sfuggire al logos, se è vero che coglierlo sarebbe come evadere dal nesso ontologico e spezzarlo. Atto che il logos non riesce a compiere, tant’è che anche quando ci prova – e immancabilmente ci prova –, finisce per collassare su se stesso, giacché il suo domandare non può che risolversi in ultimo nella forma pura: «che cosa è?». Forma pura ed elementare, poiché in essa è già pregiudicata ogni possibilità di domandare e di rispondere: della cosa non possiamo chiedere, se non chiedendone l’essere... Tuttavia, proprio in questa aporia, che è poi l’aporia fondamentale e irrisolvibile della verità, si manifesta un tratto peculiare del nesso ontologico, che per il momento possiamo limitarci a definire come la sua costitutiva apertura all’alterità, vale a dire al mondo entro cui il logos innanzitutto nasce e che solo poi si pone anche di fronte, apprendendone ogni cosa in quanto ente. Ma di tutto ciò e di altro si parlerà a fondo nella sezione dedicata alla differenza cosa-ente. Chiarito l’impianto complessivo, torniamo agli elementi del nesso – logos e on –, che sinora sono stati introdotti senza alcuna ulteriore delucidazione circa il modo in cui verranno qui considerati. E questo sostanzialmente per due ragioni. Innanzitutto perché è solo a partire dal loro nesso che logos e on possono essere e quindi anche essere distinti e posti ognuno per sé: non sono prima separatamente e poi entrano in relazione, ma è invece la relazione condinulla. E poiché è di logos umano che qui si parla, vale a dire di un logos finito e labile, andrebbe più correttamente detto che il nesso è inscindibile finché c’è. Qualsiasi patologia che annulli le facoltà simboliche, ogni stato di incoscienza e infine la morte naturalmente annullano il nesso, che è così al tempo stesso inscindibile e tuttavia destinato a interrompersi. 31 zione di possibilità dei relati, e conseguentemente andava tematizzata prima. E poi perché è naturalmente dalla teoria nel suo complesso che deriva il senso specifico in cui parlo di logos e di on, un senso che quindi risulta fondato e può essere pienamente comprensibile solo alla fine dell’esposizione. Tuttavia, dal momento che questi due termini, attraversando l’intera tradizione del pensiero filosofico, assumono al suo interno valenze molteplici e anche molto diverse tra loro, mi pare necessario, per esigenze di linearità e chiarezza, almeno definire all’ingrosso entro quali valori semantici vanno qui letti logos e on. Le ragioni teoriche di tale scelta, così come le varie questioni che essa apre, saranno per il momento taciute o solo accennate, per tornarvi poi più avanti. E dunque, nonostante il fatto che i due elementi del nesso si costituiscano sempre insieme, l’uno tramite l’altro e verso l’altro, affidiamoci ad un andamento descrittivo che li ponga inizialmente separati e che è utile a evitare i tanti fraintendimenti possibili di questo discorso. E anche a chiarire perché si è preferito adottare questa dizione antica di un problema che anche la modernità conosce bene nei suoi propri termini, per esempio in quelli del rapporto tra «pensiero e realtà» o tra «parola e cosa». Infatti, non è certamente perché qui si vuole parlare di «onto-logia», che in ballo vengono ad essere logos e on, ma è proprio il contrario: è perché questi sono i termini cruciali, che il discorso intorno ad essi può ben venir chiamato ontologia. I.1 Logos In greco antico questa parola ha un gran numero di valenze semantiche: provenendo dal verbo λέγω, il cui significato principale è «dire», logos indica il discorso, innanzitutto 1) la parola parlata, l’orazione e poi anche 2) l’asserto, l’enunciato, la definizione, e dunque 3) il giudizio. Da ciò coinvolge tutta la dimensione noetica, e significa quindi anche 4) pensiero, ragione, intelligenza. In quanto principio e medio dei ragionamenti e delle dimostrazioni, il logos è il motivo determinante, la 5) ragione in quanto causa e fondamento, il criterio. In matematica, poi, logos indica anche la proporzione tra numeri e grandezze o più genericamente il computo e, per traslato, 6) ciò in grazia di cui si rende conto di qualcosa. E infine, in di32 pendenza dal significato di λέγω come «legare», logos può valere come ciò che accoglie e tiene insieme una molteplicità di elementi4, e quindi anche come 7) regola, scelta, misura e legge, come per esempio avviene spesso in Eraclito. E potremmo continuare, ma ci basti aver elencato queste diverse accezioni principali. Nella traduzione latina del vangelo giovanneo, logos è reso con verbum, prediligendo quindi la dimensione linguistica, della parola. Mentre nella filosofia medievale e moderna lo si è tradotto per lo più con ratio, intendendo il termine sia soggettivamente, come ragione-pensiero, sia oggettivamente, come ragione-causa, dimensioni che rimandano sempre l’una all’altra e che nell’intelletto divino sono compiutamente e assolutamente fuse insieme. Ancora sul piano soggettivo non ci si è però accontentati dell’unica determinazione del logos come ratio, ma si è cominciato – a dire il vero da molto presto – a distinguere, secondo tratti specifici ben determinati, tra ragione, intelletto, mente, facoltà del giudizio, facoltà rappresentativa, concetto, pensiero, etc. Tutte dimensioni che rientrano in quella del logos, che dunque non è solo la più originaria, ma rimane anche la più ampia. Ora, proprio in relazione a questa sua originarietà logos è termine preferibile alle sue varie traduzioni, poiché ci indirizza al momento germinale dello spirito occidentale, il cui sviluppo ha trovato spesso impulsi decisivi proprio nell’interpretazione delle prime parole dei greci: tornare all’inizio consente così al tempo stesso di tenere presenti, e tuttavia in qualche modo anche revocare tutte le successive specificazioni del concetto, che ovviamente vi rimangono alluse come sue possibilità, senza però pregiudicarlo interamente. Da questo punto di vista, logos è dunque non solo più originario, ma anche più intatto come termine, più plastico e quindi di nuovo disponibile a nuove interpretazioni. Analogamente, in relazione alla sua ampiezza semantica l’uso di logos consente di non ridurre la questione ontologica ad una qualche altra questione più delimitata e parziale – per esempio al problema della conoscenza – e tuttavia di tenere presenti gli svariati sviluppi che ha avuto nel corso della storia della filosofia e quindi le di- 4 È questa l’accezione privilegiata da Heidegger nel suo scritto sul logos (Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1985, pp. 141 ss.), cui si rimanda per un’analisi più ampia. 33 verse discipline rispetto alle quali l’ontologia rimane preliminare e preordinata. Se si optasse, infatti, a favore di un’impostazione del problema nei termini del rapporto, per esempio, tra pensiero e realtà, immancabilmente ci si esporrebbe al rischio di interpretare il nesso logoson solo in chiave psicologica, gnoseologica o se si vuole di filosofia della mente. Se lo si facesse invece a partire dalla parola o dal giudizio, si rimarrebbe facilmente confinati entro la linguistica, la semantica o la logica formale. Punti di vista che sono certamente coerenti e inerenti al problema ontologico – tant’è che ce ne avvarremo –, ma che non lo esauriscono e in parte ne esulano: l’ipotesi ontologica, infatti, non intende definire le modalità complesse tramite le quali si formano qualcosa come l’esperienza e la conoscenza, e quindi determinare tutte le varie funzioni noetiche e facoltà, anche di natura psico-sensoriale, che assolvono di volta in volta a compiti specifici, dalla percezione, all’immaginazione, alla rappresentazione, alla concettualizzazione etc. Su questo piano, che è comunque ancora parziale, il compito è piuttosto quello di identificare la radice prima e comune di ogni attività logica, ed è quindi opportuno non usare concetti derivati e secondari, talora anche problematici o decisamente fittizi, ma argomentare circa la totalità dell’ambito del pensiero. Compito rispetto al quale anche la logica trascendentale, che pure si approssima molto ad essere un’ontologia del nesso nella misura in cui formalizza “le leggi del pensiero puro di un oggetto”5, rimane parziale, in primo luogo poiché – come già si diceva – considera solo la prestazione del logos nella costituzione dello on e non anche viceversa; e inoltre poiché manca di considerare l’unità essenziale di pensiero e parola. E questo è il punto davvero determinante nella mia scelta: logos tiene insieme non solo la totalità dell’ambito noetico, ma rimanda direttamente e in maniera altrettanto ampia anche alla dimensione del linguaggio, che è assolutamente cruciale e inscindibile dalla considerazione circa il nesso ontologico. Per questa ragione, tra le varie accezioni elencate prima bisogna privilegiarne due, da pensarsi sempre insieme, quasi come sinonime, e intendere dunque logos come l’unità di pensare e dire. Ed è in questo senso che per lo più uso an- 5 I. Kant, Critica della ragion pura, tr. it. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 80. 34 che l’aggettivo «logico»: non come riferito primariamente alla logica formale o trascendentale, ma appunto all’unità di pensiero e parola. Posizione che ricalca la concezione platonica del pensiero come dialogo dell’anima con se stessa. E dal punto di vista formale ciò può bastare, ma solo dal punto di vista formale, che non è l’unico: e qui bisogna almeno accennare a quella che è una delle estensioni dell’ipotesi ontologica al di fuori del territorio dell’ontologia in senso stretto, dove a essere predominante è invece il punto di vista genealogico. Quindi, non rispetto al modo in cui nel logos dello Homo sapiens sapiens storico si danno insieme, come endiadi, pensare e dire, bensì rispetto al modo in cui questa unità si è prodotta lungo tutta l’evoluzione dell’uomo, ebbene, da questo punto di vista è per me evidente che il linguaggio ha una chiara preminenza sul pensiero: è il linguaggio che ha generato le strutture del pensiero, che quindi si mostra infine come unità di pensare e dire6. Ma su ciò non è questo il luogo in cui argomentare, anche perché la decisione circa tale questione esula dai principi dell’ipotesi ontologica e non vi aggiunge nulla. L’avervi accennato induce però a una considerazione più generale, o se si vuole ad una banale avvertenza preliminare riguardo alle relazioni che si danno non solo tra pensare e dire, ma tra varie altre coppie di concetti che incontreremo, come per esempio l’«un ente» del Parmenide platonico; e naturalmente anche tra logos e on. Indifferentemente da come la loro relazione sia di volta in volta più determinatamente pensata, se come nesso biunivoco, come unificazione o anche come identità e così via, l’unità che ne deriva non è di certo mai immediata e indifferente, giacché nel porre insieme due termini, i termini rimangono appunto pur sempre due. È un’unità di differenti, insomma, che una volta posta non esonera dal compito di tematizzare la differenza, anche laddove la relazione sia di piena identità. Considerazione ripeto banale, che qui serve solo ad avvertire che il logos come unità di pensare e dire non è lo schiacciamento integrale dei due termini l’uno sull’altro, ma una sintesi dei due, unità come composizione. Meno banale – poiché se l’identità implica la differenza, non 6 Per una critica serrata, e a mio avviso definitiva, al “pregiudizio cerebrale” in ordine all’origine del linguaggio, cfr. A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola. I: Tecnica e linguaggio, tr. it. di F. Zannino, Einaudi, Torino 1977, pp. 13 ss. e passim. 35 avviene però il contrario – è invece notare che la stessa relazione vale anche per ciò che infine andrà presentato, per ragioni ben precise, a primo acchito nel segno della differenza: come si vedrà chiaramente, infatti, la differenza cosa-ente è nella loro identità. I.2 On Si tratta del participio presente del verbo greco εἰμί, essere. Vale dunque letteralmente come «essente» o, se si predilige la valenza sostantivale piuttosto che quella verbale, «ente». Ossia non significa affatto «essere». È questa una constatazione la cui importanza difficilmente può essere sopravvalutata, per tutta una serie di ragioni che non si esauriscono nel tema heideggeriano della differenza ontologica, per quanto è proprio a Heidegger che dobbiamo il chiarimento decisivo dell’equivoco in cui è caduta la riflessione filosofica quando ha usato la parola «essere» per intendere, più o meno confusamente, essere, essente e la totalità degli enti (l’Essere con la e maiuscola). Ma alla differenza ontologica, che è altra cosa dalla differenza cosaente, dedicheremo più avanti alcune parole, per ora sia comunque chiaro che qui non si farà mai un simile uso traslato e impreciso del verbo «essere», se non in citazioni testuali e in relazione ad esse. Rispetto alla distinzione tra valenza sostantivale e verbale di on, va detto per ora solo questo: ente equivale propriamente a «qualcosa che è»; essente semplicemente a «che è». Una distinzione sottile e non particolarmente importante, poiché le due valenze sono sempre compresenti: ente è qualsiasi essente, essente è ogni ente. Nel primo caso ci riferiamo a un che, che è, e di cui possiamo poi dire cosa/come è; nel secondo caso di alcunché asseriamo precisamente che è. Ma dal momento che ogni che cui possiamo riferirci è sempre essente e che inoltre di un qualsiasi che diciamo sempre un ente – un qualcosa che è –, non rimane spazio di soverchia ambiguità tra le due accezioni. Apparentemente una considerazione molto banale, quasi solo un gioco di parole spiccatamente tautologico, ma non è affatto così, poiché in queste semplici formulette sono già implicate decisioni teoriche di portata molto ampia. A quale condizione infatti, si può asserire, che “essente è ogni ente”? Evidentemente almeno alla condizione che «essente» non significhi solo «concretamente esistente», 36 poiché in tal caso di molti enti – dagli astratti agli immaginari – dovremmo dire che non sono essenti7. E, analogamente, cosa implica dire che “ente è qualsiasi essente”? Evidentemente che ente non indica solamente un individuo, un τόδε τι o una sostanza, altrimenti gli universali, così come tutte le categorie successive alla sostanza, non sarebbero enti. E poi ancora, con l’entrata in scena del logos, cosa comporta asserire che “ogni che cui possiamo riferirci è sempre essente e che di un qualsiasi che diciamo sempre un ente”? Che ogni contenuto del logos, e non solo ogni soggetto logico, può darsi esclusivamente alla condizione minima di essere in qualche modo essente (anche nel modo del non essere). E che di ogni simile contenuto il logos non può asserire, di nuovo, se non un qualche essere (e non essere). Considerando poi la distinzione tra valore sostantivale e verbale di on dal punto di vista logico, questa concezione – che deriva proprio dall’accoglimento incondizionato dei modi in cui il logos dice lo on e che è radicalmente univoca – può essere asseverata notando che un soggetto è tale, se gli si può attribuire almeno un predicato8. E un predicato è tale, se può essere posto come soggetto di ulteriori predicazioni. Da ciò deriva che «essere» propriamente non è affatto un predicato, ma la condizione di possibilità di ogni predicazione (e così, mediatamente, anche di ogni soggetto), condizione che può assolvere proprio perché di per sé non ha alcun significato determinato. Ma sia detto tutto ciò solo come anticipazione di temi che andranno esposti meglio più avanti. Un’anticipazione il cui scopo era mettere in luce quanto il semplice attestarsi su di una resa minima e totalmente impregiudicata di on come «qualcosa che è» – e invero come qualcosa che è sempre di nuovo qualcosa – sia sufficiente a incanalare tutto il discorso entro una corrente che nella tradizione della filosofia non è stata certo l’unica, corrente il cui luogo di origine e di elezione è sull’asse che unisce Parmenide e Platone9. 7 Ma, come si vedrà, «essente» non vuole dire affatto «esistente» e non solo non «concretamente esistente». 8 Se d’essenza o di esistenza, oppure in positivo o in negativo, non fa alcuna differenza. 9 Naturalmente Platone interpreta Parmenide entro un contesto ontologico che Platone stesso aveva inaugurato, arricchendolo e strutturandolo in maniera ampia e originale. Ma proprio al fine di perfezionare questa sua opera 37 Infatti, quel che è stato qui asserito, e invero già nell’ottica del nesso tra logos e on, non è per l’essenziale in nulla differente dall’analisi del logos compiuta nel Sofista di Platone. Vale la pena mostrarlo, almeno brevemente: come già visto, lì il logos ha sempre a che fare con qualcosa che è, e di qualcosa che è noi diciamo sempre ancora qualcosa che è: che questa cosa è così e così, che è essente in questo o in quel modo. Nel dirlo possiamo connettere erroneamente i due enti – ciò di cui si dice e ciò che su di esso si dice –, e quindi possiamo dire di un qualcosa, che è come non è, ma ciò non toglie che sempre di essenti parliamo e mai di puri non-enti. Ecco: questa è per Platone l’autotestimonianza del logos, purché “leggermente torturato” (Soph. 237b2ss.). Ma perché mai andrebbe torturato? Perché una verità così banale gli andrebbe in qualche modo estorta? Innanzitutto per la ragione che il logos è indubbiamente capace di dire anche il non-essere di un ente e quindi non parrebbe affatto vincolato a dire sempre e solo l’ente. Anzi, il logos può dire addirittura “τὸ μηδαμῶς ὄν”, può “osare pronunciare” l’essente per nulla, ciò che in nessun modo è (237b7-8). Ma ciò che non è, a rigori non è neppure un che, e dunque, andando a ritroso nell’argomento, il logos che osa dire ciò che non è, vale a dire il logos che non dice alcunché, non sembra più essere λόγος τινός e quindi non sembra essere affatto logos: dire ciò che non è non significherebbe dunque dire niente, ma non dire affatto. E tuttavia, nota Platone, nonostante ci sentiamo per questo vincolati a dire che τὸ μὴ ὄν è ἄλογον, che il non-essente è indicibile e impensabile, proprio nel dire ciò diciamo appunto «τὸ μὴ ὄν»: Il non-ente. E dicendolo gli attribuiamo unità e determinatezza, lo straordinaria, egli doveva tornare al “vecchio venerando” e fare emergere pienamente la forza del suo discorso intorno allo eon, sottraendolo all’uso eristico dei sofisti (tra i quali non annovero Gorgia, il cui Περὶ τοῦ μὴ ὄντος, per quanto in una direzione per molti versi opposta a quella platonica, è una compiuta ontologia e altrettanto perfetta). Sia detto esplicitamente questo, in evidente aderenza ad una tesi molto tradizionale, solamente per dichiarare che non condivido affatto la lettura heideggeriana quando diviene una requisitoria circa la corruzione del pensiero originario dei presocratici, eminentemente in Platone e Aristotele. Costoro potevano ancora leggere il poema di Parmenide, così come il trattato di Eraclito, ed erano ancora del tutto prossimi alla lingua, allo spirito e alla tensione dei primi grandi filosofi: è un’immodestia ritenere che li fraintendessero radicalmente, laddove noi saremmo in grado di comprenderli autenticamente. 38 pensiamo secondo un’unità e una determinatezza: vale a dire che anche il non-ente non possiamo dirlo se non come un ente, come un qualcosa, che ha una certa determinazione d’essere: l’indicibilità in questo caso e ancor prima proprio il non-essere, che è dunque una modalità dell’essere e niente affatto la sua pura negazione. Su unità e determinatezza, vale a dire sui primi elementi che compongono la struttura dell’esser-ente in generale, torneremo ampiamente più avanti, per ora limitiamoci solamente a vedere cosa comporta questo tipo di impostazione per la determinazione di ciò che appartiene al dominio dell’ente, passando dunque da τὸ ὄν a τὰ ὄντα: «le cose che sono», espressione che in greco per lo più intende «tutte le cose che sono», la totalità di ciò che è. E questo perché vi è un legame molto stretto, ontologicamente, tra ente e totalità: se l’esser-essente è il carattere più elementare che accomuna tutte le cose che sono, l’ente è propriamente l’uno del tutto, il principio di unità di tutto ciò che è. Ed è in questo senso che Platone interpreta anche l’eon parmenideo: nel dialogo dedicato a lui, Parmenide sostiene appunto la tesi che “il tutto è uno” (Parm. 128a8s.). Ma cosa appartiene effettivamente, secondo Platone, all’unitotalità di ciò che è? Cosa fa parte degli essenti? Innanzitutto gli enti naturali e naturalmente gli uomini e i loro artefatti, ancor più gli dei “sempre essenti”, ma anche i numeri e poi le idee, vale a dire gli enti noetici. E poi le azioni e le passioni, gli stati e i movimenti, e così via... Insomma, agli enti non appartengono affatto solo le cose concrete, sensibili, quelle che si possono vedere e toccare con mano, quelle che nascono, divengono e periscono, come ritengono i sostenitori della γένεσις nella gigantomachia circa l’essenza che viene messa in scena proprio nel Sofista. Ma neppure solo le idee!, ossia neppure solo ciò che è eternamente e stabilmente uguale a se stesso, come vogliono i loro “amanti”, gli idealisti da cui Platone prende nettamente le distanze. L’essere degli enti, dunque, non consiste né solo nel movimento, né solo nella stasi, che a egual titolo appartengono ai generi sommi: perché qualcosa possa divenire o invece essere stabilmente, deve innanzitutto essere un ente e basta!... ἓν ὄν, si dice nel Parmenide, e su questo “un ente” torneremo più volte10. 10 L’eon parmenideo è ingenerato e incorruttibile. Mentre in Platone neanche la totalità della physis lo è, essendo generata (per quanto incorruttibile). Questo lo scarto più radicale tra i due. Sarebbe però errato ritenere che Platone, 39 Il discorso andrebbe naturalmente molto approfondito e ampliato, ma qui abbiamo di mira solo una prima presentazione sommaria di ciò che va inteso con on, per cui possiamo limitarci a questi pochi cenni ed esplicitarne il contenuto minimo che ci interessa. Che cosa possiamo dunque leggere e ribadire anche attraverso queste pagine di Platone?: 1) essente non è ciò che appartiene solo ad un certo genere di cose, poiché on indica tutto ciò di cui possiamo dire in qualche modo che è. E anche Aristotele in sostanza riecheggia questa tesi, laddove sostiene che on non è un genere11. 2) Ai molti modi di dire «che è» appartiene anche la negazione: il non-ente è un che determinato dal suo non essere, vale a dire dal suo non essere x (una qualsiasi cosa), o dal suo non essere affatto. E da ciò la classica distinzione platonica tra μὴ ὄν come alterità – τὸ ἕτερον – e μὴ ὄν in assoluto – τὸ μηδαμῶς ὄν che in qualche modo è prossimo a τὸ ἄπειρον, l’illimitato, la cui determinatezza consiste esattamente nella pura indeterminazione. 3) L’«essere dell’ente» sic et simpliciter non consiste dunque in nulla di ulteriormente determinato al di là dell’essere un ente: e quindi «essere» non significa essere-presente o essere-sempre, essere in divenire o essere stabilmente, essere sensibile o essere noetico, e così via ad libitum... In qualche modo, dunque, si può sostenere che anche in Platone «essere» non significa nulla – o tutto, che è lo stesso – e che proprio grazie a ciò può veicolare qualsiasi significato. Tesi che poi Aristotele enuncerà del tutto esplicitamente nel De Interpretatione, marcando peraltro ancora la correlazione tra essere e non essere. facendo rientrare negli ὄντα anche i sensibili e i mutevoli, abbia corrotto la concezione pura e monolitica dell’ente di Parmenide. Egli la ha invece radicalizzata, purificandola da elementi successivi e secondari, come le determinazioni cronologiche riconducibili all’opposizione tra στάσις e κίνησις: on è sia lo ἀεί che lo οὐδέποτε, il sempre e il mai (Tim. 27d6s.). Ma anche Platone non ha condotto sino in fondo tale elementarizzazione, poiché conserva nel suo impianto un luogo eminente ai semata parmenidei: per quanto non indichino le condizioni necessarie per l’essere di un qualsiasi ente, né per l’essere della totalità degli enti, essi indicano i criteri del “veramente essente”, di ciò che è in maniera eminente. E questo residuo è sufficiente a innescare la deriva metafisica di tale ontologia. 11 An.post. 92b11ss. La tesi aristotelica vuole essere esplicitamente antiaccademica, ma ciò non toglie che rispetto al punto qui in questione ribadisca in una forma mutata un elemento già platonico. 40 Anche su ciò naturalmente si dovrà tornare più avanti, giacché qui non si tratta ancora di indagare la struttura dell’ente, né di riflettere sulla differenza ontologica, bensì solo di chiarire l’uso del termine on entro il nesso logos-on, e invero di chiarirlo quasi solo in negativo, vale a dire escludendo certi usi più determinati attestati nella tradizione. E quel che innanzitutto va sottolineato è appunto che la parola on significa solo essente, qualcosa che è, e non qualcosa che è presente, che è stabile, certo, vero, reale... On è ciò che è e basta! Tutti gli altri valori, determinazioni, sensi sono possibili solo sulla base dello on, poiché solo ciò che già è, può avere poi anche predicati e un senso, può essere inteso in un modo o nell’altro, e così via. Ma è soprattutto uno l’equivoco che bisogna evitare: non intendere con on «ciò che è reale». E quindi non intendere il nesso logos-on nei termini di quello pensiero-realtà. E questo vale sia in relazione al singolo ente, sia in relazione alla totalità degli enti: essente non intende solamente una cosa reale, l’ente in totalità non è solamente «la realtà». La qual cosa va sottolineata anche del tutto a prescindere dai criteri in base ai quali qualifichiamo la realtà di un ente reale: che sia nei termini medievali della realitas, e quindi della quidditas come essenza ideale, o piuttosto in quelli moderni della Wirklichkeit, vale a dire dell’effettività constatabile, esperibile e commisurabile, non cambia nulla. Entro tale alternativa, infatti, che non è poi null’altro che una versione rivista della gigantomachia circa l’essenza (che cosa è veramente? L’essenza o l’esistenza? La realitas o la Wirklichkeit?), il nesso logos-on non è pensato affatto, ma solamente pregiudicato e proprio a partire da un certo valore «eminente» dell’essere come essere reale. Ciò che infatti accomuna questi due sensi di «realtà» – quidditas o effettività –, che pure sono molto distanti tra loro e per certi versi contrapposti, è appunto la pretesa che reale sia ciò che è «veramente essente», nell’un caso l’essenza, nell’altro l’esistenza. Ma giacché l’essere non ha alcun senso eminente, anche ciò che è, l’ente, non è affatto solo ciò che è veramente, qualsiasi cosa si possa voler indicare con «essere veramente». Contro questa riduzione, possiamo anche argomentare che essere non significa realtà se non altro perché: 1) diciamo l’essere anche della realtà e quindi lo distinguiamo da essa; 2) diciamo l’essere anche dell’irrealtà – vale a dire che anche l’irrealtà è una modalità d’essere a cui possiamo attribuire determinazioni, se non altro per negazione di ciò che intendiamo come realtà. Ma se anche l’irrealtà in qualche modo è, allora non possiamo intendere per essere l’essere-reale. 41 E, analogamente, ente non è la cosa reale perché, del tutto a prescindere da ciò che vogliamo far rientrare nel dominio delle cose reali, ci mettessimo pure tutti gli enti noetici e sensibili, sostanziali e accidentali, in atto e in potenza, etc. etc., rimarrebbero pur sempre fuori, per non dire degli «enti impossibili», se non altro proprio gli enti irreali: la chimera. Che sappiamo benissimo essere un prodotto dell’immaginazione e dunque ipso facto irreale, ma di cui non negheremmo assolutamente che è un qualcosa che è: un animale mitologico fatto così e così. Un qualcosa che è (una quidditas) e che a modo suo può anche agire o patire – nel senso della δύναμις platonica come criterio di asseribilità dell’esistenza di un che: intendo dire che, in quanto è un qualcosa, in un certo senso la chimera esiste, non certo nella cosiddetta «realtà esterna», ma poiché agisce sulla mia fantasia e in qualche modo pure patisce la spontaneità della mia facoltà immaginativa. Ma su questa coimplicazione di essenza ed esistenza, che nella tradizione è stata esposta magistralmente da Avicenna12, e quindi anche sulla questione dei valori copulativo ed esistenziale del verbo essere, che vi è connessa, torniamo dopo. Ciò che è, dunque, non significa ciò che è reale. E tuttavia vi sono senz’altro buone ragioni per le quali on è stato inteso innanzitutto, se non esclusivamente, come ente reale, sia nel senso della realitas che in quello dell’effettività concreta. Nel primo caso, tali ragioni derivano dalla preminenza ontologica dell’essenza sull’esistenza (che non contraddice la loro coimplicazione); preminenza che entro la storia della metafisica viene pienamente in luce e per lo più assurge a principio della speculazione circa il trascendente, ma che può essere trattata anche in maniera puramente logica, poiché non è solo una «deriva» metafisica13. Nel secondo caso, il motivo è forse ancora più pregnante: per il logos, essente può essere eminentemente la cosa reale in quanto concreta, sensibile, collocata, che oppone resistenza..., per il semplice fatto che lo stesso logos è una cosa di tal fatta! È quest’ultimo un argomento molto importante, non tanto qui, ma più avanti, dove risulterà centrale e decisivo rispetto alla questione della differenza cosa-ente: il pensiero e la parola come attività dell’uomo non sono contrapposti agli enti, in una relazione di es- 12 Cfr. Avicenna, Metafisica, cit., Sez. 5, 30,10-32,16, pp. 71 ss. Per quanto entro la metafisica abbia assunto forme peculiari e innescato implicazioni altrettanto peculiari, come quelle analizzate ne La cosa e l’ente. 13 42 senziale estraneità, ma anzi interamente coinvolti in essi e sono essi stessi enti. È dunque naturale che quel che viene percepito e inteso come proprio modo d’essere da parte del logos, possa divenire la pietra di paragone rispetto a ciò che deve valere in generale per essente. Criterio che può fungere anche in negativo: laddove si è riconosciuta la difettività radicale dell’esistenza umana, i suoi tratti sono stati assunti come stigmate di ciò che non è propriamente e quindi l’ente realmente tale lo si è definito per contrasto con la nostra vita: la svalutazione del mondo sensibile, la sua riduzione a errore e illusione, ne sono un esempio eclatante. Vi sono state dunque buone ragioni, e tuttavia va ribadito che l’accezione di ente come «reale», quale che sia la priorità che possa comunque vantare e il suo senso di volta in volta più determinato, rimane riduttiva e sostanzialmente fuorviante. Ora, però, avendo rifiutato di determinare l’essenza dell’ente a partire da certi enti, quali che siano; avendo ricompreso nel suo dominio qualsiasi proprietà, qualità, forma, relazione, funzione e non solo sostanza, e in fondo qualsiasi contenuto determinato del logos; avendo dunque posto l’ente come coestensivo a tutto, di cui è principio di unità, un tutto che comprende chimere e altre cose strane e che dunque è anch’esso niente affatto «la realtà»; essendo questo tutto quindi almeno tanto indeterminato quanto l’ente, che peraltro non è nulla del tutto – – –, non rischiamo di ritrovarci fra le mani, sotto il titolo: «ciò che è e basta», propriamente niente? Ammesso che sia davvero un rischio, naturalmente. Quale pure è, se non altro rispetto al senso di questo libro, che non vuole certamente rimettere in scena un’ontologia negativa di stampo neoplatonico. Qualche cosa in positivo, dunque, dovrà essere detta e, rispetto al discorso fatto sinora – un discorso parziale che riguarda ancora solamente l’estensione del dominio dell’ente –, possiamo provare a dirla proponendo un criterio di identificabilità di ciò che è ente: tutto ciò rispetto a cui possiamo porre proprio la domanda socratica: τί ἐστιν. E, attenzione, porla e non rispondervi! Poiché proprio qui si genera il grande equivoco della metafisica: se ente è solo ciò di cui si può dire in verità che cos’è, l’ente è ridotto al veramente. Equivoco che ritorna, in forme mutate ma con le stesse conseguenze, anche nella logica contemporanea, con i suoi criteri verocondizionali del significato. Ma si dirà: che criterio di identificazione è mai quello che di fatto non ci permette di escludere niente da un certo dominio? Nean43 che lo stesso niente, se anche di esso possiamo chiederci che cos’è... Il problema, però, è esattamente questo, che dal dominio di ciò che è non può essere escluso niente, poiché ciò che è, è tutto. E che tutto abbia in sé anche il niente (e in sé anche lo stesso Il tutto), è ovvio nella misura in cui rimangono enti. Il che continuerebbe a valere, anche se il big bang, ossia la versione rivista della creatio ex nihilo, dovesse essere revocato e ogni cosa svanisse, insieme al tempo e allo spazio: il nulla residuo (o, nella sua δευτέρα παρουσία, di nuovo originario) sarebbe ancora tutto e Il tutto, anzi in maniera molto più pura, incorruttibile e immutabile, un vero e proprio nulla parmenideo. Apoteosi della contemplazione. Sì, forse in qualche senso è proprio così, ma qui quel che più ci preme è indicare in che modo il criterio della domanda socratica non sia affatto scriteriato: da un lato, infatti, è la formula più chiara per dire, evitando tante negazioni, che «ciò che è» è esattamente ciò che è, e basta, appunto nella misura in cui possiamo chiederci che cos’è. D’altro canto, proprio rispetto a tutte quelle negazioni, in effetti la domanda apre una via non negativa. Che non riguarda l’estensione dell’ente, ma l’ente stesso. Come abbiamo infatti detto, l’ente non è un genere – patet: poiché un genere è sempre di enti –, né è sic et simpliciter tutti gli enti, poiché la totalità degli enti è unificata dall’ente e non viceversa. Ma tolti i singoli – che si tolgono da sé –, i generi e i tutti, da dove possiamo ancora prendere l’essenza dell’ente? Nel De veritate Tommaso rievoca la prima esposizione della differenza ontologica, che non si deve a Heidegger, ma al poco originale – così la vulgata – Boezio: “diversum est esse et quod est”. In quel contesto, però, Tommaso non ce l’aveva con Boezio, ma con una possibile interpretazione di questo suo detto, che avrebbe scardinato la dottrina dei trascendentali. A ciò risponde, dunque: “quando si dice che l’essere è diverso dal ciò che è, si distingue l’atto dell’essere dal soggetto cui quell’atto conviene; ora, il nome di ente si desume dall’atto dell’essere, non dal soggetto cui conviene l’atto dell’essere”14. Il che, mutatis mutandis (e c’è invero molto da mutare), non è in fondo analogo al criterio che si è proposto? Non è dagli enti che 14 Tommaso, Sulla verità, a cura di F. Fiorentino, Bompiani, Milano 2005, pp. 118, 125. 44 impariamo cosa è ente, ma dalla domanda circa ciò che è essere ente, e dunque dallo ἔστιν che diciamo del τι. “Ma come?”, dovrà pur saltare su qualcuno leggendo e dirmi: “non hai già ripetuto a iosa che «essere» non significa niente? Come potremmo dunque partire dall’essere, per dire l’ente? Se non è un predicato, se non significa nulla di determinato, se non ha un senso eminente o un senso in generale, se non indica l’essenza più che l’esistenza o viceversa; nel momento in cui definiamo l’ente solo in relazione all’essere, come «ciò che è e null’altro», non stiamo forse svuotando completamente anche tale termine? Se essere non significa niente, insomma, cosa può mai significare «ciò che è»?”. Domanda del tutto legittima e si vedrà fino a che punto, poiché la lunga via (o Umweg) che stiamo per prendere ci riporterà quasi esattamente nella stessa posizione in cui siamo ora. E tuttavia è ineludibile percorrerla. 45 II Dell’essere e del suo significato Ovvero: Metafisica della grammatica sive grammatica della metafisica La parola «significato» ha avuto, sia lungo la tradizione del pensiero filosofico, sia entro quelle discipline più particolari di cui costituisce un termine cardine, come la semantica e la semiologia, significati anche molto diversi tra loro. In considerazione di ciò sarebbe senz’altro legittimo sceglierne uno in particolare, riferendosi esplicitamente alla teoria in cui si condensa, e rimanervi vincolati nell’esporre la questione del significato di «essere». Legittimo e tuttavia a mio avviso inopportuno, poiché la molteplicità dei significati di «significato» non è del tutto informe e disomogenea, ma restituisce le articolazioni di un plesso unitario, che è schiettamente ontologico. Sono infatti almeno tre i piani eminenti su cui si articola il significato: la parola, il concetto e la cosa – logos e on insomma, posto il logos come unità di dire e pensare1. 1 Poiché qui si intende approcciare la questione in maniera molto generale, almeno per il momento si astrae da ulteriori specificazioni dei vari piani. E così con «parola» non si intende né solo il singolo nome (nome nel senso del Cratilo platonico), né solo la proposizione o un certo tipo di proposizioni. «Parola» vale invece per ogni espressione linguistica più o meno articolata, per ogni concrezione del parlare: è la dimensione del linguaggio che vi viene direttamente allusa e accentuata. E analogamente «concetto» non va intenso in un qualche suo senso più ristretto, ma indica complessivamente la dimensione del pensiero, che già sappiamo essere inscindibile da quella del linguaggio; e «cosa» la dimensione ontica nella sua intera estensione, vale a dire appunto nel senso prima precisato dell’ente come «qualcosa che è» e come correlato indissolubile del logos che lo dice. 47 Tre piani tra i quali si riproduce in vari modi uno schema sostanzialmente uniforme, che potremmo anche chiamare complessivamente logico-simbolico: lo schema di riferimento di qualcosa a qualcosa, per cui qualcosa sta per qualcos’altro. Il significato, dunque, coinvolge sempre almeno due elementi, ma in genere un numero maggiore, che sono al tempo stesso distinti e uniti dal rapporto di significazione2: la parola, per esempio, significa in quanto segno che sta per qualcos’altro, ove questo qualcos’altro può essere di nuovo una parola, oppure un concetto, oppure una cosa3. Se ci chie- 2 Nell’interpretazione classica, che agisce ancora in Husserl (Cfr. E. Husserl, Ricerche logiche, vol. 1, a cura di G. Piana, Il saggiatore, Milano 2005, p. 315: “L’espressione designa [denomina] l’oggetto per mezzo del suo significato”), la parola è simbolo del concetto della cosa e quindi, mediatamente, della cosa stessa. Ma questo schema, che è il più usuale, non esaurisce tutti i rapporti di significazione (per esempio, non quella dei nomi propri), che sono possibili anche tra soli due elementi oppure mettendo al centro il concetto, piuttosto che la parola; come avviene in Ockham, per esempio, dove è il terminus conceptus a significare e solo derivativamente anche quello prolatus (cfr. W. Ockham, Summa logicae, in Id., Opera philosophica et theologica, Editiones Instituti Franciscani, vol. I, St. Bonaventure N.Y. 1974, p. 7). 3 Parlo qui di «segno», in relazione alla parola, solo per marcare l’etimologia di «significare»: apporre un segno o anche porre come segno; e ovviamente per rilevare la connessione tra dimensione semiologica e semantica. Il che non toglie che la parola non sia solo segno, soprattutto non come può avvenire entro una concezione puramente convenzionalista e solo bidimensionale della significazione (come relazione a soli due termini tra un segno del tutto arbitrario, privo di alcun contenuto proprio – che a rigori andrebbe chiamato segnale –, e il suo riferimento convenzionale), concezione «informatica» dalla quale sono anzi lontano (per una sua critica, molto netta, cfr. ancora E. Husserl, Ricerche logiche, vol. 1, cit., pp. 291 ss.). A rigori, peraltro, anche la φωνή e il γράμμα, per accennare qui ad un discorso che verrà esposto ampiamente più avanti, in quanto tali non sono parole, bensì a loro volta segni della parola, la quale oltre a questa sua dimensione diciamo materiale è sempre dotata anche di una componente noetica, per quanto esigua ed indefinita possa essere (come nel caso dei sincategorematici, che sono senz’altro parole). L’esser segno della parola, dunque, non la riduce a un’etichetta indifferente della cosa cui si riferisce, ma va inteso piuttosto, già nel contesto dispiegato dell’ipotesi ontologica, nel senso dello Zeichen cassireriano (che non a caso in italiano è stato tradotto per lo più con «simbolo», in maniera alla lettera impropria ma tutto sommato coerente dal punto di vista teorico), Zeichen che non si appone su di un oggetto già costituito, ma è invero la prima condizione di possibilità della sua costituzione (cfr. E. Cassirer, Die Sprache und der Aufbau der Gegestandswelt, in Id., Symbol, Technik, Sprache, Meiner, Hamburg 1995, p. 126). 48 diamo infatti che significa «animale», non sbagliamo rispondendo che significa: a) «Tier» (riferimento intrasegnico, che nei rapporti di sinonimia è interno ad un’unica lingua4); b) «vivente dotato di sensibilità e motilità» (riferimento al contenuto ideale o concettuale che dir si voglia, come nel Sinn fregeano, o più tradizionalmente all’essenza: in termini aristotelici è il λόγος τῆς οὐσίας – Cat. 1a2); c) ogni animale in particolare (riferimento oggettivo, laddove l’«oggetto» può ben essere pensato anche come ente noetico e non deve essere necessariamente un esistente concreto5). Per quanto strettamente intrecciati e talora in maniera del tutto inscindibile, si tratta di piani diversi, che è necessario distinguere con chiarezza, operazione che può essere senz’altro facilitata e resa espositivamente più agile riducendo convenzionalmente il valore della parola «significato» ad uno solo di essi: per esempio accordandosi a usare «significato» per indicare solo la cosa che è significata da un segno e così ritraducendo la serie «parola-concetto-cosa» in «segno-sensosignificato», come fa appunto Frege. Ma, come dicevo, non è questa in generale, né in tale forma né nelle varie altre possibili, la via scelta qui – ossia entro un discorso complessivamente ontologico –, anche in considerazione del fatto che la domanda sul significato di essere coinvolge in realtà tutti i piani menzionati e va trattata su ognuno di essi, se la risposta deve essere esaustiva. Assunto, infatti, un valore ristretto di significato, sarebbe tutto sommato semplice venire subito a capo della questione e metterla agli atti: posto, come nell’esempio, che il significato indichi la cosa, ci basterebbe ripetere proprio la differenza ontologica per mostrare che «essere» non ha alcun significato. Il che ci dimostra se non altro che l’interrogazione heideggeriana circa il senso dell’essere non è affatto questa e che quindi, seppur intendiamo problematizzarla fino a porla come in ultima istanza interdetta, non possiamo tuttavia pretendere di cancellarla in maniera così banale6. 4 Questa dimensione intrasegnica del riferimento significante, apparentemente secondaria, è invece altrettanto centrale delle altre, poiché è in essa che si estende l’aspetto sintattico del significato, che vedremo essere decisivo per la comprensione della funzione del verbo «essere». 5 Il «cerchio» per esempio significa sia l’essenza del cerchio, sia il cerchio stesso come riferimento oggettivo ideale, distinzione sottile, di cui si può anche argomentare la pleonasticità, e tuttavia coerente e possibile. 6 Che l’essere non abbia un significato nel senso fregeano è per Heidegger del tutto evidente (cfr., solo per esempio, M. Heidegger, Introduzione alla me- 49 La questione, dunque, non è semplice e coinvolge un intero complesso di domande – sul significato della parola «essere», sul «senso dell’Essere», sui valori, accezioni o funzioni che dir si voglia: predicativa, esistenziale, identitaria; e così via... –, complesso rispetto al quale si può però almeno tentare un approccio metodologicamente unitario proprio a partire dalla constatazione che in ogni caso, quando di una parola o di un concetto chiediamo «che significa?», ci troviamo di fronte alla possibilità di una sostituzione: al posto di cosa sta o cosa può stare al suo posto? E poiché qui non vogliamo uscire dall’ambito ontologico, questa sostituzione trova propriamente forma nella parafrasi. Conseguentemente la domanda sul significato di essere dovrà a un certo punto condensarsi, ma lo si vedrà più avanti, nella domanda sulla sua parafrasabilità. Su quest’ultimo punto è però opportuno aggiungere alcune note, anche a costo di qualche ripetizione, se non altro per marcare esplicitamente i limiti entro i quali vanno intese certe premesse. Quel che andiamo argomentando, infatti, appare lineare e semplice, al punto da sembrare generico: negli svariati modi in cui diciamo il significato alludiamo comunque al riferimento di qualcosa a qualcos’altro nella forma dello «stare per»; pur consapevoli, dunque, della ricca articolazione interna del concetto, riteniamo possibile trattarlo unitariamente nei termini di un rapporto di riferimento logico-simbolico, ove logico intende anche sempre linguistico. Ma dietro questa linearità apparentemente aproblematica vi sono naturalmente scelte teoriche ben precise, anzi sempre le stesse scelte, che rendono l’argomento meno banale, diciamo anche più problematico, e che di certo, se non colte o non accettate, non danno più alcuna garanzia di perspicuità e consistenza all’approccio proposto. E la prima di queste scelte è appunto quella di considerare la questione sempre comunque in termini ontologici, anche laddove se ne tematizzano addendi trattabili anche da altri punti di vista. Poniamo dunque la domanda sul significato in generale, come premessa di tafisica, tr. it. di G. Masi, Mursia, Milano 1986, pp. 97 ss.: “per ciò che concerne la parola «essere» sussiste una peculiare connessione originaria tra la parola, il significato e l’essere stesso, mentre la cosa, per così dire, manca”). E anche il concetto heideggeriano di «senso» non ha nulla a che vedere con quello di Frege, né di Husserl (cfr. Id., Essere e tempo, tr. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976, § 32, pp. 192 ss.). 50 quella sul significato di «essere», e la poniamo in vista del nesso che unisce il dire, il pensare e l’ente, che è il piano più generale, entro il quale rientrano poi tutti gli altri come sue specificazioni. E su questo piano cerchiamo comunque di rimanere aderenti ai molti modi in cui si dice il significato, un πολλαχῶς λέγεται, che possiamo esplorare, sempre in ossequio al metodo della leggera tortura del linguaggio, chiedendoci quali sono le risposte possibili alla domanda: «Che significa x?». Ma è evidente che le tre risposte che ci siamo limitati ad elencare si situano esattamente di nuovo sui due/tre fronti del nesso ontologico: dire/pensare ed ente. Questa circostanza rivela che, nonostante avanziamo la pretesa di non limitarci a indagare il significato nei soli termini della disciplina chiamata semantica, in effetti il piano ontologico al quale rimandiamo è proprio quello elementarmente semantico, il che pone l’intera ipotesi ontologica sotto una luce peculiare. Ma non solo: ulteriore conseguenza di tale delimitazione d’ambito – e questa volta a dispetto della fedeltà pur proclamata al πολλαχῶς – è comunque una riduzione delle accezioni di significato pertinenti al nostro discorso: teniamo conto, infatti, solo di quelle che implicano direttamente un legame con il logos7. E anche per questo preferisco parlare di parola e non di segno, poiché «segno che sta per qualcos’altro» può essere anche un segnale non linguistico, ma in tal caso il rapporto di riferimento è prima facie intraontico e non ontologico, e se è tale da non tradursi anche sul piano della 7 Non si mancherà di notare che un’impostazione del genere rimane logocentrica, nel senso derridiano. Il che è in parte vero, ma anche ovvio rispetto a un testo che tematizza proprio il logos nel suo nesso con lo on. La centralità del logos è dunque qui tematica e soprattutto esente da qualsiasi nostalgia teologica, sempre nel senso derridiano. Ed è una centralità che non comporta affatto le conseguenze che Derrida individua come tipiche del logocentrismo metafisico: la preminenza dell’espressione orale sulla scrittura, per esempio, differenza che qui è subito disinnescata e resa non pertinente da una concezione della parola che non è riducibile né al segno, né al semplice nome, pronunciato o scritto che sia. La parola, lo si è detto subito, intende qualsiasi espressione linguistica e innanzitutto proprio l’espressività linguistica stessa, ovvero il parlare, che non è essenzialmente fonetico, per quanto genealogicamente si realizzi innanzitutto nella fonia (e per ragioni in ultima istanza zoologiche; vedi infra, nota 179 a p. 160), bensì dialogico: prima ancora di mediare tra segno e significato, da questo punto di vista la parola media tra me e te, anche laddove tu sono io: nel dialogo interiore che è il pensiero. 51 parola e del concetto non è affatto un rapporto di significazione come qui lo si intende8. Proseguendo ancora oltre in questa stessa direzione, anche il legame diretto con il logos non è omogeneo e simmetrico rispetto ai suoi due poli, ma almeno qui ha il baricentro nell’aspetto linguistico, piuttosto che in quello noetico: tra il dire e il pensare, in ordine al significato, viene prima il dire. E questo, al di là di qualsiasi altra ragione teoreticamente più articolata – e ve ne sono molte che ver8 L’aristotelico squillo di tromba significa «in marcia» solo per l’intenzione di chi lo produce e per me che lo sento e lo interpreto (è un simbolo già pregno di logos). Mentre i segnali inviati e interpretati da un meccanismo informatico – così si descrive, per esempio, il ruolo degli organi di controllo in circuiti cibernetici a retroazione: classicamente il termostato – non significano affatto lo spegnimento o l’accendimento della caldaia, bensì semplicemente lo causano. E se vale la pena notarlo, è perché, in tanti modi diversi, cibernetica, teoria dei sistemi ed informatica, con le loro semiotiche della trasmissione dei messaggi, se da un lato hanno trovato strumenti formali e quantitativi per descrivere in maniera analoga fenomeni biologici, ecologici, tecnologici e linguistici, d’altro canto hanno appiattito le differenze, notevolissime, tra questi ambiti. Il che è coerente con l’impostazione riduzionista di tutta la scienza moderna, che in tal caso procede con un doppio movimento: prima si interpretano dinamiche extralinguistiche in termini linguistici e poi si reinterpreta il linguaggio umano nei termini di quelle dinamiche. Ma tutto ciò porta ad una comprensione estremamente impoverita e molto plausibilmente del tutto distorta (cfr. N. Russo, Filosofia ed ecologia, Guida, Napoli 2000, pp. 95 ss.). Si potrebbe però obiettare, che le ragioni dell’esclusione dei rapporti in questo senso intraontici in ordine a un discorso circa il significato dovrebbero comportare anche l’esclusione dei rapporti solamente intrasegnici (in quanto anch’essi a modo loro non onto-logici). Ma proprio se una parola non è un mero segno, bensì già sempre in relazione all’ente, essa ha ipso facto una natura ontologica (e mi limito a dire «in relazione all’ente» e non in maniera più netta «di un ente», perché intendo estendere questa considerazione anche ai sincategorematici, che non indicano un τόδε τι, ma comunque strutturano riferimenti ontici, tanto più tenendo «ente» nell’estrema generalità con cui lo abbiamo posto all’inizio). Il che equivale a dire che i riferimenti intrasegnici a rigori non sono mai esclusivamente tali, poiché due parole possono mutualmente sostituirsi e possiamo dunque tradurle l’una nell’altra, in ultima analisi in vista della comunanza dei loro riferimenti noetici e ontici: «animale» significa «Tier» solo nella misura in cui la stessa parola sta per lo stesso concetto e per la stessa cosa in entrambe le lingue, misura che peraltro non è mai integrale, il che ci dimostra che anche sul piano meramente intrasegnico la trasposizione non è una riproduzione perfetta e dunque non è mai indifferente. E, analogamente, «per» significa «für», perché le due parole hanno in comune nelle due lingue una vasta gamma di funzioni di riferimento e interrelazione tra contenuti concettuali o cosali. 52 ranno in chiaro più avanti –, anche in base alla semplice constatazione che il significato, pur potendo essere veicolato anche senza parole, può essere inteso ed osteso, e soprattutto può essere indagabile di nuovo solo linguisticamente. In altri termini, sul piano del significato, nella misura in cui lo tematizziamo esplicitamente, la metabasis eis allon genos è già sempre avvenuta, per cui quando parliamo, per esempio, del riferimento di una parola ad una cosa, la cosa non la presentiamo in quanto cosa, ma sempre tramite la parola, anche la parola «cosa». Quando dico, insomma, che «animale» significa, nel senso del riferimento oggettivo, ogni animale particolare, è chiaro che intendo proprio gli animali che infestano la crosta terrestre (ma anche la nostra fantasia) e non l’espressione «ogni animale in particolare». E tuttavia senza l’espressione linguistica non posso dire neanche il riferimento oggettivo: la cosa reale di cui qui intendo parlare non può essere detta se non tramite parole9. Tutto ricade nella parola, insomma, se è comunque in parole che solamente possiamo dirlo. E giacché la parola – sia detto per l’ennesima volta! – non è un mero segno indifferente, che in quanto tale potrei ignorare e scavalcare per afferrare direttamente la cosa, è 9 Questo scarto tra il voler dire e il dire effettivo è invero costante e la descrizione più eclatante la troviamo nel primo capitolo della Fenomenologia dello spirito: “Anche il sensibile noi lo enunciamo come un universale. Ciò che noi diciamo, è: questo, ossia l’universale questo; oppure è, ossia l’essere in generale. Certo con ciò non ci rappresentiamo il questo universale o l’essere in generale; ma enunciamo l’universale; ossia non lo enunciamo senz’altro a quel modo che in quella certezza sensibile noi lo opiniamo. Ma, come si vede, il più verace è il linguaggio: in esso noi confutiamo immediatamente perfino la nostra opinione; e poiché l’universale è il vero della certezza sensibile, e il linguaggio esprime solo questo vero, così è escluso che si possa dire quell’essere sensibile che noi opiniamo” (G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, vol. I, tr. it. di E. De Negri, La nuova Italia, Firenze 1988, p. 84). Al contrario Abelardo (che qui citiamo per ragioni che saranno presto evidenti): “Sicché l’animo comprende l’intellezione meglio di quanto il linguaggio non possa dirla. Infatti, la ragione è più pronta a intelligere di quanto lo sia la parola ad esprimere, e noi intelligiamo la proprietà della cosa meglio di quanto possiamo enunciarla; giacché appunto la forza dell’anima è maggiore di quella del linguaggio” (P. Abaelardus, Dialectica, edidit L.M. De Rijk, Van Gorcum & Comp. N.V., Assen 1956, pp. 118 s. - d’ora in poi Dialectica). Per «intellectus» e tutti i suoi derivati opto per una resa letterale, che mi pare la più impregiudicata interpretativamente (almeno una volta che sia esplicitata). Per tutte le traduzioni dal latino mi sono avvalso della preziosa collaborazione di Cesare Azan. 53 chiaro che nell’espressione linguistica il riferimento oggettivo è sempre già in qualche modo tradito, proprio perché mediato. E lo stesso dicasi in relazione al concetto: senza la parola non posso ostenderlo, non posso invero neanche produrlo, né posso realmente pensare le «cose». La «rappresentazione», infatti, che è stata una delle chiavi di volta del soggettivismo moderno per eludere tale situazione, non ha alcuna facoltà di cogliere immediatamente «ogni animale in particolare» come riferimento oggettivo del concetto di animale: quel che posso rappresentarmi in maniera muta è questo o quell’animale in questa o quella situazione, o anche una loro molteplicità più o meno confusa e diffusa, ma con ciò non arrivo affatto a pensare il concetto di animale10. 10 L’esposizione più chiara di questo plesso è ancora in Hegel, che pure si avvale del concetto di rappresentazione, articolandolo però in maniera molto più complessa di quanto non avvenisse nella tradizione cartesiana, che supera tramite lo spostamento dialettico del fulcro dall’immagine conservata interiormente al nome. In quanto medio tra intuizione e pensiero, “l’attività rappresentativa inizia dall’intuizione e dal materiale trovato” ed è dunque “ancora affetta da questa differenza, e le sue produzioni concrete sono in essa ancora sintesi, le quali soltanto nel pensiero divengono immanenza concreta del concetto” (G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, a cura di V. Cicero, Bompiani, Milano 2007, § 451, pp. 737 ss.). Ha dunque innanzitutto a che fare con il sensibile, con la singolarità ed esteriorità reciproca degli esistenti concreti, singolarità che deve essere portata sul piano universale, cosa che avviene proprio grazie al linguaggio (cfr. ivi, § 20, pp. 131 ss.). I momenti di questa “elevazione dell’intelligenza” sono l’interiorizzazione dell’immagine nel ricordo, la sua ripresentazione nell’intuizione rappresentativa, che la libera per l’attività dell’immaginazione produttiva, per la fantasia “simbolizzante” e ancora oltre per quella “significante”: “fantasia che si esprime in segni” e con ciò giunge sul piano dell’intuibilità razionale autentica, non più solo soggettiva, dove l’immagine oramai non conta più per il suo contenuto, ma solamente per la funzione vicaria di oggettivazione del significato: “L’intuizione, che immediatamente e inizialmente è qualcosa di dato e di spaziale, una volta impiegata come segno riceve la determinazione essenziale di essere soltanto come intuizione rimossa. Questa sua negatività è l’intelligenza” (ivi, §§ 455 ss., pp. 743 ss.). Ciò vuol dire, per tornare così rapidamente al nostro tema, che in Hegel la rappresentazione compiuta non precede il nome, ma lo segue, è propriamente rappresentazione del nome e non dell’immagine designata: “Il tono [scilicet la parola come fonia] che si articola ulteriormente in vista della rappresentazione determinante è il discorso, e il sistema del discorso è la lingua. In questo ambito, il tono conferisce a sensazioni, intuizioni e rappresentazioni un secondo Esserci, più elevato dell’Esserci immediato: in generale, conferisce loro un’esistenza che ha valore nel regno dell’attività rappresentativa”. Questo secondo 54 “Nessuna cosa è dove la parola manca”11, insomma, come recita il verso di George, e senza la cosa non vi è neanche il concetto della cosa: l’idea muta rimane anche invisibile. Tenendo presente tutto ciò, dovrebbe risultare chiaro che la parafrasi non è la semplice istituzione di equivalenze intralinguistiche – per quanto anche in tale forma minima sia uno strumento molto efficace, come dimostra il suo uso sistematico nelle ricerche di linguistica empirica –, ma il modo in cui variamente si realizza e produce sul piano linguistico la metabasis ontologica. E dovrebbe anche risultare se non altro coerente la scelta di impostare e radicare la questione circa il significato di essere a partire dalla sua grammatica. II.1 La grammatica del verbo essere (1) Nel corso dell’ultimo secolo la linguistica ha estremamente affinato e perfezionato i suoi strumenti euristici, acquisendo piena autonomia epistemologica, in particolare rispetto alla logica, la cui interferenza negli studi sul linguaggio ha frequentemente comportato Esserci è dunque “la parola, che per l’intelligenza è il tipo più peculiare e più degno di estrinsecazione delle sue rappresentazioni”, parola che è l’unità di segno e significato, “il collegamento tra l’intuizione prodotta dall’intelligenza e il proprio significato”. E “rendendo suo quel collegamento che è il segno, l’intelligenza eleva il collegamento singolo, mediante questo ricordo [scilicet: del nome], a collegamento universale, cioè permanente, in cui per l’intelligenza stessa nome e significato sono legati oggettivamente. Inoltre, essa trasforma in rappresentazione quell’intuizione che il nome è inizialmente, per cui il contenuto, il significato e il segno sono identificati, sono un’unica rappresentazione: così l’attività rappresentativa nella sua interiorità è concretamente il contenuto, in quanto Esserci del contenuto stesso”. Vale a dire che “il nome è quindi la Cosa [die Sache] quale è data e ha validità nel regno della rappresentazione”: “nel nome la memoria riproduttiva ha e conosce la Cosa, e, con la Cosa, ha e conosce il nome senza intuizione e immagine”. La conclusione è ovvia e conferma nettamente quel che si asseriva: “Nel nome «leone» noi non abbiamo bisogno né dell’intuizione di un tale animale, né dell’immagine relativa. Il nome, allorché noi lo comprendiamo, è la rappresentazione semplice e senza immagine. È nel nome che noi pensiamo” (ivi, §§ 459-462, pp. 751 ss.). 11 S. George (La parola, poesia pubblicata ne Il nuovo regno), cit. in M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, a cura di A. Caracciolo, Mursia, Milano 1998, pp. 129 ss., 173 ss. 55 più confusione che altro12. Lungo la tradizione che vede un suo momento cruciale nello strutturalismo di De Saussure e che per certi versi procede e si realizza nella grammatica generativa di Chomsky, la consapevolezza sempre più matura dei mezzi e la definizione sempre più rigorosa dell’ambito di ricerca e del metodo, hanno prodotto risultati importanti sul piano della semantica, della pragmatica e – quel che qui più ci interessa – della sintassi. In questo paragrafo farò riferimento quasi esclusivo alle ricerche di Andrea Moro, e non solo per ragioni di sintesi, ma innanzitutto perché è l’autore che ha lavorato più sistematicamente e a lungo proprio intorno al verbo essere, proponendo innovazioni teoriche originali e importanti. Inoltre, pur non derogando mai dalle esigenze di rigore della propria disciplina, è stato in grado di farla dialogare fruttuosamente con tanti altri campi del sapere, dalla filosofia alla neurobiologia, proponendo un quadro complessivo che ha rilevanza non solo linguistica. Tuttavia, proprio perché considero il suo lavoro il più organico e completo, ne condivido gli argomenti di fondo e lo trovo un valido contributo alla ricerca ontologica, non potrò risparmiargli alcune critiche su questioni più o meno marginali. Moro inquadra il contesto delle sue ricerche linguistiche intorno al verbo essere entro la tradizione filosofica, distinguendo tre paradigmi: essere come «nome del tempo» (Aristotele), come «nome dell’affermazione» (Abelardo) e come «nome dell’identità» (Russell). Contestualizzazione evidentemente e consapevolmente parziale, sufficiente però a fornire le coordinate per una ricognizione, anch’essa appena tratteggiata, della storia della linguistica dai grammatici alessandrini, ai modisti medievali, a Port-Royal, allo strutturalismo di De Saussure, per terminare con la grammatica generativa di ispirazione chomskyana. Nei primi due di quei modelli, infatti, si incarnano capisaldi ancora indiscussi della ricerca linguistica, mentre il terzo, al di là della sua forma specifica, è esemplare giacché vi emerge un’importante aporia, quella relativa all’ambiguità del verbo essere, leitmotiv molto diffuso, che ha attraversato sia la riflessione filosofica che le analisi linguistiche: il verbo essere 12 Il che, sia detto incidentalmente, da un punto di vista genealogico non stupisce affatto: leggere la grammatica a partire dalla logica, infatti, significa pretendere di emendare l’origine a partire da ciò che ha reso possibile, procedimento per tanti versi aporetico. 56 avrebbe vari significati, logicamente irriducibili tra loro e dunque da distinguersi rigorosamente13. Tesi contro la quale Moro produce una serie di analisi serrate, che culminano nella proposta di una teoria delle frasi copulari molto convincente. O almeno molto convincente per un italiano, il che è detto senza alcuna ironia: come si vedrà, infatti, si dà il caso che la lingua italiana manifesti più esplicitamente di altre, per esempio realizzando lessicalmente elementi funzionali che altrove rimangono impliciti e non espressi, la struttura delle frasi copulari ed esistenziali14. Questo favore concessoci dalla lingua ci vincola però a una riflessione preliminare, vincola il filosofo e anche il linguista a porre innanzitutto la questione della diversità tra le lingue nell’uso del verbo essere. Diversità che va dalla completa assenza di un corrispettivo, alla sua supplenza con elementi presi da altre categorie grammaticali, alla coincidenza nello stesso verbo di funzioni diverse, e così via. Si tratta di un vincolo molto stringente, per più ordini di ragioni, che coinvolgono sia lo statuto complessivo delle due discipline, sia la coerenza e portata di proposte teoriche specifiche. Se, infatti, come nota Moro, “l’interpretazione del verbo essere è la «questione omerica della linguistica»”, giacché “capire come ogni epoca ha interpretato questo verbo porta a comprendere come è stato considerato nella sua totalità il linguaggio”; e se, ancor più, “le frasi con il verbo essere hanno radici profonde e ramificate e capire la loro struttura aiuta a comprendere la natura e l’architettura generale del linguaggio umano”15; allora la circostanza che in più di un terzo 13 Cfr. B. Russell, I principi della matematica, tr. it. di L. Geymonat, Longanesi, Milano 19804, p. 117: “La parola è è straordinariamente ambigua, e si deve avere molta cura per non confondere fra di loro i suoi diversi significati. Abbiamo: 1. il senso che essa possiede quando asserisce l’essere come in «A è»”; 2. il senso dell’identità. 3. il senso della predicazione, come in «A è umano»; 4. il senso di «A è un-uomo», che è molto simile all’identità. Si hanno inoltre usi meno comuni, come «esser buono è essere felice», frase con cui si vuole significare una relazione fra asserzioni (e precisamente quella relazione che produce, quando esiste, una implicazione formale). Vi saranno poi, senza dubbio, ulteriori significati che non mi sono venuti in mente”. 14 Moro riporta molti casi interessanti, anche al di là di quelli che prenderemo in considerazione, per esempio la notevole anomalia dell’accordo verbale nelle copulari inverse: Cfr. A. Moro, Breve storia del verbo essere. Viaggio al centro della frase, Adelphi, Milano 2012, p. 211. 15 Ivi, pp. 16 s. 57 delle lingue conosciute questo verbo non c’è affatto deve essere affrontata di petto e risolta, poiché da essa dipende la possibilità stessa di sviluppare una linguistica universale. Ed egualmente dicasi per l’ontologia, almeno nella misura in cui voglia essere un discorso intorno al logos umano e non solo intorno alla metafisica occidentale, un discorso che prende le mosse proprio dal rilevamento dell’implicazione originaria tra logos e on. E non è tutto: anche se rimaniamo all’interno del gruppo di lingue che hanno un verbo essere, infatti, le differenze nel suo uso non sono affatto irrilevanti, e di nuovo sia per il filosofo, sia per il linguista, che vedono dipendere dalla loro corretta interpretazione la coerenza di proposte teoriche ed ermeneutiche centrali entro il proprio lavoro. Ma procediamo con ordine, elencando innanzitutto i dati empirici più significativi: 1) il verbo essere è del tutto assente in più di un terzo delle lingue conosciute (in esse la predicazione si produce per lo più giustapponendo soggetto e predicato, secondo norme sintattiche ben definite); 2) in molte delle rimanenti è supplito da funzioni grammaticali non verbali (da pronomi personali o dimostrativi, che in sostanza raddoppiano il soggetto, ponendolo così enfaticamente come referente della predicazione); 3) in neppure un terzo è usato sia come copula, sia per le frasi locative, che nelle rimanenti lingue, invece, sono espresse con altri verbi (tipicamente in spagnolo, che per l’essere in un qualche luogo usa «estar» e mai «ser»)16. E vi sono tante altre differenze di minore rilevanza17, ma sia sufficiente tenere presenti queste tre e, oltre naturalmente alla prima, in particolare l’ultima, poiché le frasi locative hanno una stretta attinenza con quelle esistenziali e quindi sono un luogo d’osservazione privilegiato relativamente alla questione circa il significato esistenziale di essere. Questione rispetto alla quale possiamo notare subi- 16 Cfr. ivi, pp. 21-23. In russo, per esempio, «essere» non si usa mai al presente, dove viene sostituito dal verbo «apparire», che è pure una circostanza di non poco conto, sia perché marca una peculiarità speculativamente significativa del tempo presente, sia per la natura del verbo supplente, che introduce nello spazio complessivo della manifestatività. 17 58 to una circostanza, filosoficamente significativa, sulla quale poi torneremo: in greco antico, ovvero nella lingua natale dell’ontologia (e della linguistica), «essere» non è usato solo per le locative in genere, ma anche per le esistenziali in senso stretto, e senza nessuna aggiunta espletiva (come il «ci» nel caso dell’«esserci» italiano), bensì con l’unico vincolo di occupare una posizione sintatticamente specifica. Il greco è dunque l’eccezione delle eccezioni e sarebbe poco plausibile ritenere che questo non abbia svolto un ruolo importante rispetto alla vocazione filosofica di tale lingua, per quanto sia molto difficile, se non impossibile, definirlo compiutamente. Ammettere ciò – e tutto sommato anche ben volentieri – non significa però aderire a quel tipo di strategia argomentativa di cui Categorie di pensiero e categorie di lingua, pubblicato nel 1958 da Benveniste, ossia proprio da un linguista, è l’esempio forse più noto: ridurre l’ontologia ad una ipostatizzazione, nel segno dell’universale, di certe particolarità grammaticali di una singola lingua, singola e singolare, e anzi di un unico verbo, che è il più singolare di tutti18. Tema complesso, che sarà opportuno riprendere dopo aver integrato lo strumentario filosofico proprio con quello della linguistica. Torniamo dunque al punto: che il verbo essere non sia presente in tutte le lingue e che, laddove lo è, svolga funzioni disparate, è un dato che rischia di ledere la pretesa all’universalità dell’ontologia e della linguistica. E che inoltre sembra spingere nettamente in direzione di una concezione equivoca dell’essere, quale non è né la mia, né quella di Moro: “il verbo essere non è affatto ambiguo”19. Ma, proprio a partire da queste due istanze, come si può affrontare quel dato? Rispetto alla pretesa all’universalità bisognerà chiedersi innanzitutto se il verbo essere ha davvero un ruolo così importante, e quale, nelle lingue in cui è presente. E poi se la sua presenza o assenza entro una certa lingua è tale da mutarne significativamente la struttura e la logica. Se infatti dovesse emergere che ha una funzione non semplicemente importante, bensì cardinale, e se tale funzione fosse rinvenibile e altrettanto centrale anche nelle lingue che non hanno una parola esplicita adibita a svolgerla, allora quella pretesa rimarrebbe intatta: che sia o meno realizzato lessicalmente, e che lo 18 Cfr. E. Benveniste, Problemi di linguistica generale II, tr. it. di F. Aspesi, Il saggiatore, Milano 1985, pp. 79 ss. 19 A. Moro, Breve storia..., p. 16. 59 sia come verbo o in altro modo, la sua funzione sarebbe infatti fondamentale e comune a tutte le lingue, sarebbe una funzione del linguaggio in generale. Tanto che verrebbe da chiedersi non cosa aggiunga alle lingue in cui c’è, ma come possa mancare nelle altre, senza renderle monche e inservibili: evidentemente solo a patto di poter essere supplito con elementi non semantici, bensì dalle sole strutture sintattiche. E così proprio l’aporia si rivelerebbe un’ottima occasione per corroborare la tesi che di per sé essere non significa niente, se al suo posto può stare un vuoto lessicale20. Il che, naturalmente, varrebbe come premessa determinante anche rispetto alla pretesa equivocità di essere: lungi dall’avere molti significati, infatti, pare che non ne abbia neppure uno, tanto che una simile concezione a rigori non andrebbe detta univoca, bensì nullivoca21. E così abbiamo già anticipato tutto l’essenziale di quel che ora dovremo cercare di mostrare e non solo di asserire. Tuttavia, già dalla formulazione sommaria del problema e dalla prefigurazione delle sue possibili soluzioni, si trae un’indicazione: per cercare di comprendere l’assenza del verbo essere in certe lingue, non abbiamo altra via che cominciare studiandone la funzione in quelle in cui è presente. Il che è effettivamente molto banale: se non sappiamo bene cos’è il verbo essere, come possiamo anche solo rilevarne l’assenza? Affrontiamo dunque la parte viva del discorso di Moro, iniziando dalla sua contestualizzazione filosofica, che per quanto parziale ha il merito di rimandarci ad autori e testi di assoluta rilevanza. 20 È quanto nota Derrida, a mio avviso in maniera ineccepibile, nel suo Il supplemento di copula (in Margini della filosofia, a cura di M. Iofrida, Einaudi, Torino 1997, p. 259): “Se «essere», almeno come copula, «non ha un significato proprio» poiché dispiega la sua estensione all’infinito, esso non è più legato alla forma determinata di una parola o piuttosto di un nome (in senso aristotelico, che comprende i nomi e i verbi), cioè dell’unità di una phone semantike, fornita di contenuto di senso. Allora, affermarne la presenza in una lingua e l’assenza in un’altra non è un’operazione impossibile? O contraddittoria?”. 21 Ed è proprio una concezione in tal senso nullivoca di «essere» che comporta nel modo più stringente la concezione invece univoca dell’ente: se «essere» non determina in alcun modo l’ente, allora non pone alcuna differenza nell’esser-ente dell’ente, che ha un’unica struttura. 60 II.2 «Essere e non essere» nel De interpretatione Contrariamente a ciò che la tradizione ha dato quasi sempre per scontato, asserisce sin dall’inizio e ribadisce più volte Moro, Aristotele non ha mai usato per indicare il verbo essere la parola «copula», la cui diffusione si deve invece sostanzialmente ad Abelardo22. Il che, va notato, seppure fosse vero, lo sarebbe allo stesso modo in cui è vero che Aristotele non ha mai usato le parole «metafisica», «ontologia», «psicologia»... Voglio semplicemente dire che anche l’eventuale assenza nel suo lessico di un corrispettivo greco ben determinato di «copula» non significherebbe ipso facto che egli non abbia pensato a fondo la funzione copulare di essere. E questo andrà mostrato esaustivamente, anche a prescindere dal dato di fatto che quella parola in Aristotele non manca per nulla: si tratta di συμπλοκή, che è termine coniato esattamente da «copula»23! Tutta- 22 Cfr. A. Moro, Breve storia..., pp. 34, 39, 52. Va detto, però, che tale tesi, nonostante sia in contrasto con la tradizione, è oggi ben rappresentata entro un certo filone di storia della filosofia e, ahimè, sostenuta anche da studiosi molto autorevoli, per esempio De Rijk (cfr. G. Movia, Apparenze, essere e verità, Vita e pensiero, Milano 1991, p. 228), peraltro curatore anche della Dialectica di Abelardo. Il termine «copula», comunque, come nota lo stesso Moro, compare prima di Abelardo, in Garlando il Computista, e secondo alcuni è attestato anche nella filosofia araba, in particolare in Al Farabi (cfr. M. Fattal, Ricerche sul logos, a cura di R. Radice, Vita e pensiero, Milano 2005, p. 150). Si tratta in tutti i casi di autori che leggevano e commentavano Aristotele, come lo stesso Abelardo (che in tutte le sue opere di logica dedica ampie sezioni al De interpretatione), il quale a mio avviso, a differenza di quel che ritiene Moro, rimane molto vicino alla lettera aristotelica, almeno rispetto agli argomenti che qui ci interessano. Conseguentemente, già in questo paragrafo rimanderò ai luoghi corrispondenti della sua opera, limitandomi a quelli più interessanti. 23 «Copula» viene da «cum apio»: «legare insieme», «allacciare», che riproduce molto da vicino συμπλέκω, «intrecciare insieme», verbo che tra i suoi vari significati ha anche quello del coito, tanto che nella forma media è spesso usato proprio da Aristotele nei suoi trattati naturalistici a indicare l’accoppiamento (cfr., solo per esempio, Hist.An. 542a16 e poi De gen.An. 720b34, dove la menzione dello “ὄργανον συμπλοκῆς χάριν” avrebbe forse fatto sorridere Derrida, quale ottima definizione del logos). Del suo uso logico, sempre in Aristotele, diremo ampiamente più avanti, ma teniamo presente che il termine συμπλοκή è già platonico e proprio da Platone acquisisce il senso tecnico dell’unione predicativa tra nome e verbo, divenendo un concetto di grande rilevanza (cfr. Soph. 262b9ss.). Ma anche in Platone lo troviamo pure a indicare esplicitamente il coito (Conv. 191c3ss.). Insomma, è evidentemente quasi la stessa parola con le stes- 61 via, così come non basta l’assenza del termine a dedurre l’assenza del concetto, non basta neanche la sua presenza a fondare sufficientemente la deduzione opposta: come vedremo, infatti, la συμπλοκή dice la funzione predicativa in generale e non del solo verbo essere, che ne è però l’operatore per eccellenza. Ad ogni modo la precisazione di Moro, fondata o meno che sia, non vuole essere critica, poiché in effetti ciò che Aristotele avrebbe colto – anzi: che ha colto, e plausibilmente davvero per primo – sembra anche più centrale in ordine alla struttura della frase: il valore di essere come “supporto alla flessione verbale” e quindi come espressione del tempo24. Più complessivamente, poi, i termini elementari nei quali Aristotele analizza quella struttura sarebbero rimasti sino ad oggi intatti, da cui il carattere fondativo della sua opera anche rispetto all’analisi linguistica. A tali risultati Aristotele è giunto, secondo Moro, grazie ad un’impostazione metodologica rigorosa e fruttuosa: limitare in prima battuta l’analisi della struttura ad un solo tipo di frase, quella dichiarativa o apofantica, che si caratterizza essenzialmente per la prerogativa di poter essere vera o falsa. Il testo di riferimento è dunque il De interpretatione, dove Aristotele afferma che “non tutte le frasi sono dichiarative, ma lo sono solo quelle nelle quali c’è verità e falsità” (De int. 4, 17a2-4). E verità e falsità “hanno a che fare con la composizione e la separazione” (De int. 1, 16a12-13). Ciò che vie- se valenze di fondo e davvero non so come si sia potuto trascurare un dato così eclatante, ma di fatto non ho trovato alcuna notizia a corroborazione della tesi che «copula» conii συμπλοκή. Forse lo si deve alla circostanza che, dal punto di vista storico-filologico, è una tesi di difficile attestabilità, giacché «copula» non è il termine scelto dai primi traduttori latini di Aristotele, non da Boezio certamente, e la sua introduzione pare essere stata mediata dalle traduzioni arabe. Questo rende difficile ricostruire in maniera documentata una derivazione diretta – ma magari un esperto di filosofia araba potrebbe anche riuscirci –, derivazione che però mi sembra inoppugnabile già dal semplice confronto tra etimologia e ricorrenze, per via dunque non storica, ma diciamo anatomico-comparativa. Se anche, infatti, si volesse un po’ sofisticamente notare che «cum apio» non corrisponde perfettamente, dal punto di vista etimologico, a συμπλέκω, bensì a συνάπτω, basterebbe citare Met. 1027b29ss., dove Aristotele parla di συμπλοκή e immediatamente la parafrasa verbalmente con συνάπτει... 24 A. Moro, Breve storia..., pp. 27 e 161, dove viene citato Chomsky, che contestando la riducibilità logica della grammatica, nota: “Al contrario, le lingue umane aderiscono alla concezione aristotelica classica...”. 62 ne composto o separato è una proprietà con una sostanza in grado di goderne, nei termini poi invalsi: predicato e soggetto, ossia “le due colonne portanti del pensiero logico-linguistico occidentale”, giacché “costituiscono l’impalcatura della frase, le condizioni senza le quali la sua natura non è nemmeno esprimibile”25. L’aspetto propriamente ontologico (forma e sostrato) è qui dunque messo tra parentesi, anche opportunamente, e Moro si concentra sulle relazioni tra il piano logico (predicato e soggetto) e quello grammaticale (verbo e nome), che non sono del tutto analoghi, poiché la loro simmetria viene spezzata proprio da «essere», che è sì un verbo, ma niente affatto un predicato. E va detto che si tratta di una chiave di lettura del De interpretatione consistente, poiché ne mette in luce un tratto senz’altro importante: in effetti, proseguendo su una via già inaugurata da Platone, in questo testo Aristotele cerca di isolare meglio, chiarire e definire le categorie grammaticali che reggono la formazione di un discorso, e lo fa tenendo presente sia la loro funzione logica, che quella semantica, semiologica e per certi versi anche sintattica. Un’opera straordinaria, se si considera che la distinzione stessa tra nome e verbo nel greco dell’epoca era ancora labile e oscillante26. Il primo elemento di discontinuità tra nome e verbo – ma come vedremo non è l’unico – è che il verbo “è ciò che in più significa il tempo” (De int. 3, 16b6). “In più”, legge Moro, rispetto al contenuto semantico determinato che nome e verbo possono in qualche modo condividere: “pettine è il nome comune di un oggetto e pet- 25 Ivi, pp. 40-44. Nel presentare le tesi di Moro e per rimanere aderenti ai termini in cui argomenta, ci atteniamo alle sue traduzioni, che sono condotte, come dice esplicitamente, sulla base della versione inglese di J.L. Ackrill, che “più naturalmente si adatta alla terminologia linguistica” (ivi, p. 39). Ma quando sarà il momento di tornare direttamente sul testo aristotelico, dovremo regolarci altrimenti. 26 ὄνομα vale inizialmente come «parola» (λέξις, infatti, che in Platone significa ancora «elocuzione», solo con gli stoici assume il significato tecnico di «parola»), e intende quindi indifferentemente nomi e verbi. ῥῆμα, invece, è propriamente «ciò che è detto», l’asserito, naturalmente intorno a qualcosa, quindi è inizialmente più prossimo a ciò che chiamiamo predicato, piuttosto che al verbo. In Soph. 237d2, per esempio, l’aggettivo «grande» è appunto un ῥῆμα e, come vedremo, anche in Aristotele questo uso sopravvive, insieme a quello che poi si imporrà proprio grazie alla sua opera (poiché dire qualcosa di qualcosa è grammaticalmente ufficio del verbo). 63 tina è un verbo, poiché significa che qualcuno sta compiendo l’azione di «pettinare ora»; cambiando la flessione del verbo posso infatti cambiare il tempo”27. Posta questa definizione, Moro cita un altro passo aristotelico: “non c’è differenza nel dire un uomo cammina e un uomo è camminante” (De int. 12, 21b9-10). E nota che nella parafrasi il contenuto semantico è separato dall’espressione del tempo, che è assolta dalla flessione del solo verbo essere. Ne conclude che “il verbo essere, per Aristotele, non è dunque un predicato, ma esprime il tempo quando il predicato non è costituito da un verbo”. Più in generale: “Nel decifrare l’impalcatura della frase affermativa siamo giunti a individuare i due pilastri fondamentali (il soggetto e il predicato) e un altro componente aggiunto (il tempo), di solito espresso sincreticamente sul predicato, quando il predicato è realizzato da un verbo, o da un verbo autonomo, il verbo essere, quando il predicato non è espresso da un verbo ma, ad esempio, da un nome. In ogni caso, il verbo essere non è un predicato: è «solo» un verbo”28. Dove questo essere solo un verbo, significa in fon27 A. Moro, Breve storia..., p. 46. 28 Ivi, p. 47. Nella stessa pagina Moro parla della “natura terziaria” della co- pula, rispetto a soggetto e predicato, e argomenta che è tale, poiché la frase apofantica è definita a partire dalla possibilità di essere vera o falsa, e questa possibilità riposa sull’attribuzione di un predicato ad un soggetto e non sul tempo. Ma, come vedremo, non è affatto così: il verbo essere aggiunge esattamente «l’attribuzione», la sintesi e dieresi, oltre a temporalizzarla, e così rende possibile non solo la predicazione, ma anche il vero e il falso. Il “terzo”, di cui Aristotele parla in De int. 10, 19b20s., è così in effetti il primo. L’aver ridotto la funzione di essere alla sola espressione del tempo conduce poi Moro a fraintendere anche altri passi del De Interpretatione, per esempio 10, 19b12, che è di poco precedente a quello sul “terzo”: “Senza verbo, né affermazione né negazione”. Poiché in tale frase non vi è alcun verbo, né vi è espressione del tempo, ma di certo vi è un predicato, se ne dovrebbe dedurre che qui ῥῆμα significhi predicato e non verbo (ivi, pp. 48 s., dove Moro rimanda a De Mauro, Thornton e Graffi per il rilevamento di tale “paradosso”). Aristotele avrebbe dunque confuso categoria grammaticale e funzione logica. Ma ciò, al di là e a dispetto di quanto appena notato sul primo significato di ῥῆμα, è qui plausibile solo se si è già posto che l’affermazione e la negazione si risolvono tra soggetto e predicato, mentre per Aristotele non è così: esse richiedono proprio un verbo, è questo che sta ribadendo qui, e in ultima analisi «essere e non essere». E che di verbo si tratti e proprio di essere, è del tutto esplicito nel seguito immediato del passo, che forse Moro ha trascurato: “Senza verbo né affermazione né negazione. Infatti è o sarà o era o diviene o tutti gli altri termini di questo genere da quanto detto sono verbi, giacché significano in più il tempo. Di conseguenza la prima afferma- 64 do essere l’unico verbo puro29, assunto che il verbo è ciò che aggiunge il tempo. Per i suoi scopi, e dato il contesto entro cui compare il riferimento al De interpretatione, Moro può limitarsi a mettere in luce ciò, ma noi invece dobbiamo indagare con molta maggiore attenzione almeno i paragrafi iniziali di un testo, che è stato costantemente riletto e commentato lungo la tradizione filosofica e linguistica ed è di importanza assolutamente capitale. Ciò ci consentirà di confermare le conclusioni più essenziali dell’interpretazione di Moro, ma anche di correggerne le unilateralità e mostrare come l’analisi di Aristotele, oltre a contenere chiaramente una teoria della copula, definisce in maniera molto fine le funzioni sintattico-grammaticali che regolano la struttura della frase. Inoltre, le tesi intorno al verbo essere sono preparate anche qui proprio da considerazioni di carattere semiologico e semantico, e la loro esplicazione puntuale zione e negazione sono uomo è – uomo non è”. Paradosso per paradosso: la prima affermazione e negazione a prima vista non hanno affatto un predicato, ma solo un verbo... Ma anche qui non è così: come nella prima frase evidentemente – e Moro lo nota – è sottinteso proprio «essere» e dunque il verbo c’è, così in queste due ultime «essere» e «non essere» stanno per qualsiasi altro verbo e dunque alludono ad ogni predicato verbale possibile. Quel che qui ad Aristotele preme, infatti, è mostrare come si appone la negazione entro una frase per ottenerne la contraddittoria, posizione che muta se la frase è a due termini (uomo è: uomo corre) o a tre termini (uomo è buono). Ed è in relazione a ciò che parla del “terzo”, vale a dire delle frasi copulari elementari, in cui ci vogliono almeno tre termini ed «essere» è esplicito e non implicito come in ogni altro verbo. Notare questo risolve subito anche un altro problema menzionato da Moro circa un esempio aristotelico che farebbe pensare che “il verbo essere aggiunto a un nome produce un discorso affermativo” e che dunque è un predicato. Come abbiamo appena visto, sarebbe bastato continuare la lettura da De int. 10, 19b15ss. per trovarne a iosa di tali esempi, ma Moro cita qui dal primo paragrafo: “e infatti l’ircocervo significa sì qualcosa, ma non ancora il vero e il falso, se non si aggiungano l’essere o il non essere o semplicemente o secondo il tempo” (De int.1, 16a16-18). A mio avviso correttamente, Moro nota che qui non si dà senz’altro un uso esistenziale di essere, ma che “il verbo essere stia in questo caso come il verbo che può essere seguito da tutti i predicati possibili” (ivi, p. 50), compreso naturalmente il predicato di esistenza. Sì, ma così siamo ritornati al punto di inizio di questa nota: il vero e il falso dipendono da essere, e anche detto semplicemente e non secondo il tempo... 29 Ancora in Tommaso, Logica dell’enunciazione. Commento al libro di Aristotele Peri Hermeneias, a cura di G. Bertuzzi e S. Parenti, Edizioni studio domenicano, Bologna 1997, p. 112, essere è: “la fonte e l’origine di tutti i verbi”. 65 potrà dunque integrare sensibilmente le poche considerazioni fatte precedentemente intorno al concetto di significato. A differenza di Moro, però, non ci rifaremo a nessuna traduzione particolare e soprattutto non ad una qualche traduzione di ispirazione analitica, poiché in quell’ambito è troppo radicata l’usanza di ridurre il testo aristotelico alla sola dimensione logica, il che è decisamente improprio. E non sembri strano affermarlo, affermare che i trattati dell’Organon, che è considerato la prima silloge di logica e quasi l’atto di nascita di tale disciplina, oltre che una sua realizzazione insuperata per secoli, non vadano ridotti logicamente: non è affatto strano, se si considera che proprio come testo quasi inaugurale (quasi, poiché già in Platone e nei sofisti ci sono importantissimi contributi) l’Organon ha sì gettato le basi di quella che sarebbe diventata la logica formale, ma lo ha fatto in una situazione in cui la logica come disciplina a se stante non esisteva ancora e quindi senza alcun precondizionamento epistemologico. O meglio, con altri precondizionamenti: si può leggere l’intera impresa dell’Organon come il frutto maturo del confronto/scontro inaugurato da Platone con la sofistica, la critica radicale all’eristica e il riposizionamento dei principi della dialettica su basi strettamente ontologiche. A ciò si aggiunga che nei vari trattati dell’Organon confluiscono, e spesso in posizioni determinanti, considerazioni di vario genere che, sempre un po’ anacronisticamente, potremmo definire psicologiche, semiologiche, semantiche, retoriche, metodologiche... Per tutte queste ragioni è necessario cercare un approccio il più incondizionato possibile al testo nella sua forma originaria, che è tipicamente ellittica sia in funzione di certe specificità del greco antico, sia per la sua natura esoterica e didattica. Questo ci imporrà di tradurre in un italiano spesso orribile, poiché dovremo evitare qualsiasi integrazione esplicativa a partire da ciò che solo a prima vista può sembrare ovvio, e dunque evitare ogni iperdeterminazione di un testo che spesso rimane molto indeterminato o, meglio, determinato solo fino al grado di risoluzione desiderato. Aristotele inizia elencando gli argomenti centrali del trattato: “innanzitutto bisogna porre cosa è il nome e cosa il verbo, poi cosa è negazione e affermazione e apofansi e logos”30. Bisogna “porre”, 30 De int. 1, 16a1-2. Alcuni termini che in Aristotele assumono un valore tecnico più o meno spiccato, come qui ἀπόφανσις, e poi σύνθεσις e διαίρεσις, e 66 vale a dire delimitare esplicitamente il senso specifico in cui tali espressioni vanno comprese31, compito necessario soprattutto rispetto ad ἀπόφανσις, che è un neologismo aristotelico (in Platone il termine compare, anche frequentemente, ma solo nella forma verbale), ma anche a ὄνομα e ῥῆμα, il cui significato abbiamo già detto essere stato ancora fluido nel greco dell’epoca. Dopo questo breve incipit, il testo entra subito medias in res: Ἔστι μὲν οὖν τὰ ἐν τῇ φωνῇ τῶν ἐν τῇ ψυχῇ παθημάτων σύμβολα καὶ τὰ γραφόμενα τῶν ἐν τῇ φωνῇ. “Ciò che è nella voce è simbolo delle affezioni che sono nell’anima e ciò che viene scritto di ciò che è nella voce” (De int. 1, 16a3-4). Come si vede, Aristotele non specifica cosa sia “nella voce” e questo vuoto viene spesso riempito interpretando l’intera espressione con «suoni»: “i suoni sono simboli delle affezioni dell’anima e i segni scritti sono simboli dei suoni”32. Scelta apparentemente ovvia – ciò che è articolato vocalmente è innanzitutto suono –, ma in realtà impropria, poiché consente una confusione tra il logos umano e l’espressività sonora animale, la quale pure traspone all’esterno una situazione interiore, uno stato dell’anima, ma niente affatto in maniera simbolica. Una simile confusione Aristotele non la autorizza in alcun modo e anzi molto frequentemente la stigmatizza, anche in questo stesso testo, proprio poche righe dopo quelle che abbiamo letto, dove parlando del nome esplicita in maniera del tutto chiara la differenza: “che sia per convenzione – κατὰ συνθήκην –, deriva dal fatto che nessuno dei nomi è tale per natura – φύσει –, ma solo quando sia divenuto simbolo: giacché anche i suoni non articolati in lettere – οἱ ἀγράμματοι ψόφοι –, come quelli delle bestie, manifestano sì qualcosa, ma di essi nessuno è nome” (De int. 2, 16a26-29)33. I suoni, innaturalmente συμπλοκή, una volta esplicati più o meno in aderenza con le traduzioni italiane più usuali, converrà semplicemente traslitterarli, quando in italiano producano lezioni accettabili, o anche lasciarli in greco, ché il discorso ne guadagna molto in immediatezza e dunque chiarezza. 31 Abelardo glossa: “Anzitutto occorre porre, cioè rendere noto al lettore (ponere in notitia lectoris)”. In P. Abaelard, Philosophische Schriften 1: Die logica ingredientibus, t. 3: Die Glossen zu ΠΕΡΙ ΕΡΜΗΝΕΙΑΣ, hrgb. B. Geyer, Verlag der Aschendorffschen Verlagsbuchhandlung, Münster i. W. 1919-1927, p. 311. D’ora in poi Log. ingred.). 32 Aristotele, Organon, a cura di M. Migliori, Bompiani, Milano 2016, p. 209. 33 Nell’espressione οἱ ἀγράμματοι ψόφοι – i suoni agrammatici – Aristotele usa un termine, ψόφος, il cui significato più proprio è «rumore». Sui nessi tra 67 somma, in quanto suoni non sono affatto simboli, per quanto possano divenire tali, passando dal φύσει al κατὰ συνθήκην. La natura di questo passaggio e la struttura complessa del simbolo che ne deriva li affronteremo tra poco, non prima di aver terminato una prima lettura del passo. Le considerazioni svolte sinora rendono comunque già trasparente il motivo per il quale Aristotele inizi non parlando della voce sic et simpliciter, bensì di ciò che è “nella voce”, di cui la voce si fa veicolo, di ciò che è posto in essa foggiandone la materia sonora, articolandola34. Se poi teniamo pre- suono e voce, cfr. De An. II, 420b5ss. e 420b29ss.: “Infatti, come si è detto, non ogni suono del vivente è voce (è infatti possibile emettere un suono anche con la sola lingua o come quando si tossisce), ma c’è bisogno che il percuziente sia vivente e dotato di una qualche immaginazione – μετὰ φαντασίας –; la voce è infatti un certo suono significativo – σημαντικός γὰρ δή τις ψόφος – e non un semplice urto d’aria inspirata, come la tosse”. Insomma, anche la voce animale è significativa in relazione alla sua connessione con un’immagine interiore, così come il logos in connessione con un noema. Sulla voce nei viventi in generale e negli uomini, vedi Pol. 1253 a9ss.: “Tra i viventi l’uomo è l’unico ad avere logos. La voce, infatti, è dal canto suo segno – σημεῖον – del piacere e del dolore e perciò appartiene anche agli altri viventi, nella misura in cui la loro natura giunge fino ad avere la sensazione del piacere e del dolore e a manifestarsela reciprocamente. Invece la parola serve a indicare l’utile e il dannoso...”. Questa concezione aristotelica è peraltro un leitmotiv molto diffuso nella Grecia dell’epoca, di cui troviamo tanti elementi già in Platone e soprattutto in Democrito, che descrive così le origini dell’uomo: “La loro voce cessò di emettere suoni inarticolati e senza significato, e a poco a poco apprese ad articolare vere e proprie parole, fino a che essi giunsero a concordare tra loro simboli per ogni cosa che conoscevano e alla loro portata. In questo modo, essi determinarono la nascita di espressioni per tutte quante le cose. Poiché tali comunità umane nacquero in ogni luogo della terra abitata, la lingua o il dialetto non potevano essere gli stessi per tutti: infatti, succedeva che ciascuna comunità coniasse proprie parole. Di conseguenza, i caratteri di quei dialetti furono diversi e molteplici, e le prime comunità nate diventarono le capostipiti di tutte le etnie” (DK 68b5,1). 34 Il tema dell’articolazione è già platonico e Aristotele lo riprende in Problemi, 895a4-18: “Perché è soprattutto l’uomo a emettere tipi diversi di voce, mentre gli altri viventi di una stessa specie solo una? Anche l’uomo ha una sola voce, ma molti linguaggi. E perché questa voce è diversa, mentre non lo è negli altri viventi? Forse perché gli uomini possono pronunciare molte lettere, mentre gli altri non ne pronunciano nessuna, o pronunciano due o tre consonanti? Insieme con le vocali, queste formano il linguaggio. Il logos non consiste nell’indicare qualcosa con la voce, ma con le sue modulazioni, né è solo una comunicazione di dolore o di gioia. E modulazioni della voce sono le lettere – τὰ γράμματα – [...]. L’uomo è partecipe più del logos, gli altri viventi della voce”. 68 sente, che di ciò che è nella voce sono simboli τὰ γραφόμενα – le (cose) scritte –, se inoltre ricordiamo che all’inizio Aristotele ha promesso di trattare innanzitutto dei nomi e dei verbi e se proprio i nomi e i verbi ricompaiono al termine di questo primo paragrafo a indicarne esplicitamente il tema (De int. 1, 16a13), è allora del tutto evidente che non è di suoni che si tratta, come di ciò che è “nella voce”, bensì di parole. E lo stesso dicasi rispetto ai γραφόμενα: ciò di cui sono simbolo non sono i meri suoni, ma appunto le parole35. Ebbene, queste parole articolate vocalmente sono dette simboli delle affezioni dell’anima, e qui è pure importante notare che Aristotele non dica di nuovo semplicemente “di ciò che è nell’anima”, 35 La differenza non è secondaria: traducendo con «suoni», infatti, si accentua troppo la dimensione semiologica a scapito di quella semantica, mentre è evidente che qui sono entrambe presenti e strettamente intrecciate. Dalle varie citazioni presentate nelle note precedenti si può infatti ricostruire una linea ascendente, che comporta ogni volta uno scarto categoriale, tra rumore (non significativo), voce animale (che, potremmo parafrasare, è «nei rumori», come loro specifica messa in forma, e che è significativa naturalmente in connessione con la φαντασία) e parola umana («nella voce» e anche «nelle lettere», significativa simbolicamente e, come vedremo, connessa con il νοῦς). Peraltro, parlare senz’altro di suoni potrebbe corroborare una delle tesi portanti della grammatologia di Derrida, ossia il primato metafisico della fonia rispetto alla scrittura, primato che potrà anche darsi, ma di cui qui non vi sono indizi evidenti. Anzi, in considerazione del fatto che nel passaggio dal suono alla scrittura non muta la natura della parola, ma solo la sua veste, qui è leggibile un’isomorfia piuttosto che una discrepanza. Sul punto insiste più volte anche Abelardo, per esempio in Log. ingred., p. 319: “Ed ora poni attenzioni a ciò che appropriatamente dice: «che sono nella voce», non «che sono voci»; e ciò per indicare che queste voci sono incluse come parti di ciò che indichiamo con il vocabolo «voce», ma non si identificazione pienamente con tale nome, poiché di certo il nome non contiene solo queste voci che significano arbitrariamente, ma invero anche quelle naturali e inoltre voci che non significano nulla di ulteriore” (Cfr. M.T. Beonio Brocchieri Fumagalli, La logica di Abelardo, La nuova Italia, Firenze 1969, p. 33, dove si nota che ignorare ciò comporterebbe “l’impossibilità di far scaturire dalla definizione di vox significativa quella di nomen”, e poi più ampiamente pp. 54, 65 ss., 73 s., dove la questione è ricostruita con precisione e si mostra del tutto rilevante circa la disputa sugli universali: sostituire sermo a vox fu per Abelardo anche un modo di prendere le distanze dal nominalismo radicale del suo maestro Roscellino). Stessa notazione la troviamo poi anche in Tommaso, Logica dell’enunciazione. Commento al libro di Aristotele Peri Hermeneias, cit., p. 68. Sui rapporti tra logos, parola, voce e significato, e sulla primarietà del κατὰ συνθήκην come genesi del simbolo, cfr. infine le belle pagine di M. Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik, cit., pp. 444 ss. 69 bensì di ciò che vi è in quanto essa lo ha patito: non si tratta dunque di modificazioni dell’anima tout court, potremmo dire di moti coscienziali di qualsiasi origine e tipo, e innanzitutto non di moti integralmente spontanei, bensì di qualcosa che nell’anima si è impresso e depositato: un contenuto in qualche modo ricevuto36. E che è chiaramente noetico: sempre in questo primo paragrafo troviamo infatti l’espressione ἐν τῇ ψυχῇ νόημα e verso la fine del trattato leggiamo τὰ μὲν ἐν τῇ φωνῇ ἀκολουθεῖ τοῖς ἐν τῇ διανοίᾳ: “ciò che è nella voce segue da ciò che è nella dianoia” (De int. 14, 23a32-33), ossia nell’intelletto che unisce e separa e che ha a che fare propriamente con quegli intelligibili (νοητά) che prendono il nome di νοήματα37. Di tale contenuto, dunque, le parole pronunciate sono simboli, e di tali parole sono a loro volta simboli quelle scritte. Esplicati così tutti i riferimenti, espliciti ed impliciti in queste due righe, bisogna chiarire meglio cosa vi si intenda con simbolo. Il 36 Cfr. Abelardo, Log. ingred., p. 319: “e perciò si dice che queste sono passioni, perché mentre intelligiamo qualcosa, l’animo subisce una qualche passione nel momento in cui si stringe alla cosa e ne riceve un’impressione o per mezzo della cosa stessa o per mezzo di una sua immagine”. Si tenga però presente, che dal contesto del De Anima, che è naturalmente quello qui pertinente, si evince una distinzione importante entro il concetto del patire: un’affezione, che del tutto in generale è una modificazione, può esserlo in due modi opposti: verso l’alterazione e la corruzione, ma anche verso il τέλος, il compimento (De An. 417b2ss.: “E non è semplice neppure il termine «patire»: talora è la corruzione ad opera del contrario, talaltra piuttosto la salvezza di ciò che è in potenza per opera di ciò che è in entelechia”). In ogni caso è implicata una qualche materia, ma nel secondo come potenza che passa all’atto. Come in questo contesto: l’anima, subendo modificazioni, in effetti realizza le proprie varie potenzialità, e qui quelle noetiche. L’elemento passivo è dunque costitutivo di un movimento complessivamente attivo, che in effetti culmina nel nous puramente in atto. Vedi più avanti le note 47 e 49. Una simile duplicità è ben rilevata anche in Abelardo da Lucia Urbani Ulivi, La psicologia di Abelardo e il “Tractatus de Intellectibus”, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1976, p. 59: “Si noti come Abelardo riferisce all’intellezione sia l’espressione actio che passio animae: l’intellezione è passio in riferimento all’anima che la subisce come una perturbazione, è actio in relazione all’oggetto su cui si esercita e rispetto al quale appare appunto come un’attività” (nella stessa monografia, alle pp. 89 s., la Ulivi traccia l’evoluzione dell’uso del termine vox in Abelardo). 37 Per i noemata, vedi De an. III, 6 e M. Fattal, Ricerche sul logos, cit., pp. 126 ss., 139 s. (dove si sostiene la resa con «concetti» e si mette in luce la stretta correlazione tra De interpretatione e De anima, anche nello specifico della questione circa le «affezioni dell’anima»). 70 termine non compare frequentemente in Aristotele, soprattutto non nel senso tecnico in cui è usato qui38, ma le poche ricorrenze sono però chiare. Ne menzioniamo tre, cominciando con il passo già citato: “che [il nome] sia per convenzione, deriva dal fatto che nessuno dei nomi è tale per natura, ma solo quando sia divenuto simbolo: giacché anche i suoni non articolati in lettere, come quelli delle bestie, manifestano sì qualcosa – δηλοῦσί γέ τι –, ma di essi nessuno è nome” (De int. 2, 16a26-29). Da ciò possiamo dedurre innanzitutto che anche il simbolo manifesta qualcosa, così come i suoni inarticolati: δηλώνει: dichiara, chiarifica, ostende un che39. In tal senso esso è dunque un segno: un indicatore. Ma non è solamente ciò, altrimenti non si differenzierebbe da quei suoni, che pure indicano qualcosa. Un primo elemento che specifica il simbolo rispetto al semplice segno è qui chiamato συνθήκη, termine che viene generalmente tradotto con «convenzione»: l’indicazione contenuta nel simbolo non è immediata e naturale, ma perché sia leggibile richiede un accordo, un uso comune, e tipicamente l’accordo che consiste nel parlare la stessa lingua40. A «convenire» in tal senso sono gli uomini, che usano stabilmente un certo segno come un certo simbolo, vale a dire per indicare qualcosa, che quel segno di per sé immediatamente non indica. Questo valore di συνθήκη è del tutto chiaro in Aristotele, ma è possibile argomentare che non sia l’unico, che vi sia almeno un altro piano, che peraltro vi è strettamente connesso. Letteralmente, 38 Per esempio in Ret. 1416a36 e 1417b2, dove vale più genericamente come segno probante, sintomo che rimanda a un non noto. 39 Nel V paragrafo la stessa espressione – δηλοῦντά τι – è riferita a nomi e verbi (De int. 5, 17a18). In Platone è sinonimo di σημαίνειν (Soph. 261e1s.). 40 Come è detto, a contrariis, proprio nell’incipit del Cratilo, che rimane certamente anche per Aristotele il punto di riferimento obbligato per ogni ricerca sul linguaggio: “Cratilo sostiene questo, o Socrate, che la giustezza del nome è connaturata a ciascuno degli enti per natura e non tale è il nome che taluni, accordatisi a chiamarlo, chiamino, articolando una porzione della propria voce, ma una qualche giustezza dei nomi è connaturata sia per i Greci che per i barbari, la stessa per tutti” (383a4ss.). Laddove la concezione di Ermogene è appunto nel segno della συνθήκη καὶ ὁμολογία (della convenzione e dell’accordo: del dire lo stesso, che è tale solo intralinguisticamente). Estremamente notevole è poi che la prima obiezione di Ermogene a Cratilo, alla quale questi risponde irridendolo, è relativa al nome proprio, che è sin da allora uno dei punti più critici di ogni filosofia del linguaggio. 71 infatti, συνθήκη dice «composizione» e non sono pochi gli interpreti che hanno sottolineato questa circostanza41, che ci può indurre a pensare che la parola come “voce significativa per convenzione/composizione” (De int. 2, 16a19) sia tale non solo per l’accordo dei parlanti una stessa lingua ad usarla stabilmente come simbolo che significa una stessa cosa (o concetto), ma innanzitutto per la composizione che avviene entro la parola stessa tra il segno che la veicola e ciò che essa è destinata a simboleggiare. L’indicazione “per natura” non richiede infatti alcuna com-posizione, poiché si dà sempre già immediatamente insieme a ciò che indica, mentre l’indicazione simbolica è innanzitutto l’atto del porre insieme ciò che di per sé insieme non è (già). Il simbolo, dunque, che già nella sua etimologia contiene questo «gettare insieme» (συμ-βάλλειν), è un segno per convenzione, un segno composto, posto insieme e che pone insieme il riferimento di cui è indice. Segno che proprio dalla rottura dell’immediatezza naturale deriva un’ulteriore sua caratteristica. Leggiamo dalle Confutazioni sofistiche: “Giacché infatti non è possibile discutere portandosi appresso le cose stesse, ma al posto delle cose usiamo i nomi come simboli...” (Soph.El. 1, 165 a7-8). Vale a dire che le parole non si limitano a indicare, ma inoltre sostituiscono ciò che indicano, stanno 41 Cfr., p.e., A. Cazzullo, Il concetto e l’esperienza, Jaca Book, Milano 1988, che a p. 11 sottolinea come “simbolo per Aristotele è essenzialmente la parola”, alle pp. 13 ss. argomenta circa la differenza tra simbolo e segno e a p. 15 nota come la συνθήκη può essere compresa nel senso del collegare un nome con un’affezione dell’anima o una cosa. Boezio traduce in alcuni luoghi con positio, altrove ad placitum, riproducendo appunto l’ambiguità tra composizione e convenzione, e a questo doppio uso si attiene anche Abelardo, che sistematicamente riconduce lo ad placitum alla impositio (vedi Dialectica, pp. 111 ss. e 114 s.: “Da quanto detto, risulta poi chiaro che, tra le voci significative, alcune significano per natura, altre secondo arbitrio [ad placitum]. Tutte quelle che sono in grado di significare o a partire dalla natura o a partire da una imposizione, sono dette significative”. Vedi inoltre ivi, p. 147, dove si trova l’espressione “non naturalmente, bensì per invenzione”. E confronta quanto al riguardo in M.T. Beonio Brocchieri Fumagalli, La logica di Abelardo, cit., pp. 38 s.). Ma la duplicità nella resa del termine è attestata anche altrove nella tradizione medievale, dove a fianco ai «secundum placitum», «ex instituto» e così via, troviamo anche il «secundum confictionem» di Guglielmo di Moerbeka, che traduceva su commissione di Tommaso, e poi il rinascimentale «ex composito» (vedi J. Engels, La doctrine du signe chez Saint Augustin, Studia patristica 6, Akademie-Verlag, Berlin 1962, pp. 366-373, che propone «per compositionem»). 72 al loro posto, ἀντὶ τῶν πραγμάτων. La composizione che avviene nel simbolo, insomma, permane indipendentemente dalla presenza di ciò che in esso è indicato, vale anche in assenza della cosa: nel suo essere un segno composto con il riferimento alla cosa, non ha più bisogno di essa42. Questa distanza, la capacità di designare anche in assenza, che distingue ulteriormente il simbolo dai suoni animali, i quali rimangono invece sempre aderenti alla situazione, è poi immediatamente connessa al valore universale del simbolo: non legato all’immediatezza della singola cosa presente, il simbolo non indica mai invero una «singola» cosa, ma sempre una molteplicità omogenea. Il passo appena citato dalle Confutazioni sofistiche continua infatti così: “... riteniamo che ciò che conviene ai nomi convenga anche alle cose, proprio come lo ritengono rispetto ai sassolini coloro che fanno calcoli. Ma non è la stessa cosa: infatti i nomi sono di numero finito così come il complesso dei discorsi, mentre le cose sono numericamente infinite. Dunque è necessario che uno stesso discorso e un unico nome indichino più cose” (Soph.El. 1, 164b8-13). Da tutto ciò risulta chiaro, che per Aristotele simbolo è in senso proprio la parola, come è possibile leggere anche in un passo del De sensu, utile peraltro a chiarire ulteriormente la relazione tra suono e voce: “L’udito denuncia solo le differenze dei suoni, a pochi anche quelle della voce. Accidentalmente però l’udito contribuisce in moltissima parte all’intelligenza, perché il discorso è causa di istruzione, in quanto è udito, e non per sé ma per accidente – infatti è formato di parole e ogni parola è un simbolo”43. Non per sé, ma in quanto al suono si è aggiunto qualcosa, in quanto gli è capitato di divenire parola, ovvero un simbolo (questo, qui, il senso di συμβε42 Marcello Zanatta, che nella sua traduzione dei primi righi del De interpretatione trova una buona mediazione: “i suoni che sono nella voce” (di cui dice che “il loro valore logico consiste nella capacità simbolica e non nell’essere puramente suoni o tracce scritte”), nell’introduzione argomenta poi con chiarezza circa il valore dell’articolazione, in cui riconosce uno dei discrimini tra la possibilità di indicare una cosa presente e quella superiore di simboleggiarla anche quando è assente (Cfr. Aristotele, Dell’interpretazione, a cura di M. Zanatta, BUR-Rizzoli, Milano 2014, pp. 12 ss.). 43 De sen. 1, 437a13. Renato Laurenti, traduttore del trattato (Aristotele, Opere, vol. IV, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 197), ha scelto opportunamente «parola» per rendere ὄνομα, che è il termine che compare in questo passo e che evidentemente vi viene usato in senso generico e non in quanto distinto dal verbo. 73 βηκός, che dice non ciò che è casuale, bensì ciò che viene insieme, che conviene e accade a qualcosa). Possiamo a questo punto riassumere così: il segno – sia esso fonetico o grafico – è in quanto segno una mera traccia, un indice che diviene simbolo solo nella misura in cui viene composto saldamente insieme al suo riferimento. Il segno è dunque solo uno degli elementi del simbolo, la sua materia, mentre l’elemento formale è nel riferimento a ciò che per il suo tramite viene simboleggiato universalmente, sostituito e così reso disponibile anche in assenza44. Ad operare l’elevazione del segno a simbolo è la συνθήκη, che abbiamo detto poter essere intesa in senso duplice: da un lato è la convenzione degli uomini ad usare usiamo gli stessi segni, di per sé indifferenti e arbitrari poiché «denaturati», per gli stessi riferimenti; dall’altro lato è la composizione che avviene esattamente tra segno e designato, la quale amplifica il potere indicativo del segno, nella misura in cui una singola traccia sta al posto di una molteplicità in linea di principio infinita. Il simbolo dunque, che nella sua forma più pura è la parola che sta per un concetto, ha tre elementi strutturali: il segno, il riferimento e la loro composizione. Elementi tra i quali solamente il segno è puramente arbitrario, nella sua forma particolare, rispetto a ciò a cui si riferisce, poiché non è affatto arbitrario il riferimento stesso, senza di cui il segno non sarebbe un simbolo45. Ma di tutto ciò si è detto già sin troppo, andiamo dunque avanti nella lettura del testo, che prosegue proprio esplicitando il carattere convenzionale della voce articolata e della sua trasposizione 44 Cfr. Aristotele, Dell’interpretazione, cit., p. 153, dove Zanatta commenta: “le sillabe non sono che la causa materiale dei nomi, mentre la causa formale, quella cioè che dà senso al comporsi assieme delle sillabe e dà così luogo al nome, è la significatività”. 45 Nel Cratilo, ossia nel contesto di un discorso intorno alla correttezza dei nomi, vale a dire proprio alla stabilità e coerenza del loro riferimento alle cose, si era realizzata una strategia argomentativa di cui Aristotele mi sembra fare ancora tesoro, strategia che sfuggiva alla dicotomia netta tra la concezione puramente convenzionale di ispirazione sofistica difesa da Ermogene e il naturalismo «eracliteo» di Cratilo: l’aspetto «materiale» del nome, quello foneticogrammatico, è chiaramente convenzionale (e non in senso astratto, bensì tenendo presente la dimensione storica e tradizionale), ma il legame del nome all’essenza della cosa in esso dichiarata – e questa δήλωσις è “connaturata” al nome: συμπέφυκε – non lo è affatto (stessa chiave di lettura in Tommaso, Logica dell’enunciazione, cit., p. 95). 74 nella scrittura, evidente nella differenza delle lingue, e insieme chiarendo che ciò di cui le parole sono segni non ha tale carattere: “e come le lettere non sono le stesse per tutti, così neanche le voci sono le stesse; tuttavia ciò di cui queste sono in prima battuta segni – σημεῖα: le affezioni dell’anima, sono identiche per tutti, e ciò di cui queste [le affezioni nell’anima] sono assimilazioni – ὁμοιώματα: le cose, sono pure le stesse”46. Da ciò risulta evidente che, nonostante la differenza dei piani, così come è duplice e progressivo l’ordine simbolico, lo è anche l’ordine del simboleggiato: in prima istanza le affezioni dell’anima, ma in ultima istanza le cose – τὰ πράγματα e non τὰ ὄντα –, che sono l’origine prima di quelle affezioni, le quali si qualificano come rassomiglianze, in qualche modo invertendo quel che era il rapporto platonico tra idee e cose, poiché in Platone sono le cose ad essere ὁμοιώματα delle idee e non viceversa. Dal punto di vista genetico, insomma, vi sono prima le cose, poi le loro varie similitudini/assimilazioni entro l’anima (sensibili, immaginative, noetiche) e infine parole e lettere come segni di tali affezioni (nei termini dell’ipotesi ontologica la sequenza è evidentemente capovolta: vi sono prima le parole, poi le cose e infine i concetti delle cose). Ma questo versante genetico e psicologico del discorso Aristotele lo mette subito esplicitamente da parte, rimandando al riguardo al De Anima47, e noi facciamo volentieri lo stesso. 46 De int. 1, 16a5-8. Impeccabile il commento del passo, e ricco di spunti a riflessioni ulteriori, in Abelardo, Log. ingred., p. 324. 47 Opportuno è però esplicare almeno alcuni dei punti già presentati, prendendo lo spunto dalla scelta di tradurre letteralmente ὁμοίωμα con «assimilazione» e non, come più usuale, con «immagine». Le ragioni: 1) non è scontato che le affezioni di cui Aristotele parla qui siano o siano solamente le rappresentazioni che nel De Anima chiama “fantasmi”, tradizionalmente appunto “immagini”. Abbiamo infatti già accennato e vedremo poi meglio che le affezioni di cui parla nel De interpretazione sono noemata e il rapporto tra questi e i prodotti dell’immaginazione (φαντασία) è complesso. Da un lato infatti l’immaginazione è distinta da sensibilità e dianoia (De An. 427b14s.) e tale distinzione deriva, come sempre in Aristotele, dalla differenza degli oggetti (431b24s.): da ciò evidentemente i noemata sono diversi dalle immagini. Tuttavia, dal momento che, come non c’è immaginazione senza sensazione, così neanche dianoia senza immaginazione (427b15s.), e tenuto conto che sia l’una che l’altra appartengono complessivamente al noein (427b27s. e 433a9s.), i noemata hanno una stretta relazione con le immagini, talora sino quasi a confon- 75 Abbiamo dunque visto che nel suo complesso unitario la parola come segno che è elevato a simbolo ha un elemento arbitrario – la mera traccia vocale o grafica nella sua materialità storicamente e linguisticamente determinata – e due non arbitrari – il riferimento al dervisi: “per l’anima dianoetica le immagini sono come sensazioni”, ma prive di materia, e “l’anima non pensa mai senza immagini” (431a14ss. e 432a8ss.). A rigori, però, non pensa le immagini in quanto tali, bensì “le forme nelle immagini” (431b2). Così Aristotele può parlare in maniera un poco ambigua delle “immagini o noemata presenti nell’anima” (431b6-7) e poi porre esplicitamente la questione se si tratti dello stesso o no, proprio in relazione al vero e al falso come congiunzione di noemata: “i primi noemata in base a che non saranno immagini? O neanche gli altri sono immagini, ma comunque non sono senza immagini” (432a12ss.); 2) Stante questa ambiguità, entro cui comunque a prevalere è la differenza, e giacché nel passo che leggiamo non compaiono τὰ φαντάσματα, bensì ὁμοιώματα, sempre con riferimento al De Anima mi sembra molto più plausibile ritenere che Aristotele voglia sottolineare tutt’altro e propriamente chiarire in che senso parli di “affezioni”, scegliendo un termine che indica la funzione da cui derivano, l’assimilazione, e non un già derivato come l’immagine: “L’anima è in un certo modo tutte le cose” (431b21), e questo vale per la sensazione, l’immaginazione e anche la noesis, che “è i noemata” (407a7). Di certo, però, non nel senso di una coincidenza immediata: l’anima è tutte le cose, divenendo in qualche modo tutte le cose quando le apprende. E per poter apprenderle tutte, per sé non deve essere nessuna di esse: in un passo dalle tante reminiscenze platoniche, Aristotele ripete, circa il nous, una serie di elementi caratteristici della chora del Timeo: “se, infatti, il noein è come il sentire, o sarà un patire dall’intelligibile (ὑπὸ τοῦ νοητοῦ) o qualcos’altro del genere. Deve essere dunque impassibile e tuttavia ricettivo (δεκτικόν) della forma e in potenza tale quale quella forma (τοιοῦτον), ma non quella stessa forma (τοῦτο), e così come la sensibilità si comporta verso i sensibili, il nous deve comportarsi verso gli intelligibili. È dunque necessario, giacché pensa tutto, che sia non mescolato, come dice Anassagora, per dominare e cioè per conoscere; perché se manifesta la propria forma vicino a una forma altrui le fa ostacolo e l’intercetta. Di conseguenza non avrà altra natura se non di essere in potenza” (429a13ss.). Come la chora, dunque, che proprio perché amorfa può ricevere le impronte di tutte le cose e accoglierle in quanto il loro spazio di manifestatività, rimanendo di per sé impassibile, così il nous può pensare tutto, e pur modificandosi non patire l’alterazione della sua facoltà, proprio perché “non è in atto nessuno degli enti prima di pensarli” (429a24), e anche dopo averli pensati non si fa identico a loro (τοῦτο), ma solo tal quale (τοιοῦτον. Differenza cruciale ancora in Tim. 49d5). E dunque, così come la chora è il ricettacolo degli enti di natura, così il nous “è il luogo delle forme” (429a27-29), ma di quelle in potenza e non in atto. Il pensare è quindi quel movimento tramite cui il nous passa all’atto, assimilandosi alla forma. Un movimento che, essendo esattamente attualizzazione, è insieme passivo e attivo: nel farsi simile è attivo, ma nel farsi simile rimane passivo. Ponendo infatti di nuovo la domanda circa la conce- 76 concetto e poi alla cosa, legati da un nesso di dipendenza48. Diciamo così, per rimanere terminologicamente aderenti alla tripartizione presentata all’inizio del capitolo (raccomandando di prenderla molto genericamente): parole/concetti/cose. E anche perché, seppure zione anassagorea del nous come impassibile, Aristotele chiede: “come penserà, se il pensare è una sorta di patire? […] In qualche modo è in potenza gli intelligibili, ma in atto nessuno, prima di pensarli. Allora deve essere di esso come di una tavoletta, su di cui in atto non vi sia nulla di scritto” (429b24ss. Metafora, anch’essa già attestata nel Teeteto di Platone, che esplicita il carattere di impronta del noema nel nous e che ne richiama una analoga circa la sensazione: “come la cera accoglie l’impronta – σημεῖον – dell’anello”: 424a19s.); 3) In funzione di tutto ciò, non essendo questi ὁμοιώματα – come in qualche modo è espresso anche dal suffisso della parola, che indica attività – semplici immagini rassomiglianti, bensì riproduzioni attive di una somiglianza, si preferisce tradurli con assimilazioni, alludendo così anche al carattere di interiorizzazione e in qualche modo impossessamento, di assimilazione nel senso in cui diciamo che si assimila un cibo. 48 “Nel famoso passaggio 16a (e sgg.) di De Interpretatione, Aristotele delinea un triangolo semiotico in modo implicito ma evidente, in cui le parole sono su un lato legate ai concetti (o alle passioni dell’anima) e sull’altro alle cose. Aristotele dice che le parole sono «simboli» delle passioni, dove per simbolo intende un artificio convenzionale ed arbitrario. Come vedremo in seguito, è vero però che egli sostiene anche che le parole possono essere considerate come sintomi (semeia) delle passioni, ma lo dice nel senso che ogni emissione verbale può innanzitutto essere sintomo del fatto che l’emittente ha qualcosa in mente. Le passioni dell’anima sono invece sembianze o icone delle cose. Ma per la teoria aristotelica le cose si conoscono attraverso le passioni dell’anima, senza che vi sia una connessione diretta tra simboli e cose. Per indicare questa relazione simbolica Aristotele non impiega la parola semainein (che potrebbe quasi essere tradotta con significare), ma in molte altre circostanze usa questo verbo per indicare la relazione tra parole e concetti” (U. Eco, Kant e l’ornitorinco, Bompiani, Milano 2008, p. 352). Il «quasi» (corsivo mio), che qui Eco accompagna alla traduzione di σημαίνειν con «significare», è molto opportuno, poiché sottolinea il fatto che, per quanto del tutto coerente come traduzione, non va presa in un senso strettamente tecnico analogo a quello della semiotica attuale, tant’è che nelle pagine successive Eco si dedica a chiarire i vari passaggi che hanno portato al concetto moderno della significazione. In Aristotele il termine è più prossimo a «designare», tant’è che Boezio lo traduce spesso così (ivi, pp. 423), e vuol dire piuttosto genericamente l’«indicare tramite segni». Ne La cosa e l’ente (pp. 39 s.) proponevo di tradurlo (in relazione a un passo platonico) proprio con «designare», che è traduzione etimologicamente corretta, ma che in questo contesto risulterebbe poco comoda (si pensi alla resa: «discorso designativo»...) e comunque inficiata dall’interferenza con il valore tecnico che ha anche «designare». La questione è rilevante in relazione alla resa del successivo προσσημαίνειν (vedi infra, nota 76). 77 nella già annotata prossimità con le immagini, e dunque con rappresentazioni, l’elemento comunque almeno latamente concettuale delle affezioni dell’anima è esplicitato subito da Aristotele, che come già notato chiama in causa il noema, ripetendo la formula: ἐν τῇ ψυχῇ: “così come nell’anima c’è noema talora senza che si pensi il vero o il falso, talora invece già con la necessità dell’uno o dell’altro, allo stesso modo avviene per ciò che è nella voce” (De int. 1, 16a9-11). Noema viene spesso tradotto con «pensiero», ma andrebbe piuttosto detto «pensato»: è il risultato e non l’attività (non è noesis), la cosa pensata e non l’atto del pensarla. Se poi ricordiamo quanto già detto sull’originaria estensione semantica di noein, forse neanche «pensato» è il termine più adatto, bensì «appercepito», per quanto siamo qui oramai quasi nella fase alessandrina della filosofia greca, che ha prepotentemente intellettualizzato il noein. In considerazione di ciò, per cavarci d’impaccio continuiamo dunque semplicemente a parlare di noema e andiamo avanti49. 49 Colli cerca una soluzione traducendo noema con «nozione», per sottolineare che si tratta appunto di un contenuto e non di un’attività. Ma rimane una scelta, diciamo così, di emergenza. Heidegger, invece, usa «das Vernommene», il percepito, coerentemente con la sua interpretazione del noein parmenideo come percepire. Ma che il valore semantico del termine sia rimasto invariato fino ad Aristotele non lo si può assumere senz’altro, poiché in lui è invece chiara un’oscillazione tra un uso ampio (ma comunque non tanto quanto quello degli “antichi”, che sbagliando “hanno assunto il noein come somatico, al pari del sentire”: De An. 427a26ss.) e un uso, o anzi vari usi più ristretti. Per ridurre all’osso, possiamo asserire che nel De Anima, posta una distinzione che è di per sé quella tra una facoltà e la sua attività (cfr. ivi, 402b9ss. e 415a18ss.), Aristotele usa poi noein per lo più in senso ampio e nous, invece, come termine più specifico, differenziazione che è chiaramente tecnica, ma indicativa della tendenza all’intellettualizzazione. Il noein, infatti, che seppur distinto condivide molti tratti col sentire (vedi, per esempio, 427a9 e 427a20ss.), comprende “prudenza, scienza e opinione” (427b10); esattamente come la ὑπόλειψις (427b25s.), variamente tradotta con «giudizio», «credenza»..., e che possiamo intendere come una sorta di generica ritenzione noetica. E infatti parti del noein sono poi dette non solo la ὑπόλειψις ma anche l’immaginazione (427b27s.). Oltre a ciò, il noein, a differenza del sentire, può essere vero o falso e “non è da nessuna parte, dove non vi sia anche logos” (427b8ss.), che è asserzione molto chiara dell’inscindibilità di pensare e dire. Rispetto a tale ampiezza, il nous tende invece a specificarsi come facoltà propriamente epistemica e, infatti, è posto insieme all’episteme tra le disposizioni sempre vere (428a17s.). Ma anche qui c’è un’ambiguità, risolvibile tramite una distinzione fondamentale all’interno del nous (e ci limitiamo a questa, 78 Aristotele ha appena presentato un’altra analogia: tanto il contenuto noetico, quanto la sua espressione simbolica nella voce o nello scritto, condividono la possibilità di presentarsi in due modi differenti: all’interno del dire/pensare il vero o il falso oppure senza poiché altrimenti del De interpretatione non parliamo più...): “Come ovunque in natura c’è qualcosa che è materia di ciascun genere (e questo è in potenza tutte le cose di quel genere) e qualcos’altro che è causa e fattore, poiché tutte le fa, come accade alla tecnica verso la materia, è necessario che anche nell’anima vi siano tali differenze. Vi è dunque da un lato quel nous che è tale da divenire ogni cosa, dall’altro quello che fa ogni cosa, come una disposizione simile a quella della luce: in un certo qual modo, infatti, anche la luce fa i colori in potenza colori in atto. E questo è il nous separato, impassibile, e non mescolato, per essenza in atto. È sempre infatti più degno ciò che fa rispetto a ciò che patisce e il principio rispetto alla materia; […] mentre il nous in grado di patire è corruttibile e senza di ciò [scilicet ciò che patisce: le affezioni dell’anima] non pensa niente” (430a14ss.; vedi anche la nota precedente sul “farsi simile”). A questa distinzione corrisponde – anzi vi deriva – la distinzione degli oggetti propri ai due tipi di nous: dal lato del nous attivo gli indivisibili, enti semplici, eterni e immutabili, che o si conoscono e allora necessariamente in verità, o si ignorano; da quello del nous in grado di patire proprio i nostri noemata, che possono invece essere uniti e divisi in maniera vera o falsa, e che per varie mediazioni sono connessi con la sensibilità, la corporeità, la corruttibilità (430a26ss.). Già nel primo libro, peraltro, Aristotele aveva posto la differenza tra azioni e passioni in riferimento alle affezioni dell’anima e sostenuto che se il nous è sempre connesso con l’immaginazione, non può essere senza il corpo, e che dunque “le affezioni sono logoi materiati” (403a5-25). Tuttavia, però, proprio perché i noemata comunque non sono le cose, né le sensazioni, né puramente immagini, il pensiero teoretico non ha fuori di sé gli stimoli della sua attività, poiché gli universali sono entro l’anima (417b23ss.), vale a dire in potenza già nel nous passivo (che è appunto tale potenza). E in ciò riposa la possibilità che egli metta in moto da sé la propria attività, speculativamente, ovvero pensando se stesso: “ma quando il nous è diventato ciascuno dei suoi oggetti, nel senso in cui si dice sapiente chi possiede in atto il sapere (e ciò accade quand’esso può passare all’atto da sé), è sì ancora allora in qualche modo in potenza, ma non come prima di aver appreso e trovato: ora, infatti, può pensare se stesso” (429b5ss.). Vi è in questa concezione, oltre all’ovvia ascendenza anassagorea, anche una chiara riproposizione delle relazioni tra dianoia e noesis poste da Platone: la dianoia ragiona con concetti dati, per ipotesi, laddove il nous ascende ai principi. Tuttavia la dianoia rimane la via obbligata verso la noesis, ed è in coerenza con questo schema che Aristotele può continuare a dire che senza immagini non si pensa e che tuttavia vi è un nous che procede in piena autonomia dalle immagini: poiché per poterlo fare deve comunque aver attraversato la fase dianoetica, che peraltro non si lascia mai del tutto alle spalle (429b3ss.). Da ciò: i noemata non sono mai senza le immagini e tuttavia sono già il medium tra l’intellet- 79 l’implicazione del vero e del falso. Questo non equivale affatto a dire che quel contenuto e quei simboli possono essere di per sé veri o falsi, ma semplicemente che entrambi rientrano o meno in quell’attività del logos che è dire il vero o il falso – ἀληθεύειν ἢ ψεύδεσθαι50. Il noema e la parola non sono per nulla, mai, veri o falsi, è piuttosto il logos che li concatena ad esserlo, e in particolare il discorso enunciativo apofantico (cfr. De int. 4, 17a2-3). E non si tratta affatto di una questione solamente numerica: non basta moltiplicare gli elementi per passare dalla singola parola al discorso, né dal singolo noema ad un pensiero articolato51. Vi è piuttosto bisogno di quel che nelle Categorie Aristotele, riprendendo il concetto platonico, chiama συμπλοκή: “Tra ciò che si dice c’è ciò che si dice con connessione (κατὰ συμπλοκὴν) e ciò che si dice senza connessione: si dicono con connessione, ad esempio, «l’uomo corre», «l’uomo vince»; si dicono, invece, senza connessione, ad esempio, «uomo», «bue», «corre», «vince»” (Cat. 2, 1a16). E rispetto al piano noetico, ma in stretta connessione con quello logico, nel De Anima (432a11) to passivo e quello attivo. Al culmine estremo, poi, che è però su un piano sovrumano, vi è l’atto puro del pensiero di pensiero, che fa a meno anche dei noemata: e qui nous non ha ovviamente più niente a che vedere con il Vernehmen... Sull’argomento si veda complessivamente il Tractatus de Intellectibus, la cui attribuzione ad Abelardo è molto plausibile (e molto ben argomentata da Lucia Urbani Ulivi, La psicologia di Abelardo e il “Tractatus de Intellectibus”, cit., pp. 13 ss., 95 ss., monografia in cui è edito il testo dell’intero trattato, al quale ci riferiremo d’ora in poi con la sigla Tractatus). In esso troviamo un’esposizione articolata delle varie affezioni dell’anima e molte considerazioni interessanti. Rispetto all’unità di pensare e dire, per esempio, la sua interpretazione è molto netta: “Non c’è alcun giudizio, se non su ciò che la proposizione vuole dire, cioè su una qualche congiunzione o divisione di cose. Da ciò risulta chiaro che non si dà mai un giudizio senza l’intellezione della proposizione” (ivi, p. 108), e poco oltre: “Come poi la forza dell’enunciazione si trova in ciò che è detto, ed in cui essa si manifesta e si sviluppa, così nell’intellezione del termine che è detto, ossia predicato, si concentra la potenza dell’intelligenza che giudica” (ivi, p. 116). 50 Sulla forma verbale dei due termini della coppia e sulle loro relazioni, cfr. M. Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik, cit., pp. 448 ss. 51 Anche in Platone è così: per quanto egli infatti dica esplicitamente che un nome (in senso ampio, che ricomprende nomi e verbi) non è sufficiente a costituire un logos, ma ce ne vogliono almeno due, chiarisce però che i due compongono una struttura asimmetrica: συνθεὶς πρᾶγμα πράξει δι’ὀνόματος καὶ ῥήματος – “componendo cosa e azione tramite nome e verbo” (Soph. 262e13s.). 80 troviamo ancora: “L’immaginazione è altro dall’affermazione e dalla negazione; il vero o il falso, infatti, sono connessione di noemata” – συμπλοκή γὰρ νοημάτων ἐστὶ τὸ ἀληθὲς ἢ ψεῦδος52. Dal punto di vista logico-grammaticale, la συμπλοκή è ancora quella platonica tra un πρᾶγμα e una πρᾶξις: non è la semplice unione di due termini, ma è un’unione diremmo predicativa, che richiede una differenza funzionale53. Ed è proprio per mettere chiaramente in luce la natura di tale unione, che Aristotele deve distinguere – più accuratamente di Platone, che pure aveva aperto la strada – le operazioni che in essa svolgono il nome e il verbo, i vari modi in cui possono interpretare le funzioni del soggetto e del predicato, e dunque dare una determinazione più precisa di quel che devono significare ὄνομα e ῥῆμα, una determinazione che vedremo essere per nulla banale. Ma non affrettiamoci: va ancora esposto il rapporto del vero e del falso con tale συμπλοκή, giacché non è semplice come potrebbe apparire. Aristotele, in effetti, avendo già in vista la trattazione centrale della ἀπόφανσις, qui per certi versi argomenta dalla parte al tutto, vale a dire che usa come discrimine della differenza che sta ponendo, tra termini connessi o non connessi entro un discorso, un effetto derivato e in un certo senso parziale del fenomeno a cui di fatto allude, usando il vero e il falso come metonimie della συμπλοκή apofantica: poiché ogni simile συμπλοκή comporta un discorso passibile di essere vero o falso54, si possono assumere direttamente 52 Come si vedrà, il rapporto tra la συμπλοκή, l’affermazione/negazione e dunque la verità/falsità, è più strutturato di quanto non si evinca da quest’ultima citazione, ma qui è evidente che Aristotele vuole solamente escludere che l’immaginazione produca verità o falsità, e a tal scopo gli basta asseverare che quell’alternativa ha a che fare con la συμπλοκή di noemata e non di immagini. 53 Cui corrisponde la differenza ontologica tra οὐσία e συμβεβηκός: cfr. Met. 1007a26-b2. 54 Cfr. Cat. 4, 2a5-10: “Ognuno dei termini menzionati, considerato per se stesso, non è detto all’interno di un’affermazione; è grazie alla connessione di essi tra loro – τῇ δὲ πρὸς ἄλληλα τούτων συμπλοκῇ – che si genera l’affermazione. Pare, infatti, che ogni affermazione debba essere vera o falsa, mentre di ciò che si dice secondo nessuna connessione nulla è vero o è falso, come «uomo», «bianco», «corre», «vince»”. Marina Bernardini nota molto opportunamente che “il termine «affermazione» traduce il greco κατάφασις, qui usato nel significato generico di enunciato apofantico o predicativo e che, perciò, non esclude, ma include anche la negazione” (cfr. Aristotele, Organon, ed. Bom- 81 il vero e il falso come indici della presenza o meno di un discorso. E il vero e il falso, aggiunge, “hanno a che fare con la congiunzione e la separazione” (De int. 1, 16a12-13) – σύνθεσις e διαίρεσις. E di nuovo: hanno a che fare, ma a rigori non coincidono, poiché sia la congiunzione che la separazione possono essere vere o false, se ciò che vi è unito o separato, è o non è realmente unito o separato55. L’estrema affinità terminologica tra συμπλοκή e σύνθεσις, la cui traduzione in italiano alternativamente con «connessione» e «congiunzione» è perciò sostanzialmente arbitraria; la circostanza che poco più avanti nel testo σύνθεσις sembri indicare la συμπλοκή copulativa, per quanto non sic et simpliciter, ma come “un certo tipo di composizione – σύνθεσίν τινα” (De int. 3, 16b24); e ancor più l’evidenza che in altre opere di Aristotele i due termini appaiono intercambiabili56, potrebbero far ritenere che siano la stessa cosa, ma piani, cit., p. 65). Ma va anche sottolineato che ad essere detta vera o falsa non è di per sé la συμπλοκή, bensì l’affermazione (o negazione) che ne deriva. E questo perché è possibile che una συμπλοκή non generi un discorso apofantico, e quindi vero o falso, bensì una qualche predicazione e logos semantico di altro tipo, che esula da tale alternativa: Aristotele fa l’esempio della preghiera (cfr. De int. 4, 17a2-4). 55 Quando al livello logico si somma quello ontico – e solo a tale condizione si può giudicare della verità o falsità di una proposizione (per quanto in alcuni casi già si sappia che deve essere o l’una o l’altra cosa) –, l’opposizione inizialmente duale si raddoppia e abbiamo dunque quattro alternative, due vere e due false: unire ciò che è unito, unire ciò che è separato, separare ciò che è separato, separare ciò che è unito (De int. 6, 17a25ss.). Sui nessi tra affermazione/negazione e vero/falso, cfr. Abelardo, Dialectica, pp. 153 s. 56 È così, si potrebbe notare, anche nel passo del De Anima citato sopra (432a11), dove Aristotele afferma che vero e falso sono συμπλοκή νοημάτων. Ma, appunto, che qui dica solo συμπλοκή, e in un contesto dove in sostanza parla di altro e quindi si esprime sinteticamente, dovrebbe lasciar intendere che συμπλοκή non vale σύνθεσις, ma almeno insieme σύνθεσις e διαίρεσις, che è appunto quanto sostengo limitatamente al logos apofantico, notando comunque che vi è una differenza funzionale tra la dimensione complessiva della συμπλοκή (la predicazione), che non genera necessariamente un’apofansi, e la dualità di sintesi e dieresi che sono invece costitutive l’apofansi. Infatti, sempre nel De Anima (430a27s.), poche righe prima di quelle citate, compare “una certa sintesi di noemata”, ma viene poi subito detto che essa è anche dieresi. Vi è tuttavia un’occorrenza che non lascia possibilità di scampo: in Met. 1027b19ss. Aristotele menziona la coppia σύνθεσις/διαίρεσις e subito dopo quella συμπλοκή/διαίρεσις, e mi pare evidente che le intenda in maniera del tutto sinonimica. Non credo che vi siano scappatoie ermeneutiche, ma neanche che siano neces- 82 non è esattamente così, non sempre e non per quel che riguarda il nostro discorso. La congiunzione e separazione di cui Aristotele sta parlando, infatti, sono due possibilità inerenti alla συμπλοκή, che ne è la condizione, ne sono anzi le due possibilità elementari laddove la συμπλοκή produca un discorso apofantico e non solo significativo (cfr. De int. 4, 16b26ss.). Posta una connessione tra soggetto e predicato, insomma, entro il logos apofantico questa connessione può avvenire come sintesi o come dieresi, e produrre così l’affermazione o la negazione57. sarie: l’affinità semantica tra i due termini è tale, da rendere del tutto comprensibile la possibilità di un loro scambio, anche perché, se è vero che la συμπλοκή non si riduce alla σύνθεσις e talora neanche la comporta, per converso ogni σύνθεσις è già συμπλοκή (e naturalmente anche ogni διαίρεσις). Peraltro, anche in Platone è rilevabile un’oscillazione simile. 57 Sul fatto che la sintesi produca l’affermazione e la dieresi la negazione la tradizione interpretativa è concorde (e anche Abelardo: Tractatus, p. 115 e Log. ingred., p. 331: “L’intellezione dell’affermazione si dice «componente», vale a dire [aggregante] ciò che è significato dall’affermazione, mentre l’intellezione della negazione si dice «separante»”), ma con un’eccezione molto significativa: Heidegger, infatti, nel corso del ’29/30 già citato, dopo aver giustamente notato che sintesi e dieresi non corrispondono rispettivamente a verità e falsità, ma ineriscono a entrambe, estende la stessa considerazione all’affermazione e alla negazione: “Ogni κατάφασις è in sé σύνθεσις e διαίρεσις, e così ogni ἀπόφασις, e non è invece la κατάφασις una σύνθεσις e la ἀπόφασις una διαίρεσις. Queste differenze riposano in tutt’altre dimensioni. Inoltre, la differenza tra σύνθεσις e διαίρεσις non è quella tra tipi della ἀπόφανσις, bensì una differenza che articola proprio l’essenza originaria e unitaria di una struttura e di un fenomeno strutturato […], l’«in quanto»” (M. Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik, cit., p. 459). Ora, a rigori è corretto dire che l’affermazione non è sic et simpliciter la sintesi, ma non nel senso in cui lo intende Heidegger, bensì solo poiché si produce tramite la sintesi, e dunque è anche distinta da essa. E analogamente circa negazione e dieresi, il che mi sembra testualmente molto poco problematico. Nel De interpretatione, infatti, Aristotele definisce: “Il primo logos apofantico unitario è l’affermazione, poi la negazione […]. L’apofansi semplice è voce significativa intorno all’inerire di qualcosa o non inerire [scilicet ad un soggetto]. L’affermazione è l’apofansi di qualcosa circa qualcosa, la negazione di qualcosa sottratto a qualcosa” (De int. 5, 17a8s.-6, 17a26). È dunque evidente che l’affermazione unisce un predicato ad un soggetto, mentre la negazione li divide, così come è evidente che sono proprio questi i due modi dell’apofansi. Cfr. anche Cat. 4, 2a8ss. e An. Post. I 2, 72a13s.: “la parte di una contraddizione che connette qualcosa a qualcosa è un’affermazione, quella che separa qualcosa da qualcosa è la negazione”. Nella Metafisica (p.e. 1051a34ss.) è esplicato il piano ontologico: affermazione e negazione consistono nell’unire e 83 Su quale cardine, poi, si decida l’alternativa tra affermazione e negazione lo leggiamo subito nell’ultima parte di questo primo paragrafo del De interpretatione, in cui finalmente incontriamo il nostro verbo essere, insieme ad uno strano ospite: l’ircocervo. “Perseparare una sostanza con (almeno) un attributo, e la verità e falsità sono possibili in entrambi i casi, a seconda che l’unione o la separazione affermate o negate si diano realmente o meno. Tant’è che nel caso delle sostanze semplici, dove non è possibile alcuna unione o separazione poiché si ha un unico elemento, il vero consiste nell’aver contatto con la sostanza e non si traduce in un’affermazione (sintetica o diairetica), bensì in una semplice enunciazione, mentre il falso non è affatto possibile. Vedi, infine, Met. 1027b20: “il vero, infatti, è l’affermazione del congiacente (ἐπὶ τῷ συγκειμένῳ) e la negazione di ciò che è separato (ἐπὶ τῷ διῃρημένῳ)”, il falso il contrario: l’affermazione è dunque vera rispetto a ciò che è di fatto nella sintesi, e quindi deve affermare la sintesi, se è confermata dalla sintesi, etc. (si tenga presente che συγκείμενον è il termine usato nella Fisica per descrivere la struttura dell’ente naturale, che deriva esattamente dalla sua σύνθεσις; cfr. N. Russo, La cosa e l’ente, cit., pp. 132 ss.). L’interpretazione tradizionale mi sembra dunque senz’altro la più corretta, ma perché mai Heidegger la contesta? Credo che siano due i motivi più plausibili: innanzitutto egli sa dal De Anima (430b1-4) che ogni sintesi è anche dieresi e viceversa: “questo [scilicet il vero e il falso] e con esso l’intera struttura del λόγος ἀποφαντικός si fonda nella σύνθεσις, che è in sé al tempo stesso διαίρεσις. L’unità di questa struttura è l’essenza del νοῦς”, che si realizza proprio nel suo essere unificante (einheitbildend), anzi è proprio “il compito intimo della ragione” (Die Grundbegriffe…, pp. 459, 461). Da questo punto di vista, se ogni sintesi è dieresi e viceversa, è in qualche modo plausibile rifiutare il legame biunivoco sintesi-affermazione e dieresi-negazione. Tuttavia bisogna considerare che la sintesi è divisione proprio in quanto sintesi, e la dieresi è unificazione proprio in quanto dieresi, e non invece in maniera indifferente: nell’unire due elementi li ho già distinti, nel distinguerli li ho già considerati insieme. Ma ciò non toglie che l’atto sintetico, per quanto sia anche sempre analitico, rimanga diverso da esso, e viceversa, tant’è che entro una contraddizione si può sempre distinguere l’affermazione dalla negazione. Proprio la contraddizione (ἀντίφασις), però, mostra che affermazione e negazione, nel senso della più radicale opposizione, sono sempre le due facce di un’unità, di quell’unità espressa dall’endiadi «essere e non essere». E questo è il punto: Heidegger, riconoscendo che è l’«è» il “momento strutturale essenziale dell’enunciato” (ivi, p. 467), se ammettesse senz’altro che essere dice la sintesi e non essere la dieresi, che in tal modo si formano affermazione e negazione, e che con esse non muta il contenuto semantico del discorso, ma solo il modo in cui è posto e così esposto alla possibilità di essere vero o falso, avendo concordato con Aristotele che sintesi e dieresi (e dunque essere e non essere) sono un atto del logos, non avrebbe più alcuno spazio per porre la domanda circa il significato di essere, che non avrebbe alcuna estensione extralogica. Poste tutte queste premesse, infatti, «è» si mostra come operatore logico/dianoetico dell’affermazione-nega- 84 tanto i nomi e i verbi in se stessi sono simili al noema senza congiunzione e divisione, per esempio «uomo» o «bianco», quando non si aggiunga altro; e infatti non è né falso né vero. Indizio ne è questo: anche l’ircocervo, infatti, significa pur qualcosa, ma non è ancora vero o falso, se non si aggiunge l’essere o il non essere, sia semplicemente che secondo il tempo”58. Dell’ircocervo per il momento non diciamo nulla o quasi: qui vale come esempio – di certo non scelto a caso – di un nome significativo, che tramite l’aggiunta di un verbo – a maggior ragione non scelto a caso – diviene il soggetto di un discorso passibile di verità e falsità, e quindi di un logos apofantico. E abbiamo visto che il vero e il falso hanno a che fare con sintesi e dieresi e che queste scindono la συμπλοκή predicativa in affermazione e negazione. E poiché anche «l’uomo corre» o «Teeteto vola» sono ovviamente asserzioni passibili di essere vere o false, evidentemente qui «essere e non essere» individuano ciò che in ogni verbo non attiene alla sola predicazione, bensì proprio alla sintesi e alla dieresi. Il che è ancor più chiaro, se si considerano bene gli esempi che qui Aristotele porta per ὄνομα e per ῥῆμα: uomo e bianco! Come abbiamo già notato, infatti, e come pure molti interpreti attestano59, ῥῆμα non è solo il verbo grammaticale, ma in genere ciò che è detto di qualcosa, e perciò può essere assunto, con oscillazioni tipiche che anche Moro rileva, come termine che indica anche il predicato: qui «bianco» è zione/sintesi-dieresi e si risolve integralmente in ciò. Per salvare la sua domanda, egli deve dunque ordinare diversamente la serie, ponendo l’essere alla fine, secondo la processione: sintesi/dieresi (νοεῖν), vero/falso, affermazione/negazione di un essente, il tutto dipendente dalla “comprensione guida” (Leitverstehen) dello «è» (ivi, pp. 460 ss., 467). Riservandosi però un colpo di coda: asserito infatti che proprio nella copula, oltre all’essente, si manifesta anche l’essere, riconosce in questa Offenbarkheit in cui l’essere è esposto, un ostacolo alla domanda sul suo significato, poiché notoriamente l’essere è per lui tutto fuorché piena automanifestatezza (ivi, pp. 468ss.). Ma si tratta di un doppio gioco: prima assume senz’altro che l’essere nella copula si presenta manifestamente e deve dunque significare qualcosa, poi rifiuta ciò che nella copula è effettivamente manifesto, ossia che non significa proprio nulla. 58 De int. 1, 16a13-18. E nel secondo paragrafo, argomentando circa i casi obliqui del nome, Aristotele nota che “quando sono uniti ad è o era o sarà non sono veri o falsi, invece il nome lo è sempre” (2, 16b2-4). 59 Tuttavia non ho trovato in nessun luogo tale considerazione in relazione a questo specifico passo. 85 chiaramente un predicato, un accidente, una qualità, e non una sostanza, un soggetto, né un verbo in senso stretto60. E se Aristotele non si fosse lasciato sedurre dall’ircocervo – e dai problemi che in altri modi pone, ma non qui – e avesse ripetuto gli esempi posti, ci saremmo plausibilmente risparmiati tante dispute. Nei termini dei due esempi fatti all’inizio, infatti, la fine della frase suonerebbe: “anche l’uomo indica pur qualcosa, ma non è ancora vero o falso, se non si aggiunge l’essere o il non essere bianco, sia semplicemente che secondo il tempo”61. In questa forma – de tertio adiacente – la struttura si fa pienamente trasparente: soggetto-affermazione/negazione-predicato. Complessivamente una συμπλοκή predicativa, che è anche apofantica grazie alla sintesi/dieresi operata dalla copula, che dunque realizza insieme predicazione e affermazione: il predicato viene effettivamente predicato quando sia affermato di un soggetto62. Ma si tenga 60 «Bianco» è un predicato, «è bianco» l’affermazione di un predicato: la copula, insomma, produce insieme l’effettiva predicazione e l’afferma (o nega). Nella Fisica (I, 185b25ss.), Aristotele presenta un’aporia già discussa nel Filebo platonico: “Anche gli ultimi degli antichi si sono dati molto da fare per impedire che nello stesso tempo per le stesse cose uno e molti fossero identici. Perciò gli uni eliminavano l’«è», come Licofrone, gli altri trasformavano l’espressione: che l’uomo non «è bianco», ma «imbianca», né «è camminante», ma «cammina», affinché, aggiungendo «è», non facessero che l’uno sia molte cose, come se l’uno e l’essere si dicessero in un solo senso”. Vale a dire: la copula non predica affatto l’essere puramente uno del soggetto, nel qual caso non gli si potrebbe aggiungere alcun predicato senza renderlo molteplice (e uomo e bianco), bensì unifica soggetto e predicato. Rispetto agli ultimi degli antichi, dunque, Aristotele procede in senso inverso: riconosciuto che l’uno e l’ente non sono generi, né sostanze, egli può legittimamente parafrasare ogni predicazione analizzando il verbo in copula e predicato. 61 L’uomo indica ovviamente qualcosa, ma l’ircocervo qualcosa che non è una οὐσία, il che ha implicazioni particolari, e tuttavia ciò che si dice su essere e non essere vale anche per lui! A maggior ragione varrà in generale: così potremmo parafrasare il «tra le righe» di questo “anche l’ircocervo indica pur...”. 62 Zanatta esprime la cosa con grande chiarezza: “Nel contesto della relazione di appartenenza si specifica un’ulteriore caratteristica del verbo: la determinazione che esso significa deve sì appartenere ad altra cosa, ma il verbo non la significa come effettivamente appartenente, ossia nella sua relazione di appartenenza, bensì soltanto come determinazione che deve appartenere. L’appartenenza della determinazione ad altro è invece espressa (e garantita) da «è», che funge pertanto da connessione del verbo col nome e ha dunque valore copulativo” (Aristotele, Dell’interpretazione, cit., p. 20). 86 presente, che la stessa struttura si dà anche nel caso di «l’uomo corre» o di «l’ircocervo non esiste»: anche qui vi è una affermazione o negazione distinta dal contenuto predicativo, il che risulta evidente se, del tutto autorizzati da Aristotele, parafrasiamo: «l’uomo è corrente», «l’ircocervo non è esistente». Tenendo conto di ciò, non è per nulla giustificato ritenere che l’essere o non essere in questo caso o addirittura in generale abbiano di per sé un valore comunque esistenziale, vale a dire che Aristotele intenda qui solamente: l’ircocervo esiste o non esiste63. Può ben intendere anche ciò, poiché logicamente «esistere» è un predicato come tutti gli altri, ma di certo non intende solo ciò, appunto perché quel che qui è asserito vale per ogni predicato. Proprio in un contesto del genere, insomma, è del tutto ineccepibile ciò che Moro afferma in generale: “Di ogni individuo, astratto o concreto che sia, infatti, si deve poter dire qualcosa, cioè a ogni cosa si deve poter assegnare un predicato e questo avviene, tipicamente nelle definizioni, mediante l’impiego del verbo essere […]. Esattamente come il verbo fare viene usato come abbreviazione per tutte le attività concepibili, così anche il verbo essere da solo viene usato come abbreviazione per indicare l’applicazione di (almeno uno tra) tutti i predicati concepibili – «essere qualsiasi cosa», e quindi, per metonimia, essere il soggetto di un predicato. Di per sé tuttavia, questo è il punto, né essere esprime un predicato, né fare un’azione”64. 63 Come fa per esempio Sainati, che da una premessa giusta trae una conseguenza sbagliata: “poiché nella «asserzione» aristotelicamente intesa [scilicet nell’apofansi] è sempre presente – esplicitamente o implicitamente – l’«essere» o il «non essere», le asserzioni affermative equivalgono per Aristotele a dichiarazioni di esistenza, mentre quelle negative si risolvono in dichiarazioni di inesistenza”, tanto che “l’asserzione «Socrate è malato» dev’essere intesa per Aristotele così: «esiste Socrate malato»” (citato ivi, p. 146). 64 A. Moro, Breve storia..., p. 25. Passo che continua: “Sta poi ai filosofi distinguere e soppesare quali sono le implicazioni ontologiche relative al fatto di poter essere soggetto di predicazione. Quello che a noi importa qui è che ogni discorso ontologico, o forse più in generale filosofico, non si può basare sulla pretesa di un’evidenza linguistica”. Ma come?, viene da chiedergli, se proprio l’accezione più elementare di essere come condizione di ogni predicazione possibile e quindi di ogni frase e quindi dell’intero linguaggio, rimanda all’«essere qualsiasi cosa», all’essere essente, quale altra evidenza linguistica sarebbe più potente di questa nel mostrare la natura totalmente ontologica del linguaggio? Il linguaggio vi si mostra invece incardinato nelle sue condizioni più elementa- 87 La questione, però, è molto delicata e merita un breve approfondimento. Nel leggere il X paragrafo del De interpretatione, i medievali formalizzarono tre tipologie di frasi: 1) de secundo adiacente, che sono quelle nelle quali il soggetto è seguito da essere o non essere; 2) de tertio adiacente, che sono le copulari normali; e 3) de secundo adiacente ex verbo adiectivo, dove il soggetto è seguito da un verbo diverso da essere. Le proposizioni della prima tipologia vengono poi spesso interpretate come esistenziali65. Ora, tenendo comunque presente che le esistenziali non sono escluse dalla prima tipologia, il testo non corrobora però che vi siano le uniche comprese. Aristotele comincia ribadendo che l’affermazione è di qualcosa circa qualcosa, e questo già implica che l’affermazione minima deve contenere almeno due elementi: “ogni affermazione sarà costituita o da un nome e da un verbo, o da un nome indefinito e da un verbo”. E poiché “è o sarà o era o diviene o tutti gli altri termini di questo genere da quanto detto sono verbi, giacché significano in più il tempo”, allora “la prima affermazione e negazione sono uomo è – uomo non è” (De int. 10, 19b5ss.). Ai “termini di questo genere”, di cui evidentemente «essere» è capostipite ed esempio, appartiene anche γίγνεται, che non ha valore esistenziale, sì però un uso intransitivo, come talora anche lo εἴναι, che in tal caso diviene schiettamente esistenziale. D’altro canto, anche γίγνεται può avere un uso copulativo, e questi due elementi comuni mi sembrano attagliarsi bene alla struttura del de secundo adiacente: predicazione intransitiva di verbi che ammettono anche la forma de tertio adiacente. Al di là di ciò, però, quel che davvero conta è che la terza tipologia Aristotele la riconduca subito alla prima: “Nel caso in cui l’è non si adatti, per esempio nel caso di sta bene e cammina, in queste i verbi così posti producono lo stesso risultato come se si fosse applicato è” (10, 20a3-5), che dunque può valere come esempio anche di tutti gli altri verbi, o se non altro di tutti gli intransitivi. E la terza tipologia è sempre parafrasabile tramite la seconda. Tenendo conto di ciò, “la prima affermazione e negazione” sono tali in termini funzionali e non semantici: sono le proposizioni nucleari che contengono solo ri di possibilità proprio nel nesso che lega essere ed essente, essere ed ente, essere e trascendentali, e innanzitutto l’aliquid, il qualcosa. Ma va anche detto che Moro qui pensava all’«equivoco» russelliano. 65 Cfr. Zanatta in Aristotele, Dell’interpretazione, cit., pp. 39 ss. 88 gli elementi minimi, contenuti altresì, almeno implicitamente, in tutte le altre. A questo punto, però, avendo introdotto tanti temi non presenti nell’unica pagina del De interpretatione che abbiamo letto, prima di tornare al testo è opportuno sintetizzare almeno parzialmente – sulla base di quanto detto, ma aggiungendovi un elemento molto importante – la struttura complessiva del discorso di Aristotele: 1) Nomi e verbi sono le parti funzionali indispensabili alla formazione di un discorso dotato di significato (logos σημαντικός), che si produce tramite la loro συμπλοκή (a questo piano grammaticale corrisponde quello logico: soggetto-predicato; e quello ontologico: sostrato-accidente). 2) Quando la συμπλοκή si specifica entro l’alternativa sintesi-dieresi produce l’affermazione e la negazione e quindi un logos ἀποφαντικός, che alle prerogative di quello σημαντικός aggiunge la possibilità di essere vero o falso. La συμπλοκή sintetica è l’affermazione, quella diairetica la negazione. 3) Sintesi e dieresi sono operate puramente da «essere e non essere» (che non sono immediatamente la sintesi e la dieresi, ma sintesi e dieresi entro una συμπλοκή). 4) Inoltre, all’interno del logos apofantico nel suo complesso, alcune specifiche combinazioni, strutturalmente ben definite, di affermazione e negazione (di uno stesso predicato circa uno stesso soggetto) producono la contraddizione – ἀντίφασις – che, considerata come un’unità, è il luogo dove la possibilità del discorso di essere vero o falso implica la necessità che, posto un lato della contraddizione come vero, l’altro risulti ipso facto falso e viceversa66. Tale prerogativa è di importanza fondamentale, poiché consente la deduzione del vero o del falso su un piano puramente logico, vale a dire a prescindere dal contatto con gli enti (una volta, ovviamente, che si sia ammessa almeno una premessa, che possiamo davvero conoscere come 66 Circostanza che non si dà in ogni tipo di contrarietà/opposizione. (Cfr. De int. 7). Aristotele analizza nei particolari la struttura della contrarietà, ma la differenza che più ci interessa è quella tra l’opposizione semantica del predicato (sano-malato) e quella sintattica della predicazione (essere o non essere sano/malato), differenza che enfatizza la funzione pura dell’affermazione e della negazione (cfr. anche De int. 12, 21a38, dove si ribadisce che “tra le enunciazioni composte, si oppongono l’una all’altra in maniera contraddittoria quelle che si ordinano secondo essere e non essere”). 89 vera solo a partire dal piano ontologico): è nella sola forma predicativa della sintesi e della dieresi, opportunamente contrapposte nella contraddizione, che già si presenta la necessità che l’una o l’altra sia vera e la sua contraddittoria falsa. Da ciò la formulazione del principio di non contraddizione e del terzo escluso. E da ciò anche l’importanza di definire compiutamente i modi in cui si produce un’autentica contraddizione e quindi di decidere come apporre la negazione affinché un’affermazione diventi la propria vera negazione67. Già sulla base di ciò, possiamo dare una prima determinazione del nesso tra «essere» e συμπλοκή, che, come abbiamo detto, è il termine letteralmente più affine a «copula» e indica genericamente l’unione predicativa. Ebbene, è evidente che «essere e non essere» nel connettere qualcosa a qualcosa producono la συμπλοκή, ma non si limitano a mediare la predicazione, giacché quando compaiono il discorso non è più solo semantico, bensì apofantico. E dal momento che il discorso apofantico può essere parafrasato nella forma del de tertio adiacente, essere e non essere, sì e no, sono le forme elementari e paradigmatiche, implicite in tutte le altre forme più complesse, in cui si realizzano sintesi e dieresi, affermazione e negazione. La συμπλοκή apofantica come connessione tra un soggetto e un predicato, di cui «essere» è il verbo funzionale elementare, può essere dunque sia congiuntiva, che disgiuntiva, il che deve indurci a notare che solo ellitticamente definiamo «essere» anche come «nome dell’affermazione», poiché è in realtà insieme nome dell’affermazione e della negazione. Già qui in Aristotele, che se pure non usa espressamente un corrispettivo greco di «copula» per il solo verbo essere – ma d’altro canto neanche Abelardo lo fa!68 –, definisce 67 Cfr. An. pr. 46, 51b5ss. A ciò, come già si notava, è legata anche la necessità di distinguere tra predicazioni a due o a tre termini, che non ha dunque nulla a che vedere con il presunto valore esistenziale della copula. 68 In Abelardo, infatti, lo schema di analisi della proposizione “categorica” è del tutto analogo a quello aristotelico: la funzione predicativa e quella copulativa (vis praedicativa et copulativa) vi sono distinte, per quanto si realizzino sempre insieme (talora in un unico termine, talora in due, ma comunque connessi; cfr. Dialectica, p. 134: “Non svolgono soltanto la funzione copulativa, ma contengono anche il significato della cosa predicata”, e pp. 161 s.). La prima funzione corrisponde alla coppia sintesi-dieresi, tanto che, quando si esprime per esteso, Abelardo parla insieme di “copulatio et remotio” o “separatio”, coppia che riconduce esplicitamente ad “esse” e “non esse” (cfr., per esempio, Dialectica, p. 329 e Tractatus, p. 116: “E questa copulazione o separazione, 90 però chiaramente gli elementi portanti della sua funzione copulare. Il che andrà mostrato ancora meglio, ma già da ora, nella differenza menzionata alla fine del primo paragrafo tra ἁπλῶς e κατὰ χρόνον, semplicemente o secondo il tempo, è chiaro che l’aggiunta del tempo specifica ulteriormente e quindi non esaurisce la funzione di «essere». Funzione che possiamo anticipare nella sua complessità, dicendo che il verbo puro per eccellenza 1) realizza la συμπλοκή, 2) la dicotomizza e 3) la temporalizza. Tale funzione è evidentemente riassunta, espressa e messa in forma dal principio di non contraddizione: non si può affermare o negare di un soggetto uno stesso predicato sotto lo stesso riguardo e nello stesso tempo. Da tale punto di vista, dunque, il principio di non contraddizione non è altro che una griglia delle combinazioni possibili tra gli elementi della struttura della frase copulare. E sia il principio di non contraddizione che la struttura della frase già contengono a loro volta la struttura elementare dell’ente: ciò che un soggetto deve già sempre essere per poter essere un soggetto. Conclusioni che anticipiamo affinché sia chiaro sin da ora ciò che abbiamo in vista, nel leggere ancora qualche passo del De interpretatione, attendendoci che corrobori tali risultati. Vediamo allora, ma per quanto possibile più rapidamente di quanto non fatto sinora, cosa ci dice Aristotele sul nome e sul verbo, ovvero sugli elementi grammaticali che assolvono alle funzioni predicative. questa congiunzione o divisione si realizzano nella predicazione, in cui, tramite la congiunzione o la separazione del predicato rispetto all’oggetto, esprimiamo ciò che vogliamo mostrare di esso”). L’affermazione e la negazione realizzano così la predicazione, vale a dire l’attribuzione di una determinazione ad un soggetto (non significandola, ma ponendola). E questo avviene anche nei casi in cui non vi sia il verbo essere oppure non vi sia un predicato nominale! Vale a dire in tutte le tipologie dei medievali, comprese il de secundo adiacente semplice oppure ex verbo adiectivo: in tali casi, infatti, il verbo copula con se stesso, vale a dire con il suo contenuto nominale, affermandolo o negandolo e quindi predicandolo. Tutti i verbi, dunque, copulano, ma in ultima istanza proprio perché in tutti è implicito l’essere e il non essere: “E occorre sapere che i verbi personali che possono predicare, qualunque significato abbiano, possono tutti copulare se stessi. Così, se si dice: «Socrate è», «Socrate legge», «essere» e «leggere» sono predicati tramite se stessi e svolgono una doppia funzione, poiché hanno la capacità del predicato e della copula, in quanto insieme si predicano e copulano se stessi. Così infatti si dice «corre» come se si dicesse «è corrente»” (Log. ingred., p. 359). 91 “Il nome è dunque voce significativa per convenzione senza tempo, di cui nessuna parte è significativa separatamente” (De int. 2, 16a19). Dunque: 1) indica qualcosa 2) in quanto simbolo69, 3) senza alcuna determinazione circa la sua collocazione temporale70 e 4) in maniera unitaria, ovvero come un tutto71. Molti di questi elementi del nome li condivide anche il verbo, che in effetti è per certi versi un nome, come Aristotele nota. E tuttavia presenta due caratteristiche che lo rendono particolare, l’una aggiungendogli una prerogativa che il nome non ha, l’altra delimitandone invece la funzione (il nome può fungere anche da predicato nominale, mentre il verbo, funzionalmente, non può essere un soggetto verbale e se è soggetto, allora è integralmente un nome). La 69 Sostanzialmente analoga la definizione della Poetica (20, 1457a10ss.), che non menziona la συνθήκη, ma al suo posto allude al carattere sintetico del nome, il che pure in qualche modo corrobora la tesi che la convenzione abbia un valore duplice e che alluda anche alla composizione che avviene nel simbolo tra segno e riferimento (ma non è escluso che qui Aristotele alluda alla sua struttura fonologica articolata). 70 Per inciso, ciò vale anche per i nomi che dicono esattamente determinazioni temporali: «ieri», di per sé, significa «senza tempo», per quanto significhi un certo lasso di tempo. Constatazione che anche Abelardo propone, per poi però capovolgerla del tutto, asserendo che anche i nomi significano insieme al tempo, per quanto solo al presente: “Se pure si trovano nomi che in un qualsiasi modo designano un tempo, come «anno» o «annuo», o anche avverbi temporali, tuttavia non consignificano il tempo come fa il verbo […]. Ma perché no? Così come infatti «corro» o «corrente» mostrano il correre rispetto alla persona in quanto ad essa inerente nel presente, così «bianco» determina rispetto alla sostanza la bianchezza come inerente nel presente; infatti non si dice il bianco se non a partire dalla bianchezza presente” (Dialectica, p. 122). Da ciò deduce che “sembra che il nome si differenzi dal verbo non tanto nel significare il tempo, quanto nel modo di significarlo. Il verbo, infatti, che soltanto costituisce l’inerenza, in questo indica anche il tempo, perché mostra l’inerenza del suo contenuto al soggetto personale nel tempo”. A sostegno di tale tesi, menziona il fatto che Aristotele dica che le forme verbali non al tempo presente non sono verbi, bensì flessioni del verbo. In senso proprio, dunque, il verbo sarebbe sempre al presente, indicativo o participio, anche perché la funzione temporalizzatrice può essere assunta integralmente dalla copula: «correrà» vale come «sarà corrente». Il che vuol dire che se non altro proprio il verbo essere si distingue dai nomi per la capacità di aggiungere tutte le determinazioni temporali differenti dal presente. 71 Zanatta parla di “primalità del tutto sulle parti” (Aristotele, Dell’interpretazione, cit., p. 149). 92 prima di tali caratteristiche è enunciata subito: “Il verbo è ciò che in più significa il tempo” (De int. 3, 16b6). Προσσημαῖνον χρόνον: vi è un’indicazione aggiuntiva, rispetto al nome, rispetto a ciò che nel verbo è nome, un’aggiunta che non riguarda però le determinazioni essenziali, bensì quelle temporali. Insieme al predicato reale, per dirla con Kant, il verbo esprime il tempo in cui quel predicato è posto: “Dico che in più significa il tempo: ad esempio «salute» (ὑγίεια) è un nome, «sta in salute» (ὑγιαίνει) un verbo, giacché significa in più che [la salute] appartiene ora [al soggetto]” (De int. 3, 16b8-9). La caratteristica che invece delimita la funzione del verbo consiste nel fatto che “è segno di ciò che si dice di altro”, vale a dire che il suo significato è sempre riferito a ciò di cui si predica, che vi è insomma bisogno di un soggetto di cui si dica, di cui il verbo dica ciò che gli appartiene: “è sempre segno di ciò che appartiene – τῶν ὑπαρχόντων –, per esempio a un soggetto/sostrato”72. 72 De int. 3, 16b9-10. Zanatta nota opportunamente che in questo contesto ὑπάρχω “definisce una relazione di appartenenza intesa nel senso più lato possibile e comprendente sia quella che nelle Categorie viene indicata come predicazione infracategoriale o «dirsi di un soggetto», sia la predicazione intercategoriale o «essere in un soggetto»” (Aristotele, Dell’interpretazione, cit., p. 20). E a partire dalla tradizione boeziana, infatti, lo si è inteso per lo più come «inerenza» o «adiacenza» (un’ampia discussione sugli usi tecnici di ὑπάρχω in Aristotele è in G. Chiurazzi, L’esperienza della verità, Mimesis, Milano 2011, pp. 11, 16 ss.). Il termine è molto rilevante e ha un’ampiezza semantica ampia (cfr. N. Russo, La cosa e l’ente, cit., pp. 17 ss.), ma solo in epoca alessandrina assume più nettamente anche il valore di «esistere», che qui però evidentemente non ha o solo in senso molto lato (l’inerenza o adiacenza è comunque compresenza). Il problema vero di intenderlo come «esistere», però, non è tanto di ordine semantico, bensì logico. Lo dimostra un’ambiguità nel modo in cui Heidegger legge lo ὑπάρχει τι ἢ μὴ ὑπάρχει di De int. 17a24: “inerire di qualcosa o non inerire”, vale a dire ad un soggetto, come è chiaro dal passo appena citato. Heidegger traduce: “das Vorhandensein von etwas oder Nichtvorhandensein” (“l’esser-presente di qualcosa o non esser-presente”), dove il τι può essere frainteso come soggetto (esistente), mentre indica il predicato (inerente). E, infatti, Heidegger riassume circa il verbo, avendo di mira naturalmente anche il verbo «essere», e dice che “è sempre un significato che così significa il suo essere riferito a ciò di cui si enuncia”. Ma «essere» non è riferito semplicemente a ciò di cui si enuncia, bensì al predicato che connette a un soggetto. Da questa ambiguità ne segue un’altra: la confusione tra aspetto noetico e dianoetico: “tutto ciò si fonda in un νοεῖν, un rimandare percettivo – einem vernehmenden Aufweisen – νοεῖν che è, come si è visto, dello ὑπάρχον, dell’essente” (M. Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik, cit., pp. 464-467). Ma lo ὑπάρχον è un 93 Per le altre caratteristiche, a prima vista il verbo non si differenzia dal nome: è voce significativa per convenzione, le cui parti separate non significano di per sé nulla e che da solo non produce il vero o il falso. Rispetto a un punto, tuttavia, che è però importante, l’analogia è solo superficiale: anche se le coniugazioni del verbo, infatti, come prima le declinazioni del nome, non sono propriamente verbi, ma solo “flessioni del verbo” (De int. 3, a16b17), non si può dire, e Aristotele non lo dice73, che esse sono tali da non produrre un giudizio apofantico se unite a essere e non essere, come avviene con i casi obliqui dei nomi, ma limita la differenza a quella tra il lemma semplice del verbo al tempo presente e tutti gli altri tempi indicati dal verbo coniugato. E questo non perché non ha senso aggiungere l’essere o il non essere a un verbo – ha invece assolutamente senso, poiché tale aggiunta vi è sempre implicita qualora il verbo sia effettivamente affermato74 –, bensì per il semplice fatto noema, non un indivisibile, è ciò che inerisce all’essente (in quanto esso stesso essente), non è l’essente sic et simpliciter, e riguarda dunque la dianoia e non il nous intuitivo, giacché l’inerire o non inerire è un modo dell’unire e del separare. In Abelardo la lettura è canonicamente boeziana (cfr. p.e. Dialectica, p. 124: “dicendo «l’animale inerisce all’uomo» non diciamo null’altro che «l’uomo è animale»”). Sulla questione è infine del tutto chiaro Tommaso: “Non si deve intendere poi che con ciò che ha detto «ciò che è» e «ciò che non è» [scilicet: τὸ ὑπάρχον e τὸ μὴ ὑπάρχον] ci si debba riferire tanto all’esistenza o alla non esistenza del soggetto, ma al fatto che la cosa significata dal predicato sia o non sia inerente alla cosa significata dal soggetto. Infatti, quando si dice «il corvo è bianco», viene significato che ciò che non è, è, anche se il corvo è una cosa esistente” (Logica dell’enunciazione, cit., p. 150). 73 Poco più avanti dice anzi espressamente il contrario: “è necessario che ogni discorso apofantico derivi da un verbo o da una sua flessione” (De int. 5, 17a9-10). 74 Così anche Abelardo, per il quale il verbo produce la predicazione proprio perché, oltre al suo significato, contiene in aggiunta anche la sintesi operata da «essere» (Cfr. Dialectica, p. 123: “Per quanto «bianco» significhi la bianchezza tanto adiacente quanto inerente, esso non presenta tuttavia l’essere adiacente o l’inerire, così come fa invece il verbo, poiché questo ha congiunta al proprio significato, la copulazione del verbo sostantivo”; e poi oltre, p. 132: “Così allo stesso modo pure nei rimanenti verbi, che contengono anche la copulazione del verbo sostantivo”, tesi a partire da cui argomenta la vuotezza della copula: “Attraverso l’«è» come verbo sostantivo, quale è detto poiché è applicato a tutto secondo la sua essenza, si può copulare ogni cosa. Onde è manifesto che non è preso in considerazione a partire da una sua proprietà, al contrario di «siede», «corre» e così via, i quali non svolgono mai la sola funzione 94 che un verbo coniugato al passato, affermato o negato di un soggetto, produce indubbiamente asserzioni passibili di essere vere o false, prerogativa che non ha un nome declinato sui casi obliqui. Al passato e naturalmente al presente, ma riguardo al futuro le cose si complicano e sarà compito dei paragrafi successivi del De interpretatione approfondire esattamente questa strana situazione. Del tema dei «futuri contingenti» non possiamo però occuparci estesamente qui, l’averlo menzionato serviva solo a mettere in luce una situazione molto peculiare rispetto ai verbi, potremmo dire una sorta di frizione o asimmetria, che si realizza propriamente nelle enunciazioni apofantiche, tra la funzione temporalizzatrice e la struttura logica della contraddizione, tant’è che è proprio durante l’analisi di tale struttura che emerge quell’aporia (cfr. De int. 9, 18a28ss.). Come abbiamo detto, infatti, l’opposizione tra affermazione e negazione, tra sintesi e dieresi, si realizza nella maniera più pura in quelle coppie di enunciati contraddittori, che risultano necessariamente essere l’uno vero e l’altro falso, anche a prescindere dalla condizione che il soggetto sia reale. «Socrate è malato» e «Socrate non è malato» sono necessariamente l’una vera e l’altra falsa, insomma, anche se Socrate non esiste o è morto (Cfr. Cat. 13b14ss.). Quale delle due sia poi vera e quale falsa, continua a dipendere dalla situazione reale: se Socrate non esiste vera sarà la seconda, se esiste ed è malato la prima etc... Ora, però, poiché le affermazioni su eventi futuri sono ipso facto riferite a soggetti o determinazioni non (ancora e potenzialmente mai) esistenti, è facile spiegarsi come proprio qui si incontri una situazione limite: enunciati contraddittori che vi si riferiscano devono subito essere l’uno vero e l’altro falso e tuttavia l’alternativa rimane indecidibile, il che solleva domande complesse su caso e necessità75. Come Aristotele risolva tale aporia esula però dal nostro tema e descriverlo ci porterebbe troppo lontano: limitiamoci a sottolineare che qui emerge la necessità di porre più chiaramente la distinzione tra le diverse funzioni del verbo e in particolare tra il suo aspetto della copula, ma insieme pongono la cosa predicata”. Interpretazione analoga in M.M. Tweedale, Abelardo e il culmine della “logica vetus”, in La logica nel medioevo, tr. it. di P. Fiorini, Jaca Book, Milano 1999, p. 54. 75 Nell’introduzione e poi nel commento, Zanatta sintetizza bene la questione (cfr. Aristotele, Dell’interpretazione, cit., pp. 45 ss., 224 ss.). 95 nominale e quello puramente verbale, distinzione che mette in luce la peculiarità del verbo essere. E procediamo, avendone così preliminarmente osteso il contesto problematico, alla lettura di quello che è forse il passo ontologicamente più significativo del De interpretatione: “In se stessi dunque e detti per sé i verbi sono nomi e significano qualcosa – infatti colui che li dice arresta il suo pensiero (τὴν διάνοιαν) e chi ascolta acquieta il proprio –, ma non significano ancora se è o non è. Infatti, l’essere o non essere non è segno della cosa, neanche qualora tu dica semplicemente come tale: ciò che è – τὸ ὄν. In sé, infatti, non è niente, ma significa in più una certa composizione – σύνθεσίν τινα –, che senza ciò che vi è composto non è possibile pensare (οὐκ ἔστι νοῆσαι)” (De int., 3, 16b19ss.). Aristotele inizia dunque ponendo che i verbi considerati al di fuori della συμπλοκή predicativa hanno un contenuto semantico, così come lo hanno i nomi: indicano una determinazione che noi comprendiamo in quanto tale, che la nostra dianoia afferra, ma non indicano se essa è o non è. E questo già corrobora quel che asserivamo: la συμπλοκή apofantica non è solo soggetto più predicato, ma ha come elemento focale, come vero e proprio principio della connessione, l’essere o il non essere della determinazione rispetto al soggetto di cui si predica. Ma se così stanno le cose, allora essere e non essere sono forme verbali del tutto sui generis, funzionalmente distinte, nella formazione della predicazione, dal soggetto e dal predicato e dunque dal nome e dal verbo. E questa è la ragione per la quale Aristotele, apparentemente ex abrupto e di certo in maniera molto ellittica e saltando subito alle conclusioni, chiude il paragrafo con alcune considerazioni circa la specificità di questo strano verbo. Per comprendere appieno, però, quel che dice, e che è in realtà del tutto coerente e conseguente, dobbiamo integrare con pochi passaggi intermedi. Il verbo, abbiamo detto, ha una parte nominale dotata di significato: il suo contenuto predicativo, che a se stante non è ancora un’asserzione, non solo perché manca il soggetto, ma perché mancano anche l’affermazione o la negazione, ovvero l’essere o il non essere del predicato. Tuttavia, negli esempi tipici della συμπλοκή, questo “terzo” elemento non è affatto evidente: in «uomo corre» abbiamo solo nome e verbo. In realtà, però, come abbiamo già notato ma senza esaurire tutto ciò che implica, anche in questi casi l’essere è presente in maniera implicita nel verbo, il che può essere mo96 strato agevolmente, notando che «non fa alcuna differenza dire che l’uomo cammina o che l’uomo è camminante» (De int. 12, 21b9-10). Considerazione che abbiamo visto ripetere un po’ da tutti, poiché ha effetti spettacolari, e che riassumeremo chiamandola la «parafrasi aristotelica». In predicazioni come «l’uomo cammina», il contenuto nominale del verbo, che racchiude il suo valore semantico e costituisce dal punto di vista logico il predicato vero e proprio, è esprimibile tramite il participio presente. Dopo tale sostituzione, l’onere della predicazione come istituzione della συμπλοκή è delegato interamente ad essere (e non essere), flesso secondo il tempo del primo verbo: l’uomo correva e l’uomo era corrente, per esempio. Quel che immediatamente emerge da ciò, è che se le due proposizioni sono del tutto equivalenti dal punto di vista semantico, e lo sono, evidentemente l’è o l’era risulta indifferente da questo stesso punto di vista, ovvero privo di significato: essere non è un predicato, come Moro non si stanca e del tutto legittimamente di ribadire. Vale a dire che essere, che grammaticalmente rimane pur sempre un verbo, non ha tuttavia una parte nominale reale. Ed è per questo che Aristotele chiama subito in causa τὸ ὄν, vale a dire esattamente il participio presente di essere. Se negli altri verbi, infatti, è nel participio presente che si deposita il significato nudo, senza tempo, rispetto ad essere ciò che poniamo nel suo participio – l’ente – è propriamente niente. Οὐ γὰρ τὸ εἶναι ἢ μὴ εἶναι σημεῖόν ἐστι τοῦ πράγματος, οὐδ’ἐὰν τὸ ὂν εἴπῃς ψιλόν. Αὐτὸ μὲν γὰρ οὐδέν ἐστιν. “Infatti, l’essere o non essere non è segno della cosa, neanche qualora tu dica semplicemente come tale l’essente. In sé, infatti, non è niente”. Non stupisce che un’asserzione così netta sia rimasta trascurata e non ben intesa, perché esprime un paradosso estremo: proprio l’essente, proprio «ciò che è», in realtà è niente. Vale a dire niente della natura del soggetto o del predicato: né un sostrato, né una sostanza, né una determinazione secondo le diverse categorie. E che sia così Aristotele lo ribadisce nella chiusa del paragrafo, alludendo chiaramente all’inizio di questo suo ultimo passo: lì si diceva che un verbo preso di per sé ha un contenuto noetico, mentre è evidente che essere non lo ha: “non è niente, ma significa in più una certa composizione – σύνθεσίν τινα –, che senza ciò che vi è composto non è possibile pensare (οὐκ ἔστι νοῆσαι)”! 97 Senza il soggetto e il predicato, essere di per sé non significa niente, tuttavia aggiunge qualcosa, la composizione, la fusione della συμπλοκή apofantica. Ma è notevole che anche questa connessione di per sé rimane impensabile, se non vi sono anche i composti. E questo perché la connessione non è un terzo materiale della predicazione, ma solo funzionale: direbbe Moro, dal punto di vista linguistico, solo sintattico (appunto relativo alla sintesi); mentre dal punto di vista noetico non è un noema, ma propriamente noesis, espressione della potenza sintetico-analitica del logos. Non è dunque un qualcosa che viene pensato oltre il soggetto e il predicato – né una cosa, né un concetto!76 –, ma è piuttosto l’atto del pensare 76 A costo di risultare ripetitivo, ritengo necessario sottolineare con particolare enfasi questo punto, sia perché vi emerge chiaramente l’eccentricità di essere rispetto ai 3 momenti costitutivi la dimensione del significato: parolaconcetto-cosa; sia perché, nella lettura di questo passo, Heidegger si sofferma sul πρᾶγμα, ma in sostanza ignora lo οὐκ ἔστι νοῆσαι e quindi interpreta il προσσημαίνει comunque come un significare, che deve avere un correlato nel comprendere. Il riferimento al πρᾶγμα è ovviamente inteso nel senso della differenza ontologica: “L’essere non è un essente, non una cosa o una proprietà cosale, niente di presente. E tuttavia significa qualcosa”, ovvero l’unità (a cui poi aggiungerà essenza, esistenza e verità), per quanto essa non sia comprensibile senza i congiacenti. È un significare, quindi, quello dell’essere, comunque dipendente dall’essente, “non autonomo” (M. Heidegger, Die Grundbegriffe..., cit., pp. 470 s.). Il problema, qui, vale a dire rispetto all’interpretazione di Aristotele – ma naturalmente è un problema complessivo –, è proprio nel confondere σημαίνειν e meinen: il verbo greco in fondo vuol dire «essere segno per», e l’«è» che compare nella frase è certamente un segno, che però non indica né un πρᾶγμα, né un noema, bensì solo l’atto di unificazione. È l’indice simbolico, nella sua forma linguisticamente esplicita come copula, di un’attività della noesis (ed è proprio per questo che in alcune lingue può mancare del tutto, poiché in esse quell’attività si esplica in altre forme: se essere avesse un qualche significato cosale o concettuale, compreso quello dell’unità, ciò non potrebbe avvenire). La differenza potrà apparire molto esigua, poiché si esprime esattamente così: essere non significa l’unità, ma la pone e così rende possibile anche eventualmente significarla (come si vedrà, mutatis mutandis è lo stesso errore di Russell rispetto all’identità). È tutta qui la differenza, rispetto alla copula: di certo essa implica l’unità, e pure implica l’essenza, una certa esistenza e ovviamente l’identità/diversità, ma appunto non alla maniera della significazione! Se l’ambito del significato, infatti, è comunque delimitato dalle relazioni tra parola, concetto e cosa, allora l’essere propriamente non vi appartiene (se non rispetto alla sua residua parafrasabilità, di cui diremo). Ma in un modo molto peculiare, vale a dire come la condizione di possibilità di quella triangolazione: quel che consente ad un ambito di estendersi e proprio perciò non vi è com- 98 stesso come la loro unificazione (e separazione). Ed è evidente che, senza i due, quell’atto rimane impossibile. Lo conferma il De Anima: laddove si danno il vero e il falso, “vi è già una certa sintesi di noemata come essenti uno” (De An. 430a27s.). A questo primo momento di unificazione, segue poi quello della temporalizzazione: “se si tratta di cose passate o future, [il nous] pensa in più il tempo e lo pone nella sintesi – τὸν χρόνον προσεννοῶν καὶ συντιθείς” (430a31s.)! Sintesi che è sempre dieresi e viceversa77. Da ciò il nous come “τὸ δὲ ἕν ποιοῦν – ciò che rende uno”78. προσεννοῶν è evidentemente il perfetto analogo noetico del προσσημαίνει linguistico, che nel De interpretazione è usato sia in relazione al tempo (rispetto a tutti i verbi), sia in relazione alla sintesi (rispetto a essere e non essere). E nel πρὸς non risuona solo l’aggiunta, ma anche la direzione dell’aggiunta, il verso: verso le cose e i noemata, nel pensarli e dirli, ossia nel volgersi a ciò che pensa e dice, il nous/essere unifica/separa e temporalizza. Ma appunto non preso – questo il tipo particolare, giacché ve ne sono anche altri, di «fondazione» del significato sull’essere. L’essere, solo in quanto non significa niente, può servire a significare tutto. Il problema è che in questa struttura, che è insieme la condizione della verità, quel che è sin dall’inizio necessariamente altro da sé è proprio la verità, radicata così com’è nel proton pseudos dell’essere. Ma di ciò non è questo il momento di parlare, limitiamoci a indicare il risultato un po’ paradossale, e di certo molto più ingombrante delle sue premesse, dello spostamento d’accento che si produce quanto l’essere viene inteso come ipotesi del logos, come il suo pathos specifico: a differenza di quel che avviene in Heidegger, che proprio perché ritiene che con essere sia significato comunque qualcosa può anche mettersi alla sua ricerca, nell’ipotesi ontologica la riduzione logica dell’essere esclude ogni via neoplatonica. E così ha sì ragione Heidegger: intorno a questa domanda “si gioca la metafisica”, ma in un senso opposto a quel che riteneva. 77 De An. 430b1. In questo luogo Aristotele menziona solo il falso come sempre nella sintesi, che è poi sempre dieresi: questo perché nel puro contatto del nous con gli indivisibili, quindi senza sintesi e dieresi, c’è già il vero, ma non il falso. 78 De An. 430b5s. Sull’unificazione del molteplice come atto del nous, cfr. M. Fattal, Ricerche sul logos, cit., pp. 142 ss., 149 ss. Incidentalmente, la connessione tra questo passo e il tema della copula era chiara già al giovane Hegel: “Unificazione ed essere sono sinonimi; in ogni proposizione infatti la copula «è» esprime l’unificazione di soggetto e predicato, cioè un essere” (G.W.F. Hegel, Scritti giovanili, a cura di E. Mirri, Orthotes, Napoli-Salerno 2015, p. 435). 99 nel senso che produca altre cose o altri noemata, e neanche nel senso che predichi la sintesi, come contenuto che si aggiunga a quello del soggetto e del predicato. La sintesi è già data nell’atto del pensiero, e per certi versi solo nell’atto del pensiero79. E tanto basti, altrimenti si potrebbe ritenere che io stia facendo pre-scrivere l’ipotesi ontologica proprio da Aristotele, che ne ha scritte sì molte pagine, ma non tutte, e molte poi contro: anche rispetto alla dimensione noetica o dianoetica di essere, infatti, il passaggio dall’atto di pensiero all’ipotesi del logos non è di poco conto. Concludiamo, dunque, ribadendo semplicemente che nel confronto tra funzioni logiche – soggetto, predicato, copula – e categorie grammaticali – nome, verbo, essere/non essere – Aristotele compagina un discorso molto solido e ben articolato, che rimane, come ben nota Colli proprio commentando l’ultimo passo da noi letto, uno dei fondamenti di tutto l’Organon80. E che sia oramai pienamente legittimo, per tornare alle tesi iniziali di Moro, parlare di «copula» e anzi di un concetto molto preciso di copula, mi sembra a questo punto evidente, così come è evidente che l’aggiunta del tempo è una determinazione ulteriore, che «essere» condivide con tutti gli altri verbi e che può riassumere in sé ed esprimere isolatamente, per il semplice fatto che per il suo tramite si può parafrasare ogni altro verbo, potenza che gli è garantita proprio dal suo vuoto semantico81. 79 Nel paragrafo della Metafisica dedicato all’ente in quanto vero, ossia in senso logico, dunque proprio al nostro essere, Aristotele pone in maniera chiara la questione, partendo esattamente dal solito riferimento alla sintesi e alla dieresi, al vero e al falso, e alla contraddizione: “Il vero è l’affermazione di ciò che è realmente congiunto e la negazione di ciò che è realmente diviso, il falso è invece la contraddizione di questa affermazione e di questa negazione. In quale modo poi avvenga che noi pensiamo cose unite o separate, e unite in modo da formare non una semplice consecuzione, ma qualcosa di veramente unitario, è questione che esula da quella che stiamo trattando. Infatti, il vero e il falso non sono nelle cose [...], ma solo nella dianoia; anzi, per quanto concerne le sostanze semplici e le essenze, neppure lì […]. Poiché l’unione e la separazione sono nella dianoia e non nelle cose, l’essere inteso in questo senso […] consiste in un’affezione della dianoia – τῆς διανοίας τι πάθος” (Met. 1027b19ss.). Vedi anche Met. 1065a21-23, dove si dice che l’essere in quanto vero “è nella συμπλοκή della dianoia e un’affezione di essa”. 80 Aristotele, Dell’espressione, tr. it. di G. Colli, in Opere, vol. I, Laterza, Roma-Bari 1988, p. 54. 81 Così anche Abelardo: “Risulta così chiaro, da quanto detto, che nessun accidente è attribuito mediante l’interposizione di «è». In effetti, se nel verbo 100 II.3 Il nome dell’affermazione Dopo aver tratteggiato alcuni momenti del De interpretatione, Moro passa ad esporre la teoria del verbo essere come «nome dell’affermazione»82. Con quest’espressione rimanda alla fase medievale, lungo la quale – e proprio grazie al lavorio intorno alla sillogistica aristotelica – il verbo essere avrebbe assunto tutt’altra centralità, passando da “terzo ingrediente in ordine di importanza in una frase, dopo il soggetto e il predicato” a vero e proprio cardine non solo della frase, ma dell’argomentazione deduttiva rigorosa. Nel suo ruolo di mediatore tra soggetto e predicato, infatti, il verbo essere permette che il termine medio di un sillogismo funga da soggetto in una premessa e da predicato nell’altra e in tal modo produce la congiunzione dei due estremi nella conclusione. Non più mero “supporto del tempo grammaticale nelle frasi dove il tempo non si può esprimere sul predicato”, dunque, ma “il perno del sillogismo”, poiché il verbo essere è l’unico che consente la predicazione tra due sintagmi nominali senza alcuna aggiunta semantica delimitativa83. “Tra i primi, Abelardo parla in questo caso di verbo essere come «copula», l’atto che, unendo, genera una nuova entità”84. Tra i primi, poiché il termine doveva essere già presente entro la scolastica, ma con Abelardo “è oramai ampiamente affermato e, quel che più importa a noi qui, è slegato in modo significativo dalla teoria del verbo essere come espressione del tempo, caposaldo della teoria aristotelica”85. Tuttavia, nonostante la sua presa di distanza da Aristo«è» fosse posto un qualche accidente tale da essere copulato attraverso lo stesso verbo, per il suo tramite non si potrebbe copulare una proprietà differente; il che è evidente dagli altri verbi” (Dialectica, p. 159). 82 Avendo già discusso ampiamente della coppia affermazione/negazione e del concetto di copula; e avendo già presentato molte tesi di Abelardo, la trattazione di questa sezione potrà essere sensibilmente più breve. 83 Cfr. A. Moro, Breve storia..., pp. 51 ss. Ivi, p. 60, Moro si limita a dire che “nessun altro verbo potrebbe avere lo stesso effetto”, il che è vero, poiché gli altri verbi copulativi – ossia in grado di connettere due sintagmi nominali – come «sembrare», «divenire» etc., intervengono nella semantica generale della frase e soprattutto ne indeboliscono i valori di verità. 84 Come abbiamo visto (vedi supra, nota 68 a p. 90), in realtà per Abelardo tutti i verbi copulano, poiché anche in assenza di un secondo sintagma nominale copulano se stessi, ossia il proprio contenuto significativo. 85 Non è proprio così: Abelardo riconosce e quindi distingue le due funzioni, copulativa e temporalizzatrice (oltre alla predicativa, naturalmente), ma 101 tele, anche Abelardo avrebbe assunto una “posizione esplicita contro l’ipotesi che questo verbo potesse essere un predicato” e in particolare “non accettò mai l’idea che la copula potesse essere un predicato di esistenza, per non far saltare dalle fondamenta il meccanismo del sillogismo”86. non le scinde, si limita ad enfatizzare la prima, nel senso già aristotelico della distinzione tra ἁπλῶς e κατὰ χρόνον, sottolineando, però, che anche la copulazione ἁπλῶς, semplice, è in realtà temporalizzata praesentialiter. La questione è poi strettamente connessa con quella del valore esistenziale (vedi nota successiva), che è sempre relativo all’esistenza in un qualche tempo: “Anche noi approviamo che tutti i verbi siano detti da Aristotele significare una qualsiasi cosa circa altro insieme al tempo, e così come i nomi significano alcune cose in essenza, alcune altre in quanto proprietà adiacenti, così anche i verbi” (Log. ingred., p. 346) e poco oltre: “Davvero «corre» significa il tempo, poiché il tempo presente […]; consignifica infatti l’«essere ora» (nunc esse), cioè il suo contenuto in quanto esistente, vale a dire in pieno svolgimento nel presente” (ivi, p. 354). Evidentemente questo «nunc esse» riproduce il νῦν ὑπάρχειν del De interpretatione (16b9; vedi supra, nota 72, p. 193), che indica non l’esistenza simpliciter, bensì l’appartenenza (inerenza) di un predicato ad un soggetto, come qui nel caso del correre (ora, di qualcuno). Ma quando non si tratti di una significazione ex adiacenti, bensì in essentia, riferita com’è al soggetto e non al predicato (cfr. Dialectica, pp. 163 s.), per Abelardo non rimane che un valore di essere in ultima istanza esistenziale (e tuttavia ancora copulativo!). 86 A. Moro, Breve storia..., pp. 60 s. Al riguardo si può dire più correttamente, che Abelardo non nega del tutto un valore predicativo al verbo sostantivo (nella misura in cui può essere predicato da solo, per quanto anche in tal caso è implicito il predicato ulteriore contenuto nella sua parte nominale: ens), ma nega invece recisamente che sia tale valore ad essere copulato, vale a dire affermato o negato del soggetto nelle de tertio adiacente: “Invero, il verbo sostantivo, che non conviene per nominazione (ex appellatione), ma a partire dall’essenza stessa della cosa, può essere congiunto a tutti i predicati […], e quando significa una qualunque cosa nella sua essenza, mai vi è assente la copulazione dell’essenza, dal momento che ovunque attraverso di esso si propone che qualcosa è qualcos’altro (aliquid aliud esse), anche allorché sia aggiunto ad aggettivi, come ad esempio quando si dice «questo è bianco». Benché rispetto all’intenzione di chi forma la proposizione soltanto la bianchezza sia copulata – sicché solo essa può essere predicata –, tuttavia dalla forza del verbo sostantivo lo stesso sostantivo «bianco» è congiunto essenzialmente a Socrate, onde lo stesso essere di Socrate è posto da essa, dato che questo verbo contiene la significazione dell’essenza. Così, a Socrate sono congiunte due cose mediante il predicato «bianco»: ossia la bianchezza secondo l’adiacenza, e il bianco, cioè ciò che è affetto da bianchezza, in essenza: tuttavia la sola bianchezza è predicata, poiché è la sola che si intende essere congiunta” (Log. ingred., p. 360). Vi è dunque sì una certa “significazione dell’essenza”, che però nell’uso propriamente copulare di «essere» non è predicata, ma in qualche modo implicita nel- 102 Quest’ultimissima asserzione è corretta, ma è forse anche l’unica, qui, ad esserlo compiutamente: come si è visto, infatti, così come in Aristotele è già teorizzato e posto al centro l’elemento sintetico/diairetico che verrà poi chiamato «copula» (e secondo la stessa duplicità: copulatio/remotio), allo stesso modo in Abelardo è riconosciuto il nesso quasi-esclusivo della copula con il tempo, proprio in termini aristotelici. E riguardo al valore esistenziale di essere, Abelardo lo nega sì alla copula in senso stretto, ma non in generale87. La storia, insomma, e anche la storia della filosofia è più complessa di qualsiasi modellizzazione paradigmatica, che immancabilmente deve separare ciò che spesso è fuso, per poter isolare in maniera pura gli elementi. Ma tenuto conto che i due elementi sinora isolati – il tempo e l’affermazione/negazione – sono effettivamente l’affermazione di un qualunque predicato. In tal caso, in piena e puntuale aderenza con Aristotele, “così come anche «è» o «non è» sono voci congiuntive o disgiuntive, non significative, allo stesso modo «sì» o «non sì» congiungono e separano voci significative, per quanto non le significhino, non avendo in sé il concetto di nessuna cosa, né vera, né falsa. Inclinano piuttosto l’animo ad un qualche modo di concepire” (ivi, p. 340). Nel caso, però, dell’esse appositum subjecto, per esempio «Socrates est» oppure «ego sum», “invero l’«è» verbo, poiché contiene tutto in essenza, congiunge in primo luogo il predicato «ente»: nel dire «io sono» è come se si dicesse «io sono qualcosa di esistente»” (ivi, p. 362). Questo non contraddice affatto la tesi di Abelardo che ogni verbo copula, poiché anche qui «est» congiunge il predicato «ente» e lo afferma. Ma proprio il predicato «ente» non è più un termine che non ha “nullius rei in se conceptionem”. Predicato da solo, insomma, «essere» vale come «essere-ente» – e vedremo come questa parafrasi sia per molti versi plausibile –, ma «ens», questa volta a differenza dello on di cui nel De interpretatione è niente, vale ora come «aliquid de existentibus» (oscillazione presente anche in Dialectica, p. 163: “Ma dico che «è» non è posto come verbo tale da dire l’essere, bensì il participio «ente», tale da designare [qualcosa] in quanto esistente”). Il che è precisamente quanto negavamo nel primo capitolo, sostenendo la coincidenza di ente e qualcosa e la loro piena indeterminatezza. Coincidenza, che porterebbe a parafrasare «ego sum» semplicemente con «ego sum aliquid», senza alcuna aggiunta, e che in Abelardo invece è rotta, poiché l’aliquid contiene sia gli enti esistenti, che gli inesistenti, i quali ultimi per lui propriamente non sono enti. 87 Per quanto di per sé il tema del rapporto tra Abelardo e Aristotele sia di grande interesse, qui non possiamo né dobbiamo approfondirlo ulteriormente. Il che comporta trascurare soprattutto Abelardo, le cui opere di logica sono tra le più alte mai prodotte e, ahinoi, tra le meno tradotte e studiate (per lo più null’affatto tradotte, in nessuna lingua, a fronte delle lettere a Eloisa che presumibilmente lo sono quasi in tutte...). 103 fondamentali, l’operazione complessiva può rimanere utile, per quanto ne vadano rivisti tanti particolari. Anche perché una lettura più approfondita di Aristotele e di Abelardo – i cui testi di logica sono in gran parte commenti a quelli del “Princeps Peripateticorum” – avrebbe condotto a risolvere tutto in un unico paradigma, quello (platonico)aristotelico, di cui il resto non è altro che una variazione sul tema. La qual cosa avrebbe se non altro creato imbarazzo rispetto a quel momento così fervido e fruttuoso anche per la linguistica, che fu la scuola giansenista di Port-Royal, avversa al tomismo e cartesiana, in cui Chomsky riconosce la prefigurazione più compiuta della grammatica generativo-trasformazionale, da cui proviene anche Moro88. Nella sua celebre Grammaire (1660), infatti, Antoine Arnauld descrive bene il portato complessivo del De interpretatione, ma curiosamente lo fa misconoscendo tale origine: “Infatti, dato che gli uomini sono naturalmente portati ad abbreviare le loro espressioni, essi hanno quasi sempre congiunto nella stessa parola all’affermazione altre significazioni. Essi vi hanno congiunto quella di qualche attributo, sicché allora due parole costituiscono una proposizione, come quando dico Petrus vivit, in quanto la parola vivit racchiude da sola l’affermazione e, inoltre, l’attributo di essere vivente; sicché è lo stesso dire Pietro vive e Pietro è vivente”. Di nuovo la parafrasi aristotelica, che qui marca la struttura della predicazione, che è tripartita anche laddove essa avvenga solo grazie a due termini: “la «vera» struttura della frase”, come nota Moro, “è data dalla scomposizione di soggetto e predicato verbale in soggetto, copula e predicato nominale”. Da cui deriva che anche il verbo dotato di contenuto semantico svolge insieme tre funzioni: “predicazione, affermazione e tempo”. Ma Arnauld non sembra consapevole che è proprio questo il contenuto della teoria aristotelica del verbo entro le frasi apofantiche, teoria che è anzi anche più organica, poiché pensa quelle tre funzioni come connesse ed essenzialmente interdipendenti. Arnauld, invece, afferma: “La varietà delle significazioni congiunte in una stessa parola è ciò che ha impedito a molte persone, per altro assai dotate, di conoscere bene la natura del verbo, in quanto essi l’hanno considerato non secondo quanto è ad esso essenziale, cioè l’affermazione, ma secondo questi altri rapporti che, 88 104 Cfr. A. Moro, Breve storia..., p. 68. in quanto verbo, sono ad esso accidentali. Così Aristotele, fermandosi alla terza delle significazioni aggiunte a quella che è essenziale al verbo, lo ha definito vox significans cum tempore, una parola che significa insieme al tempo”89. Ma andrebbe meglio detto: “Così Arnauld, peraltro assai dotato, fermandosi al primo rigo del terzo paragrafo del De interpretatione, forse senza neanche cogliere che nel significans è già posta la predicazione, e senza tener conto che affermazione e negazione sono lo stigma delle frasi apofantiche, ha impedito a se stesso di comprendere Aristotele”. E forse anche di comprendere a fondo cos’è l’affermazione in quanto distinta dalla predicazione. Tuttavia, Arnauld sottolinea un punto che è di capitale importanza: “Si può dire che il verbo di per sé non dovrebbe avere altro uso se non quello di indicare il legame che nel nostro spirito compiamo tra i due termini di una proposizione. Ma in questa semplicità è rimasto solo il verbo essere, che diciamo sostantivo”, il verbo dunque per eccellenza: “in ciascuna lingua ci sarebbe stato bisogno di un solo verbo, che è quello che chiamiamo sostantivo”. Dove quel che è veramente importante, al di là dell’unicità già assodata di essere, è che la sua funzione sia anche qui definita a partire dallo spirito: “Il giudizio che facciamo delle cose (come quando dico la terra è rotonda) racchiude necessariamente due termini, l’uno detto soggetto, l’altro detto attributo, che è ciò che si afferma, come rotonda; e, inoltre, racchiude il legame tra questi due termini, che è propriamente l’azione del nostro spirito che afferma l’attributo del soggetto”90. Insomma, anche per Arnauld, che forse non sa quanto del De anima sia così rievocato, l’essere è espressione del logos stesso, piuttosto che di un qualche ente, è azione dello spirito. Tesi che qui si intende modulare, piuttosto che correggere, parlando di ipotesi e non di atto, e integrando sempre la negazione nell’affermazione, la quale non è affatto “significata” dal verbo, come Arnauld aggiunge, poiché il verbo non rimanda ad essa come a qualcosa di altro da sé: essere non significa l’affermazione, essere afferma o nega, e afferma e nega insieme, non indica l’affermazione/negazione, ma la realizza. 89 90 Ivi, pp. 68 s. Ivi, p. 69. 105 II.4 L’essere e l’identità ne I principi della matematica di Russell Veniamo dunque al “nome dell’identità” e quindi a Russell e al suo “gigantesco equivoco”, che a mio avviso Moro liquida con un’unica osservazione, decisiva. Come abbiamo già notato, Russell ammette un gran numero di significati diversi di essere, ma nel luogo qui citato si limita a due di essi: “L’enunciato Socrate è un uomo è indubbiamente «equivalente» a Socrate è umano, ma non è lo stessissimo enunciato. L’è di Socrate è umano esprime la relazione di soggetto e predicato; l’è di Socrate è un uomo esprime un’identità. È una disgrazia per l’umanità che si sia scelto di usare la stessa parola è per due idee completamente differenti, una disgrazia cui può ovviare, naturalmente, un linguaggio logico-simbolico”91. E Moro nota: “la relazione di identità è sempre comunque mediata nel linguaggio naturale da una relazione di predicazione, visto che si tratta pur sempre di una frase. Anche se si usasse un predicato esplicito di identità, come essere identico a, si avrebbe pur sempre una relazione di predicazione”92. E così il discorso, se fosse solo una confutazione, si potrebbe già interrompere, perché compiuto; e non solo, come generosamente attenua Moro, dal punto di vista di un linguista. Le confutazioni, però, sono prive di qualsiasi valore e interesse se non insegnano qualcosa, e qui questo qualcosa ha a che fare niente di meno che con l’identità, per cui è opportuno capire come si è prodotto quell’equivoco, anche perché le riflessioni di Russell circa tale questione contengono spunti validissimi e intuizioni molto preziose. A tale scopo, però, il testo di Moro, che ha un obiettivo chiaro e più delimitato, non basta, per cui bisognerà leggere il più sinteticamente possibile almeno i capitoli quarto e quinto de I principi della matematica, che si collocano esattamente nello stesso territorio che stiamo cercando di esplorare: “Nel presente capitolo saranno discusse alcune questioni appartenenti a quella che può venir chiamata grammatica filosofica. A mio avviso lo studio della grammatica può gettar luce sulle questioni filosofiche 91 Citato in A. Moro, Breve storia..., cit., pp. 71 s. Per una modulazione più articolata di questo tipo di frasi e in particolare di quelle contenenti il concetto classe un-uomo, cfr. B. Russell, I principi della matematica, cit., pp. 103 ss., 134 s., 139. 92 A. Moro, Breve storia..., cit., p. 73. 106 molto più di quanto i filosofi siano soliti supporre. Benché non si possa ammettere senza esame critico che una distinzione grammaticale corrisponda ad una autentica differenza filosofica, tuttavia l’una costituisce il manifestarsi prima facie dell’altra e spesso può venir impiegata molto utilmente come una sorgente di scoperta”93. Inizio notevole, ma va tenuto conto che la grammatica filosofica di cui parla Russell è assoggettata al punto di vista di una specifica logica formale, pensata peraltro avendo di mira una formalizzazione della matematica. Il che è chiaro da tutto il proseguo del discorso, ma in effetti già implicito in questo primo paragrafo, che continua presentando un motivo sul quale Russell tornerà più volte, poiché lo ritiene decisivo: “Penso inoltre si debba ammettere che ogni parola, che compare in una locuzione, debba avere qualche significato: un suono perfettamente senza significato non potrebbe venire usato nel modo più o meno regolare in cui la lingua usa le parole. La correttezza della nostra analisi filosofica di una proposizione può venire perciò utilmente controllata coll’esercitarsi a precisare il significato di ogni vocabolo...”94. Detta così, sembra un’asserzione del tutto all’oscuro della differenza tra categorematici e sincategorematici, e quindi tra semantica e sintassi, il che non è affatto plausibile trattandosi di Russell. Proviamo dunque a precisare il significato che deve avere la parola significato, laddove si assuma che ogni parola deve avere un qualche significato: vale a dire semplicemente svolgere un qualche ruolo all’interno della frase, semantico, sintattico o anche semplicemente pragmatico (come nelle interiezioni legate ad un qualche contesto comunicativo concreto). Lo scopo di Russell è dunque analizzare la proposizione, distinguendo precisamente il ruolo dei suoi componenti in maniera tale da poterlo formalizzare logicamente in maniera rigorosa; un punto di vista a partire dal quale il verbo essere ovviamente «significa» qualcosa, poiché di certo svolge un ruolo. La questione è se può essere un ruolo semanticamente pieno e quindi autonomamente predicativo, come Russell assume almeno nel caso dell’identità. 93 B. Russell, I principi della matematica, cit., p. 87. Ibidem. Ma cfr. anche ivi, pp. 126, 165. Il risultato poi frequente di questo esercizio di precisazione del significato, è diagnosticare che “il linguaggio, in questo come in altri casi, si rivela una guida falsa” (ivi, p. 128, dove Russell si riferisce all’analisi dei quantificatori). 94 107 La grammatica in senso stretto è comunque già congedata: “ciò che qui desideriamo ottenere è una classificazione non di parole, ma di idee; darò perciò il nome di aggettivi o predicati a tutte le nozioni suscettibili di essere tali, anche se espresse in una forma in cui la grammatica li chiamerebbe sostantivi”. E in questo contesto Russell enuncia subito uno dei punti focali: “quella che noi vogliamo raggiungere è la distinzione tra nomi propri e nomi generali, o piuttosto tra gli oggetti indicati da questi nomi”95. Come si vede, la distinzione vuole essere innanzitutto ontica e da ciò anche logica, sicché per certi versi siamo ancora nel bel mezzo della disputa intorno agli universali: quali «oggetti» vi corrispondono96? Ma andiamo con ordine e chiediamoci perché mai i nomi propri e quelli generali è così importante distinguerli. La ragione deriva ancora dall’impianto aristotelico: “si può scomporre ogni proposizione in un qualcosa che è asserito e qualcosa su cui si fa l’asserzione”, τὶ κατὰ τινός, un predicato di un soggetto, un accidente di un sostrato... E “un nome proprio, quando compare in una proposizione, è sempre […] il soggetto […], non è ciò che vien detto intorno al soggetto. Invece gli aggettivi e i verbi sono suscettibili di presentarsi in proposizioni, nelle quali non possono venire considerati come soggetto, ma soltanto come parti dell’asserzione; gli aggettivi si distinguono per la loro capacità di denotare […], i verbi per uno speciale tipo di connessione, estremamente difficile a definirsi, con la verità e la falsità, connessione in virtù della quale una proposizione asserita si differenzia da una non asserita”97: le sostanze prime, vale a dire gli individui, non si dicono di nulla, ma di esse vengono dette le sostanze seconde, ovvero i generi e le specie, grazie al verbo che le afferma delle prime e genera il giudizio apofantico. 95 Ivi, pp. 87 s. Tutta la vicenda è letta proprio in termini di decisione circa tale disputa da N.B. Cocchiarella, Logic and Ontology, in: Axiomathes, 12 (2001), Springer Netherlands, pp. 117-150. 97 B. Russell, I principi della matematica, cit., p. 88. Tematizzata è qui evidentemente la potenza sintetico-diaretica che produce effettivamente la predicazione, affermandola o negandola. In questa mia descrizione sommaria delle sue premesse, le brevi integrazioni di stampo aristotelico non vogliono né spiegare, né ridurre il discorso di Russell a una mera riformulazione, ma solamente evidenziare il paradigma da cui comunque provengono, distaccandosene. 96 108 Ricordando che si tratta di categorie logiche e non strettamente grammaticali, abbiamo dunque una scansione funzionale in nomi, aggettivi e verbi. I nomi propri possono fungere solo da soggetto; i nomi comuni, invece, spesso derivabili da aggettivi o da verbi, sono più vocati a fare da predicato; e, infine, i verbi realizzano il nesso logico ed espongono l’enunciato alla possibilità di essere vero o falso. Ciò che accomuna, però, tutti e tre gli elementi funzionali, è che ognuno di essi può talora fungere da soggetto di un’asserzione, ciò intorno a cui si dice qualcos’altro. Questa circostanza produce una descrizione dei caratteri costitutivi del soggetto sostanzialmente univoca e che ha evidenti assonanze, anche molto forti e specifiche, con la definizione dell’ente che abbiamo cominciato ad esporre più sopra: “Chiamerò termine qualsiasi entità che possa essere oggetto di pensiero o possa trovarsi in una proposizione vera o falsa, o possa essere contata come uno. Questa, perciò, è la parola più ampia nel vocabolario filosofico. Come suoi sinonimi userò le parole unità, individuo, entità. Le prime due mettono in evidenza il fatto che ogni termine è uno, la terza, invece, è derivata dal fatto che ogni termine ha un’esistenza, cioè in qualche senso esiste. Un uomo, un momento, un numero, una classe, una relazione, una chimera, o qualsiasi altra cosa possa venir menzionata, sono sicuramente termini”98. E questo, ma solo a prima vista, sembrerebbe risolvere in termini tinologici la questione circa la natura degli oggetti che corrispondono ai nomi: oggetti di pensiero, vale a dire enti noetici, dotati in quanto tali di una certa esistenza, non necessariamente di quella concreta, se termine è anche la chimera. Tuttavia, come vedremo, proprio su quest’ultimo punto anche Russell, come a suo tempo Aristotele, si troverà costretto a fare dei distinguo e in sostanza marcia indietro. Come che sia, l’elenco dei semata parmenidei del termine non termina qui: ad unità ed entità si sommano infatti il poter essere soggetto logico, l’immutabilità e indistruttibilità, l’identità numerica con se stessi e la diversità numerica dagli altri. Ogni dicibile, insomma, è un ente autoidentico differente, e su questo siamo fin troppo d’accordo, ma non su tutti e tre i criteri a partire dai quali Russell ha dedotto i caratteri del soggetto: l’essere pensabile/dicibile, il poter rientrare in una proposizione vera o fal98 Ivi, p. 89, ma cfr. anche p. 91. 109 sa, la numerabilità. Ed è in particolare il secondo di tali criteri a risultare problematico, innanzitutto perché dipende da una concezione specifica della verità qui data per presupposta e preliminare alla definizione del soggetto, laddove dovrebbe derivarne. Una concezione che è rigorosamente realista, ancora in senso aristotelico, e che vede una netta preminenza logica, e non solo assiologica, del vero sul falso, come Russell specifica argomentando circa il verbo come funzione dell’affermazione (che lui chiama “asserzione”): “Ma vi è un altro senso dell’asserzione, molto difficile da presentare con chiarezza al pensiero, eppure assolutamente innegabile, rispetto a cui soltanto le proposizioni vere sono asserite. Le proposizioni vere e quelle false sono egualmente, in un certo senso, entità, e sono in un certo senso suscettibili di essere soggetti logici; ma quando accade che una proposizione è vera essa ha una qualità ulteriore, al di sopra e al di là di quella che essa condivide con le proposizioni false, ed è questa qualità ulteriore ciò che io intendo dire con il vocabolo asserzione, inteso in un senso logico come opposto al senso psicologico”99. Le proposizioni vere sono dunque più autentiche di quelle false, più autenticamente affermazioni, e questo, come vedremo, produce gradazioni all’interno del termine come il più universale dei vocaboli filosofici, di fatto rompendone l’unità, giacché alcuni termini sono più termini di altri, poiché soddisfano tutti e tre i criteri della loro deduzione e non uno solo di essi: la chimera è solo pensabile, ma non può essere soggetto di una proposizione affermativa vera, poiché le proposizioni vere hanno a che fare solo con la realtà. I termini per eccellenza sono allora solamente i nomi propri, che indicano nella maniera più netta un qualcosa di unitario, individuo e propriamente esistente, οὐσία e τόδε τι: Socrate. E infatti, posta in tal modo la nozione di soggetto in quanto termine – evidentemente già in vista della sua formalizzazione logicomatematica alla stregua dei termini di una funzione –, Russell procede ad analizzarla: “è possibile distinguere due generi di termini, ai quali io darò rispettivamente i nomi di cose e di concetti. I primi sono i termini indicati con nomi propri”, da intendersi in senso ampio, che ricomprende “tutti i punti e tutti gli istanti particolari”, vale a dire ogni spazio e tempo determinati, “i secondi quelli indicati 99 110 Ivi, p. 96. con qualsiasi altra parola”, ma innanzitutto con aggettivi (predicati o concetti-classe) e verbi (quasi sempre relazioni). Cose e concetti possono entrambi essere soggetti, ma le cose sono sempre e solamente soggetti, e quindi lo sono in maniera più pura: “Socrate è una cosa, perché Socrate non può mai comparire, in una proposizione, diversamente che come termine. Socrate non è suscettibile di quello strano doppio uso che è implicato in umano e umanità”. Ovvero dell’uso sia come predicato, che come soggetto, duplicità che già solo formalmente consente di rilevare che “l’umanità è un concetto, non una cosa”100. Da questa scansione si potrebbe dedurre che una proposizione debba contenere almeno un soggetto e un concetto, il che è vero, ma con una limitazione: del tutto necessaria non è la presenza di un concetto qualunque, ma di un verbo: “l’asserzione deve sempre contenere un verbo” – che ripete quasi letteralmente l’aristotelico ἄνευ ῥήματος οὐδεμία κατάφασις οὐδ’ἀπόφασις (De int. 10, 19b12) – e, “fatta eccezione di ciò, le asserzioni non rivelano altre proprietà universali”. Sembrerebbe banale, ma non lo è affatto, poiché in realtà, al di là della lettera, Russell sta qui preparando una mossa teorica che Aristotele non avrebbe consentito, la mossa che rende possibile pensare una proposizione in cui un individuo è asserito di un individuo, che è propriamente il caso generale entro cui egli fa rientrare l’identità. Nella scansione interna ai concetti, infatti, sono gli aggettivi ad essere propriamente predicati, mentre i verbi sono relazioni e le relazioni non si esauriscono in quella paradigmatica soggetto-predicato. Questa è una relazione a un termine e “i predicati, diversamente dai verbi, sono concetti che compaiono nelle proposizioni le quali hanno un solo termine o soggetto”101. Ma sono altresì possibili relazioni tra più termini, vale a dire verbi che in qualche modo connettono due soggetti. Il discorso va però seguito nei particolari, poiché al di là della sua plausibilità derivata dall’analogia con le funzioni matematiche a più termini, non risulta di per sé molto convincente da un punto di vista linguistico, dal momento che sembra prospettare l’esistenza di asserzioni senza predicati, almeno nei limiti della critica cui Russell espone “certe opinioni tradizionali”, quelle che considerano “tutte 100 101 Ivi, pp. 89-91. Ivi, pp. 90 s. 111 le proposizioni come aventi un soggetto e un predicato, cioè come aventi un questo immediato e un concetto generale legato ad esso”102. Si tratta evidentemente di una definizione molto restrittiva tanto del soggetto, quanto del predicato, e che in tale forma non 102 Ivi, p. 93, ma vedi anche pp. 307 ss. I motivi filosofici per i quali Russell contesta l’universalità del rapporto soggetto-predicato sono trasparenti: egli è consapevole dello stretto legame tra questa struttura e la metafisica della sostanza, verso cui nutre una chiara insofferenza: “La nozione di mutamento è stata molto offuscata dalla teoria della sostanza, dalla distinzione tra la natura della cosa e le sue relazioni esterne, e dalla preminenza delle proposizioni soggetto-predicato. Si è supposto che una cosa possa, in certo qual modo, essere differente eppure la stessa: che, sebbene i predicati definiscano una cosa, essa possa tuttavia avere differenti predicati in istanti differenti. Di qui la distinzione dell’essenziale e dell’accidentale, e numerose altre distinzioni inutili, che erano adoperate consciamente e con precisione (lo spero) dagli scolastici, ma che sono usate inconsciamente e vagamente dai moderni” (ivi, p. 639). Tutto vero: i moderni, e in particolare gli odierni analitici, hanno poca o nulla consapevolezza dell’impianto metafisico del loro discorso (non nel senso di ciò che essi chiamano metafisica, ma di ciò che è la metafisica), per cui tendono ad assumere come ovvio e banale, ciò intorno a cui in passato si erano accese dispute secolari. La sopravvivenza della metafisica a se stessa è poi ancora garantita dal suo radicamento nella grammatica e in particolare nella struttura frasale, che è il fatto a partire dal quale a suo tempo si era potuta fondare logicamente una metafisica della sostanza (ma non solo). Questa, dal canto suo, comporta una frattura nella cosa, che proprio nella sua stessità diviene differente e nella sua essenza si ritrova ad essere accidentale, etc. etc... E su una simile diagnosi come potrei non dare ragione a Russell, visto che proprio nella stessa direzione ho scritto La cosa e l’ente? Ma nonostante questa sua consapevolezza, che proprio perciò si dimostra anch’essa un po’ vaga, Russell si contrappone alla metafisica della sostanza ancora da perfetto metafisico: la sua impresa logica è il tentativo di emendare il linguaggio, su cui si fondava la vecchia metafisica, e in particolare di scalzare il primato della relazione soggetto-predicato a partire da quella che in ultima analisi è solo una diversa metafisica delle entità (per certi versi severiniana, cfr. ivi, p. 640). Un tentativo siffatto ha due ipoteche: a) innanzitutto, argomentare per via di esigenza è sospetto. Voglio dire, che se da un certo dato proviene una certa conseguenza sgradita, ciò non autorizza a contaminare il dato, nello specifico a non tenere conto della natura del logos. Ma ancor più, b) il logos non si lascia affatto emendare nelle sue strutture elementari, poiché l’unico strumento per provarci sarebbe di nuovo il logos. Questo significa forse che si deve comunque soccombere alla metafisica della grammatica? Per certi versi sì, ma va tenuto conto, che entro la struttura davvero elementare del logos non è già inscritta la metafisica aristotelica della sostanza o quella platonica dell’essenza, che sono solo possibilità, così come lo è il realismo russelliano: diciamo che la grammatica ha un proprio grado intrinseco di metafisicità, sul quale poi le metafisiche storiche hanno costruito e continuano 112 può essere di certo accettata: è evidente che il predicato non deve essere obbligatoriamente un aggettivo o nome comune, nel senso in cui sono descritti qui, così come non è detto che il soggetto debba essere un “questo immediato”. E lo stesso Russell, proprio nella pagina in cui poneva che l’asserzione deve sempre contenere un verbo, aveva mostrato come è possibile analizzare una relazione a due termini comunque in sostanza come relazione soggetto-predicato: “In una proposizione relazionale, come «A è maggiore di B», possiamo considerare A come il soggetto e «è maggiore di B» come l’asserzione, oppure B come il soggetto e «A è maggiore di» come asserzione”103. Anche qui, però, egli non parla esplicitamente di predicato, bensì di asserzione, e non si tratta solo di una questione terminologica: al di là della riduzione del concetto di predicato, che purché esplicita può essere legittimamente operata, la sostituzione di ciò che in genere viene chiamato predicato con «asserzione» rischia di confondere predicazione e affermazione, che per quanto strettissimamente connesse rimangono comunque distinte. Una confusione che induce a subordinare il piano del significato a quello delle condizioni di verificabilità di un asserto. Che con «asserzione» Russell intenda esattamente ciò che stiamo chiamando «affermazione», è poi del tutto chiaro da quel che ci dice dei verbi: nel distinguerli dagli aggettivi, e quindi dai predicati in senso stretto, pone innanzitutto la differenza tra il loro contenuto semantico a se stante, il nome verbale, e la loro funzione in quanto verbi, ossia nelle varie flessioni oltre l’infinito e il participio presente. Proprio le flessioni, però, le pone come indifferenti ai fini dell’analisi, e così possiamo già dire che si impedisce di considerare pertinente «l’aggiunta del tempo», esclusione che dovrà poi pagare ammettendo che l’analisi non coglie in nessuno dei suoi elementi il vero principio di unità della proposizione. Ora, ponendo che il verbo esprime sempre una qualche relazione, anche nel caso limite delle a costruire i loro vari edifici. Che però non è affatto una necessità, poiché – ed è questa la considerazione più importante – il logos può divenire trasparente a se stesso anche rispetto all’ipoteca metafisica che pone. Nel contesto dell’ipotesi ontologica ciò produce la tematica della differenza cosa-ente, che da tale punto di vista è precisamente la delimitazione del logos, il quale non può certo saltare oltre di sé e quindi oltre la sua metafisicità, ma può riconoscere proprio in ciò il limite di apprensione della cosa. 103 Ivi, p. 90. 113 proposizioni a un termine, “la duplice natura del verbo, come verbo effettivo e come nome verbale, può venire espressa, se si ritiene che tutti i verbi siano relazioni, come la differenza tra una relazione in se stessa e una relazione che stabilisce realmente un rapporto”. Cosa poi voglia dire questo «stabilire realmente» non è per nulla semplice vederlo: “Consideriamo la proposizione «A differisce da B». Analizzandola vediamo che i suoi costituenti sono solamente A, la differenza, B. Eppure questi costituenti, messi così fianco a fianco, non ricostruiscono la proposizione. La differenza che compare nella proposizione lega effettivamente A e B, mentre la differenza che risulta dall’analisi è una nozione la quale non ha alcun rapporto con A e B”. La proposizione è dunque “un’unità, e quando l’analisi ha spezzato l’unità, nessuna enumerazione dei costituenti potrà ricomporre la proposizione. Il verbo, quando è usato come verbo, realizza l’unità della proposizione, ed è perciò distinguibile dal verbo considerato come un termine, benché io non sappia dare una spiegazione chiara della esatta natura della distinzione”104. Al di là di tale difficoltà, di cui in tali termini effettivamente non si può venire a capo, resta comunque che il verbo realizza l’unità della proposizione legando almeno un soggetto ad una qualche relazione, a partire da quella del tutto elementare che consiste nella posizione del soggetto come termine: “«A è», che è valida per qualsiasi termine senza eccezione. Qui l’è risulta completamente diverso dell’è che compare nella proposizione «Socrate è umano»; esso va considerato come complesso e come affermante in realtà l’essere di A”105, ossia appunto che A è un’entità individua. Ma non è della natura di questo è, che siamo qui in cerca, bensì di quello che compare in «Socrate è un uomo». E ci resta ancora un passo importante da compiere, per poterla comprendere: chiarire cosa intenda Russell per denotazione, la proprietà logica più importante degli aggettivi. Si tratta di un punto estremamente delicato, poiché l’interferenza con il piano ontico vi diviene molto ingombrante, generando innanzitutto una distinzione tra due modi di intendere il significato, che integrano, in maniera forse un po’ stridente, quello alluso all’inizio, quando si affermava che ogni parola deve avere un qualche significato. In questo nuovo contesto, Russell menziona e critica la 104 105 114 Ivi, pp. 94, 96 s. Ivi, pp. 96 s. A p. 103 «A è» è posto come equivalente ad «A è un’entità». tesi tradizionale per cui “tutte le parole starebbero in luogo di idee” aventi un significato, che è dunque nozione “composta confusamente di elementi logici e psicologici”. E questa notazione è già sufficiente a rispondere a una domanda che ponevamo prima: è infatti evidente che qui la soluzione noetica circa la natura degli universali è respinta: “tutte le parole hanno un significato, nel puro senso che sono simboli i quali stanno in luogo di qualcos’altro. Invece una proposizione, a meno che per caso verta sulla lingua, non racchiude in se stessa delle parole: racchiude entità indicate dalle parole. Ne segue che il significato, inteso nel senso in cui si dice che le parole hanno un significato, non ha importanza per la logica”. Conclusione avventurosa, se è proprio tramite il loro significato che le parole indicano le entità racchiuse in una proposizione, che è peraltro premessa almeno altrettanto avventurosa, quasi che le cose fossero incarcerate nella frase (o sepolte nel sema linguistico che è insieme segno e tomba106). Al di là del mero significato delle parole, però, vi è per Russell anche un altro modo del significato, diciamo pure reale, che molto ricorda della medievale suppositio107: “Concetti quali un uomo hanno un significato anche in un altro senso: essi sono, per così dire, simbolici in virtù della loro stessa natura logica, perché hanno la proprietà da me chiamata denotare. Cioè, quando compare in una proposizione l’espressione un uomo, la proposizione non si riferisce al concetto un uomo, ma a qualcosa di completamente diverso, ossia a qualche effettivo bipede denotato da quel concetto” – il che, sia lecito aggiungerlo, è quel che accade quasi sempre, poiché solo molto di rado parliamo di parole o di concetti, in genere sono proprio le cose che diciamo. E, inoltre, nulla impedisce che anche il concetto denotante «un uomo» possa essere trattato come concetto e non come il suo denotato108. Come che sia, la conclusione di Rus- 106 Cfr. J. Derrida, Il pozzo e la piramide. Introduzione alla semiologia di Hegel, in Margini della filosofia, cit., pp. 107 ss. 107 Tant’è che Geach, denunciando le varie ambiguità della teoria russelliana della denotazione, propone di tornare al più coerente concetto di suppositio (P.T. Geach, Reference and generality. An Examination of some medieval and modern theories, Cornell University Press, Ithaka and London 1980, pp. 83 ss.). 108 Ma Russell deve negare questa possibilità, poiché tenerla in conto lo farebbe ritornare alla teoria fregeana del significato, per sfuggire alla quale bisogna asserire che il concetto denotante, preso da solo, non significa nulla. Ed è un punto del tutto centrale: “Questo è il principio della teoria della denotazio- 115 sell è che “tra i concetti soltanto quelli che denotano hanno un significato”109, vale a dire un autentico significato logico. Grazie al concetto denotante, dunque, nella proposizione si presenta la cosa stessa, ma chiediamo di nuovo: come può accadere ciò, se proprio il contenuto di quel concetto non pare dover svolgere alcun ruolo, se proprio il concetto in qualche modo non deve essere concepito? Aristotelicamente: come può la parola riferirsi alla cosa senza la mediazione del noema? Certo una mediazione complessa e difficile a definirsi, con inevitabili implicazioni metafisiche, e tuttavia forse impossibile da elidere del tutto. Che è quel che emerge nel tipo di definizione data da Russell, insoddisfacente poiché ci dice cosa avverrebbe con la denotazione, senza però dirci nulla sulla denotazione stessa, su come essa realmente si produca, processo rispetto al quale Russell si limita a interdire il ricorso al concetto in quanto concetto. Questo medio, propriamente logico, è infatti ridotto a psicologico e quindi squalificato e respinto: “la nozione del denotare, come la maggior parte delle nozioni di logica, è stata finora resa oscura da una indebita mescolanza di psicologia. Vi è un senso di tale parola, secondo cui noi denotiamo, quando additiamo o descriviamo qualcosa, o usiamo le parole come simboli di concetti: questo tuttavia non è il senso che io intendo discutere”, bensì quello che si realizza nei concetti che “inerentemente e logicamente” denotano termini, ossia solo in virtù della propria forma110. Ma anche in questa ripresa tematica dell’argomentazione sul denotare, Russell non sembra andare oltre quanto ci ha già detto: “Si dice che un concetto denota quando, se esso compare in una proposizione, la proposizione non verte sul concetto, ma su un termine connesso in un certo modo peculiare nel concetto”. Su un termine, o non piuttosto su una cosa? Domanda come vedremo pertinente, per quanto non interamente risolvibile, e che rende anche a posteriori più intelligibile nei suoi scopi la riduzione del concetto di termine in direzione del termine eminente costituito dalla cosa indicata nel nome pro- ne che intendo sostenere: che i sintagmi denotativi non hanno mai significato in se stessi, ma che ha significato ogni proposizione nella cui espressione verbale essi figurino”, cosa che Russell afferma in polemica diretta con Frege (B. Russell, Sulla denotazione, tr. it. di A. Bertollini, Efesto, Roma 2015, p. 11). 109 Id., I principi della matematica, cit., pp. 93 s. 110 Ivi, p. 102 (cfr. anche Id., Sulla denotazione, cit., p. 5). 116 prio. Ma se si ammette che anche i numeri siano cose, allora è proprio di cose che pare doversi solamente trattare: “Se dico: «incontrai un uomo», la proposizione non parla di un uomo: questo è un concetto che non va a passeggio per le strade, ma vive nel chimerico limbo dei libri di logica. Quello che incontrai era una cosa, non un concetto”. E analogamente, se dico “qualsiasi numero finito è pari o dispari”, non è del concetto “qualsiasi numero” che parlo, concetto né pari né dispari, ma dei singoli numeri pari e dispari111. Proprio in questi due esempi, però, viene in luce che nella nuova definizione qualcosa più di prima in effetti c’è: “connesso in un certo modo peculiare nel concetto”. E questo modo peculiare è quello che si produce quando un concetto è preceduto da quantificatori: tutto, ogni, qualsiasi, uno, qualche e il. Nella sua forma elementare come aggettivo predicativo, per esempio in umano, c’è solo il concetto passibile di denotare, ma una volta quantificato c’è anche l’oggetto denotato: un uomo, tutti gli uomini...112. E da tale “ge111 Id., I principi della matematica, cit., p. 102. Ivi, pp. 104 s. A p. 105 leggiamo: “una frase, la quale contenga una delle parole citate, compie sempre la funzione del denotare”. Per inciso, che tra i quantificatori analizzati qui da Russell manchi «nessuno» è indice dell’ipoteca realista, ma in Della denotazione dovrà aggiungerlo all’elenco, forse per affrontare una difficoltà che si presenta già qui, ossia quella di pensare un concetto denotante cui non corrisponde nessun oggetto denotato. Anche in Della denotazione, però, il «nothing» viene esplicato a contrariis: “C(nessuno) significa «‘C(x) è falso’ è sempre vero»”; vale a dire: che qualcosa sia detto di nessuno/niente, significa che è sempre vero che quel qualcosa, detto di qualcuno/qualcosa, sia falso. È una definizione arzigogolata, che non solo moltiplica una semplice negazione in due affermazioni e una negazione (nessuno: sempre non alcuno), ma entra anche in frizione con la legge di Buridano (vedi infra, nota 131), poiché fa dipendere il significato da valori di verità (per quanto qui in ultima analisi da verità logico-analitiche: tutti i quantificatori sono infatti ricondotti ad un qualche “sempre vero”, nozione che viene definita “ultima e indefinibile”). Anche qui va però notato, che sul piano del significato, quando io dico che qui non c’è nessuno, non sto dicendo affatto che è sempre vero che è falso che qui ci sia Francesco o Giuseppe o tutti gli altri infiniti chi possano stare per x. Questo non è affatto «significato», è solo implicato, ammesso che la mia asserzione sia vera. Non si dovrebbe dire dunque “C(nessuno) significa «‘C(x) è falso’ è sempre vero»”, bensì “se C(nessuno), allora «‘C(x) è falso’ è sempre vero»”. Tale critica naturalmente significa un’opposizione netta e più generale all’intera teoria verocondizionale del significato (su tale questione, e più in generale sulla critica al realismo metafisico di Russell, cfr. ancora T. Geach, Reference and generality, cit., pp. 34 s., 82 s., 202 s.). Rispetto infine al112 117 nesi logica dalle proposizioni soggetto-predicato” è evidente la derivazione del nome comune dall’aggettivo. Dal punto di vista strettamente logico-formale, però, le predicazioni del tipo Socrate è umano “implicano sempre e sono sempre implicate da altre proposizioni, il cui carattere consiste nell’asserire che un individuo appartiene ad una classe”113: Socrate è un uomo. Ma giacché una classe è una cosa, in quanto collezione di singole cose114, e giacché un uomo vuol dire qui proprio uno dei singoli entro la sua classe, “l’è di queste proposizioni è ora l’unico concetto non usato come termine”. Insomma, l’appartenere alla classe umana equivale ad essere uno tra gli uomini, un qualche uomo e dunque un certo uomo, un uomo determinato. Ma un uomo determinato non può più essere un predicato, poiché non è un nome comune ma un oggetto che di per sé richiederebbe un nome proprio (sempre nel senso ampio in cui Russell lo intende). Ma allora, da un punto di vista logico, che predicazione c’è tra Socrate e un uomo, se da entrambi i lati finiamo per trovare un individuo e dunque un soggetto? Non siamo ancora all’identità, ma ci manca poco: da Socrate è umano a Socrate è un uomo si passa, infatti, da una relazione predila variabile x, che è il concetto perno di tutto il suo discorso, non so fino a che punto Russell fosse consapevole che in sostanza è di nuovo un quantificatore: vale infatti per «un qualcosa» e quindi contiene in sé i due trascendentali più importanti, ἕν e τι. Tenere presente ciò, però, gli renderebbe più difficile asserire del tutto rigorosamente che le frasi con concetti denotanti sono formalizzabili logicamente senza alcun concetto denotante (cfr. B. Russell, Sulla denotazione, cit., p. 19: “la teoria sopra enunciata mette capo a una riduzione di tutte le proposizioni in cui sono presenti sintagmi denotativi a forme da cui sono assenti”), possibilità in base alla quale Russell pretende di risolvere un gran numero di aporie. Se formalmente, infatti, è il quantificatore che rende un concetto denotante e se di per sé il concetto denotante non significa nulla se non interpretato all’interno di una proposizione, allora x è già un concetto denotante, per quanto indefinito, e naturalmente non può scomparire in nessuna formalizzazione delle proposizioni denotanti. Tale considerazione della variabile, peraltro, consente anche di mettere in luce quel che in un altro contesto è asserito da Quine: essere è essere il valore di una variabile. Il che significa più semplicemente: essere è essere un certo qualcosa, id est un ente. Che è parafrasi vuota, se non sappiamo cosa è un ente. 113 Id., I principi della matematica, cit., p. 103. 114 Tale riduzione estensionale dell’universale è chiaramente attestata a p. 115: “una classe è sempre un termine o una congiunzione di termini, mai un concetto”. 118 cativa canonica a una relazione di appartenenza ad una classe, che ha un’importanza logica primaria ed è molto prossima all’identità: “vi sono due proposizioni affini espresse dalle stesse parole, cioè «Socrate è un-uomo» e «Socrate è-un uomo» [...]. La prima esprime l’identità di Socrate con un individuo non determinato, la seconda una relazione di Socrate con il concetto-classe uomo”115. Ma in entrambi i casi è non è più copula, bensì deve avere un proprio valore predicativo, giacché è l’unico concetto residuo nella frase (di per sé uomo è sì concetto-classe, ma un uomo è invece l’oggetto denotato, che sia semplicemente un certo uomo o un membro della classe degli umani). Ora, proprio a causa di questa duplicità – identità e appartenenza a una classe – un uomo non è in effetti il caso più puro in cui si dà una predicazione di identità, poiché permane “il dubbio se si abbia a che fare con un oggetto ambiguo denotato non ambiguamente, oppure con un oggetto definito denotato ambiguamente. Consideriamo di nuovo la proposizione «incontrai un uomo». È assolutamente certo, e deriva da questa proposizione, che quello che io incontrai non era un essere ambiguo, ma un uomo perfettamente definito: nel linguaggio tecnico poco fa precisato, la proposizione verrebbe espressa con le parole «incontrai qualche uomo». Sta però il fatto che l’uomo effettivo, che io incontrai, non costituisce una parte della proposizione in esame, né risulta denotato in modo specifico dalle parole qualche uomo”116. Ma, in assenza di una denotazione definita, ovviamente manca anche un’identità forte, quella che ci consenta di passare da «Socrate è un uomo» a «Socrate è un certo uomo determinato qualunque» a «Socrate è proprio quest’uomo». Dove è evidente che l’ultima formulazione, data la sua natura deittica, comunque non contiene in se stessa l’oggetto determinato, ma può ostenderlo solo nel contesto concreto in cui viene pronunciata. E dove peraltro è, dal punto di vista linguistico, è una normalissima copula: in «Socrate è costui», infatti, costui è predicato; mentre in «Costui è Socrate», per quanto possa sembrare strano, è proprio Socrate il predicato117! 115 Ivi, p. 104, ma cfr. anche p. 139. Ivi, pp. 113 s. 117 Nel primo caso, infatti, di Socrate dico che è costui e non quell’altro; mentre nel secondo di costui dico che è Socrate e non Fedro. Tesi che Russell non può neanche prendere in considerazione, avendo preliminarmente posto 116 119 Come che sia, data l’ambiguità di «un», il quantificatore principe dell’identità sarà dunque «il», laddove esso permetta di determinare non ambiguamente un oggetto al di fuori del contesto concreto immediato e, in particolare, di “denotare un singolo ben definito termine mediante un concetto”118. Ma è davvero possibile una cosa del genere? Il logos può enunciare incondizionatamente il puro singolo? E addirittura tramite un concetto e non un nome proprio in senso stretto? Ma anche nel caso di un nome proprio, non è già «Socrate» un termine dotato di una certa universalità, riferendosi a tutti gli enti che portino tale nome, e che senza l’intenzione di un riferimento puntuale non dice affatto proprio questo Socrate qui che ho in mente? Ma se neanche un nome proprio indica un oggetto singolo “inerentemente e logicamente”, vale a dire a prescindere dall’aspetto psicologico, intenzionale, pragmatico e contestuale, come allora un concetto? che i nomi, e non solamente i propri, possono essere solo soggetti. Ma, in effetti, l’intera aporia di Russell si risolve proprio ammettendo un uso predicativo dei nomi propri anche in presenza della copula. Sulla questione aveva già scritto Abelardo, che la risolveva parafrasando «io sono Pietro» con «mi chiamo Pietro», dove «Pietro» è naturalmente un predicato nominale. E poi, più in generale, in Dialectica, cit., p. 129, dove contesta ad Aristotele la tesi per cui le sostanze prime non possono predicarsi: “Ove appunto egli mostrò che ogni verbo con funzione copulativa, sia che copuli solo ciò che si dice del soggetto – vale a dire che non è nel soggetto – come «uomo» e «razionale», sia anche ciò che è nel soggetto, contiene inoltre la significazione del tempo. Col dire poi che il verbo è sempre nota di ciò che si predica di altro, mostrò che ogni verbo ha la funzione di copulare il predicato al soggetto e ciò non va riferito sempre alla comprensione dei tempi, ma anzi anche più a quella dei verbi. In effetti, un verbo può essere pronunciato di per sé, senza copulare nulla; tuttavia secondo la sua invenzione è sempre copulativo. Tacque invece quanto a ciò che non si dice del soggetto (cioè sugli individui, sebbene anch’essi spesso siano predicati, come ad esempio quando si dice «un uomo è Socrate» o «questo bianco»), perciò ritengo che egli volle che una tale predicazione fosse in qualche modo del tutto irregolare. Sicché nella Sostanza afferma: «dalla sostanza prima non deriva nessuna predicazione»” (il riferimento è a Cat. 3a36-37). Critica che però non coglie del tutto nel segno, poiché il nome proprio in Aristotele esemplifica solamente le sostanze prime, diciamo che vi allude, ma non è di per sé, come elemento logico, una sostanza prima. Incidentalmente, tutto ciò è di certo in contraddizione radicale con le tesi di Kripke, che pure, però, non risparmia critiche a Russell (cfr. S. Kripke, Nome e necessità, tr. it. di M. Santambrogio, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 31 ss.). 118 B. Russell, I principi della matematica, cit., p. 115. In Sulla denotazione (cit., p. 15), «il» è assunto nel senso stretto in cui comporta “unicità”. 120 In effetti, non è possibile: una simile denotazione non può prescindere dal contesto reale o da ciò che già sappiamo, vale a dire che non si può realizzare all’interno della sola frase. Russell prova infatti a risolvere il problema, dicendo che un singolo è denotato, quando il termine che lo esprime è “l’unico caso di qualche concetto classe”, vale a dire quando, unendo insieme una serie di determinazioni in un concetto che poniamo come unitario, ci ritroviamo con una classe che contiene un unico oggetto. Ma che sia l’unico oggetto di quella classe, che in quello di tale classe abbiamo realmente il “concetto di cui questo oggetto sia il solo caso”119 – qualunque cosa possa poi significare essere il caso di un concetto... –, in effetti non lo sapremo mai dal concetto stesso, né dalla definizione che tramite esso produciamo. A meno che quella definizione non sia «per costruzione», in termini kantiani, come è proprio delle definizioni matematiche, che però non riguardano dei puri singoli, come Russell qui ammette. Ad ogni modo, è proprio questo il luogo di condensazione della teoria russelliana circa l’identità, che egli pone come articolata logicamente in tre forme distinte, a seconda che i relati siano nomi propri o concetti denotanti (due nomi, un nome e un concetto, due concetti). I relati, sì, vale a dire “un referente ed un relatum”, poiché ogni relazione richiede almeno due termini, “ma non è necessario che essi siano distinti”120. E questo è già un indizio del fatto che Russell pensa l’identità senza differenza, come una relazione che di fatto annulla la differenza tra i suoi termini. Tant’è che, posta tra due nomi propri o ripetendo esattamente lo stesso termine nel referente e nel relatum, è una relazione del tutto vuota e priva di contenuti informativi, la tautologia della logica formale. Ma leggiamo per intero il passo che più ci interessa: “Se noi diciamo «Edoardo VII è il re», asseriamo un’identità; la ragione per cui vale la pena di fare quest’asserzione è che in un caso compare il termine vero e proprio, mentre nell’altro prende il suo posto un concetto denotante […]. Spesso si hanno poi due concetti denotanti, mentre il termine stesso non viene menzionato; come nella proposizione «il Papa attuale è l’ultimo sopravvissuto della sua generazione». Quando è dato un termine, l’asserzione della sua identità con se stesso, benché vera, è perfetta119 120 Id., I principi della matematica, cit., p. 115. Ivi, p. 116. 121 mente futile, e non si fa mai all’infuori che nei libri di logica; quando invece vengono introdotti i concetti denotanti, l’identità si rivela subito fornita di significato. In questo caso naturalmente è implicata, sebbene non asserita, una relazione del concetto denotante col termine, oppure una relazione dei due concetti denotanti l’uno con l’altro. Il vocabolo è, che compare in tali proposizioni, non enuncia però questa ulteriore relazione, ma enuncia una pura identità”121. E qui tutti i nodi o quasi vengono al pettine e non sono pochi... Concentriamoci sul primo esempio, con la premessa che tutte le considerazioni che seguono si riferiscono ai singoli termini nel modo in cui essi compaiono entro tale proposizione e non in generale, e che se non diversamente specificato la proposizione è considerata a prescindere dalla circostanza che sia vera o no. «Edoardo VII è il re»: si tratta davvero di un’asserzione di identità e addirittura di “pura identità”? Significa forse «Edoardo VII è identico al re», ammesso che una simile frase significhi effettivamente qualcosa? Condizione necessaria, affinché possa trattarsi di identità affermata, è che sia «Edoardo VII» che «il re» indichino univocamente, intrinsecamente e logicamente un singolo individuo concreto, ponendolo come lo stesso. Ma è questo ciò che avviene qui e senza alcun contributo psicologico alla suppositio, quale l’intenzione? Che avviene, voglio dire, nella lettera e non in ciò che pretendiamo da essa? Poiché è esattamente questo il punto: valutare la frase per quel che essa effettivamente dice, nella sua grammatica, e non per quel che deve dire122. Proviamo dunque a porre una serie di domande, relative ai diversi elementi richiesti affinché quella frase possa essere effettivamente intesa come l’affermazione di un’identità, domande che pre121 Ivi, pp. 116 s. Una critica a Russell proprio nel senso della confusione tra l’intenzione comunicativa di un’asserzione e ciò che essa di per sé contiene, è in P.T. Geach, Reference and generality, cit., p. 74, ove peraltro, proponendo un esempio analogo a quello di Russell, egli sostiene senz’altro che in «il re di Francia fu allora Luigi XV» il nome proprio è predicato. E, appoggiandosi a certe particolarità della lingua polacca, ritiene che possa esserlo anche se posto come primo termine dell’asserzione (sulla posizione del soggetto vedi infra, pp. 158 ss.). Viene da considerare che forse una delle ragioni della rigidità di certe teorie analitiche consista proprio nel fatto che vengono pensate in un’unica lingua, se basta imparare il polacco per superarla. 122 122 se singolarmente per lo più non sono sufficienti a mettere in mora quella pretesa, ma che nel loro complesso la rendono insostenibile. E cominciamo a chiederci entro quali limiti «Edoardo VII» e «il re» denotino effettivamente un singolo individuo concreto. Innanzitutto è chiaro che già nel primo termine non è posto un individuo univocamente determinato: se non conosco Edoardo VII, infatti, che sia o non sia il re, il suo nome rimane un mero nome, che in qualche modo si potrebbe dire insaturo; devo intendere proprio quella persona, insomma, altrimenti «Edoardo VII» non indica lei, ma significa semplicemente «un qualcosa di tal nome». Posso presumere che sia un certo tizio, questo sì, ammesso che esista davvero, ma la denotazione rimane di per sé ambigua proprio come nel caso di «un uomo»: «un Edoardo VII». Ma non è forse proprio «il re» che mi consente di identificare l’Edoardo VII di cui si parla? Di identificarlo a patto naturalmente che sia chiaro di quale re si tratta e che la proposizione sia vera, altrimenti «Edoardo VII» rimane un mero nome che non sta univocamente per un individuo determinato. Il che mostra solo i limiti ineliminabili della funzione referenziale dei nomi propri, ma naturalmente non contraddice ancora per nulla la tesi di Russell, che non può richiedere affatto che nella frase i due relata indichino immediatamente e ognuno per sé proprio un certo individuo singolo ben determinato, ma semplicemente un qualche individuo determinato123. E che si tratti proprio di un individuo è chiaro nell’asserire che Edoardo VII è il re e non, per esempio, il nome di una nave. La frase andrebbe dunque intesa così: una certa persona indicata dal nome è la stessa persona indicata dalla funzione. E quest’ultima è chiaramente un’asserzione di identità, del tutto indipendentemente dalla circostanza che sia vera o falsa. Il problema è capire se è proprio questo che viene asserito in «Edoardo VII è il re» e se dunque l’è di questa frase corrisponde allo «è la stessa persona» dell’altra. Osservata da questo punto di vista, peraltro, la nostra frase finisce per essere la descrizione che dà un valore referenziale al nome 123 Se così non fosse, infatti, l’intero valore predicativo della proposizione finirebbe per dipendere dalla sua verità, ma è evidente che un’identità si può affermare anche falsamente (forse però anche pensando a qualcosa di simile Russell era stato sibillino nel dire che le affermazioni false sono meno asserite di quelle vere). 123 proprio, inizialmente vuoto, e così lo satura. Il che, insieme alla constatazione che anche i nomi propri possono essere del tutto legittimamente quantificati – un Edoardo VII, l’Edoardo VII –, conferma quel certo grado di universalità che pure hanno e dunque anche il carattere latamente concettuale. Ma allora, inerentemente e logicamente, preso da solo, il nome proprio non indica affatto un individuo singolo, bensì la classe degli individui che lo condividono. E anche il fatto che di per sé rimanga ambiguo logicamente, se non vi è già una specifica intenzione, e che si determini come nome di persona e non di nave solo grazie a ciò che viene aggiunto, dimostra che il secondo dei relata non si limita a porsi nell’identità con il primo, ma lo caratterizza, se non altro come tipo logico, foss’anche ammissibile che non lo faccia soprattutto grazie al proprio contenuto predicativo. In effetti, il quantificatore «il» ne «il re» non consente solamente di selezionare il genere cui deve appartenere, affinché la frase sia sensata, il termine al quale si riferisce il nome proprio, ma lo lega ad un individuo ben determinato. E se tale determinazione dipende dall’intera frase, essendo il nome da solo insufficiente, ossia dipende dal fatto che, dicendo che è il re, individuiamo l’Edoardo VII di cui parliamo, ebbene non è evidentemente questa l’aggiunta di una determinazione? Niente affatto la posizione di un’identità, dunque, poiché prima dell’enunciazione della frase non sappiamo affatto chi sia Edoardo VII e quindi non possiamo neanche porlo come identico a qualcosa; bensì la predicazione di uno status, che comunque allude ad un contesto già noto. A denotare non ambiguamente l’individuo, in tal caso, non sarebbero né il concetto denotante a se stante, né il soggetto, bensì la predicazione dell’uno circa l’altro in riferimento al contesto. Il che è chiaro anche da un punto di vista pragmatico: dove può comparire una frase come la nostra? Il caso più plausibile è che sia la risposta alla domanda: «chi è Edoardo VII?». Domanda che ovviamente non significa «a cosa è identico Edoardo VII?». A meno che non si confonda l’identità logica con l’identificazione di un che, e in tal caso con l’identità di una persona, che sono naturalmente due accezioni di «identità» molto differenti. E ancora, da tale punto di vista si può davvero dire che “in questo caso naturalmente è implicata, sebbene non asserita, una relazione del concetto denotante col termine”? Non è forse invece proprio questa relazione ad essere del tutto esplicitamente affermata? E non è solo grazie all’asserzione di tale relazione che viene implicata 124 anche qualcosa come un’identità? Ma identità appunto nel senso di identificazione individuante (il referente del nome), e non certo nel senso di una predicazione di stessità. Altrimenti che potrebbe voler dire che “quando vengono introdotti i concetti denotanti, l’identità si rivela subito fornita di significato”? E, innanzitutto, di quale tra i vari modi russelliani del significato? Il concetto denotante non ha già un suo significato: l’oggetto denotato? Ma allora l’identità non è “fornita di significato”, ma è piuttosto l’identità dello stesso significato, vale a dire dello stesso oggetto. E da tale identità non sarebbe implicata nessuna ulteriore relazione. A queste domande naturalmente Russell obietterebbe che stiamo continuando ad assumere «il re» come concetto e non come l’oggetto denotato, e che siamo dunque rimasti sul piano del significato delle parole, senza accedere a quello delle entità racchiuse nelle proposizioni. Se però già ragionando su «Edoardo VII» abbiamo incontrato tante aporie, rispetto a «il re» le cose stanno ancora peggio: il quantificatore «il», che applicato alla regalità produce il concetto denotante «il Re», è davvero tale da porre semplicemente l’oggetto nella sua pura singolarità? Rispetto alla forma: «Edoardo VII è re», dove il concetto è predicato in maniera canonica del soggetto, dicendo invece «il re» cosa muta? La dignità regale si trasforma forse senza residui in un’individualità concreta, in un questo qui designato immediatamente e univocamente? Ma ciò avverrebbe solo se il re fosse un ente unico, eterno e necessario, come lo è il Dio monoteista. In tal caso, però, il quantificatore «il» sarebbe superfluo e fuorviante: Geova è Dio, non è il Dio... Quel che voglio sottolineare è che nella nostra frase «il» non è un quantificatore puramente logico implicante unicità, come potrebbe essere ne «il re è sovrano» o «il triangolo ha tre lati» (che non sono asserzioni di identità), ma evidentemente un operatore connesso al contesto spazio-temporale. Se sappiamo cosa significa la parola «re» e intendiamo in che senso un certo individuo determinato può essere re, se intendiamo dunque la nostra frase nel suo contenuto proprio, per quello che dice, allora «il re» indica «colui che è attualmente re d’Inghilterra»124. Che in qualche modo è esat- 124 Tant’è che proprio all’inizio di Sulla denotazione, (cit., p. 5) Russell, che nel frattempo deve aver notato la cosa, esemplifica le espressioni denotanti con “l’attuale re di Francia”. 125 tamente quel che afferma Russell circa la capacità denotante del concetto quantificato: stiamo parlando proprio di quel re e non della funzione regale in astratto. Ma così la nostra frase è in maniera del tutto limpida equivalente a «Edoardo VII attualmente è re d’Inghilterra». Vale a dire che un certo individuo con un certo nome è investito dalla dignità regale qui ed ora, cioè nel momento in cui la frase è pronunciata. Che è tutto fuorché un’asserzione di identità. Ma Geova e il triangolo offrono lo spunto per altre considerazioni ancora: l’interferenza tra piano logico e piano ontico, infatti, ha proprio nella temporalità un limite insuperabile. Come vedevamo, per Russell i termini sono entità unitarie individue immutabili e incorruttibili, “autoidentità eterne”125. Ma questo deve implicare, che un’identità asserita tra due termini o è vera una volte per tutte o è falsa una volta per tutte: o sono davvero un unico termine o non lo sono. Ma se è così, allora come può essere che questa stessità dell’uno possa essere stata vera quando fu asserita nel 1903 ed abbia cessato poi di esserlo? A quanto mi risulta, infatti, il re d’Inghilterra non è Edoardo VII, anzi il re non è neanche il re, è la regina... A ciò si potrebbe obiettare, un po’ sofisticamente, che l’identità in «Edoardo VII è il re» non è a rigori tra due termini, bensì tra un termine e un concetto denotante, che presenta la cosa stessa. Ma così si avrebbe l’identità tra un termine, per definizione incorruttibile, e una cosa che deve quindi essere transeunte, se quell’identità talora c’è e talora no (risposta altrettanto sofistica). E così Edoardo VII, morto nel 1910, rimarrebbe incorrotto, e il re, che stranamente ancora esiste come status, invece no... A meno di non ammettere che anche il primo termine stia immediatamente per la cosa stessa – ma a questo punto in che senso può mai essere incorruttibile? –, ossia che anche i nomi propri siano logicamente e intrinsecamente denotanti, con tutti i problemi che una tesi del genere abbiamo già visto comportare. E dunque, seconda obiezione: lo stesso non sono i due termini o il primo termine e il secondo concetto denotante, ma solo l’oggetto indicato da essi, l’individuo in carne ed ossa che al tempo stesso, nel 1903, ha avuto in sorte di chiamarsi Edoardo VII e di essere re d’Inghilterra. Ma parlare di una stessa cosa in due modi diversi significa asserire tutt’al più una coincidenza, non certo un’identità: il coincidere di due accidenti differenti in un’unica sostan125 126 B. Russell, I principi della matematica, cit., pp. 89, 611. za, che peraltro è un caso di predicazione comunissimo. Ora, rispetto a ciò, o si diluisce talmente tanto il concetto di identità, da ammettere che in ogni affermazione vi sia una qualche identità tra soggetto e predicato – il che cancellerebbe ipso facto il problema del valore identitario di «essere» – o, se l’identità rimane l’asserzione dello stesso circa lo stesso, ebbene, una simile asserzione qui manca del tutto. Volessimo poi anche integrare esplicitamente la nostra frase con la clausola spazio-temporale che in qualche modo le è implicita, e dire che «nel 1903 a Londra Edoardo VII è il re», avremmo sì una proposizione nel suo complesso eternamente vera (o anche falsa, ché non fa nessuna differenza sul piano logico), ma neanche qui un’identità. Innanzitutto, a rimanere identica nella sua eterna verità/falsità sarebbe solo la proposizione e non i suoi elementi. Proposizione che, poi, è facilmente dimostrabile essere equivalente ad una locativa, peraltro priva di concetti denotanti: «qui ed ora è re Edoardo VII»126. Dove «re Edoardo VII» può anche essere estratto come un sintagma nominale unitario, interpretabile di nuovo come una implicita predicazione canonica, che di Edoardo VII asserisce il predicato re o di re il predicato «(dal nome) Edoardo VII». Il che è anche un indizio del fatto, che la frase di Russell può essere interpretata – e in italiano questo è un fenomeno del tutto naturale, che Moro analizza in maniera molto chiara – invertendo i ruoli di soggetto e predicato, con chiare differenze semantiche, che pure contribuiscono a mostrare come la sua struttura sia asimmetrica e dunque non riducibile a quella dell’identità, che Russell definisce esplicitamente come simmetrica127. Possiamo infatti dire: «Edoardo VII è il re, non Filippo IV», ma anche «Edoardo VII è il re, non il papa», dal che è evidente che nel primo caso il re è il soggetto, nel secondo un predicato128. 126 E si tenga presente che anche le locative condividono la normale struttura soggetto-predicato (Cfr. infra, nota 207). 127 B. Russell, I principi della matematica, cit., p. 159. 128 In Sulla denotazione (cit., p. 45) Russell cerca di risolvere questa aporia distinguendo tra occorrenze primarie e secondarie delle frasi denotanti, ma si tratta chiaramente di una ipotesi ad hoc, che peraltro funziona solo includendo la proposizione contenente la frase denotante, come subordinata, in una proposizione più ampia (per esempio: «è vero che Edoardo VII è il re»: di nuovo l’ipoteca verocondizionale). 127 Ma sia stato detto tutto ciò solo per un eccesso dialettico, “per evitare i disturbi sofistici”, poiché in realtà molte delle considerazioni pur fatte sono superflue, di fronte alla constatazione generale che l’identità, essendo di uno stesso che è proprio quello stesso, non può dipendere dal contesto spazio-temporale: non esiste qualcosa come un’identità a tempo, dotata di scadenza. Naturalmente, quanto argomentato sulla proposizione composta da un termine e un concetto denotante vale a maggior ragione per il caso in cui vi siano due concetti denotanti, caso che dunque non prenderemo in esame129. Possiamo a questo punto enunciare sinteticamente i risultati dell’analisi: dicendo «Edoardo VII è il re» non asseriamo un’identità, poiché il concetto denotante non ha valore referenziale, bensì canonicamente predicativo e dunque il verbo essere è copula. Da ciò il valore informativo della frase, che è chiaramente sintetica e non analitica: di un soggetto enuncia una proprietà non deducibile dal soggetto stesso. La ragione per la quale si può erroneamente pensare che qui il verbo essere affermi un’identità è la confusione tra piano logico e piano ontico: ritenere che termini e concetti denotanti stiano immediatamente per le cose stesse, circostanza che non si dà mai, neanche nel caso dei nomi propri. A partire da ciò è fatale far dipendere le proprietà formali di una frase dalle proprietà degli oggetti reali menzionati in essa e dunque intendere l’identità logica a partire da quella reale: che la proposizione enunci qualcosa intorno allo stresso individuo determinato viene frainteso come se affermasse un’identità logica tra soggetto e predicato. Vedremo tra poco come Moro giunga alle stesse conclusioni a partire dalla linguistica, ma prima è necessario integrare la nostra lettura, che altrimenti rimarrebbe monca di una parte essenziale. Infatti, se vogliamo davvero asserire che il verbo essere non ha mai il valore di un predicato di identità, dobbiamo affrontare di petto proprio il caso che Russell scarta subito come del tutto futile e privo di interesse, ossia l’enunciazione tra soli termini, anzi di un solo termine: «A è A». E non sembri affatto paradossale l’intento di negare la presenza di un predicato di identità proprio nel princi- 129 Come nell’esempio russelliano del Papa, che pure oggi è palesemente fuori dai cardini, giacché di Papi ce ne sono due, come ai vecchi bei tempi di Federico Barbarossa, e questa volta sono anche tutti e due proprio a Roma. 128 pio di identità: se, infatti, nel principio fosse predicata esplicitamente l’identità, allora rischierebbe davvero di essere un’asserzione vuota e futile, ma soprattutto di essere di natura secondaria e derivata, dipendente da altre premesse. Se «A è A», infatti, significasse: «A è identico ad A», il principio non avrebbe più alcuna immediatezza, se non altro poiché dovremmo innanzitutto decidere che significa «identico»: numericamente, quantitativamente, essenzialmente, formalmente, materialmente?... Quel che voglio dire, è che noi sappiamo cosa significa identità a partire da «A è A», e non cosa significa «A è A» a partire dall’identità. E in «A è A» l’enunciazione è del tutto immediata, proprio perché l’è non significa niente, a differenza di «è identico», che può significare tante cose. L’è, insomma, non aggiunge l’identità, poiché non aggiunge nulla, ma si limita a dire il predicato del soggetto, che in tal caso sono lo stesso: è da tale stessità che il principio si chiama d’identità e non viceversa. Il principio, in tal modo, non pone semplicemente l’identità indifferente dello stesso, ma genera l’autoidentità differente dell’uno, proprio predicandolo130. Voglio dire che non è un semplice raddoppiamento sterile, che non ci dice nulla intorno a ciò di cui parliamo, ma è invece un atto logico fecondo e primario, che incarna quel che già sempre sappiamo, o meglio ipotizziamo: dicendo che A è A, noi stiamo dicendo pro- 130 È anche questa tesi già aristotelica (cfr. Met. 1018a7-9), ripresa e chiarificata in E. Severino, Tautotes, Adelphi, Milano 2009, p. 98: “Ma nel pensiero dell’Occidente il predicato è sempre altro dal soggetto. È sempre altro proprio perché, innanzitutto, non è il soggetto. E non è il soggetto, e non riesce ad evitare di essere altro dal soggetto, nemmeno quando il suo contenuto è identico al soggetto stesso – onde si afferma che A è A. L’essere A da parte di A è una dualità che differisce dal semplice essere A. Per poter affermare l’esser sé, l’identità a sé di qualcosa, è necessario affermare la differenza dei termini della relazione in cui l’identità consiste (e cioè dei termini della identità in cui la relazione, in quanto esser qualcosa da parte di qualcosa, consiste). Ogni cosa è diversa da sé proprio perché è identica a sé. Dicendo o pensando che qualcosa è qualcosa, si dice e si pensa un’identità. Ma ciò che è posto come identico è un non identico” (p. 98). Severino intende tutto ciò nel segno della “alienazione della verità”, il che mi pare anche molto ben detto, ma in un senso diverso dal suo, poiché non ritengo affatto possibile accedere a una dimensione diversa, al “destino” come “stare della verità al di fuori dell’alienazione” (ivi, p. 93). La verità è alienazione, e ciò non vale solo nel “pensiero dell’Occidente”, ma è tratto elementare del logos. 129 prio che è A, vale a dire che un qualsiasi τι posto come soggetto, se anche non abbiamo la più pallida idea di cosa sia, tuttavia deve essere proprio quel τι e non un altro. Senza questo presupposto, senza l’ipotesi dell’entità in quanto autoidentità, noi non sappiamo più pensare e dire. E, infatti, anche quando vogliamo dire la differenza originaria della cosa, continuiamo a dirla entro l’identità, a partire e negando l’entità: la cosa non è l’ente... Ma non è ancora il momento di affrontare nella sua piena ampiezza il discorso né sulla struttura ontologica dell’entità, né circa la differenza tautologica tra cosa ed ente, per cui bastino questi pochi accenni, intesi solamente a marcare le conseguenze del rifiuto del valore predicativo di essere in ordine all’interpretazione del principio di identità: «A è A» non significa «A è identico ad A», ma implica ciò. Poiché di A predico A, allora A è identico ad A. Ma dicendo «A è A», io non predico l’identità, predico solo A. E che lo predichi proprio di A stesso, lungi dal generare una indifferenza, genera proprio la differenza inerente l’autoidentico. L’essere, pur nella sua insignificanza, o magari proprio grazie ad essa, scinde l’uno nei due, la cosa nell’ente, l’esistente nell’essente, il qui ed ora nel questo e quello. E instilla nello stesso, insieme alla differenza, anche il negativo, il non qui ed ora questo e quello. E ciò non avviene affatto solo nel limbo dei libri di logica, che forse è l’unico luogo dove in realtà non avviene per niente, bensì in ogni singola parola che pronunciamo. La tautologia, da questo punto di vista, è il grimaldello con cui scalziamo ogni cosa, eguagliandola al suo essere se stessa e quindi, immancabilmente, difettiva nel suo non riuscire ad essere davvero se stessa. A questo punto, però, conclusa la discussione circa il grande equivoco, prima ancora di riprendere la trattazione di Moro è opportuno dedicare alcune pagine, quasi a mo’ di intermezzo, alla considerazione di un argomento che funge un po’ da cartina di tornasole relativamente alla coerenza ultima di una posizione univoca dell’essere. Alludo alla questione degli enti immaginari, che potrà anche essere considerata di per sé marginale, ma che in effetti, proprio per la sua natura liminale, offre un’ottima occasione per valutare gli effetti della contaminazione che avviene entro la domanda sul significato di una proposizione quando sia affrontata in vista dei suoi valori di verità. Un modo sintetico, insomma, per mostrare la pregnanza della legge di Buridano, formulata da Geach proprio in polemica con Russell: “il riferimento di un’espressione 130 non può dipendere dal fatto che la proposizione nella quale occorre sia vera o falsa”131. Andrà dunque esposta una nuova critica, che questa volta coinvolge anche Aristotele e Abelardo, ma vorrei che il suo senso fosse ben inteso: non si tratta di bollare quel che si ritiene un errore, quanto di mostrare le buone ragioni per le quali Russell non ha potuto rimanere fedele alla sua impostazione iniziale, che è molto notevole e ricca di intuizioni condivisibilissime, in particolare circa i rapporti tra essenza ed esistenza e sulla natura dell’ente. Intuizioni che però non vengono sviluppate sistematicamente e la cui trattazione rimane episodica, non culminando in una teoria completa e coerente, non certo solo perché non erano questi gli interessi primari di Russell: il fraintendimento circa la multivocità del verbo essere, infatti, che comprende anche il suo valore esistenziale e non solo quello identitario, non è funzionale solamente alla costruzione della teoria dei tipi, come Moro molto opportunamente chiarisce132, ma ha più in generale a che fare con l’esigenza di garantire le condizioni di possibilità tanto delle scienze esatte, quanto di quelle empiriche, che Russell naturalmente lega alla definizione rigorosa della verificabilità degli asserti. Come anche in Aristotele, insomma, è in ultima analisi la fondazione dell’episteme che richiede l’uccisione della chimera. Chiarire ciò, consentirà dunque di rendere anche ragione dei tanti spunti importanti che emergono dal lavoro di Russell, che ha senza dubbio il merito di mostrare la connessione intimissima tra questione dell’essere, dell’identità e dell’esistenza, e di porne alcuni punti fermi. II.5 La chimera e l’ircocervo Ripartiamo da Aristotele, che sull’ircocervo scrive solo in quattro luoghi e ogni volta solo poche righe, ma tutta la riflessione successiva intorno agli enti immaginari, e non solo intorno a ciò, ha qui 131 P.T. Geach, Reference and generality, cit., p. 80. Come avviene evidentemente in Sulla denotazione (cit., p. 49): “Pertanto, a partire da qualsiasi proposizione possiamo ottenere un sintagma denotativo che denota un’entità se la proposizione è vera, ma che non denota alcuna entità se è falsa”. 132 Cfr. A. Moro, Breve storia..., cit., pp. 80 ss. 131 la sua origine diretta (in Platone il termine compare unicamente una volta nella Repubblica, ma senza grande spessore teoretico). Uno di questi luoghi, quello del De interpretatione, lo abbiamo già in parte sondato: lì Aristotele ci dice solamente che l’ircocervo significa qualcosa – σημαίνει μέν τι. E, dato il contesto, si tratta evidentemente dell’ircocervo come nome, e dunque come simbolo che sta al posto di... Di che cosa? Cos’è questo τι, che l’ircocervo pur indica? E, per porre subito una domanda cruciale, non deve essere comunque un ente? Qualcosa non è sempre qualcosa di essente? Anche se riferito a un non esistente? Oppure Aristotele, dicendo il τι dell’ircocervo, si avvia a rompere l’interdetto parmenideo? Proviamo a cercare altrove qualche risposta. All’inizio del secondo libro degli Analitici posteriori (An.post. 89b23ss.), Aristotele distingue quattro tipi di indagine epistemica: 1) quali determinazioni appartengono a un qualcosa (τὸ ὅτι); 2) perché vi appartengono (τὸ διότι); 3) se un qualcosa è (εἰ ἔστι); 4) cosa è (τί ἐστιν). La prima e la terza sono ricerche preliminari alla seconda e alla quarta, e per converso il sapere intorno alle seconde due implica quello intorno alle prime: se so perché certe determinazioni appartengono a un che, so anche che vi appartengono; e se conosco l’essenza di una cosa, so anche che è. Nel discutere la terza tipologia, poi, Aristotele chiama subito in causa un cugino dell’ircocervo, che compare nel primo esempio e, sintomaticamente, scompare nel secondo: “se il centauro o il dio è o non è. Il «se è o non è», poi, lo dico semplicemente (ἁπλῶς) e non nel senso «se è bianco oppure no». Conoscendo poi che è, cerchiamo cos’è, per esempio cos’è dunque il dio o cosa è uomo” (89b32ss.). E naturalmente sul centauro quest’ultima ricerca, circa l’essenza, non è possibile, poiché ἁπλῶς non è – e dunque lo sostituisce l’uomo, colui che ha immaginato il centauro. Tuttavia, non significa anche il centauro comunque qualcosa? E non deve in qualche modo pur essere, proprio affinché si possa dire di lui anche che non è? Di un puro nulla non si può affermare, infatti, nulla, neppure che non è. Cosa vuol dire, dunque, questo non essere “semplicemente”? Qui lo ἁπλῶς non è esattamente analogo a quello trovato, ancora affianco all’ircocervo, nel De interpretatione (De int. 1, 16a18): in quel luogo l’essere o non essere semplicemente si differenziava da quello relativo alle determinazioni temporali (κατὰ χρόνον), mentre qui si differenzia dall’essere come ὑπάρχειν, come inerenza al soggetto di una determinazione particolare («se è bianco oppure no»): 132 l’«essere semplicemente» non riguarda gli accidenti di una cosa e in generale ciò che le appartiene, ma se è o non è, “vale a dire se è una sostanza”, un “sostrato” (An.post. 90a10ss.)! E questo va sottolineato con forza: essere semplicemente non significa esistere, bensì essere una sostanza, sub-sistere. L’esistenza deriva solo mediatamente da ciò: è perché qualcosa è ora una sostanza che deve anche esistere da qualche parte, e non viceversa. Sotto tale riguardo, dunque, torna del tutto pertinente la differenza rispetto al tempo: lo ἁπλῶς del presente, enunciato di un ente, ci dice che è una sostanza in atto! Ma le sostanze, o almeno la gran parte, non sono necessariamente e sempre in atto, ossia non esistono sempre133: dire di Omero che è, è falso non perché egli sia nulla, ma perché è stato... Su Omero, però, torneremo, per ora limitiamoci a notare che la ricerca intorno al «se è o non è», non è sic et simpliciter quella intorno all’esistenza, che ne è invece dipendente, tanto più se consideriamo che i modi dell’esistenza sono dipendenti e correlativi ai modi della sostanza: le sostanze composte esistono altrimenti che le sostanze semplici – anche l’esistenza, insomma, λέγεται πολλαχῶς... E l’ircocervo si presenta indubbiamente sotto le (mentite) spoglie di una sostanza composta: di un animale, e dunque di un ente da φύσις. Nella Fisica Aristotele ci parla di un carattere dell’esistenza di un ente da natura: l’essere in un qualche dove, un dove che va interrogato secondo almeno tre delle quattro vie di ricerca esposte negli Analitici. E proprio lì ritorna l’ircocervo, ed esattamente così: come ciò che è in nessun luogo. “Similmente è necessario anche rispetto al luogo fisico, così come rispetto all’infinito, conoscere se è o no, e come è, e cosa è (εἰ ἔστιν ἢ μή καὶ πῶς ἔστι καὶ τί ἐστιν). Infatti, tutti hanno ritenuto che gli enti siano in un dove; il non ente, in effetti, è in nessun luogo – τὸ γὰρ μὴ ὂν οὐδαμοῦ εἶναι: dove sono, infatti, l’ircocervo o la sfinge?” (Phys. 4, 208a27ss.). 133 Heidegger (Oltrepassamento della metafisica, in Saggi e discorsi, cit., p. 49) nota che lungo la storia della metafisica non vi sono state riflessioni radicali sull’esistenza, il cui senso è stato dato per lo più come scontato e conseguentemente assunto in maniera molto confusa. L’eccezione sarebbe proprio Aristotele, ma non quando parla dell’essere semplicemente e della sostanza, bensì della ἐνέργεια. Naturalmente vi è tra i due termini una connessione molto stretta, ma ritengo che la distinzione sia importante e vada fatta: la riflessione aristotelica sull’esistenza si articola intorno alla coppia δύναμις/ἐνέργεια e non alla coppia ὄν/μὴ ὄν. 133 Va sottolineato che il discorso è qui riferito, e dunque anche presumibilmente limitato, agli enti di natura, e quindi al luogo fisico, altrimenti anche le pure forme patirebbero il destino dell’ircocervo, come poi hanno patito, quando non si è più saputo dove trovarle (l’ultimo rifugio, in mente Dei, è da lungi incognito o anche semplicemente usurpato)134. Il che è un indizio del fatto, che il centauro e il dio non sono comparsi insieme per un puro caso, ma per una necessità molto stringente, poiché di entrambi il luogo è “strano” (ἄτοπον): un luogo senza luogo, da un lato l’immaginazione, la finzione, e dall’altro? Cosa ne sarebbe del dio, se ad attestarne l’essenza dovesse essere il luogo dell’esistenza? L’ente immaginato, insomma, centauro o sfinge o ircocervo che sia, condivide troppo con il dio e le sostanze semplici e le pure forme, per poter essere ignorato135. È un ospite imbarazzante, che va esorcizzato. E così nella Fisica lo si chiama «non ente». Il che doveva creare non pochi problemi: il «qualcosa» che l’ircocervo pur indica, infatti, poté essere inteso non come un qualcosa di comunque in qualche modo essente (e quindi anche non-essente, che è una modalità primaria dell’essere, data l’intrinseca duplicità dell’affermazione e della negazione), ma come nome del solo non-ente: il τι e lo on sembrano divorziare e opporsi reciprocamente136. 134 Circa la delimitazione della validità dell’asserzione che tutti gli enti sono in un dove ai soli enti da natura, cfr. Tommaso, Commento alla Fisica di Aristotele, vol. 2, a cura di B. Mondin, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2004, pp. 13 ss. 135 Una considerazione analoga, riferita ad Abelardo e alla questione degli universali, è della Ulivi (Tractatus, pp. 74 ss.), dove si nota bene (p. 77) l’ambiguità che permane nel suo discorso: “La definizione stessa di intellectus cassus è tautologica, in quanto se cassus è l’intellectus cui non corrisponde una res, la mancata definizione di res fa sì che non si abbia un criterio per stabilire quando l’intellezione è cassa. Res può essere infatti, oltre al singolo oggetto, anche l’umana natura (così nel caso degli universali); perché allora non parlare di res anche a proposito di chimaera, che, come gli universali, è una fictio, una mentis excogitatio?”. 136 Nel suo secondo commento al De interpretatione, Boezio scrive: “Pure quello, perché nome composto o anche perché atto a esemplificare una cosa non sussistente, pure l’ircocervo significa qualcosa” (in: Patrologiae Cursus completus, Tomus LXIV, Manlii Severini Boetii opera omnia, Tomus posterius, edidit J.P. Migne, Parisiis 1847, p. 415). L’ircocervo è dunque inteso come esempio di una res, che è non sussistente, vale a dire esattamente non una sostanza, e in quanto nome di una res si può dire che significa qualcosa. Qui res e aliquid non confliggono per niente, così come non confliggeranno in quanto trascendentali, per esempio in 134 È però chiaro che questo divorzio non avviene qui, poiché il non-ente di cui parla Aristotele non è quello dei sofisti che abusavano di Parmenide, ma indica chiaramente solo ciò che è privo di sostanza, non ciò che è privo di qualsiasi essere. Vale dunque come «non essere essente ἁπλῶς». Insomma, è propriamente in quanto animale che l’ircocervo non è in alcun luogo, vale a dire in quanto il suo significato implichi quello di essere vivente, un essere vivente che semplicemente non c’è. Ora, per tornare al contesto degli Analitici, è dunque evidente che, non essendo sostanza e non avendo dunque essenza, dell’ircocervo non posso dare né una definizione (che è appunto definizione d’essenza), né una dimostrazione sillogistica di ciò che gli appartiene come attributo proprio: di lui non vi è dunque episteme. E tuttavia una qualche verità la posso dire, nella misura in cui posso esporre il significato della parola o della descrizione: “E, inoltre, come potrà (scilicet: colui che definisce) provare l’essenza? – τὸ τί ἑστιν. In effetti, chi conosce l’essenza dell’uomo o di qualsiasi altra cosa, deve necessariamente conoscere pure che è; il non-ente, infatti, nessuno sa ciò che è – τὸ γὰρ μὴ ὂν οὐδεὶς οἶδεν ὅ τι ἐστίν –, ma solo cosa significa la descrizione o il nome, nel caso che io dica ircocervo, mentre cosa sia l’ircocervo è impossibile conoscerlo”137. Tommaso, che li pone come coestensivi tra loro e con l’ens (sull’interpretazione boeziana dell’ircocervo, che è molto notevole, belle le pagine di C. Ginzburg, Occhiacci di legno: nove riflessioni sulla distanza, Feltrinelli, Milano 2011, pp. 44 ss.). Nel leggere questo passo, però, Abelardo innanzitutto sostituisce «non sussistente» con «non esistente», il che è improprio, ma fraintende anche il riferimento allo aliquid: “Sicché nel primo paragrafo del De interpretatione si dice: «anche l’ircocervo significa qualcosa»; qui «qualcosa», infatti, come spiega Boezio, è nome di cosa non esistente, ed è da ciò che si mostra, che anche l’ircocervo è detto significativo” (Dialectica, p. 127, ma vedi pure p. 167). Evidente è, però, che non è «aliquid» a significare una cosa non esistente, bensì l’ircocervo, mentre «aliquid» di per sé indica qualsiasi cosa, sussistente o non sussistente. Come peraltro Abelardo dice esplicitamente più avanti, parlando però di Omero poeta (che è un altro affare): “Nel dire «qualcosa» lo assunse come nome tanto delle cose esistenti quanto delle cose inesistenti” (ivi, p. 137). Solo che a questo punto, valendo «ens» solo come «esistente», il qualcosa diviene un concetto più ampio: “negava l’inferenza dal tutto alla parte, cioè dal «qualcosa» all’«esistente»” (ibidem). Ed è a partire da questo scarto, che si possono comprendere alcune delle ragioni, per le quali la tinologia medievale tende a specificarsi come teoria del qualcosa di pensabile (opinabile), piuttosto che del qualcosa in generale. 137 An.post. 92b4ss. «Chi conosce» rende τὸν εἰδότα: «colui che ha visto», 135 In quanto non è una sostanza, né in atto né in potenza, l’ircocervo rimane invisibile, non lo trovo da nessuna parte e quindi non posso intuirne l’essenza. E dunque, invisibile, indefinibile e indimostrabile, l’ircocervo sembra essere espulso dal sillogismo. Ma è proprio così? Non è lo stesso Aristotele, questa volta negli Analitici primi, ad alludere a un sillogismo che invece lo contiene? Il passo non brilla per chiarezza, ma lo si può ricostruire, dobbiamo però citarlo integralmente: “D’altro canto, quando nelle premesse viene ripetuto un termine, esso va unito all’estremo maggiore, non già al medio. Con ciò intendo dire, ad esempio, che quando si sviluppi un sillogismo, con la conclusione che della giustizia si ha scienza che essa è bene, l’espressione «che essa è bene» o «in quanto bene» dovrà essere unita al primo termine. Poniamo invero che A sia «scienza che è un bene», B indichi «bene» e C indichi «giustizia». In tal caso risponde a verità predicare A di B: difatti, del bene si ha scienza che esso è un bene. D’altra parte, anche B si predica di C, dato che la giustizia è appunto ciò che è bene. A questo modo, dunque, la risoluzione si compie. Per contro, quando l’espressione «che è un bene» venga unita a B, non si avrà risoluzione. In realtà, sarà vero predicare A di B, ma non sarà vero predicare B di C, dal momento che risulta falso e incomprensibile attribuire alla giustizia la determinazione «bene che essa è un bene». Analogamente si dovrà dire, quando si provi che ciò che è produttivo di salute risulta oggetto di scienza in quanto bene, oppure che l’ircocervo è opinabile in quanto non essente”138. e in varie forme il verbo si ripete in tutto il passo, a marcare che la conoscenza dell’essenza non è dianoetica, ma puramente noetica, intuitiva. 138 An.pr. 49a11ss. Si tenga presente che in alcuni codici “opinabile” (δοξαστόν) è assente e dunque il passo andrebbe letto sottintendendo ancora ἐπιστητόν: conoscibile epistemicamente. Ma ciò è contraddetto chiaramente in Top. 121a20ss.: “si deve inoltre esaminare se la specie proposta si predichi di qualcosa secondo verità, ed il genere invece no, come avverrebbe nel caso in cui ciò che è, oppure ciò che è oggetto di scienza, fosse posto come genere di ciò che è oggetto di opinione (τὸ ὂν ἢ τὸ ἐπιστητὸν τοῦ δοξαστοῦ γένος). In effetti, ciò che è oggetto di opinione si predicherà di ciò che non è: molti dei non enti, infatti, sono opinabili. Che peraltro ciò che è, oppure ciò che è oggetto di scienza, non si predichi di ciò che non è, risulta evidente. Di conseguenza, né ciò che è, né ciò che è oggetto di scienza, è genere di ciò che è oggetto di opinione: delle cose, infatti, di cui si predica la specie, si deve predicare pure il genere”. È forse proprio questo passo, che ha indotto a pensare la differenza tra 136 Δοξαστόν ᾗ μὴ ὄν. Espressione che va intesa, in analogia a “scienza che è bene o in quanto bene”, come equivalente a “opinabile che è non essente”. Non è, dunque, in quanto non essente che è opinabile, come pur si potrebbe leggere e anche in greco, ma è semplicemente opinabile che sia appunto non essente. Giacché non è certo vero che il non ente in generale sia ipso facto opinabile, o addirittura che l’opinare riguardi primariamente il non ente: opinare non significa immaginare, bensì ritenere, ed è comunque un atto dianoetico. I due sillogismi possono essere dunque resi così: 1: Del bene si ha scienza che è bene 1: Del non ente si ha opinione che non è 2: La giustizia è bene 2: L’ircocervo è un non ente 3: Della giustizia si ha scienza che è bene 3: Dell’ircocervo si ha opinione che non è Dove l’avvertenza di Aristotele circa la specificità di questi sillogismi ἐν μέρει è di non predicare il termine aggiunto al medio: di non dire, insomma, “l’ircocervo è un non ente che non è”. Il che, però, non comporta affatto asserire che il non ente sia (ἁπλῶς), proprio in quanto non essente, che sarebbe una conclusione sofistica. Ma questa aggiunta non la troviamo qui, bensì ancora nel De interpretatione, per quanto forte sia l’impressione che sia saltata lì proprio provenendo da qui: “il non ente, poi, in quanto opinabile, non è vero dirlo essente un che; l’opinione circa esso, infatti, non è che è, ma che non è” (De int. 21a32s.). Precisazione, che risponde ad un possibile errore: ritenere che, in quanto soggetto di un’asserzione affermativa, l’ircocervo e il non ente in generale debbano possedere una qualche essenza e sostanza. Vale a dire che sia possibile inferire da: «l’ircocervo è opinabile», on e τι (che pure qui non compare) e il legame forte del τι con il δοξαστόν, ma non ritengo sofistico notare che Aristotele non sta dicendo che è invece il contrario, ossia che è l’opinabile genere dell’ente e del conoscibile epistemicamente, giacché il τι è altrettanto poco genere dello on. Oltre che teoricamente incongrua, poi, l’elisione del δοξαστόν rende anche invisibile il riferimento al passo di De int. 21a32s., riferimento che diremo tra poco essere molto plausibile. Come che sia, Abelardo, e con lui in genere la tradizione, accoglie senz’altro il δοξαστόν e parafrasa sistematicamente “Chimaera est opinabilis”. 137 che è senz’altro una proposizione vera, la conseguenza «l’ircocervo è» (ἁπλῶς). Inferenza inammissibile sia logicamente, che ontologicamente. Logicamente perché nella prima proposizione la predicazione è unica e non scindibile, che è un altro modo di dire che la copula non significa niente139. Ontologicamente poiché, per tornare ad un passo degli Analitici secondi subito successivo a quello citato prima: “affermiamo che tutto ciò che una cosa è – eccetto la sua sostanza – è necessario che sia provato attraverso la dimostrazione. Ora, l’essere non è sostanza di nessuna cosa, dato che ciò che è non è un genere” – οὐ γὰρ γένος τὸ ὄν140. Passo che poi continua alludendo alla pratica del geometra, che non dimostra definendo l’essenza, bensì “assume preliminarmente che cosa significa triangolo – τί σημαίνει –, ma che è lo dimostra”. Insomma, che si dia un significato non implica che vi sia anche una sostanza della cosa significata: il significato non è una definizione d’essenza. Il che rende possibile predicare anche rispetto a ciò che non è, o non è più o ancora, una sostanza. I due casi sono ovviamente differenti, l’esser per nulla affatto una sostanza o il non esserlo in un certo tempo, e a questa seconda possibilità Aristotele dedica un paragrafo del De interpretatione destinato pure esso a grande fortuna, di cui citiamo solo uno stralcio: “come in «Omero è qualcosa» – Ὅμηρός ἐστί τι –, ossia poeta. Dunque è anche, o no? Nel senso di ciò che conviene (κατὰ συμβεβηκὸς), infatti, di Omero si predica che è, vale a dire appunto che è poeta, ma non in sé”. Nel dire τὶ κατὰ τινός, insomma, nel dire il τι di un qualunque soggetto, non si dice affatto il suo essere ἁπλῶς. E 139 Così anche Abelardo, Dialectica, p. 138, che nota inoltre come, se così non fosse, non sarebbe possibile alcuna proposizione copulare vera rispetto al passato e al futuro: assumendo l’era o il sarà sostanzialmente, infatti, qualunque referente della frase sarebbe ipso facto inesistente. Sulla questione interviene anche Ockham nel suo commento alle Confutazioni sofistiche: “Bisogna dunque formare il primo paralogismo entimematico così: la chimera è opinabile, dunque la chimera è. Il secondo così: un uomo non è un asino, dunque un uomo non è. Paralogismi nei quali la fallacia è per generalizzazione indebita [secundum quid et simpliciter], poiché si inferisce dall’essere cui segue un predicato all’essere assunto per sé” (W. Ockham, Expositio super libros elenchorum, edidit F. Del Punta, in Id., Opera philosophica et theologica, cit., vol. III, St. Bonaventure N.Y. 2001, p. 264). 140 An.post. 92b11ss. Cfr. anche Met. 998b14ss., dove l’argomento si estende anche all’uno. 138 allora chi obiettasse che quella è una frase falsa, poiché Omero è morto e dunque non è, confonderebbe l’essere ente con l’essere in atto sostanza. Ma l’ente che è qui detto di Omero è solamente l’essere poeta, non l’essere una sostanza esistente141. L’essere non dice l’esistere, insomma, di per sé non lo dice, semmai in alcuni casi lo implica, ma non è il suo valore, giacché l’essere non è sostanza di nessuna cosa, detto che è del tutto limpido. E allora, riassumendo: l’ircocervo significa sì qualcosa, è un che, un τι, e dunque in tal senso anche un ente. E tuttavia, poiché non è una sostanza né ha essenza, di lui non vi è episteme possibile, ma solo doxa: è solamente opinabile, e la prima opinione che lo riguarda è esattamente che ἁπλῶς non è. E oltre a ciò Aristotele non ci dice più niente, anche perché, se avesse voluto, come ben nota Crivelli, si sarebbe trovato di fronte a varie difficoltà142. Menzioniamone solo una: che verità è quella del sillogismo intorno al non-essere del- 141 Sostanzialmente conforme a queste conclusioni è la lunga discussione che Abelardo dedica alla chimera e ad Omero poeta in Dialectica, pp. 135 ss. 142 Cfr. P. Crivelli, Semantiche per la sillogistica di Aristotele, in: Papiri filosofici. Miscellanea di studi VI, Leo S. Olschki, Firenze 2011, pp. 316 s., saggio molto intelligente e ben scritto, che conclude: “la posizione che ho tratteggiato non depriva di significato i nomi o gli aggettivi vuoti (come «ircocervo»). La posizione richiede solo che tali nomi o aggettivi non figurino come soggetti o predicati di proposizioni”. Come avviene esattamente in «l’ircocervo è opinabile» e tutto sommato anche in «l’ircocervo significa qualcosa», che è pur essa un’asserzione dichiarativa (il cui soggetto non è però vuoto, poiché qui indica il nome). Tuttavia va notato – per quanto la questione non riguardi direttamente il saggio di Crivelli – che intendere estensivamente i vari esempi Aristotelici: l’ircocervo, l’uomo morto, Omero..., come esempi di nomi vuoti, ossia privi di referente, è improprio: il riferimento ce l’hanno, solo che in alcuni casi non è il riferimento ad una sostanza, in altri è il riferimento a una sostanza che tuttavia non è in atto. Con ciò ovviamente non si vuole negare la possibilità e l’utilità di leggere Aristotele a partire dalla logica più recente, ma solo la necessità di farlo comunque consapevoli delle grandi differenze di fondo. E innanzitutto del fatto che entro la tradizione aristotelica il riferimento è sempre mediato dal significato, non è mai diretto, e nel caso in cui manchi la cosa il riferimento è al significato stesso. Qualcosa di analogo avviene anche nella logica moderna, per esempio in Frege: come infatti nota bene Voltolini, la sua distinzione tra Sinn e Bedeutung rende problematico negare l’esistenza degli enti fittizi, “perché tale teoria si impegna a entità come i Sinne, che possono benissimo essere ulteriormente concepibili come oggetti intenzionali di qualche sorta (per esempio, oggetti meinonghiani), e quindi talora almeno come oggetti fittizi” (A. Voltolini, Finzioni. Il far finta e i suoi oggetti, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 92). 139 l’ircocervo? Vale a dire, vi è davvero scienza possibile intorno al solamente opinabile, foss’anche appunto scienza solo della sua opinabilità? In base a quel sillogismo, infatti, io so che si dà opinabilità dell’ircocervo in quanto non essente: a rigori, dunque, la mia episteme non è sull’ircocervo, bensì sulla sua opinabilità. Ma, in fondo, ciò non comporta comunque che l’opinabile debba possedere una qualche natura? Se così non fosse, infatti, sarebbe ancora possibile negargli in verità sostanza? A queste domande è difficile o forse semplicemente impossibile rispondere in maniera univoca e definitiva tenendo presente l’impianto complessivo dell’ontologia e della logica aristotelica, poiché qui convergono motivi contrastanti e, innanzitutto, entrano in frizione on e οὐσία. Non è infatti per nulla illegittimo distinguere due livelli del suo discorso: il primo è quello dell’ente come τὸ καθόλου μάλιστα πάντων, il più generale di tutti, ciò che insieme all’uno si dice di ogni cosa, di ogni τι, sia affermando (l’ircocervo è opinabile), che negando (non è una sostanza). E su questo piano, che potremmo dire della significatività in generale, il non ente è solo una possibilità elementare dell’ente, che nel suo complesso è ogni τι: qui l’interdetto parmenideo è dunque salvo e non potrebbe essere diversamente. Quando da questo primo livello, dove «essere e non essere» sono una endiadi, si passa al secondo, dove ente è propriamente (ὅπερ ὄν: Met. 1003b33) solo la οὐσία (e ancor più propriamente solo la πρώτη), la simmetria tra l’ente e il qualcosa è ovviamente rotta e il non-ente, dal momento che non sono affatto possibili sostanze negative, è opposto radicalmente all’ente come un puro nulla. Epistemicamente è questo il piano della verità, poiché solo circa sostanze si dà verità vera, un piano dal quale l’ircocervo è escluso del tutto143. Per quanto molto schematicamente, si vede così bene che è la tensione epistemica a imporre la distinzione tra l’ente in generale e l’ente che è veramente ente, la οὐσία ὄντως οὖσα di platonica memoria (Phaedr. 247c6): l’essenza essenzialmente essente, che in fondo è qualcosa di più chimerico dell’ircocervo. E dunque la distin143 In qualche modo intermedia la posizione, circa i nessi tra on e τι, attribuita agli stoici da Seneca (ep. 58, 15): “Così gli stoici sono convinti che il genere supremo sia il qualcosa, ecco i motivi di ciò: nella realtà, sostengono, alcune cose esistono, altre non esistono; e in effetti la realtà comprende anche enti che non sono esistenti, e che però sono oggetti di pensiero; ad esempio i Centauri e i Giganti” (in Stoici antichi, cit. p. 511). 140 zione tra essere ed essere veramente, che è intimamente aporetica e tendenzialmente circolare: come può mai distinguersi, infatti, l’essere veramente dall’essere non veramente? Essere non veramente non significa semplicemente non essere? Ma così si torna all’essere e basta, e dell’ircocervo non si può più dire che non è. Non è questo, però, il luogo dove approfondire la questione, molto intricata e che andava solo accennata per mostrare come il germe platonico della verticalizzazione dei gradi dell’essere si sviluppi in Aristotele e passi poi alla tradizione medievale. Dove, a fronte dei pochi riferimenti aristotelici, di chimere ed ircocervi si parla invece un po’ ovunque, poiché la decisione intorno allo statuto della significazione di tali nomi è uno degli snodi critici della questione degli universali. La posizione di Abelardo è composita e qui di certo non può essere ricostruita compiutamente, vediamone solo i momenti principali, a partire da un passo molto importante, che si riallaccia direttamente a quanto appena detto circa Aristotele e che riassume e tratta molto elegantemente tanti dei temi già affrontati: “Dunque i verbi di tale natura, che pongono altre azioni o passioni, non le copulano semplicemente, ma come insieme a un predicato. Sicché ogniqualvolta entrano in una proposizione vi svolgono una duplice funzione. Ma per il verbo sostantivo non è così. Quando infatti è interposto come medio, copula solamente ciò che vi si aggiunge, e non contiene in sé una qualche altra cosa, tale da predicarla. Se infatti tramite «è» fosse predicato qualcosa e tramite «animale» qualcos’altro, dicendo «l’uomo è animale» incontestabilmente la proposizione sarebbe molteplice, avendo molti predicati: tramite «è» si predicherebbe indeterminatamente un qualcosa di esistente, mentre tramite «animale» l’essenza determinata dell’animale. E anzi, se a questo verbo «è» fosse assegnato ovunque il compito di predicare qualcosa di esistente, sarebbe falsa una proposizione che dica: «la chimera è opinabile oppure è non-uomo, oppure è inesistente». E lo stesso è dimostrato tramite questa proposizione: «Socrate è essente». Se, infatti, in «è» fosse incluso anche il significato del suo participio, la sua aggiunta sarebbe di certo ridondante; come se si dicesse: «Socrate è essente essente»”144. 144 Dialectica, p. 162. Il «non-uomo» di cui qui Abelardo parla è l’esempio del «nome indefinito» del De interpretatione (16a30-32), che significa tutto 141 A differenza dunque degli altri verbi, che compiono insieme l’ufficio di copulare e predicare, «essere» copula solamente e non predica nulla, neanche ciò che potrebbe apparire più plausibile, che predichi almeno “indeterminatamente un qualcosa di esistente”. Poiché, se così fosse, «la chimera è opinabile...» sarebbe una proposizione falsa, laddove è evidentemente vera, come è implicito dall’argomento. Ma non solo: in effetti non si potrebbe asserire l’inesistenza di niente, se nel dire che qualcosa è inesistente lo si ponesse ipso facto in quanto «ens». A dimostrare la vuotezza semantica della copula, Abelardo produce poi un esperimento di parafrasi, che devo confessare mi ha stupito ritrovare qui, poiché avevo la presunzione di averlo trovato da solo. Tuttavia, in questo contesto ha una forma peculiare, poiché Abelardo concede, seguendo così l’uso dei suoi tempi, che il participio «ens» di per sé significhi «qualcosa di esistente». Il participio, ma non la copula145. E il suo esempio: «Socrates est ens» è dunque da lui inteso come «Socrate è (qualcosa di) esistente». Ebbene, se anche la copula predicasse l’esistenza («è»=«è esistente»), la frase si potrebbe parafrasare con “Socrate è esistente esistente”. E così via all’infinito. L’argomento è del tutto consistente, per quanto all’interno della teoria dell’ipotesi ontologica assuma una forma più netta, per certi versi più ampia – poiché non si applica solo alla copula, come distinta da altri usi di essere, e così coinvolge anche quel che Abelardo pone come il suo “proprie et primo loco predicari” (Dialectica, tranne ciò che nega e sta quindi per ogni altra cosa, essente o non essente: “Sicché «non-uomo» non si dice solo delle cose che sono, ma invero anche di quelle che non sono. Così come, infatti, si dice che il cavallo è non-uomo, allo stesso modo si possono dire non-uomo anche la chimera o l’ircocervo, che non sono nulla di esistente, e qualsiasi altra cosa che non sia un uomo” (ivi, p. 127). 145 Come già si accennava, però, Abelardo ammette anche un uso assoluto di essere, come in «Socrates est», dove in effetti «est» svolge l’ufficio o del porre la cosa predicata (cfr. ivi, p. 163: “rem praedicatam ponere”), oppure significa esattamente essere un qualcosa di esistente (cfr. ivi, p. 135 e supra, nota 86, p. 102). Sull’intera questione, cfr. l’ampia introduzione all’edizione critica della Dialectica di L.M. De Rijk, e in particolare le pp. LX ss. Secondo Tweedale, invece (in: La logica nel medioevo, cit., p. 59), nella Theologia Christiana Abelardo avrebbe formalizzato un procedimento logico, grazie a cui ricondurre anche l’uso assoluto in termini copulativi e senza alcuna implicazione esistenziale, ma il luogo a cui rimanda non mi sembra consentire una conclusione così netta (per quanto la troverei gradita). 142 p. 163) –; ma per altri versi più limitata, il che mi induce a pensare che non si tratti davvero dello stesso argomento. Laddove infatti l’ente sia posto come ciò che è e basta, e non come ciò che esiste, esso è valido solamente contro la tesi esplicita che «essere» significhi qualsiasi altra cosa diversa da «essere» e nel nostro caso appunto «esistere». Giacché se parafrasiamo «esistere», secondo l’indicazione aristotelica, con «essere esistente»146, si innesca immediatamente la fuga: «essere esistente» = «essere esistente esistente»... Dove il problema non è tanto la proliferazione infinita, ma ben più il fatto che ogni successiva parafrasi ha un contenuto e un senso, o anche progressivamente non senso, nettamente diverso dalla precedente: non vi è equivalenza semantica e dunque la parafrasi non è una parafrasi147. Ben diverso è il caso in cui si ponga che «essere» lo si possa parafrasare con «essere essente», nel senso appunto del «ciò che è e basta». Anche qui, naturalmente, si produce una serie infinita: «essere» = «essere essente» = «essere essente essente»... Ma questa volta la moltiplicazione dell’ente non modifica affatto le proposizioni che si susseguono, tutt’al più enfatizza, ripetendo lo stesso, e proprio così rende subito superfluo procedere oltre, giacché produce solo ridondanza. Qui però stiamo parlando della chimera e quindi sul senso più propriamente ontologico di queste parafrasi torneremo più avanti, quando l’indagine dovrà tematizzare proprio l’esserente dell’ente. Della chimera abbiamo appena letto che può essere il soggetto di proposizioni vere, o almeno non false... E che può esserlo proprio perché lo «est» che ne enuncia l’opinabilità e la non esistenza non implica né esistenza, né sostanza. Ma questo vuol forse dire che 146 Che dunque parafrasa solo il presunto contenuto predicativo implicito di «essere» e non «essere un ente» (come in «Socrates est ens»). Da ciò è evidente che vale per qualsiasi ulteriore contenuto possibile diverso da «essere» (p.e. «essere identico» o «uno»). 147 In tale forma, come di diceva, l’argomento è valido anche rispetto all’uso assoluto, «Socrates est», laddove ciò sia da leggersi appunto nel senso di «è esistente». Ed è forse per tale ragione, che in questo luogo specifico della Dialectica Abelardo non esponga così, come fa altrove, l’uso proprie et primo loco, ma parli di posizione della cosa: termine che sarà destinato ad avere immensa fortuna, arrivando fino alla posizione assoluta di Kant e, mutatis mutandis, di Fichte. 143 è possibile attribuire predicati reali a qualcosa che non è affatto? Evidentemente Abelardo non può ammettere una conseguenza del genere, e per sfuggirvi indica due vie: «opinabile», inteso in senso proprio e stretto, non è un predicato reale, poiché non dice una determinazione della cosa, ma solo dell’intelletto che opina la cosa e, propriamente, dell’intelletto che la opina solamente148. E in tal modo fonde in un’unica determinazione il discorso di Aristotele (mutandolo): «opinabile» vale di per sé come «opinabile che non è», ossia «opinabile» implica «non esistente», in quella che diviene una vera e propria formula: opinabilis vel non existens149. Tesi che si regge sull’assunto che il significato di una parola non ha alcuna relazione ontica immediata: la parola sta per un concetto e non per una cosa, concetto cui può tranquillamente non corrispondere nessuna cosa reale, il che è peraltro segno della maggiore dignità e potenza dell’intelletto rispetto ai sensi150. E dunque l’as148 Per la stessa necessità stringente che impone ad Aristotele di distinguere la scienza del bene dall’opinione del non-essente, Abelardo deve negare l’intelligibilità in senso stretto della chimera. L’argomento si appoggia a un paragone chiaro ed elegante: se sento o dico o penso «non intelligibile», non di certo intelligo l’inintelligibile (Tractatus, p. 124). E tuttavia vi sono anche qui oscillazioni, come traspare da quanto alla nota 151. 149 Cfr. Dialectica, p. 168: “Ma di certo assumendo «opinabile» propriamente come nome soltanto di ciò che non esiste, secondo quell’opinione che di esso si ha, la sua predicazione è posta appropriatamente circa la chimera quando si dica che «la chimera è opinabile», vale a dire che «è una di quelle cose di cui si ha opinione», così anche come quando si dice «la chimera è un non ente», cioè «qualcosa di quelle che non sono»”. Lucia Urbani Ulivi, in Tractatus, p. 35, asserisce nettamente che “in Abelardo opinio è nelle opere logiche sempre intesa negativamente, e collegata con gli intellectus cassi”. Ma vedi anche ivi, pp. 51 ss., dove è precisata la distinzione tra gli intellectus sani e cassi, con riferimento diretto al De interpretatione. 150 Tractatus, p. 104: “Invero l’intelletto, cioè la stessa facoltà pensante dell’animo, né abbisogna dell’uso dello strumento corporeo, di cui in verità possa servirsi per pensare, e neppure della qualità di una cosa esistente che possa essere pensata, poiché è evidente che l’animo configura per sé, attraverso l’intelletto, allo stesso modo tanto la cosa esistente quanto la cosa non esistente, la corporea e l’incorporea, e ciò sia grazie al ricordo di quel che è passato, sia grazie alla previsione di quel che è a venire, o talvolta anche tramite la finzione di cose a cui non accade mai di essere, come il centauro, la chimera, l’ircocervo, le sirene e molte altre. E perciò è certo chiara la differenza tra senso e intelletto” (vedi anche pp. 123 s. e il commento puntuale della Ulivi, pp. 45 ss., 73). Sulla differenza tra significatio intellectum e rerum, cfr. Beonio Brocchieri Fumagal- 144 serzione intorno alla chimera non parla di un animale, bensì dell’opinione di chi ne pensa il concetto151. E da ciò la conclusione del Tractatus de intellectibus: “«Intelligo la chimera» o «la chimera è intelletta» è locuzione figurativa. Se invero dicessi: «Intelligo la chimera che è» transiterebbe in una locuzione propria, perché già dicendo «la Chimera che è» si tratterebbe come personaliter di una qualche cosa, di cui è costituito e posto l’essere»”152. Un transito li, La logica di Abelardo, cit., pp. 19, 34 ss., che rimanda alla prima pagina delle glosse al De interpretatione nella Logica ingredientibus, dove Abelardo è molto limpido: “[il nome e il verbo] significano infatti le cose costituendo l’intellezione ad esse relativa” (Log. ingred., p. 307), asserzione che ricorda molto da vicino quella di Husserl (vedi supra, nota 2, p. 48). 151 Cfr. Dialectica, p. 69: “Ma affinché la stessa proposizione si intenda significativamente, se vogliamo attribuire una qualche proprietà in essa a qualcosa, è piuttosto all’anima di chi ascolta che va attribuita l’intellezione, la quale, come è detto, è designata dalle parole pronunciate. Quando dunque diciamo che l’espressione pronunciata significa, non vogliamo intendere che a ciò che non esiste sia attribuita una qualche forma, che chiamiamo significazione; ma piuttosto ascriviamo all’anima di chi ascolta l’intellezione concepita tramite l’espressione pronunciata. Così quando diciamo «Socrate corre significa», questo sembra il senso, che l’intellezione che viene dalla pronuncia dello stesso concetto esiste nell’anima di qualcuno. E così anche «la chimera è opinabile» si intende significativamente, non tramite il fatto che una qualche forma sia attribuita alla chimera, che non esiste, ma piuttosto che un’opinione sia attribuita all’anima di colui che opina la chimera”. E poi oltre, p. 136: “Infatti alla chimera, che non esiste, dicendola «opinabile» non è conferita una qualche proprietà, ma è piuttosto all’anima di qualcuno che viene attribuita un’opinione intorno ad essa, come se dicessimo: «l’anima di qualcuno ha un’opinione della chimera”. E tuttavia, nella Nostrorum leggiamo: “Alla domanda: di cosa hai intellezione?, si risponderà il vero dicendo: ho intellezione di una chimera, anche se la chimera non è nulla. Quando infatti ho intellezione di una chimera, anche se ciò di cui ho intellezione non è una cosa, ho tuttavia l’intellezione di qualcosa” (cit. in Tractatus, p. 81, passo che la Urbani Ulivi commenta, dicendo che è meno chiaro rispetto all’accertamento della possibilità di intelligere il non esistente proposta nel Tractatus, poiché lì “non si metteva tanto l’accento sull’«aliquid tamen intelligo» nel caso dell’intellezione di chimera, laddove aliquid risulta ambiguo e non ben individuato rispetto a res, ma si riconosceva semplicemente per tale l’intellectus chimaerae; si riconosceva cioè la possibilità che la deliberatio si esercitasse sulla vox chimaerae”. 152 Tractatus, pp. 126 s. Tale conclusione replica alle varie argomentazioni, presentate nei passi precedenti del Tractatus, che dall’intelligibilità della chimera deducono la sua sostanzialità o esistenza. Nel testo compare la determinazione “personaliter”, che è richiamata nella distinzione poi operata da Ockham (vedi infra, nota 162). 145 che è ovviamente interdetto, poiché la chimera è esattamente il concetto paradigmatico del “non esistente in quanto non esistente”153. Quel che però è davvero notevole, è che, a dispetto del valore solamente figurativo dell’asserzione, né sul piano noetico, né su quello logico-linguistico ciò comporta una modificazione dei modi di pensare e di dire: sia l’atto con cui l’intelletto separa e unisce, sia la copula che realizza grammaticalmente quell’atto rimangono unitari: “Né comporta nulla, rispetto al modo o all’unità della concezione, che [il concepito] sia nella cosa così come è concepito o non lo sia, ma solamente rispetto alla verità del concetto. È infatti egualmente una l’intellezione della pietra razionale o della chimera bianca, come dell’animale razionale o dell’uomo bianco”154. Questo significa che le funzioni logiche e noetiche sono indifferenti allo statuto ontologico degli elementi su cui si applicano155. E tanto più de- 153 Cfr. Dialectica, p. 201: «Chimaera» enim rei non-existentis nomen est ut non-existentis”. E non in quanto non ancora o non più esistente, casi che abbiamo già visto nelle note precedenti essere distinti da questo. Quel che caratterizza la chimera, insomma, è proprio il fatto che noi sappiamo veramente che non è, proprio perché sappiamo di averla finta essere. Sull’intera questione, cfr. Lucia Urbani Ulivi, Tractatus, pp. 74 ss., che conclude molto chiaramente: “In senso largo, dunque, l’intellezione di chimaera è possibile e di fatto esiste come tale, in senso stretto, in quanto ad essa non corrisponde nessuna res, è cassa e non è utilizzabile nel discorso scientifico”. 154 Ivi, pp. 122 ss. (che in sostanza è una preformulazione della legge di Buridano). Anche su questo punto, però, è rilevabile almeno un’oscillazione: una tautologia come «la chimera è la chimera» sembra non essere più analizzabile come «la chimera è opinabile» e tuttavia, in quanto tautologia, dev’essere una frase vera. La soluzione, per conservarne la verità, è leggerla come se dicesse “la chimera si chiama chimera” (Log. ingred., p. 361). «La chimera è la chimera» è dunque una sorta di relazione intrasegnica, che pare essere l’unica dimensione del significato qui residua. In relazione a ciò si parla di un valore nuncupativo della copula, tema che ritorna frequentemente negli scritti di Abelardo e che meriterebbe un approfondimento qui impossibile (ad ogni modo in M.T. Beonio Brocchieri Fumagalli, La logica di Abelardo, cit., p. 40, si dice che nell’Abelardo più maturo l’appellatio o nominatio proprie al nuncupor divengono del tutto secondarie). Notiamo solamente che Abelardo, richiamando Prisciano, è esplicito nel notare il valore comunque copulativo di «nuncupor», e questa volta nel senso stretto e più tecnico della copula come funzione sintattica che consente la predicazione tra due sintagmi nominali. 155 Cfr. L. Urbani Ulivi, Tractatus, che già a p. 51 nota come “la sanità o meno di un’intellezione si appoggia dunque sulla rispondenza tra il suo contenuto e la realtà: essa è cioè individuata a posteriori e mediante un criterio esterno”, il 146 vono esserlo dunque rispetto alla verità o falsità onticamente condizionata delle congiunzioni di concetti e parole che producono. Ora, rispetto a questa posizione, il nominalismo più maturo e anche più spinto di Ockham rimodula molti termini, proponendo una soluzione unitaria a tutti i casi presentati da Abelardo, soluzione che è già in direzione di quella russelliana156. Al tema Ockham che equivale a dire che di per sé non si dà un criterio logico per distinguere tra concetti sani e vani. E nel concludere la sua monografia, la Urbani Ulivi generalizza tale linea di tendenza (alla dereificazione, come sostiene Jolivet): “Ciò che in rerum natura è unico può dunque sdoppiarsi nel linguaggio e nell’intellezione, secondo un processo che mostra questi ultimi due campi ben più solidali e legati tra loro che col mondo delle res […]. Tale sfasatura mostra quanto i rapporti tra i tre ordini linguistico, intellettivo e cosale siano di ardua risoluzione, e come l’autore del trattato preferisca rischiare lo sganciamento dei primi due dal terzo, pur di tenere legate le parole e i concetti, la lingua e il pensiero” (ivi, pp. 86 ss.). Rispetto al tema specifico degli enti immaginari, la mancanza di un criterio puramente logico di identificazione è sottolineata subito da Voltolini: “non ci sono indicatori sintattici di finzione […]. Ma, il che è più interessante, la finzione non è neppure una faccenda di semantica”! (A. Voltolini, Finzioni, cit., p. 4). 156 Sui “due nominalismi”, per quanto breve è molto chiaro e utile il saggio di J. Jolivet, Paragone tra le teorie del linguaggio di Abelardo e dei nominalisti del XIV secolo, in Logica e linguaggio nel medioevo, a cura di R. Fedriga e S. Puggioni, LED, Milano 1993, pp. 113 ss., 127 s., che sottolinea lo scarto nel passaggio dalla sententia vocum o sermonum abelardiani al terminismo ockhamista. In particolare, in Abelardo sarebbe sì preparata la teoria della suppositio, il cui baricentro rimane però per lui nel linguaggio: “Gli universali significano delle «forme comuni» che non sono cose e che sono anche diverse dalle intellezioni; avviene, quindi, che «oltre la cosa e l’idea emerge in terzo luogo il significato dei nomi», formula perfettamente chiara che contiene, abbreviata, tutta la concezione abelardiana del linguaggio […]. Una filosofia del linguaggio che lo eleva a dignità concettuale e rivela, nella materia delle arti del trivium, strutture originali connesse a quelle del reale. Su questo punto, Abelardo è il contemporaneo di Bernardo di Chartres e precursore dei grammatici speculativi, non di Ockham. In effetti, le differenze tra i due grandi rappresentanti del nominalismo medievale sono numerose e importanti: Ockham riporta all’interno della mente il fenomeno originario della significazione e distingue nel linguaggio tra ciò che rappresenta queste significazioni naturali e ciò che, allontanandosene, è privo per il filosofo di qualsiasi carattere essenziale. Per Abelardo è il linguaggio che significa”. Più avanti, poi, affrontando la questione della verità della proposizione, nota che “per Ockham una proposizione, sia essa singolare, particolare o universale, è vera quando il soggetto e il predicato suppongono per (stanno per) la stessa cosa o le stesse cose. Ciò comporta da una parte lo svuotamento di ogni forma di realismo (identità reale di soggetto e predicato, inerenza del predicato al soggetto, ecc.) e dall’altra a ricondurre al sog- 147 dedica un capitolo della sua Summa logicae: “Intorno alle proposizioni entro cui sono poste finzioni, alle quali non corrisponde nulla nelle cose”157. In questo contesto egli distingue tra “termini” veramente connotativi, che indicano una “cosa vera che è in atto o che può esservi o almeno poté esservi o lo fu” – categoria entro cui rientra dunque anche l’Omero poeta –, da quei termini come la chimera e l’ircocervo che indicano “non-enti ed impossibili”. Come vediamo, dunque, qui già si parla di termini e, inoltre, la questione degli enti immaginari richiama quella degli enti impossibili (che qui però sono detti solo impossibili, poiché non gli si riconosce alcuna entità). Ma non solo: nel discuterla, infatti, Ockham produce un argomento singolare: i due tipi di termini non possono significare nello stesso modo, poiché, essendo i secondi “distinti totalmente dagli enti”, ciò avrebbe una conseguenza assurda: “Quasi vi fosse un mondo di impossibili così come vi è un mondo di enti”158. Dal che è anche facilmente immaginabile cosa avrebbe pensato Ockham di tutta la metafisica odierna dei mondi (im)possibili159. Da questa distinzione, Ockham arguisce che nessuna frase intorno alla chimera, sia che è opinabile, sia che è non ente, sia anche «la chimera è la chimera», può essere vera, fintanto che il termine è assunto come se supponesse significative, poiché ciò conterrebbe implicitamente l’asserto: «la chimera è qualcosa», mentre non lo è160. E qui, notiamo, l’aliquid muta ancora e, per così dire, salta di nuovo nel campo degli enti, ma solo di quelli veramente essenti. Come che sia, ciò non toglie che la chimera, pur non essendo qualcosa, come termine conservi il proprio significato, che però non va inteso come se supponesse personaliter, come già scriveva Abelardo161. getto il significato della frase. Per Abelardo le proposizioni sono vere quando «nella realtà le cose stanno così come queste l’enunciano»”. Non è difficile vedere nella tesi ockhamista l’origine del grande equivoco di Russell, e questa è anche la ragione per la quale ci occupiamo qui brevemente di Ockham. 157 W. Ockham, Summa logicae, cit., p. 286. 158 Ivi, p. 287. 159 La descrizione più agile e chiara intorno alle teorie circa gli enti fittizi è nel già citato A. Voltolini, Finzioni, che alle pp. 54 ss. analizza criticamente le strategie interpretative basate sui mondi (im)possibili. Contra, F. Berto, L’esistenza non è logica. Dal quadrato rotondo ai mondi impossibili, Laterza, Roma-Bari 2010. 160 W. Ockham, Summa logicae, cit., pp. 287 s. 161 Cfr. ivi, p. 568: “Le cose del primo tipo hanno sì definizioni che esprimono chiaramente il quid indicato nel nome, ma in nessun modo il quid della 148 E come scrive anche Ockham nella ripresa più sistematica della questione all’interno del suo commentario al solito De interpretatione. Qui, infatti, ripetendo quanto già detto nella Summa logicae, Ockham distingue tre modi della suppositio: personaliter, materialiter e simpliciter, laddove se nel primo modo, ossia assunta come individuo concreto, sulla chimera non si può dire alcuna verità, negli altri due invece sì, ovvero assunta come vox o come intentio animae162. Nei nostri termini: la chimera è significativa solo sul piano delle parole e dei concetti, ma la cosa manca del tutto. Il che la fa stranamente assomigliare all’essere heideggeriano. Ora, di tutto questo bestiario antico e medievale cose né è in Russell163? E in che modo continua a riguardare la questione del significato di essere, esistenza e identità? Una prima constatazione è necessaria a chiarire il contesto problematico: in Russell, almeno ne I principi della matematica, vi è una evidente e netta differenza nella considerazione dell’essere come concetto e come verbo: nel primo caso, la posizione assunta è rigorosamente univoca, nel secondo caso del tutto equivoca. Va da sé, che tenere insieme tale contraddizione è complesso e, in ultima istanza, impossibile, tant’è che nello sviluppo successivo del suo pensiero anche la concezione dell’essere come concetto finisce fatalmente per divenire “sistematicamente ambigua”164. cosa; così «la chimera» ha una definizione che esprime cosa significa questo nome «chimera», ma non ha alcuna definizione circa ciò che è quella cosa che è chimera, poiché non vi è alcuna cosa del genere, né può esservi”. 162 Cfr. W. Ockham, Expositio in librum Perihermenias Aristotelis, ediderunt A. Gambatese e S. Brown, in Opera philosophica et theologica, cit., vol. II, St. Bonaventure N.Y. 1978, pp. 366 s.: “E chi vuole sostenere la suddetta opinione [il riferimento è plausibilmente ad Avicenna], vale a dire che qualunque cosa sia immaginabile o concepibile è anche veramente reale o connettiva di quelle cose che sono o furono o possono essere, può rispondere al primo di coloro, allorché sia detto che la chimera e i suoi simili sono finzioni e non sono reali, e può dire che in «la chimera è tra le cose della natura» bisogna distinguere, poiché la chimera può supporre personalmente o materialmente o semplicemente. Se suppone personalmente, quella frase è falsa; se materialmente o semplicemente, è vera, perché tanto la voce, quanto l’intenzione dell’anima sono qualcosa tra le cose della natura”. 163 Oltre a quanto si dirà nel seguito del paragrafo, cfr. anche la critica serrata e notevole che Voltolini rivolge a Russell sia rispetto agli enti immaginari, che alla funzione semantica dei nomi propri, in Finzioni, op. cit., pp. 90 ss. 164 Come documenta N.B. Cocchiarella, Logical Studies in Early Analytic 149 Avendo già detto a sufficienza del verbo, vediamo allora cosa troviamo sul concetto: “Esiste soltanto un genere di essere, e precisamente l’essere simpliciter; e soltanto un genere di esistenza, e precisamente l’esistenza simpliciter”. Questo essere simpliciter, questo essere e basta, è esattamente quello sulla cui base Russell ha già definito i termini: “L’essere è ciò che appartiene ad ogni termine concepibile, ad ogni possibile oggetto di pensiero; in breve a tutto ciò che può eventualmente comparire in qualsiasi proposizione, vera o falsa, e che appartiene a tutte queste proposizioni stesse. L’essere appartiene a qualunque cosa che può essere contata. Se A è un qualsiasi termine che può essere contato come uno, è chiaro che A è qualcosa, e quindi che A è”165. Il concepibile, il pensabile, il menzionabile e numerabile, ossia tutto ciò che compare nel logos, è qualcosa – innanzitutto se stesso – e dunque è. Questa movenza argomentativa, solo apparentemente per sottrazione da un intero, mette chiaramente in luce la coestensione dell’ente e del qualcosa e rende chiara la primarietà del principio di identità: qualcosa è senz’altro qualcosa, qualsiasi cosa è quella stessa cosa che è, «A è A» e dunque «A è», ossia è un’entità. Conclusione che aggiunge e non sottrae, aggiunge all’identità la struttura dell’entità, il che non comporta necessariamente la dipendenza dell’una dall’altra, ma ne esprime chiaramente l’immediata coimplicazione. Questa posizione induce Russell, che ben conosce la soluzione platonica del Sofista, a enunciare una sorta di interdetto parmenideo: “«A non è» deve sempre essere o falso o privo di significato. Ed infatti se A fosse niente, non si potrebbe dire che esso non è; «A non è» implica che esiste un termine A il cui essere viene negato, e quindi che A è”. Anche il non ente, insomma, lo diciamo in quanto ente, e dunque, “comunque sia A, certamente è. I numeri, gli dei omerici, le relazioni, le chimere e gli spazi a quattro dimensioni hanno tutti l’essere, poiché, se essi non fossero entità di un qualche genere, noi non potremmo costruire proposizioni intorno ad essi. L’essere è quindi un attributo generale di ogni cosa, e il menzionare alcunché è dimostrare che esso è”166. Tesi sostanzialmente cor- Philosophy, Columbus: Ohio State University Press, 1987. Ma cfr. anche Id., Logic and Ontology, cit., pp. 117 ss. 165 B. Russell, I principi della matematica, cit., p. 612. 166 Ivi, pp. 612 s. 150 retta, se si precisa che non è propriamente di un “attributo” che si tratta, poiché l’attributo già richiede l’ente cui sia attribuito, mentre qui è proprio la posizione dell’ente in ballo; e, inoltre, che la dizione dell’ente non dimostra che è, ma propriamente lo ipotizza, ossia trova ciò come già preliminarmente posto167. E quando parleremo di definizione metaontologica dell’essenza dell’ente discuteremo di altre delimitazioni ulteriori di tale principio. Ad ogni modo, è del tutto chiaro che porre ogni τι del logos come ente significa aver già deciso che l’essente non è l’esistente: è proprio la chimera a mostrarlo nel modo più icastico. Questa non coincidenza di essenza ed esistenza può essere stirata fino alla completa separazione – l’essente non è in alcun modo esistente e viceversa – oppure concepita nei termini, propriamente metafisici, di una subordinazione dell’esistente all’essente, come fa Russell: ciò che è può anche esistere o non esistere, ciò che esiste, invece, necessariamente già è. Entrambi i punti di vista hanno senso e fondamento e dovremo poi chiarire entro quali limiti si possono sostenere le due tesi anche contemporaneamente, modulando opportunamente il concetto di esistenza e distinguendo l’esistenza dell’ente da quella della cosa. Ma questo a suo tempo, vediamo ora come Russell tragga la sua conseguenza: “L’esistenza, al contrario, è la prerogativa soltanto di alcuni fra gli esseri. Per esistere occorre avere una relazione specifica con l’esistenza, relazione, tra l’altro, che l’esistenza stessa non ha. Questo mostra, incidentalmente, la debolezza della teoria esistenziale del giudizio, la teoria cioè per cui ogni proposizione ha a che fare con qualcosa che esiste. Se infatti questa teoria fosse vera, sarebbe ancora vero che l’esistenza stessa è un’entità, e va ammesso che l’esistenza non esiste. Quindi la considerazione dell’esistenza stessa conduce a proposizioni non esistenziali, e contraddice così la teoria. In effetti la teoria sembra essere sorta dal trascurare la distinzione tra l’esistenza e l’essere. In verità questa distinzione è essenziale, se dovremo mai negare l’esistenza di qualcosa. Perché una cosa non esista, essa deve essere qualcosa, altrimenti sarebbe insensato negare la sua esistenza; e quindi noi abbiamo bisogno del concetto di essere come di concetto che spetta anche al non esistere”168. 167 Come si vedrà più avanti (cfr. infra, nota 212), infatti, «A non è» non è falsa, ma assolutamente contraddittoria, e dunque anche «A è» a rigori non è vera. 168 Ivi, p. 613. Vedi anche pp. 125 s.: “Si potrebbe osservare che A e B possono anche non esistere, ma devono possedere l’essere, come qualsiasi cosa di 151 L’esistenza è di esistenti, quindi l’esistenza non è un esistente: così si potrebbe parafrasare, rievocando la differenza ontologica, l’argomento di Russell, che è analogo a quello sull’essere, poiché anche qui è il non esistente il criterio di comprensione dell’esistenza. Non possiamo però non rilevare un’ambiguità: in quanto termine di un discorso, l’esistenza certamente è un’entità, come qui Russell conferma, per quanto sia un’entità non esistente. Tuttavia, già l’esser ente è a modo suo una forma di esistenza: in quanto detto e pensato c’è da qualche parte. E questa è la ragione per la quale, nella prima presentazione del concetto di termine, Russell aveva detto esplicitamente che ogni termine, e dunque ogni entità, “in qualche senso esiste”169. Questa oscillazione, per quanto già mini l’unità del concetto simpliciter di esistenza, non è ancora una contraddizione netta, ma di certo è l’indice di un’ambiguità non interamente risolta, e forse non integralmente risolvibile: l’essente non è l’esistente, e tuttavia in qualche modo esiste. Anche perché, al di là dell’evidenza della sua presenza noetica, se quella particolare entità che è l’esistenza non esistesse affatto, su di essa non si potrebbe dire alcuna verità oggettiva, come nel caso delle chimere: la “teoria esistenziale del giudizio” va quindi certamente moderata e precisata, ma in fondo Russell deve continuare a sostenerne una versione debole, valida non relativamente ad ogni proposizione possibile, ma di certo relativamente alle proposizioni vere. Il che è evidente appunto se si tiene presente che ne è della chimera, la cui sorte è il limite dove l’oscillazione diviene irreparabilmente una contraddizione. Se si è consapevoli della crucialità dell’ontologia del non ente, non stupirà affatto impattare quel limite entro una riflessione intorno al nulla. E se si è compreso quanto la radice dell’equivoco russelliano intorno al valore predicativo del verbo essere dipenda dalla sua nozione di denotazione, non stupirà rilevare che l’aporia del non ente è anche la crisi di tale nozione. Abbiamo infatti visto che il denotare è quel fenomeno logico, per cui quando un concetto ap- cui si può parlare. La distinzione tra essere ed esistenza è importante ed è resa ben chiara dal processo del contare. Ciò che si può contare deve essere qualche cosa, e deve certamente essere, benché non sia in alcun modo necessario che possegga gli ulteriori privilegi dell’esistenza”. 169 Ivi, p. 89. 152 pare in una proposizione si riferisce alla cosa stessa e non al proprio contenuto concettuale. Il che deve implicare, che se la cosa manca, un concetto, seppur quantificato logicamente, non può essere denotante. Ma...: “è chiaro che esiste un concetto quale il nulla, e che in un certo senso nulla è qualcosa. In realtà la proposizione «il nulla non è nulla» è senza alcun dubbio suscettibile di un’interpretazione che la rende vera; argomento, questo, che fa sorgere le contraddizioni discusse nel Sofista di Platone”. La verità sul non ente lo qualifica ipso facto come un qualcosa e dunque come un ente. Ma, in questo luogo, l’esigenza di salvare la funzione dei concetti denotanti e insieme di rendere conto della coerenza dell’uso della classe vuota in matematica, inducono Russell a infrangere l’interdetto parmenideo e a entrare in contraddizione con se stesso: “occorre rendersi conto, prima di tutto, che un concetto è in grado di denotare anche se non denota alcunché”170. Nonostante se ne comprendano ragioni e scopo, è una tesi francamente inammissibile: sia perché contraddice l’unica definizione che abbiamo del denotare, ma ancor più perché denotare il nonqualcosa è altrettanto impossibile che dire, in quanto tale, il non-ente – e che si tratti qui di un denotare il non-qualcosa piuttosto che di un non-denotare è chiaro. Tuttavia, per quanto non ammissibile, è una tesi che suscita alcune domande potenzialmente fruttuose: innanzitutto, questo alcunché è alcunché di non-essente o di non-esistente, e di non-esistente realmente o di null’affatto esistente (vale a dire neanche in quel certo senso in cui ogni essente è esistente)? In quale senso, dunque, “nulla è qualcosa” e in quale altro “non denota alcunché”? È sufficiente e coerente al riguardo distinguere tra il concetto in quanto tale e il concetto che denotando non denota? Vediamo se il seguito di questa pagina può contribuire a dare qualche risposta: “Un concetto è in grado di denotare anche se non denota alcunché. Si verifica questo caso quando esistono, sì, delle proposizioni in cui compare il detto concetto e che non vertono su di esso, ma tali proposizioni sono tutte false”. Spiegazione che anche agli occhi di Russell pare non essere adeguata, soprattutto se induce a ritenere esistente la classe nulla, il che è impossibile se la classe, come già si notava, non è un concetto, ma in quanto collezione di cose è essa stessa una cosa, che viene meno se non contiene nulla: “una 170 Ivi, pp. 128 s. 153 classe che non abbia termini non può assolutamente essere qualcosa” (o esistere in quanto qualcosa?). E così Russell specifica: “consideriamo per esempio la proposizione «le chimere sono animali» oppure la proposizione «i numeri primi pari diversi da 2 sono numeri». A prima vista queste proposizioni sembrano vere, e parrebbe che esse non si riferiscano ai concetti denotanti, ma a ciò che questi concetti denotano; eppure ciò è impossibile, poiché i concetti in questione non denotano alcunché”171. E questo pare decisivo circa la prima domanda che ponevamo: si tratta evidentemente di alcunché di esistente, poiché di certo la chimera è un entità, come Russell ripete ovunque. La denotazione, dunque, pare non riguardare l’essere, bensì solo l’esistere. Ma cosa deve significare «esistere», perché si dica inesistente ciò che (non)denotano la chimera e i numeri primi diversi da 2? Il punto è delicato e va affrontato con attenzione, poiché anche qui la plausibilità dell’argomento si gioca sul filo di un’oscillazione a prima vista poco evidente. Proviamo a metterla in luce: Russell dice che le due proposizioni portate ad esempio non possono essere vere, poiché i concetti denotanti non denotano alcunché. E prima ha asserito che, nel caso di simili concetti (non)denotanti, nessuna proposizione in cui compaiano può essere vera. Il che implica che anche la verità, qui, sia funzione dell’esistenza e non dell’essenza. Nello specifico, però, perché quelle due proposizioni non sono vere? La ragione è analoga: poiché entro il dominio di appartenenza che viene attribuito dal predicato ai concetti non troviamo nessun elemento denotato da quei concetti: potessimo anche percorrere tutta la terra e descrivere ogni animale che incontriamo, tra di loro non vi sarebbe alcuna chimera (a parte certi pesci abissali che condividono il suo nome). E così per i numeri pari diversi da due. Ma uno specifico dominio di appartenenza, diciamo pure uno specifico genere, non può essere assunto senz’altro e sempre come limite di attestabilità della denotazione di un concetto, che deve appartenere o non appartenere al concetto stesso indipendentemente da ciò che di esso eventualmente si predichi. Lo si può mostrare per entrambi di casi, con alcune differenze. Per sapere che tra gli animali concretamente esistenti non vi sono chimere, io devo innanzitutto sapere cosa significa “la chimera” 171 154 Ivi, p. 129. (che è esattamente quel che diceva prima Russell: “perché una cosa non esista, essa deve essere qualcosa, altrimenti sarebbe insensato negare la sua esistenza”). Ma se lo so, allora la chimera qualcosa deve pur denotarlo (un’entità), anche se si dà il caso che questo qualcosa non sia un animale concretamente esistente o esistito, bensì mitologico; ad ogni modo qualcosa che posso riconoscere, se devo poterlo cercare e così anche non trovare lì dove lo cerco. Dire dunque che non denota alcunché (di esistente), può qui voler solo dire che non denota nessun animale vivente, ma la chimera non ha mai voluto denotare un animale vivente, non è questo il suo genere o tipo. Quel che comunque emerge è un uso equivoco del termine denotare nell’asserzione per cui vi sono concetti denotanti (1), che tuttavia non denotano alcunché (2): nel primo caso è l’entità che viene denotata (significata), nel secondo l’esistenza172. Ulteriore conseguenza: se denota qualcosa (un’entità), allora non deve essere vero che tutte le proposizioni in cui compare sono false: «le chimere sono animali mitologici» è una proposizione vera. Per non dire della tautologia, che è sempre possibile e sempre vera per ogni termine. Come è possibile negare ciò e dire che nessuna delle proposizioni che contengono la chimera può essere vera? Evidentemente solo a partire dalla restrizione della verità alla verificabilità, che qui non può essere che empirica. E dunque di una riduzione dell’esistenza all’esistenza concreta. Solo in questo senso la 172 Potremmo così parafrasare: la chimera significa sì qualcosa (un’entità), ma non denota nulla (di esistente). Tuttavia, in Sulla denotazione leggiamo un passo già prima citato: “Pertanto, a partire da qualsiasi proposizione possiamo ottenere un sintagma denotativo che denota un’entità se la proposizione è vera, ma che non denota alcuna entità se è falsa”. Ma andrebbe meglio detto: che denota un’entità esistente, se è vera, un’entità inesistente, se è falsa. Tuttavia, essere qui coerente con se stesso, avrebbe impedito a Russell di sostenere, come pure già vedevamo, che il concetto denotante di per sé non significa nulla. Insomma, qui è evidente che la distinzione tra essere ed esistere, che pur considera tanto importante, alla fine va sacrificata. Incidentalmente, un concetto autenticamente non denotante lo avevano prodotto gli stoici: il blityri (Cfr. Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2005, p. 783). Un quantificatore seguito da una parola priva di significato (se nel caso della chimera abbiamo un concetto fictus, qui c’è una parola ficta). Chiediamo dunque a Russell: «il blityri è un animale» è una proposizione dotata di significato? E la sua inverificabilità è uguale a quella de «La chimera è un animale»? 155 chimera non denota alcunché: niente di concretamente esistente e dunque di empiricamente verificabile. Ma è così anche nel caso dei numeri primi diversi da 2? Anche qui la verità può essere solo del concretamente esistente ed empiricamente verificabile? Evidentemente no. Il dominio di appartenenza, i numeri, non è qui affatto quello del concretamente esistente e anche il criterio di verificabilità non può essere empirico. Di uguale rimane solo il fatto che entro quel dominio non troviamo ciò che pure sapremmo cercare: cosa sia un numero pari non è ambiguo e come posso verificare se sia un numero primo è scontato. E anche rispetto alla legittimità dell’attribuzione a un genere, qui non c’è l’arbitrarietà della chimera, poiché che il genere o tipo sia quello dei numeri è detto già nel concetto denotante che vale come soggetto e poi ribadito nel predicato: i “numeri primi diversi da 2 sono numeri”. Ma questa circostanza rende ancora più netta una conseguenza: l’inesistenza delle chimere è molto diversa dall’inesistenza dei numeri primi diversi da 2, poiché la prima è un’inesistenza di fatto, in linea di principio sempre falsificabile, giacché la chimera sarà sì stata inventata, ma non è di per sé impossibile e non è un concetto autocontraddittorio, ed anzi è anche qualcosa di immaginabile173. Mentre un numero primo diverso da 2 è concetto in immediata contraddizione con la divisibilità per due di ogni numero pari, è dunque un concetto contraddittorio con le proprietà dei numeri, è un concetto di numero costruito negando ciò che appartiene ai numeri. Anche in questo caso, però, non è difficile immaginare una frase tutto sommato vera: “i numeri primi diversi da 2 non sono affatto numeri”. Diverso l’ambito, diverso il criterio di verificabilità (analitico in questo caso), diversa la dimensione esistenziale, che non è quella concreta. 173 A differenza del cerchio quadrato, che posso costruire come concetto, ma non immaginare (sulle differenze tra nonsenso, controsenso e senso di fatto non realizzato, cfr. E. Husserl, Das Imaginäre in der Mathematik, in Husserliana, Band XII, hrgb. L. Eley, Martinus Nijhoff, The Hague 1970, pp. 430 ss. e Id., Ricerche logiche, vol. 2, a cura di G. Piana, Il saggiatore, Milano 2005, pp. 109 ss.). Divertente è poi la storia che riporta Umberto Eco: la scoperta di Marco Polo che gli unicorni sono molto più brutti di quanto non immaginiamo e per nulla mansueti: “Ella è molto laida bestia a vedere” (si trattava in effetti di rinoceronti). Storia da cui Eco trae spunto per annotazioni molto interessanti circa il processo semiotico che interviene nella comprensione di un fenomeno ignoto (Cfr. U. Eco, Kant e l’ornitorinco, cit., pp. 43 ss.). 156 Nonostante tutte queste diversità, rimangono alcune costanti: l’esistenza dipende dalla verificabilità. E la non esistenza, se non annulla, almeno inficia l’entità. E così anche qui l’essente è scandito e verticalizzato a partire dal suo poter essere conosciuto veramente: la verità rompe l’unità dell’essere e dell’esistere, che non sono affatto simpliciter, poiché in tanti modi si dà una differenza radicale tra l’essere e l’esistere veramente o non veramente. E ogni realismo rimane all’interno di questa scansione, declinandola di volta in volta a partire da ulteriori clausole specificative circa senso e modi della verificabilità. E questo è quello che per ora solamente volevamo mostrare in vivo. II.6 La grammatica del verbo essere (2) Riassumiamo quanto acquisito sinora: la frase consiste elementarmente nella congiunzione di un soggetto e di un predicato, in cui si realizzano tre funzioni: predicazione, affermazione/negazione e tempo. Dal punto di vista grammaticale, la congiunzione è data dalla flessione del verbo, che in genere nella sua parte non flessiva esprime anche un predicato. L’unico verbo che non ha alcun contenuto semantico proprio, e che dunque non è un predicato ma solo un connettivo, è essere. Grazie a ciò è l’unico a poter fungere in maniera pura come copula, ossia come connettivo di intracategoriali. In tale funzione realizza l’affermazione e la negazione del predicato circa il soggetto: essere e non essere, che sono sempre compresenti e impliciti in tutti gli altri verbi, i quali condividono con «essere» anche la funzione temporalizzatrice. Infine, «essere» può parafrasare qualsiasi altro verbo, ma non può essere parafrasato da nessun altro verbo. E tanto basti, poiché qui è di nuovo solo della grammatica che per un po’ vogliamo occuparci e quindi possiamo rimandare a dopo la ripresa di altri temi decisivi, come quello del legame tra potenza sintetico-analitica del logos ed affermazione/negazione. A questo punto, allora, dopo esserci lasciati sviare così a lungo su un percorso che ci ha condotto a paragonare tre autori di cui forse non avremmo sospettato la vicinanza, se non altro tematica, delle trattazioni circa il verbo essere, torniamo a Moro e alla sua teoria delle frasi copulari, di cui esporremo solamente i risultati, evitando per quanto possibile di scendere nei dettagli tecnici del suo discorso. 157 Eravamo rimasti alla critica dell’equivoco russelliano, che anche per Moro è l’occasione per fare entrare in scena alcune questioni molto rilevanti dal punto di vista linguistico. Una di queste è quella relativa ai criteri che consentono la distinzione entro una frase del soggetto e del predicato. Tra i rivelatori grammaticali del predicato vi è il pronome clitico, che con il verbo essere non è mai flesso: «lo»174. «Santippe è una donna»: «Santippe lo è». Il che ci consente di identificare in «una donna» il predicato. Mettiamo subito alla prova questo criterio rispetto a «Edoardo VII è il re»: sì, in effetti «lo è». Ma se la frase significasse davvero: «è identico al re», avremmo invece: «gli è identico», dove «gli» non è più un predicato, poiché il predicato è «identico»175. Il criterio dunque funziona e conferma quanto abbiamo sinora detto, il che induce Moro a rompere gli indugi e sostenere che una frase del genere non può mai essere un’identità. La domanda che, però, diviene a questo punto pertinente, è se il sintagma nominale che segue la copula debba anche essere sempre un predicato e non possa invece avere una funzione referenziale176. Ma a questa domanda abbiamo già risposto: è del tutto evidente che nella realizzazione dell’enunciato linguistico il predicato può anche precedere e non debba solamente seguire la copula, come avviene in «Edoardo VII è il re, non Filippo V». Purché vi sia un predicato detto di un soggetto, insomma, quale che sia e dove pur sia, vi è anche un’asserzione. Se però si ritiene 1) che il soggetto possa essere solo in posizione preverbale, oppure 2) che i nomi propri possano essere solo il soggetto, la possibilità di leggere così quella frase deve essere negata, e poiché naturalmente la si può intendere anche così, è lo stesso «linguaggio naturale» a dover essere emendato. Ma noi naturalmente preferiamo emendare le teorie che ne impongono l’emendazione. 174 A. Moro, Breve storia..., pp. 74 ss. Se dicessimo di nuovo «Edoardo VII lo è», «lo» starebbe questa volta per: «identico al re», che dunque diverrebbe nella sua interezza il predicato (così come avviene in «è il re» secondo l’indicazione abelardiana di intendere copula e predicato nominale come un’unità). Anche così, però, non vi sarebbe più identità, poiché non avremmo più il secondo termine referenziale (che invece rimane in «gli è identico», dove «gli» si dà il caso che in italiano sia proprio un complemento di termine). 176 Ivi, pp. 79 ss. 175 158 La questione, però, anche per Moro non si può risolvere semplicemente così: è evidente, linguisticamente, che parlare di identità nel caso della copula è un equivoco, ma anche qui – vale a dire sul piano sintattico e non solo su quello semantico – vanno chiarite le sue buone ragioni, poiché ve ne sono. Partiamo direttamente dal risultato dell’analisi della struttura della frase cui giunge la grammatica generativa: la frase è un sintagma flessivo, vale a dire la composizione – o più letteralmente il co-ordinamento – di due sintagmi intorno ad un nucleo, detto «testa», che è appunto costituito dalla flessione del verbo, dal tempo. I due sintagmi sono poi «ordinati insieme», e dunque uniti, in maniera asimmetrica, da cui la distinzione tra soggetto e predicato. Anche una frase a due soli elementi, con verbi semanticamente pieni, come «Teeteto siede», è dunque formalizzata così: [SN [T [SV]]]. Il sintagma nominale (SN) in posizione «alta» è il soggetto, quello verbale (SV) immediatamente adiacente alla testa (T, che sta per «tempo») è la parte nominale del verbo e dunque il predicato. Nel caso della copula, anche il secondo sintagma è nominale: SN [T SN]177. La cosa più importante da notare subito è che questa struttura è tridimensionale ed è proprio sulla tridimensionalità che si fonda la sua asimmetria: mentre la testa e il sintagma predicato sono su uno stesso piano, il sintagma soggetto è su un piano superiore, naturalmente rispetto ad uno spazio astratto. Ma le frasi che noi pronunciamo sono sequenze lineari, vale a dire a due sole dimensioni: la parole si dispongono una dopo l’altra, sono tutte adiacenti, non vi è alcuna posizione «alta» e l’ordine è solo quello del prima e del poi. Questo scarto è determinato da vincoli biologici, anzi ancor meglio dai vincoli del medium sonoro che originariamente veicola il discorso: a differenza di ciò che avviene con la vista, organo eminentemente «teoretico» che permette il coglimento di un ordine tridimensionale tramite un’unica percezione, «sinotticamente», l’udito ricostruisce una forma solo a posteriori, a partire dalla successione dei suoi costituenti178. Da questo punto di vista, sarebbe il medium ottico il più adatto ad accogliere forme tridimensionali, per 177 Adotto subito un’annotazione semplificata, per non appesantire il testo di formule, che userò nella maniera più parca possibile. 178 Cfr. H. Jonas, Organismo e libertà. Verso una biologia filosofica, a cura di P. Becchi, Einaudi, Torino 1999, pp. 179 ss. 159 quanto astratte, come quella della frase, ma si dà il caso che i viventi che siamo non sono in grado di proiettare immagini: al privilegio della vista, che rimane il nostro organo primario di orientamento, fa da contraltare la sua passività. Per tutta una serie di ragioni legate all’evoluzione filogenetica dell’uomo, ragioni che purtroppo non possiamo vedere qui da più vicino, in un’epoca coeva a quella dell’emergenza della tecnica l’espressività vocale è stata messa al servizio esattamente della proiezione vicaria di forme, e innanzitutto proprio del gesto tecnico, che dal canto suo produce in effetti enti tridimensionali179. Il linguaggio, insomma, si presenta come elemento funzionale di un nesso più ampio, che coinvolge essenzialmente la vista, la parola e la mano – e limitiamoci per ora a dire solo questo180. Ciò a cui conduce tale fenomeno – e dal punto di vista genealogico è essenziale comprendere che si tratta del risultato e non della premessa181! – è la soluzione di un problema analogo a quello che ci si presenta quando vogliamo rendere entro un medium a due dimensioni una forma (almeno) tridimensionale. Un po’ come quando riproduciamo graficamente su un foglio di carta le figure di solidi geometrici: dobbiamo 179 Cfr. al riguardo N. Russo, Genealogia del linguaggio, in “Sistemi linguistici” 1/2012: Interdit. Essays on the origin of language(s), a cura di M. Castagna, Édition du Cirrmi, Paris, passim e in particolare le pp. 194 ss. Da tale prospettiva, il privilegio della fonia sulla scrittura è inscritto nella nostra biologia e non nella metafisica (ma anche qui andrebbe forse detto che pure la nostra biologia è in qualche modo metafisica...): se è vero che le forme più arcaiche di scrittura sono ideogrammatiche, e che quindi si fa in esse evidente il tentativo di rendere il discorso sul piano delle immagini, è pur vero che tale tentativo avviene estremamente tardi rispetto all’esercizio di linearizzazione vocale, in cui si erano cristallizzate le forme sintattiche. Il prevalere della scrittura alfabetica può essere così inteso non nei termini della maggiore astrattezza, ma al contrario proprio della maggiore concretezza: le immagini non sono in grado di riprodurre le strutture sintattiche, ma solo gli elementi da esse connessi, mentre la scrittura alfabetica riproduce meglio l’ordine vocale del discorso e quindi l’ordine linearizzato della sintassi. 180 Rispetto a tale strategia argomentativa, che affronta la questione in termini genealogici, Moro procede in una direzione diversa – ma non incompatibile –, cercando lo spazio tridimensionale del discorso a livello neurologico (cfr. A. Moro, I confini di Babele, Il Mulino, Bologna 2015). Sarebbe forse auspicabile un’integrazione dei due punti di vista. 181 Il che non contraddice necessariamente quel che nota Moro (Breve storia..., cit., p. 284) rispetto al “salto” che avviene con la nascita della sintassi. 160 trovare degli escamotage per poterlo fare, introducendo una certa distorsione dell’immagine, per poterla proiettare, ed elementi connettivi che non le appartengono, ma che in qualche modo alludono a ciò che di quella forma non può essere riprodotto su un piano. Il grande enigma della sintassi, la sua “innaturalità”, singolarità e per certi versi inutilità182 etc., può essere dunque compreso proprio a partire dalla risoluzione di questo scarto, ossia dai modi in cui un ordine lineare può tradurre un ordine superiore. Il che avviene grazie alla struttura asimmetrica della frase, che spezza la linearità indifferente ponendo vincoli alla produzione di una sequenza ordinata, come le “restrizioni di località”183. E con ciò torniamo direttamente al nostro problema più immediato, poiché “l’asimmetria tra i due SN che si combinano con il V viene tradizionalmente spiegata da una condizione generale di località secondo la quale si può muovere un elemento solo da un SN che sia adiacente a un V, cioè immediatamente collegato con un V. In termini formali, infatti, l’SN oggetto è adiacente a un V (cioè [V SN]), mentre l’SN soggetto è adiacente a un SV (cioè [SN SV])”184. Formalizzazione che rende molto bene tutta una serie di tratti che abbiamo già incontrato discutendo della copula, per esempio l’annotazione abelardiana circa il fatto che copula e predicato nominale possono essere intesi come un’unità (T SN = SV), che si aggiunge al soggetto: e così torniamo a SN [T SN], che sarebbe la vera struttura di ogni congiunzione tra soggetto e predicato (SN SV). Generalizzazione semplice ed elegante, che la grammatica generativa vuole valida per tutte le lingue, che posseggano o no il verbo essere, e quindi per il linguaggio in generale. A partire da essa, è però chiaro che l’identificazione di soggetto e predicato dovrebbe poter avvenire in ogni circostanza a partire dalla considerazione della sola struttura sintattica, poiché è intorno alla sua asimmetria che vengono assegnati i ruoli. E da ciò l’importanza di definire rigorosamente i criteri linguistici della loro identificazione – parafrasando Russell, potremmo dire «intrinsecamente e sintatticamente»185. Ma 182 Ivi, p. 286: “le strutture (sintattiche) del codice sono totalmente immotivate: non c’è un solo aspetto della grammatica che si possa dire funzionale alla comunicazione”. Tesi che trovo genealogicamente del tutto ineccepibile. 183 Ivi, pp. 141 ss. 184 Ivi, p. 147. 185 Cfr. ivi, pp. 89 s., dove Moro rimanda a Otto Jaspersen e al suo tentativo di formalizzare un criterio di identificazione del soggetto – e così anche del 161 naturalmente il verbo essere deve anche in questo caso mettersi di traverso. Tralasciamo il lungo discorso preparatorio di Moro e andiamo direttamente ai suoi risultati: nelle frasi copulari, almeno in alcuni casi, non valgono più né l’assunto che soggetto e predicato debbano occupare posti fissi, né di conseguenza le restrizioni di località. Ma questo vuole forse dire che si tratta di strutture simmetriche? Apparentemente è così, giacché tanti dei problemi di interpretazione della struttura delle copulari derivano dal fatto che, nella loro forma fonologicamente realizzata e dunque lineare, di frequente possiamo invertire i due sintagmi che le compongono, ottenendo due frasi a prima vista equivalenti: «Edoardo VII è il re» e «il re è Edoardo VII». Assunto però che siano equivalenti, o entrambi i sintagmi sono soggetti e torniamo all’identità di Russell, oppure non abbiamo un criterio per stabilire in maniera univoca quale sia il soggetto. Infatti, anche manipolando le due frasi – che in questa forma così elementare sono effettivamente refrattarie alla diagnosi – e sottoponendole poi ai vari parametri e criteri di identificazione del soggetto o del predicato – l’accordo con il verbo, l’estrazione dei clitici o di materiale dal sintagma postverbale, l’interpretazione dei pronomi, etc.186 – i risultati che si ottengono sono sistematicamente contraddittori. Ma è proprio su questa contraddittorietà che Moro fa leva, per proporre la sua soluzione: avessimo infatti senz’altro sempre una struttura simmetrica, potremmo ammettere che la copula è un’eccezione rispetto alle frasi normali, ma un’eccezione può valere come principio di spiegazione, per quanto temporaneo, comunque solo se presenta una qualche regolarità in se stessa. E, in effetti, Moro una regolarità la trova, ma tale da confermare una peculiare struttura asimmetrica delle copulari, che dunque in questo senso non fanno affatto eccezione, ma anzi offrono un campo privilegiato di osservazione, a partire dal quale rivedere la forma predicato – “a prescindere da considerazioni logiche (o ontologiche)”, bensì “solo in connessione con il resto della frase nella sua forma attuale”. E rispetto a Chomsky, più avanti afferma che “l’individuazione di soggetto e predicato come elementi di base della frase, associati in questo caso a precise configurazioni sintattiche, rimane uno dei dogmi fondamentali della teoria della sintassi” (ivi, p. 162). 186 Cfr. ivi, pp. 173 ss. 162 complessiva della frase. Concentrandosi proprio sulla restrizione di località, infatti, Moro rileva che le proprietà strutturali variano se scambiamo i due SN: le due frasi copulari, nelle coppie grammaticalmente simmetriche sufficientemente articolate da poter essere sottoposte a tale indagine187, si comportano regolarmente l’una in aderenza al criterio, l’altra ledendolo. Il che significa semplicemente che nelle copulari “inverse” il soggetto è il sintagma postverbale (e ovviamente quello preverbale è il predicato). Da questo punto di vista, se la frase è troppo ridotta per poterla riconoscere come canonica o inversa, evidentemente non si tratta di una sola frase, ma di due, entrambe interpretabili e diverse tra loro, poiché diverso è ciò che vi viene predicato188. Come avviene esattamente rispetto alla nostra frase esemplare, che è oggettivamente ambigua: in «Edoardo VII è il re» non sappiamo univocamente chi è il soggetto e neanche nella sua inversa, sono entrambe interpretabili in maniera duplice e dunque anche la coppia può essere equivalente oppure no. Il che dimostra, sia ribadito incidentalmente, che a dispetto della sua forma dichiarativa quella è una frase compiuta e definita solo entro il contesto pragmatico concreto in cui è pronunciata, contesto che scioglie l’ambiguità: «Edoardo VII è il re» contiene due risposte diverse – e quindi due soggetti diversi e ovviamente due proposizioni diverse – a due domande diverse: «chi è Edoardo VII?» e «chi è il re?». La simmetria grammaticale che talora si mostra nelle copulari, dunque, è tale solo sul piano bidimensionale della proposizione, ma la struttura profonda rimane asimmetrica, di un’asimmetria però più flessibile189. Nella formulazione standard, infatti, il sintagma nomi187 A p. 210 Moro nota che quando la sequenza contiene troppe poche informazioni – il che in sostanza è dovuto anche al fatto che il verbo essere è vuoto semanticamente – “non è riconducibile a un’unica struttura”. 188 Cfr. ivi, p. 205: “a partire dalla formula di struttura di base valida per le frasi con il verbo essere (cioè: [– [T [SN SN]]]) possiamo derivare non una, ma due strutture, una dove si solleva il soggetto, che chiameremo «frase copulare canonica» perché rappresenta l’opzione già riconosciuta da tempo, e una dove si solleva invece il predicato, che chiameremo «frase copulare inversa»”. Per la struttura “a sollevamento”, vedi ivi, pp. 173 ss. Più avanti, p. 239, Moro afferma poi chiaramente che “le due frasi hanno un contenuto informativo totalmente diverso”. 189 Cfr. ivi, p. 208: “questa duplice derivazione lascia ben sperare nel tentativo di decifrare l’anomalia delle frasi copulari: la sequenza SN V SN delle due frasi copulari si presenta infatti in due varianti asimmetriche, dopo l’applicazione del movimento di SN”. 163 nale preverbale doveva essere il soggetto, nella riformulazione di Moro è richiesto solamente che sia un sintagma nominale, il che “lascia immediatamente ai predicati nominali la possibilità di comparire in questa posizione, essendo, ovviamente, anch’essi SN a tutti gli effetti”190. E così la considerazione della sintassi del verbo essere si ripercuote nella revisione della struttura della frase in generale. Al di là degli aspetti più tecnici, quali conseguenze comporta la proposta di Moro? Nominiamo solo quelle che più ci riguardano e innanzitutto cominciamo col chiudere definitivamente un conto: “Questa doppia struttura rende in qualche modo giustizia della preoccupazione di Russell, sia pure smontandone l’essenza: non ci sono due verbi essere; il verbo essere è sempre lo stesso, anche se l’SN che segue il verbo essere può essere referenziale (cioè non deve essere necessariamente predicativo), ma solo a condizione che un SN predicativo sia stato sollevato nella posizione tradizionalmente assegnata al soggetto”191. Che è precisamente quel che avevamo già notato a partire da un modo argomentativo diverso. Inoltre, “la teoria unificata delle frasi copulari mostra che i nomi propri possono funzionare anche da predicati”192, tesi che abbiamo già sostenuto e che ha effetti dirompenti su tutte le teorie alla Kripke. Ancora: il cosiddetto soggetto sottinteso o nullo in alcuni casi è in effetti un predicato nullo, il che è estremamente notevole, poiché indica che la struttura può rimanere predicativa, anche senza una determinazione esplicita del predicato. Il che, peraltro, avviene anche interpretando il «chi» che compare per esempio in: «chi sei?» – interpretazione necessaria in questo contesto formale e anche plausibile intuitivamente – come “predicato interrogativo”; e lo stesso Moro sottolinea che questa è una conclusione “particolarmente interessante, perché mostra che il ruolo di predicato non è riservato agli elementi lessicalmente pieni […], ma può benissimo applicarsi agli operatori”193. 190 Ivi, p. 205. Ivi, p. 208. 192 Ivi, pp. 212 s. 193 Ivi, p. 215. Questo spiega anche la differenza tra le due frasi: «sono io» – che è interpretabile come «pro sono io», ovvero con un predicato nullo preverbale, e «io sono», che invece è ellittica, poiché manca semplicemente il predicato (il pro può essere solo preverbale). Detto, diciamo così, all’orecchio di Fichte. 191 164 Ancor più importante, la teoria di Moro spiega perché il verbo essere “non è necessariamente presente anche nelle lingue che ce l’hanno”, poiché mostra che l’alternativa tra l’espressione esplicita del verbo o la sua assenza si gioca esattamente nella differenza tra copulari canoniche e inverse, dove nelle inverse il verbo è sempre necessario, poiché quando “il predicato scavalca il soggetto, occorre che sia messa a disposizione una posizione dove il movimento possa terminare e questa viene fornita dall’inserimento del verbo essere che porta con sé una posizione di specificatore libera”. Ma da ciò si deduce una conseguenza ancora più generale: “l’ipotesi che il verbo essere abbia solo il ruolo di fornire una posizione dove far terminare il movimento del predicato implica che tale ruolo non debba essere necessariamente svolto da un verbo”, e così ci si spiega anche le lingue che non lo hanno affatto, ma lo suppliscono con altre parti del discorso. La controprova è che tali parti – come per esempio il pronome che viene usato in ebraico e che pure non è sempre obbligatorio, ma solo nelle inverse – si comportano allo stesso modo, come di fatto avviene194. In ultimo, Moro affronta e dedica molto spazio alle ricadute delle sue tesi sull’interpretazione delle esistenziali, scrivendo in chiave introduttiva una frase che, almeno di per sé, piacerà senz’altro agli heideggeriani, ma forse solo finché non capiranno a cosa prelude: “è curioso, ma questa singola sillaba – ci – ha un ruolo determinante in tutta la costruzione della teoria unificata, anche perché in nessuno dei lavori precedenti si era tentato di render conto dell’anomalia delle frasi copulari insieme alle proprietà di quelle esistenziali”195. In questione è dunque il verbo «esserci», ma a rigori non esiste affatto un verbo «esserci», è sempre di «essere» che si tratta, cui si aggiunge il misterioso «ci», il quale in effetti non è per nulla misterioso, poiché è lo stesso «ci» che altrove funge da particella di luogo (come in «ci vengo», insomma, ossia «vengo lì»). Detta così, sembra una constatazione del tutto banale, e in realtà ho sempre ri- 194 Cfr. ivi, pp. 216 s. La spiegazione è forse poco intuitiva, poiché molto tecnica, ma estremamente convincente dal punto di vista linguistico. E dimostra che in ogni lingua il ruolo del verbo essere, come che sia supplito, è quello di una testa funzionale vuota che funge da fulcro della predicazione. 195 Ivi, p. 219. Ma vedi anche la trattazione precedente alle pp. 188 ss. 165 tenuto che fosse qualcosa di banale e ovvio, ma contro una simile lettura c’è gran parte della tradizione linguistica e molta filosofia. Eh sì, perché, sia detto sin da subito, l’interpretazione delle frasi con «esserci» nei termini grammaticali di una sottoclasse delle locative, dà il colpo di grazia a qualsiasi tentazione residua di intendere «essere» in senso esistenziale. Dal punto di vista linguistico l’interpretazione tradizionale, che è ancora viva nelle nostre scuole, era in qualche modo obbligata a partire dagli assunti già messi in mora da Moro, e innanzitutto la posizione preverbale del soggetto: «ci», in espressioni come «c’è...», non poteva che essere interpretato come soggetto espletivo. Ma in tal modo una frase come «ci sono infiniti numeri» o appare come priva di predicato196 o ci obbliga ad assumere di nuovo «essere» come predicato, e chiaramente come un predicato esistenziale197. La soluzione, semplice dal punto di vista intuitivo, ma complessa da quello di una linguistica che vuole essere formalmente valida per tutte le lingue198, è vedere che «ci» non è affatto un soggetto, bensì il predicato: “la proposta che suggerisco è di ribaltare completamente l’analisi tradizionale delle frasi esistenziali e ammettere che elementi come ci e there non siano espletivi del soggetto, ma espletivi del predicato o, in termini tecnici, che le frasi esistenziali siano un caso particolare della classe più generale delle frasi copulari inverse”199. 196 Come Moro nota esplicitamente, ivi, p. 221. Moro si limita a notare che la corrispondente struttura a sollevamento, posto il «ci» come soggetto espletivo, sarebbe “infiniti numeri sono”, frase, dice, “che certamente non è grammaticale”, se non si ritiene appunto che «essere» possa significare «esistere». Ma si tratterebbe comunque di un’interpretazione forzata e innaturale, poiché evidentemente nella nostra lingua «infiniti numeri sono» è una frase incompleta e poco interpretabile. D’altro canto, nella sua forma canonicamente esistenziale: «ci sono infiniti numeri», un’interpretazione di quel tipo attribuirebbe al «ci» valore referenziale, ma giustamente Moro nota che non si capisce bene come lo si possa interpretare così (ivi, p. 225). 198 Non possiamo qui dilungarci ulteriormente sui dettagli tecnici (per i quali si veda ivi, pp. 221 ss.), ma va detto che la teoria unificata del verbo essere risolve brillantemente tutti i problemi dell’interpretazione invalsa. 199 Ivi, pp. 222 s. Naturalmente, nelle lingue in cui il verbo «essere» può avere da solo valore esistenziale, tale teoria prevede, e formalizza coerentemente, un pro predicativo (ossia un «ci» sottinteso, per dirla in termini più semplici). 197 166 Anche in «esserci», dunque, «essere» non è altro che la copula, tramite cui viene affermato il predicato «ci» in funzione di pronome clitico di luogo indefinito. In qualità di pronome, il ci può essere poi riempito da un eventuale predicato aggiunto: l’esempio di Moro è «c’è Giovanni in giardino», ma lo stesso dicasi per «c’era una volta un re», poiché è evidente che la localizzazione può ben essere temporale e non solamente spaziale. Considerazione estendibile anche ad altri luoghi astratti o noetici, e che mi pare risolutiva circa un’ambiguità residua in Moro200, che continua a distinguere, in relazione ai vari elementi eventualmente presenti in una proposizione, l’uso di «esserci» come locativo da quello strettamente esistenziale – che in tal modo risulta poi essere proprio quello che esistenziale non è per nulla. Infatti afferma che se in «c’è Giovanni» è possibile solo l’interpretazione locativa, frasi esistenziali come «ci sono molti numeri primi» sono interpretabili assumendo come “vero predicato” «molti» e sono dunque riducibili a «i numeri primi sono molti», dove dell’esistenza non c’è più traccia201. Il che non mi pare neanche semanticamente corretto: la seconda frase è implicata dalla prima, non è il suo equivalente. Giacché non è vero che qui “l’elemento ci, effettivamente, non sembra contribuire in modo cruciale al significato della frase, tant’è che nella parafrasi possiamo ignorarlo”. Il «ci» continua, infatti, ad essere il vero “vero predicato” e a significare «da qualche parte»202. E se questa parte non è specificata nel seguito del- 200 Che in qualche modo ne è consapevole, poiché nell’introdurre il discorso “sul versante interpretativo” nota che produce risultati “meno stabili” (ivi, p. 231). 201 Cfr. ivi, pp. 232 s.: “Potremmo dunque definire, in prima approssimazione, una frase esistenziale come il minimo costrutto sintattico dove un elemento prenominale (molti) si trasforma in predicato del nome al quale si riferisce […]: una frase esistenziale è, per così dire, un meccanismo di «spezzamento» che spacca l’SN per costruire una struttura predicativa […]. Una frase come c’è Giovanni non è certamente interpretabile come una frase esistenziale: in altri termini l’elemento ci viene interpretato come unico predicato, non essendoci all’interno dell’SN soggetto alcun elemento che possa svolgere quella funzione e l’unica lettura possibile è quella locativa”. Ma proprio questo dovrebbe essere rivelativo: se la forma minima di una frase tecnicamente esistenziale è una locativa, le esistenziali sono locative. 202 La cosa è più chiara se prendiamo una frase comunicativamente più plausibile, come «c’è un bel gatto», che ovviamente non vuole informare chi 167 la frase, come lo è in «ci sono molti numeri primi in questo codice», allora rimane indefinita e può alludere all’intero genere del soggetto (ci: «entro i numeri naturali») o ancora più ampiamente può continuare a predicare semplicemente «ovechessia». Il «ci», come pronome indefinito di luogo, si mostra così come l’analogo predicativo posizionale del τι, del qualcosa, giacché preso a se stante vale come: «in un qualdove»203, e sarà a partire da ciò che potremo approfondire il nesso tra essere ed esistere. Tenendo fermo ciò, è ad ogni modo chiaro che le esistenziali sono a tutti gli effetti locative, purché il luogo non vada inteso in senso esclusivamente spaziale. Cosa che, in fondo, lo stesso Moro ha già sostenuto chiaramente: “il verbo essere non ha di per sé un valore predicativo esistenziale: semplicemente c’è un predicato sottinteso, che si può esprimere con ci. D’altronde l’uso di un predicato locativo per esprimere l’esistenza non dovrebbe stupire. Non è forse vero che l’etimologia di esistere contiene il verbo latino sistere, forma causativa di stare, cioè «esser posto in un luogo» (ek-sistere)?”. Dove è anche per lui chiaro che può ben trattarsi di un “luogo astratto”204. L’etimologia che propone, poi, è anche notevole, poiché sottolinea che si tratta di una forma causativa: non semplicemente trovarsi in un luogo, bensì l’esservi posto. L’esistere, dunque, anche linguisticamente, pare aver a che fare con qualcosa come una posizione, termine che è intrinsecamente ambiguo: è sia la collocazione, l’essere dell’ente insieme al proprio luogo, che l’atto del deporvelo205. l’ascolta che «il gatto è bello», ma proprio che c’è: nel luogo che il contesto pragmatico rende evidente. 203 In italiano la parola manca, ma in tante altre lingue no: in tedesco c’è «irgendwo» e in greco l’ancora più ampio ποῦ, già incontrato nella Fisica di Aristotele e che oltre a «dove» intende anche «in qualche dove». Ma la lingua forse più ricca è il latino, che ha un gran numero di variazioni intorno alla radice «ali-»: citiamo solo «aliquid» (qualcosa) e «aliquo» (da qualche parte). La corrispondenza tra i due piani – cosale e locale – è ancora più chiara e netta ad un maggiore livello di determinazione, quando il qualcosa e il qualdove sono proprio questa cosa qui e questo luogo qui: «hic», un’unica parola che può valere sia come «questo», che come «qui». 204 Ivi, p. 51. Ma vedi anche p. 196. 205 Nella tradizione antica prevale il primo senso, la posizione come «essere in» (un luogo, un tempo...). Ma già nel latino «positio» è sottolineato più fortemente il senso attivo della θέσις. Nella filosofia tedesca, «positio» è stato 168 Da questo punto di vista, l’ultima tesi di Moro circa le frasi esistenziali –: che esse in realtà predichino non la posizione, bensì il determinante del soggetto –, per quanto non del tutto ammissibile, ha una spiegazione ontologica molto chiara: in qualsiasi posizione è già posta anche una qualche determinazione (con l’ente, ciò che esso è o almeno il suo esser-ente206), per cui se la determinazione è esplicita nella posizione (se è positiva...), allora la posizione è anche insieme quella specifica determinazione. Il che non toglie che la movenza logica del porre sia distinguibile da quella del determinare, per quanto in ogni porre sia almeno implicito un determinare e in ogni determinare un porre (la determinazione). E comunque tenendo presente che si tratta in entrambi i casi di una predicazione, e quindi di una sintesi-dieresi: nella posizione il soggetto è unito o separato da un certo luogo (che può essere anche uno «spazio di tempo» o noetico), nella determinazione da qualità più o meno essenziali207. È dunque la categoria del predicato a mutare, ma non la natura della predicazione. E ciò è già sufficiente a correggere l’idea che la posizione vanti comunque una priorità sulla determinazione, come si è voluto entro la tradizione filosofica che ha inteso l’essere, predicato assolutamente, appunto come posizione e ha ritenuto questo l’atto primo e primario dell’intelletto: «A è», nel senso di «A è posto», precederebbe e fonderebbe «A è A», «A è B» e ogni altro tipo di determinazione. Che è un esempio tipico di fallacia metafisica: una parte viene elevata al di sopra del tutto cui appartiene e preordinata ad esso come il suo fondamento essenziale. Poiché è evidente che l’esserconiato con «Position», intesa oramai non più come «Stellung», ma quasi solamente come «Setzung», l’atto del porre. 206 L’esser-ente, a rigori, non è una determinazione, ma comunque è l’indice di una qualche determinatezza. Il «qualcosa», che proprio per questo è il nome più puro dell’ente, è un che e dunque anche sempre un certo che, dove però la sua certezza non è determinata. 207 In questo contesto stiamo parlando del determinare in relazione esplicita al determinante del soggetto, nel senso proposto da Moro, e quindi secondo un’accezione più ristretta, il che autorizza senz’altro a distinguere il determinare dal porre. In senso più ampio, però, tale distinzione rientra: il porre è determinare rispetto al luogo, il determinare rispetto alle qualità del soggetto. Incidentalmente, proprio concepire il porre come una specie del determinare, consente di interpretare le locative senz’altro come frasi copulari a tutti gli effetti, interpretazione che trova sempre più esempi nei manuali di grammatica. 169 posto è un predicato particolare, solo uno tra tutti i predicati che si possono affermare o negare. E ritenere dunque la posizione come principio di ogni predicazione, significa non vedere che già la posizione è una predicazione. L’«essere», insomma, precede pur sempre l’«esserci», è questo quel che anche la linguistica ci ha mostrato. Asserire ciò equivale a negare che la posizione del soggetto sia davvero un atto tramite cui il soggetto è reso presente, viene alla presenza, è... Quella tesi, infatti, si può anche argomentare così: affinché sia possibile una qualsiasi predicazione, deve preliminarmente essere posto un soggetto, altrimenti il predicato non ha l’altro a cui potersi riferire, e da Aristotele sappiamo che il dirsi di altro è carattere costitutivo del predicato. Ma che questo esser-posto derivi da un atto originario del logos è un fraintendimento, non scevro da nostalgie teologiche: quando affermiamo l’esistenza di un soggetto non lo stiamo affatto ponendo assolutamente, solo l’intelletto divino ha una simile prerogativa, ma stiamo semplicemente aggiungendogli una determinazione locativa208. Il soggetto, insomma, come Russell diceva molto bene, anche per poter essere posto deve già essere ciò che è, o almeno deve già essere un qualcosa di essente. La posizione, dunque, non pone il soggetto, poiché solo se è già lo si può anche porre, bensì pone il soggetto in un qualche luogo: compone (sintetizza), o anche naturalmente separa, il τι dal suo που, e così ne dice la presenza o l’assenza: anche in questo caso, infatti, abbiamo a che fare con una coppia, che deriva naturalmente da quella di «essere e non essere» declinata posizionalmente. Ma se la posizione non pone il soggetto, bensì solo il suo luogo, il soggetto da dove viene? E vi è davvero un suo atto logico costitutivo? E se sì, di che natura? In Aristotele, come abbiamo accennato, è l’apprensione noetica immediata degli indivisibili ciò tramite cui si danno le unità semplici intorno a cui si esercita poi l’attività dianoetica di sintesi e dieresi. Apprensione intuitiva che c’è o non c’è e, se c’è, non può essere che vera. Il logos, dunque, non pone il soggetto, è piuttosto nel logos che si (im)pone il soggetto, se si dà contatto noetico: qui è l’unità reale della sostanza come ὑποκείμενον la condizione di possibilità dell’unità logica, il prima e sotto, il fondamento. 208 p. 199). 170 Questa non è una critica alla “posizione assoluta” di Kant (vedi infra, Se si ritiene, invece, che il rapporto sia inverso, vale a dire che ogni unità si fondi su una qualche unificazione del logos ed entro il logos, il quadro muta radicalmente e diviene particolarmente difficile parlare ancora di verità. Bisognerà infatti innanzitutto rendersi conto, che la costituzione di unità non può affatto essere un atto del logos, poiché il logos è attivo solo su unità già costituite. La costituzione deve precedere ogni atto, come la sua condizione di possibilità, deve essere dunque la costituzione della possibilità stessa dell’atto logico: non riguarda innanzitutto la cosa, bensì il logos. L’ipotesi dell’entità degli enti non è perciò un’azione del logos che si esercita su un materiale esterno – un po’ come continua a ritenere Lask parlando del sigillo teoretico posto dalla forma «essere» su una materia nuda logicamente209 – anche perché porre la cosa in tali termini ci vincolerebbe a pensare il «su cui» del logos come non-ente e non-uno, vale a dire ancora metafisicamente. L’ipotesi è piuttosto la costituzione dell’unità del logos stesso, ossia dell’unità del nesso ontologico. Né una posizione, né una determinazione, bensì la preistituzione della forma di ogni determinatezza, l’ipotesi del τι in quanto on. Sarà compito dei prossimi capitoli mettere sistematicamente a tema la natura dell’ipotesi e la struttura ontologica del qualcosa, ma le questioni sollevate in quest’ultimo paragrafo hanno reso imprescindibile allargare già da ora il discorso e cominciare a introdurre elementi nuovi, intorno ai quali bisognerà dire ancora altro. Nel concludere questo primo volume, infatti, è opportuno, sia per poterne apprezzare i risultati, sia per indicare la direzione verso cui si procederà oltre, tirare le somme e provare a vedere entro quali limiti ciò che abbiamo acquisito studiando la grammatica del verbo essere può servire a prefigurare l’analisi dell’entità degli enti, ma anche per quali ragioni non è sufficiente a portarla a termine. II.7 Sic et non A questo punto, però, alla grammatica in senso stretto non è lecito chiedere altro, quel che poteva dirci ce lo ha già detto, ed è anche più che sufficiente: l’essere non è nulla, né una cosa, né un con209 Cfr. E. Lask, La logica della filosofia, cit., pp. 35 ss., 49 ss., 69 ss. 171 cetto, a stento una parola, in realtà solo una forma sintattica, ossia di coordinamento e composizione, intrinsecamente duplice, scandita com’è dal sì e dal no. E questo rende ragione, dal punto di vista linguistico, di una delle prime asserzioni dell’ipotesi ontologica: l’essere non è, poiché l’essere si dice, è detto dal logos. E di certo non episodicamente o anche solo puntualmente, ma sempre: è il sempre già detto, ciò che non ha bisogno di essere affermato esplicitamente, né può esserlo, poiché è la condizione di ogni affermazione e negazione. È quindi il principio del dire e del pensare: il logos ha nell’essere l’espressione elementare della sua potenza sintetico-analitica, che unificando separa e separando unifica210. Questo tratto, che abbiamo chiamato funzione dicotomizzatrice della copula, è risultato essere il primo e più elementare, logicamente preliminare alla funzione temporalizzatrice e ancor più a quella locativa, che, a differenza della seconda, non è necessariamente implicata nel giudizio. Il tempo invece vi è sempre, ma bisognerà dire che vi è in modi diversi, per dare un senso più preciso all’alternativa tra ἁπλῶς e κατὰ χρόνον, e comunque solo dopo aver trattato della dicotomia a prescindere dal tempo e dallo spazio. Quel che vorrei sottolineare innanzitutto e porre con più forza di quanto non già fatto nelle pagine precedenti, è che la struttura originariamente logica dell’essere è la contraddizione: la coincidenza del sì e del no, che non sono affatto pensabili separatamente, l’uno a prescindere dall’altro. Anche facendo fulcro su uno dei due, infatti, il logos enuncia sempre anche l’altro, il no che accompagna il sì e il sì che accompagna il no: ogni determinazione è negazione, come si dice classicamente, ma d’altro canto ogni negazione è innanzitutto affermata. Ma perché mai dovrebbe trattarsi di contraddizione e non di una semplice coimplicazione? Non abbiamo già detto che il principio di non contraddizione esplica esattamente i vincoli di connessione tra affermazione e negazione, impedendo la loro coincidenza rispetto ad uno stesso ente sotto uno stesso riguardo e in uno stesso tempo? Ma appunto: per disinnescare la dicotomia originaria, bisogna tenere in conto non solo l’essere, ma anche l’ente, i suoi predicati e il tempo. Se rimaniamo, invece, sul piano del puro essere, abbiamo solo l’opposizione assoluta tra sì e no. 210 Da questo punto di vista, se è pur chiaro che l’essere non ha senso, si potrebbe però ancora dire che in qualche modo è l’organo di senso del logos. 172 Lo si può mostrare proprio tenendo presente che il principio di non contraddizione riguarda sempre due asserti differenti e opposti, contraddittori solo se realizzati insieme circa lo stesso, mentre con «essere» ne basta uno, non vi è la necessità di affermare e insieme negare per produrre la contraddizione, è sufficiente la negazione. Poniamo, per esempio, trascurando il tempo, una determinazione positiva qualunque, un ente predicato: «correre». Detto di un qualsiasi soggetto, e dunque ancora di un ente, lo qualifica come «essente corrente», determinazione che possiamo negare senza problemi e produrre senso: «essente non corrente». Solo presi insieme, «essente corrente» ed «essente non corrente» sono in contraddizione e non possono essere detti dello stesso. Ma con «essere» le cose cambiano, e proprio perché non è un predicato, non un ente. Se diciamo «essente essente», infatti, non aggiungiamo nulla, ma con «essente non essente» togliamo tutto. Nel primo caso a rigori non produciamo alcuna affermazione: che il soggetto sia un ente gli appartiene intrinsecamente, non c’è bisogno di affermarlo, anzi, in effetti non lo si può affatto affermare, poiché non lo si può negare211. È infatti chiaro che anche nel secondo caso non abbiamo una vera negazione, bensì la contraddizione immediata: non c’è bisogno di enunciare la seconda proposizione insieme alla prima, la negazione dell’entità dell’ente è già a se stante l’immediato collasso del logos. Che è poi un altro modo di asseverare l’interdetto parmenideo. Ed è quel che diceva ancora Russell, affermando che dire «A non è» è un non dire, poiché A non può che essere un’entità212. 211 Ancora Aristotele ci ha insegnato che ogni affermazione può essere negata, e viceversa (De int. 17a30s.), da cui segue che ciò di cui non vi è negazione, non è affermazione. 212 Corollario: non trattandosi né di una autentica affermazione, né di una autentica negazione, la tautologia e la contraddizione dell’essere a rigori non sono né vera, la prima, né falsa, la seconda. Il che si può anche capire facilmente, ricordando che qui di A non viene predicato nulla. Inoltre, rispetto al carattere immediato della contraddizione essenziale, che la differenzia dalle contraddizioni mediate che si realizzano in presenza di predicati autentici, si potrebbe obiettare che anche «corrente non corrente» è immediatamente contraddittoria. Ma è proprio rispetto a un’obiezione del genere che si mostra la potenza dell’uso sistematico della parafrasi aristotelica, che rende immediatamente esplicito l’implicito, senza alcun bisogno di speculare sul carattere «sostantivo» del verbo essere: in qualsiasi determinazione è già assunta la determinatezza essenziale del soggetto in quanto essente: «corrente non corrente» si- 173 Attenzione, però, per evitare di ritenere questo discorso sofistico o superficiale bisogna notare chiaramente che qui abbiamo già due elementi: l’ente e l’essere dell’ente, essere che stiamo dicendo intrinsecamente e immediatamente duplice. Ma in sé questa duplicità del sì e del no, vale a dire l’essere considerato a prescindere dall’ente di cui è detto, non genera alcun collasso, poiché il sì e il no da soli non affermano, né negano nulla: l’essere non ha significato, non è una determinazione e, come abbiamo cominciato a vedere, neppure una posizione. È un’unità funzionale polarizzata, che in sé dice tanto poco quanto dicono il sì e il no da soli. O meglio: è la coincidenza della funzione affermatrice e negatrice. In quanto funzioni, anzi in quanto i due versanti di un’unica funzione sintetico-analitica, affermazione e negazione coincidono immediatamente: il sì è no e il no è sì213. Su questo piano strutturale, insomma, la contraddizione in qualche modo non è detta, non è «dizione», è solo il puro «contra». Per rendere tale concetto senza complicazioni, anche storico-filosofiche, per rendere la differenza tra la contraddizione originaria nell’essere e le contraddizioni che si realizzano come giudizi, chiameremo la prima struttura antifatica dell’essere214. gnifica «essente corrente non essente corrente», che sono evidentemente due proposizioni, l’una affermativa e l’altra negativa. E a chi obiettasse ancora che ciò vale anche per «essente non essente», basterebbe ricordare quanto già considerato circa la ridondanza improduttiva della parafrasi infinita dell’essere. Che diviene immediatamente contraddizione con la semplice negazione: se poniamo anche solamente il verbo, senza riferirlo ad un soggetto: «non essente», abbiamo già «non essente essente», che non è affatto ridondante, ma è l’immediata interruzione del senso. 213 Non c’è bisogno di chiamare in causa la coincidentia oppositorum per cercare di rendere plausibile l’unità del sì e del no, basta una metafora semplice: una retta, che rimanendo un’unica direzione è insieme l’opposizione dei suoi due sensi. Ma, come si vedrà, anche questa metafora è riduttiva, poiché l’opposizione del sì e del no non è indifferente, i due opposti non si oppongono alla stressa maniera. 214 Anche la metafisica antica aveva rilevato l’antifasi dell’essere, ma più in termini ontici che ontologici: ogni determinazione vi è, infatti, pensata come grado particolare entro l’intervallo che si estende tra due opposti, ossia entro un genere, e già dalla testimonianza critica di Parmenide possiamo arguire che sin da molto presto si era pensato come genere sommo quello racchiuso tra on e me on. Lo sforzo di Platone e di Aristotele sarà di riportare l’opposizione entro il logos e in molti punti della loro opera sembra coronato da successo, ma lo sarà nella maniera più pura solo nella Logica di Hegel, che prende le mosse esattamente dal cuore dell’antifasi in quanto antifasi. 174 Ora, però, avendo posto l’unità e coincidenza di sì e no, andrà detto qualcosa circa la loro differenza, poiché è evidente che se non differissero non avrebbe senso affermarne il coincidere. Ma questa è solo una condizione logica elementare di predicabilità dell’unità (lo abbiamo già visto: ciò che è unito è per questo anche separato), che non ci dice ancora nulla sul tipo di differenza che qui è in ballo e che anzi potrebbe facilmente indurci a supporre una simmetria tra i due coincidenti, che di fatto non c’è o se c’è è sui generis. Il che rende tutta la situazione teorica molto particolare, poiché ci richiede di pensare un’opposizione assoluta e tuttavia asimmetrica215. Ma che almeno per certi versi sia proprio così si è già mostrato nella circostanza che il collasso del logos avviene solo con la contraddizione immediata nella negazione dell’entità degli enti, non con l’affermazione. Bisognerà per questo ritenere, con Aristotele e Russell, che l’affermazione è più originaria e pura rispetto alla negazione? In realtà è proprio il contrario, ma anche nell’asserire ciò bisogna procedere con cautela. Innanzitutto va precisato che cercare una priorità genetica tra i due è improprio: il sì e il no nascono insieme e con essi nasce il logos. E, in effetti, alle varie ragioni che si possono portare a favore della priorità dell’uno, ne corrispondono di altrettanto buone a favore di quella dell’altro. È vero, per esempio, che essere è innanzitutto essere così (sic) – determinatezza – e solo da ciò anche non non-così – diversità e autoidentità. Poiché anche negando diciamo il «così no»: dire no significa implicitamente dire sì al no216. Ma proprio da questo carattere, che farebbe propendere per la priorità del sì, si può trarre un argomento contrario ad essa: il sì è no sempre ulteriormente, il no è invece immediatamente sì. Voglio dire, che il no si aggiunge solo in seconda battuta al sì (così – e dunque non noncosì), ma questa aggiunta posteriore non dice l’inessenzialità del no, poiché è un’aggiunta necessaria e un’implicazione sempre valida, quanto piuttosto l’insufficienza del sì, che da solo non è no! Laddove nel no è invece già sempre intrinseco il sì. Tale differenza si fa ancora più evidente se teniamo presente la dimensione di alterità che viene sempre aperta dal «sì e no»: il no che 215 Situazione difficile, ma non proprio stramba: rispetto al pensiero dei pitagorici o anche di Cusano, la vera novità di Hegel è proprio ritenere la contraddizione produttiva di differenze, poiché già innervata di differenza. 216 Così Aristotele, An.Post. 25, 86b34ss.: “è per l’affermazione che la negazione è nota, e l’affermazione è anteriore, come anche l’essere lo è del non essere”. 175 si aggiunge al sì nega il non-così, vale a dire lo ἕτερον. «A è così e non altrimenti», «questo e non altro», «qui e non altrove»... ἕτερον senza il quale anche l’affermazione, contenendo immediatamente la negazione, porterebbe a una contraddizione: «questo e non questo». Ora, se è vero che il no contiene il sì non in aggiunta, ma già in sé, ciò non dovrà comportare anche una differenza circa i rapporti con l’alterità? Vale a dire: se il sì nega sempre l’altro, dovrà anche il no affermarlo sempre? Apparentemente sì, giacché possiamo tranquillamente seguire l’analogia e dire: «A è (sì) non così, bensì altrimenti», «non questo, bensì altro», «non qui, bensì altrove». Ma notiamo innanzitutto che l’«e» di «così e non altrimenti» è di nuovo un’affermazione diretta: «(sì) così e (sì) non altrimenti», per cui in un’affermazione ce ne sono sempre due (la seconda come affermazione di una doppia negazione: in essa viene evocata un’alterità e negata). Mentre nella negazione che stiamo considerando non è contenuta una seconda negazione, ma semmai un’affermazione: il «bensì», infatti, pur contenendo un elemento negativo (vale come «ma invece»), produce comunque un’affermazione (e quindi di nuovo due). Ma che sia un avversativo e non una semplice congiunzione è un indice chiaro della sua maggiore mediatezza: il «bensì altro» è un’aggiunta possibile, ma non stringentemente necessaria (non è un’implicazione logica) e questo in buona sostanza proprio per il fatto che il sì è già implicito nel primo no e quindi non deve necessariamente opporvisi anche in seconda battuta. Il «non questo», infatti, può preludere non solo a un «bensì», ma anch’esso ad un «e»: «non questo e non altro», niente... Dove è chiaro che l’alterità qui chiamata in causa non è affermata, ma questa volta negata! Nuova asimmetria217 aggravata – se così si può dire – dal fatto che il «nient’altro» non nega solo l’altro dal questo, solo uno ἕτερον, come avviene nell’affermazione, ma può ben negare assolutamente il qualcosa che il questo deve essere per poter essere: deve alludere al puro μὴ ὄν. La radice ultima dell’asimmetria tra sì e no non riposa, però, nella stessa struttura antifatica dell’essere, bensì nella struttura del217 Si potrebbe notare, però, che è anche possibile dire affermativamente: «questo e anche altro», e in tal modo ricomporre la simmetria. Ma non è corretto, poiché nell’ultima frase ci sono due affermazioni diverse, ognuna nella forma canonica: «questo e non altro e anche quest’altro e non non quest’altro»: le asserzioni sono dunque quattro, mentre nel caso analogo della negazione rimangono due: «Non questo e nessun questo». 176 l’entità dell’ente (da cui la prima deriva) e dunque sarà descrivibile in maniera compiuta solo a partire da essa. L’ipotesi ontologica – la cui teoria dimora consapevolmente nell’«oblio dell’essere» – non consiste infatti nell’antifasi originaria, ma ne pone le condizioni, non nell’essere dell’ente, ma nell’ente stesso. E questa è la ragione per la quale il discorso attuale può sì procedere ancora e mettere in luce tanti versanti della questione, ma non esaurirla, e soprattutto non può essere una vera e propria spiegazione, ma tutt’al più un’esemplificazione di ciò che deriva, sul piano dell’essere, dall’ipotesi. E, infatti, rimanendo qui su di un livello più strettamente logico e non compiutamente ontologico, l’articolazione dell’asimmetria tra sì e no produce una serie di capovolgimenti, che non consentono di identificarne definitivamente il principio, poiché semplicemente non è qui che si trova218. Ma vediamolo in breve, riprendendo più schematicamente i vari motivi già proposti. Il modo più immediato per esporre l’asimmetria è la constatazione che solo il no può generare da sé anche il sì, semplicemente duplicandosi, e sembra dunque riassumere in sé già entrambi i poli, mentre il sì non produce nulla, anche raddoppiato rimane in se stesso, è l’essente essente (essente...) che non è mai più dell’essente. Da questo punto di vista il primato del negativo è nella sua potenza di autoconvertirsi nel positivo senza chiamare in causa nient’altro, laddove il sì dice anche no non in riferimento a se stesso, ma sem218 In questa fase del discorso per qualche verso vale, circa il sì e il no, quel che Heidegger nota intorno all’“essenza ontologica del «non» in generale”: “L’ontologia e la logica hanno preteso molto dal «non» e, di conseguenza, hanno illustrato le sue possibilità sotto diversi riguardi, senza però giungere mai al disvelamento ontologico. L’ontologia trovò il «non» e ne fece uso. Ma è proprio evidente che ogni «non» significa una negatività nel senso di una deficienza? La sua positività si esaurisce nel costituire un «passaggio»? Perché ogni dialettica si rifugia nella negazione, senza essere in grado di fondarla proprio dialetticamente, o di procedere alla sua determinazione in quanto problema? È forse già stato posto il problema dell’origine ontologica della nullità o, in primo luogo, si è cercato almeno di stabilire le condizioni di possibilità del problema del «non», della sua essenza e della sua possibilità? E dove mai queste condizioni potranno essere reperite se non nella chiarificazione tematica del senso dell’Esserci in generale?” (Essere e tempo, cit., p. 346). Per ora anche noi abbiamo solo trovato il sì e il no, come inscritti nella copula quale codice elementare della dianoia. Il tentativo dovrà essere di rendere conto della loro origine ontologica nell’ipotesi del logos. Solo una volta compiuto il quadro, la negatività della metafisica e il primato del no emergeranno in tutta la loro figura. 177 pre rispetto ad altro. Il no, insomma, sembra sufficiente a dire anche sì, mentre il sì ha bisogno, per dirsi, del no. E se il no può anche dire «no e basta», il sì dice sempre insieme «sì e no». Verissimo, ma rimane lecito obiettare che il no in effetti non può generare da sé il sì a meno di non dire sì al suo no! Duplicazione dunque per nulla semplice, se senza la sua riaffermazione, il no non può raddoppiarsi nel sì del sì. Tant’è che anche il «no e basta», a differenza del «non questo» o «così» o «colì», non è una negazione determinata (e in tal senso comunque positiva), bensì una pura affermazione! Quando dico «no» io affermo il no, di certo non nego il sì. E così la sequenza logica diverrebbe un’altra: 1) Sì no: no – 2) no sì no: sì. E il sì tornerebbe ad apparire il primo, poiché solo «ponendo» il no, pone anche la possibilità di se stesso come non no (riponendosi, che è quasi un medio dello hegeliano «levandosi»)219. E in quanti altri modi potremmo continuare a ribaltare l’ordine di generazione? C’è un termine a questa fuga, una sintesi dialettica? O non rimaniamo piuttosto impigliati in una sorta di centrifuga: una macchina che sa caratterizzare il centro solo producendo un fuggi fuggi generale intorno ad esso?... In qualche modo è così, certo, ma proprio questo esser così ci mostra l’evidente: sì e no si rincorrono eternamente, e nessuno dei due «produce» l’altro, nessuno dei due è «posto», ma sono entrambi, semmai, ipotizzati e necessariamente insieme. E, tuttavia, entro un’asimmetria, rilevabile notando che, seppure non può valere autenticamente come principio genetico, il no è comunque più potente del sì e, per certi versi, anche più semplice220. Più potente, vale a dire più capace di generare differenze, ri219 Sempre circa l’asimmetria, Alessandro De Cesaris mi ricorda opportunamente anche la circostanza che, in termini logici, non c’è un operatore per l’affermazione, ma solo per la negazione, il che potrebbe avallare la tesi che l’affermazione è immediatezza, la negazione mediazione. A partire dal punto di vista qui sostenuto è però chiaro che nessuno dei due è immediato e, semmai, più il no che il sì, se è vero che solo con il no posso «scrivere» logicamente il sì. 220 Peraltro, anche da un punto di vista linguistico, ciò che per Moro caratterizza in maniera inequivocabile il linguaggio umano e lo differenzia da ogni forma di comunicatività animale, è proprio la negazione: “certo un animale può opporre un rifiuto, e in questo senso costruire una forma di negazione […], ma è l’aspetto formale della negazione che manca; in particolare, manca l’interazione tra negazione e ricorsività. Per quanto ci si possa sforzare a immaginare un’equivalente della negazione nelle comunicazioni animali, non sono a conoscenza di alcuno studio che evidenzi la possibilità di inter- 178 manendo nella sua semplicità. Ma riprendiamo le fila del discorso, poiché vi sono altri elementi importanti da farvi emergere. Nell’introdurre queste considerazioni, abbiamo distinto il piano logico, da quelli cronologico e locativo. Ma già il primo piano risulta in sé ulteriormente determinato. Innanzitutto vi è l’antifasi originaria, sì e no, unità asimmetrica dell’opposizione elementare: l’essere. Questa struttura comincia a diventare più complessa quando entra in scena l’ente di cui l’essere è, ovvero quando il sì e il no vengono effettivamente detti di qualcosa: in tale immediatezza del riferimento, però, l’essere dell’ente è il collasso del logos, che si realizza già nella semplice negazione, poiché il no è immediatamente anche sì221. Il sì e il no all’ente si configurano così come le due forme anpretazione ricorsiva di più negazioni nello stesso enunciato, cosa che invece è immediatamente disponibile nelle lingue umane. Per fare un esempio semplice, un essere umano non ha alcuna difficoltà a capire cosa significhi non credo di non farcela nel senso di «credo di farcela» dove le due negazioni si neutralizzano” (A. Moro, Breve storia..., cit., p. 272. Va tuttavia notato, che la doppia negazione non è sempre neutralizzata, proprio a causa della struttura asimmetrica dell’antifasi, e in particolare nei modali, ossia laddove essere è soggetto: se dico «non posso non dire», non sto dicendo «posso dire», ma «devo dire»!). Moro integra poi questa notazione molto significativa con una che lo è ancora di più: “esistono anche dati empirici per mostrare che le strutture del linguaggio non possono essere in ogni modo ricondotte totalmente a una sofisticata emancipazione da strutture di controllo motorio, pure ammettendo che queste ultime possono avere una struttura ricorsiva. In un recente studio [...] si è mostrato che nell’interpretare uno stesso gruppo di frasi d’azione espresse sia in polarità affermativa che in polarità negativa […], i circuiti motori associati all’interpretazione delle frasi d’azione vengono parzialmente inibiti nelle frasi negative. Questo dato ha conseguenze dirompenti: si conclude infatti che è la negazione che modula una parte del sistema di controllo motorio, non viceversa. Per comprendere bene questo fatto occorre rendere esplicito un punto: la negazione pertiene solamente al livello della pura rappresentazione linguistica del mondo, non è nel mondo. Non esistono, cioè, fatti negativi, ma solo (tutti gli) altri fatti che non sono quelli negati dalla nostra immaginazione o, se vogliamo mantenere il discorso a un livello neuropsicologico, non esistono fatti negativi che possano costituire stimoli sensoriali, ma solo fatti. Dunque, i dati sugli effetti della negazione nel cervello ci conducono ragionevolmente a concludere che esiste comunque un primato della grammatica sulle rappresentazioni” (ivi, pp. 270 s.). Il primato della negazione, insomma, sembra anche così derivare o essere connesso col fatto che non è nulla di reale, che è solo logos... 221 Il collasso del logos e, sia detto incidentalmente, anche il collasso della cosa, che proprio in quanto ente è sempre insieme affermata e negata. 179 cora solo germinali della tautologia e della contraddizione, potremmo dire la tautologia e la contraddizione essenziali, che in questa loro elementarità non sono propriamente né affermazione, né negazione, e dunque né vere né false. Affinché si diano affermazione e negazione, e così anche tautologia e contraddizione autentiche, e verità e falsità vere, è allora necessario che di qualcosa si affermi e si neghi qualcos’altro222. Che al soggetto si aggiunga il predicato, ma non solo, poiché l’alterità grazie a cui si disinnesca l’antifasi dell’essere si estende, soprattutto nell’affermazione, anche oltre le determinazioni del soggetto e del predicato. Di un che devo infatti dire il cosa, quale, come, dove..., ma anche il non-cosa... Solo in tal modo, vale a dire solo passando per la negazione dell’alterità, il soggetto è compiutamente identificato, nei suoi predicati, ed è se stesso. Questo movimento (logico) di complicazione, che dall’essere conduce al giudizio e all’implicazione (dal «sì e no», al «questo così e così», al «questo e non altro»), è del tutto necessario e per nulla esteriore, essendo semplicemente l’espressione compiuta di quanto già implicito nel sì e no. Ossia nella metafisica che inerisce alla grammatica dell’essere. Poiché è di questo che si tratta, se dalla semplice sintassi dell’antifasi derivano tutta una serie di concetti ontologico/metafisici, a partire dai κοινά del Teeteto, che poi rifluiscono in parte nei generi sommi del Sofista223. Per mostrarlo basta riprendere ed estendere quel che abbiamo già cominciato a vedere, ossia come nella struttura antifatica dell’essere siano già intrinsecamente previsti anche un terzo e poi un quarto elemento: all’essere e non essere, infatti, si aggiungono prima il diverso (il non-così) e poi l’identico (il non non-così). Lo ἕτερον, e poi il ταὐτόν, non sono dunque solo una buona trovata di Platone – che grazie ad essi cercava di fondare proprio la possibilità del vero e del falso –, bensì le implicazioni più elementari del (non)essere, che si danno lungo una conseguenza logicamente articolabile così: 1) no – 2) non no (sì) – 3) non sì (altro) – 4) non altro (identico)224. 222 Dove questo altro può ben essere lo stesso: vedi supra, pp. 128 ss., su A è A. E proprio in questo passaggio si realizza una traduzione metafisica delle prime articolazioni ontologiche. 224 Ne La cosa e l’ente (p. 53) ho chiamato queste articolazioni ontologiche elementari «categoriali», dizione che si può anche mantenere, purché ci si intenda circa ciò che indica. Tenendo, però, presente che «essere» non è una categoria, ma semmai κατηγορεῖ, e che questi «categoriali» non sono determina223 180 Questa struttura quadripartita, che è in sostanza la quadruplicazione di una negazione, è poi il fondamento ontologico della distinzione, che costantemente ritorna nella storia della metafisica e quasi sempre nei suoi momenti cruciali, tra l’in sé (ossia la cosa considerata nella sua identità con se stessa) e il per altro (la cosa nella sua diversità e relazione). Il suo luogo d’origine è il Parmenide di Platone225, dove l’esercizio dialettico è scandito esattamente così: se è, se non è; in riferimento a sé e in riferimento ad altro. La forma della domanda dialettica procede dunque dai quattro momenti strutturali dell’antifasi dell’essere e illumina immediatamente (poiché vi deriva) la struttura minima dell’entità dell’ente: lo ἓν ὄν come autoidentico differente. E dallo stesso schema di deduzione – affermazione e negazione, in sé e per altro –, Tommaso deriva l’analoga struttura dell’ens: essenza individua non altro da sé (res unum aliquid)226. E così siamo tornati a Tommaso, dalla cui indicazione che ens è detto a partire dall’actus essendi e non dai vari enti avevamo tratto la necessità della nostra indagine circa il significato di essere in ordine alla definizione in positivo di «ciò che è». Indagine che non ci ha consegnato alcuna determinazione univoca del senso di quell’actus, che senso non ha, ma solo la struttura della contraddizione quale potenza elementare del logos. E se dico potenza, è proprio per marcare la differenza dall’atto: non voglio dunque intendere semplicemente una facoltà, un potere, che in quanto tale potremmo anche non volere e non esercitare. Non vi è nulla di facoltativo nella potenza del logos, poiché la struttura antifatica, che naturalmente regge anche la facoltà puntuale di affermare e negare, è prima di zioni delle categorie, ma qualcosa di antecedente e di diverso da esse, andrebbe forse trovato un nome diverso. 225 Cfr. Parm. 135e8ss. Nel Sofista (252c2ss.) troviamo poi l’indicazione precisa di questa specificazione dei κοινά nella tetrade: εἶναι, χωρίς, τῶν ἄλλων e καθ’ἁυτό. Che in qualche modo sono le sinapsi del logos, gli elementi connettivi di cui non può fare a meno. 226 L’argomento di questi ultimi paragrafi, oltre ad essere stato in parte già esposto ne La cosa e l’ente, verrà trattato in maniera tematica ed ampia nel prossimo capitolo dell’Ipotesi ontologica, e dunque nel secondo volume. Per questa ragione qui, dove la sua introduzione ha uno scopo definito e più delimitato, possiamo limitarci a pochi accenni molto schematici. Nell’ottica della struttura dell’entità dell’ente, infatti, la scansione è più dettagliata: sì e no, per fare solo un esempio, sono la duplicità coniugata dell’ente; in sé e per altro la duplicità coniugata dell’uno. 181 ogni facoltà, è la condizione preliminare, ineliminabile e dunque necessaria di ogni atto logico. Necessità che porta con sé un’altra necessità: quella di poter affermare solo al costo di negare, e di poter volgerci all’in sé solo a partire dall’altro. La cosa è per noi positiva –: posta – solo per negazione. Come avviene eminentemente proprio quando affermiamo l’esistenza, ovvero quel che apparentemente è il più immediato e positivo. Ma andiamo con ordine, per quanto il più speditamente possibile, e aggiungiamo qualcosa sul secondo momento funzionale individuato nella copula, anche per mostrarne la pregnanza metafisica rispetto alla verticalizzazione dei gradi dell’essere. Si tratta della temporalizzazione, che per quanto sempre compresente nel sì e nel no, è tuttavia con essi in un rapporto di posteriorità essenziale. Infatti, senza il non essere e l’essere, il diverso e l’identico, non potremmo neanche scandire alcuna differenza temporale, l’essere o non essere in un tempo, in tempi diversi o nello stesso tempo: tutti i rapporti di contemporaneità e successione richiedono già il «questo e non altro». Anche rispetto al tempo, insomma, si può dire, per quanto con più cautela, quel che dicevamo prima rispetto all’esserci: l’essere (come sì e no) precede comunque l’è e il fu e il sarà. II.8 L’ora e il sempre Leggendo Aristotele abbiamo visto come egli distingua tra l’uso semplice di «essere» e quello secondo il tempo, ma Abelardo notava che anche l’uso semplice è temporalizzato, e propriamente presentialiter, primato della presenza su cui è superfluo dire quanto abbia insistito Heidegger. Ma la differenza aristotelica non è per questo semplicemente annullata, e forse in realtà neanche compresa, poiché anche la presenza/assenza, cui in qualche modo si può pur ricondurre lo ὑπάρχειν ἢ μή, può essere intesa in un senso cronologicamente determinato oppure in un senso temporale assoluto. Tale differenza è interpretata da Aristotele, nel V libro della Fisica, come la differenza tra essere nel tempo o non essere nel tempo, di ciò che è e di ciò che non è. Egli non parla dunque di un senso temporale assoluto, ma di «non essere nel tempo» (cronologicamente determinato), dove però questo non essere nel tempo è proprio di ciò che è «sempre» o «mai», che sono evidentemente di nuovo determinazioni temporali, per quanto sui generis. Per questo preferisco 182 distinguere tra un tempo cronologicamente determinato (quello dell’essere «nel» tempo) e uno assoluto (non essere nel tempo)227. Ora, va prestata particolare attenzione al fatto che sia gli enti che i non enti possono essere o non essere nel tempo: Aristotele non dice che ciò che è nel tempo è, e che ciò che non è nel tempo non è, bensì che sia fuori che dentro il tempo vi sono enti e non enti. E questo già consente un primo chiarimento circa la distinzione tra ἁπλῶς e κατὰ χρόνον: nel secondo caso l’essere e non essere è sen227 Le analisi di Heidegger sul concetto di tempo nella Fisica (M. Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, cit., pp. 220 ss.) sono estremamente interessanti e il loro culminare nella temporalità originaria del prima e del poi come temporalità dell’anima, che così è l’autentico luogo ontologico del tempo, è un esito notevole e illuminante. Tuttavia Heidegger trascura esattamente la differenza tra essere e non essere in un tempo, per cui non considera la temporalità di ciò che non è nel tempo: l’essere sempre e l’essere mai. Anche perché, se l’avesse fatto, avrebbe avuto difficoltà a sostenere che nei greci, e ovviamente anche in Aristotele, l’essere sia compreso a partire da un determinato modo del tempo, ovvero il presente. Di indubbiamente corretto in questa tesi vi è la constatazione che all’essere si può attribuire un senso, quando (fra)inteso a partire da singole determinazioni temporali (o anche spaziali, matematiche etc.). Tuttavia l’essere come presenza è solo una delle tante possibilità aperte dalla metafisica antica. E qui, proprio nella Fisica, l’altra (le altre) immediatamente connessa al tempo è quella dell’essere sempre (ἀεὶ) o mai, che è definito esplicitamente in opposizione all’essere νῦν, ora, e non come una sua ipostatizzazione! Tenendo conto di ciò, è chiaro che il nesso tra ora ed eternità è retaggio parmenideo (DK28B8: “Né una volta era, né sarà, perché è ora insieme tutto quanto”) e non della Fisica, e che dunque quanto afferma Heidegger in Kant e il problema della metafisica non va generalizzato: “Che cosa implica la determinazione, da parte della metafisica antica, dell’ὄντως ὄν – l’ente che è così ente, come soltanto l’ente può esserlo – nel senso di ἀεὶ ὄν? È chiaro che l’essere dell’ente viene compreso qui come persistenza e stabilità. Quale progetto comporta questa comprensione dell’essere? Il progetto in base al tempo. Infatti anche l’«eternità», assunta più o meno come il nunc stans, si può afferrare concettualmente da cima a fondo, appunto in quanto «adesso» «che permane», solo a partire dal tempo. E la concezione dell’ente propriamente detto come οὐσία, παρουσία, secondo un significato che in fondo è quello di «presenza», di possesso immediato e ognora presente, di «avere», che cosa implica? Questo progetto denuncia che «essere» vuol dire persistenza nella presenza” (Id., Kant e il problema della metafisica, a cura di V. Verra, Laterza, Roma-Bari 1981, p. 206). Non è superfluo notare che παρουσία, che diverrà termine chiave della cristologia, compare pochissime volte in Aristotele, e mai in relazione all’ente, e ancor meno in Platone, dove un paio di volte indica l’essere presso qualcosa di una determinazione, un analogo dello ὑπάρχον aristotelico insomma (cfr. Phaed. 100d5). 183 z’altro quello nel tempo. Mentre l’essere ἁπλῶς pare indicare più da presso l’essere non nel tempo, oppure meglio l’essere considerato preliminarmente a tale distinzione, su un più elevato grado di semplicità, che non riguarda ancora affatto il tempo, neanche come relazione di esteriorità ad esso. Che è poi il piano della pura affermazione e negazione. La questione è dunque questa: se affermazione e negazione sono prima del tempo228, e se anche rispetto al tempo possono darsi sia entro, che fuori di esso, con che diritto possiamo asserire che l’essere ha comunque a che fare con la presenza? E innanzitutto, si tratterà necessariamente di una presenza temporale? Come stiamo intendendo «presenza», per poter dire che l’essere vi è intrinsecamente connesso? Non è forse possibile, che nel rilevare l’affinità tra οὐσία e παρουσία assumiamo come termine definitorio dell’essenza la presenza (che è già un dalla parte al tutto) e, in seconda battuta, determiniamo la presenza in termini strettamente temporali, che poi infine riteniamo quelli originari? Con una movenza di questo tipo: anche l’essere ἁπλῶς dice al tempo presente, ma il presente è determinato dall’ora, e dunque l’ora è ciò a partire da cui intendiamo la presenza e l’essere, anche quello eterno. Che è quanto l’Aristotele della Fisica nega nettamente. Prima di continuare, però, accenniamo subito a quale può essere una soluzione differente. La presenza, nel senso proprio della παρουσία, è un «essere-presso» (παρὰ). Prossimità: un termine più vicino alla dimensione dello spazio. Qualcosa è presso qualcosa e nell’essere presso qualcosa, è dunque insieme a qualcosa: vi è connesso, nel tempo, nello spazio, ma anche in tanti altri sensi. La prossimità rileva l’unione di separati. È affermazione in quanto unificazione. Sul piano più elementare, dunque, che non è più né temporale, né spaziale, abbiamo l’unità229. L’essere unifica e separa, detto 228 Superfluo notare che «prima del tempo» non è una determinazione temporale, ma logico-ontologica, come nota anche Heidegger (I problemi fondamentali della fenomenologia, cit., p. 231). 229 Derrida, nel suo bellissimo Ousia e grammé (in Margini della filosofia, cit., pp. 61 ss.), rimane per molti versi soggetto al motivo della presenza (“Il con della coesistenza spaziale non può sorgere che dal con della temporalizzazione”, ivi, p. 89), per quanto sia consapevole di quanto di pregiudicato vi sia in esso (“Si suppone che sia possibile una questione che verta sull’essenza dello spazio e del tempo, senza domandarsi se l’essenza possa qui essere l’orizzonte 184 circa uno spazio e un tempo pone dunque prossimità e presenza, distanza e assenza. L’essere non dice la presenza, e come abbiamo già detto neppure l’unità, ma unificando rende possibile dire la compresenza di ciò che è insieme: di due enti o di un ente e il suo tempo/spazio. E si integri, come al solito, con il polo negativo. formale di questa questione, e se l’essenza dell’essenza non sia stata segretamente predeterminata – precisamente come presenza – a partire da una «decisione» riguardante il tempo e lo spazio. Non si deve dunque mettere in rapporto lo spazio e il tempo, ciascuno dei due termini non essendo che ciò che non è, e non consistendo innanzitutto che nel con-fronto stesso”. Questa «decisione», nel testo della Fisica, si incarnerebbe nella parola ἅμα: “l’articolazione enigmatica di questa differenza è alloggiata nel suo testo, dissimulata, messa al riparo ma operante in questa complicità come questa complicità del medesimo e dell’altro all’interno del con o dell’insieme, del simul nel quale l’essere-insieme non è una determinazione dell’essere, ma la sua stessa produzione. […] Questa clavicola su cui poggia e si articola tutta la decisione concettuale del discorso di Aristotele, è la paroletta ἅμα […], locuzione in principio né spaziale né temporale. La duplicità del simul alla quale essa rinvia non raccoglie ancora e in se stessa né dei punti né degli ora, né dei luoghi né delle fasi. Essa dice la complicità, l’origine comune del tempo e dello spazio, il comparire come condizione di ogni apparire dell’essere. Essa dice, in un certo modo, la diade come il minimo. Ma Aristotele non lo dice. Egli sviluppa la sua dimostrazione nell’evidenza inavvertita di ciò che dice la locuzione ἅμα. La dice senza dirla, la lascia dirsi o piuttosto essa lo lascia dire ciò che dice” (ivi, p. 90). Sono righe molto dense e ricche, che sottoscriverei in pieno, salvo due piccole annotazioni. La prima è davvero piccola: si tratta della mia convinzione che Aristotele sia stato pienamente avvertito della crucialità dello ἅμα e, più in generale, di ciò a cui lo ἅμα rimanda, ossia l’unità di unità e non unità. Indizio ne è che anche in questo testo egli si preoccupi di definire esplicitamente cosa debba intendersi con ἅμα dal punto di vista temporale: “τὸ ἅμα εἶναι κατὰ χρόνον: l’essere insieme secondo il tempo” e né prima né dopo, significa “τὸ ἐν τῷ αὐτῷ εἶναι καὶ ἑνὶ [τῷ] νῦν: l’essere nello stesso e uno ora” (Phys. 218a25s.). Il testo che plausibilmente legge Derrida riporta la vecchia lezione: ἐν τῷ νῦν: «nell’ora», poi emendata e in maniera significativa: «essere insieme» temporalmente non vuol dire semplicemente «essere ora», ma «in uno stesso ora», è dunque il convergere di (almeno) due, nell’unità e identità del νῦν. Ora, questo convergere, inteso in generale e non solo temporalmente, è ciò che si realizza ogni volta che si dice l’essere. Vi è sempre una “complicità del medesimo e dell’altro all’interno del con”, ossia nell’unificazione e separazione della copula, per cui il comparire – ed è questa la seconda annotazione, tanto piccola da cambiare tutto – non è la “condizione di ogni apparire dell’essere”, ma “nell’essere”, ossia nel logos. Di certo non è “determinazione dell’essere”, che è constatazione per nulla banale e anzi decisiva, ma non è neanche “la sua stessa produzione”, a meno che in entrambi i casi sia inteso che è l’essere a determinare e produrre (e non ad esser determinato e prodotto), e precisamente a determinare l’essere-in- 185 Ma torniamo ad Aristotele: gli enti e i non enti possono essere nel tempo o anche non nel tempo, ma non tutti indifferentemente, poiché il tempo è connesso al movimento e il movimento alla generazione e corruzione. Per cui gli enti nel tempo, gli enti che «esistono» in un tempo, sono anche «esposti» al tempo, alla sua corrosione: “tutte quelle cose che sono pertanto corruttibili e generabili, e in generale le cose che talvolta sono e talvolta non sono, necessariamente sono nel tempo. In effetti, vi è un tempo sempre maggiore, che sarà oltre il loro essere e oltre quel che misura la loro sostanza”230. Viceversa, tutto ciò che non ammette affatto generazione e corruzione, che è sempre o mai, non è nel tempo. Vi è dunque una singolare inversione, se nel tempo un ente è in qualche modo fuori di se stesso, mentre fuori del tempo è in sé. Aristotele, nel dirlo, usa un’espressione che nelle mani di Heidegger continuerà a dire l’essenza del tempo, ma naturalmente con altre valenze: nel suo “essere causa di corruzione per se stesso”, il tempo segue il movimento, il quale ἐξίστησιν τὸ ὑπάρχον – “costringe fuori di sé l’esistente”231 (Phys. 221b3). Il mutamento è ἐκστατικόν (222b16): estatico, nel senso che pone fuori, es-pone e così distrugge, fa uscire l’in sé da se stesso, lo aliena. Naturalmente Aristotele sa di esprimersi in maniera metaforica, e lo dice (222b25ss.): il tempo non è una potenza attiva che interviene corrosivamente sulla natura delle cose, è piuttosto il contrario, le cose nel movimento (e dunsieme dei separati (e viceversa). «Insieme», dunque, di per sé significa essere in uno stesso in unità con altro, che non sono determinazioni temporali, ma possono divenirlo, così come anche spaziali: declinato temporalmente, lo stesso in cui si è insieme è il tempo e l’unità è nel νῦν (che può essere detto assolutamente di un soggetto, componendo il soggetto con l’ora). Il che deriva dal fatto che, come vedremo, ogni posizione entro il tempo, e dunque anche ogni com-posizione, è sempre νῦν. 230 Phys. 221b28ss. Aristotele è poi esplicito (218b19s.) nel dire che «movimento», rispetto al tempo, va inteso genericamente come «mutamento», μεταβολή, e quindi come ogni forma di modificazione rispetto alla sostanza, qualità, quantità e luogo. Dalla generazione semplice alla traslazione, il movimento cui è connesso il tempo è in ogni caso un passaggio all’alterità, ἔκ τινος ἔις τι (219a10s.). 231 Qui τὸ ὑπάρχον può tranquillamente valere come «esistente», giacché è di un ente nel tempo che si parla, ma propriamente come ciò che soggiace, che è soggetto al suo stesso esistere. Notevole come in questa piccola frase si scontrino i due termini e come proprio ἐξίστημι, da cui viene «esistere», dica il venir meno di ciò che ὑπάρχει, il suo essere posto fuori di sé. 186 que anche nella quiete come stato del movimento) sono per loro natura corruttibili, e dunque nel tempo (e nello spazio). Ma questo per il momento non fa per noi nessuna differenza, anzi, pone più puramente il tempo come una dimensione astratta di esteriorità232, come l’orizzonte della vicenda di trapasso delle cose e non come il suo artefice. E tuttavia, come si vedrà meglio, il «trapassare» è insito nel principio del tempo. Ma facciamo un passo indietro e cerchiamo di reincardinare il discorso nella struttura antifatica dell’essere. L’ente e il non-ente di cui qui ci parla Aristotele, infatti, è semplicemente il τι esposto all’antifasi originaria: il sì dell’essente essente e il no dell’essente non essente. Come dicevamo, per sfuggire al collasso dell’essente non essente, che incombe intrinsecamente anche sull’essente essente, va introdotta una duplice alterità: quella tra soggetto e predicato e quella tra predicato e negazione del predicato. Gli enti e non enti che sono o non sono nel tempo, dunque, sono o soggetti o predicati: nel primo caso diciamo la loro collocazione temporale, la loro posizione entro il tempo cronologicamente determinato o rispetto al tempo assoluto – e siamo dunque sul piano delle esistenziali. Nel secondo caso diciamo la relazione al tempo dell’inerenza o non inerenza del predicato al soggetto, il tempo della determinazione. Cosa che notiamo, poiché ci permette di vedere ancora come nelle esistenziali il predicato temporale svolga l’ufficio dello ἕτερον e sia l’unico a poterlo svolgere, se non vi è un altro predicato. Così l’essente non essente non collassa, poiché è prima e non è dopo, è sempre e non è mai: “E dal momento che l’ora è fine e principio del tempo, ma non dello stesso tempo, ma fine del passato e inizio del futuro – come in un certo senso il cerchio nel medesimo punto è concavo e convesso –, così anche il tempo sarà sempre al principio e alla fine. Per questo motivo esso sembra essere sempre differente. L’ora, infatti, non è principio e fine della stessa parte. I contrari, altrimenti, sarebbero insieme e secondo lo stesso riguardo” (222a33ss.). L’ora, dunque, è in sé la contraddizione tra fine e principio (sì, poiché la fine è qui prima del principio, naturalmente, così come il no è prima del sì), disinnescata dal prima e poi: la fine del prima e il 232 Cfr. anche G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, cit., §§ 258 ss., pp. 438 ss.: “il tempo, in quanto unità negativa dell’essere fuori di sé, è parallelamente qualcosa di assolutamente astratto, ideale”. 187 principio del poi. Tutto molto coerente e lineare, e tuttavia anche molto in contrasto con il nostro modo comune di scandire il tempo: in tre dimensioni, dove il presente è accanto al passato e al futuro. Mentre il νῦν di Aristotele non è una dimensione temporale, ma solo il limite tra due dimensioni temporali. Ed è proprio in relazione a ciò che acquista la sua piena pregnanza la distinzione (e connessione) tra essere e non essere nel tempo, che risulta ontologicamente coerente e opportuna. Se infatti assumessimo ingenuamente l’ora come determinazione temporale e provassimo a dispiegarne la struttura ontologica, ci troveremmo ben presto avvolti da aporie. Vale la pena mostrarlo. Assunto l’ora come determinazione temporale eminente – la dimensione della presenza e dell’essere –, la distinzione tra essere nel tempo o fuori dal tempo andrebbe articolata a partire dalle due affermazioni/negazioni: ora/non-ora (bensì prima o dopo, passato o futuro), e sempre/mai233. Avremmo così anche simmetria tra ora e sempre, che dunque si confermerebbero essere analoghi. E dovremmo attenderci di poter sviluppare ulteriormente le due opposizioni, declinandole rispetto all’identico e al differente, per produrre le varie relazioni di contemporaneità e successione. Ma in realtà non riusciamo neanche ad arrivare a questo secondo passo, poiché già riproducendo le asimmetrie tra affermazione e negazione rispetto al solo «ora», andiamo in difficoltà. Diremmo: un qualcosa, sia esso un soggetto o un predicato, «è ora e non non-ora», oppure «non è ora». E alla negazione non aggiungiamo nulla, poiché abbiamo già visto che di per sé può implicare sia «bensì nonora» (prima o dopo), sia «e neppure non-ora» (mai). Già entro un tempo determinato, insomma, la negazione sembra alludere ad un tempo assoluto, come prima al μὴ ὄν e non solo allo ἕτερον. Ma, soprattutto rispetto all’affermazione, il discorso è qui veramente analogo a quello di prima? Abbiamo visto che il sì e il no si dicono sempre insieme, ma detti assolutamente di un ente conducono alla contraddizione: 1) «essere e non essere questo: essere questo e non questo». Con l’intro- 233 Che sia questa la seconda coppia e non «sempre/non sempre», è chiaro se consideriamo l’essere e non essere come verbalizzazione del sì e del no: ora sì/ora no e sempre sì/sempre no, ovvero appunto mai. Come si vedrà subito, Aristotele lo dice contrapponendo «sempre è» e «sempre non è» (Phys. 222a5s.). 188 duzione dell’altro abbiamo però: 2) «essere questo e non altro», dove l’altro non è un qualunque altro, ma la negazione del questo. Per tale ragione, la seconda asserzione, pur non implicando, non esclude: 3) «essere questo e anche quest’altro», ove l’altro è qui uno qualunque degli altri, eccetto la negazione del questo. La prima proposizione è impossibile, la seconda è sempre asserita ogni volta che affermiamo una qualunque cosa. La terza sono due affermazioni differenti congiunte. Da questa schematizzazione emerge poi con chiarezza un dato, che rende ben conto della necessità dell’asimmetria tra sì e no: se, infatti, ogni affermazione è duplice, mentre la negazione può rimanere in se stessa, proprio la circostanza che nella correlata implicata dall’affermazione («e non questo») vi sia comunque la negazione, consente di fermare la proliferazione di sempre nuove affermazioni. Ma vediamo cosa succede se traduciamo dall’essere all’essereora: 1) «essere e non essere ora: essere ora e non ora»; 2) «essere ora e non non-ora» (prima o dopo); 3) «essere ora e anche prima o dopo». La prima rimane naturalmente una contraddizione: o sono o non sono ora, non posso esserlo e non esserlo insieme. E tuttavia espressa come «essere ora e non ora» non appare così contraddittoria, poiché sembra corrispondere alla terza, che a sua volta non sembra essere una doppia affermazione che contiene due volte la seconda, bensì sembra negare la seconda, che dovrebbe essere sempre innegabile... Come si spiega tutto ciò? In sostanza notando che l’opposizione ora/non-ora non è affatto un’opposizione, se nonora vale come «prima o dopo». E questa è in effetti la prima mossa di Aristotele: il νῦν è il limite del prima e del dopo, non il loro contrario (anche perché altrimenti avrebbe due contrari, il che non è possibile). E porlo come questo limite rende subito di nuovo canonica la serie: 1) «essere entro il limite e non entro il limite»; 2) «essere entro il limite e non fuori dal limite»; 3) «essere nel limite e anche in un limite fuori da questo limite» (in un ora che è stato prima o sarà poi: nel presente del passato e del futuro, per dirla con Agostino). L’analogia torna perfetta. Ed essere nel tempo significa dunque essere in un ora, vale a dire sul confine tra un prima e un dopo, presi nell’opposizione tra il prima e il dopo come il frammezzo tramite il quale l’uno diviene l’altro. Il νῦν, in questo movimento di alterazione, ne è costantemente il luogo, non trapassa, ma ciò che vi alberga è invece immerso in un mutamento continuo. Il νῦν, insomma, è sempre, e non è il principio del sempre. E quindi, a rigo189 ri, non è entro il tempo, vale a dire che non è entro un ora (altrimenti dovrebbe esso stesso trapassare). È allora chiaro che la prima coppia: «ora/non ora» non è l’affermazione e negazione di posizioni o determinazioni intratemporali, ma esattamente l’alternativa tra essere o non essere nel tempo come «in un ora». Il non-ora, insomma, non vale qui come «prima o dopo», ma semmai come «prima e dopo mai ora». Che è del tutto coerente: se l’ora apre le due dimensioni intratemporali essendo insieme la negazione di entrambe: non prima e non dopo; analogamente, il non-ora apre le dimensioni temporali assolute affermando insieme quelle intratemporali. Non-ora è sia prima, che dopo: sempre, che vale dunque come mai-ora. E nel sempre, che appare sin dall’inizio segnato dalla negazione dell’ora, si può riprodurre l’antifasi e dire che qualcosa sempre è o sempre non è: “Tra i non enti ve ne sono di tali, i cui contrari sono sempre, per esempio l’esser incommensurabile della diagonale sempre è [ἀεὶ ἔστι] e non sarà questo nel tempo. E pertanto neanche la commensurabilità; perciò sempre non è [ἀεὶ οὐκ ἔστιν], poiché è contraria al sempre essente” (222a3ss.). Ma ancora: così come l’ora non è nel tempo, ma a partire da esso il tempo si articola, così il non-ora dovrà essere nel tempo: è infatti ora, che qualcosa non è ora, ed è sempre ora che il sempre e il mai non sono. L’ora è dunque sempre, e il non-ora è ora... Da tutto ciò risulta chiaro che il non essere nel tempo è comunque una determinazione temporale, per quanto assoluta: sciolta dall’ora, in ogni ora sciolta dall’ora234. Ma è anche chiaro, che tra ora e sempre vi è un rapporto molto peculiare: già da un punto di vista puramente logico, e quindi a prescindere dalla corruttibilità degli enti nel tempo, ciò che è nell’ora non può essere sempre, ma soprattutto ciò che è sempre non è affatto ora! Il triangolo ha tre angoli non ora, ma sempre. Proprio il sempre, dunque, lo ἀεὶ ὄν, non è presente... Né, ovviamente, assente: semplicemente il suo essere e non essere è altro, non riducibile a tale alternativa. Si potrà naturalmente con234 È vero che il sempre diciamo che è non ora comunque in un qualche ora, poiché il dire è sempre nel tempo. Ma lo diciamo appunto, ora, come sempre non-ora. Peraltro, il fatto che il dire si produca sempre in un ora, dà alla consignificazione temporale dei verbi uno spiccato carattere deittico: tramite le coniugazioni in sostanza si indicano posizioni relative di eventi rispetto al centro che è il dire stesso, per cui, più che un primato della presenza (che è una necessità del dire nel suo prodursi), si manifesta qui di nuovo un primato del logos. 190 tinuare a dire che la sua è comunque una presenza sui generis, ma di certo non come ipostasi del νῦν, bensì come la sua negazione. Non una presenza temporale, né ovviamente spaziale, ma semmai la presenza al logos235. Che non è l’esser presente alla coscienza: se così fosse, la presenza eterna degli ἀεὶ ὄντα sarebbe presente comunque solo nell’ora della coscienza e il triangolo triangolare solo mentre lo penso triangolare. Il carattere primario di tali enti, però, come Aristotele dice nell’Etica nicomachea, è proprio il fatto, che se anche distolgo il pensiero da essi, ciò non li inficia minimamente236. Peraltro, che il logos non sia esclusivamente pensiero lo abbiamo detto tante volte, e tuttavia andava annunciato qui qualcosa come una «posizione logica» degli enti, non nel senso attivo della Setzung, bensì proprio come collocazione entro quello spazio che in genere viene detto noetico237. Ma cerchiamo di non perdere troppo di vista le pagine della Fisica che andiamo leggendo, anche perché in esse il discorso riguarda frequentemente insieme tempo, spazio e numeri, vale a dire proprio quegli enti matematici, che hanno presenza solo entro l’anima, ma la cui essenza non coincide certamente con l’essere entro l’anima. Abbiamo detto che l’ora non è contrario al prima e al dopo, poiché ne è il limite: l’analogia è con il punto che divide una retta in due semirette con sensi opposti. Ma si tratta di un’analogia che Aristotele denuncia, dopo averla proposta, come incompleta, poiché l’ora non è il punto su cui si scontrano il prima e il dopo, ma tramite cui si estendono, e proprio grazie al fatto che costantemente li nega238. E se il tempo è un genere del continuo definito dai suoi opposti elementari, prima e dopo, è chiaro che l’ora non vi fa parte (Phys. 220a19: οὐδὲν μόριον τὸ νῦν τοῦ χρόνου)239. Questo non essere par235 Il tema è già parmenideo: “Considera come le cose che pur sono assenti, al nous sono saldamente presenti; infatti non reciderai l’ente dall’esser congiunto con l’ente” (DK28B4). 236 Cfr. Eth.Nic. 1139b20ss., ma anche Met. 1039b20-1040b3. 237 Dizione che si può mantenere, con l’avvertenza che non indica una dimensione psicologica, ma ontologica. E inoltre l’essere nel logos non è ipso facto l’essere fuori dal tempo e quindi in un tempo assoluto, è semmai il contrario: ciò il cui tempo è assoluto non è da nessuna parte, se non occasionalmente nel logos. Intorno al limite dello spazio noetico, vedi infra, pp. 201 s. 238 Come si vedrà meglio dopo, questo negare non comporta l’essere in un rapporto di opposizione, bensì di alterità ontologica. 239 Il passo prosegue: “In quanto dunque l’ora è limite, esso non è tempo, se non in senso accidentale”, letteralmente: “non è tempo, ma è convenuto”, 191 te del tempo viene interrogato subito da Aristotele, all’inizio della trattazione, dove si presenta l’aporia essoterica se il tempo sia o non sia un ente: pare, infatti, o non esserlo affatto, o solo “a malapena e in modo oscuro” (217b32ss.). E questo per la semplice ragione che non è una sostanza, ma una grandezza, non composta di tanti ora, ma determinata dall’ora: in quanto ὅρος, limite e condizione, il νῦν è dunque anche il principio della numerabilità del tempo, non solo πέρας, ma anche ἀριθμός e propriamente come “la monade del numero” (220a4). Aristotele lega questo suo discorso alla posizione e al movimento: “il prima e il dopo sono primariamente nello spazio; e qui per la posizione”. Ma in genere attengono alla grandezza, e quindi anche a quelle grandezze continue che sono il movimento e il tempo, di cui rendono la direzionalità, poiché l’uno segue necessariamente all’altro (219a14ss.). Per misurare una distanza, una direzione o un intervallo di tempo, ci vogliono almeno due posizioni diverse e la possibilità di fissarle nel tempo è data proprio dal νῦν, che apre innanzitutto l’alterità reciproca del prima e del poi, ed è dunque qualcosa di essenzialmente diverso da essi. Ma una volta apertala, consente di riprodurla e prima e poi. Vale a dire che noi possiamo proiettare nel prima un ora del prima e nel dopo un ora del dopo: l’ora in cui il prima comincia ad essere il dopo di un altro prima e il dopo il prima di un altro dopo. Facendo perno sul medio del νῦν, possiamo dunque misurare parti del tempo e anche assumerle come unità temporali, come momenti, che valgono nella loro interezza di nuovo come degli ora, ma questa volta già, potremmo dire, materiati di tempo: “determiniamo [il prima e il poi] assumendoli uno altro dall’altro e un che di diverso tra di essi (ἄλλο καὶ ἄλλο [...] καὶ μεταξύ τι αὐτῶν ἕτερον). Quando infatti pensiamo diversi gli estremi dal medio, e l’anima dice che gli ora sono due, l’uno prima, l’altro dopo, allora diciamo che anche questo è tempo”, vale a dire per cui Zanatta traduce con un coraggioso “ma accade” (Aristotele, Fisica, a cura di M. Zanatta, UTET, Torino 1999, p. 245). Al tempo accade l’ora, come suo limite e unità, scindendolo e riunificandolo, e tutto ciò che è ora è anch’esso (ac)caduto nel tempo, ossia in un’esteriorità, nell’esposizione all’alterità che è il tempo stesso e lo spazio, e se si vuole anche il logos, poiché anche tutto ciò che cade nel logos vi è alienato: la cosa. E non è privo di fascino notare che è proprio questa l’espressione in tanti modi ripetuta da Tommaso: id quod primo cadit in intellectu est ens... 192 un intervallo definito di tempo240. Tra l’ora e il «prima e dopo», dunque, vi è una diversità categoriale, tra il prima e il dopo solo una differenza intragenerica (ἄλλο καὶ ἄλλο). Il rapporto tra i tre è perciò in qualche modo analogo a quello tra lo ὑποκείμενον e gli ἀντικείμενα, tra il sostrato, che permane identico a sé, e gli opposti che vi si stagliano sopra e tra i quali avviene ogni mutamento della sua forma. Analogia non casuale e non dovuta, credo, solo all’unità dello stile speculativo di Aristotele, poiché l’ora, sul piano temporale, mostra straordinarie affinità con l’essere. Ad ogni modo, è da questa prima indagine, che Aristotele produce la definizione classica di tempo, come “numero del movimento secondo il prima e il poi” (Phys. 219b2). Il tempo è numero in quanto ciò che è numerato, ossia misurato, e il νῦν è come la sua unità (“οἷον μονὰς ἀριθμοῦ”, 220a4)241, poiché consente la determinazione delle posizioni e degli intervalli nel tempo. E qui Aristotele produce un paragone con il corpo in traslazione: Corisco al Liceo e Corisco all’agorà sono certamente due cose diverse, ma Corisco è pur sempre Corisco: il “traslato” è ora qui e ora là, i due punti dello spazio rimangono divisi, ma Corisco non si è diviso da se stesso nel passare dall’uno all’altro. Ebbene, anche l’ora non rimane fermo come il punto nello spazio, ma si comporta piuttosto come il soggetto di una traslazione, muta rimanendo lo stesso (219b31s.: “e dunque l’ora è per un verso sempre 240 Più avanti (219b25) si legge che “in quanto il prima e dopo sono numerabili, sono l’ora”. Ma vedi anche 223a4ss. «Gli ora», dunque, non sono il νῦν in quanto monade, ma posizioni già misurate, numeri numerati, diade. A differenza del νῦν sono dunque nel tempo. Tenere presente questa distinzione tra l’ora come principio e gli ora come principiati è decisivo per non fraintendere il discorso di Aristotele. 241 Attenzione, però: l’ora non è unità di misura nel senso in cui un cavallo è unità di misura di tanti cavalli (cfr. 220b21s.), ma proprio al modo dell’uno in quanto non numero, bensì principio dei numeri. Così come il primo numero (numerabile) è due (220a27), e non uno, così la misurazione concreta del tempo avviene già a partire da un certo intervallo di tempo, misurato a sua volta e misurante un movimento: “E poiché il tempo è misura del movimento e dell’esser mosso, il tempo misura il movimento con il determinare un certo movimento che misurerà l’intero” (220b32s.). L’ora, dunque, è unità di misura in un senso più radicale, come ciò che consente di delimitare un intervallo, con il quale poi misurare altre parti del tempo. L’ora è unificante(-scindente) e non un’unità già unificata. 193 identico, per altro verso no, alla pari di ciò che è mosso”). Muta, perché muta la sua posizione rispetto agli ora che sono prima e dopo, giacché l’ora in cui Corisco era al Liceo è altro dall’ora in cui è all’agorà; tuttavia non vi è alcun tempo in cui l’ora possa uscire da se stesso, ogni punto del movimento è ora, nell’andare dal Liceo all’agorà Corisco non è mai uscito dall’ora (219b12ss.). È grazie a questa sua strana motilità e ubiquità, e all’essere insieme identico e diverso242, che l’ora non solamente separa, ma tiene insieme il tempo, che è “continuo per mezzo dell’ora e si divide secondo l’ora” (220a5). In quanto insieme fine e principio, ma non immobile come il punto geometrico, è la commessura del tempo. Il tempo è continuo, insomma, a patto di essere scindibile, come Aristotele ribadisce, riprendendo la questione in maniera più ampia: “L’ora è, come si è detto, la continuità del tempo. Infatti unisce [συνέχει: «mette in continuità», ma anche «afferra insieme», «con-tiene»] il tempo passato e quello futuro, ed è limite del tempo, giacché è principio dell’uno e fine dell’altro. Ma è chiaro che è questo non come il punto che rimane fisso; infatti divide in potenza, e in quanto tale è sempre diverso, mentre in quanto unisce è sempre identico”. Da un lato è dunque “divisione del tempo secondo la potenza”, dall’altro “limite e unità”: πέρας καὶ ἑνότης. Le due cose insieme: vale a dire che anche in atto non cessa affatto di essere separazione, anzi, solo in atto, nel presente del νῦν, si dà la separazione, che è in potenza rispetto ad ogni tempo passato e futuro, ma si dà come identica all’unione: “è identico [scilicet: limite e unità] e la divisione e l’unificazione si danno secondo questa identità”: ἔστι δὲ ταὐτὸ καὶ κατὰ ταὐτὸ ἡ διαίρεσις καὶ ἡ ἕνωσις (222a10ss.). E così troviamo anche qui una asimmetria tra il sì e il no, oltre naturalmente all’espressione schiettamente dialettica dell’unità di unità e dieresi. Il νῦν è dunque πέρας, limite, ma si potrebbe dire anche πέρασις, passaggio. E, in quanto principio di unità, è numero numerante il tempo, che è numero numerato. Ma un numero numerato è sempre finito. Per cui se ciò che è nel tempo non è semplicemente “quando il tempo è” (221a19s.), in una sorta di simultaneità extratemporale che terrebbe separati e immuni l’ente e il suo tempo, ma 242 220b5ss.: “καὶ ὁ αὐτὸς δὲ πανταχοῦ ἅμα. ∏ρότερον δὲ καὶ ὕστερον οὐχ ὁ αὐτός: ed è lo stesso ovunque insieme; ma in quanto prima e dopo non è lo stesso”. 194 è contenuto dal tempo (221a17: περιέχεται ὑπὸ: circondato), non solo posto in esso, ma tenuto da esso nei suoi limiti, ossia è ora, in un ora, in un frammezzo; allora vi è anche commisurato: “ed è chiaro che, anche per le altre cose, essere nel tempo significa questo, che il loro essere sia misurato” (221a7ss.). E quindi finito. Ma quel che ora più ci importa, è che nel ribadire proprio questo Aristotele paragoni a più riprese essere nel tempo, nel luogo e nel numero: “le cose sono contenute dal tempo così come le cose nel numero lo sono dal numero, e le cose che sono nello spazio dallo spazio”243. Nel tempo si è contenuti dal tempo, tenuti insieme, ma anche delimitati e raccolti entro un’opposizione, consegnati ad un’opposizione. Questo significa qui l’«essere-in» – esistere –, in ogni sua dimensione, anche spaziale o dianoetica. Tutto ciò rende trasparente la possibilità dell’esistenza del non ente come suo essere nel tempo (221b31: “le cose che non sono e che il tempo contiene”): se, infatti, essere nel tempo non significa essere proprio ora, nell’ora in cui io sto scrivendo «ora» (che patisce l’evanescenza rilevata nella Fenomenologia dello spirito), ma l’esser raccolti da un ora entro l’opposizione del prima e del poi, allora tutto ciò che è stato e tutto ciò che sarà, anche se proprio ora non è più o ancora in un ora, è nel tempo, in un suo lasso delimitato244: ancora il caro Omero, che ricompare qui per ragioni analoghe a quelle che lo vedevano presentarsi nel De interpretatione, e “le cose future”245. “Mentre tutte quelle cose che il tempo non contiene in alcun modo, queste né erano, né sono, né saranno”! Enti fuori dal tempo: l’incommensurabilità della diagonale; e anche non enti: la commensurabilità della diagonale (e naturalmente, aggiungiamo, la chimera). Questi “sono sempre” o “sempre non sono” 243 Cfr. 221a17ss., ma vedi pure 221a26ss. e 221b14ss., dove si deduce che anche ciò che è nello spazio è misurato dal tempo e che, dunque, ciò che non è nello spazio non è neanche nel tempo. 244 Cfr. 223a4ss.: “Ma ciò che è prima è nel tempo; diciamo infatti il prima e il poi in relazione alla distanza rispetto all’ora, e l’ora è condizione [ὅρος] del passato e del futuro. Sicché, dal momento che gli ora sono nel tempo [attenzione: gli ora, ma non l’ora!] anche il prima e il dopo saranno nel tempo”. Entro il tempo, dunque, i non enti sono i non essenti nell’ora in cui vengono detti. Il loro non essere rimane dunque determinato dall’ora. 245 221b31ss. Tenere presente questa struttura dell’essere nel tempo contribuisce molto a chiarire la discussione intorno allo statuto del possibile, proposta nel De interpretatione in relazione ai futuri contingenti. 195 (222a5s.). Di un «sono» che non è quello del tempo presente. Poiché sono, ma non esistono nel tempo. Esistono (e non esistono), però, evidentemente nel numero (o nella fantasia). E lì vi sono raccolti e contenuti, entro altri limiti certamente, e rispetto ad altre opposizioni. E già da ciò si può intravedere il primato del logos in quanto orizzonte, la sua maggiore estensione: il logos, infatti, può contenere ciò che è contenuto dal tempo, ma anche ciò che non è contenuto dal tempo. È un orizzonte genericamente più vasto (anche se di fatto molto più esiguo). Cosa cui in fondo Aristotele allude, dicendo che, seppure il tempo è ovunque, in cielo in terra e nel tutto, dal momento che solo l’anima, e nell’anima il nous, pare avere la facoltà di numerare, in un certo senso è solo in essa (223a16ss.). E, in realtà, proprio nel senso in cui una cosa, nel logos, non è solamente racchiusa in uno spazio di opposizioni, ma anche veramente misurata, ossia determinata per la cosa che è e come è, in quanto ente fatto così e così246. L’unità di un ente con il suo ora o con il suo qui, insomma, vale a dire l’individuazione meramente spazio-temporale, non è la presenza dell’ente in quanto ente, che si dà solo nell’orizzonte del logos. E così il logos appare come il vero e primo principium individuationis, in quanto condizione di ogni individuabilità247. 246 Ancora Tommaso, nel descrivere le relazioni tra cose e intelletto umano o divino, ragiona in termini di misura e misurato: Dio è pura misura, crea le cose ponendole nella loro essenza, il logos umano è invece misurato dalle cose, che sono dunque da un lato misurate esse stesse (da Dio) e dall’alto misura dell’intelletto umano. 247 Da questo punto di vista la relazione tra essenza ed esistenza acquista un’altra dimensione, e complicazione: in un certo senso, infatti, l’esistenza in quanto presenza al logos è proprio l’essenza. E dunque – così parrebbe di dover dire – solo da ciò l’essenza può valere come principio ontologico dell’esistenza, poiché sarebbe in realtà l’esistenza nel principio di ogni presenza degli enti. Essere sarebbe come esistere nel logos, vale a dire tenuti e avvinti dall’antifasi originaria, essere e sempre insieme non essere. Soluzione seducente, e su cui continuare a riflettere, ma credo aporetica: nel logos qualcosa è sì sempre ente e non ente, ma che un qualcosa sia proprio quel qualcosa che è non ha nulla a che vedere con il suo essere nel logos (anche nel caso della Chimera: non è ciò che è perché è nel logos, ma più determinatamente poiché vi è stata prodotta). Una ragione poi anche più pregnante a sfavore di una simile soluzione, è che l’antifasi originaria non racchiude un genere. Vale a dire che non è, come il «prima e dopo», un’opposizione intragenerica, che in quanto tale genera uno spazio. Come si vede, anche qui l’assunto che on non sia un genere è decisivo e finisce per coincidere con la constatazione che essere e non essere non sono 196 Ed è poi sostanzialmente in relazione a tutto ciò, che il criterio a partire dal quale si possono scandire e posizionare gli enti e i non enti nel tempo o fuori dal tempo, è definito a partire dal mai, per negazione del mai: “ma le cose il cui contrario non è sempre, possono sia essere che non essere, e di esse vi è generazione e corruzione” (222a7ss.). Vale a dire che l’essere reale nel senso del concreto, del Wirklich, di ciò che si muove e produce effetti, è determinato essenzialmente come non essere ciò il cui contrario è sempre, vale a dire come non essere-mai. È un non-mai, molto prossimo a un non-nulla. Sia il tempo cronologicamente determinato, il suo principio e gli enti che lo abitano, dunque, sia quello assoluto sono in vari modi intessuti dal mai, dalla sua affermazione e dalla sua negazione, e risultano dunque pervasi anch’essi dal negativo e dalla difettività. Essere nel tempo significa esserci entrati e dovervi necessariamente uscire: è ancora l’anassimandreo cadere dall’ἄπειρον nel πέρας, dal sempre illimitato nell’ora del tempo, che comporta il pagamento di un fio, κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν...: gli enti devono tornare al sempre, vale a dire al mai del loro essere enti. Ma anche i semata parmenidei dello eon, e in generale le definizioni dell’ente eterno, sono in gran parte in negativo e, se temporalizzate, allora ancora nel segno del mai: ingenerato e incorruttibile, vale a dire mai nato e mai soggetto alla morte. Più che sempiternitas, lo stigma del tempo assoluto potremmo chiamarlo giammaità, il già mai del sempre. Il tempo è dunque incardinato nel mai, nell’assenza di tempo, nell’ora che è sempre e quindi mai ora. Le determinazioni ontocronologiche che derivano dalla temporalizzazione dell’essere non si limitano, però, a queste, anzi proliferano in maniera spettacolare, fornendo alla metafisica un intero arsenale di concetti. Solo per esempio: il prima e il poi del tempo determinato, che si estendono a partire dalla fine/principio del νῦν, si traducono in origine e scopo, compimento, destinazione (come il primo prima e l’ultimo dopo), condizione e condizionato, causa ed effetto, primario e secondario, e così via in tutte le relazioni di priorità e dipendenza. Mentre è proprio a partire dal sempre/mai che l’essere si modalizza, in quanto ὑποκείμενον, come dice Aristotele ancora nel De interpretatione opposti, ma lo stesso. Comunque, c’è un modo più blando e meno problematico di porre la questione, che è poi la questione degli universali: l’essenza esiste in quanto presenza al logos. Ma per esistere deve essa stessa già essere... 197 (21b29): l’essere sempre è il necessario, sempre non essere vale come impossibile, e da ciò tutte le quantificazioni intermedie, come il possibile (non sempre mai248). Modali da cui dipendono poi anche i vari gradi della verità/falsità (necessaria, contingente, probabile...). Insomma, anche detto in questo modo estremamente schematico e sintetico, si vede come la temporalizzazione del sì e del no articoli una griglia di svariate possibilità, che prese singolarmente possono essere i criteri di determinazioni specifiche di «sensi» dell’essere, ognuno dei quali in lotta contro gli altri per il titolo dell’eminenza o dell’autenticità: dall’essere eterno delle idee come essere essenzialmente, all’essere mai dell’uno plotiniano, passando per la realitas, intesa talora come actualitas, talora come possibilitas etc. Ma già la ricostruzione della generazione logico-cronologica di tali sensi, mostra chiaramente che si tratta in ogni caso di scelte speculative, che ritagliano un valore all’interno di uno spettro in cui l’essere non ha valore, ma solo la funzione affermatrice/negatrice. E non è solo il tempo a intervenire nella semantizzazione dell’essere, è naturalmente anche lo spazio: il qui o non qui – da cui ancora un modo della presenza e dell’assenza – e l’ovunque e in nessun luogo. Da cui, per esempio, l’essere come darsi della totalità della sostanza estesa o invece come sottrarsi della trascendenza ultramondana. Come orizzonte congiunto, tempo e spazio sono poi il teatro su cui va in scena l’opposizione tra στάσις e κίνησις, i generi sommi stranamente associati nel Sofista all’identico e al diverso (invero per nulla stranamente, poiché sono le condizioni del passaggio al diverso e del permanere nell’identico). E anche la quiete e il movimento, che tradizionalmente sono stati considerati come i due modi elementari dell’essere e contrapposti come essere e divenire, contribuiscono a innescare la confusione tra essere ed esistere: spazio-temporalmente determinato, essere è sempre anche essere collocato, e dunque esserci, nel permanere e nel mutare. Ma poiché le condizioni ontologiche ultime di tutto ciò (la tetrade: essere, non essere, identico e diverso) non sono in un tempo o in uno spazio, ma solo nel logos, è infine ad esso che bisogna tornare – come fa anche Platone al termine dell’esposizione dei cinque generi sommi, le cui re- 248 Cfr. De int. 13, 22b22: “non necessario che non sia”. Al riguardo cfr. M. Zanatta, Dell’interpretazione, cit., pp. 304 ss. 198 ciproche interconnessioni sono possibili solo entro il logos, anch’esso un genere delle cose!, e propriamente quello in cui si raccolgono in unità e si articolano reciprocamente gli altri cinque: τὴν ἀλλήλων τῶν εἰδῶν συμπλοκήν (Soph. 259e6)249. L’orizzonte spaziotemporale di esistenza degli enti tende dunque a trasporsi nell’orizzonte noetico della loro presenza e assenza, della loro posizione, che da collocazione diviene sempre più un esser-posti dal logos. L’estetica trascendentale di Kant, da questo punto di vista, appare come una teoria già inscritta, in quanto possibilità, nei primi elementi di ogni ontologia metafisica, poiché prosegue su una linea, su cui il riferimento esistenziale all’alterità si depura sempre più dagli elementi ontici e spaziotemporali empirici e finisce per essere il logos stesso, già a partire dalle forme della sua intuizione. Il «ci» dell’esserci, come abbiamo visto, è l’indice dell’alterità rispetto a cui, differenziandovisi, qualcosa può essere detto esistere, alterità evocata immediatamente dalla struttura antifatica dell’essere, che però solo a partire da una qualche particolarizzazione, e dunque differenza (solo insieme ai congiacenti, compresi lo spazio e il tempo), può realizzarsi in una qualunque forma significativa. Ciò comporta che quanto più puramente vogliamo affermare qualcosa, tanto più puramente dobbiamo farlo non in sé, ma per altro. E il «ci», preso «semplicemente», non è altro che l’altro assoluto rispetto a cui qualcosa c’è: l’orizzonte entro cui si differenzia da ogni altro. Per questo Kant parlava di «posizione assoluta»: non come di una posizione indipendente da ogni relazione – che non è possibile –, ma dipendente solo dal suo spazio e da nessun altro elemento di quello spazio. E quindi assoluta relatività della posizione, la relatività della differenziazione da altro a prescindere da ogni altro determinato. E quando anche lo spazio e il tempo sono superati come 249 Si tratta di un passaggio cruciale del Sofista, che introduce, dopo l’analisi delle relazioni tra i generi sommi, la trattazione finale circa la natura del logos, che viene intesa in senso primariamente linguistico e non noetico: “Οὐκοῦν διάνοια μὲν καὶ λόγος ταὐτον; – Pensiero e discorso non sono dunque lo stesso? Salvo che il primo, il dialogo dell’anima con se stessa che vi avviene senza voce, proprio questo noi lo abbiamo chiamato pensiero […]. Mentre il flusso che dall’anima esce attraverso la bocca come suono articolato è stato chiamato discorso […]. Ma sappiamo che nei discorsi si trova... che cosa? affermazione e negazione”... (Soph. 263e3ss.). 199 determinazioni particolari, l’unico altro rimane il logos250. Gli enti sono presenti solo per il logos che li dice... Ma interrompiamo questo che a stento è uno schizzo delle vie della metafisica e torniamo un attimo al νῦν della Fisica, per tirare due somme, rilevando innanzitutto le analogie tra essere e ora: 1) al pari dell’essere, l’ora appare come qualcosa di evanescente, che non si capisce bene se è e cos’è, quasi un niente; 2) è afflitto da un’intera teoria di contraddizioni: identico e non identico, principio e fine, unione e separazione...; e da ciò 3) non gli si può opporre nulla, poiché è già in sé l’opposizione (e propriamente come due negazioni: non più/non ancora), così come all’essere non si può opporre il non-essere, giacché già gli appartiene, e invero come il primo251; 4) è dunque un τι τρίτον, un che di terzo, diverso dagli opposti che genera, monade rispetto a una diade. Dovremmo perciò parlare di una struttura antifatica anche dell’ora, o limitarci a dire che è affetto dalla struttura antifatica dell’essere? Ossia, in ultima istanza, dalla struttura ontologica dell’ente e quindi dall’ipotesi? Un modo sintetico per alludere a cosa avviene con l’ipotesi è dire che ogni τι è in quanto ente. Il τι: un qualcosa, ogni τι: qualsivoglia, è sempre un ente. Analogamente potremmo porre il τι temporale come «un qualche tempo», e dire che qualsiasi tempo è ora. Ossia è e non è, identico e diverso... L’essere nel tempo in generale, καθ’αὑτό, in quanto essere in un qualche tempo, è sempre nella forma dell’ora, così come l’essere un qualcosa è sempre nella forma dell’ente. L’ora, dunque, non è una vera determinazione, neanche dell’ente temporale, né è la sua posizione, essendo piuttosto la struttura della posizionalità entro il tempo252. È un trascendente: ciò che appartiene già preliminarmente all’ente, se è tem250 Heidegger articola molto accuratamente questo passaggio, rilevando nel soggetto il punto di riferimento della posizione assoluta (Problemi fondamentali della fenomenologia, cit., pp. 38 ss.). 251 Sostanzialmente così già nel Sofista (258e8ss.): “noi, infatti, riguardo a un eventuale contrario dell’essente, da un pezzo abbiamo detto addio alla questione, se esso ci sia o no, se ammetta un discorso o sia del tutto indicibile” e ciò per il semplice fatto che “i generi si mescolano l’uno con l’altro e l’ente e il diverso passano attraverso tutti e l’uno nell’altro”. Di ogni cosa si dice dunque insieme l’essere e il non essere. 252 Lo abbiamo già notato, l’ora di per sé non determina nessuna posizione, e anche dal punto di vista pragmatico è sempre legato al contesto, ossia ha una natura deittica. 200 porale, ossia il suo essere sempre tra un passato e un futuro. Ammesso, naturalmente, che sia in un qualche tempo. «In un qualche tempo», e prima avevamo incontrato «in un qualche luogo»: il «ci» come τι posizionale. Già allora, e poi ancora, abbiamo detto che tale luogo può essere spaziale, temporale, astratto, noetico... E, a quanto pare, seppure su di un piano derivato e secondario rispetto a quello dell’ente, anche il ci ha una struttura ontologica ben determinata e analoga a quella dell’antifasi originaria. Nel tempo il suo cardine è l’ora, nello spazio il qui, e nella noesi? Qual è il limite che organizza lo spazio noetico, il principio della struttura del ci noetico, ossia della presenza al nous dell’ente? Cosa appartiene alla posizionalità di un ente pensato? E arriviamo così infine ad un elemento che la metafisica antica ha sostanzialmente ignorato, ma che è poi divenuto cruciale in quella moderna. L’analogo noetico del νῦν, infatti, è evidentemente l’io. Esserci noeticamente è ogni volta essere per un io. È l’io qui il principio astratto di alterità, rispetto alla quale l’ente può posizionarsi in uno spazio noetico. Ossia solo in quanto non-io. E così anche la presenza entro il nous è per l’ente alienazione e negazione. L’io è poi altrettanto evanescente dell’ora, poiché ne condivide la natura linguistica di pronome deittico253. E sulla sua struttura dialettica potremmo scrivere un altro libro. È comunque chiaro che non è né posizione determinata (io sono tutti gli io e nessuno), né determinazione (dell’ente in quanto posto da/in un io), ma appunto la predeterminatezza della sua posizionalità noetica254. 253 Seguendo un percorso completamente diverso, abbiamo così ricompattato quel che in Alexandra Corina Stavinschi, Sullo sviluppo del sistema dimostrativo italo-romanzo, in “LabRomAn” 3/I, Centrostampa Palazzo Maldura, Padova 2009, pp. 2 ss., è chiamato “centro deittico”: ego-hic-nunc. Obbligato, a tal riguardo, il rimando al primo capitolo della Fenomenologia dello spirito (cit., p. 86): “Io non è che universale, come lo sono ora, qui o questo in generale. Certo io intendo dire un Io singolo, ma quanto poco io posso dire ciò che intendo per ora e per qui, altrettanto poco posso dire ciò che intendo per Io. Dicendo questo qui, questo ora o un singolo, io dico ogni questo, ogni qui, ogni ora, ogni singolo; similmente, dicendo: Io, questo singolo Io, dico ogni Io in generale: ciascuno è quello che io dico: Io, questo singolo Io”. 254 Ne La natura dei pronomi Benveniste comincia precisamente analizzando l’interrelazione necessaria da un punto di vista semiotico, linguistico e pragmatico tra pronomi dimostrativi e pronome personale di prima persona, dimostrando così che il tema dell’io è trattabile con tante analogie sul piano 201 Dalla metafisica della sostanza alla metafisica del soggetto si riproducono dunque tutta una serie di rapporti ontologici che si possono ricostruire a partire da pochi elementi, come qui si è potuto fare solo in estrema rapidità, poiché il tempo e lo spazio residui per questo libro sono oramai del tutto esigui. Gli ultimi passaggi ci consegnano però una domanda: se il «ci» è il τι posizionale in generale e se nel tempo la sua forma è l’ora255, quel che abbiamo visto della struttura ontologica dell’ora varrà in ogni caso anche per il «ci»? L’«esserci», in ogni sua forma possibile, sarà sempre l’esser esposto a una contraddizione e a un’alterità? Ovvero: vale per ogni esistenza in generale quel che vale per il tempo e lo spazio256 come orizzonti dell’esistenza degli enti concreti? Per il tempo e spazio come esteriorità indeterminate e pure, e tuttavia ogni volta determinate come un qui ed ora che deve trapassare nel non qui e non ora? E se sì perché? E tutto ciò è poi sufficiente a definire compiutamente cosa è esistenza? Nelle pagine precedenti vi sono già tante risposte a queste domande, ma sono tutte in qualche modo sospese e il loro significato noetico e su quello linguistico (cfr. E. Benveniste, Essere di parola. Semantica, soggettività, cultura, a cura di P. Fabbri, Bruno Mondadori, Milano 2009, pp. 138 ss. A p. 139, per esempio, leggiamo: “Qual è allora la «realtà» alla quale rinviano l’io e il tu? Unicamente una «realtà di discorso», che è una cosa tutta particolare. L’io può essere definito solo in termini di «locuzione», e non in termini di oggetto, come lo è invece un sostantivo. Io significa «la persona che enuncia l’attuale istanza di discorso contenente io». Istanza unica per definizione e che vale solo nella sua unicità […]. Ma, parallelamente, deve essere colto anche in quanto istanza che ha la forma di io; la forma io non ha esistenza linguistica se non nell’atto di parola che la proferisce”). 255 Forse è utile ribadire: l’ora non è il «ci» temporale, ma appunto la sua forma (ipotetica). Tra ci ed ora vi è la stessa relazione, che vi è tra τι ed ente. 256 Poniamo la domanda solamente in relazione a tempo e spazio, perché la metafisica del nous è del tutto aliena all’ipotesi ontologica, entro la quale il «soggetto» in quanto egoità non gioca alcun ruolo. Il fulcro del logos è nel linguaggio e non nella coscienza, come si dirà meglio tra pochissimo. Ma non è solo questa la ragione, vi è anche un motivo strettamente linguistico: che il fulcro dell’enunciazione sia l’io che la produce e che intorno all’io si orientino i riferimenti spaziali e cosali, non è un dato universalmente valido (se non, forse, rispetto alla deissi temporale): nella maggior parte delle lingue il sistema è binario (qui o là, questo o quello), ma in molte è più complesso e l’orientamento non è incentrato sul parlante, ma tiene conto dell’ascoltatore e anche delle posizioni reciproche degli oggetti rispetto all’intero contesto della deissi (il «codesto» toscano ne è un ottimo esempio, giacché esprime la vicinanza di qualcosa rispetto all’ascoltatore). 202 rimane ambiguo, poiché, affrontando la questione a partire dall’essere, in primo piano è rimasta l’antifasi originaria, e per quanto abbiamo potuto insistere sull’unità e non solo sulla determinatezza (anche posizionale) dell’ente, in realtà abbiamo trovato per ora solamente l’attività unificante/dividente del logos, che però abbiamo detto presupporre già unità. Di certo, anche così abbiamo sufficientemente dotato di contenuti l’asserzione per la quale la determinazione e la posizione – essenza ed esistenza – sono precedute dalla struttura della determinatezza e della posizionalità, la cui forma si rispecchia nell’antifasi dell’essere. Ma così ci siamo approssimati solo all’esser-ente, né d’altro canto poteva andare diversamente, date le premesse. Nel prossimo volume, che sarà tanto platonico quanto questo è stato aristotelico, dovremo dunque tornare indietro e rivolgerci all’un ente, allo ἓν ὄν. E tramite ciò anche all’identità/differenza cosa-ente. Su tali basi sarà poi anche possibile provare a dare altre risposte. Per ora limitiamoci dunque solo a chiarire gli ultimi punti emersi e ad accennare allo sfondo ulteriore del discorso, ricongiungendone così la conclusione con la prefazione: Ai quattro momenti strutturali dell’antifasi originaria – non essere, essere, diverso e identico – non appartiene l’uno. Essere, infatti, non significa essere uno. L’attività di unificazione e separazione, l’essere che è sempre non essere, non è possibile senza quelli che Aristotele chiamava i congiacenti, almeno due, di cui ognuno un ente. L’essere, insomma, da solo non basta, da solo è niente: né uno, né ente. E se è emerso, nella misura in cui è emerso, che l’antifasi originaria è propriamente un pathos del logos, ciò equivale a ribadire uno dei due corni del nesso ontologico: il logos non è senza l’on. Nel proseguo bisognerà dunque chiarire anche l’altro: l’on non è senza il logos, e farlo cercando di evadere dal modo in cui la metafisica lo ha inteso. Vale a dire, che bisognerà passare dall’unificazione/separazione della copula ad un livello ancora più originario e profondo di unificazione logica, quella che riguarda direttamente l’un ente. Che è però solo un primo passo per cercare di disinnescare la carica metafisica dell’antifasi originaria: essa è già sempre nel segno della scissione, per cui ogni unità vi è affermata come scissa. E per questo la speculazione dell’essere conduce naturalmente ad una qualche metafisica della sostanza composta, ovverosia della cosa in sé alienata. Ma se ci aspettassimo di trovare nella struttura ontologica dell’ente, poiché contiene in sé l’unità immediatamente, ciò 203 che non abbiamo trovato nell’essere: un’unificazione priva di duplicazione, ebbene, come si vedrà, ci sbaglieremmo di molto. E tuttavia, il ritorno all’ente è al più originario rispetto all’essere, appunto se è vero che, per usare uno stilema aristotelico, l’essere non è l’ente, ma neppure senza l’ente. Sempre dell’ente, diceva Heidegger, ma con tutt’altro orientamento speculativo: alieno alla riduzione logica dell’essere, che qui invece è esplicitamente operata, il suo tentativo è di pensare il non-essere ente dell’essere nel segno dello ἕτερον, di una diversità ontologica del tutto originaria e mai integralmente sondabile, entro la quale è però chiaro che è l’essere il principio. Nell’ipotesi ontologica, invece, l’essere è non ente esattamente nel senso del μὴ ὄν, non dello ἕτερον. Da tale punto di vista, la differenza ontologica heideggeriana è comunque la differenza tra due τι, la ἑτερότης tra il τι, che l’essere continua ad essere, e il τι che è l’ente: il niente heideggeriano è qualcosa... E poiché il qualcosa è sempre ente, la differenza ontologica è oblio dell’essere: la posizione dell’essere come un ente. Che rimane in qualche misura inevitabile, laddove l’essere sia detto per sé dal logos, τὸ τό προσάπτων diceva Platone (Soph. 239a2): applicandovi il quantificatore principe dell’identità, «il», «l’»essere è detto come un ente257. Quale non è assolutamente, ma non perché sia qualcosa di diverso, bensì perché non c’è affatto qualcosa come «L’essere». Se prima si è dunque asserito che l’ipotesi ontologica è consapevolmente nell’oblio dell’essere, vi è però in un altro senso, nel senso che cancella la differenza ontologica come ἑτερότης: l’essere non è e basta! E non «non questo, bensì altro»: si ferma alla negazione... E al suo primato. In qualche modo tutto questo discorso è alluso già nell’unica «parafrasi» dell’essere che ci pareva possibile: «essere essente», vale a dire «essere un ente», che ponevamo anche nella forma affermata «essente essente», notando che vale sempre insieme come «essente non essente». Ebbene, è chiaro che a rigori non si tratta affatto di una parafrasi, poiché non vi si fa ricorso a nessun elemento semantico estraneo all’essere, né si potrebbe dato il suo vuoto: l’essere, os257 Lo nota molto chiaramente anche U. Eco, Kant e L’ornitorinco, cit., p. 17: “Se ci fosse ancora bisogno di ripetere che l’essere ci appare solo come effetto di linguaggio, basterebbe il modo in cui queste due parole (Seiende e Sein) si ipostatizzano in due Qualcosa”. Peraltro, alla coestensione/intensione di essere (che evidentemente intende come ente) e qualcosa, Eco aveva già dedicato le prime pagine del saggio. 204 sia il parafrastico universale, vi si riconduce piuttosto progressivamente al proprio participio, che in «essente essente» è la prima volta verbale e la seconda sostantivale, secondo la distinzione fatta all’inizio di questo libro e che allora pareva forse estemporanea, mentre ora mi auguro che possa essere intesa nel suo senso ontologico. La parafrasi dell’essere è insomma la sua metafrasi nell’ente. Il ritorno all’ente dopo quel che dicevamo essere quasi il depistaggio su una via traversa – che è però forse l’unica via all’ente, se non si vuole naufragare immediatamente negli enti –, è in qualche modo il tentativo di risalire (o meglio ridiscendere) dal piano dianoetico ad un piano più originario. In Platone la dianoia è quell’esercizio del nous che parte da unità già date, come egli dice, ἐξ ὑποθέσεως. Già poste prima e sotto. E lo scopo autentico della filosofia è invertire la direzione discendente dalle ipotesi alle conclusioni (vale a dire alle varie affermazioni e negazioni circa il già posto: la scienza) e risalire dalle conclusioni ai principi, per accedere, riattraversando la διαίρεσις e sopravanzandola, al luogo autentico della συναγωγή, della con-conduzione, dell’unificazione. Questo movimento in qualche modo avviene anche nell’ipotesi ontologica, ma con una differenza radicale: qui il luogo dell’unificazione è proprio l’ipotesi; e dunque il movimento, che è di ridiscesa, non giunge ad alcun principio anipotetico. Anche perché è l’ipotesi stessa ad essere anipotetica – qui non come teoria!, come pur si diceva all’inizio, ma nel senso che l’ipotesi non si ipotizza, ma è già sempre, quando è. L’ipotesi è la premessa che premette se stessa, che si è già sempre premessa. Se per Platone, insomma, e con lui per gran parte della tradizione metafisica, è possibile un logos del principio, nell’ipotesi, invece, il logos è il principio ma come già sempre esso stesso principiato. E dunque la precedenza del logos a se stesso non è in alcun modo qualcosa come un’autoposizione, concetto tipicamente metafisico (la causa sui). Giacché il logos non pone se stesso, il logos nasce. Nel contesto metafisico l’intronamento del logos avviene proprio grazie alla verticalizzazione dell’ente in vista della verità. La contemplazione della verità, il θεωρεῖν, è il platonico ἐπισκοπεῖν, guardare dall’alto e sovrintendere, ponendo in una scala ascensionale i gradi dell’ente e al vertice il «vero ente», l’ente del tutto essente e sempre, che è la mossa preliminare tramite la quale il logos pone se stesso ancora oltre la sommità: ἐπέκεινα τῆς οὐσίας, a rigori, è proprio il logos (l’idea delle idee). Il logos (l’«esserci» in quanto animale avente logos) non è dunque affatto il pastore dell’essere, 205 semmai ne è il “Vescovo”. Anche in Heidegger, dove questo tratto è fondato nel suo rifiuto di intendere lo ζῷον λόγον ἔχων a partire dal soggetto di tale espressione, dal «vivente»: “Nella sua essenza il linguaggio non è l’espressione di un organismo, così come non è l’espressione di un essere vivente […]. Il linguaggio è avvento diradante-velante dell’essere stesso”258. È Lichtung, è verità. Ma contro questa schizzinosità verso la dimensione vitale e propriamente animale del logos ci ha messo già per tempo in guardia Nietzsche, per cui continuiamo a preferire l’impostazione aristotelica, quella del De anima, ossia di un trattato intorno al principio della vita, che costruisce i piani alti del nous sempre tenendo in considerazione anche quelli bassi della sensibilità e dell’immaginazione. Tuttavia, la comunanza dell’impostazione conduce ad esiti ed orientamenti molto divergenti, e questo proprio perché qui al centro è il logos, non il nous259. In particolare, conduce a riconoscere che, così come il logos penetra in ogni dimensione della consapevolezza, a partire dalla sensibilità, allo stesso modo deve esserne sin dall’inizio penetrato. E in conclusione di questo libro vale la pena accennare un po’ più ampiamente proprio a questo sfondo genealogico, varie volte già evocato e che si configura infine come una vera e propria zoologia del logos. Come abbiamo oramai abbondantemente visto, nel De Anima l’attività logico-dianoetica di unificazione e separazione si esercita su unità già date e propriamente dal nous. E nella storia della filosofia si è generalmente seguita questa tradizione, già preparata da Platone, e si è dunque inteso fondare l’unità dell’uno sul piano noetico – del nous come facoltà dei principi –, per lo più nei termini di una visione/percezione/intuizione di unità essenti per sé (anche se, in ultima istanza, il darsi di quelle unità procede ancora dall’intelletto divino che le ha originariamente poste). Nell’ipotesi ontologica, invece, la via della pura noesi è interdetta sin dall’inizio, nella definizione di logos non come ratio, bensì come unità di pensare e dire: da questo punto di vista il linguaggio non è uno strumento del 258 M. Heidegger, Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 279. La centralità del logos, al di là di quanto ci stiamo accingendo a dire più specificamente intorno al linguaggio, è decisiva anche rispetto al polo del pensiero. Se esso, infatti, è sempre connesso a un discorso (e quindi alla struttura della frase che abbiamo indagato), in ultima istanza è sempre dianoetico, e mai puramente noetico. 259 206 pensiero, che venga dopo e sia più o meno facoltativo utilizzare, ma è il suo corpo, la sua natura. Il pensiero vive nel linguaggio, o meglio, giacché non voglio certo ripresentare un qualche dualismo di corpo e anima, il pensiero vive come linguaggio. Questo implica che tutte le speculazioni intorno alla dimensione antepredicativa, che precederebbe quella linguistico-dianoetica, rimangono in vari modi, e anche opposti, tuttavia entro il dualismo, o la vera e propria scissione tra l’animale e il razionale. Ma se prendiamo sul serio la tesi che l’uomo sia ζῷον λόγον ἔχων, allora antepredicativo significa anteumano. Nell’uomo, in altri termini, non vi è niente di antepredicativo! Non vi sono intuizioni pure, più o meno mediate dalla sensibilità, che depositino nell’intelletto unità essenti, le quali vengano solo successivamente battezzate, per impositio del nome, poiché è invece solo a partire dalla denominazione che noi pensiamo unità e possiamo così anche intuirle (laddove, in effetti, non sono): le nostre rappresentazioni, immaginazioni e lo stesso dato sensoriale hanno acquistato unità solo a partire dall’unità della parola. Tanto più sarà dunque da escludere la possibilità di un’attività del nous che prescinda dal logos, se neanche i sensi ne sono indipendenti. E se è difficile vederlo è perché è qualcosa di già avvenuto sin dall’inizio della storia dell’uomo: noi siamo da sempre entro il linguaggio, «noi» non siamo se non nel linguaggio. E solo noi, per quel che ne possiamo sapere. Una simile tesi, però, può essere ancora accomunabile a quella heideggeriana per l’unicità del linguaggio umano che vi viene asserita, e quindi può facilmente rimanere esposta agli strali degli antiantropocentristi, che vi rileveranno senz’altro un’ipoteca metafisica. E qui non sto pensando certamente a Derrida, la cui critica al logos ha tutt’altra serietà e profondità, ma alludo piuttosto alle varie posizioni che, sul versante opposto a quello heideggeriano, vedono nella marcatura del logico e del suo carattere propriamente umano un pregiudizio, da superarsi grazie a un paradigma biocentrico o postumano o chissà di quale altro tipo. Se si guarda alle cose, però, e non ai paradigmi e alle loro mode, quel che è avvenuto nel momento in cui un certo animale è divenuto insieme tecnico e logico, è stato indubbiamente qualcosa di nuovo rispetto alle condotte, variegate, di altri viventi, qualcosa di nuovo e di dirompente, visti gli effetti che ha avuto. Contestare tale novità, riducendola troppo sbrigativamente ad un unico principio omogeneo di sviluppo del vivente, significa non aver compreso la logica dell’evoluzione e non 207 voler comprendere la specificità dell’animale uomo e del suo linguaggio. Tuttavia, quel suo nuovo modo di stare al mondo non è contrapposto radicalmente a quello di altri animali, poiché si tratta in effetti di una variazione, per quanto ingentissima, su una struttura di fondo condivisa almeno da tutti i vertebrati. La loro organizzazione corporea, infatti, è incentrata su un asse che è insieme di simmetria (bilaterale) e di asimmetria (capo, tronco, arti anteriori e posteriori), dove è sempre più «in avanti» e «in alto» che si concentra il campo di relazione, ossia di percezione e intervento sul mondo (nel capo e negli arti anteriori)260. E poiché lo spazio di un vivente è quasi la proiezione della forma del suo corpo, l’animale vertebrato si trova in uno spazio non omogeneo, ma dotato di direzioni e di sensi. Il suo mondo non è innanzitutto il mondo «circostante» (per arrivare a percepirlo così ci sarà bisogno dell’ordinamento cittadino nato nel neolitico), ma quello che gli sta davanti, quello che percorre, esplorandolo. Questo significa che per lui, ai compiti genericamente animali della nutrizione e della riproduzione, si somma il compito dell’orientamento, che in altre forme viventi è molto più sfumato o del tutto assente. E poiché ogni livello emergente retroagisce sulle sue condizioni, modificandole, anche la vita vegetativa del vertebrato può essere garantita solo a partire dall’orientamento. Ma l’orientamento richiede la fissazione di unità esterne: poiché, infatti, la direzione che organizza lo spazio è in ultima istanza quella della propria colonna vertebrale, che è un corpo mobile, in assenza di elementi discreti verso cui dirigersi (o da cui allontanarsi), l’orientamento fallirebbe e con l’orientamento anche la vita animale. La discrezione dello spazio dipende dalla discrezione degli elementi che lo abitano o che vi vengono posti: inscritta nella fisiologia del vertebrato vi è dunque la necessità suprema del riconoscimento. Se egli non riconosce la preda o il nemico, il partner sessuale e la via per tornare nella tana, muore. Ma il riconoscere, anche a questo livello ovviamente del tutto prelogico, implica già l’unità e l’identità: riconosco una cosa in quanto la stessa che già conoscevo, per via anamnestica. O anche 260 Quel che segue è essenzialmente una rielaborazione di quanto LeroiGourhan ha argomentato ne Il gesto e la parola (cit.) e in Meccanica vivente, tr. it. di R.E. Lenneberg Picotti, Jaca Book, Milano 1984. Vedi inoltre N. Russo, Genealogia del linguaggio (cit). 208 meglio: se riconosco una cosa, allora la conosco anche come quell’una e la stessa, quella che già era (τὸ τί ἦν εἶναι...). Da questo punto di vista, dunque, l’ipotesi ontologica dell’unità e autoidentità del qualcosa è preceduta e continua a realizzare, nel suo proprio medium simbolico, l’ipotesi fisiologica e percettiva dell’unità dello stimolo specifico. E che si tratti anche qui di ipotesi è chiaro, poiché quella unità non è in ciò che produce lo stimolo, ma solo nella sua percezione, nello stereotipo percettivo che innesca gli schemi motori della riproduzione, del nutrimento e così via: l’animale non riconosce «la preda», ma percepisce lo stesso stimolo – che in genere riguarda solo pochi elementi stilizzati del suo campo sensoriale, come un certo tipo di movimento o certi intervalli di frequenza della luce – e risponde con uno stesso comportamento. Voglio dire che le stimolazioni ambientali specifiche hanno fondamentalmente l’unico tratto di essere riconoscibili, e ciò nel segno di una riduzione drastica, che ovviamente non singolarizza la percezione, ma al contrario la universalizza: il riconoscimento è possibile solo tralasciando le infinite differenze singolari per cogliere solamente lo «stesso», che non è affatto lo stesso. Il tonno non riconosce la sardina, né tanto meno la intende, a rigori non ne è neppure cosciente (in quanto sardina), ma di certo in qualche modo riconosce il particolare luccichio che essa emette nuotando, lo riconosce di fatto, come stimolo sensibile scatenante261. Questo il piano più elementare, sul quale si innestano poi tutte le varie modificazioni, modulazioni e interazioni che rendono sempre più complesso e flessibile il modo di vita, il quale non è mai puramente reattivo, se è vero che il riconoscimento è sì indotto di volta in volta da qualcosa (di cui, però, l’animale in genere si mette anche in cerca), ma può realizzarsi solo a partire da un principio interno, poiché all’esterno non vi è mai la stessa preda (foss’anche nu- 261 Chissà se Hegel (Fenomenologia dello spirito, cit., pp. 90 s.) pensava a qualcosa di analogo nell’evocare, contro il realismo ingenuo che sostiene “la verità e certezza della realtà degli oggetti sensibili”, la “più bassa scuola della saggezza, gli antichi misteri eleusini di Cerere e di Bacco”, i cui iniziati conoscono “il segreto del mangiare il pane e del bere il vino”, una saggezza che non è preclusa neanche agli animali, se “anzi essi si dimostrano iniziati nel modo più profondo ad essa, giacché non restano fermi dinanzi alle cose sensibili come in sé essenti, ma, disperando di quelle realtà e ben certi della loro nullità, le raggiungono senz’altro e se ne cibano...”. 209 mericamente una) e a volte non vi è affatto una preda. Se l’identità fosse nell’oggetto riconosciuto, infatti, l’animale non potrebbe sbagliarsi nell’identificarlo o lo potrebbe solo a causa di un’alterazione patologica della sua sensibilità. Ma quando il pesce abbocca ad un’esca artificiale, che è tanto meglio concepita quanto più rinuncia alla somiglianza con la preda e riproduce invece solo ciò che corrisponde al tipo di percezione stereotipa specifica che vuole provocare, l’errore non è dovuto alla percezione, che è invece del tutto esatta, ma riposa sul fatto che il riconoscimento ha in sé la misura delle unità riconoscibili, ossia riconosce solo ciò che già conosce. Anche qui, insomma, il «falso» è condizione di possibilità del «vero»: posso identificare la preda e nutrirmene, solo riconoscendola per quello che non è, ovvero, in ultima istanza, solo misconoscendola. Non puramente reattivo, il riconoscimento diviene poi sempre più attivo, soprattutto nelle pratiche di orientamento: l’ambiente è configurato, nella coscienza animale, come ordine discreto incardinato sugli elementi riconoscibili e innanzitutto su quelli che fanno capo agli organi di senso dominanti. E, nell’esplorare un territorio o nel controllarlo, molte specie, compreso l’uomo, rendono l’ipotesi dell’identità una vera e propria tesi: producono nel mondo esterno, marcandone così le coordinate, i percettibili che potranno poi riconoscere. E lo fanno necessariamente ancora in maniera stereotipa: emettendo la stessa sostanza chimica, per esempio, o pronunciando una stessa parola... Tra i due atti – marcare il territorio, e così configurare lo spazio del mondo, con una secrezione chimica o con un simbolo – vi è naturalmente una distanza enorme, ma non mi sembra null’affatto implausibile sostenere la loro analogia funzionale e quindi supporre una linea di sviluppo che, al di là delle pur tante fratture, rimane coerente. Naturalmente argomentarla è ben altra cosa che enunciarne la plausibilità, e altrettanto naturalmente non è questo il luogo per argomentarla: la brevissima narrazione che le ha offerto il minimo di sostanza necessaria per poterla descrivere, serviva solo a indicare una direzione del tutto concreta e positiva della tesi per cui il pensiero vive nel linguaggio. E dunque l’uomo stesso, in quanto «avente linguaggio»: il logos, che è vivente, è di un vivente, ed è anzi proprio il modo primario in cui quel vivente conduce la sua esistenza, orientandosi nel mondo tramite le cose che vi pone e così pure vi riconosce. Questo elemento pratico e vitale del linguaggio, per quanto non strettamente necessario allo svolgimento teorico dell’ipotesi ontologi210 ca, è il suo sfondo e la sua destinazione – e anche la sua ipoteca nietzschiana, se si vuole. Uno sfondo grazie al quale si può forse vedere anche meglio quanto essenziale, al di là della sua centralità entro la storia della metafisica, vale a dire quanto antropologicamente essenziale sia la connessione tra identificazione, localizzazione e riconoscimento; ovvero tra essenza, esistenza, tempo e spazio. Poiché è chiaro che il riconoscimento è il gesto vitale in cui i quattro convergono, o meglio da cui si generano: l’imposizione di una forma allo spazio, che permette l’orientamento, avviene producendo le condizioni del ripresentarsi nel tempo dell’identico, e innanzitutto ipotizzando unità e identità: entità, che non sono né nello spazio, né nel tempo. Ma l’ipotesi stessa naturalmente lo è, o meglio non possiamo non pensarla in un tempo e in uno spazio e a partire da un tempo e da uno spazio: sia perché accade inaugurando una storia, che è quella dell’uomo, sia perché ha la natura di una premessa, di un mettere preliminare, ossia di un aver già sempre messo. Lo ὑπό, infatti, come ricordato sin all’inizio, dice insieme il sotto e il prima, che è il sotto e il prima non solo di ciò che viene messo, ma anche del mettere stesso. Perciò, pur essendo una qualche tesi (ὑπό), l’ipotesi non è mai puramente tesi: nel senso che è una tesi già avvenuta, ovvero mai avvenuta, se il già è sempre già anche prima. L’ipotesi è costantemente prima di se stessa, poiché quando si dà si è già data. E qui forse Heidegger parlerebbe di Ereignis, ma io preferisco limitarmi a notare che la situazione, per quanto vagamente paradossale, è comune a qualsiasi emergenza di una qualche funzione vitale e organica: prima di poter svolgere una qualche nuova funzione, un organo non la svolge e non può neanche cominciare a svolgerla, poiché non ne è affatto l’organo. Una volta che la svolge, ha già cominciato a svolgerla, non può più cominciare di nuovo. In quale tempo e in quale spazio avviene l’oltrepassamento della soglia? Evidentemente in nessuno, poiché prima non vi è neppure la soglia. È solo il dopo, dunque, che pone il prima in quanto prima, prima del dopo il prima è solo il dopo di un altro prima. E, analogamente, è solo la superficie ciò sotto cui si staglia la profondità. E sia dunque la superficie il nostro nuovo punto di partenza: l’ente. 211 piani 1. Adriano Vinale, Pragmatismo americano. Razza e democrazia 2. Fernando Iannetti, Derive del desiderio e metamorfosi del soggetto. Per una nuova critica del politico 3. Nicola Russo, La cosa e l’ente. Verso l’ipotesi ontologica tessere 1. Biagio de Giovanni, Dopo il comunismo 2. Rezvani, Avevo un amico 3. Šestov, Berdjaev, Stepun, Askol’dov, Un artista del pensiero. Saggi su Dostoevskij 4. Jean-Luc Nancy, La comunità inoperosa (3a ed.) 5. Agamben, Badiou, de Carolis, Nancy, Russo, Zanardi, Politica 6. Philip K. Dick, Un oscuro scrutare (esaurito) 7. Juan José Millás, Il disordine del tuo nome 8. Jean-Luc Nancy, Corpus (3a ed.) 9. Giuseppe Di Costanzo, I popoli 10. Luigi Trucillo, Navicelle 11. Maurice Blanchot, L’eterna ripetizione 12. Jean-Luc Nancy, L’«etica originaria» di Heidegger (esaurito), ora in JeanLuc Nancy, Sull’agire. Heidegger e l’etica 13. Gilles Deleuze, Pericle e Verdi 14. Badiou, Castellucci, de Berardinis, Lombardi, Martone, Neiwiller, Moscato, Pardeilhan, Teatro 15. Gilles Deleuze, La filosofia critica di Kant (2a ed.) 16. Jacques Derrida, Cosmopoliti di tutti i paesi, ancora uno sforzo! (2ª ediz.) 17. Collettivo 33, Per l’emancipazione. Critica della normalità 18. Pascale Kramer, Manù 19. Jean-Luc Nancy, Hegel. L’inquietudine del negativo 20. Lino Fiorito e Luigi Trucillo, Polveri Angela Putino, Amiche mie isteriche Gabriele Frasca, Tele Alain Badiou, San Paolo. La fondazione dell'universalismo Massimo De Carolis, Una lettura del «Tractatus» di Wittgenstein Gilles Deleuze, L’esausto (2a ed.) Ingeborg Bachmann, Libro del deserto Abensour, Badiou, Derrida, Ferraris, Franzini, Garelli, Härle, Milner, Nancy, Sossi, Vidal-Naquet, Pensiero al presente. Omaggio a Jean-François Lyotard 28. Gilles Deleuze, Empirismo e soggettività 29. Jean-Luc Nancy, L’intruso (2a ed.) 30. Angelo Maria Ripellino, Nel giallo dello schedario 31. Mario Pomilio, Emblemi 32. Arturo Martone, Questioni di Enunciazione 33. Jacques Derrida, Interpretazioni in guerra. Kant, l’ebreo, il tedesco 34. Mario Di Pinto, Il prigioniero 35. Alain Badiou, Metapolitica 36. Bruno Moroncini, La comunità e l’invenzione 37. Gilles Deleuze, Foucault (2a ed.) 38. Jean-Luc Nancy, Tre saggi sull’immagine 39. Gilles Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione (2a ed.) 40. Julio Cortázar, Teoria del tunnel 41. Valerio Romitelli, Storie di politica e di potere 42. Maurice Blanchot, Nostra compagna clandestina. Scritti politici 43. Jean-Luc Nancy, Sull’agire. Heidegger e l’etica 44. Bruno Moroncini, Sull’amore. Jacques Lacan e il Simposio di Platone 45. Jacques Derrida, Abramo, l’altro 46. Agamben, Altaras, Cavalletti, Cohen Dabah, Härle, Moscati, Traverso, Vidal-Naquet, Shoah. Percorsi della memoria 47. Alain Badiou, L’etica 48. Jean-Luc Nancy, La dischiusura. Decostruzione del cristianesimo I 49. Georges Bataille, Sulla religione. Tre conferenze e altri scritti 50. Bruno Moroncini, Rosanna Petrillo, L’etica del desiderio. Un commentario del seminario sull’etica di Jacques Lacan 51. Peter Weiss, Inferni. Auschwitz Dante Laocoonte 52. Jacques Rancière, L’odio per la democrazia 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 53. Fredric Jameson, Brecht e il metodo 54. Miguel Abensour, La democrazia contro lo Stato. Marx e il momento machiavelliano 55. Alain Badiou, Sarkozy: di che cosa è il nome? 56. Alain Badiou, Manifesto per la filosofia 57. Rino Genovese, Trattato dei vincoli. Conoscenza, comunicazione, potere 58. Gianfranco Borrelli, Il lato oscuro del Leviathan. Hobbes contro Machiavelli 59. Félix Guattari, Sessantacinque sogni di Franz Kafka 60. Bruno Moroncini, Walter Benjamin e la moralità del moderno 61. Fabrizia Di Stefano, Il corpo senza qualità. Arcipelago queer 62. Alain Badiou, Secondo manifesto per la filosofia 63. Agamben, Badiou, De Carolis, Nancy, Russo, Zanardi, Comunità e politica 64. Jacques Rancière, Ai bordi del politico 65. Alain Badiou, L’ipotesi comunista 66. Michel Foucault, Sull’origine dell’ermeneutica del sé 67. Jean-Luc Nancy, L’adorazione. Decostruzione del cristianesimo II 68. Jan Fabre, Giornale notturno (1978-1984) 69. Bruno Moroncini, Lacan politico 70. Brindisi, Cremonesi, Gros, Harcourt, Irrera, Lorenzini, Senellart, Tazzioli, Foucault e le genealogie del dir-vero 71. Amara, Brousse, Castellucci, De Marinis, Di Matteo, Fujii, Kelleher, Marino, Mihaylova, Neri, Papalexiou, Pitozzi, Read, Ridout, Sacchi, Sack, Semenowicz, Tosatti, Toccare il reale. L’arte di Romeo Castellucci 72. Michel Foucault, La grande straniera. A proposito di letteratura 73. José Gil, L’impercettibile divenire dell’immanenza. Sulla filosofia di Deleuze 74. Jan Fabre, Giornale notturno II (1985-1991) 75. Jean-Luc Nancy, Banalità di Heidegger 76. Bruno Moroncini, Perdono giustizia crudeltà. Figure dell’indecostruibile in Jacques Derrida 77. Ermini, Gasparotti, Nancy, Sala Grau, Zanardi, Sulla danza 78. Pietro Montani, Tre forme di creatività: tecnica, arte, politica Finito di stampare nel mese di ottobre 2017 presso La buona stampa s.r.l. – Napoli