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TARANTO E LA STORIA CHE IL CIS DIMENTICA

Gazzetta del Mezzogiorno -30 maggio 2020

TARANTO E LA STORIA CHE IL CIS DIMENTICA Gazzetta del Mezzogiorno – 30 maggio 2020 La poderosa lista di interventi che il CIS finanzierebbe su Taranto pone le basi per una più ampia riflessione su cosa si voglia fare di questa città. I progetti su città vecchia – ribattezzata impropriamente Isola Madre (come una delle isole dell’arcipelago delle Borromee sul Lago Maggiore) –, l’acquario nell'area degli ex Cantieri Tosi, eccetera, rientrerebbero in un più complesso quadro di ‘riqualificazione’ in chiave turistica e culturale della città. Ben poco, nonostante il battage sulla rinascita e il continuo richiamo a qualcosa di nuovo o almeno innovativo, sembra avere caratteri di originalità, di legame autentico con il territorio. Ci sarebbe tanto da dire sulla moda di rinominare questo e quello, dando un bel colpo di spugna alla sedimentazione storica dalla quale ‘città vecchia’, ‘Palazzo degli Uffici’, ‘città dei due mari’ e così via hanno avuto origine. Ma la stessa insana moda della riproposizione a Taranto di format che funzionano altrove, dà l’idea che a mancare sia proprio una visione di Taranto e delle sue peculiarità territoriali e non. L’acquario, come a Genova; le grandi navi, come a Venezia (dove neanche le vogliono più); le luminarie, come a Salerno… Se ci si spinge indietro nel tempo si ricorderà quando la città vecchia era destinata a diventare come Manhattan o la movida in pieno stile Milano da bere dei tempi della Di Bello. La Taranto che si rinnova autodistruggendosi, diceva Rizzo. Una Taranto che aspira ad essere tutto meno che se stessa, diremmo oggi. Al di là delle condivisibili critiche mosse da più parti contro il modello obsoleto dell’acquario – visto come intervento non prioritario rispetto alla bonifica del Mar Piccolo – a lasciare più di qualche dubbio è l’idea che riqualificando qua, ridestinando là, restaurando da quell’altra parte e mettendo in campo una progettualità fatta di hub, waterfront, skyline, resilient-city e chi più ne ha più ne metta, si possa rendere in qualche modo appetibile la città al turista. Non al cittadino, si badi bene. E il rimando, in diversi comunicati, all’apertura di “scorci panoramici” non fa che confermare che la visione dominante è quella della disneyficazione di Taranto, il trionfo di una logica turistica che verrebbe da definire vernacolare e che, altrove, ha mostrato tutta la sua debolezza. Anche nell'acquisto delle case a un euro con l’obbligo di ristrutturazione potrebbe annidarsi qualche rischio: da un lato perché mancherebbe una visione di insieme dell'intervento di recupero, per quanto si possa poi vigilare sulle proprietà private; dall'altro perché, per rientrare nell'investimento, la cosa più probabile che potrebbe accadere sarebbe il fiorire di bed&breakfast e affittacamere, con conseguente gentrificazione della città vecchia. Una trappola nella quale sono caduti diversi centri storici che hanno completamente perduto la propria essenza e ora stentano a ritrovarsi. Su cosa puntare, allora? La risposta, che sembrerebbe banale, è una: sulle peculiarità storiche e territoriali. Verrebbe da dire, sulla sua identità fatta di dialettica tra antico e moderno, tra isola e città nuova, tra ritualità ancestrale e civiltà delle macchine. Le radici e le ali che Alessandro Leogrande amava tanto legare al concetto di identità. Il rilancio di quel Novecento che è anche industria, grandi progetti, storia operaia. Non bisogna avere paura di dirlo: se a raccontarlo fossero un Museo della civiltà operaia e una Galleria d’arte contemporanea si restituirebbe alla città un pezzo della sua storia. Un pezzo di grande fascino nella sua unicità che potrebbe sì divenire anche attrattivo per un visitatore che si troverebbe, in questo caso, di fronte a qualcosa che non può vedere altrove. Qualcosa di peculiare. Ecco perché, in tutta onestà, andrebbe compreso bene cosa si intende per ‘riqualificazione’ di Piazza Fontana, come ci si vuole approcciare a quel monumento così controverso perché racconta in maniera franca, schietta e lungimirante quello che siamo. Uno specchio che riflette, senza neanche deformare troppo, una realtà alla quale si sceglie troppo spesso di voltare le spalle. Che andrebbe probabilmente spiegato prima che ‘riqualificato’.