LA CHIESA NELLA STORIA FRA SANTITA' E PECCATO.
DOTTRINA DELLA GIUSTIFICAZIONE ED ECCLESIOLOGIA
Già pubblicato in Vivens Homo VI/2, 1995, 257-278. Mi sembra utile oggi renderlo facilmente fruibile, in un momento nel quale la Chiesa sta affrontando sul piano pratico il dramma dei disordini finanziari e degli abusi sessuali.
Severino Dianich
1. Introduzione
La dichiarazione di intenti di due grandi teologi del nostro secolo, espressa in maniera lapidaria, ci dà la misura di quanto diverso possa essere il modo di parlare di santità e peccato nella chiesa.
Scriveva Ch.Journet negli anni '40: «Non accetteremo mai che si identifichino con la chiesa i peccati dei suoi membri, con il cristianesimo l'immondezza dei cristiani»
Ch.Journet, L'église du Verbe Incarné, Desclée de Brower, Paris Bruges3, 1962, XIV. . Da una sponda che sembra infintamente lontana K.Barth, invece, aveva esortato i cristiani ad accettare la chiesa nonostante che essa sia immersa nel peccato: «Nella piena, bruciante coscienza della infinita opposizione che vi è tra l'evangelo e la chiesa, non ci disinteresseremo della chiesa, non romperemo la nostra solidarietà con essa; noi accetteremo la chiesa, noi rimarremo in essa, assumendo la nostra parte di responsabilità e di imputabilità per quello che manca e deve necessariamente mancare alla chiesa»
K.Barth, L'Epistola ai Romani (G.Miegge ed.), Feltrinelli, Milano 1962, 316..
Dietro a queste proclamazioni opposte stanno due tradizioni teologiche che hanno pensato diversamente il tema fondamentale della giustificazione: la tradizione cattolica che pensa la santità come un dono divino che trasforma l'uomo interiormente e lo rende santo e, da un altro lato, la tradizione protestante che considera la santità dell'uomo come la santità di Cristo a lui semplicemente attribuita dal di fuori, al modo di una "imputazione" dall'esterno di una giustizia che non lo trasforma nella sua interiorità
Cf la Solida Declaratio III, 55: «Cum igitur in ecclesiis nostris apud theologos augustanae confessionis extra controversiam positum sit totam iustitiam nostram extra nos et extra omnium hominum merita, opera, virtutes atque dignitatem quaerendam, eamque in solo Domino nostro Jesu Christo consistere...» (Bekenntnisschriften der evangelische-lutherischen Kirche, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1992, 933). Il concilio di Trento invece condannava chi intendesse affermare che «hominem iustificari vel sola imputatione iustitiae Christi, vel sola peccatorum remissione, exclusa gratia et caritate, quae in cordibus eorum per Spiritum Sanctum diffundatur atque illis inhaereat» (Denz 1561)..
Tutti sanno ormai che oggi questo muro divisorio fra le due confessioni non è più impenetrabile e che la riflessione teologica lo sta attraversando in diversi modi e con interessanti risultati. La pubblicazione della dissertazione di H.Küng sulla giustificazione e la lettera che K.Barth gli scrisse in quell'occasione, riconoscendo la correttezza della interpretazione che egli aveva dato del suo pensiero e, quindi, la possibilità di una sua convergenza con il pensiero cattolico, sono un episodio noto e di grande interesse
Scriveva K.Barth a H.Küng il 31 gennaio 1957: «Se quello che lei trae dalla Sacra Scrittura, dalla teologia cattolica romana di ieri e d'oggi e dal "Denzinger" stesso, e, quindi, dai testi del concilio di Trento, è realmente la dottrina della sua chiesa, e se questo potesse essere verificato come tale (forse la verifica verrà dal consenso che incontrerà il suo libro), in tal caso ben volentieri, dopo essere già stato tre volte nella chiesa di S.Maria Maggiore a Trento per dialogare col genius loci, io m'imporrei l'obbligo di tornarvi in fretta una terza volta (sic!): questa volta per confessare un contrito: Patres peccavi!» H.Küng, La giustificazione, Queriniana, Brescia 1969, 7s..
Solo negli anni 80 però - notava O.H.Pesch - si risveglia la discussione sul tema dal punto di vista del suo riflesso sull'ecclesiologia: si tratterebbe di «un punto di vista che, ovviamente, la teologia evangelica aveva sempre reclamato ostinatamente e che la teologia cattolica, con poche eccezioni, aveva sempre eluso altrettanto ostinatamente»
O.H.Pesch, Giustificazione in P.Eicher (ed.), Enciclopedia teologica, Queriniana, Brescia 1989, 427-440, v. 428.. In fondo i riformatori avrebbero inteso riformulare la dottrina della giustificazione, proprio perchè la chiesa avrebbe con le sue leggi deformato la fede: secondo il loro giudizio bisognava combattere quella legalizzazione della grazia che la chiesa stava realizzando attribuendosi il potere di amministrarla. Essendo, invece, il contrasto tra essere e dover essere ineliminabile, bisogna che la chiesa se ne faccia carico senza pretendere per le sue strutture alcun potere giustificante
Ibid., 438.. Non solo il problema delle strutture ecclesiastiche, delle leggi e dei sacramenti della chiesa risultava connesso con la questione della giustificazione. Anche la formula scolastica cattolica della "caritas forma fidei" fu giudicata come il massimo fraintendimento del principio salvifico della sola fede
H.Ringeling, Liebe. VIII.Dogmatisch, in Theologische Realenzyclopädie 21, De Gruyter, Berlin New York 1991, 170-177, v. 173., quasi che la santità di Cristo, che nella fede viene attribuita alla chiesa, esigesse per raggiungere la pienezza della sua forma le opere della carità dell'uomo
Lutero sottolineava la differenza della sua dottrina con quella cattolica dicendo: «Quae igitur fidei tribuimus, isti charitati tribuunt et eam fidei praeferunt» (WA 40, III, 368). Vedi un'ampia e precisa descrizione della problematica, prima che questa venisse affrontata con precise preoccupazioni ecumeniche, in J.A.Möhler, Simbolica, Jaka Book, Milano, 1984. Potrebbe essere utile riferirsi anche a J.H.Newmann, Che cosa ci salva. Corso sulla dottrina della giustificazione (F.Morrone ed.), Jaca Book, Milano, 1994, il quale proponeva, ancora da anglicano (1838), in quest'opera che poi avrebbe ripubblicato da cattolico (1874), la dottrina dell'inabitazione come la via migliore per comporre la tesi protestante con quella romana..
2. Giustificazione e chiesa
Il 13 settembre del 1993 i membri della Commissione congiunta cattolica romana - evangelica luterana firmavano un lungo e articolato documento, intitolato Chiesa e giustificazione. La comprensione della chiesa alla luce della dottrina della giustificazione
Chiesa e giustificazione, in Il Regno, 39, 1994, 603-640.. Questo testo, che si presenta quasi come un trattatello ecumenico di ecclesiologia, si apre con la dichiarazione: «Cattolici e luterani hanno in comune la fede nel Dio trinitario, il quale giustifica il peccatore a causa di Cristo per grazia mediante la fede e lo rende nel battesimo membro della chiesa. La fede e il battesimo collegano quindi la giustificazione e la chiesa»
N.1, p.604. Perciò si ritiene che «il consenso sulla dottrina della giustificazione - pur con diverse accentuazioni - deve trovare conferma sul piano ecclesiologico». Ed è dalla fede espressa da questa dottrina che dovrà essere giudicata «tutta la vita e l'azione della chiesa»
N.1, p.604..
Della chiesa il documento ha un senso grande e ne parla senza complessi, anzi con entusiasmo: «Dio fa partecipare la chiesa alla sua vita trinitaria: la chiesa è il popolo di Dio, il corpo del Cristo risorto, il tempio dello Spirito Santo; e l'unità o la comunità (koinonía, communio) della chiesa partecipa all'unità di Dio uno e trino e la riflette»
N.49, p.610.. In conseguenza di ciò gli estensori del documento possono affermare: «Professiamo unanimemente con le confessioni di fede della chiesa antica che la chiesa è "santa". Questa santità consiste essenzialmente nell'appartenenza della chiesa al Dio uno e trino, il "solo santo" (cf. Ap 15,4), dal quale essa viene e verso il quale essa va». Né fanno a meno di aggiungere che «nella misura in cui la santità della chiesa si fonda in permanenza sulla santità di Dio uno e trino...la chiesa, nella sua santità, è indefettibile»
N.148, p.622; n.149, p.623.. La fede, però, nella indefettibilità della santità della chiesa è vista nella sua prospettiva escatologica, «nel segno del "già" e "non ancora"»
N.153, p.623.. Il fatto di appartenere a Dio e, quindi, di poter contare su di lui con la certezza che il dono della sua santità non verrà mai meno alla chiesa, non la esime perciò dal travaglio di «un'incessante lotta contro il peccato» e dal «bisogno di fare ogni giorno penitenza e di chiedere perdono»
N.155, p.623.. «In questo senso - potranno dire cattolici e protestanti - non esiste fra noi alcun dissenso sul fatto che la chiesa è, al tempo stesso, "santa" e "peccatrice"»
N.156, p.623. . Quindi, quella della chiesa è santità vera ed insieme è santità imperfetta, vissuta perciò nella fatica del cammino della storia, della continua conversione, e nell'attesa della perfezione.
Orbene - nota il documento della Commissione Mista - fra cattolici e luterani si è ormai registrato un ampio consenso sulla dottrina della giustificazione . Quando la si mette in rapporto, però, con la concezione della chiesa affiorano sempre due opposte preoccupazioni: da un lato che l'insistenza sulla giustificazione per la sola fede sminuisca il senso della chiesa e della sua santità e, dal lato opposto, che la concezione della chiesa come sacramento di salvezza annulli la fiducia nella giustificazione per la sola fede. Si tratta però di preoccupazioni che in realtà dovrebbero essere superate sulla scorta del Nuovo Testamento che mai lascia pensare ad una opposizione fra il vangelo e la chiesa
Nn. 166-168, p.624.
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E' possibile allora trovare la chiave risolutiva del dilemma in un serio recupero della prospettiva escatologica, la quale comporta una seria considerazione della forma empirica della chiesa come soggetto protagonista della storia umana. E' a questo livello, infatti, che si incontra il nodo più duro da sciogliere per comprendere correttamente la professione del Simbolo che dichiara la chiesa santa. E non è detto, a questo punto, che sia la divaricazione confessionale a creare difficoltà, poichè sia nel protestantesimo che nella tradizione cattolica possiamo incontrare la medesima tendenza a trasferire la santità della chiesa ad una specie di sua ipostasi astorica, che non coinciderebbe con la sua figura escatologica, ma neppure potrebbe essere pensata in alcun modo come quel soggetto collettivo che, accanto a tanti altri, opera all'interno della vicenda degli uomini e di cui si occupano con la loro competenza gli storici della chiesa. Così sembra che si possa professare la fede nella santità della chiesa in maniera del tutto indipendente dalla condizione di peccato in cui inevitabilmente vivono i cristiani.
3. Santità fuori della storia
La visione della chiesa di K.Barth nel suo celebre commento alla Lettera ai Romani e la monumentale ecclesiologia de L'église du Verbe Incarné di Ch.Journet ci offrono due esempi molto significativi di una concezione della santità della chiesa posta al di fuori della storia. A molti potrà sembrare assai strano l'accostamento di questi due pensatori in realtà così antitetici fra di loro. Eppure in questo essi si incontrano: la vera essenza della chiesa va ricercata non nell'esistenza concreta delle persone dei credenti, ma in una realtà che sempre e comunque sta al di là di essa.
Ben si sa che Barth nella sua maturità sfumerà il radicalismo aggressivo della sua prima opera, anche se non si può dire che mai ne abbia smentito la tesi fondamentale
H.U.Von Balthasar, La teologia di K.Barth, Jaca Book, Milano 1977, 74-77.. Ebbene, domandandosi in che consiste e dove sta la santità della chiesa, la prima cosa da affermare per Barth è che «non vi è nulla di inequivocabile, di puro, di innocente, di giusto che abbia valore davanti a Dio in questa vita! Il significato, l'ultima parola, la vita in questa vita è sempre il peccato»
K.Barth, L'Epistola ai Romani (G.Miegge ed.), Feltrinelli, Milano 1962, 185.
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Ora l'"evangelo", il nucleo sublime e gioioso della rivelazione cristiana, consiste nell'annuncio che Dio in Cristo ci si rivela nella sua infinita differenza qualitativa, di fronte alla quale noi non abbiamo nessun presupposto con cui prevenirlo né alcunchè da offrirgli: «L'impossibile come tale balena al di sopra del regno apparentemente infinito del possibile». Ebbene, si domanda Barth, in questo particolarissimo frangente la chiesa come si trova? Di fronte a questo evento la chiesa, non già considerata nelle sue inevitabili degenerazioni ma addirittura nel suo aspetto più puro, come sta? Essa è il luogo dove «si ha fede, speranza e amore nel modo più diretto, ove si è figli di Dio nel modo più diretto, ove il regno di Dio è atteso e promosso nel modo più diretto, come se tutte queste fossero cose che si possono essere, avere, aspettare o elaborare». Essa è quindi, per la sua stessa natura e nella maniera più clamorosa, «il tentativo di rendere concepibile la via inconcepibile». E' così che appare ineluttabile il suo scontro con l'annuncio di una salvezza che viene tutta e solo dal Totalmente Altro: «L'antitesi dell'evangelo e della chiesa è fondamentale e infinita su tutta la linea».
Barth descrive quasi divertito i patetici tentativi che lungo la storia della chiesa santi e profeti hanno fatto per migliorarla e riformarla: tentativi patetici, perchè non possono che concretizzarsi, tanto più quanto è grande il successo che ottengono, nel peccato di una pretesa di santità che invece può venire solo dall'alto. Egli ritiene in maniera perentoria che proprio là «dove la chiesa raggiunge il suo scopo come servizio reso dall'uomo all'uomo, essa fallisce al fine di Dio e il giudizio è alla porta»
Ibid., 313-317.. La chiesa, quindi, è peccato per il solo fatto di esistere, di pretendere con il suo zelo di realizzarsi come compimento dell'amore di Dio in opere umane, perchè così essa si costituisce come la negazione dell'evangelo della salvezza per sola grazia: «Questo suo non voler morire è la sua vera tragedia»
Ibid., 326...
Per uscire da questa che Barth chiama la sua "distretta", la chiesa dovrebbe accettare davvero e fino in fondo l'evangelo; ma quando davvero avvenisse questo "miracolo" - così egli lo definisce - la chiesa si dissolverebbe. Nel commentare il verso 13 del capitolo quinto della lettera ai Romani («Io ho amato Giacobbe, ma ho odiato Esaù»), che diventa un refrain lungo molte pagine dell'opera, Barth espone il suo pensiero su quello che egli chiama «il mistero della doppia predestinazione»: Esaù e Giacobbe non sono due categorie di uomini, ma costituiscono il mistero di ogni uomo: «Giacobbe è l'Esaù invisibile, Esaù è il Giacobbe visibile»
Ibid., 339.. E così la chiesa visibile è l'Esaù odiato da Dio in questo suo porsi nell'esistenza con la pretesa di raggiungere l'irraggiungibile e di umanizzare il divino gesto salvifico. Quando però il "miracolo" accadesse e la chiesa di Esaù, nella radicale accettazione dell'evangelo, diventasse chiesa di Giacobbe, a quel punto essa non potrebbe più ritrovarsi in un'aggregazione sociale, dalla forma empirica circoscritta e determinata. Perchè nel momento in cui noi fossimo la chiesa di Giacobbe ci domanderemmo: «Chi noi?» E dovremmo rispondere: «Non questi o quelli, non una congregazione rappresentabile quantitativamente, non un numerus clausus, anzi non un numerus affatto». Se è Dio colui che elegge nella sua misericordia, con ciò stesso spariscono tutte le divisioni che possono percorrere la storia degli uomini: «Soltanto la chiesa di Esaù ha ancora e sempre bisogno delle siepi che dividono Israele da Edom, i giudei dai pagani, i credenti dai non credenti. Quando, nell'attimo eterno, la chiesa di Giacobbe sorge in Cristo, le siepi sono abbattute»
Ibid. 342..
A partire dal quella che Von Balthasar chiama «una sorta di teopanismo», nel quale al mondo nulla spetta e dal mondo non c'è nulla da aspettarci di fronte a Dio, Barth doveva giungere necessariamente a vedere nella chiesa «il luogo del massimo inasprimento dialettico», in quanto il suo porsi nell'esistenza come "chiesa santa" è il colmo della hybris e la più «grande negazione della rivelazione». Si può professare allora la fede nella santità della chiesa solo andandone a cercare l'essenza nel mistero della divina agápe nel quale sono chiamati gli eletti. Così facendo però vediamo la dimensione sociale della chiesa ritirarsi e farsi latente. Là dove, invece, la dimensione sociale appare, si manifesta e domina il peccato
Vedi H.U.Von Balthasar, o.c., 85s, 109 e 120s... Ciò che fa storia, quindi, è la chiesa in quanto peccato e non la chiesa santa; la chiesa santa, di contro, l'oggetto puro dell'elezione divina non sta nei contorni di alcuna aggregazione sociale, non ha alcuna forma empirica e quindi non sta dentro la vicenda umana come un vero protagonista della storia. Per Barth infatti non si dà una vera e propria storia della chiesa: oggetto dell'indagine storica non è propriamente la chiesa, ma semplicemente quel complesso di istituzioni che il cristianesimo ha creato e nelle quali si è espresso all'interno della esperienza degli uomini
Sul pensiero di Barth a proposito del rapporto fra l'essenza della chiesa e la sua forma empirica vedi E.Hübner, Theologie und Empirie der Kirche, Neukirchener Verlag, Neukirchen 1985, 83-106..
Ch.Journet è criticamente, ma appassionatamente, interessato al pensiero di Barth e non teme di esprimere tutta la sua ammirazione per la sua opera. Richiamandosi al suo radicale rifiuto dell'analogia, egli osserva che l'alternativa offerta non è già quella di un'equivocità in forza della quale Dio e l'uomo sarebbero due entità che non hanno nulla a che fare l'una con l'altra, bensì quella di «un'univocità aggressiva che, attribuendo a Dio solo la santità, la rifiuta all'uomo, ricacciandolo così totalmente nel peccato»
Ch.Journet, L'église du Verbe Incarné, Desclée de Brower, Paris Bruges3, 1962, XIV.. Il dissenso di Journet è quello ben deciso della tradizione cattolica a proposito della dottrina della giustificazione: la fede e il battesimo non producono l'imputazione di una giustizia esterna all'uomo che interiormente resterebbe peccatore, ma realmente trasformano l'uomo rendendolo per grazia partecipe della santità divina.
Per Ch.Journet la possibilità della redenzione dell'uomo si basa sulla appartenenza fondamentale, in forza della creazione, di tutti gli uomini a Cristo, con il quale essi formano un'unica persona giuridica. Ora, il grave limite della dottrina protestante della giustificazione consisterebbe nel fatto che la grazia soprannaturale non farebbe uscire il rapporto dei credenti con Cristo dal quadro dell'appartenenza a Cristo come ad una persona giuridica e non li collocherebbe nell'ambito nuovo di un'appartenenza reale ed ontologica. Secondo Journet, quindi, nella dottrina dei protestanti «la chiesa e il Cristo formano insieme una sola persona giuridica che è realmente, allo stesso tempo, giustizia nel suo capo e peccato nel suo corpo; che non è del tutto giustizia né del tutto peccato se non in forza di una intercomunicazione giuridica di queste sue proprietà per cui la giustizia del Cristo passa alla chiesa così come il peccato della chiesa passa al Cristo, che per noi è stato reso "peccato" e "maledizione"». Nella dottrina cattolica, invece, la giustificazione consiste nel collocare i credenti in un rapporto di solidarietà con Cristo non solo di tipo giuridico ma reale ed ontologico, per la quale essi sono veramente membra di Cristo. Così «la chiesa forma con il Cristo, per unione di amore nella grazia, una sola persona reale di cui solo bestemmiando si potrebbe dire che essa è insieme giustizia e peccato»
Ibid. 220..
E' dalla considerazione di questo stretto congiungimento della chiesa con Cristo che partiva la decisione di Journet, ricordata all'inizio, di non voler mai e in alcun modo giungere ad attribuire alla chiesa i peccati dei cristiani: il nodo da sciogliere, però, resta quello del peccato dei cristiani. Sembra di essere posti inevitabilmente di fronte ad un dilemma: o la carità non è un costitutivo essenziale della chiesa e, quindi, la sua santità dovrà essere interpretata come una qualitas che non comprende una effettiva esistenza nell'amore, o i peccatori che non vivono nella carità non appartengono più alla chiesa. Ebbene per Journet questo è un falso dilemma. Ma proprio per dimostrarne la falsità egli verrà trascinato sullo stesso terreno sul quale Barth si ritrovava a dover condurre la chiesa, quando ne avesse voluto considerare la vera essenza e la grazia della santità, cioè una concezione della "chiesa santa" intesa come una realtà non più appartenente alla vicenda storica dell'umanità.
A dire il vero è proprio questo ciò che egli stesso obietta contro coloro che intendessero attribuire alla chiesa la condizione di peccatrice, giudicando che costoro pensano platonicamente, nel senso che essi riterrebbero la chiesa storica un conglomerato di purità e di immondezza, di bene e di male, di amore di Dio e di amore del mondo e quindi dovrebbero riservare la proprietà della santità ad una chiesa ideale che sarebbe, essa sola, «senza macchia né ruga». Egli intende allora opporre a questa idea una distinzione diversa: non bisogna distinguere fra una chiesa realmente esistente ed una chiesa ideale, bensì fra il «cristianesimo esistente» ed «cristiani esistenti». La chiesa infatti dovrebbe essere ritenuta assolutamente somigliante a Cristo il quale non è santo solamente nella sua figura ideale, bensì nella sua esistenza reale
Ibid. 916.. Così facendo, però, si è costretti ad ipotizzare una chiesa esistente indipendentemente e al di là dell'esistenza dei cristiani che la compongono. Journet infatti ci spiega che la santità della chiesa è altra cosa dalla somma della santità dei cristiani: e non si tratta di una differenza diciamo così quantitativa ma qualitativa, trattandosi di santità dell'azione di Cristo e dell'animazione dello Spirito che muove e fa agire la chiesa al di là delle azioni dei singoli credenti
Ibdem 898..
Egli esplicita ulteriormente il suo pensiero affermando che si può considerare la chiesa sul piano empirico, filosofico o teologico. Sul piano teologico, inoltre, si può parlare della chiesa materialmente o formalmente. Orbene, quando si intenda parlare della chiesa da un preciso punto di vista teologico formale, certamente non si può dire che i peccatori sono nella chiesa in quanto peccatori, cioè per i loro peccati. Ma neppure si potrebbe affermare che essi, con i loro peccati, costituiscono la chiesa in quanto corpo di Cristo, giacchè dirlo equivarrebbe ad affermare che in essa il capo è santo mentre il corpo è peccatore. Solo in una considerazione puramente materiale si potrebbe dire, quindi, che i peccatori compongono la chiesa; formalmente non si può asserire altro se non che essa è tutta e solo santa, in quanto è il corpo di Cristo. Il suo rapporto con la condizione reale dei suoi membri dovrà allora necessariamente essere pensato nel senso che essa si incarna in essi in tutto ciò che è puro e santo nell'esistenza dei cristiani, assumendo in sè ciò che che vi è di giusto anche nei credenti che peccano e lasciando fuori di sè ciò che vi è di impuro anche nei giusti che vivono santamente
Ibid. 911-914.
Stendendo l'introduzione per la terza edizione del primo volume della sua opera monumentale Journet si sofferma con ostinazione e con ulteriori precisazioni su questa sua tesi. Egli intenderà parlare della chiesa sempre in senso teologico formale. Egli sa che spesso se ne parla in senso materiale e così la si considera composta di giusti e di peccatori, mescolata di santità e di peccato. Questo avviene «presso gli empiristi, in particolar modo gli storici, che per mestiere considerano la chiesa piuttosto da un punto di vista esteriore, descrittivo, fenomenale». Oppure una tale considerazione si ritrova «presso i predicatori della fede e gli uomini apostolici. Non che manchino di amore o di attenzione per il mistero della chiesa! Ma essi sono portati a considerare questo mistero non tanto nel suo aspetto ontologico quanto nel suo aspetto dinamico, morale, deontologico»
Ch.Journet, o.c., T.I, XV.. Queste osservazioni dimostrano chiaramente che qualsiasi considerazione della chiesa, che la colga all'interno della storia, che la consideri come una comunità composta di persone in carne ed ossa, le quali operano all'interno della vicenda storica, non può essere oggetto della riflessione teologica. Dove sta allora la chiesa dei teologi? Se essa è senz'altro santa, non è la comunità cristiana in quanto presente come soggetto storico che opera concretamente all'interno della vicenda umana. Con maggiore determinatezza di Journet, J.Maritain condurrà alle ultime conseguenze questa concezione, affermando che la chiesa in realtà ha «una doppia subsistenza»
J.Maritain, La chiesa del Cristo, Morcelliana, Brescia 1977, 26.. Nella sua subsistenza soprannaturale essa è totalmente e sempre santa, ma non si dovrà dimenticare che essa è una tale persona solo in quanto Cristo le conferisce la sua personalità in forza della sua presenza in essa. Essa quindi non agisce attraverso i singoli cristiani, i quali costituiscono solamente la sua subsistenza naturale, se non quando il Cristo li assume esplicitamente come suoi strumenti. E' così che possiamo scorgere la persona della chiesa in azione nella storia solamente là dove la sua santità e infallibilità è garantita dal Cristo stesso, cioè nelle definizioni infallibili del magistero, nella celebrazione dei sacramenti e nella vita dei santi canonizzati
Ibid., 152-157. Ho discusso ampiamente questa tesi nel mio Ecclesiologia. Questioni di metodo e una proposta, Paoline, Cinisello B. 1993, 30-34. In tal modo la comunità cristiana che opera nella storia attraverso i suoi membri non è propriamente la chiesa che opera, ma solo il suo presupposto materiale costituito dalla moltitudine dei fedeli. La vera persona della chiesa invece vive ed agisce ad un altro livello: le sue manifestazioni storiche sono totalmente mediate dalla fede nel magistero che definisce il dogma e canonizza i santi.
Da queste osservazioni dobbiamo quindi trarre una conclusione un po' paradossale: sia inseguendo la dottrina protestante della imputazione puramente esterna della giustizia al credente, sia aderendo alla dottrina cattolica di una giustizia interiore al giustificato, si può pervenire a considerare la chiesa santa vivente ed operante su di un piano del tutto diverso da quello sul quale operano i soggetti storici empiricamente osservabili. La storia in realtà è così evidentemente e profondamente impastata di peccato che l'adesione alla fede del Simbolo, per la quale professiamo di credere nella "chiesa santa", ce la fa fuoriuscire dalla condizione storica reale in cui vivono le persone dei credenti in carne ed ossa ed esistere in una sorta di empireo che sovrasta gli spazi della storia.
4. Santità' dentro la storia
Un esempio notevole della possibilità di restare fedeli alla tradizione protestante sulla giustificazione ed allo stesso tempo di non emarginare come pura controfigura della chiesa la sua forma empirica e storica ci viene offerto da Sanctorum communio di Dietrich Bonhoeffer
D.Bonhoeffer, Sanctorum communio. Una ricerca dogmatica sulla sociologia della chiesa, Herder Morcelliana, Brescia 1972. Nonostante che Karl Barth resti per lui un punto di non ritorno, egli non manca di nutrire alcuni timori sul conto del maestro, cioè che nella sua teologia venga messa in ombra la chiesa, oscurata dalla luce accecante del concetto di rivelazione, o che il suo pensiero provochi una ondata reazionaria nei confronti dei guadagni più validi della teologia liberale, fra i quali quello della valorizzazione della dimensione storica della fede cristiana
E.Bethge, Dietrich Bonhoeffer teologo cristiano contemporaneo, Queriniana, Brescia 1975, 75-88 (Non si dimentichi che Bonhoeffer era stato allievo di Harnack a Berlino). Si può vedere una dettagliata e puntigliosa analisi delle differenze di impostazione che corrono fra il Römerbrief di Barth e Sanctorum Communio di Bonhoeffer in J.Von Soosten, Die Sozialität der Kirche. Theologie und Theorie der Kirche in Dietrichs Bonhoeffers "Sanctorum communio", Kaiser, München 1992, 201-227..
Scrive Italo Mancini nella sua Introduzione a Sanctorum communio che per Bonhoeffer «la chiesa "essenziale" non esiste che empiricamente...la sua empiricità sociologica non è un fenomeno puramente accidentale, come in Barth, ma un fenomeno che rientra nel modo di essere della chiesa, in quanto fa i conti con la storicità presa in un senso molto serio»
I.Mancini, Chiesa di popolo in D.Bonhoeffer, Sanctorum communio. Una ricerca dogmatica sulla sociologia della chiesa, Herder Morcelliana, Brescia 1972, XLVIII..
Bonhoeffer ritiene necessario chiarire un concetto che egli giudica fondamentale e che spesso è sottoposto a molte confusioni, quello di spirito oggettivo. «Lì dove si uniscono delle volontà - egli scrive - nasce una "struttura", cioè un terzo elemento, sconosciuto fino ad allora, e che non dipende dalla volontà o no delle persone che si uniscono fra di loro... Due volontà che si incontrano formano una struttura...Questa struttura è appunto lo spirito oggettivo»
D.Bonhoeffer, o.c., 65.. Pare così che siamo ancora una volta condotti sulla strada che permette di parlare della chiesa come di un soggetto che non è l'insieme dei cristiani che la compongono. Però si va su questa strada in maniera assai più cauta di come vi procedeva il nostro Journet: «(Lo spirito oggettivo) conduce una vita individuale al di là delle persone singole, e tuttavia è reale solo grazie ad esse»
Ibid., 66.. Ed è reale solo grazie ad esse - dovremmo aggiungere - in tutto ciò che esse sono nei loro valori e nei loro peccati: il peccato entra a far parte dello spirito oggettivo
Ibid., 161.
Lo spirito oggettivo della chiesa, dunque, non è lo Spirito Santo. Ci sono due pericoli da evitare a questo proposito, secondo Bonhoeffer. C'è infatti una tendenza a ritenere la imperfezione della chiesa già essa stessa peccato: così facendo non si «tiene conto della serietà storica della chiesa e si dimentica che Cristo è entrato nella storia e...la chiesa è la sua presenza nella storia...è Cristo esistente come comunità». Ma si perde il senso della dimensione storica della chiesa anche se, a rovescio, si cede alla tendenza di ridurre il suo peccato ad imperfezione, perchè così facendo si riduce la chiesa empirica ad una semplice «forma di manifestazione della chiesa irreale-ideale del futuro»
Ibid., 156.. Lo stato imperfetto, quindi, che è la forma storica della chiesa non è peccato né può essere ritenuto incompatibile con la presenza in essa di quel Cristo che si è pur fatto parte della storia umana. D'altra parte il peccato presente nella chiesa non deve essere attribuito semplicemente alla condizione del suo stato imperfetto, quasi che la chiesa santa debba essere cercata non qui, nella sua peregrinazione terrena, ma solo nella forma perfetta che essa avrà nell'éschaton compiuto. La chiesa, per Bonhoeffer, è allora una vera sanctorum communio nella sua stessa forma di peccatorum communio, pena il dissolvimento della sua forma empirica e la sua sparizione dalla storia.
Per questo - egli sostiene - non sarà mai lecito identificare hegelianamente lo spirito oggettivo della chiesa con lo Spirito Santo. Lo Spirito Santo anima la chiesa e ci santifica realmente riunendoci nel suo spirito oggettivo, però «la santificazione reale è solo un segno precursore delle realtà ultime; qui noi camminiamo ancora nella fede, cioè vediamo solo il nostro peccato e crediamo nella nostra santità»
Ibid., 157.. Ciò che crediamo è quindi che lo Spirito Santo ci santifica riunendoci nella chiesa: sanctorum communio; ciò che vediamo, invece, sono i credenti e la comunità che essi formano: peccatorum communio. Il convergere dei singoli nello spirito oggettivo della chiesa certamente determina un orientamento nuovo delle volontà, senza impedire però che vi entri anche l'orientamento vecchio, quello del peccato. In conclusione della chiesa bisognerà dire che il suo «spirito umano oggettivo si trova nell'ambiguità storica di tutte le comunità profane, di tutte le cosidette unioni ideali, con la loro vanità, esaltazione e falsità, ma tuttavia con la rivendicazione e la certezza di essere ugualmente chiesa di Cristo, e di stare, nonostante tutto, in una chiesa edificata e sorretta dallo Spirito Santo»
Ibid., 161.
Quella "ricerca dogmatica sulla sociologia della chiesa" che è la dissertazione bonhoefferiana Sanctorum communio, intendendo inglobare nella riflessione teologica anche la realtà empirica, non poteva non approdare ad una considerazione integrale, nella quale la fattualità storica del peccato e la dimensione misterica della grazia costituiscono l'indissolubile intreccio della chiesa in questo suo cammino verso la sua forma perfetta.
Se non quanto la teologia di Journet da quella di Barth, certamente non poco distante da quello di Bonhoeffer è il pensiero di Hans Urs Von Balthasar. Tanto è vero che ripercorrendo in tutti i dettagli il suo cammino di teologo
H.U.Von Balthasar, Il filo di Arianna attraverso la mia opera, Jaca Book, Milano 1979. egli, pur abbondando nel ricordare gli autori verso i quali sente di aver un debito, non nomina neppure l'opera di Dietrich Bonhoeffer. Ambedue, però, sia pure da sponde diverse, hanno in grande considerazione l'opera di K.Barth. Ma hanno anche in comune qualcosa che da lui li distanzia: l'affermazione della santità come una caratteristica della comunità cristiana presente nella storia. Essi, diversamente da Barth e da Journet, assumono a pieno titolo nell'essenza della chiesa anche la sua forma empirica e così ne leggono la santità intrecciata con il peccato: per Bonhoeffere la chiesa è sanctorum e peccatorum communio e per Von Balthasar essa è la casta meretrix.
Anche in Von Balthasar non di rado appaiono in superficie le venature barthiane del suo pensiero: egli sente la chiesa come l'unità di coloro che «sono disposti e pronti a fare in modo che abbia a realizzarsi la volontà di salvezza di Dio su se stessi e su tutti i fratelli» e scorge nell'ascolto della Parola, inteso come disponibilità all'accoglienza dell'agápe divina, il suo atto costitutivo fondamentale: «Dovunque si verifica l'atto fondamentale dell'ascolto...c'è chiesa spirituale. Dove la chiesa difetta di quest'atto, diventa anch'essa una "cortigiana Gerusalemme"»
Ibid., 22s.. Non lo convince affatto, poi, l'idea che la chiesa possa essere pensata al di là delle persone concrete dei credenti: «Noi non abbiamo potuto aderire all'opinione secondo la quale la chiesa formalmente consisterebbe solo della grazia sacramentale cristiforme, mentre le persone umane in essa accolte vi rappresenterebbero solo l'aspetto materiale. Proprio delle persone e della loro "ecclesializzazione" si tratta, essa è il fine»
U.Von Balthasar, "Chi è la chiesa?", in "Sponsa Verbi", Morcelliana, Brescia, 1969, 139-187, cit 177. Al contrario - egli sostiene - tutto ciò che è strutturale è puramente strumentale. Quindi non ha senso pensare la struttura gerarchico-sacramentale presa in se stessa come l'elemento formale della chiesa, mentre i fedeli ne costituirebbero solamente il momento materiale: «Solo il raggiungimento delle reali persone umane, la loro compenetrazione ed elevazione a membri del corpo mistico può valere come fine e senso di tutta la struttura formale e della grazia sacramentale e costituisce con ciò "la chiesa"»
Ibid., 153s.
Se così è, diventa essenziale per comprendere la chiesa far interagire fra di loro il suo spirito soggettivo e lo spirito oggettivo. Quest'ultimo è costituito dal contenuto delle strutture ecclesiastiche, mentre lo spirito soggettivo consiste nell'atteggiamento totalmente recettivo della fede del credente. Ebbene, nella inevitabile sproporzione che immediatamente si manifesta fra lo spirito oggettivo e lo spirito soggettivo emerge il peccato della chiesa santa. Von Balthasar lo scorge nella promessa e nel conferimento del primato a Pietro, là dove appare chiaro che lo spirito soggettivo di Pietro non è all'altezza dello spirito oggettivo del primato e del sacramento. E questo non solo perchè Pietro è peccatore, ma anche perchè solo in Cristo si dà una perfetta coincidenza fra i due elementi per i quali la soggettività realizza pienamente il suo atteggiamento oblativo nella perfetta obbedienza alle esigenze strutturali dello spirito oggettivo. Solo Cristo può essere insieme vittima e sacerdote. La chiesa realizza una simile identità solo nella persona di Maria: per questo accanto al principio petrino Von Balthasar parlerà sempre anche di un principio mariano e vedrà affiancarsi nella chiesa alla gerarchia dell'istituzione anche una gerarchia della santità
Ibid., 156-162.. Non a caso egli considererà la distinzione fra religiosi e secolari più radicale e decisiva per la chiesa della distinzione fra chierici e laici
H.U.Von Balthasar, Christlicher Stand, Johannes Verlag, Einsiedeln 1977, 103-136; 294-314.
Con queste premesse si avvia una ampia ricerca sull'antico theologoúmenon della "casta meretrix"
H.U.Von Balthasar, "Casta meretrix" in Sponsa Verbi, Morcelliana, Brescia 1969, 189-283.. Non solo la figura di Gerusalemme infedele ed adultera, infatti, viene assunta dai Padri per parlare di santità e peccato nella chiesa, ma anche la numerosa presenza di donne peccatrici nella narrazione evangelica apre una impegnativa riflessione sulle condizioni dell'esistenza ecclesiale. L'incontro di tali donne con Gesù, il suo perdono e la loro conversione non si riferiscono solamente agli atti di fondazione della chiesa, senza avere più significato per la sua esistenza ulteriore, una volta che essa si è consolidata: «Il Nuovo Testamento non parla delle assicurazioni che sono state date alla chiesa di Cristo se non per dirci ch'essa è gravemente esposta alla minaccia dell'abuso, alla possibilità dell'apostasia. La immacolatezza della sposa non è mai una realtà compiuta, che la sposa dovrebbe solo accogliere senza preoccuparsi più di essa»
Ibid., 203. . Per Von Balthasar la chiesa reale «è altrettanto reale, corporea e perciò colorita che l'antica Gerusalemme» e non può essere contemplata puramente nella sua forma escatologica o limitata nella sua struttura sacramentale, garantita dall'alto: far questo significherebbe liberarla da ogni e qualsiasi carattere di vera storicità
Ibid., 206..
Egli chiude in fine la sua laboriosa rassegna di testi patristici sul tema con una lunga citazione dalla Théologie du Corps Mystique di Emil Mersch, nella quale fra l'altro sta scritto: «Che la sposa di Cristo, da lui eletta per essere santa e immacolata, senza ruga né macchia di qualsiasi genere, da lui scelta per operare l'adozione in purezza e santità, che essa sia un corpo di peccato, macchiato, di tale meschinità e perversità che persino nelle sue manifestazioni più autentiche si sviluppa ampiamente la sua miseria morale, tutto ciò è inconcepibile. E però questa è la verità»
E.Mersch, Théologie du corps mystique, Paris 1944, vol I, 364-368, cit. in H.U.Von Balthasar, o.c., 281..
Sembra quindi che non si dia alcuna possibilità di sfuggire a questo dilemma: o si afferma che la chiesa non è toccata dal peccato e allora la si trasforma in una ipostasi che sta fuori della storia, o la si considera realmente esistente nella sua vera essenza in quella forma empirica, grazie alla quale solamente essa è un vero soggetto storico, corresponsabile con gli altri dell'intera vicenda degli uomini, e allora bisogna riconoscere che la sua santità è intrecciata con il peccato.
5. Santità perdonata
La soluzione che Charles Journet intendeva dare al problema della santità della chiesa da credere e da affermare nonostante i peccati dei cristiani in realtà non scalfisce neanche quello che è lo zoccolo duro della questione. Il punto cruciale del problema infatti non sta nell'affermare la santità delle componenti sante della chiesa. Che la chiesa sia santa in quanto ne è santo il capo del corpo che è il Cristo, in quanto ne è santa l'anima che è lo Spirito, in quanto ne sono sante le membra che già hanno raggiunto la pienezza della vita in Cristo (i santi canonizzati), in quanto i cristiani fanno tante cose sante, tutto questo non solo non è problematico ma è del tutto ovvio. Il problema della santità della chiesa sta invece esattamente nel punto in cui si comincia a parlare della chiesa come di un insieme di persone in carne ed ossa, che esistendo nella normale condizione umana peccano, le quali formano la comunità ecclesiale con ciò che sono e per ciò che sono e la fanno agire come un soggetto storico in quanto agiscono esse stesse nella storia degli uomini. E' questa e non altra la comunità empiricamente e storicamente determinata che noi chiamiamo chiesa
Molto più sobriamente e realisticamente il Catechismo del concilio di Trento considera nella sua ovvietà il fatto del peccato e per questo esorta: «Né alcuno si stupisca che la chiesa venga detta santa, benchè contenga molti peccatori. Sono chiamati santi i fedeli, perchè sono diventati popolo di Dio e perchè, ricevendo il battesimo e la fede, si consacrarono a Cristo. Son detti così anche se mancano in molti doveri e non fanno quello che hanno promesso...» (I,10,15)..
Qualsiasi soluzione che tenda in qualche modo a determinare una forma di chiesa alla quale poter applicare ogni titolo di santità e che non sia quella che è costituita dal popolo cristiano nella concretezza delle sue molteplici esperienze storiche, oltre che teoreticamente inadeguata, rischia di dare adito ad atteggiamenti deformanti all'interno della vita ecclesiale.
Ritenere che parlando di santità della chiesa si debba intendere che i cristiani sono peccatori mentre la chiesa è santa trasferisce indebitamente il carattere della santità alla chiesa "in quanto tale" la quale, in ultima analisi, consisterebbe, al di là delle persone stesse che ne rappresentano le istanze più autorevoli, semplicemente nella sua struttura sacramentale e canonica. Da qui potrebbe derivare quella specie di esonero dalle esigenze della conversione evangelica, che non di rado sembra caratterizzare le strutture ecclesiastiche, quasi che esse siano l'ipostatizzazione terrena della chiesa santa e il luogo proprio in cui risiede la santità e non trova posto il peccato
Il padre Congar, proprio per l'acuto senso della storia che determina tutta la sua visione ecclesiologica, sostiene che nella chiesa c'è, per parte del Cristo, santità perfetta e, per parte degli uomini, possibilità di peccare, ma che l'uno e l'altro aspetto appartengono al corpo concreto della chiesa (Vraie et fausse réforme dans l'église, Cerf, Paris 1969, 120).
. Il singolo cristiano dovrebbe perdonare, essere povero, spogliarsi dei suoi beni, rinunciare anche ai suoi diritti in favore della pace e, infine, quando non avesse fatto tutto questo, pentirsi e convertirsi, mentre tutti questi doveri non riguarderebbero l'istituzione, la quale ne sarebbe esente perchè rappresenterebbe la chiesa nella sua essenza e godrebbe infallibilmente del dono della santità, sì da non dover essere sottoposta ad alcuna verifica storica. Una simile visione della chiesa, nella quale la sua vera essenza starebbe sempre e comunque al di là delle persone con i loro drammi ed i loro peccati, avrebbe quindi un suo riscontro, perfettamente simmetrico, in quel diffuso disimpegno dei singoli cristiani rispetto alla responsabilità della chiesa di fronte al mondo, quasi che questa debba essere assunta sempre e comunque da un soggetto altro dalla persona di ciascun credente singolarmente preso. Dal considerare "altro" da sè il soggetto responsabile della missione all'identificarlo nelle persone del papa, dei vescovi e dei preti il passo è brevissimo e con ciò la chiesa resta consegnata perennemente alle angustie del clericalismo. Se poi questo soggetto "altro" dovesse anche essere considerato quasi come una personificazione della chiesa santa, resterebbe preclusa ogni via all'esercizio della correzione fraterna, alla continua e salutare revisione critica e a qualsiasi movimento di riforma. L'esasperazione apologetica di cui si è avuta abbondante esperienza in epoca moderna e quel trionfalismo ecclesiastico che nel particolare clima spirituale del Vaticano II è stato tanto deplorato sono, senza dubbio, anch'essi un frutto di una concezione della chiesa che pretendeva intenderne la santità come totale assenza di peccato, esaltandone così tutte le virtù e attribuendone i difetti, i vizi e le colpe ai cristiani, come se essi non facessero parte dell'essenza della chiesa con la totalità della loro esistenza. Alla fine del concilio Vaticano II Karl Rahner scriveva: «Dal contenuto e dalla storia del domma ecclesiologico sorge il problema reale della chiesa dei peccatori, che non è stato ancora affrontato in pieno e non ha trovato ancora nell'ecclesiologia ordinaria d'oggi il posto preciso che gli spetta. Eppure questa questione avrebbe la sua importanza esistenziale e religiosa per la vita dei singoli e della chiesa in quanto tale»
K.Rahner, Il peccato nella chiesa in La chiesa del Vaticano II, Vallecchi, Firenze 1965, 423. Ora la trattatistica ecclesiologica senza dubbio si è evoluta in questa direzione, ma forse non in maniera abbastanza sistematica e muovendosi quasi esclusivamente sulla linea della interpretazione escatologica delle "note" della chiesa. Ma l'«importanza esistenziale e religiosa» della questione resta molto viva soprattutto per la diffusa tendenza a nuovi trionfalismi e la frequente incapacità, accanto ad una crescente attitudine all'autocritica nei confronti del passato remoto, di giudicare il passato recente e l'oggi ecclesiale.
Sono i due termini portanti della questione che domandano di essere intesi in maniera più adeguata, quello di chiesa, appunto, e quello di santità. L'impasse rilevata, infatti, deriva dal fatto che l'idea di santità è ritenuta a priori e senza sfumature contradditoria con quella di peccato. Da questa premessa deriva che si è costretti a concepire la chiesa come una realtà diversa dalle persone che concretamente la compongono. Se ora si dimostra l'inanità del tentativo di intendere la chiesa come una "persona trascendente" pensabile al di là delle persone dei credenti nella consistenza della loro esperienza vissuta nello spazio e nel tempo, ne deriva che l'idea di santità dovrà essere commisurata alle effettive condizioni di possibilità che la determinano nella esperienza umana spazio-temporale.
Gli aspetti trascendenti della chiesa, l'essere il Cristo il suo capo, godere dell'animazione dello Spirito Santo, essere il luogo in cui risuona la parola di Dio e si compie nei sacramenti l'actio Christi, tutto questo, ovviamente, non può essere ricondotto dentro gli stretti confini dell'esperienza singolare, contingente e limitata dei credenti, sia individualmente che collettivamente considerati. In questo senso è del tutto comprensibile che non si possa «ridurre la chiesa all'insieme o alla collezione degli individui che la compongono», che la si dichiari «fatta mediante la fede e i sacramenti della fede» e che, quindi, la si consideri anche nella sua veste di «ecclesia come congregans, logicamente anteriore all'ecclesia come congregata»
P.Rossano, Proprietà essenziali della chiesa, in J.Feiner e M.Löhrer (edd.), Mysterium salutis IV/I (7), Queriniana, Brescia 1972, 439-635, v. 559.. Questo però non significa che si possa pensare l'ecclesia congregans come una "subsistenza" realmente esistente al di fuori della concreta esperienza di almeno due persone storicamente esistenti, fra le quali intercorra il fenomeno empiricamente verificabile della comunicazione del messaggio della fede. Il Cristo è capo della chiesa, ma solo in quanto ci sono le persone dei credenti che vivono «in Cristo» e nel cuore dei quali egli «abita per la fede»
Ef 3,17.. Lo Spirito Santo dà vita alla chiesa formando il corpo di Cristo: ora «il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo»
1Cor 12,12.. Lo Spirito crea quindi il corpo di Cristo solo trasformando gli uomini, col renderli credenti in Cristo, in membra del suo corpo: tanto questo è vero che «a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito»
1Cor 12,7.. Non si può quindi parlare di una anteriorità della ecclesia congregans come se lo Spirito creasse il corpo di Cristo anteriormente, sia pure solo di una anteriorità logica, alla sua azione nelle persone concrete dei credenti. Si tratta sempre di una anteriorità circolare, nel senso che ogni esperienza di chiesa è esperienza di ascolto e di accoglienza, ma non rispetto ad una entità non composta di persone a loro volta ascoltanti ed accoglienti: è il circolo della comunicazione della fede per cui chi confessa la fede l'ha sempre a sua volta ricevuta da altri e chi la riceve la confessa ad altri ancora. Al principio di questo processo sta il Verbo che si è reso visibile e l'annuncio del Verbo compiuto da coloro che l'hanno udito, veduto e toccato con mano
1Gv 1,1-4.: sempre quindi fatti e parole esperiti da persone concrete nella loro concreta e storica determinatezza.
Dichiarare non pensabile alcuna forma di chiesa in alcun modo esistente fuori della esistenza delle persone dei credenti significa allo stesso tempo dichiarare impensabile una santità della chiesa in alcun modo esistente fuori di quella esistenza cristiana che contiene in sè l'esperienza del peccato. E qui richiamarsi alla dottrina della giustificazione, in tutta la ricchezza delle sue componenti, così come l'odierno buon consenso ecumenico ce la raccomanda, diventa un fattore risolutivo. Si tratta cioè di pensare la santità della chiesa non come la perfezione etica del complesso delle azioni che ne formano l'esistenza, sia pure in forza della grazia che ne costituisce l'origine, ma alla luce della rivelazione della misericordia di Dio, dalla quale istante per istante dipende la santità di ogni esperienza umana. Che la santità della chiesa consista nel suo essere puro possesso di Dio è un luogo comune in ecclesiologia. E' necessario aggiungere, però, che se la res posseduta è una realtà storica, composta degli uomini che hanno costruito questa nostra storia, Dio non la può assummere in suo possesso se non nella croce del suo Figlio, cioè attraverso il giudizio del peccato e la sua misericordiosa remissione. In realtà non c'è santità disponibile all'uomo che non sia frutto della misericordia, così come non c'è dono di Dio per l'uomo che non sia un perdono. Negarlo significherebbe rendere bugiardo quel Dio che in Gesù si rivela come il Dio della riconciliazione: «Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto liberandoci dai peccati e purificandoci da ogni ingiustizia; se diciamo che non pecchiamo lo rendiamo bugiardo»
1Gv 1,9s: il perfetto ouk emartékamen dice un fatto che non è relegabile in un passato ormai chiuso una volta per sempre.. La santità della chiesa è quindi la santità di una comunità perdonata. E questo non solo nel momento del suo iniziale costituirsi nella prima comunicazione della fede e nella celebrazione del battesimo, ma lungo tutta la sua storia. Gesù, infatti, nella preghiera del Pater ci fa chiedere per ogni giorno, assieme al pane, anche il perdono dei peccati. Così come nella sua pratica liturgica la chiesa ha sempre fatto, iniziando la sua eucarestia ogni volta puntualmente con un atto penitenziale.
E' vero che la santità della chiesa sta sotto l'ombrello della indefettibilità promessale dal suo Signore. Ma questo non comporta necessariamente la persistenza dei singoli cristiani e di tutte le comunità nella santità della vita, dei progetti e delle opere, bensì la garanzia della misericordia di Dio il quale non le farà mai mancare il suo perdono. Bisogna quindi affermare che il dono della santità che Dio elargisce alla chiesa non la costituisce in uno stato di impeccabilità ma la rende capace di una continua conversione.
Ora, peccato, pentimento, accoglienza del perdono e conversione sono atti della coscienza personale del singolo. Tutti questi elementi però convergono nello spirito oggettivo della chiesa, nel quale per la grazia dello Spirito essa si costituisce nella sua forma empirica come il soggetto storico responsabile della missione messianica nel mondo. In tal modo il principio-conversione incluso nella grazia della santità ecclesiale viene anch'esso a comporre la dinamica essenziale dello spirito oggettivo, cioè della comunità cristiana nelle sue strutture. E' vero che non si può assimilare del tutto il problema delle responsabilità del soggetto collettivo a quello della coscienza morale della persona singola
Congar sembra arrestarsi per questo motivo di fronte alla tendenza ad attribuire il peccato alla chiesa e ritiene fondamentalmente valide le tesi di Journet. Egli ritiene che il peccato in senso morale possa essere attribuito solamente alla coscienza personale di singoli soggetti ed afferma che a proposito della chiesa si deve parlare solamente di limiti, ritardi, colpe storiche, errori, manchevolezze e mediocrità. Egli non manca però di notare che queste "miserie" - come egli le chiama - sono le conseguenze dei peccati delle persone (Y.M.Congar, Comment l'église sainte doit se renouveler sans cesse in Sainte Eglise. Etudes et approches ecclésiologiques, Cerf, Paris 1963, 131-154; v. 145s).. E' vero però che quello che per il singolo è il principio-conversione, per la struttura è il principio-riforma, così come è vero che le strutture vengono create e gestite dalle persone. Si può pensare, quindi, che quanto le persone dei credenti tengono viva in sè la coscienza che la santità consiste essenzialmente in un processo di conversione, tanto più le strutture ecclesiastiche potranno sviluppare al loro interno le dinamiche della riforma. Come la santità dei singoli cristiani consiste nella grazia del perdono e della conversione, così la santità della chiesa, nella sua coscienza collettiva di soggetto storico operante attraverso determinate strutture, comporta la grazia della continua autoriforma.
Se la coscienza ecclesiale odierna giudica ingiuste alcune norme canoniche, istituzioni e prassi ecclesiastiche del passato, è evidente che la chiesa del futuro potrà fare lo stesso nei confronti dell'istituzione ecclesiastica di oggi. L'infallibilità della chiesa e del suo magistero non comprende la preservazione della normativa canonica da qualsiasi disposizione che risulti oggettivamente iniqua. Parlare allora di santità della chiesa significa affermare che essa ha nel suo interno, nonostante i suoi peccati, una virtus che le viene dall'alto e che la rende capace di autoriformarsi continuamente. Questo esigerebbe che la disciplina canonica, invece di costruire argini difensivi della struttura contro i movimenti di riforma, creasse al suo interno gli spazi nei quali la grazia possa dal di dentro espandere le sue virtualità innovative.
Il rischio di questa nostra chiesa che nella sua professione di fede dichiara di credersi santa è quello di pensare che in nome della sua santità essa debba ritenere peccaminoso l'atteggiamento di chi ne denuncia difetti e peccati. Una simile difesa della propria santità si risolve in realtà nell'arresto delle dinamiche che la compongono. Se invece la comunità cristiana, proclamando di credere nella "chiesa santa" non presume di essere senza peccato, solo allora si consegna veramente alla misericordia di Dio e si rende disponibile all'azione di rinnovamento che lo Spirito continuamente produce in essa.
SOMMARIO
Si riprende il tema della santità della chiesa, rimettendo a fuoco il problema del rapporto fra santità e peccato, alla luce della dottrina della giustificazione, sulla quale in un recente documento della Commissione mista cattolica roana - evangelica luterana, si sta profilando un ampio consenso ecumenico. Attraverso alcuni testi di Barth e di Journet da un lato, di Bonhoeffer e di Von Balthasar dall'altro, si delinea sullo sfondo della questione il più vasto tema del rapporto della chiesa con la storia. Se non si vuole costruire un'ecclesiologia astorica, bisognerà - questa è la tesi dell'articolo - ripensare l'idea della santità della chiesa, sviluppando di più la sua dipendenza dal concetto della misericordia e del perdono di Dio e considerandola inclusiva di un principio-conversione e di un principio-riforma.
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