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La Donna in Commedia

2019

Da Serva a Padrona passando per Pazza: Una riflessione sull'emancipazione artistica della donna dell'Arte nei secoli XVI-XVIII

La Donna in Commedia Da Serva a Padrona passando per Pazza Una riflessione sull’emancipazione artistica della donna dell’Arte nei secoli XVI – XVIII 1. Introduzione 1.1 | En travesti A pensarci oggi, di Dive è pieno il cinema come il teatro. Da Alida Valli a Isabella Rossellini, da Marta Abba a Eleonora Duse, è impossibile pensare ad un palco privo di grandi interpreti femminili. Eppure, com’è noto, non è stato sempre così. Per quanto oggi possa sembrare inverosimile, ci voleva più che un po’ di fantasia, nel teatro elisabettiano, per seguire attentamente i meta-travestimenti della shakespeariana Twelfth Night; pensiamo, ad esempio, ad un personaggio femminile come Viola, che veniva sulla scena interpretata da un uomo (o, per essere più corretti, da un giovanotto), travestito da donna, a sua volta camuffata da uomo. Ma allo spettatore del Globe del XVII Al termine del XVII secolo, nel 1660, la prima donna a calcare le scene d’Inghilterra fu l’attrice Margaret Hughes, nella sua celebre interpretazione di Desdemona dell’Otello di William Shakespeare. secolo tutto ciò appariva molto più naturale di quanto si possa pensare, soprattutto in vista del fatto che, fino a quel momento, in teatro era sempre stato così, se non peggio. Ai tempi di Euripide, ad esempio, nonostante risuonassero in teatro grandi tragedie riportanti altisonanti nomi di donne – basti pensare ad Antigone, così come Medea – alle donne non era solo vietato recitare, ma anche essere spettatrici, di quelle tragedie a loro dedicate. La recitazione en travesti Il termine, nella sua più ampia accezione, seguendo una corruzione della lingua francese, si riferisce ad un personaggio teatrale interpretato da un attore di sesso opposto; non solo quindi riferito alle donne interpretate da uomini, ma anche viceversa. è stata la prassi di secoli di teatro, fino a quando, sullo scadere del XVI secolo, nelle fila di quell’errante teatro artigiano che fu l’italiana Commedia dell’Arte, il binomio donna-teatro volse verso una direzione inaspettata ed inesplorata, che, pur non essendo stata esente da ambiguità e fraintendimenti, ha donato nuova vita e possibilità alla scena. 1.2 | Donne di facili costumi Poco più che oneste meretrici Cfr. A. Martino, F. De Michele, La Ricezione della Commedia dell’Arte nell’Europa Centrale (1568 – 1769). Storia, testi, iconografia. Pisa. Fabrizio Serra Editore, 2010., venivano considerate le prime donne facenti parte delle compagnie dell’arte del secolo XVI. Vittime di un pregiudizio lungo secoli, che, nella folta compagine di uomini che le accerchiavano, le aveva relegate ad essere intese più come prostitute che come attrici. E non era per nulla insolito, quindi, che quelle prime, coraggiose, donne di teatro, si sentissero appellare come nient’altro che “èstables à tout chevaux: stalle per tutti i cavalli” R. Tessari, O Diva, o Èstables à tout chevaux, in Viaggi teatrali dall’Italia a Parigi fra Cinque e Seicento. Atti del Convegno Internazionale (Torino, 6-8 aprile 1987) pp 42-128. Genova. Costa & Nolan, 1989.; o che venissero addiriturra additate, dall’istituzione ecclesiastica, negli atti di quel lungo e complesso confronto morale che fu il Concilio di Trento, come una delle principali cause colpevoli di rendere l’arte scenica come quell’instrumentum diabuli C. Urso, Donne, danze e spettacoli. Boni Ludi o Instrumentum Diabuli? In Annali della facoltà di Scienze Della Formazione pp. 59 – 78. Università degli Studi di Catania, 2013., ricco di oscenità e abomini, di cui far censura a man bassa. Nel faticoso tentativo di distaccarsi da questa famigerata etichetta, le donne dell’Arte hanno di certo dovuto dar prova e controprova delle loro pregiate qualità recitative, timbriche, canore, espressive e di movenza, con molta più caparbietà di quanto non dovessero fare gli uomini. Eppure apparve chiaro, sin dalle prime apparizioni femminili in scena, che potessero, molto più che di un uomo en travesti, donare spessore e profondità alla messinscena, ma soprattutto offrire al pubblico una diversa modalità di coinvolgimento, che ci appare chiaro, oggi, pervenutoci soprattutto mediante lo sdegno offertoci dalle opinioni dei religiosi: «Comparisce vera donna, giovane, bella, ornata lascivamente, la quale essendo con attenzione mirata, senza che vi fusse altro, questo è solo manifesto pericolo di rovina alla gioventù [...] che sarà poi udire la donna parlare? E d’amore? E con l’innamorato? [...] che sarà che la donna, fingendosi pazza, comparisce mezzo spogliata, o con veste trasparente, in presenza d’uomini e di donne?» Il brano è tratto da un manoscritto del gesuita Pietro Gambacorta, riportato in P. Taviani, La Commedia dell’Arte e la società Barocca, parte 1: La Fascinazione del Teatro. Roma. Bulzoni Editore, 1969. Non solo in scena, così, le donne si presero con abilità e astuzia quello spazio che spettava loro di diritto, ma piuttosto rapidamente s’imposero anche nella scrittura di canovacci, fino ad arrivare a gestire un’intera compagnia, rivestendo ruoli equiparabili a quelli del capocomico; seppur, anche nei casi di maggior successo, dovettero comunque ritrovarsi costrette a mettersi all’ombra, più o meno velatamente, di una figura maschile di copertura che facesse loro da “garante” o da moderatore. 2. Professioniste e Ruoli nel Teatro dell’Arte 2.1 | Le donne di scena Con il progressivo abituarsi del pubblico all’esplosiva e tumultuosa novità della presenza femminile tra le figure professionistiche di scena, iniziarono ad emergere anche quelle che, tra di loro, più delle altre parevano meritare di essere prese in considerazione. Con la loro bravura e la loro capacità di donare nuovi colori e sfumature ai ruoli in precedenza destinati ad uomini “imitatori di genere”, determinarono una maggiore e rinnovata estensione del repertorio drammatico, aggiungendo contrasti comici mai sperimentati in precedenza, e facendo dono di prestazioni eccitanti, commoventi e ricche di sentimento Cfr. S. Ferrone, La Donna in Scena in La Commedia dell’Arte. Attrici e attori italiani in Europa (XVI-XVIII secolo) pp. 40-61. Torino. Giulio Einaudi Editore, 2014.. Ad oggi ci pervengono, tra le prime file, i nomi di attrici quali la veneta Vincenza Armani, nota come “la divina”, che si guadagnò ben presto il titolo di primadonna dell’illustre compagnia de I Gelosi La Compagnia dei Gelosi (1568 – 1604) fu una delle più celebri compagnie della Commedia dell’Arte. del capocomico Flaminio Scala. In quanto a bravura, non le fu seconda, e anzi le fu, come spesso riportato, acerrima rivale, la romana Barbara Flaminia, della quale si ricordano le abili performance in ruoli gravi e appartenti al genere alto della tragicommedia, al punto di essere descritta come: «Giudicata rara in questa professione, [...] che non si possi fra’ moderni veder meglio; perché ella è tale su per la scena, che non par già agli uditori di veder rappresentare cosa concertata né finta» Leone de' Sommi, Quattro dialoghi in materia di rappresentazioni sceniche, saggio introduttivo e cura di Ferruccio Marotti, Milano. Il Polifilo, 1968 Ma quella che tra tutte si guadagnò il titolo di più abile e intraprendente tra le attrici del suo tempo, fu senz’altro la padovana Isabella Andreini (già Canali), che si sostituì in qualità di primadonna alla già citata Vincenza Armani all’interno de I Gelosi, fino ad arrivare in breve tempo alla guida della compagnia insieme al marito Francesco. Ella seppe, più di tutte le sue contemporanee, dedicarsi al profondo studio dell’arte rappresentativa, non mancando di curare relazioni con i più illustri protagonisti del suo tempo, tra cui Giovan Battista Marino, ma soprattutto Torquato Tasso, che le dedicò anche un componimento dal titolo “Quando v’ordiva il prezioso velo”. La fama di Isabella le conferì addirittura l’onore di donare il suo nome ad una parte che restò negli anni tra i più raffigurati personaggi dell’Arte all’improvviso, quella di Isabella degli Innamorati, donna sensuale, arguta, testarda e voluttuosa. 2.2. | Fantesca, Innamorata, Locandiera Per ragionare sull’emancipazione artistica che la donna dei secoli XVI – XVIII è stata in grado di acquisire con dignità e abilità, professionale quanto sociale, è interessante concentrarsi sui ruoli e sulle parti ad essa destinate nel tempo all’interno dei più noti canovacci, fino ad arrivare alle più complesse restaurate drammaturgie preventive della riforma goldoniana. La prima apparizione di una donna sulla scena teatrale italiana risale circa agli anni 1565-66, di largo anticipo rispetto al resto del mondo. Come già accennato in precedenza, le donne di teatro in questa prima fase sono considerate poco più che delle prostitute, e, a tal proposito, il ruolo a cui vengono destinate in scena prevede unicamente che esse si facciano carico di pulsioni erotiche e facili ammiccamenti al pubblico. La parte di riferimento è quella della Fantesca, altresì detta Servetta, giovane fanciulla ignorante ma di bell’aspetto, posta al nucleo di un intreccio comico che la vede contesa tra i due Zanni, i servi, l’uno più arguto, l’altro più citrullo. Non è richiesto, quindi, in questo primordiale approccio, alle antesignane attrici, una particolare capacità linguistica o di padronanza dell’Arte all’improvviso; basta che esse siano in grado di eccitare e stimolare il pubblico con le loro qualità estetiche e le loro movenze. Le cose iniziano a cambiare quando un ruolo come quello della Fantesca finisce nelle mani di un’attrice di primordine come la già citata Vincenza Armani, donna testarda e capacissima d’imporsi con spiccata arguzia e capacità oratoria sui suoi colleghi, nonché abilissima nel lavorare con premeditazione e d’improvviso sugli intrecci più disparati. Lei, così come altre importanti donne attrici del suo tempo, fu in grado di sopraelevarsi dalla condizione di “oggetto scenico”, scrivendo canovacci per sé e per altri, e donando alla sua Servetta lo spessore d’una rinnovata levatura comica. Altri ruoli a cui subentrò, agli en travesti, la figura femminile, furono quelli delle Vecchie, ma, soprattutto, delle Innamorate. Di queste, faceva parte Isabella Andreini, quando, nel 1589, al matrimonio fiorentino tra Ferdinando I de’ Medici e Cristina di Lorena, rappresentò con I Gelosi, il poi divenuto celebre canovaccio La Pazzia d’Isabella. Nella sua tormentata rappresentazione della pazzia di un’Innamorata ferita ella seppe abbandonarsi ad un metamorfismo delicato e senza precedenti, travolgendo la scena con una nudità sensuale ma non volgare, ed un linguaggio masticato capace di sfumare tra le più alte levature petrarchesche e la lingua rozza e servile degli Zanni. Fu proprio nelle Pazzìe che le donne di teatro ebbero modo di dimostrare al massimo le loro abilità; peculiarità, tra l’altro, che la Andreini mise alla prova anche nella scrittura, nell’elaborazione della sua pastorale Mirtilla, donata alla scena come una rappresentazione iperletteraria di se stessa, fortemente ispirata all’Aminta tassiana. Con opere complesse di drammaturgia preventiva come Il Don Giovanni del drammaturgo e attore francese Molière, fino ad arrivare alla Locandiera del commediografo veneziano Carlo Goldoni, i ruoli femminili “fissi” della Commedia dell’Arte tenderanno sempre più a sbiadire i propri contorni, arricchendosi di una psicologia di rilievo tridimensionale, anticipatoria di certe figure del dramma borghese dell’ottocento. Goldoni non fu solo riformatore della Commedia dell’Arte, ma anche della figura teatrale femminile, con ben 51 commedie a carattere ginocentrico, capaci di donare nuovi stimoli alle interpreti e agli spettatori del nuovo secolo. 3. Quello che resta d’Isabella È sottile, quanto stimolante da percorrere, il confine tra la professionista Isabella Andreini Canali e l’Isabella Innamorata. Il percorso dell’attrice e poetessa, che non è da considersi un cammino solitario, bensì va visto nell’ottica della sinergia professionale che ella ha sviluppato con il suo compagno di scena, e marito, Francesco Andreini Francesco Andreini, attore e drammaturgo pistoiese del XVII, fu, dal momento dell’allontanamento del capocomico Flaminio Scala in poi, a capo della Compagnia dei Gelosi, insieme a sua moglie Isabella., rappresenta anche il percorso dei ruoli che l’hanno accompagnata nella sua prolifica carriera. Che cosa resta oggi di Isabella, di Francesco, della coppia d’arte che di «virtù, fama ed honor» “Virtù, fama ed honor ne fèr gelosi” era il celebre motto della Compagnia dei Gelosi. aveva ornato le stanze e le piazze che ne avevano accolte le rappresentazioni? Nel non lontano 2007, il presupposto dello spettacolo “La Pazzia di Isabella. Vita e Morte dei Comici Gelosi” prodotto dalla compagnia Le Belle Bandiere, che vede come autori, attori e registi il duo composto da Elena Bucci e Marco Sgrosso, era quello di rispondere quanto più possibile alla domanda di cui sopra. Con questo scopo, i due teatranti agiscono in maniera preventiva sul secolare canovaccio, sottoponendolo ad una rielaborazione drammaturgica a metà strada tra il teatro di narrazione ed il documentarismo. Contemporaneamente ad esso, la scrittura scenica e l’intuizione registica, si premettono l’obiettivo di restituire alcuni “punti fissi” dell’idea metabolizzata (e, per certi versi, ridotta all’osso) che si ha oggi del consuntivo di tre secoli di Commedia dell’Arte, come un certo utilizzo delle maschere, della voce e delle parti. Bucci e Sgrosso in scena scelgono di raccontare allo spettatore la storia degli Andreini, e, più in generale, del significato del mestiere di comico/attore errante di ieri e di oggi, impersonificando quelle parti che i due commedianti hanno, nelle loro interpretazioni, lasciato in eredità. È in questo modo che muovendosi dietro Capitan Spaventa Capitan Spaventa Vall’Inferna era il nome del ruolo creato e reso celebre dal capocomico e attore Francesco Andreini, per la quale egli stesso curò una testimoniale pubblicazione, datata 1607, dal titolo Le Bravure di Capitan Spaventa. e l’Isabella, gli attori lasciano che siano le maschere stesse a ripercorrere le gesta dei comici che hanno dato loro, in passato, la vita stessa e l’inesauribile fama. È chiara, nell’approccio degli attori alle parti, la volontà di seguire, per quanto possibile, le tracce più vistose di quelle regole ampiamente descritte da Andrea Perrucci nel suo celebre e prezioso trattato sull’arte rappresentativa Cfr. A. Perrucci, Dell’Arte Rappresentativa, Premeditata ed all’Improviso, 1699, ed. bilingue a cura di Francesco Cotticelli, The Scarecrow, Lanham, Maryland-Toronto-Plymouth UK, 2008.; nel districare il canovaccio, infatti, la Bucci, con l’ausilio delle maschere, si presta a portar in vita più d’una Isabella, legando ognuna di esse ai punti fermi e riconoscibili di quelle brevi dottrine delle parti delle donne Innamorate Ivi, pp. 118-119., sulle quali il Perrucci disquisiva fissamente. Dall’altro lato è piuttosto evidente, come già accennato in precedenza, restituire solo un’ossatura abbozzata del modus performativo della Commedia dell’Arte, conservando solo ciò che basta a legare tematicamente una maniera di raccontare ad un’altra, una d’un secolo trascorso e l’altra del nostro contemporaneo . Lo stesso spazio scenico è disegnato e attrezzato di nulla più che il minimo indispensabile, ben lontano dalle ingegnosità scenotecniche e scenografiche di cui si pregiavano compagnie di grande lustro come quella dei Comici Gelosi. Nella loro Pazzia di Isabella, insomma, il duo de Le Belle Bandiere cerca di intelaiare un dipinto d’impressione a carattere storico-concettuale, destrutturando l’ossatura della Commedia e riproponendocela a piccole dosi, frammentate e ripulite, in modo che comunichino con lo spettatore per strade quanto più dirette possibile, utilizzando l’annoso canovaccio come strumento trainante d’un discorso caro alla vita e alla professione di Isabella Andreini, che non è dissimile da quello che s’è posto di fare questo breve elaborato: ragionare sulla faticata e spinosa lotta artistica e sociale che la donna attrice s’è trovata a dover compiere nei secoli, per essere non più messa al pari d’una delle robbe Era appellato Catalogo delle Robbe l’elenco del fabbisogno attrezzistico di scena, ed era comunemente, ma non obbligatoriamente, allegato ai canovacci. da mirare, ma piuttosto, come componente attiva e imprescindibile di quel fatto d’arte che ragiona del vivere: il Teatro.