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Per uno spazio pubblico infestato

2019, Atti di convegno

In un saggio del 1990, Rethinking public sphere, Nancy Fraser suggeriva che l'idea di "una" sfera pubblica finisse per coprire o mascherare l'esistenza di contro-sfere subalterne. La stessa cosa sembra valere per lo spazio urbano, l'idea di città: parlare di contro-spazi subalterni invita a leggere l'urbano come una sorta di battleground, tenuto insieme da un racconto, un'immagine, l'astrazione (reale, ovviamente) di una città come spazio pubblico condiviso.

Per uno spazio pubblico infestato (Paper presentato alla Seconda Giornata di Studio “Le Relazioni oltre le Immagini: Democrazia, Norme, Utopie” PAC Padiglione d'Arte Contemporanea, Milano 30 settembre 2019) [email protected] In un saggio del 1990, Rethinking public sphere, Nancy Fraser suggeriva che l’idea di “una” sfera pubblica finisse per coprire o mascherare l’esistenza di contro-sfere subalterne. La stessa cosa sembra valere per lo spazio urbano, l’idea di città: parlare di contro-spazi subalterni invita a leggere l’urbano come una sorta di battleground, tenuto insieme da un racconto, un’immagine, l’astrazione (reale, ovviamente) di una città come spazio pubblico condiviso. Qui vorrei prendere in considerazione un tipo molto materiale e quasi letterale di contro-spazi subalterni, divenuto una sorta di cronotopo del presente: i vacant lots e i terrain vagues sui quali indugiava Ignasi de Sola Morales; l’incolto, il terzo paesaggio e le friches urbane alla cui vita “aldilà di una forma” Gilles Clément attribuisce una certa quale “felicità di esistere”; più in generale, la particolare attenzione per zone interstiziali, scheletri e fantasmi della città industriale, ma anche per rovine più nuove, prodotte a ciclo continuo nei territori all-inclusive ridefiniti su scala globale dai processi di urbanizzazione. Dove si collocano questi specifici contro-spazi, ai margini? Mi sembra che uno dei tratti specifici delle trasformazioni che hanno investito le città consista soprattutto in uno spostamento di asse: se, a grandi linee, la città fordista si è costruita su una dialettica tra centro e periferie (intorno a una parola, zoning, che valeva come un diktat restituendo il senso di una violenta partizione), oggi l’economia urbana si organizza su una dicotomia diversa, essenzialmente tra “scena e retroscena”, il cui rapporto riarticola ogni opposizione centro/margini. Al centro delle dinamiche estrattive, della “creazione distruttiva” che scandisce i processi di produzione di valore, nelle città smart, patrimonializzate dall’Unesco, nei fashion/design/food districts, nei comuni invasi da airbnb, dal capitalismo delle piattaforme, da vetrine, arredi, decoro (e da recensioni, valutazioni, reputazioni – tutte immagini, “scene”…) si fa strada un’idea di spazio pubblico come enorme giacimento di cui usufruire selettivamente: un palinsesto continuamente rinnovato, restaurato, levigato e messo in scena, costruito sulla produzione e la rimozione di altrettanti contro-spazi i cui segni tangibili possono essere oscurati e cancellati ovvero ripuliti, stilizzati, “tassidermati” e messi a loro volta a valore, in base a un atteggiamento bipolare, tra virages maniacali (sovraesporre tutto) e depressioni (abissare tutto). Vale la pena concentrarsi su questo tipo di abissi, di voragini quotidiane, di retroscena: tutto ciò che non sta e che anzi rovina una vetrina, un’immagine. Rovinare è un’azione che si svolge nel tempo, un processo che in inglese è reso con una parola, ruination, al centro di un libro di Ann Stoler (Imperial debris) sulle rovine postcoloniali e le popolazioni costrette ad abitarle, indicando sia un andare in rovina che un mandare in rovina, un deteriorarsi e deteriorare. Le rovine del resto sono sempre andate di moda: esiste un’estetica, un culto che ha radici antiche, romantiche o precedenti (Diderot) ma sempre moderne e occidentali (di un “orientalismo” ombelicale) circondandole di una particolare aura. In realtà, contro ogni possibile origine o autenticità, sappiamo come “aura” indichi soprattutto l’impronta della copia sull’originale: a un’estetica delle rovine occorre opporre una politica delle rovine, e cioè una politica del sensibile (J. Ranciere) aldilà di ogni partizione tra alto e basso, tra rovine e macerie. Perché ciò che le rovine possono rovinare è precisamente un’aura, un’immagine, una storia, compromettendo la possibilità sia di raccontarla che di dimenticarla. Due esempi di questa duplice atto di ruination: (1) un film di Pier Paolo Pasolini del 1973, Forma della città, dove un casermone popolare (“necessario ma orribile, meglio se da un’altra parte…”) rovina l’equilibrio di Orte, l’autenticità anonima delle sue mura e del suo selciato – dietro ai quali Arnold Hauser inviterebbe a rintracciare semmai la violenza di classe...Quell’“intruso” nel 1973 è una rovina perché rovina un’immagine ma lo è anche perché (2), un anno prima, a St Louis, in Missouri, la demolizione di un altro “intruso”, Pruitt-Igoe, uno dei più grandi complessi di socialhousing degli USA, sanciva forse la fine della “forma” di città di cui era espressione. Oggi un documentario ripercorre il “mito di Pruitt-Igoe”, raccogliendo la rabbia mista a nostalgia dei residenti “sopravvissuti” alla distruzione. Qui mi limito a due immagini e alla notizia della recente demolizione anche delle rovine e della foresta spontanea cresciuta sulle macerie di quel complesso. Radere al suolo le macerie, perché? cosa contenevano? Forse il segno di una presenza in grado di attivare un altro racconto o di incrinare un oblio, una rimozione. Due “intrusi” che rovinano un’immagine e un racconto (nel primo caso con la presenza, nel secondo attraverso un’assenza), ricordando e segnalando qualcosa di persistente e fastidioso. Come le rovine dell’impero britannico in una poesia di Derek Walcott, (“Ruins of the Great House”), segni tangibili di un passato di dominazione che non passa e complica ogni possibile “post”; o come quelle del terzo Reich in cui (non) si imbatte W. Sebald in Storia naturale della distruzione: la convivenza “quotidiana con rovine spaventose” notata da Döblin che saranno spazzate via o museificate quando Sebald ne andrà alla ricerca (e la cui assenza è “vista” invece da A. Kluge in Nuove storie, spaesato nel tempo). Il casermone di Orte e le rovine di Pruitt-Igoe, in ogni caso, sono intrusi la cui presenza assente infrange l’immagine asettica e incantata alla base della produzione di valore, popolando il paesaggio urbano e ripopolando il suo inconscio di fantasmi. E contribuendo in qualche modo a “reincantarlo”. Questo per dire che una teoria politica delle rovine, intese come contro-spazi subalterni, deve essere “animista” (contro il feticismo): se il feticismo è quel rapporto che finisce per trattare le persone come cose e le cose come persone, si tratta di rintracciare l’organico nell’inorganico, la traccia di una presenza (una trama, dei rapporti, dei desideri) nelle cose e, viceversa, di riconoscere la violenza delle cose su di noi, il nostro essere “fatti di rovine”. Un approccio animista quindi, per uno spazio pubblico rianimato. Un libro di Michael Taussig di 30 anni fa, The Devil and Commodity, esplorava l’incontro violento di alcune comunità rurali della Colombia con il salario raccontandolo come un patto col diavolo: nelle valli del Cauca le piantagioni estensive delle multinazionali arruolavano contadini strappandoli a ecologie locali e, tra i nativi, girava voce che quel contratto fosse vincolato (il diavolo, si sa, pone sempre clausole) a spese inessenziali, consumi suntuari che mandavano in rovina. Era un modo per cautelarsi, usando il feticcio per eccellenza, il demonio, contro il feticismo delle merci, contro quell’atto di usurpazione che accompagna l’estrazione incantata di (plus)valore. Analogamente, si dovrebbe leggere il paesaggio urbano desolato prodotto dietro l’immagine scintillante veicolata dall’incanto del capitale rianimandolo attraverso le rovine, incontrando i demoni e i fantasmi che lo popolano. Antropologicamente i fantasmi sono i morti senza nome, privi di onori e di una sepoltura (dei Polinice dentro le mura): quelli che non riescono a diventare antenati, a entrare in un pantheon, una storia e un racconto pacificati, e continuano a turbare le notti, il sonno. In un libro di una decina di anni fa, Ghostly Matters, Avery Gordon scriveva: “il fantasma non è l’invisibile o una qualche altra entità ineffabile. L’“essenza” di un fantasma sta nel fatto che è una presenza reale e richiede ciò che gli è dovuto, la tua attenzione.” Prestare attenzione, ma come? Cogliendo i segni di una presenza assente, sentendo voci, risalendo a un momento di enunciazione contro la staticità e la fissità di un enunciato, un monumento. A essere chiamata in causa è una geografia del sensibile che va oltre la vista. Contro l’oculocentrismo si tratta soprattutto di ascoltare, auscultare; ma anche di leggere tra le righe, secondo un approccio che Carlo Ginzburg definirebbe indiziario. E poi annusare, (ri)imparando dagli animali, esseri non umani considerati sacri dai cinici (purché senza guinzaglio) che di solito frequentano e conoscono questi luoghi. Infine toccare. Esiste una parola inglese, affordance, per indicare una particolare qualità tattile, riferita alla forma esteriore e solida di un oggetto che sollecita altrettante reazioni/operazioni: quali? Si tratta, in questo caso, di reazioni perlopiù negative, in negativo, per eluderne il peso, la presenza ingombrante. Del resto i fantasmi, proprio in quanto intrusi, sono entità scomode, notturne, umbratili. Ma possono trovarsi anche in piena luce, in particolare nei pomeriggi d’inverno, sotto a certain slant of light, e vederli può far male, produrre quell’impercettibile “imperial affliction” descritta con incredibile grazia da Emiliy Dickinson. Esiste tutto un materiale psicoanalitico che popola l’inconscio urbano e permette di venire a capo di queste reazioni: il rimosso innanzitutto, spostare qualcosa da un’altra parte, sotto un altro cielo (possibilmente non quello di Orte); e poi il lapsus, che viene da labor, lasciar cadere, e indica l’errore rivelatore di una verità soggiacente e nascosta. Infine, più di tutti, l’unheimlich, l’intrusione di un che di inusuale e insolito dentro la Heim, una macchia che rende estraneo il familiare: non trovare più una casa e un tempo propri e rintracciare crepe e rovine nel nuovo, nuovi edifici in rovina. Unheimlich in inglese è tradotto con uncanny, ma esiste una parola forse più appropriata, haunting. Lo suggerisce sempre Gordon: “I used the term haunting to describe those singular yet repetitive instances when home becomes unfamiliar, when your bearings on the world lose direction, when the over-and-done-with comes alive, when what's been in your blind spot comes into view.” Gordon lega questa parola a una nuova immaginazione sociologica (per riscoprire una particolare profondità, non appiattita sul presente) e prosegue: “Haunting raises specters, and it alters the experience of being in time, the way we separate the past, the present, and the future.” L’azione dei fantasmi è certo anacronistica, ma in che senso? Un’ultima definizione di Unheimlich, la prima in realtà, risale a di F. Schelling (1842): “è detto Unheimlich tutto ciò che potrebbe restare segreto, nascosto, e che invece è affiorato, nel tempo e nello spazio”. (Ri)affiorare: che sia davvero questa il gesto imputabile alle rovine, i fantasmi, gli intrusi? Si tratta infatti di fantasmi materialissimi che affiorano nella superficie apparentemente liscia di una città, agendo come un ingombro, un ostacolo la cui massa molare ostruisce il passaggio: che non permette né di restare (restaurare) né di andare avanti (aggirare, rimuovere). Qualcosa di molto vicino a quel “it was not a story to pass on” ripetuto come un mantra nell’epilogo di Beloved da Toni Morrison. “Pass on”, come è stato osservato, può voler dire sia sorvolare che tramandare: una storia, quindi, che non si può né tramandare intatta né omettere o dimenticare; e che costringe al contrario a tornare sempre lì, a confrontarsi con quell’ostinata e imprevista sopravvivenza che riaffiora: “per quelle di noi che vivono sul margine… non era previsto che sopravvivessimo”, ricorda Audre Lorde. Rovina viene da ruina, caduta, crollo, e deriva da ruere che significa anche precipitare e per estensione spingere, indurre. Cosa precipita in una rovina? In primo luogo una storia, la sua scansione, la sua articolazione progressiva (passato-presente-futuro), la sua funzione cardinale (orientarsi). Ma non solo, perché in una rovina precipita anche qualcos’altro. Per esempio “il bisogno di cercare il luogo invisibile in cui, nell’essere in un certo modo di quell’attimo lontano, si annida ancora oggi il futuro, e con tanta eloquenza che noi, guardando indietro, siamo ancora in grado di scoprirlo”. Così Walter Benjamin descriveva la temporalità idiosincrasica della fotografia. E quelle parole valgono a maggior ragione per indicare il gesto anacronistico che una teoria animista attribuisce a una rovina, un intruso, come fantasma che riaffiora. Sentire il futuro nel passato, riaprire una storia, rovinare un racconto: l’anacronismo delle rovine, del fantasma che le abita, si consuma tutto in questo presente “solido”, come si trattasse di un’increspatura che induce (ruere) a tornare sempre lì, a riscattare o confrontarsi con l’irredento che contiene, e cioè con la violenza, i morti non sepolti, i crimini (le macerie del Reich, le rovine coloniali), ma anche le promesse di futuro tradite (a Pruitt-Igoe, forse anche a Orte). Siamo nei paraggi di quanto Michel Fuocault definiva come genealogia: il gesto che recupera saperi sepolti, assoggettati, riscattando tanto la violenza quanto la memoria delle lotte, la promessa di felicità che contenevano, per “usarle all’interno delle tattiche attuali”. Riaprire una storia, rovinando un racconto di distruzione o un’immagine scintillante. È questa la possibilità che offre l’incontro con quegli strani fantasmi che sono le rovine, gli intrusi, i controspazi subalterni che popolano le nostre città. Ma non si tratta solo di guardare indietro. Questi fantasmi spingono anche a uno specifico uso, un particolare riciclo. Lo affermava lo stesso Benjamin nei Passagenwerk: “stracci e rifiuti, ma non per farne l’inventario, bensì per usarli.” Uso, riciclo, profanazioni: tattiche esplorate dalle metafisiche cannibali di De Andrade e Viveiros de Castro, e che non è difficile rintracciare nelle nostre città: come nel caso del City Plaza, un albergo nel centro Atene che l’austerity e il governo della crisi hanno trasformato in rovina, una maceria tra le tante, e che è stato riabitato per tre anni da una “coalizione” di migranti, refugees e attivisti. Perché, accanto a un uso, in gioco è anche uno specifico movimento. Quello per esempio suggerito da Michael Sheringham in un libro che esplora le trasformazioni di Parigi rilette da “testimoni in transito” sulla base di un “principio latente di mutabilità”, come “paesaggio in trasformazione attraversato da soggetti mobilitati”. E cioè come un paesaggio che è vivo solo se popolato da soggetti mobili e oggetti diversi, lontani nel tempo (fantasmi) e nello spazio (stranieri): solo se infestato/contaminato, contro la staticità di un’immagine di città, della sua architettura, di una lingua, dell’arte, dello spazio. Tutti luoghi che sono pubblici nella misura in cui sono haunted, infestati. Ref. Benjamin, W. (1931) Breve storia della fotografia, in Opere complete IV. Scritti 1930-31, Torino, Einaudi, 2002. Clemént, G. (2007) Il giardino in movimento, Macerata, Quodlibet, 2011, de Andrade, O. Manifesto Antropofago, in Revista de Antropofagia, no 1, São Paulo, 1928. de Solà-Morales, I. (1998) Terrain Vagues, in M. Guareschi, F. Rahola. Forme della città. 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