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Il progetto dello spazio pubblico contemporaneo

Paper di ricerca in Teoria dell'urbanistica

IL PROGETTO DELLO SPAZIO PUBBLICO CONTEMPORANEO Giulio Gonella Obiettivo di questo saggio è indagare i modi in cui il progetto si confronta con un “nuovo statuto dello spazio pubblico”, ovvero con una mutata condizione dello spazio nel passaggio da città moderna a città contemporanea, avendo particolare attenzione a quello che si è soliti definire “pubblico”. Uso questa locuzione nel modo in cui la intende Bernardo Secchi: la città contemporanea è una città “fatta a pezzi”, “esito di razionalità molteplici e legittime” 1. Posizione che, a differenza di altre in questi anni, tutte giocate su un senso luttuoso e di perdita, mantiene, della città, un’idea positiva: la città a pezzi del contemporaneo, rimane il centro della nostra vita sociale e istituzionale. Sulla distanza tra città moderna e città contemporanea, Bernardo Secchi ha scritto pagine importanti 2. In questa cornice, il ruolo dello spazio pubblico appare diverso e sicuramente lontano da quello precedente. Più che di spazi pubblici - nozione ingombrante, ma con cui sicuramente ci si intende e ci si confronta abitualmente nel dibattito disciplinare - sarebbe opportuno parlare, come suggerisce Thierry Paquot, di “luoghi urbani”, come “spazi riservati ai pubblici, qualunque sia il loro status giuridico” 3. Approfondisco perché (e come) si sia arrivati a questo “slittamento terminologico” nella prima parte del saggio, dove intendo mettere in evidenza alcuni concetti-chiave del ragionamento sullo spazio pubblico, scindendone le due componenti: lo spazio, appunto, ed il pubblico. Su queste questioni si sono basate le recenti riflessioni dello stesso Thierry Paquot e di Cristina Bianchetti, ma anche, più di vent’anni fa e muovendo da presupposti leggermente diversi, di Marc Augé. Nella seconda parte, intendo decostruire nei loro intenti, modi ed esiti due progetti esemplari, scelti negli ultimi quindici anni per farli rientrare appieno in quella che si vorrebbe essere una consapevolezza diffusa delle mutate condizioni del progetto a cui sopra si faceva riferimento. I due progetti operano, ed è forse l’unico tratto in comune che è possibile ravvisare, nel ridisegno di spazi aperti della città storica europea. Sono progetti di studi importanti, che offrono sicuramente diversi livelli di lettura, ma che qui si analizzano per evidenziarne il rapporto con quello che è forse un nuovo orizzonte semantico della nozione di spazio pubblico. 1 B. Secchi, Prima lezione di urbanistica, Roma-Bari, Laterza, 2007 B. Secchi, La città del ventesimo secolo, Roma-Bari, Laterza, 2011 3 T. Paquot, L’espace public, Paris, La Découverte, 2009 2 1 Prima parte. Tre posizioni sullo spazio Dire che la condizione dello spazio pubblico è cambiata significa sollevare questioni complesse, non solo legate al progetto architettonico e urbanistico. Significa toccare un punto controverso che riguarda il passaggio dalla società moderna a quella post-fordista, e mantenere sempre la consapevolezza di quel mutamento radicale sullo sfondo del ragionamento, dell’analisi e del progetto dello spazio. Qui di seguito si prova a mettere in sequenza tre posizioni (più una) sul modo di pensare lo spazio, e lo spazio del pubblico, nel tentativo di fornire un quadro limitato ma preciso di alcuni nodi del ragionamento. Thierry Paquot: dallo spazio pubblico ai luoghi urbani In L’espace public 1, Thierry Paquot introduce immediatamente una distinzione terminologica: lo “spazio pubblico” è quello della sfera pubblica, del confronto di idee e della comunicazione politica in senso ampio; gli “spazi pubblici” hanno invece un significato spaziale, sono i luoghi accessibili au(x) public(s), al pubblico e ai pubblici. Nella città moderna, si nota una sostanziale coerenza tra le due dimensioni: il pubblico di massa è quello (borghese) che Habermas descrive in Storia e critica dell’opinione pubblica 2; i suoi spazi sono gli ambienti pubblici, de iure e de facto, della città. E’ il “nuovo ordine urbano”, sociale e spaziale 3, della modernità, che ben definisce i confini tra ciò che è pubblico e ciò che è privato, e che vede emergere una sfera pubblica universale, tutta intera4, il più possibile uniforme. Questa sfera si traduce spazialmente nell’omogeneità delle strade, delle piazze, del prato che circonda il grand ensemble: “spazi capaci di rendere visibile l’istituzione politica”, “spazi virtuosi della cittadinanza” 5. Oggi la situazione appare profondamente diversa. Nelle recenti definizioni di spazi pubblici riportate da Paquot 6, due sono le questioni prominenti: il carattere giuridico, ossia la proprietà pubblica degli spazi, e la qualità d’uso, ossia le pratiche pubbliche che investono quegli stessi spazi. Paquot problematizza entrambi gli aspetti: la definizione giuridica di pubblico assume oggi sempre più un significato meramente normativo, visto che anche ambienti privati possono consentire un “uso collettivo che può essere considerato come pubblico” e quindi essere definiti spazi pubblici (l’esempio tipico è la galleria di negozi del centro commerciale); privato e pubblico sono sempre più “des mots à parenté variable”, parole a relazione variabile. 1 2 Idem, p. 1 J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Roma-Bari, Laterza, 2005 [1962] 3 B. Secchi, Prima lezione di urbanistica, Roma-Bari, Laterza, 2007 G. Didi-Huberman, Come le lucciole. Una politica delle sopravvivenze, Torino, Bollati Boringhieri, 2010 citato in C. Bianchetti, Il Novecento è davvero finito. Considerazioni sull’urbanistica, Roma, Donzelli, 2011 5 C. Bianchetti, Intimité, extimité, public. Riletture dello spazio pubblico in “Territorio”, n° 72 (2015), pp. 7-17 6 P. Merlin, P. Noisette, Espace public, in Dictionnaire de l’urbanisme et de l’aménagement, Paris, Presses universitaires de France, 1998, pp. 320-322. La definizione data è la seguente: “Possiamo considerare lo spazio pubblico come la parte di proprietà pubblica non costruita, caratterizzata da usi pubblici. Lo spazio pubblico è dunque formato da una proprietà e da una qualità d’uso”. [traduzione mia] 4 2 Se lo status giuridico è sempre più indifferente, resta da capire quali pratiche si qualifichino come “pubbliche” (e quali siano gli attori). Paquot accenna agli usi “comuni”, “collettivi”, ma questo aspetto verrà approfondito in maniera precisa da Bianchetti, e lo tratteremo più avanti. Mi sembra quindi importante evidenziare come, in questa prospettiva, la locuzione “spazi pubblici” diventi insignificante in senso etimologico. Paquot, come già si è detto, mutua l’espressione “luoghi urbani” dal sociologo belga Jean Rémy da una parte per tentare di dare un nome a questi ambienti, dall’altra per liberare il campo disciplinare da una nozione ingombrante. Così l’ipotesi di Rémy “è che la strada e la piazza siano forme di architettura urbana fondamentali per creare dei luoghi di urbanità, ma che non siano più l’elemento di base che assicura la connessione dei luoghi tra di loro” 7. I luoghi urbani sono per Paquot i luoghi della “socialità possibile”, che però non è data se non nelle pratiche, negli usi e nelle rappresentazioni, che assicurano il carattere “pubblico” di quegli stessi spazi. Sullo sfondo, la sfera pubblica habermasiana appare ormai mutata; con le parole dello stesso Habermas, “l’universalismo democratico si tramuta in un particolarismo generalizzato” 8. Marc Augé: luogo e spazio; luoghi e nonluoghi In Paquot, la definizione di “spazio pubblico” collassa su se stessa: da una parte, non ha più senso definire pubblico ciò che era stato pensato con una aderenza tra qualità giuridica, sociale e d’uso dello spazio ormai sbiadita; dall’altra, la stessa idea di “spazio” si sposta a quella di “luogo”. Spazio e luogo non sono la stessa cosa, non sono sinonimi. Marc Augé definisce “luogo antropologico” “la costruzione concreta e simbolica dello spazio […] simultaneamente principio di senso per coloro che l’abitano, e principio di intelligibilità per colui che lo osserva” 9. Per contro, “la nozione di spazio […] sembra poter essere utilmente applicata, anche a causa di un’assenza di caratterizzazione, alle superfici non simbolizzate del pianeta”. Gli spazi assumono, nella cornice del pensiero antropologico, i caratteri di un supporto neutro, da significare, in qualche modo in potenza. Augé vede nella coppia luogo/nonluogo - dove il primo si definisce nei suoi caratteri “identitari, relazionali e storici” 10, e il secondo nell’assenza di questi caratteri - “uno strumento di misura del grado di socialità e di simbolizzazione di un dato spazio” 11. Nella realtà, perciò, non esistono, in senso assoluto, né luoghi né nonluoghi. La caratterizzazione del binomio luoghi/nonluoghi, dove i nonluoghi sono il prodotto della surmodernità (noi potremmo dire della contemporaneità), mi sembra fondamentale. Perché 7 J. Rémy, Nouveau lieux d’urbanité et territorialités partagées: architecture urbaine et comportements collectifs. Réflexions à partir de Louvain-la-Neuve, in J. Brody, La rue, Touolouse, Presses universitaires du Mirail, pp. 103-120 8 J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, prefazione alla nuova edizione [1990], Roma-Bari, Laterza, 2005, p. XXXI 9 M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano, Elèuthera, 1993 10 ibidem 11 M. Augé, op. cit., prefazione alla nuova edizione [2009], p. III 3 contrappone ad un’idea di spazio infinito, indistinto e astratto la consapevolezza che qualcosa si possa cristallizzare, seppur temporaneamente, e perciò significare un luogo: “certamente dei luoghi si possono costituire in quelli che, per altri, risultano piuttosto dei nonluoghi”. Lo spazio, quindi, come si è detto, è un luogo in potenza, e il suo essere o meno caratterizzato dipende dalle pratiche sociali, simboliche, istituzionali che vi si depositano. Resta quindi da capire come, quando e in che modo gli usi investano lo spazio, e quali di questi possano essere considerati pubblici. Cristina Bianchetti: un “pubblico minore” Lontani dalla città e dalla società moderna, resta da capire cosa si intenda oggi per “pubblico”. Per Cristina Bianchetti, la sfera pubblica non è più quella del moderno, “compatta, densa, ben levigata” 12, ma si esplicita come “schegge di pubblico che si formano e si disfano ogni volta che qualcosa definisce una condivisione”. E’ un pubblico “provvisorio”, “situazionale”; “minore”. Come già in Paquot, si può forse parlare, al plurale, di pubblici 13. Questo ha ovviamente ripercussioni sul modo di pensare ed usare lo spazio. Muovendo dalle considerazioni fatte precedentemente sulla ormai limitante - per i nostri intenti separazione giuridica tra spazio pubblico e privato 14, Bianchetti mette in evidenza come “strade, capannoni, vagoni, della metropolitana, edifici abbandonati […] [abbiano] preso il posto dei prati lisci del moderno come luoghi del pubblico”. L’aderenza tra la dimensione giuridica e sociale sbiadisce sia nello scarto tra pubblico e privato, sia nel depotenziamento del pubblico derivato dalla sua dimensione sociale (ormai) plurale 15. Il pubblico può darsi quindi in molteplici modi, e in molteplici spazi, e lo “spazio pubblico” tradizionalmente inteso è solo uno degli ambienti che possono farsi contenitori di pratiche “pubbliche”; sono anzi proprio gli usi dello spazio che definiscono il loro essere luoghi “del pubblico”. Nella prospettiva di una sfera pubblica frammentata, di cui parlavamo poco fa, è chiaro come questi usi siano anche temporali, figli di un “tempo intermittente, che si accende e che si spegne”. Resta fondamentale capire quali siano queste pratiche, connotate dalla condivisione (di intenti, di obiettivi, di finalità) entro un gruppo come da un “basso continuo” di fondo. Alcuni usi più di altri denotano, da soli, senza aggettivazioni o spiegazioni, questo mutato statuto dello spazio pubblico. Per Bianchetti, sono quelli legati all’anomalia, all’informale, al disordine, ma anche alle “pratiche artistiche, ludiche, giocose” che trasformano la città in un supporto malleabile per le diverse attività. I théâtres en plein air, per esempio, così come li intende anche Paquot, permettono di cogliere appieno questa mutata condizione dello spazio, così come le azioni raccolte 12 C. Bianchetti, Il Novecento è davvero finito. Considerazioni sull’urbanistica, Roma, Donzelli, 2011 T. Paquot, op. cit., p. 1 14 ibidem 15 C. Bianchetti, Un pubblico minore in “CRIOS”, n° 1 (2011), pp. 43-51 13 4 nella mostra del Canadian Centre for Architecture intitolata proprio Actions. What you can do with the city 16. Più in generale, si può parlare di “forme d’azione variamente tematizzate con forte riferimento allo spazio (sebbene non ad uno spazio specifico)”, dove l’importanza risiede nelle pratiche, e nella loro capacità di disegnare una traiettoria di condivisione. Urban Interiors Il concetto di Urban Interiors tiene forse insieme tutte le riflessioni fatte precedentemente, ma le colloca in una dimensione operativa. Il termine si può utilizzare per definire uno spazio fisico circoscritto, spesso temporale (cioè soggetto ad espansione e contrazione, ad apparizione e scomparsa) dove avvengono alcune pratiche. Queste pratiche sono l’esito dell’azione di “gruppi”, ovvero di diversi pubblici, (temporaneamente) omogenei nella situazione e negli intenti. Spesso compresenti nello stesso spazio fisico, e quindi in conflitto. Possono definirsi Urban Interiors, a titolo esemplificativo, i playgrounds progettati da Aldo Van Eyck nella Amsterdam post Seconda Guerra Mondiale 17, e molti degli spazi “moderni” delle nostre città si prestano a questa lettura, nel momento in cui smettono di essere visti come l’esito del loro progetto originario, e diventano invece oggetto di un’analisi che mette in evidenza “gli usi, le relazioni, i corpi […], i modi dello stare in pubblico” 18. E’ importante tenere insieme, quando si parla di UI, la dimensione morfologica e relazionale dei luoghi, con una cautela: la consapevolezza che “i caratteri materiali contano, ma meno di quanto contavano nello spazio pubblico moderno. Tutto sembra più elastico, adattabile” 19. Fino ad arrivare al paradosso di poter definire Urban Interiors spazi i cui i caratteri morfologico-formali siano assolutamente comuni, banali, non confortevoli. Dico che questa è una dimensione operativa, ancorché forse ancora ad uno stadio embrionale, perché permette un ragionamento puntuale sul progetto; permette di provare a seguire il fil rouge teorico di una mutata condizione dello spazio pubblico confrontandosi “sul campo”, cercando di metterne alla prova i risultati attraverso la pratica progettuale. 16 Boras, M. Zardini (a cura di) Actions. What you can do with the city, London, Sun publishers, 2008 Elisabetta M. Bello, “Playgrounds. Genealogies of urban interiors”, in territoridellacondivisione.wordpress.com 18 Aa. Vv., “Urban Interiors/Public Spaces”, in territoridellacondivisione.wordpress.com 19 C. Bianchetti, Il Novecento è davvero finito. Considerazioni sull’urbanistica cit., p. 4 17 5 Seconda parte. Due progetti Le piazze di Mechelen - Studio Secchi-Viganò (2000), Mechelen, Belgio Contesto Quando progettano il “sistema di spazi pubblici” formato dalle piazze Grotemarkt e Veemarkt a Mechelen (Belgio), Bernardo Secchi e Paola Viganò operano in un contesto importante, sia dal punto di vista storico-architettonico che socio-politico. L’intento politico dell’amministrazione comunale è quello di rinnovare una serie di spazi all’interno della città storica, in qualche modo in risposta alla recente dispersione degli abitanti originari al di fuori della città compatta e ad una sostituzione graduale degli stessi con popolazioni immigrate provenienti dal nord Africa. Un tentativo di migliorare quello che viene percepito come un luogo urbano degradato, caotico, dove le piazze sono di scarsa qualità ed usate come parcheggi. Continuità Secchi e Viganò fondano il loro progetto su due concetti ben precisi: il tema dell’isotropia e il concept del “tappeto”. L’isotropia è una figura (in senso concettuale, ma anche materiale) che orienta molti progetti dello studio, e qui, nel disegno a piccola scala, si esplicita come carattere indifferenzo rispetto a una direzione precisa dello sguardo, come disegno di suolo uguale in tutte le direzioni; si costruisce perciò come “un’ampia superficie unitaria” - un “tappeto” - che in maniera continua tiene insieme i differenti spazi del progetto. La continuità caratterizza il sistema di piazze e di interstizi di connessione, e ne fa un unicum. Il tappeto è però anche inteso come supporto su cui incidere, in maniera leggera, trame e segni diversi, e su cui apporre alcuni elementi. Non è una tabula rasa: copre ma non annienta i segni precedenti - emblematico in questo senso che si sia deciso di mantenere alcune tracce della pavimentazione storica - e permette di aggiungerne di nuovi. Sul tappeto vanno a collocarsi le incisioni delle rampe pedonali e degli ascensori di accesso ai parcheggi sotterranei nella Grotemarkt, e le piastre rialzate delle fermate di trasporto pubblico nella Veemarkt; a questi si aggiungono alcuni spazi verdi: un “giardino lineare” nella Befferstraat di connessione tra le due piazze, e un altro spazio alberato a fianco della cattedrale, a rievocare le tracce dell’antico cimitero. Attraverso questi segni, il progetto finisce così per proporre sottilmente alcune direzioni, senza forzarle. E’ un disegno minimo per esplicita ammissione degli autori, per i quali “lo spazio pubblico non [deve] essere overdesigned. […] La razionalità minimale sta anche nella selezione delle tracce e delle geometrie” 1 . 1 B. Secchi, P. Viganò, Un sistema di spazi pubblici a Mechelen, in “AnfioneZeto”, n° 25 (2014), pp. 49-52 6 Sospensione A Mechelen, Secchi e Viganò sembrano voler tenere insieme la necessità e l’intenzione di sviluppare un progetto di spazio pubblico contemporaneo, con l’altrettanto pregnante urgenza di un approccio e un disegno minimale e funzionale. La prima esigenza è connessa alle mutate condizioni del pubblico di cui abbiamo parlato (lo spazio si rende “disponibile” a usi diversi per gruppi diversi) , la seconda, oltre al modus operandi proprio dei due progettisti, guarda al contesto architettonico della città storica che circonda le due piazze e alle necessità funzionali richieste dalla committenza. Ma non solo. La comunicazione del progetto insiste, come si è detto, sulla “razionalità minimale”, dove il punto di forza sta nel “lasciare la massima libertà, sia all’interpretazione, sia agli usi dello spazio urbano”. L’isotropia è perciò tradotta spazialmente in un continuum neutro, uno spazio privo di increspature. L’ipotesi qui sostenuta è che Secchi e Viganò operino una sospensione. I due progettisti sembrano avere bene a mente le questioni che il progetto di Mechelen muove: la relazione con un abitare diverso, nelle forme e negli usi delle popolazioni, la liberazione di un enorme spazio (Grotemarkt) da parcheggio ad area pedonale, un notevole investimento di valori simbolici legati alla città storica. Ma in qualche modo sospendono la loro azione. Sviluppano un progetto che non si configura come contemporaneo, ma più come una rivisitazione contemporanea di un progetto moderno, caratterizzato da un uso accorto dei materiali e delle trasparenze, da uno spazio liscio e deputato al transito, al passaggio. Il sistema di piazze è caratterizzato da segni netti e visibili (“ritmi regolari in uno spazio privo di forme regolari”), che organizzano lo spazio; sottintende una direzione dello sguardo e del movimento ben precisa, costruendo una vera e propria scenografia basata sui due tagli paralleli - e su numerosi tagli minori - nella Grotemarkt, che stressano la prospettiva verso il fronte costruito di fianco alla Beffenstraat. L’enfasi di questo “gesto” è ben visibile anche nelle immagini di comunicazione del progetto. In generale, si sviluppa una tensione tra i due spazi che invita all’attraversamento, più che alla sosta e alla “socialità possibile” nei termini di Rémy. La sospensione sta appunto nell’aver “sospeso” una qualche caratterizzazione forte dello spazio, nell’aver rinunciato ad introdurre elementi di discontinuità. Il che poteva essere fatto anche attraverso il progetto e il disegno di suolo (caro a Secchi). In questo senso, sbaglia David Bravo Bordas quando plaude “lo stare alla larga da un approccio riformista che, senza rispettare il contesto e con la paura della vacuità dello spazio, avrebbe potuto optare per riempirlo con incongrui capricci estetici” 2. I due approcci - quello riformista e quello (a questo punto) messo in campo a Mechelen - non sono antitetici, né mutualmente esclusivi. Ed anzi la vera sfida sarebbe stata metterli in gioco entrambi, in una occasione che, se non si può dire sprecata per la grande qualità estetica, materica e formale degli spazi che Secchi e Viganò sono andati a creare, appare quantomeno non sfruttata al meglio. 2 D. B. Bordas, “Grotemarkt, Veemarkt”, in publicspace.org 7 Grotemarkt vista dall’alto 8 Grotemarkt 9 Miroir d’eau - Michel e Claire Corajoud (2005), Bordeaux, Francia Contesto Il miroir d’eau di Michel Corajoud è solo una delle parti di un’ampia operazione di rinnovo urbano che la municipalità di Bordeaux intraprende, a partire dalla fine degli anni 90, sulla riva sinistra della Garonne. Il progetto Quais rive gauche ha come obiettivo il ridisegno della porzione di spazio tra la città storica e il fiume, con la dismissione del porto commerciale, il ridimensionamento dell’autostrada urbana presente e la costruzione di una serie di ambienti posti in sequenza e volti ad ospitare attività diverse 3. Una tendenza, quella del ritorno al waterfront come luogo di attività e di naturalità, attraverso il ridisegno di spazi accessibili, che è ravvisabile in molti progetti recenti nella città europea 4. Terza natura Quello di Corajoud è un progetto complesso, che si estende in uno spazio molto vasto: quattro chilometri di lunghezza per circa cento metri di larghezza. Ma le intenzioni del progettista sono chiare: il concept è quello di una “terza natura”, ovvero di un “terzo stato delle cose fra natura (natura della riva sud, natura del fiume) e città sedimentata rappresentata dalle facciate minerali” 5. E’ chiaro quindi come i temi del paesaggio entrino direttamente in gioco nel ridisegno di questa parte di città. Le varie parti del progetto si costruiscono in rapporto alla relazione tra acqua, luci ed ombre, in una ricerca del progettista tesa verso la creazione di un spazio pubblico prima di tutto confortevole: “Vi sarà capitato di andare un giorno a leggere in un bosco con le gambe al sole e il corpo all’ombra: penso sia un archetipo legato al senso del benessere e della felicità” 6. La terza natura si esplicita in un’articolazione complessa, a volte più rada a volte più fitta, di alberi disposti a filari frammentati, di lanières (strisce) di arbusti e cespugli, e ovviamente di spazi minerali, il fulcro dei quali è il miroir d’eau che fronteggia la facciata barocca di Place de la Bourse. Lo specchio d’acqua consiste in una place inondable, delle dimensioni di un campo da calcio, di lastre di granito nere, che può assumere varie configurazioni, giocando con l’acqua in maniera diversa: riflettere le facciate Settecentesche, trasformarsi in una nuvola nebulizzata, diventare piazza asciutta. Il miroir è diventato subito l’elemento-simbolo non solo della riqualificazione di quello spazio, ma della stessa città di Bordeaux, tanto che è lo stesso Corajoud a dire che “come a Parigi c’è la Tour Eiffel a Bordeaux c’è lo specchio d’acqua.” 3 P. Godier, C. Mazel, “Project de quais jardinets” in POPSU, http://www.popsu.archi.fr/sites/default/files/nodes/ document/685/files/projetquaisrivegauchegodiermazel.pdf 4 Dove l’esempio più emblematico è forse Madrid Rio (Spagna): 10 chilometri di parco e spazi per il tempo libero lungo il fiume Manzanares, costruiti sopra il tratto interrato dell’autostrada M-30. Un progetto di West 8 e MRIO Arquitectos realizzato tra il 2007 e il 2011 e costato 410 milioni di euro. 5 A. Masboungi (a cura di), Grand Prix de l’urbanisme 2003. Michel Corajoud et cinq grandes figures de l’urbanisme, Paris, DGUHC, 2003, p. 40, citato in T. Matteini, I quais jardinés di Bordeaux: spazio ibrido e terza natura, in “Quaderni della Ri Vista. Ricerche per la progettazione del paesaggio”, n° 4 (2007), vol. 2, pp. 116-125. I corsivi sono dell’autore 6 M. Corajoud, Tutto è patrimonio, in C. Andriani (a cura di), Il patrimonio e l’abitare, Roma, Donzelli, 2010 10 Comfort, variatio, temporalità Leggere un progetto così articolato e vario non è semplice. Qui si proverà a mettere in luce i caratteri che attengono alla possibilità che si sia disegnato e costruito uno spazio pubblico contemporaneo. Sullo sfondo, è tenuto sempre bene a mente lo sconfinamento del progetto dello spazio pubblico nei temi del paesaggio, come bene ha evidenziato Angelo Sampieri 7. Il comfort ha sicuramente un peso preminente nella definizione dello spazio pubblico contemporaneo: in questo senso, gli Urban Interiors di cui si parlava sono ambienti che nella loro morfologia, ma anche nei loro caratteri climatici, esprimono dei luoghi confortevoli, dove si possa “stare bene”. Il progetto di Corajoud, come si è detto, nasce col preciso intento di creare un luogo confortevole, nell’alternarsi di ombre, luci ed acqua, e contemporaneamente disegna lo spazio in modo che questi caratteri possano ritrovarsi a gradienti diversi: la sola acqua è protagonista del miroir, ma è anche quella della Garonne nei tratti di parco alberati che si rivolgono verso il fiume. L’ombra si ritrova in quegli stessi ambienti, ma è anche in qualche modo l’ombra dello “stare freschi” garantita dalla configurazione brouillard dello specchio. Infine la luce sottende tutto il sistema ed è protagonista nei jardins e nella piastra di Place de la Bourse. Un’altra caratteristica preminente del progetto è la variatio. Variatio come modificazione degli ambienti nel tempo, che si configurano vari in virtù degli elementi a cui accennavamo poco fa, ma anche nello spazio, con una differenziazione del disegno e degli elementi che compongono il progetto. Spazi diversi per qualità, per caratteristiche, per climi. La variatio è intrinsecamente connessa alla temporalità degli spazi. “Il tempo, declinato secondo tutte le possibili spaziature, è in effetti l’elemento che più di ogni altro caratterizza il paesaggio dei quais jardinés bordolesi” 8. Una temporalità che si articola su più scale: quella ampia, e stagionale, degli alberi “gentili”, che “d’estate fanno ombra, ma d’inverno, quando le foglie cadono, restituiscono la facciata urbana alla città” 9, e della piazza, che diventa asciutta nel periodo freddo. Ma anche quella “minima”, non per questo meno importante, che si esprime nell’alternanza tra specchio d’acqua e nuvola della place, esaltando in entrambi i casi una dimensione ludica dello stare in pubblico. Si può dire che i tre caratteri di comfort, variatio e temporalità si combinino nell’offrire uno spazio pubblico stratificato, complesso, nelle intenzioni e nei risultati mai uguale a se stesso. 7 A. Sampieri, Nel paesaggio. Il progetto per la città negli ultimi vent’anni, Roma, Donzelli, 2008 Tessa Matteini, op. cit., p. 8 9 M. Corajoud, op. cit., p. 8 8 11 I quais jardinés e il miroir d’eau 12 I quais jardinés e il parco su quai Louis XVIII 13 Conclusione. Lo spazio pubblico contemporaneo ha ancora bisogno del progetto? Non dobbiamo chiederci se lo spazio pubblico non esista più - abbiamo visto come si siano modificate le sue traiettorie, che lo definiscono in un farsi e disfarsi continuo; piuttosto, visti i suoi caratteri occasionali, situazionali, temporali, se lo spazio pubblico contemporaneo abbia ancora bisogno del progetto. Nella prospettiva di una colonizzazione temporanea, provvisoria, dei luoghi del pubblico, ha ancora senso un progetto per la lunga distanza? O si rischia di cadere nel puro funzionalismo nell’accompagnare, prevedere, incentivare alcune pratiche, disegnando spazi che non funzionano perché, nei termini di Secchi e Viganò, sono overdesigned? Se il pubblico si dà in molteplici ambienti, lo sforzo del progettista deve essere quello di tornare a pensare lo spazio, senza aggettivazioni. Pensare a come intervenire su quel supporto neutro, come in Augè, ma in realtà denso di significati e di segni, che si configura insomma come un palinsesto 10, per il progettista. E’ chiaro che, sullo sfondo, non si può più pensare il progetto così come si faceva cinquant’anni fa: le condizioni sono cambiate, e così deve essere per chi prova a ripensare il rapporto tra individuo e città alla luce della contemporaneità. 10 A. Corboz, Il territorio come palinsesto, in Ordine sparso. Saggi sull'arte, il metodo, la città e il territorio, Milano, Franco Angeli, 2004 14