Papers by federico rahola
Selvario, 2022
Se non fosse gravata da un'ombra di negatività, una vena accusatoria e una presunzione di colpevo... more Se non fosse gravata da un'ombra di negatività, una vena accusatoria e una presunzione di colpevolezza, potrebbe essere considerata alla stregua di una traccia o un'impronta. E sarebbe già molto (come qualsiasi indovino o predatore sa, una traccia non è mai "semplice", non esiste un'impronta immediata). È verosimilmente un segno, un indizio, ma è soprattutto sintomo di impurità, per giunta esso stesso impuro, sporco, malsano; come se il suo carattere evidente ma non esplicito, quindi da decifrare (macchia di cosa? su cosa? di chi? perché?), si caricasse di un'aggravante, un sospetto di degenerazione. La macchia può essere un punto, arbitrariamente nero, un piccolo neo che incrina la regolarità di un paesaggio compromettendone la visione, la presunta solarità. In quanto tale è spesso un'incursione o un'irruzione, il dettaglio che sconvolge una figura d'insieme innescando la reazione idiosincratica di chi aspira alla simmetria e alla purezza. Su una macchia ci si può fissare, e in tal caso diventa ossessione, possibile punto di sutura di feticismo e unheimlichkeit. L'attrazione che esercita, risucchiando lo sguardo, può annientare l'oggetto della rappresentazione restituendo un quadro senza soggetto, decostruendone la cornice e rivelandolo esso stesso come macchia. Così, secondo Lacan, macchia finirebbe per assumere la funzione di una specifica funzione, una "funzione macchia", rendendo possibile l'incontro, sempre traumatico, con il reale 1. Anche per questo si tende a cancellarla, letteralmente rimuoverla o più radicalmente a scotomizzare, per quanto il termine infastidisse Freud: "La parola 'scotomizzazione' è particolarmente inappropriata perché evoca l'idea che la percezione sia stata completamente cancellata e il risultato sia assolutamente analogo a quello che si determina allorché un'impressione visiva va a cadere su una macchia retinica" 2. Questo, forse, perché una macchia rimane, lascia residui, contamina, a volte riaffiora. Catturati tra macchie retiniche o scotomiche si rimane comunque all'interno di un campo oculocentrico, o più banalmente oculistico. E non potrebbe essere altrimenti. Ma se invece la ragione della diffidenza o avversione di Freud nei confronti della volatilità dell'"impressione visiva" risiedesse nel fatto che una macchia resta pur sempre qualcosa di oggettivo e materiale? Macula è quella parte di un corpo, essa stessa un corpo, dotata di specifica estensione, sempre circoscritta, di una propria consistenza, un colore e soprattutto una forma apparentemente arbitraria, sulla quale convergerà l'interesse di un esercito di esegeti ed esercizi di attribuzione, tra agnizioni, anamorfosi, pareidolie, fino ai test di Rorschach. Presupposto comune è che se ne noti la deformazione, la forma sui generis, e che colpisca, ferisca lo sguardo ghermendolo, pungendolo, pungolandolo. In un certo senso il punctum è sempre una macchia, e viceversa. Ma, a differenza della sequenza suggerita da Roland Barthes, che designa un movimento contrario allo studium (quel "nonso-che" che dopo la mia applicazione di fronte a un'immagine, dall'immagine mi colpisce) 3 , sembra indicare una trama supplementare e forse opposta, innescando ulteriori reazioni, congetture e
Confronting with the current proliferation of administrative detention facilities for displaced a... more Confronting with the current proliferation of administrative detention facilities for displaced and illegalized persons, the paper traces the different manifestations of this specific border apparatus back to a more general and abstract "camp form"one whose origins date back to the colonial realm, finding in the colonial subject the first internable figure. To such institutional form, it opposes the relentless production of informal, occupied, and often clandestine encampments, dwelled by people on the move and scattered along as many hidden and illegalized routes. By rereading current makeshift camps and hidden routes through the historical lens of the US pre-civil war Underground Railroad, the article suggests to conceive of them in terms of as many counter-spaces of a possible "Underground Europe" whose material and unauthorized existence, often supported by criminalized solidarity networks, mirrors and reverses that one of a "Borderland" or "fortress Europe". By the same token, it suggests to conceive of these temporary, precarious and informal zones in terms of as many "reverse shot" of the institutional "camp-form", defining them as counter-camps and focusing on the political, spatial and temporal relation between these two opposed polarities.
Policies and Practices , 2018
By addressing the current scenario of “crisis” (of refugees, asylum, migrations) affecting the Eu... more By addressing the current scenario of “crisis” (of refugees, asylum, migrations) affecting the European space, the paper focuses on the multiplication of borders and border apparatuses the government of the crisis directly prompted. It thus suggests to read it through the image of a “borderland”, that is, of a fragmented and uneven space, one crisscrossed by a relentless movement and by new and old border devices harnessing it – by containing as well as detaining, dispersing as well as concentrating, exploiting as well as excluding. In order to summarize the relation between the “nomadic machine” enacted by migrants’ movements and such a renewed "apparatus of capture ", it resorts to the image of a “leash”. Literally a leash governs mobility through mobility; it imposes a narrow gauge, limited in time and space. Under its mortgage, besides, every movement becomes "secondary". Rarely, however, those who are led on a leash accept a similar regime of forced mobility: at the ends of the leash a particular tension is thus established, in search of as many rips, expressions of the will to conduct oneself in a different way. By reading those attempts as peculiar forms of “counter-conducts” , actually producing as many possible “counter-spaces” , the article ends by suggesting the idea of a sort of “Underground Europe”, in the wake of the historical and "black" experience of “Underground railroad” in the pre-civil war US.
Qualcuno ricorderà Vite perdute, straordinario film realizzato nel 1953 da Henri Georges Clouzot ... more Qualcuno ricorderà Vite perdute, straordinario film realizzato nel 1953 da Henri Georges Clouzot in cui quattro avventurieri europei, per fuggire da una sperduta e anonima ciudad latinoamericana, accettano di intraprendere un viaggio estremo su due camion con un carico di nitroglicerina destinato a far saltare un pozzo petrolifero. L'avventura finirà molto male e tra esplosioni, incidenti e vendette nessuno dei quattro riuscirà a sopravvivere e mettere le mani sui 2000 dollari pattuiti nel diabolico contratto/ricatto stipulato con una multinazionale gringa. Il titolo originale del film era in realtà diverso, più appuntito, Le salaire de la peur, e indicava, deformandola ed estremizzandola, la dose variabile ma costante di violenza e di terrore che ogni storia sul salario omeopaticamente contiene. Perché l'incontro con quel particolare rapporto razionale e formalizzato che è il salario è sempre una specie di patto con il diavolo. E se esiste un testo che meglio di ogni altro esplora la sintomatologia di questo incontro e questo patto è The Devil and Commodity Fetishism di Michael Taussig, approdato finalmente in Italia, con un ritardo incomprensibile, grazie a DeriveApprodi. Sono passati trentasette anni dalla prima edizione del libro, un classico late-ethnographic (che insieme al successivo Shamanism, Colonialism and the Wild Man va a costituire una sorta di spartiacque, una soglia antropologica ), e Taussig stesso, nel riscrivere l'introduzione, non manca di sottolineare il peso del tempo: non tanto per la trama, il merito; piuttosto per il metodo e il linguaggio. Possibile che sia così, ma quanto vale per il film di Clouzot vale anche per Devil and Commodity: spesso il bianco e nero si rivela più attuale e perturbante di molte immagini digitali. Un po' come Clint Eastwood nell'epos del western, Taussig appartiene a una generazione di antropologi (quella, per dire, di Roy Wagner, di Jean a John Comaroff, Philippe Descola, ecc.) che si potrebbe definire crepuscolare: ancora legata a un campo, a ecologie e forme di vita localizzate, ma consapevole della crescente difficoltà e arbitrarietà di fissarlodovuta più che al clima "globale" alla violenza che ne ridefinisce le condizioni materiali e simboliche, rimandando inesorabilmente a un altrove. L'ambientazione di questo specifico racconto sul salario è quindi old style, e non potrebbe essere altrimenti: storie locali, forse comparate o comparabili, ma senza un grandangolo multisited o pretese non-local. Questo comunque l'incipit, la scoperta e l'enunciazione di un problema: "In due aree del Sudamerica rurale tra loro assai distanti, quando gli agricoltori diventano lavoratori salariati senza terra, il diavolo compare come parte integrante del processo che mantiene e incrementa la produzione. Tuttavia, questo non avviene quando i contadini lavorano la terra secondo la propria tradizione". Più precisamente, tralasciando la regione mineraria boliviana e zoomando sulla Colombia rurale, "fra i contadini afro-americani impiegati come lavoratori salariati nelle piantagioni di canna da zucchero in rapida espansione nell'estremo sud della valle tropicale del Cauca, ce ne sono alcuni sospettati di aver stipulato un contratto segreto col diavolo al fine di incrementare la produzione, e quindi il loro salario." E ancora, per circostanziare: "Patti del genere erano attribuiti esclusivamente agli uomini che vendevano la loro mercela forza-lavoro come la chiamava Marx -in cambio di salario nell'ambito delle piantagioni." Quale significato assumono queste storie del diavolo, storie di terrore, desiderio, sfruttamento e miseria? Non serve scomodare Faust per capire che il contratto con il demonio implica una trasformazione radicale, in questo caso il passaggio al dayafter sospeso e "immortale" dell'economia di mercato e allo standard della merce, sincronizzando tempi e spazi in nome di una
There exist histories that can be neither transmitted nor ignored: only reopened , by dealing wit... more There exist histories that can be neither transmitted nor ignored: only reopened , by dealing with something that refers to the past and yet still insists on the surface of the present– like a ruin. Starting from a sentence («not a story to pass on») obsessively repeated in the epilogue of Tony Morrison's novel Beloved, and passing through, respectively, a series of Walter Benjamin's well known fragments, a more recent book by W.G. Sebald and a postcolonial perspective on ruination suggested by Ann-Laura Stoler, the article explores the possibility of a political interpretation of ruins. It questions their anachronistic persistence and suggests we conceive of them as living entities whose specific affordance may subvert both history and its narration.
The article is built on a false premise (an unorthodox definition of the Foucauldian
notion of co... more The article is built on a false premise (an unorthodox definition of the Foucauldian
notion of counter-conducts), and nonetheless explores the potentialities of the idea of
“conducting themselves together in a different way”. It thus outlines what is politically
at stake in such a collective practice, what ideas of subjects, spaces and temporalities
does it envisage, by paralleling it with the practice of jazz improvisation.
Nel 1973 Pier Paolo Pasolini realizza un documentario commissionatogli dalla Rai e decide di inti... more Nel 1973 Pier Paolo Pasolini realizza un documentario commissionatogli dalla Rai e decide di intitolarlo La forma della città. L'ambientazione duplice (a Orte e sul lungomare di Sabaudia), l'attenzione nella costruzione del testo, il montaggio elaborato con immagini anche di repertorio (di città del "terzo mondo" come Yazd, Sana'a, Al Mukalla, Bhatgaon ecc.) e soprattutto la presenza fisica del regista e di un attore (Ninetto Davoli) conferiscono al breve filmato uno specifico carattere narrativo. In effetti, di vero e proprio film parlerà Pasolini stesso. La trama del corto è piuttosto lineare e ruota attorno a un delitto: in un monologo di circa 15 minuti, PPP si rivolge inizialmente al suo attore feticcio e poi direttamente alla macchina da presa riflettendo sull'evoluzione del paesaggio urbano e denunciando l'assassinio di ciò che definisce la "forma della città". La prima inquadratura ritrae il profilo di Orte e quindi il regista dietro la cinepresa intento a catturare un'immagine del borgo medievale che non sia sporcata da un edificio decisamente più recente: un caseggiato in cemento armato che incombe, da qualsiasi angolatura, su ogni inquadratura a distanza. Pasolini definisce l'edificio un "intruso", una "casa popolare povera", "mediocre", "certamente necessaria" ma in ogni caso ingombrante, criticandone la localizzazione a ridosso del borgo e interrogandosi sull'opportunità di una diversa ubicazione, "da
Alle note che seguono serve forse un punto di partenza. Lo affido a una frase: "condursi insieme ... more Alle note che seguono serve forse un punto di partenza. Lo affido a una frase: "condursi insieme in modo diverso". Avevo la sensazione che tra le parole pronunciate da Foucault al Collége de France il 1 marzo del 1978 ci fossero anche queste, e in quest'ordine. Così non è, e allora ho tentato di intercettare un passaggio in cui, non solo in quella lezione e in quel corso, Foucault si è avvicinato di più al senso di questa frase. E forse ho trovato qualcosa, o forse no. Resta il fatto che quelle parole hanno continuato a lavorare. Cercavo un modo per sintetizzare le impressioni ricavate da quanto avevo letto, visto, sentito e immaginato su Kobane; un modo per venire a capo dell'importanza e della necessità straordinarie di quella lotta di resistenza: cosa era successo in città prima del precipitare degli eventi, nello spaziotempo in between, tra i mille rivoli (anche immobili, confinati) della diaspora curda e l'assedio dell'Isis e la resistenza degli abitanti? E soprattutto come era successo? Questa domanda si rifletteva nella frase attribuita a Foucault, nell'idea di decidere insieme come condursi. E si associava in qualche modo a un'altra frase, forse incongrua e forse di John Coltrane: "non c'è nulla di improvvisato nell'improvvisazione." Improvvisare, nel jazz e non solo, significa procedere collettivamente creando qualcosa di nuovo, ed è una pratica che richiede lunghe ore di preparazione, che pesca qua e là, rovistando altrove, rubando sequenze di note. Soprattutto, improvvisare chiama in causa un sapere condiviso e una conduzione reciproca, un trasformarsi insieme: abitare uno spazio e un tempo mentre li si producono, as we go along. 1 Da qui il tentativo di radunare queste frasi sparse: di sondare quali idee di tempo, di spazio e di soggettività chiami in causa la pratica collettiva di condursi in modo diverso; e di mostrare come tale pratica sia a un tempo autonoma, individualizzante e plurale, comune. È probabile che tutto ciò si riveli lontano da quanto Foucault ha inteso con il termine controcondotte. Ma ancora non ne sono così sicuro.
(su Il manifesto 4/2/2012 [email protected]) Dopo essersi smarrita tra le pieghe dei test... more (su Il manifesto 4/2/2012 [email protected]) Dopo essersi smarrita tra le pieghe dei testi, nei transfert e contro-transfert di esercizi esegetici, riflessivi o dialogici, l'antropologia sembra aver ritrovato un terreno (del resto mai disertato) e riscoperto la forza carsica del pensée d'autrui: quella "potência de alteridade", come la definisce Eduardo Viveiros de Castro, che da sempre costituisce il movente di questo "sapere (anti)coloniale" rendendolo un territorio conteso, di incerta sovranità, attraversato da un'onnivora volontà di sapere pronta a rovesciarsi nel suo opposto e farsi possedere dai soggetti che studia. Per questo, una buona definizione dell'antropologia è anche "uma boa definição da antropofagia", da cui scaturisce qualcosa di radicalmente altro rispetto al discorso onnicomprensivo e normalizzante che l'Occidente continua a pronunciare: qualcosa che ci restituisce un'immagine degli altri e di noi che non conosciamo e non riconosciamo, imponendo una presa di distanza. Accanto alla riscoperta di altri luoghi, materiali o simbolici, della fisicità violenta di contatti, rituali e corpi con le loro tecniche, le loro simbologie e le loro secrezioni, ritorna poi anche quella di "mitologie" e opposizioni strutturali che interpellano direttamente un nume tutelare, l'autore che, spingendosi fino a un punto lontanissimo, sembra aver fatto seppuku della disciplina. Claude Lèvi-Strauss è morto da poco più di due anni, dopo aver superato il secolo, ma la sua esistenza, come del resto il suo lavoro, pareva idiosincratica al tempo. Da Tristi tropici alle Strutture elementari fino ai tre volumi delle Mythologiques, passando per quel frammento assoluto delle scienze sociali del Novecento che è l'introduzione all'opera di Marcel Mauss, l'uomo che ha aperto e chiuso la lunga estate dello strutturalismo incombe ancora sul presente, come punto di massima visibilità e vicolo cieco dell'antropologia culturale, presenza inassimilabile e anacronisticamente attuale. Ai classici, d'altronde, è riservato il destino ingombrante di congiurare contro i tempi, motivo per cui aspettiamo ancora qualcuno che sappia scrivere di lui come lui è riuscito a scrivere di tutto parlando di Mauss. A partire da quest'eredità che sembra provenire da un futuro remoto, diverse voci hanno delineato un percorso simile a un ritorno sul luogo del delitto. Penso a Michael Taussig con i suoi lavori à la Conrad su feticismo delle merci e sciamanesimo in America latina, ai coniugi Comaroff che esplorano lo statuto ibrido e millenarista del capitale nel clima postcoloniale, e ovviamente a molti altri (da Philippe Descola, Roy Wagner, Stanley Tambiah fino ad Anna Tsing). Penso, appunto, a Viveiros de Ca-
The Sun Always Shines for the Cool è una commedia del 1984 di Miguel Pinero, attivista culturale ... more The Sun Always Shines for the Cool è una commedia del 1984 di Miguel Pinero, attivista culturale nuyorican (così si autodefinisce il movimento di intellettuali e militanti portoricani di seconda generazione trapiantati negli Stati Uniti) morto di cirrosi nel 1988 e noto, oltre che per un'altra piece molto premiata, Short Eyes (di cui poi diresse anche una versione cinematografica destinata a diventare un classico dei jail-movie anni settanta), anche per aver interpretato come caratterista il ruolo di informatore e piccolo spacciatore nel serial televisivo Miami Vice. Il sarcasmo underground della sua scrittura emerge già dal titolo, in quel tono da commedia hollywoodiana che sovverte ironicamente il soggetto e la particolare ambientazione del testo. Tutto infatti ha luogo in un sordido locale di East Harlem dove protettori, spacciatori, prostitute e tossicodipendenti si alternano in una ribalta grottesca: la scena è fissa e i personaggi, anche loro costanti, ruotano attorno a un tavolino raccontando «vite infami» il cui solo riscatto consiste, appunto, nell'essere cool. 1 Come la commedia di Pinero, anche In Search of Respect. Selling Crack in El Barrio, l'etnografia che Philippe Bourgois ha dedicato alle vite di strada legate all'economia della droga, sempre nel distretto portoricano di East Harlem, ha una scena costante e un numero limitato di voci: una game room situata all'angolo tra la Lexington e la 110ma strada, nel cuore del Barrio, e tre o quattro interlocutori privilegiati, tutti coinvolti più o meno direttamente nello spaccio di crack, cocaina ed eroina, che Bourgois segue nei percorsi quotidiani con una frequentazione assidua, vissuta dapprima con diffidenza e in seguito con sempre maggiore intimità. Ma le affinità non si fermano qui, perché oltre a parlare dello stesso mondo sociale da un punto di vista e un palco analoghi, i due testi condividono sin dal titolo pure la stessa prospettiva sulle forme di valorizzazione simbolica che quel mondo promuove come compensazione dell'oppressione materiale subita: la coolness su cui, ironicamente, per Pinero dovrebbe splendere il sole è infatti prerequisito essenziale di quel respecto di cui i soggetti descritti da Bourgois sono alla continua 1 Alcune poesie di Miguel Pinero e un breve stralcio della commedia sono stati tradotti in italiano nell'antologia curata da Mario Maffi, Pinero (1997).
in S. Palidda, ed., 2011 Racial Criminalization of Migrants in the 21st Century, London p.95-106)
In M. Van Aken (a cura di) Annuario di Antropologia. Rifugiati. vol. 5, Roma:Meltemi, "Il nostro ... more In M. Van Aken (a cura di) Annuario di Antropologia. Rifugiati. vol. 5, Roma:Meltemi, "Il nostro tempo -il suo moderno imperialismo militare, le ambizioni quasi teologiche dei suoi governanti dispotici e totalitari -è il tempo dei rifugiati, dei profughi, dell'immigrazione di massa." (Edward Said, Reflections on exile)
in AUT AUT, vol. 298, "La politica senza luogo. Biopolitica, cittadinanza e globalizzazione", lug... more in AUT AUT, vol. 298, "La politica senza luogo. Biopolitica, cittadinanza e globalizzazione", luglio-agosto 2000, p. 155-179) Di cosa parliamo quando parliamo di diaspora? Che cosa è in gioco oggi, sul piano politico e su quello intellettuale, quando si parla di diaspora? Questa domanda aperta introduce un capitolo, senza dubbio il più bello, del libro di James Clifford Routes. Travel and translation in the late twentieth century. 1 Cinquanta pagine in tutto per tracciare le linee e introdurre quella che potrebbe sembrare una semplice esplorazione, poco più di una rassegna degli attuali studi su un argomento apparentemente circoscritto, un «oggetto storico" delimitato e di solito non tanto «ospitale". La posta in palio però è decisamente più alta, e Clifford, tenendo fede alla domanda iniziale, la assume fino in fondo: rintraccia, delinea e recupera in una trama di esperienze diverse e storicamente situate, una serie di elementi «politici" aperti, alcuni condivisi altri divergenti, tutti riconducibili a una condizione determinata, definita con un ossimoro, «risiedere nello spostamento". La sua idea di diaspora si spinge infatti fino ai limiti consentiti dalle determinazioni storiche che la parola si è data: è più un campo di gravità su cui stabilire comparazioni che un'idea definita e chiusa. Più un significante aperto che un modello, una categoria.
in A. Dal Lago, R. De Biasi, Un certo sguardo. Introduzione all'etnografia sociale. Laterza, Roma... more in A. Dal Lago, R. De Biasi, Un certo sguardo. Introduzione all'etnografia sociale. Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 27-53) 1.
9 M. Davis, Breve storia dell'autobomba dal 1920 a oggi. Un secolo di esplosioni, Einaudi, Torino... more 9 M. Davis, Breve storia dell'autobomba dal 1920 a oggi. Un secolo di esplosioni, Einaudi, Torino 2007. 10 P. Zanini, Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali, Bruno Mondadori, Milano 1997; P. Cuttitta, Segnali di confine. Il controllo dell'immigrazione nel mondo frontiera, Mimesis, Milano 2007.
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Papers by federico rahola
notion of counter-conducts), and nonetheless explores the potentialities of the idea of
“conducting themselves together in a different way”. It thus outlines what is politically
at stake in such a collective practice, what ideas of subjects, spaces and temporalities
does it envisage, by paralleling it with the practice of jazz improvisation.
notion of counter-conducts), and nonetheless explores the potentialities of the idea of
“conducting themselves together in a different way”. It thus outlines what is politically
at stake in such a collective practice, what ideas of subjects, spaces and temporalities
does it envisage, by paralleling it with the practice of jazz improvisation.
confini europei attraverso la lente storica della Underground railroad,
l’esperienza essenzialmente black di fuga e sottrazione dalle catene della
schiavitù e dal regime delle piantagioni degli Stati uniti del sud prima della
guerra civile?
Forse sì, a patto di riconoscere in due vicende temporalmente lontane e sotto molti aspetti incomparabili una comune matrice: la tensione verso un luogo percepito come libero e la creazione di rotte e spazi alternativi che in questo libro continuano a essere indicati come "Europe".
In un viaggio etnografico attraverso una serie di situazioni di confine, di luoghi provvisori e di spazi riappropriati (a Calais, Ventimiglia, Ceuta e Melilla, Pozzallo, Atene, Patrasso) si finisce così per imbattersi in altrettante stazioni di un’ipotetica e riaggiornata ferrovia sotterranea, UndergroundEurope, unica possibile via di fuga rispetto alla geografia claustrofobica e razzializzata dell’Europa di oggi.