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La storia di fronte al digital turn

2017, Fare storia nella società dell'informazione. Teorie, modelli, pratiche

Partendo da una revisione della letteratura sul tema delle digital humanities, si analizzano i rapporti tra storia e scienze informatiche sia da un punto di vista storiografico che epistemologico. Il capitolo termina con una comparazione di siti web dedicati alla valorizzazione di fonti storiche, incentrati sull'uso dei Linked Open Data

Capitolo 3. La storia di fronte al digital turn NOTA. Il capitolo è stato estrapolato dalla tesi di laurea magistrale: "Fare storia nella società dell'informazione. Teorie, modelli pratiche", relatore prof. Maurizio Vivarelli, Università di Torino, a.a. 2015-2016 Per ulteriori informaizoni o approfondimenti si prega di contattare l'autore all'indirizzo di posta elettronica [email protected] 3.1. Il contesto delle Digital Humanitie Il progetto del Web Semantico, come si è visto, tenta di dare una risposta al problema dello squilibrio tra produzione e capacità di gestione di dati e di documenti; le discipline umanistiche hanno da sempre affrontato queste questioni tramite i sistemi di organizzazione della conoscenza (KOS)1 e attraverso gli strumenti di curatela, la cui essenza risiede nell’«amministrare in modo intelligente enormi quantità di dati […] filtra[ndo], organizza[ndo], lavora[ndo], e, in ultima analisi, "prende[ndosi] cura di" una storia creata a partire da un’infinita gamma di possibili racconti, reperti, e voci» 2. Alla luce di questa esplosione informativa e, più in generale, in ragione dei cambiamenti tecnologici e sociali, che in questa sede si è cercato di delineare introducendo il concetto di società dell’informazione, risulta oggi necessario un approccio disciplinare che recuperi il ruolo delle scienze umanistiche coniugandole con l’informatica, le tecnologie dell’informazione (IT) e, in senso più ampio, col digitale, se, come è stato scritto, «la tecnologia amplia la prerogativa umana di costruire significati» 3. É la grande famiglia delle Digital Humanities4. 1 2 3 4 Per un classico della storia degli ordinamenti bibliografici si veda A. SERRAI, Le classificazioni. Idee e materiali per una teoria e per una storia, Olschki, Firenze 1977. A. BURDICK et. al., Umanistica_Digitale, Milano 2014 (ed. or. 2012), <https://mitpress.mit.edu/sites/default/files/titles/content/9780262018470_Open_Access_Edition.pdf>, p. 57. D. M. BARRY, The Computational Turn.Thinking about Digital Humanities, in «Culture Machine», 12 (2011), <http://culturemachine.net/index.php/cm/issue/view/23>; pubblicato come Introduction al volume Understanding Digital Humanities, edited by ID., Palgrave Macmillan, Basingstoke 2012., p. 11. In italiano il termine è tradotto con "umanistica digitale", ma questa trasposizione non rende al meglio l’intento di includere in questo campo di studi il più ampio numero di approcci possibili, come è invece intrinseco nel plurale humanities; pertanto, in questa sede, si userà l’espressione inglese, che viene spesso abbreviata con DH. Per quanto riguarda il panorama italiano esiste un’associazione, l’AIUCD (Associazione per l’Informatica Umanistica e la Cultura Digitale, <http://www.aiucd.it>) che raccoglie gli studiosi e gli interessati alle tematiche dell’umanistica digitale. Il nostro paese annovera una lunga tradizione di studi interessati ai rapporti tra scienze umane discipline informatiche; tra i molti studi si segnalano: T. ORLANDI, Informatica umanistica, NIS, Roma, 1990; M. RICCIARDI, 73 3.1.1. Un profilo storico I primi esperimenti di applicazione delle nascenti tecnologie informatiche alle ricerche in ambito umanistico risalgono all’apparizione dei primi calcolatori negli anni Quaranta; è probabile tuttavia che, come evidenzia Edward Vanhoutte, l’idea di applicare primitivi metodi computazionali alle arti si trovi per la prima volta nella traduzione delle Notions sur la machine analytiquede Charles Babbage, fatta dalla matematica inglese Ada Lovelace nel 1843 a partire dal testo di Luigi Federico Menabrea 5. All’indomani della presentazione dell’ENIAC il sociologo americano Warren Weaver e uno dei suoi allievi, il matematico inglese Andrew D. Booth, ebbero l’intuizione che il computer potesse essere usato non solo per i calcoli balistici, ma anche in ambito umanistico, quello della traduzione automatica (Machine Translation, MT). Presso il centro di ricerca della Fondazione Rockfeller a Princeton Booth elaborò un sistema per immagazzinare un dizionario in codice binario all’interno di un computer, rendendo così possibile la Studi umanistici e nuove tecnologie, Università degli studi di Torino, Torino 1991; G. ADAMO, Bibliografia di informatica umanistica, Bulzoni, Roma 1994. Tra i contributi più recenti: D. FIORMONTE, Scrittura e filologia nell'era digitale, Bollati Boringhieri, Torino 2003; G. GIGLIOZZI, Saggi di informatica umanistica, Unicopli, Milano 2008; F. BRIVIO, L'umanista informatico. XML, HTML, CSS, SQL, Web, internet, database, programmazione e Google per le scienze umane , Apogeo, Milano 2009; F. TOMASI, Metodologie informatiche e discipline umanistiche, Carocci, Roma 2009; D. FIORMONTE – T. NUMERICO – F. TOMASI, L' umanista digitale, Il Mulino, Bologna 2010; M. 5 LAZZARI, Informatica umanistica, McGraw Hill, Milano 2014; L. SPINAZZÉ, Filologia digitale. Dalla ricerca alla didattica. L'informatica umanistica al servizio delle scienze dell'antichità, Tangram edizioni scientifiche, Trento 2015. Il meccanismo operativo della macchina analitica, scriveva Lovelace, «potrebbe agire su altre cose oltre ai numeri […]. Supponiamo, per esempio, che le fondamentali relazioni dei suoni nella scienza dell'armonia e della composizione musicale fossero suscettibili di una tale espressione, il motore potrebbe comporre ed elaborare brani musicali scientifici con qualunque grado di complessità ed estensione». A. A. LOVELACE, Notes by the Translator, in Scientific Memoirs. Selections from The Transactions of Foreign Academies and Learned Societies and from Foreign Journals, ed. by R. TAYLOR, London 1843, pp. 245-95, citato in E. VANHOUTTE, The Gates of Hell. History and Definition of Digital Humanites Computing, in Defining Digital Humanities. A Reader, ed. by M. TERRAS, J. NYAM and E. VANHOUTTE Ashgate, Farnham 2013, p. 121. Per un’altra introduzione storica si veda anche S. HOCKEY, The History of Humanities Computing, in A Companion to Digital Humanities, ed. by S. SCHREIBMAN, R. SIEMENS and J. UNSWORTH, Blackwell, Oxford 2004, <http://www.digitalhumanities.org/companion>, pp. 3-20. Per uno sguardo sul dibattito accademico francese si faccia riferimento a M. DACOS – P. MOUNIER, Humanités numériques. État des lieux et positionnement de la recherche française dans le contexte international , Institut Français, Paris 2014, <http://www.enssib.fr/bibliotheque-numerique/notices/65358-humanitesnumeriques-etat-des-lieux-et-positionnement-de-la-recherche-francaise-dans-le-contexteinternational>. 74 traduzione parola per parola; i risultati vennero raccolti nel in un memorandum nel 1949 cui seguirono la nascita di altri progetti e discussioni metodologiche in merito ai problemi di ambiguità e funzione sintattica dei termini. Negli anni 1952-54 si svolsero alcune prime conferenze, venne avviata la pubblicazione del «Journal of Machine Translation», uscì il primo manuale dedicato a questi temi 6, ed infine venne realizzata presso l’IBM la prima dimostrazione pubblica di traduzione automatica dal russo all’inglese7. Nello stesso periodo le tecnologie nate per i lavori di traduzione vennero usate dai filologi nell’elaborazione elettronica di concordanze lessicali; il gesuita Roberto Busa, dopo aver discusso la sua tesi di dottorato nel 1946, avviò un progetto di lemmatizzazione dell’opera omnia di San Tommaso, l’Index Thomisticu. Inizialmente l’Index non usava le tecnologie informatiche, ma resosi conto della mole del materiale, Busa pensò di rivolgersi all’IBM che, dopo tre anni, mise a disposizione le proprie macchine per analizzare la grande massa di dati. Come raccontava egli stesso, il suo lavoro attraversò tre fasi: La prima durò meno di dieci anni. Cominciai nel 1949, con solo macchine a schede perforate. Il mio obiettivo era avere uno schedario di 13 milioni di schede, una per ogni parola, con un commento di dodici righe stampato sul retro. Lo schedario sarebbe stato lungo 90 metri, alto 1,20 di altezza e profondo uno, con un peso di circa 500 tonnellate. Nella Sua grazia, all’incirca nel 1955, Dio guidò gli uomini nell’invenzione dei nastri magnetici. […]. Fino al 1980 lavorai su 1.800 nastri, lunghi ciascuno circa 2.400 piedi, nell’insieme, 1500 chilometri, la distanza tra Parigi e Lisbona o tra Milano e Palermo. Usai tutte le generazioni di computer-dinosauri dell’IBM. Terminai nel 1980, prima dell’avvento dei personal computer, con 20 nastri, e preparai per la stampa, con l’aiuto della fotocomposizione, le 20 milioni di righe che riempivano le 65.000 pagine dei 56 volumi che racchiusero su carta l’Index Thomisticu. La terza fase cominciò nel 1987 con la preparazione per trasferire i dati su CD-ROM. La prima edizione uscì nel 1992 […]. Il lavoro occupa oggi 1,36 Gb di dati, compressi in un singolo disco8. Il valore innovativo profondo di questo primo grande esempio di applicazione delle tecnologie informatiche alle scienze umanistiche risiede nella costruzione dei rimandi interni fra le parole e le schede che, come è stato osservato, costituiscono un «ipertesto 6 7 Cfr. A. D. BOOTH – K. H. V. BOOTH, Automatic Digital Calculators, Butterworths, London 1953. Cfr. J. HUTCHINS, The First Public Demonstration of Machine Translation. The Georgetown-IBM System, 7th January 1954, 2005, <http://www.hutchinsweb.me.uk/GUIBM-2005.Pdf>. 8 R. BUSA, Foreword. Perspectives on the Digital Humanities, in A Companion to Digital Humanities, cit., p. xvi. 75 interno»9, ovvero un'anticipazione quell’insieme di «nodi, collegamenti e sentieri biforcanti»10 che, più o meno negli stessi anni, Vannevar Bush aveva cominciato ad immaginare. La machine translation, da un lato, e la lexical text analysi, costituivano il nucleo centrale del campo di studi che andò formulandosi col nome di Humanities Computing, in italiano informatica umanistica. Dopo un periodo di grande interesse e strutturazione accademica 11, tra la metà degli anni Cinquanta e la metà dei Sessanta, si assistette al declino della traduzione automatica, in favore di un aggiornamento degli studi linguistici: «il problema non [era] l'inadeguatezza delle macchine, ma la scarsa comprensione dell’uomo del linguaggio umano»12. Contemporaneamente, prese avvio quella che Tito Orlandi definisce come «fase pionieristica» degli studi filologici che sperimentavano metodi computazionali 13, caratterizzata dalla progressiva istituzionalizzazione della disciplina: nel 1965 uscì il volume Computers for the Humanities? risultato di una conferenza sponsorizzata dall’IBM l’anno precedente14; nel 1966 iniziò la pubblicazione del periodico Computer and the Humanities (CHum), nel cui secondo numero fece per la prima volta apparizione l’espressione Humanities Computing, in un articolo dedicato al linguaggio di programmazione PL/1 per la ricerca umanistica15. Nel corso degli anni Settanta, fase di consolidamento degli studi, nacquero le prime associazioni internazionali, l’Association of Literary and Linguistic Computing (ALLC, 1973) e l’Association for Computers and Humanities (ACH, 1978) e, contestualmente, vennero organizzate le prime conferenze internazionali16. 9 E. VANHOUTTE, The Gates of Hell, cit., p. 127. 10 A. BURDICK et al.,Umanistica_Digitale, cit., p. 59. 11 Nel 1962 venne fondata l'AMTCL, Association of Machine Translation and Computational Linguistic, sostenuta economicamente dal governo statunitense. 12 E. VANHOUTTE, The Gates of Hell, cit., 125. 13 Orlandi ricordava gli studi di Roy A. Wibsey sui testi antichi alto-tedeschi, di Félicien de Tolleanare sulla Bibbia Gotica e poi sulla lessicografia olandese, di Bernard Quemada sulla lessicografia francese, di Alvar Ellegård sull’inglese del Settecento e di Andrew Morran sul testo greco dell’Antico Testamento. Cfr. T. ORLANDI, Informatica Umanistica. Realizzazioni e prospettive, in G. ADAMO et al., Calcolatori e Scienze Umane. Archeologia e Arte, Storia e Scienze Giuridiche e Sociali, Linguistica, Letteratura, ETAS Libri, Milano 1992, <http://www.cmcl.it/~orlandi/pubbli/info068.pdf>, pp. 1-22. 14 Cfr. Computers for the Humanities?, ed. by G. W. PIERSON, Yale University Press, New Haven 1965 [Record della conferenza organizzata dalla Yale University, 22-23 gennaio]. 15 Cfr. J. HELLER – G. W. LOGEMANN, PL/1. A Programming Language for HumanitiesResearch, in «Computers and the Humanities», 1 (1966), n. 2, <http://www.jstor.org/stable/30199201>, pp. 19–27. 16 Verso l’inizio degli anni Sessanta non fu solo la linguistica a cercare di costruire ponti fra scienze umane e informatica; come ricorda Gerben Zaagsma, nel 1962 venne organizzata, a Burg Wartenstein in Austria, la conferenza The Use of Computer in Anthropology che spesso viene identificata come il primo momento in cui si discusse di informatica umanistica. Cfr. G. ZAAGSMA, On Digital History, 76 In ambito statunitense le ricerche erano maggiormente orientate verso gli studi computazionali (le prime monografie su queste tematiche furono realizzate dall’industria informatica)17 mentre in Europa ci si concentrava maggiormente più sugli aspetti strettamente filologici. A partire dal 1967, nell’ottica di standardizzare linguaggi usati per l’edizione dei testi, vennero avviati dall’università di Oxford i progetti COCOA e TACT (Textual Analysi Computing Tools); dopo un ventennio di ricerche su questi temi, in una conferenza svoltasi a New York nel 1987, si cominciò a porre l’attenzione sulla possibilità di rendere machine readable i testi digitali. Dagli atti di quella conferenza, i Poughkeepsie Principles, grazie al cordinamento dell’ALLC nacque la Text Encoding Initiative (TEI) la cui missione era quella di sviluppare linee guida per la codifica dei testi in ambito umanistico; la prima versione TEI P1 (proposal 1), presentata nel 1990, usava il linguaggio di marcatura SGML, cui fece progressivamente seguito XML (pienamente formulato nell’ultima versione, TEI P5, 2007)18. Gli anni Ottanta, con la diffusione dei personal computer con approccio WYSIWYG e degli accessi alla rete, moltiplicarono le possibilità di ricerca, in particolare sugli ipertesti, e di comunicazione, grazie alle mail list – la prima Humanist venne avviata nel 1987. Verso la fine del decennio le Humanities Computing cominciavano ad apparire nella denominazione di corsi universitari, dipartimenti e centri di ricerca; a ridosso degli anni Novanta il campo di studi venne ufficialmente formalizzato con la pubblicazione dell’Humanities Computing Yearbook (1988-1990)19, volume nel quale veniva offerta una ricognizione bibliografica e dato conto di tutti progetti di ricerca avviati a livello globale: con l’apertura verso i media studies e con l’avvento del Web, l’informatica umanistica, cominciava a configurarsi come un dominio di ricerca interdisciplinare. L’evoluzione degli studi nelle Humanities Computing dal 1990 ad oggi è stata divisa dallo studioso David Barry in due fasi. Secondo questa lettura in una prima ondata, che arriva fino agli inizi degli anni Duemila, caratterizzata da digitalizzazioni su larga scala, gli strumenti digitali venivano interpretati come infrastrutture grazie alle quali, ad esempio, compiere analisi di grandi quantità di dati che suffragassero le tesi sostenute nelle ricerche umanistiche tradizionali (approccio quantitativo). In una seconda ondata, pressappoco coincidente con la comparsa delle prime tecnologie 2.0 (2000-2005), l’attenzione si in «BMGN - Low Countries Historical Review», 128 (2013), n. 4 doi:10.18352/bmgn-lchr.9344, p. 7. 17 «Nel 1971 l’IBM pubblicò una serie di manuali: Introduction to Computers in the Humanities; Literary Data Processing; Computers in Anthropology and Archaeology». E. VANHOUTTE, The Gates of Hell, cit., p. 130. 18 Cfr. The Humanities Computing Yearbook, ed. by I. LANCASHIRE and W. McCARTY, Clarendon Press, Oxford 1988. 19 Cfr. Tei – History, <http://www.tei-c.org/About/history.xml>. 77 spostava verso l’uso di metodologie ibride, espandendo così la nozione di disciplina umanistica, privilegiando un approccio qualitativo e interpretativo riguardo la complessità dei temi di studio. Tra le due fasi Barry colloca il computational turn, un momento di cambiamento epistemologico nelle Humanities Computing, di allargamento dell’orizzonte di ricerca favorito dalle nuove possibilità tecnologiche, e di modifica delle metodologie di ricerca che venivano ricombinate nel nuovo contesto, portando alla ridefinizione dell’intera disciplina20. Questa fase transitoria si fondava su un presupposto ermeneutico: ci si avvaleva «di strumenti computazionali in grado di trasformare il contenuto, la portata, la metodologia e il pubblico dell’indagine umanistica tout-court»21 e di nuovi modelli di ricerca per produrre cultura in un mondo post-stampa. Preso atto di questo cambiamento, alcuni studiosi, guidati da John Unsworth, valutarono la necessità di proporre una nuova denominazione del campo di studi, proponendo quella più inclusiva di Digital Humanities, che venne adottata nella pubblicazione del Blackwell Companion (2004)22. Nei successivi cinque anni il termine ha perso il suo carattere informale, istituzionalizzandosi a livello globale, sostituendo la definizione più precisa, ma più ristretta, di Humanities Computing: nel 2005 venne costituita l’ADHO (Alliance of Digital HumanitiesOrganizations), nata dalla fusione di ALLC e ACH23; nel 2006 venne fondato negli Stati Uniti l’Office for Digital Humanities24 e, nello stesso anno, la conferenza congiunta ALLC/ACH venne rinominata in Digital Humanities25; nel 2007, infine, iniziò la pubblicazione del Digital Humanities Quartely, uno dei tre periodici di riferimento dell’ADHO26. Cfr. Understanding Digital Humanities, cit., pp. 1-21. A. BURDICK et al.,Umanistica_Digitale, cit., p. 199. Cfr. A Companion to Digital Humanities, cit. Ad oggi l’ADHO raccoglie le più importanti associazioni a livello globale: l’ACH (1978); la Canadian Society for Digital Humanities / Société canadienne des humanités numériques (CSDH/SCHN); l’Australasian Association for Digital Humanities Inc (aaDH, 2011); la Japanese Association for Digital Humanites (JADH, 2012); Humanistica, L'association francophone des humanités numériques digitales (Humanistica, 2010); l’EuropeanAssociation for Digital Humanities (EADH), nuovo nome assunto dall’ALLC nel 2013. A sua volta l’EADH include la Dhd - Digital Humanities im deutsch sprachigen Raum, la DHN - Digital humaniora i Norden e l’AIUCD. Cfr. <http://adho.org>, <https://eadh.org/about>. 24 L’ufficio è inserito all’interno della NEH (National Endowment for Humanities), un importante organismo federale che, dal 1965, si occupa di finanziare la ricerca umanistica; cfr. Neh, <https://www.neh.gov/about>. 25 Le conferenze annuali congiunte iniziarono nel 1990 a Toronto, e cambiarono nome sedici anni dopo a quella di Parigi, DH06; cfr. <http://adho.org/conference>. 26 Gli altri due sono l’oxoniense «Digital Scholarship in the Humanities» (DSH, 2015), nuova denominazione del periodico «Literary and Linguistic Computing» (LLC, attivo dal 1986), e il canadese «Digital Studies / Le champ numérique» (2009). 20 21 22 23 78 3.1.2. Alcune riflessioni epistemologiche Dare una definizione univoca e definitiva di cosa siano le Digital Humanities è impossibile, oltre che, secondo alcuni studiosi, sostanzialmente inutile27; come sottolinea Rafael Alvarado, è quindi più opportuno pensare a una categoria sociale piuttosto che ontologica, a una famiglia, a «una genealogia, una rete di somiglianze tra varie scuole di pensiero, interessi metodologici, strumenti, [a] una storia di persone che hanno deciso di chiamarsi umanisti digitali cercando di autodefinirsi» 28. Anche nell’ambito più circoscritto delle Humanities Computing era difficile trovare una definizione formale e, per questo motivo, si cercò di enumerare i campi applicativi della disciplina, senza riflettere troppo sulle implicazioni epistemologiche. Partendo dunque dal presupposto che l’informatica, attraverso la rappresentazione di oggetti culturali in codice binario, aveva favorito lo sviluppo di metodi formali nella ricerca umanistica, si prediligeva un approccio pratico: «se si vogliono comparare due testi lo si può fare con carta e penna; ma se si vogliono comparare cinquanta testi l'uno con l'altro, è necessario l’uso di qualche metodo computazionale»29. Questo tipo di riflessione poteva essere funzionale fintanto che la gran parte degli ambiti di studio erano occupati dall’analisi testuale, ma, nel momento in cui avveniva il computational turn, gli studiosi cominciarono ad interrogarsi sulla natura profonda delle Humanities Computing; come scriveva John Unsworth: [le HC] sono una pratica rappresentativa, una forma di modellizzazione o […] di mimetismo. Sono un modo di ragionare e un insieme di impegni ontologici e la loro pratica rappresentativa è definita dal bisogno da un lato, di una computazione efficiente, dall’altro dalla comunicazione30. 27 Fred Gibbs afferma che «se ci sono due cose di cui l'accademia non ha bisogno sono un altro libro su Darwin e un altro blog post per definire cosa siano le Digital Humanities» (F. GIBBS, Digital Humanities Definitions by Type, in fredgibbs.net, 5 settembre 2011 [blog post], <http://fredgibbs.net/posts/post/digital-humanities-definitions-by-type>; pubblicato in Defining Digital Humanities, cit., p. 289), mentre Rafael Alvarado arriva a sostenere la tesi che «non [può] esiste[re] una definizione di Digital Humanities, se per definizione intendiamo un insieme consistente di preoccupazioni teoriche e metodi di ricerca che possano essere allineati ad una disciplina data, un campo di ricerca stabilito». (R. ALVARADO, The Digital Humanities Situation, in The Transducer, 11 maggio 2011 [blog post], <http://transducer.ontoligent.com/?p=717>; pubblicato in Debates in the Digital Humanities, ed. by M. K. GOLD, University of Minnesota Press, Minneapolis 2012, p. 50). 28 Ibidem. 29 K. DE SMEDT et al., Computing in Humanities Education, A European Perspective, [SOCRATES/ERASMUS thematic network project on Advanced Computing in the Humanities (ACO*HUM)], University of Bergen, Bergen 1999, citato in Defining Digital Humanities, cit., p. 4. 30 J. UNSOWRTH, What i Humanities Computing and What i Not? , in «Jahrbuch für Computerphilologie», 4 (2002), <http://computerphilologie.uni-muenchen.de/jg02/unsworth.html>, 79 L’uso dei linguaggi e dei metodi computazionali per la ricerca umanistica, come ed esempio TEI, crea modelli e formalismi che riducono la complessità delle analisi; la modellizzazione, ricorda Vanhoutte, è un processo che parte da una conoscenza imperfetta e articolata, arrivando ad uno sguardo più profondo sulla realtà 31; è un procedimento ermeneutico, se con questo termine si intende l’insieme delle «interpretazioni che conferiscono valore agli oggetti culturali»32. Il digitale si comporta dunque come un medium. Partendo da queste riflessioni, Williard McCarty sottolineava che esiste una «differenza sostanziale tra la computazione per le scienze umane, e nelle scienze umane»33. Dal momento che le tecnologie sono embedded nella società contemporanea e che portano ad un ripensamento di tutte le aree del sapere, Dave Parry afferma che non possono esistere delle humanities non digital, che non è più possibile svolgere ricerca nella maniera tradizionale, con matita e macchina da scrivere. Quello che viene definito come umanesimo digitale presenta quindi un duplice approccio: il digitale come una serie di applicazioni utili alla ricerca umanistica (approccio strumentale) o come oggetto di studi (approccio metodologico)34. Ma gli strumenti digitali sono per natura multimediali, «artefatti retorici basati sui computer in cui sono integrati molteplici media, in un insieme artistico e interattivo»35; la loro caratteristica è quella di «collegare, connettere, unire e tradurre, rompere e riformulare» i vecchi media «che diventano – come osservava McLuhan– il contenuto di quelli nuovi» 36. Per questa ragione, le Digital Humanities non possono che avere, come sostiene McCarty, un approccio interdisciplinare; esse sono, riprendendo la metafora di Peter Galison, trading zones, «luoghi dove avviene il lavoro interdisciplinare e dove, allo stesso tempo, vengono mantenute le differenti tradizioni e portato avanti il reciproco scambio [tra le discipline]»37. Secondo Patrik Svensson: pp. 71-85; pubblicato in Defining Digital Humanities, cit., p. 8. 31 Cfr. E.VANHOUTTE, The Gates of Hell, cit., p. 140-141. 32 Ivi, p.141. Cfr. L. BURNARD, On the Hermeneutic Implications of Text Encoding, in New Media and the Humanities. Research and Applications, ed. by D. FIORMONTE, J. USHER, Humanities Computing Unit, Oxford 2001, pp. 31-38. 33 Cfr. W. McCARTY, Humanities Computing, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2005. 34 Cfr. D. PARRY, The Digital Humanities or a Digital Humanism, in Debates in the Digital Humanities, cit., pp. 429-437. 35 G. ROCKWELL, Is Humanities Computing and Academic Discipline?,Univeristy of Virginia 1999 intervento al seminario interdisciplinare Is Humanities Computing and Academic Discipline?, Univeristy of Virginia 12 novembre 1999; pubblicato in Defining Digital Humanities, cit., p. 22. 36 C. BASSETT, Canonicalism and Computational Turn, in Understanding Digital Humanities, cit., p. 107. 80 Le Digital Humanities possono essere viste come una trading zone frazionata (non omogenea) e cooperativa (non costretta) e un luogo di incontro che supporta profondamente il lavoro collaborativo, l’espressione individuale, le connessioni inaspettate e le sinergie. Il digitale, in un senso ampio e in varie manifestazione, funzione come un oggetto dai confini condivisi38. L’abbattimento delle barriere disciplinari ha quindi portato ad un progressivo allargamento dei campi di ricerca e degli scenari applicativi delle Digital Humanities. Riprendendo una fortunata metafora, si può parlare di una big tent39 che abbraccia la varietà dei possibili ambiti di ricerca: dall’analisi testuale alla Cultural Analytics40; dalla ricerca basata sull’applicazione delle tecnologie computazionali all’ambito storico, letterario e artistico all’umanistica ludica; dalle strategie per conservare l’eredità culturale di biblioteche, archivi e musei all’elaborazione di visualizzazioni grafiche della varietà dei dati (information visualisation); dall’analisi del linguaggio naturale (NLP, Natural Language Processing) ai media studies. In senso lato sono tutti strumenti che consentono di «vagliare, analizzare, mappare, valutare – e riscrivere – in modo efficace la valanga di dati digitali […] di individuare tendenze e relazioni»41. Come illustrato in precedenza, lo scopo del Web è da sempre quello di «consentire l’esplorazione e lo scambio delle idee» 42; grazie al potenziale delle tecnologie 2.0, le Digital Humanities hanno ampliato i loro confini e ripensato i propri limiti. Ad esempio l’ubiquitou computing abbatte gli spazi tradizionali della produzione e comunicazione delle conoscenze, la divisione tra aula, biblioteca e archivio, consentendo, in linea 37 P. SVENSSON, Beyond the Big Tent, in Debates in the Digital Humanities, cit., p. 46. Cfr. P. GALISON, Image & Logic. A Material Culture of Microphysics, University of Chicago Press, Chicago 1997. 38 P. SVENSSON, Beyond the Big Tent, cit., p. 46. 39 Cfr. Ivi, p. 36. 40 L’analitica culturale è quella «pratica che prevede l'utilizzo di strumenti di analisi computazionale di fascia alta e di visualizzazione di insiemi culturali su larga scala […] amplia[ndo], inolte il corpu di oggetti e materiali esaminati dagli studiosi delle discipline umanistiche» (A. BURDICK et. al., Umanistica_Digitale, cit., p. 69). Le tecnologie di data mining e di estrazione automatica delle informazioni, adottate nell’analisi dei big data vengono applicati per esempio al giornalismo o alla professione legale e consentono di manipolare, strutturare e visualizzare i dati mostrandone sia le caratteristiche specifiche che le tendenze su larga scala. Un esempio è il servizio Ngram Viewer di Google Books che, tramite l’approccio statistico "n-gramma", consente di cercare le occorrenze di uno o più termini all’interno dell’insieme dei volumi digitalizzati dall’azienda californiana ( <https://books.google.com/ngrams>; cfr. infra § 3.2.6) . 41 A. BURDICK et. al., Umanistica_Digitale, cit., p. 65. In generale, per una presentazione dei vari scenari possibili all’interno delle Digital Humanities cfr. Ivi, pp. 51-130. 42 L. SPIRO, “Thi Is Why We Fight”. Defining the Values of the Digital Humanities, in Debates in the Digital Humanities, cit., p. 22. 81 teorica, un accesso democratico al sapere; il mashup o remix dei contenuti ha consentito il superamento dell’approccio di «sola lettura» dei contenuti digitali, favorendo quello di «lettura-scrittura-riscrittura»43. Lisa Spiro ha colto nel cambiamento tecnologico la possibilità di ripensare gli obiettivi della disciplina e proporre una serie di presupposti etici e di valori per la ricerca nel campo delle Digital Humanities 2.044, tra i quali si possono evidenziare: a) openess, scambio libero e aperto delle idee, basato sui principi dell’open source, della licenza Creative Commons e sulla revisione peer-to-peer; b) collaboration, creazione di team molto diversificati per leggere i problemi e i flussi informativi da diverse prospettive; c) experimentation, l’importanza rivestita dal metodo e da applicazioni per supportare l’esplorazione e l’interpretazione dei dati culturali 45. Ma quale può essere, alla luce di queste riflessioni, una parziale risposta alla domanda: "cosa sono le Digital Humanities?" Una buona sintesi è stata proposta da Katlheen Fitzpatrick, che le definisce come: un legame fra domini di studio all’interno del quale i ricercatori usano le tecnologie computazionali per indagare le tradizionali problematiche delle discipline umanistiche, o porre domande, orientate dalle ricerche nelle scienze umane, sui temi riguardanti le tecnologie computazionali46 Uno degli scenari che abbracciano un’analisi del digitale ad un livello più profondo rispetto a quello strumentale è rappresentato dai software studies. «Grazie all’insistenza di McLuahn sul ruolo della tecnologia come agente di cambiamento – osserva Federica Frabetti –, quest’ultima era già da molti anni entrata a far parte del campo dei media e dei cultural studies»47. L’ambito dei software studies, inserendosi in questa tradizione, propone di indagare il software come oggetto storico, come un medium o «motore culturale»48; in questa prospettiva il coding, «area di produzione delle Humanites Computing»49, può essere studiato anche come una particolare forma di scrittura che si sviluppa a partire dagli anni Sessanta del Novecento. Alla luce di ciò si può proporre una riconcettualizzazione delle Digital Humanities come un ambito di studi che cerca di 43 A. BURDICK et. al.,Umanistica_Digitale, cit., p. 93. 44 Cfr. The Digital Humanities Manifesto 2.0, in digitalhumanities, 29 maggio 2009 [blog post], <http://manifesto.humanities.ucla.edu/2009/05/29/the-digital-humanities-manifesto-20>, § 46. 45 Cfr. L. SPIRO, “Thi Is Why We Fight”, cit., pp. 19-31. 46 K. FITZPATRICK, The Humanities, Done Digitally, in Debates in the Digital Humanities, cit., pp. 12. 47 F. FRABETTI, Have the Humanities Always Been Digital? For an Understandig of the “Digital Humanities” in the Context of OriginaryTechnicity, in Understanding Digital Humanities, cit., p. 163. 48 Ivi., p. 164. Cfr. L. MANOVICH, Software Takes Command, 2008, <http://softwarestudies.com/softbook/manovich_softbook_11_20_2008.pdf> . 49 N. K. HAYLES, How We Think. Transforming Power and Digital Technologies, in Understanding Digital Humanities, cit., p. 46. 82 «comprendere il digitale in termini tecnici, da un lato, e dall’altro indagando le [sue] dinamiche di produzione, circolazione e consumo» 50. Pertanto si tratta, come è stato notato, di un «dominio di ricerca ibrido, trans-disciplinare che abbatte le barriere tradizionali tra teoria e pratica»51; creando un ponte fra tecnologia e scienze umane, le Digital Humanities si presentano come un tentativo di ricucitura della frattura tra le "due culture". Nel suo famoso saggio del 1959, intitolato appunto Le due culture, lo scrittore e scienziato britannico Charles P. Snow, prendeva atto della crisi del modello humboldtiano di produzione della conoscenza, della separazione e della reciproca incomprensione tra discipline letterarie (cultura già allora in ritirata) e scientifiche (cultura in ascesa), cominciata a inizio Novecento; l’atteggiamento luddista degli umanisti nei confronti della scienza e quello disinteressato degli scienziati nei confronti delle arti conducevano Snow a formulare la necessità di colmare questa frattura per rilanciare la funzione del pensiero occidentale52. Oggi, più di mezzo secolo dopo, il digitale offre una risposta a quella necessità; anche nelle scienze umane, l’accettazione, su larga scala tardiva, della tecnologia, conduce alla riabilitazione delle discipline cosiddette ausiliarie – quelle che, come l’archivistica si occupano di organizzare la conoscenza – sanando il conflitto tra approccio pratico ed euristico53. Il digitale può essere letto come una rivoluzione, nell’accezione kuhniana del termine, un cambiamento epocale: le tecnologie informatiche favoriscono la ridefinizione dei paradigmi disciplinari e l’unificazione delle molteplici conoscenze prodotte negli ambiti accademici. Se i media digitali superano i tradizionali spazi e canali di produzione e comunicazione del sapere, allora, attraverso le Digital Humanities può essere proposta non solo una nuova prospettiva di ricerca, ma anche un rinnovamento del concetto di Bildung, vale a dire di una formazione poliedrica che consenta uno libero sviluppo spirituale dell’uomo54. 50 F. FRABETTI, Have the Humanities Always Been Digital? , cit., p. 169. 51 J. FLANDERS – W. PIEZ – M. TERRAS, Welcome to Digital Humanities Quarterly, in «Digital Humanities Quarterly», 1 (2007), n. 1; citato in, P. SVENSSON, Humanities Computing as Digital Humanities, in «Digital Humanities Quarterly», 3 (2009), n. 3, <http://digitalhumanities.org/dhq/vol/3/3/000065/000065.html>, pubblicato in Defining Digital Humanities, cit., p. 174. 52 Cfr. C. P. SNOW, Le due culture, Marsilio, Venezia 2005 (ed. or. 1959). 53 Cfr. B. RIEDER – T. RÖHLE, Digital Methods. Five Challenges, in Understanding Digital Humanities, cit., pp. 67-85. 54 Cfr. Understanding Digital Humanities, cit., pp. 7-16. 83 Illustrazioni §3.1 Figura 33. La dislocazione europea di centri di ricerca, dipartimenti, corsi di laurea, corsi universitari e summer school inerenti alle Digital Humanities (<https://dhregistry.de.dariah.eu>). 84 3.2 Storia digitale o storia con il digitale? 3.2.1 Premessa Nell'ampia cornice delle Digital Humanities il rapporto che intercorre tra le discipline storiche e quelle informatiche merita una riflessione separata. La peculiarità del metodo storico, l’esercizio critico sulla natura delle fonti, si è da subito scontrata con l’intrinseca virtualità dei documenti digitali, aprendo la strada a implicazioni che solo in parte coincidono con le riflessioni che valgono per l’umanistica digitale. Come afferma Serge Noiret, uno tra i primi storici in Italia ad interessarsi delle questioni relative ai rapporti tra storia e informatica, quasi tutte le problematiche tradizionali del mestiere di storico, dalla delimitazione di un’ipotesi di ricerca alla scoperta, all’accesso e alla gestione dei documenti e delle fonti, fino al conseguimento di un impianto narrativo e, soprattutto, alla comunicazione della storia e dei risultati della ricerca, e, infine all’insegnamento della storia, passano oramai in parte o in toto, attraverso lo schermo del computer55. Partendo dallo stesso tipo di considerazioni pratiche, Roy Rosenzweig, già fondatore del Center for History and New Media56, nel 2003 parlava di «destrutturazione della pratica storica portata dalle tecnologie digitale» che ha condotto «gli storici ad interrogarsi sugli obiettivi e le metodologie del proprio mestiere» 57. Il digital turn, il momento in cui le tecnologie digitali sono divenute indispensabili per l’attività di ricerca e lavoro – all’incirca dalla seconda metà degli anni Novanta – ha posto quindi, «in maniera drammatica», la necessità di «ripensare la natura stessa dell’attività di ricerca» 58. Il S. NOIRET, Storia digitale o storia con il digitale?, in «Storiografia», 18 (2014), doi: 10.1400/230761 , p. 242. 56 CHNM, presso la George Manson University, Fairfax, Virginia; oggi porta il nome del suo fondatore. L’obiettivo del centro di ricerca è semplice: «Democratizing history through digital media and tools»; <https://rrchnm.org> . 57 R. ROSENZWEIG, Scarcity or Abundance? Preserving the Past in a Digital Era, in «The American Historical Review», 108 (2003), n. 3, doi:10.2307/3523084, pp. 735–62; ripubblicato in ID., Clio Wired. The Future of the Past in the Digital Age, Columbia University Press, New York 2011, pp. 3-28. 58 «Le risorse digitali hanno già trasformato i modi in cui è condotta la ricerca nelle scienze umane – si affermava in un rapporto redatto dal King’s College di Londra nel 2006 – e il loro impatto non potrà che crescere in parallelo allo sviluppo di nuove tecnologie e alla pubblicazione [digitale] di nuovi materiali. […] Le risorse digitali possono cambiare le metodologie di lavoro rendendo i materiali più facilmente accessibili, rendendo possibile collegarli ad altre risorse e facendo risparmiare nella ricerca e nella navigazione dei contenuti. Possono anche, tuttavia, cambiare la natura della ricerca che si è 55 85 campo disciplinare che si delinea come storia digitale, non comprende soltanto «l’utilizzo di nuovi strumenti digitali che facilitano pratiche [consolidate] […] ma si tratta anche dello sviluppo di un rapporto stretto con le tecnologie» 59 che pone nuove questioni epistemologiche. Nonostante già trent’anni fa si riflettesse sull’impatto che i computer avevano assunto nella pratica storica 60, la maggior parte degli studiosi si è dimostrata, con ragioni fondate, disinteressata e scettica rispetto alle possibilità offerte dalle tecnologie, avviando con ritardo quel dibattito che si è visto fervido all’interno delle altre scienze umane. L’interesse posto dagli storici per l’informatica, coltivato più che altro dai prosecutori della scuola quantitativa e dalle ricerche di ambito filologico-documentario, ha visto un rinnovamento grazie alla diffusione del Web, in seguito alla quale «divenire digitali non è [più] una scelta, ma un dato di fatto» 61. Se oggi, a distanza di venticinque anni, si impone ancora la necessità di una discussione, questo è sintomatico della lentezza con la quale la comunità storica, in particolare quella europea, nonostante un numero crescente di eccezioni, abbia affrontato le questioni metodologiche relative al digitale. In una prospettiva critica, ma comunque desiderosa di sollecitare riflessioni positive in merito ad una maggiore cooperazione tra le discipline storiche e quelle informatiche, ci si propone, in queste pagine, di adottare un approccio né ottimista, né pessimista e soprattutto non appiattito sull’adesione alla moda imperante del "2.0". La prospettiva è quindi quella di un "tecno-realismo"62, che cerchi di rispondere alla sollecitazione fatta da Marc Bloch in un’era quasi totalmente analogica: Lo strumento, certo, non fa scienza. Ma una società che abbia la pretesa di rispettare le scienze non dovrebbe disinteressarsi dei loro strumenti. Certo sarebbe saggio altresì non affidarsi troppo, per questo, a corpi accademici, il cui reclutamento, favorevole alla 59 60 61 62 intrapresa, consentendo di interrogare le risorse, storiche e non, in modalità del tutto nuove e porre in agenda nuove questioni. C’è un chiaro riconoscimento di ciò all’interno della professione anche tra coloro i quali si sono già affacciati con questo quadro di ricerca alterato. […] le risorse digitali offrono un tremendo potenziale di democratizzazione della disciplina, ma questo dipende dall’esistenza di un accesso alle risorse open e finanziato pubblicamente». D. BATES et al., Peer Review and Evaluation of Digital Resources for the Arts and Humanities. Final Report, Institute of Historical Research, London 2006, <http://www.history.ac.uk/sites/history.ac.uk/files/Peer_review_report2006.pdf>, p. 13. S. NOIRET, Storia digitale o storia con il digitale?, cit., p. 242. Cfr. J.-P. GENET, Histoire, Informatique, Mesure, in «Histoire & Mesure», 1 (1986), n. 1, doi:10.3406/hism.1986.904, pp. 7-18. G. ZAAGSMA, On Digital History, p. 19. Cfr. D. J. COHEN – R. ROSENZWIEG, Digital History. A Guide to Gathering, Preserving, and Presenting the Past on the Web, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2006, <http://chnm.gmu.edu/digitalhistory/exploring>, § 2. 86 preminenza dell’età e benevolo coi i bravi scolari, non dispone particolarmente allo spirito di iniziativa63. 3.2.2 Origini Tra iper-entusiasti e ultra-scettici il rapporto tra "storici e computer" 64 (e Web) è da sempre molto controverso. I primi studi inerenti l'applicazione di metodologie computazionali alla ricerca storica risalgono all'inizio degli anni Sessanta in ambito francese e statunitense65; l'uso delle macchine a schede perforate per l'analisi di dati storici, tuttavia, si retrodata di un decennio, a quell'«epoca dei precursori» 66, come l’ha chiamata Tito Orlandi, aperta dal mastodontico lavoro di padre Busa nel 1949. Quindi, secondo Geerbert Zaagsma, «assumendo che la storia sia una disciplina accademica moderna e che la professione sia strutturata dalla seconda metà del XIX secolo, ne consegue che il digitale sia parte della pratica storica da un considerevole periodo di tempo» 67, più di mezzo secolo. Fu nel tentativo di dare alla storia uno statuto maggiormente scientifico e oggettivo, inglobando le metodologie proprie delle scienze sociali (sociologia, economia e demografia), che venne avviato l'uso massiccio di strumenti informatici. La storia quantitativa, disciplina nata nel solco della scuola delle Annales, che aveva fra i suoi caratteri fondativi l'uso di metodologie di analisi statistica per l'elaborazione dei dati provenienti dalle fonti nella costruzione e verifica delle ipotesi interpretative 68, ricevette 63 M. BLOCH, Apologia della storia,cit, pp.55-56. 64 Cfr. Storia & computer. Alla ricerca del passato con l’informatica, a cura di S. SOLDANI e L. TOMASSINI, Bruno Mondadori, Milano 1996. 65 Cfr. J.-C. GARDIN – P. GARELLI, Étude par ordinateurs des établissements assyriens en Cappadoce, in «Annales. Économies, Sociétés, Civilisations», XVI (1961), n. 5, doi:10.3406/ahess.1961.420758 pp. 837 -76, e W. O. AYDELOTTE, Voting Patterns in the British House of Commons in the 1840s, in «Comparative Studies in Society and History», 5 (1963), n. 2, doi:10.1017/S0010417500001596, pp. 134–63; citati in S. VITALI, Passato digitale. Le fonti dello storico nell’era del computer, Bruno Mondadori, Milano 2004, § 1.1. Il primo studio che ricostruiva le origini dei rapporti tra storici e informatica sono quelli di R. P. SWIERENGA, Clio and Computers. A Survey of Computerized Research in History, in «Computers and the Humanities» 5 (1970), n. 1, pp. 1-21 e ID., Computers and American History. The Impact of the “New” Generation, in «The Journal of American History» 60 (1974), n. 5, doi:10.2307/1901012, pp. 1045–70. 66 Cfr. C. FAVERO, Developing Digital Historians in Italy, The Open University, 2014, <http://oro.open.ac.uk/44504> [Tesi di dottorato], p. 24. 67 G. ZAAGSMA, On Digital History, cit., p. 2 68 Cfr. P. BURKE, Una rivoluzione storiografica. La scuola delle Annales. 1929-1989, Laterza, Roma-Bari 1993² (ed. or. 1990). 87 così un nuovo impulso: «la quantificazione era lo strumento per collocare a tutti gli effetti la storia all'interno del quadro delle altre scienze sociali, possibilmente in posizione egemonica»69. Partendo dal presupposto di a rendere «solo il quantificabile oggetto di storia»70 si affermava, specialmente negli Stati Uniti la tendenza a leggere la storia come un mezzo per «scoprire e dimostrare le leggi generali del comportamento umano»71, basandosi sui dati di natura economico-statistica (cliometria). L'approccio adottato dalla storia quantitativa, da alcuni critici coevi era ricondotto ad una sorta di atteggiamento neopositivista, veniva difeso da storici come François Furet i quali sottolineavano la possibilità di aprire nuovi problemi e prospettive di ricerca grazie all'analisi massiccia delle fonti; in quest’ottica l'uso del computer segnava non solo un progresso tecnologico, ma anche «una coazione teorica molto utile, nella misura in cui la formalizzazione di una serie documentaria obbliga[va] fin dall'inizio lo storico […] a costruire il suo oggetto di ricerca, a riflettere sulle sue ipotesi, e a passare dall'implicito all'esplicito»72. I processi informatici cui guardava la storia quantitativa erano naturalmente molto differenti rispetto a quelli odierni: avvenivano nei pochi centri di calcolo universitari tramite l'uso di schede perforate o nastri magnetici (batching), i tempi di preparazione e attesa dei risultati erano lunghissimi e occorreva una folta schiera di tecnici che aiutasse gli studiosi nelle loro elaborazioni 73. Nonostante i costi elevatissimi e i risultati non propriamente soddisfacenti, l'informatica appariva, verso la fine degli anni Sessanta se non l'unica frontiera per lo storico del futuro 74, almeno l'unica disciplina in 69 Cfr. S. VITALI, Passato digitale, cit., p. 9; questo tipo di dibattito era sorprendentemente in ritardo rispetto a quello sulle rivoluzioni scientifiche avviato da Thomas Kuhn nei primi anni Sessanta. Cfr. supra § 1.3.1. 70 Cfr. E. LE ROY LADURIE, Le frontiere dello storico, Laterza, Roma – Bari 1976 (ed. or. 1973). 71 R. P. SWIERENGA, Computers and American History, cit, p. 1062; citato in S. VITALI, Passato digitale, cit., p. 9. 72 F. FURET, Il quantitativo in storia, in Fare storia. Temi e metodi della nuova storiografia, a cura di J. Le GOFF e P. NORA, Einaudi, Torino 1981, p. 15; citato in S. VITALI, Passato digitale, cit., pp. 19-20. 73 Un esempio fu la codificazione in digitale del Catasto fiorentino del 1427, avvenuta tra il 1966 e il 1972 sotto la direzione di David Herlihy, database ora consultabile online al sito <http://cds.library.brown.edu/projects/catasto/overview.html>; cfr. D. HERLIHY – C. KLAPISHZUBER, I Toscani e le loro famiglie. Uno studio sul catasto fiorentino del 1427, Il Mulino, Bologna 1988 (ed. or. 1985). 74 «Per quanto riguarda la storia quantitativa un facile pronostico s'impone anche in Francia: almeno in questo campo, lo storico di domani dovrà essere un programmatore o non sarà affatto»; (E. LE ROY LADURIE L'historien et l'ordinateur, «Le Nouvel Observateur», 8 maggio 1968; tradotto in ID., Le frontiere dello storico, cit., p. 7). 88 grado di aiutare gli storici nel «mâitriser le gigantisme» 75 della crescente massa documentaria contenuta negli archivi. In ambito europeo, al di fuori dell’interesse mostrato dagli storici quantitativi, furono soprattutto i medievisti ad interessarsi alle implicazioni teoriche nell’uso di strumenti informatici per le ricerche storiche, organizzando un primo ciclo di studi seminariali all’École Française di Roma nel 197776. Negli stessi anni si assistette ad un raffreddamento dell'interesse nei confronti della storia quantitativa i cui punti critici riguardavano, da un lato, l'eccessiva riduzione della complessità dei problemi storici nella computazione e dall'altro l'eccessiva fiducia nella costruzione e validazione di ipotesi che spesso si erano rivelate erronee. Così, nel quadro delle mutate prospettive storiografiche, come l'antropologia storica, la nuova storia culturale e la microstoria, l'attenzione degli storici rispetto alle discipline informatiche divenne più lieve e progressivamente incentrata sul testo più che sull'analisi statistica – studiosi come Lawrence Stone furono tra i primi a leggere in questo mutamento lo spostamento del dibattito storiografico sui problemi posti dal cosiddetto linguistic turn77. In questo contesto, le metodologie della storia quantitativa, sebbene per un certo periodo di tempo relegate ad una nicchia, vennero riprese successivamente spurie dalla costruzione di leggi universali, come valide alleate per l’analisi testuale e, oggi, da coloro i quali propongono un tipo di storiografia che usa anche i big data. La diffusione dei personal computer negli anni Ottanta che, come si è visto, segnò un punto di svolta nella ricerca umanistica tout court, rappresentò invece per la comunità storica un momento di parziale isolamento rispetto all’evoluzione tecnologica, sia per un latente scetticismo, sia soprattutto a causa i numerosi problemi filologici insiti nel passaggio alla ricerca per mezzo dei documenti digitali. Nonostante questo momento di riflessione, ci furono, nella comunità storica, alcuni esempi di avvicinamento agli orizzonti di ricerca proposti nell’ambito delle Humanities Computing. L’avvento dell’informatica di consumo permise agli storici di usare i computer senza intermediari; uno dei progetti più riusciti di informatica storica fu senza dubbio l’«historical workstation» KELIO sviluppata da Manfred Thaller presso il Max-Planck Institut di Berlino a partire dal 1978, che forniva uno spazio virtuale per l’editazione dei testi, la 75 Cfr. Historie économique et sociale de la France, dirigée par Fernand Braudel et Ernest Labrousse, vol. I, L'avenènement de l'ère industrielle (1789-1880), Puf, Paris 1976, p. 15. 76 Il convegno si intitolava Informatique et histoire médievale e fu organizzato da Lucie Fosser, André Vauchez e Cinzio Violante; cfr. A. ZORZI, Conclusioni. Fare storia 2.0, in Les historiens et l’informatique. Un métier à réinvetner, dirigé par J.-P. GENET et A. ZORZI, École Française de Rome, Rome 2011, doi:10.1400/171941, p. 320. 77 Cfr. L. STONE, Viaggio nella storia, Laterza, Roma-Bari 1987 (ed. or. 1981). 89 consultazione di database e di fonti digitalizzate 78. Accanto a questo tipo di sperimentazione si affacciava l’uso di Internet, che, come si è visto, assumeva durante la seconda metà degli anni ‘80, un ruolo importante nelle università; prima della diffusione del Web gli storici cominciavano ad usare le liste di discussione (come HISTORY) che rimandavano a numerosi progetti di siti espressi col protocollo FTP contenenti fonti storiche di varia natura79. Proprio con il proposito di dare conto della quantità crescente di progetti di «applicazione degli strumenti informatici alla ricerca storica» 80 e delle loro implicazioni metodologiche, nel 1987-89 vennero pubblicati due volumi dal titolo History and Computing81; queste monografie rientravano sotto l’egida dell’Association for History and Computing (AHC), fondata nel 1985, che diffonde dal 1989 un suo periodico, History & Computing82. Riprendendo il modello di periodizzazione proposto da Claudia Favero, questa prima fase di riflessioni sul rapporto tra discipline storiche e informatiche si può far concludere con il convegno dell’AHC svoltosi a Bologna nel 1992; in quella occasione il Web, che pure era una realtà già avviata da un paio di anni non fu al centro delle riflessioni degli storici, come invece avvenne dall’anno successivo, con la comparsa del browser Mosaic 83. Come ricorda Lynn Nelson, da quando cominciò ad essere alla portata di tutti la pubblicazione e la fruizione di contenuti, il Web venne riempito di materiali, direttamente o indirettamente utili alla ricerca: «centinaia di liste di discussioni, migliaia di libri, poesie, opere teatrali e saggi; centinaia di migliaia di documenti, bollettini, elenchi, cataloghi, mappe, illustrazioni e materiale del genere», che vennero poi raccolte nel progetto WWW Virtual Library84. Questa sorta di «archivio globale» 85 e infinito propose agli storici nuove possibilità conoscitive (come la scrittura ipertestuale, l’accesso immediato 78 Cfr. R. MINUTI, Internet e il mestiere di storico. Riflessioni sulle incertezze di una mutazione, in «Cromhos», 6 (2001), <http://www.fupress.net/index.php/cromohs/article/view/15778>, pp. 1-75. 79 Cfr. L. H. NELSON, Prima del Web. Gli sviluppi della storia on line, in Linguaggi e siti: la storia online, a cura di S. Noiret, in «Memoria e ricerca», 3 (1999), pp. 115-131. 80 R. ROWLAND, L’informatica e il mestiere dello storico, in «Quaderni Storici», XXVI, 78 (1991), n. 3, pp. 693-720. Cfr. History and Computing 1, ed. by P. DELNEY and D. HOPKIN, Manchester Unicersity Press, Manchester 1987 e History and Computing 2, ed. by P. DELNEY, S. FOGELVIK and C. HARVEY, Manchester Unicersity Press, Manchester 1989. 82 L’ACH fu attiva fino al 2001; nel 1996 venne fondata l’American Association for History and Computing (AACH), che tiene conferenze biennali e pubblica un suo periodico (<https://www.historians.org/about-aha-and-membership/affiliated-societies/american-associationfor-history-and-computing>). 83 Cfr. C. FAVERO, Developing Digital Historians in Italy, cit., pp. 24- 34. Cfr. Storia & multimedia. Atti del settimo congresso internazionale dell’Association for History and Computing, ed. by F. BOCCHI e P. DELNEY, Grafis, Bologna 1994. 81 90 alle informazioni…), ma ripropose antichi problemi, facendone sorgere di nuovi. In primo luogo quello della natura virtuale del documento digitale veniva ulteriormente amplificato dalla possibilità di essere accessibile dovunque e in qualunque momento rendendo quindi difficile la sua esegesi. In secondo luogo, la possibilità offerta dalla rete di pubblicare sia senza intermediari poneva problemi relativi alla validità dei contenuti e abbatteva i confini accademici e faceva entrare definitivamente il concetto di autorità. Nella "società liquida" la letterale esplosione di siti e pagine relative ad argomenti storici, spesso molto controversi (come l’Olocausto o il Risorgimento), era, ed è, difficile da controllare; anche prima della diffusione capillare della rete il processo di moltiplicazione delle voci era evidente, ma come osservava Rosenzweig, ancor di più grazie al Web, «everyone is an historian»86. Inizialmente gli storici intervennero soprattutto per cercare di dare un forma al mare magnum informativo continuamente in crescita; era l’obiettivo di vere e proprie guide all’uso critico della rete come quelle di Trinke e Merriman 87 che si proponevano di fornire un elenco ragionato dei siti web che trattassero argomenti di carattere storico o raccogliessero fonti utili alla ricerca. Il problema di questi repertori non era solo la loro necessaria incompletezza e rapida obsolescenza, ma anche il tentativo impossibile e forse erroneo di costruire una sorta di indice dei contenuti digitali ritenuti attendibili. Accanto a questo tipo di pubblicazioni si affacciava, partendo dai lavori di Rosenzweig e del collega Dan Cohen, una tipologia di studi incentrati sull'analisi del Web come espressione di una storia dal basso, fatta da appassionati, da associazioni culturali o più semplicemente dai cittadini per raccogliere e divulgare le proprie memorie 88. Le possibilità di condivisione che la rete offriva sono state, come mostrato in precedenza, ampliate dal Web 2.0 nelle sue sfaccettate forme collaborative, che naturalmente investivano anche il vasto campo delle discipline storiche, come blog di docenti o storici dilettanti, contenuti multimediali a carattere divulgativo e, soprattutto, Wikipedia. Se gli 84 Cfr. L. H. NELSON, Prima del Web, cit., p. 115. Cfr. WWW-Virtual Library, <http://vlib.org> (oggi non più aggiornato). 85 Internet è «semplicemente il più rivoluzionario magazzino della conoscenza mai costruito nella storia dell’uomo». D. TRINKE – S. MERRIMAN, The History Highway 2000. Guide to Internet Resources, Sharpe, Amonk 2000, p. xiii. 86 Cfr. R. ROSENZWEIG – D. THELEN, The Presence of the Past. Popular Uses of History in American Life Columbia University Press, New York 1998, pp. 177-190. 87 Cfr. D. TRINKE et al., The History Highway. A Guide to Internet Resources, Sharpe, Amonk 1997; ID. – S. MERRIMAN, The History Highway 2000. A Guide to Internet Resources, Sharpe, Amonk 2000; ID., The History Highway. A Guide to Internet Resources, Sharpe, Amonk 2002; ID., The European History Highway. A Guide to Internet Resources, Sharpe, Amonk 2002. 88 Cfr. D. J. COHEN – R. ROSENZWIEG, Digital History. A Guide, cit. 91 storici più tradizionalisti si erano già trovati spaesati di fronte al Web ipertestuale, l’atteggiamento assunto da una parte consistente del mondo accademico riguardo a queste nuove forme di scrittura e comunicazione della storia è stato fino ad oggi per lo più distaccato. 3.2.3 Riflessioni epistemologiche: un nuovo ambito disciplinare? Usare le tecnologie digitali per scrivere testi, reperire le fonti e organizzarle con un computer, ovviamente, non vuol dire essere storici digitali 89; in questo senso Cohen ha distinto tra un atteggiamento di chi usa le tecnologie in maniera raw, cioè solamente fruendo delle possibilità offerte, e chi in maniera cooked, invece si impegna in primo luogo in un’analisi metodologica e in secondo luogo all’arricchimento dei contenuti digitali, per esempio collaborando a progetti di digitalizzazione 90. Uno dei primi e migliori esempi di raccolta e sistemazione di contenuti storici in ambiente web fu Valley of Shadows, un sito, dalla duplice natura scientifica e divulgativa, che raccoglieva immagini, mappe interattive, percorsi guidati, fonti e database inerenti alla Guerra Civile americana91. Il progetto, diretto da due storici dell’Università della Virginia, Edward Ayers e William G. Thomas, è considerato punto di partenza per le riflessioni epistemologiche sulla storia digitale intesa non solo più come propensione all’uso delle tecnologie digitali da parte degli storici ma come una «cornice» entro la quale aggiornare le metodologie di ricerca, un «ponte», per riprendere la metafora di Snow, tra culture molto distanti 92. La digital history occupa quindi spazi rimasti finora vuoti all’interno delle scienze storiche e ci si domanda se essa sia da considerarsi o meno come una disciplina a tutti gli effetti, «non solo un modo per strutturare la descrizione della realtà, ma anche un mestiere, un insieme di procedure consolidate atte a garantire un discorso coerente» 93. 89 Cfr. History in the Digital Age, ed. by T. WELLER, Routledge, London – New York 2013, pp. 3-4. 90 D. J. COHEN, History and the Second Decade of the Web, in «Rethinking History», 8 (2004), n. 2, doi: 10.1080/13642520410001683950, pp. 293-301; sulla distinzione tra crudo e cotto, ripresa da LeviStrauss cfr. supra § 1.1.1. 91 Il sito non è più aggiornato ma ancora consultabile all’indirizzo <http://valley.lib.virginia.edu>. 92 Cfr. C. L. RILEY, Beyond ctrl-v, ctrl-c, in History in the Digital Age, cit., p. 166. 93 B. LEPETIT, L’histoire quantitative. Deux ou troi choses que je sai d’elle , in «Histoire & mesure», (IV 1989), n. 3-4, pp. 191-199. Cfr. F. HEIMBURGER – É. RUIZ, Has the Historian’s Craft Gone Digital? Some Observations from France, in «Diacronie» 10 (2012), n. 2, <http://www.studistorici.com/2012/06/29/heimburger-ruiz_numero_10 >, p. 2. 92 Come cambia – quindi – il mestiere di storico nel contesto di democratizzazione della conoscenza94? Il dibattito storiografico, partendo dal presupposto che l’uso di pratiche informatiche sia gravido di implicazioni a carattere epistemologico, ruota intorno a due approcci, uno teorico, un altro più pragmatico. Una definizione generale, all’interno della quale vanno ricercate le diverse sfaccettature, può essere quella data da Giancarlo Monina: la storia digitale è «tutto il complesso universo di produzioni e scambi sociali aventi come oggetto la conoscenza storica, trasferito e/o direttamente generato e sperimentato in ambienti digitali (ricerca, organizzazione, relazioni, diffusione, uso pubblico e privato, fonti, libri, didattica, performance e via dicendo)» 95. Cohen traccia un quadro ancor più generico definendo la digital history come «l’insieme delle teorie e delle pratiche tecnologiche per sostenere l’abbondanza [di risorse] con le quali ci confrontiamo». «Qualunque cosa – insomma – (metodologie di ricerca, articolo di una rivista, monografia, blog, esercitazione) che usi le tecnologie digitali nella creazione, distribuzione o miglioramento delle ricerche storiche»96, un framework all’interno del quale il passato si possa analizzare, rappresentare e comunicare 97. In questa prospettiva la digital history «tratta di un approfondito uso delle risorse digitali non solo per accedere alle fonti e alla letteratura, ma anche per produrre contenuti di rete e preservarli nel tempo»98. Letture più stringenti tendono a immaginare una riduzione degli spazi di manovra della ricerca storica all’interno dell’informatica99, considerando gli aspetti pratici della storia digitale come «lo studio del passato usando una varietà di fonti primarie riprodotte elettronicamente (testi, immagini e artefatti) e, allo stesso tempo, la narrazione, i resoconti o le presentazioni che emergono dalle ricerche storiche» 100; ci si è quindi chiesto in che modo questa nuova «cassetta degli attrezzi» cambi la natura del lavoro 94 È la domanda che si pone Michael Frisch, in D. J. COHEN et al, Interchange. The Promise of Digital History, in «The Journal of American History», 95 (2008), n. 2, doi: 10.2307/25095630, p. 458. 95 G. MONINA, Storia digitale. Il dibattito storiografico in Italia, in «Memoria e ricerca», 43 (2013), doi:10.3280/MER2013-043012, p. 186. 96 D. J. COHEN et al, Interchange, p. 458. 97 È la prospettiva di Thomas III, cfr. Ivi, p. 454. 98 S. NOIRET, Storia Digitale. sulle risorse di rete per gli storici (pre-print), in La Macchina del Tempo. Studi di informatica umanistica in onore di Tito Orlandi, a cura di D. FIORMONTE e L. PERILLI, Le lettere, Firenze, 2011 <http://cadmus.eui.eu//handle/1814/23995>, p. 180. 99 Cfr. O. V. BURTON, American Digital History, in «Social Science Computer Review», 23 (2005), n. 2, <https://doi.org/10.1177/0894439304273317>, pp. 206-220. 100 B. CALANDRA – J. LEE, The Digital History and Pedagogy Project. Creating an Interpretative / Pedagogical Historical Website, in «Internet and Higher Education», 8 (2005), doi: 10.1016/j.iheduc.2005.09.007, p. 323; citato in C. FAVERO, Developing Digital Historians in Italy, cit., p. 19. 93 degli storici101. Una risposta l’ha provata a dare Noiret, individuando quattro tipi di attività alla base del mestiere di storico che sono state trasformate dal digitale: a) la comunicazione, migliorata a partire dai gruppi di discussione su Usenet fino ad arrivare alle piattaforme collaborative 2.0; b) le nuove forme di narrazione in cui coabitano tecnologie multimediali differenti (dalla digitalizzazione dei testi in formato PDF, alla scrittura wiki, ai podcast, eccetera); c) l’uso di software che consentono il lavoro di gruppo in tempo reale e interattivo sincronico o asincronico (come Google Docs), trasformando quindi la natura tradizionalmente solitaria della ricerca storica; d) l’accesso alle fonti primarie che, native digitali e non, si possono trovare in rete 102. Su questa falsa riga si può qui proporre integralmente una sintesi delle molteplici posizioni brevemente delineate, quella proposta da Jason Heppler: L’avvento delle tecnologie digitali sta modificando e stimolando le modalità in cui gli storici praticano il loro mestiere. I modi attraverso i quali reperire, organizzare e presentare le informazioni sono cambiati rapidamente negli ultimi vent’anni. La storia digitale è molte cose: una metodologia che si affianca alla pratica tradizionale degli storici attraverso l’uso delle applicazioni digitali, l’acquisizione di informazioni che non può essere fatta con carta e penna, che consente di cimentarsi in nuovi percorsi narrativi e raggiungere un pubblico più ampio. L’obiettivo non è una sorta di cliometria 2.0 o dimostrare teorie delle scienze sociali, ma quello di rispettare l’interesse dello storico per la complessità sfumandolo con l’uso di tecnologie digitali103. Lasciando a margine di quest’analisi periodizzazioni troppo restrittive 104 è indubbiamente utile rilevare come gli sviluppi più recenti del dibattito storiografico affrontino il tema della storia digitale nell’ambito del Web 2.0 105. Rimarcando le numerose possibilità di condivisione delle informazioni e di collaborazione nella ricerca e nella pubblicazione, alcuni studiosi si sono concentrati sulle possibilità partecipative che 101 Cfr. D. J. COHEN et al., Interchange, p. 458. 102 S. NOIRET, Storia contemporanea digitale, in Il web e gli studi storici. Guida critica all’uso della rete, a cura di R. MINUTI, Carocci, Roma 2015, pp. 269-271. 103 J. HEPPLER, Defining Digital Humanities, in jason heppler, 8 gennaio 2013 [blog post], <http://jasonheppler.org/2013/01/08/defining-digital-humanities>. 104 Cfr. supra § 2.2.2. 105 Cfr. S. NOIRET, Digital Histry 2.0, in L’histoire contemporaine à l’ère numérique, dirigé par F. CLAVERT et S. NOIRET, Peter Lang, Bruxelles 2013, <https://www.academia.edu/4558748/Digital_History_2.0_in_Clavert_Fr%C3%A9d %C3%A9ric_and_Noiret_Serge_dir._eds._Lhistoire_contemporaine_%C3%A0_l%C3%A8re_num %C3%A9rique__Contemporary_History_in_the_Digital_Age_Bruxelles_Bern_Berlin_Frankfurt_am_Main_New _York_Oxford_Wien_Peter_Lang_2013_pp._155-190>, pp. 155-191. 94 la rete offre (crowdsourcing). Il Web, come avrebbe detto McLuhan, è un medium caldo 106 nel quale è molto semplice per chiunque pubblicare contenuti e, soprattutto, dotarli automaticamente di un certo grado di oggettività che invece gli altri mezzi di comunicazione di massa hanno progressivamente perduto. È forse questa una delle ragioni per le quali in rete è così elevata la circolazione di false informazioni a carattere storico veicolate, all’inizio, da siti internet creati da gruppi di storici dilettanti e oggi dai social network, spesso, purtroppo, con evidenti intenti mistificatori 107. Esempi positivi di creazione di piattaforme condivise per la divulgazione, di cui si renderà conto successivamente, in cui le persone possano partecipare condividendo propri ricordi, oggetti, documenti108, esistono e riguardano soprattutto eventi storici che hanno toccato l’opinione pubblica o che hanno una grande rilevanza nel contesto attuale. Entrambi gli approcci sono esemplificativi di una «presenza esuberante di passato in rete [che] risponde, con la mediazione digitale, a un profondo bisogno di riallacciare le memorie individuali, familiari, collettive e comunitarie al passato locale, regionale e nazionale nelle nostre società globalizzate» 109, in cui spesso è messa in discussione l’autorevolezza dello storico di professione110. Nonostante non manchino i critici, i quali, come Philippe Joutard, derubricano «le forme spontanee di narrazione del passato in rete [come] forme memoriali che nulla [hanno] a che vedere con l’epistemologia della storia» 111, la raccolta e pubblicazione di fonti di varia natura e di provenienza non istituzionalizzata è valorizzato nell’ambito della storia contemporanea dalla Public History. Si tratta di una tendenza storiografica nata alla fine degli anni Settanta, in concomitanza con i primi lavori di microstoria e di storia orale, che «si riferisce all’impiego di storici e metodologie storiche fuori dai circuiti accademici: nel governo, nelle aziende private, nei 106 Cfr. M. McLUHAN, Gli strumenti del comunicare, cit. 107 È facile per esempio su Facebook imbattersi in pagine che rievocano i presunti fasti del ventennio fascista o che denunciano la deportazione dei soldati borbonici nel forte sabaudo di Fenestrelle. L’aspetto inquietante è che non esiste una politica dell’azienda che provveda ad oscurare quei contenuti come altri creati a scopo diffamatorio. 108 Come il September 11 Digital Archive, <http://911digitalarchive.org>. 109 S. NOIRET, Storia pubblica digitale, in «Zapruder. Storie in movimento», 36 (2015), <http://storieinmovimento.org/wp-content/uploads/2016/02/Zap36_2-Zoom1.pdf>, p. 17. Cfr. Digital. Personal Collections in The Digital Era, ed. by C. A. LEE, Society of American Archivists, 2011. 110 La ridefinizione del concetto di auctoritas è, come si è visto, una delle caratteristiche peculiari dell’ipertesto che, come ricordava Gorge Landow permette al lettore «in virtù della destrutturazione dell’edificio testuale e del movimento interno attraverso i link [di costruire] sistematicamente il proprio testo e partecipa in maniera diretta alla sua definizione». R. MINUTI, Internet e il mestiere di storico cit., §57; cfr. G. P. LANDOW, L’ipertesto, cit. 111 P. JOUTARD, Révolution numérique et rapport au passé, in «Le Débat», 177 (2013), pp. 145-152; citato in S. NOIRET, Storia pubblica digitale, cit., p. 16. 95 media, nelle società storiche e nei musei» 112. In questa prospettiva il Web è uno degli ambienti più fecondi in cui è possibile fare un uso pubblico della storia, ma per inquadrare questa magmatica varietà è necessario un approccio ibrido, quello proposto dalla Digital Public History, che si ponga come intermediario tra il pubblico e i luoghi di produzione della conoscenza storica, filtrando i contenuti che provengono dal Web e studiando forme interattive di comunicazione della ricerca113. Se si prova a ricondurre la storia digitale al suo contesto di appartenenza, cioè a quello delle Digital Humanities, la creazione di un nuovo ambito disciplinare può apparire eccessiva. Il dibattito interno alle discipline storiche, come si è visto, è stato molto più lento, se si pensa che ancora nel 2001 Rolando Minuti così scriveva: «[alcuni storici] si rifugiano, accettano la presenza [dell’informatica] come fenomeno da tollerare, ignorandone o fingendo di ignorare la ricaduta fortissima sul piano della cultura e dell’identità civile collettiva, per continuare a coltivare forme tranquillizzanti, accademiche e sostanzialmente aristocratiche di sapere»114. Oggi, come evidenziato da alcune ricerche di natura sociologica115, la situazione, almeno per quanto concerne l’Europa appare, seppur con alcuni passi in avanti, immutata: nel nostro paese non esistono corsi di laurea o programmi di dottorato in storia digitale (vi sono solo due master in Public History), ma nemmeno una sistemazione stabile per i docenti che si occupano di informatica umanistica, per usare l’espressione italiana, di cui esiste un solo corso di laurea magistrale all’università di Pisa (fig. 33) Uno degli aspetti più critici del sistema è quello di offrire nel nostro paese pochi corsi universitari volti ad affrontare il tema dell’esegesi dei documenti e delle risorse reperibili in rete; non si considera che l’accesso alle informazioni avviene quasi esclusivamente, anche a livelli di studi più avanzati, per mezzo dei motori di ricerca, che, sostanzialmente, "ciò che non è nel Web non esiste"116 e che non è affatto scontato che chi usa gli strumenti digitali quotidianamente sia in grado di avvalersene con consapevolezza nel fare ricerca 117. 112 “The History Manifesto”. A Discussion, introduction by S. NOIRET, with contributions by E. ARNESENIN, R. DELAFONTAINE, Q. VERREYCLEN, in «Memoria e Ricerca», 1 (2016), doi:10.14647/83225, pp. 97-126. 113 S. NOIRET, Storia pubblica digitale, cit. 114 R. MINUTI, Internet e il mestiere di storico cit., §7. 115 C. FAVERO, Storici digitali in Italia. Riflessioni ed esperienze, in «Memoria e Ricerca», 47 (2014), pp. 193-2014. 116 Cfr. S. NOIRET, Storia Digitale, cit., pp. 206 e segg. 117 Cfr. R. MINUTI, Insegnare storia al tempo del web 2.0. considerazioni su esperienze e problemi aperti , in Les historiens et l’informatique, cit., doi: 10.1400/171919, pp. 109-23 e T. M. KELLY, Teaching History in the Digital Age, University of Michigan Press, Ann Arbor 2013. 96 Solo una riflessione allargata consentirebbe agli storici che oggi «si servono del digitale», come tutti, di divenire attori consapevoli, «storici digitali», capaci cioè di proporre alle nuove generazioni una formazione in informatica umanistica applicata alla storia in grado di stare al passo coi tempi 118. La posizione sostenuta da Claire Lemercier, incentrata sull’inutilità della strutturazione della storia digitale come disciplina a sé stante fondata sull’idea che fare storia oggi voglia dire necessariamente usare strumenti tecnologici 119, appare corretta, ma, d’altra parte, la necessità di distinzione disciplinare può essere valida per proporre all’attenzione dei circuiti del dibattito accademico più tradizionale il problema dei rapporti tra storia e informatica 120, valorizzando un approccio critico, ma non pregiudizialmente contrario alle tecnologie digitali. 3.2.4 Per una critica delle fonti digitali La società dell’informazione produce, come visto, una quantità di risorse digitali superiore alla capacità umana di gestirle; nel complesso non tutte vengono sfruttate e ancor meno sono quelle che hanno direttamente o indirettamente un valore culturale. Nonostante queste considerazioni il rumore informativo che caratterizza il Web, il luogo virtuale in cui le informazioni vengono conservate, diffuse e dunque "lavorate", il medium che fagocita tutti gli altri sistemi di comunicazione tradizionali, è assordante 121. Anche solo usando la rete come strumento per le ricerche in ambito umanistico si rimane spaesati di fronte alla varietà delle risorse che si possono reperire: dal catalogo di una biblioteca, alla riproduzione di un’opera d’arte, da una pubblicazione accademica ad una banca dati specialistica. Come ha scritto Rosenzweig, il presente è caratterizzato dall’abbondanza di risorse, ma ci si sta adoperando perché il futuro non sia invece costellato dalla scarsità di informazioni sulla nostra epoca e su quelle precedenti 122? Come viene conservata l’eredità culturale e quali meccanismi sono adottati per lasciare ai posteri una traccia delle risorse native digitali e digitalizzate? Se si prende un preciso evento storico, come la recente campagna elettorale negli Stati Uniti d’America, come sarà 118 Cfr. S. NOIRET, Informatica, storia e storiografia. La storia si fa digitale, in «Memoria e Ricerca», 28 (2008). 119 Cfr. E. GRANDI – É. RUIZ, Ce que le numérique fait à l’historien.ne. Entretien avec Claire Lemercier, in «Diacronie. Studi di Storia Contemporanea», 10 (2012), n. 2, <http://www.studistorici.com/2012/06/29/grandi_numero_10>, pp. 2-16. 120 Almeno per quanto riguarda il panorama italiano nessuna delle riviste più prestigiose affronta il tema, che è invece oggetto di un fervido dibattito in «Memoria e Ricerca», «Reti medievali», «Diacronie» e «Historia Magistra». 121 Cfr. supra § 2.2.4. 122 Cfr. R. ROSENZWEIG, Scarcity or Abundance?, cit. 97 possibile, per gli storici che tra cento anni lo vorranno, ricostruire il successo di Donald Trump usando come fonte primaria i suoi tweet? Le fonti sono il «pane quotidiano dello storico» 123, la base del metodo critico, grazie al quale esse vengono relazionate le une alle altre per costruire, con ragionevole certezza, un avvenimento o contestualizzare un problema. Come scriveva Edward Carr, una fonte, un fatto non sono tali senza un intermediario, uno storico, che abbia l’abilità di «farli parlare» e quindi non tutte le testimonianze del passato sono fonti, ma solo quelle che vengono coerentemente inserite in un’argomentazione la quale deve contenere al suo interno gli opportuni riferimenti per essere verificata o confutata: gli storici sono deontologicamente obbligati all’onere della prova124. I documenti citati devono essere stabili, cioè non devono mutare nel tempo, come sosteneva Minuti: perché [il] procedere del lavoro storiografico mantenga i caratteri propri della verificabilità, dell’eventuale contestabilità ed in ultima analisi della scientificità propria ed originale del sapere storico, occorre che i documenti e le testimonianze che costituiscono la base del suo operare risultino identificabili, stabili e inalterabili, e come tali suscettibili di analisi, di critica e di interpretazione125. Il digitale ha spiazzato questo tipo di critica delle fonti dal momento che ogni contenuto, privato della sua dimensione materiale, viene visualizzato tramite una macchina: ogni accesso è quindi un "atto performativo", che termina nel momento in cui viene spento il dispositivo126. Rimanendo in termini generici gli oggetti digitali sono risorse di varia natura, ma non necessariamente fonti, anche se questa distinzione si elimina con la parola source che in francese e in inglese conserva la sua duplice valenza. Allo stesso modo dare alle risorse digitali valore documentario è problematico, dal momento che la stessa definizione di documento può essere molto ampia; tutto può essere documento e quindi il valore dipende dall’interpretazione che gli studiosi danno degli oggetti 127. Le risorse digitali sono, come intuì Genet, metafonti, ossia fonti che subiscono la mediazione dello 123 P. BERTRAND – C. JACOBS, Digital humanites et critique historique documentaire. Digital ou critical turn?, in Les historiens et l’informatique, cit., doi: 0.1400/171921, p. 125. 124 Cfr. E. H. CARR, Sei lezioni sulla storia, seconda edizione a cura di R. V. DAVIS, Einaudi Torino 20oo (ed. or. 1961), in particolare il § 1 Lo storico e i fatti storici e V. FERRONE, Lezioni illuministiche, cit., parte seconda §1 e 2. Per ulteriori spunti di riflessione epistemologici si rimanda a K. HERING, Provenance Meets Source Criticism, in «Journal of Digital Humanities», 3 (2014), n. 2, <http://journalofdigitalhumanities.org/3-2/provenance-meets-source-criticism>, pp. 60-73. 125 R. MINUTI, Internet e il mestiere di storico cit., § 36. 126 Cfr. A. BURDICK et. al., Umanistica_Digitale, pp. 50-51. 127 Cfr. S. VITALI, Passato digitale, cit., p. 80; si veda anche A. SALARELLI – A. M. TAMMARO, La biblioteca digitale, Editrice bibliografica, Milano 2006² (prima ed. 2000), pp. 17-20. 98 strumento tecnologico da cui non sono separabili 128; ad esempio, un documento scritto con un word processor su un floppy disk oggi è, a distanza di vent’anni, difficilmente consultabile perché il progresso tecnologico ha sostituito quella tecnologia. È più difficile quindi per lo storico ricondurre le proprie fonti digitali al loro contesto di produzione esercitando «le procedure esegetiche che hanno caratterizzato il rapporto con il documento a partire dall’umanesimo» 129. Procedimento ancor più complicato se si cerca di attuarlo sui dati, cioè sul risultato della trasformazione che investe il documento analogico non solo nella sua forma (per esempio la copia digitale di una pagina di libro), ma anche nelle sua natura (la codifica testuale tramite Optical Character Recognition delle parole); questo processo, serializzato su milioni di pagine, fa perdere il contesto originale dal quale il dato è estrapolato (la ricerca di una specifica parola o l’inserimento in un database). Usare risorse digitali comporta una serie di problemi. In primo luogo la loro virtualità, cioè la codifica di un insieme di informazioni in codice binario, lega indissolubilmente il documento al suo supporto che non è solo fisico, come nel caso della carta, ma anche a sua volta immateriale: «la natura del documento digitale, quel connotato virtuale proprio di oggetti che perdono la loro fisicità e si traducono in tracce magnetiche costituite, alla radice, da lunghe stringhe di 0 e 1, è quanto pone direttamente problemi ad una loro utilizzazione diretta da parte degli storici»130. Si pone quindi il problema di preservare in qualche modo l’obsolescenza cui sono sottoposte le risorse digitali, slegandole dal loro hardware e dal loro software. Questo problema vale anche per gli oggetti analogici (come le VHS), che, al pari di un programma scritto per Apple II, devono subire processi di migrazione (trasformazione di formato) o di emulazione (cioè scrivere un programma che interpreti il codice originario). Sia i documenti digitali nativi che quelli digitalizzati, dunque sono estremamente fragili e quando vengono prodotti direttamente per il Web acquisiscono un grado ancora maggiore di indeterminatezza perché legati ad un medium in costante cambiamento: ad esempio, è il caso di documenti digitalizzati verso la metà degli anni Novanta, che oggi o non sono più reperibili oppure non visualizzabili perché le applicazioni web per le quali sono stati pensati non funzionano più coi recenti browser 131. Allo stato attuale è anche difficile usare un sito Web come fonte storica perché nella 128 129 130 131 J.-P. GENET, Source, metasources, texte, histoire, in Storia & multimedia, cit., pp. 3-17. R. MINUTI, Internet e il mestiere di storico cit., § 36. Ivi., § 37. Cfr. infra § 3.3.2. Per una sintesi sulle problematiche relative alla digitalizzazione del patrimonio culturale si veda M. TERRAS, Digitization and Digital Resources in the Humanities, in Digital Humanities in Practice, ed. by M. TERRAS, J. NYHAN and C. WARWICK, Facet Publishing - UCL Centre for Digital Humanities, London 2012, pp. 47-71. 99 maggior parte dei casi anche quelli costruiti una decina di anni fa non sono più reperibili non solo nei contenuti, ma anche nella struttura grafica (è il caso per esempio di un quotidiano online). Per cercare di dare una soluzione a questo problema il sito Internet Archive conserva, tra i numerosi documenti disponibili (libri, immagini, audio, film, software, videogiochi, ecc.), anche delle copie statiche dei maggiori siti web, dal 1996 ad oggi, in modo da garantire quantomeno la visualizzazione dei contenuti; quello che però sarà impossibile riprodurre è la natura ipertestuale dei collegamenti, dal momento che il Web, a differenza del progetto proposto da Ted Nelson, non prevede una visualizzazione retroattiva delle modifiche subite da uno stesso arco ipertestuale 132. Il secondo ordine di problemi posto dall’uso dei documenti digitali riguarda la loro contestualizzazione. Come hanno rilevato Tommaso Detti e Giuseppe Lauricella, «l’incorporietà dei documenti digitali può facilmente determinare la perdita di molte delle loro informazioni accessorie – i metadati –, in particolare delle coordinate spazio temporali»133, mettendo in crisi il concetto di autenticità. Non solo le riproduzioni digitali spezzano, così come avviene in parte con la stampa, la catena del rapporto originale/copia, ma è possibile per chiunque stravolgerle; i documenti digitali possono essere facilmente modificati o mistificati e diventare così completamente slegati dal loro contesto originario e dal loro autore (per esempio un ritocco fotografico, o un’azione di copia/incolla su un documento di testo). Questi problemi vengono amplificati dal Web, che appiattisce completamente la dimensione spazio-temporale in quanto ogni risorsa è fruibile in dovunque e in qualunque momento; anzi il flusso informativo che permette l’accesso al documento viene, come visto, scomposto in molteplici pacchetti che poi vengono visualizzati dal browser. Non solo quindi si perde la natura fisica del documento, ma anche la sua rappresentazione, conservata in qualche tipo di server, subisce un ulteriore processo di rimediazione (teoria dei gradi di separazione) 134. 3.2.5 Conservazione e accesso delle risorse digitali Già dagli albori del Web emerse quindi il problema della conservazione stabile delle risorse digitali, in particolare di quelle con un alto valore culturale. Le biblioteche 132 Internet Archive – Wayback Machine, <https://archive.org/web>; tra le altre organizzazioni che si occupano di conservare una porzione del Web si segnalano l’IIPC (International Internet Preservation Consortium, <http://www.netpreserve.org>) e l’IMF (Internet Memory Foundation <http://internetmemory.org/en/>). 133 T. DETTI – G. LAURICELLA, Una storia piatta? Il digitale, internet e il mestiere e di storico, Contemporanea, 10 (2007), n. 1, <http://www.jstor.org/stable/24653055>, p. 8. 134 Cfr. Ivi, p. 15. 100 digitali, il cui elenco sarebbe qui sostanzialmente inutile, si sono da subito proposte il duplice obiettivo di consentire a tutti l’accesso alla riproduzione dei materiali fisici e la loro conservazione a lungo termine sul Web. Una delle soluzioni adottate, come si è visto, è stato lo sviluppo, ancora in corso, delle tecnologie semantiche che si propongono di garantire da un lato una razionalizzazione dell’informazione, riducendo il grado di serendipità che caratterizza il Web, e dall’altro il reperimento preciso delle risorse e delle informazioni ad esse collegate. Oltre a progetti avviati dalle grandi istituzioni nazionali come le biblioteche centrali o transnazionali, come il sito Europeana, il processo di digitalizzazione dell’eredità culturale che ha riguardato molti soggetti, pubblici e privati, e ha coinciso spesso con la volontà di affermare o consolidare un’identità di gruppo; a livello europeo, ad esempio, molti fondi sono stati spesi dalle Repubbliche Baltiche per la digitalizzazione del loro patrimonio museale e documentario, contribuendo all’affermazione di un’identità nazionale autonoma dalla Russia e che guardasse al processo di inserimento nell’Unione Europea. Accanto alle iniziative pubbliche si sono affiancate quelle dei grandi colossi del Web, come Google, che nel 2004 avviava il progetto Books e Amazon, che dal 1999 ha acquisito Internet Archive tramite la società Alexa, che hanno collaborato con le istituzioni bibliotecarie per rendere fruibile i loro materiali in rete135. Internet Archive, che a differenza di Google adotta uno spirito di crowdsourcing, ha creato un progetto sinergico con la piattaforma Wikisource 136. Gli utenti o le istituzioni possono caricare su Internet Archive le scansioni dei propri documenti137; una volta acquisito il documento viene scansionato e i caratteri del testo riconosciuti e successivamente condiviso su Wikisource dove, a questo punto è possibile fruire sia della riproduzione delle pagine del libro sia della loro trascrizione. Gli utilizzatori della piattaforma possono, quindi, editare con precisione il testo usando un’applicazione intuitiva che sfrutta il linguaggio wiki, sottoporlo a controllo degli altri wikipediani (la piattaforma è comune con Wikipedia) e infine rilasciare un documento validato molto simile ad uno editato usando TEI. In questo caso l’approccio sinergico tra i tanti sostenitori della filosofia dell’accesso libero alle conoscenze (discendente dalla filosofia del Project Gutenberg), tra gli attori classici della conservazione dell’eredità culturale (biblioteche, archivi e musei) e le web enterprises, che spesso hanno mezzi tecnici non paragonabili a quelli delle istituzioni pubbliche (i cui sforzi sono stati spesso frammentari, come purtroppo in Italia), produce un efficace strumento di condivisione del sapere. 135 Google Libri – biblioteche partner, <https://books.google.it/intl/it/googlebooks/partners.html>. 136 Wikisource, <https://it.wikisource.org/wiki/Pagina_principale>. 137 Per esempio esiste una sezione dedicata ai libri antichi digitalizzati della biblioteca Arturo Graf dell’Università di Torino, <https://archive.org/details/opallibriantichi>. 101 Un’altro servizio di Internet Archive, non ancora attivo, è quello di conservare, su specifica richiesta di Twitter, tutti i "cinguettii" degli utenti pubblici a partire dal 2010 138; questo consegna in mani private una mole di informazioni utilissima per gli studiosi, che può essere analizzata per valutare ad esempio il ruolo giocato dall’opinione pubblica in un determinato arco di tempo (sentiment analysi). Ma sia Google che Amazon sono soggetti privati che potrebbero nel futuro, legittimamente, non garantire più l’accesso alle loro informazioni di carattere culturale, limitando le possibilità di ricerca. «Can History be Open Source?»139 si chiedeva, una decina di anni fa, Rosenzweig, stimolando gli storici ad un uso consapevole e attivo di Wikipiedia, già allora uno fra gli strumenti principali per l’accesso alla conoscenza; era chiaro che gli schemi di pubblicazione tradizionali non potevano più reggere in un contesto come quello del Web, dove i tempi di pubblicazione diventano molto più rapidi. Tralasciando i problemi legali e quelli professionali (ad esempio la validità maggiore di un articolo pubblicato su una rivista accademica rispetto ad uno pubblicato in rete), molti studiosi, per fortuna, oggi pubblicano in piattaforme open access; l’obiettivo è quello di offrire un accesso gratuito alla conoscenza, direttamente sul Web, al fine di integrare e in una certa misura contrastare l’uso esclusivo dei motori di ricerca e delle enciclopedie online per la ricerca 140. Nell’ambito della comunità storica il precursore di questo approccio, oggi sempre più diffuso, fu Darnton che, da direttore delle biblioteche di Harvard, impose a tutti i ricercatori di conservare una copia pre-print delle loro pubblicazioni, questo per evitare il paradosso di dover pagare per consultare online i lavori fatti dagli studiosi di una stessa università 141. L’approccio open si propone di ridurre il digital divide, ovvero di dare a tutti il medesimo accesso ai contenuti in rete; piattaforme private come Historical Abstracts142 utilissime alla ricerca perché indicizzano milioni di contenuti, rendendola più veloce, non sono gratuite 138 Cfr. J. STERFELD, Historical Understanding in the Quantum Age, in «Journal of Digital Humanities», 3 (2014), n. 2, <http://journalofdigitalhumanities.org/3-2/historical-understanding-inthe-quantum-age>, pp. 47-56; anche la Library of Congress ha parallelamente iniziato la conservazione dei tweet. 139 R. ROSENZWEIG, Can History Be Open Source? Wikipedia and the Future of the Past, in «The Journal of American History», 93 (2006), n. 1, doi: 10.2307/4486062, pp. 117–46. 140 Ad esempio il portale francese HAL. Archive ouverte en Sciences de l'Homme et de la Société (<https://halshs.archives-ouvertes.fr>), si propone di conservare articoli accademici con licenza open source (spesso si tratta di versioni preprint di pubblicazioni a stampa). 141 Tra le molte iniziative nel campo dell’open access si segnala quella dell’Università di Torino che dal 2013 ha inaugurato un portale per reperire informazioni bibliografiche e contenuti digitali, fare text mining e favorire la creazione di piattaforme accademiche collaborative; cfr. <http://www.oa.unito.it>. 142 EBSCO - Historical Abstracts, <https://www.ebscohost.com/academic/historical-abstracts>. 102 e quindi si crea un gap tra le Università che possono permettersi l’accesso a determinate risorse e quelle che non possono farlo143. 3.2.6 Distant reading e ricerca storica Qualunque sia la natura delle piattaforme digitali da cui si estrapolano risorse da inserire in un’argomentazione è necessario chiedersi come e perché quei contenuti siano resi disponibili; se è immediatamente chiaro lo scopo dei luoghi fisici di conservazione della conoscenza, come gli archivi, nei quali il rapporto tra l’oggetto e l’istituzione che lo conserva, in ambito digitale non è così. Occorre dunque svolgere ricerca in maniera consapevole, contestualizzando la risorsa o il dato: anche la sola operazione di descrivere i dati in un database, ha bisogno di una sua esegesi, perché modificare i parametri può evidenziare un aspetto piuttosto che un altro 144. Come si è visto, aggregare una grande massa di dati significa aprire la strada a nuove forme conoscitive che possono andare da una visualizzazione generale a una lettura molto particolareggiata; attualmente, data la grande disponibilità di dati in rete, anche solo quelli attinenti all’ambito storico (per esempio quelli di Google Books o di una biblioteca digitale, come Europeana) consente, se accessibili o debitamente espressi in maniera semantica attraverso delle applicazioni web. È il caso di Google Ngram Viewer che permette di ricercare l’occorrenza di uno o più termini all’interno del database di Google Books. Il risultato può dare una tendenza della ricorrenza di determinate parole all’interno dei libri digitalizzati, pubblicati in un certo periodo di tempo; negli esempi si riportano i risultati della ricerca dei termini "Marc Bloch","Fernand Braudel" e "Lucien Febvre" nel database di Google limitato alla lingua italiana (fig 35). La visualizzazione dei dati si estende a qualunque dominio di ricerca ed è uno degli aspetti più studiati nel campo delle scienze statistiche; i gruppi di lavoro che analizzano i big data, composti anche da umanisti e designer, si occupano di costruire programmi informatici che estraggano automaticamente le informazioni e le processino sotto forma grafica145. 143 Sul tema del digital divide. Cfr. D. BOYD, K. CRAWFORD, Six Provocations for Big Data, 2011 [paper presentato al seminario A Decade in Internet Time: Symposium on the Dynamics of the Internet and Society], <https://papers.ssrn.com/sol3/papers2.cfm?abstract_id=1926431>. 144 Cfr. A. M. BADANELLI – G. OSSENBACH, Making History in the Digital Age. New Froms of Access to the Sources and of Preservation of the Historical-Educational Heritage, in «History of education & Children’s Literature», 1 (2010), pp. 79–91. 145 Un indirizzo di ricerca piuttosto recente è quello di usare i big data ai fini della ricerca storica in particolare nell’ambito della Global History. Come testi introduttivi si segnalano: S. GRAHAM – I. MILLIGAN – S. WEINGART, Exploring Big Historical Data. The Historian’s Macroscope, Imperial College Press, Hackensack 2015; J GULDI – D. ARMITAGE, The History Manifesto, Cambridge 103 Questo processo è un’ulteriore forma di mediazione che insiste sull’oggetto materiale: non solo il libro, per esempio, viene digitalizzato e reso in forma machine readable, ma il suo contenuto, completamente estraniato dal contesto è rimodellato e relazionato con altri in modo da dare una visione d’insieme. È la distant reading di cui parla Franco Moretti, l’approccio che restituisce uno sguardo complessivo partendo da un insieme di fonti, contrapposto alla close reading, cioè la lettura circostanziata del documento che è il metodo classico dell’indagine storica146. Ovviamente non si tratta di nulla di nuovo. Da sempre le ricerche storiche producono visualizzazioni grafiche, e immaginano tendenze, basti pensare alle ricerche della storia quantitativa, o più semplicemente agli atlanti storici (fig. 34); la peculiarità dei metodi attuali risiede nella grande disponibilità di dati e nella relativa facilità con la quale si possono compiere operazioni semplici, rendendo quindi possibile usare abbastanza agevolmente i big data all’interno di lavori storiografici. Per non incorrere nel problema della datificazione, ossia quello di "far parlare da sé" i dati riducendo la complessità dei problemi, gli storici che si approcciano a questo tipo di analisi alternano la lettura distante a quella ravvicinata 147; Frederic Clavert sostiene quindi la necessità di affiancare alla lettura «humaine» una «numérique» delle fonti148. Anche per questo motivo molti studiosi sottolineano la necessità di rispondere all’esortazione di Bloch, cioè in senso lato, quella di non demandare ad archivisti e bibliotecari lo studio di tecniche per la conservazione dei documenti nel digitale, per l’analisi dei dati e per la pubblicazione stabile e gratuita delle ricerche. La frattura all’interno delle discipline storiche, che si data dagli anni ‘30 del Novecento, con l’uscita degli archivisti dalla American Historical Association149, dovrebbe essere ricomposta, 146 147 148 149 University Press, Cambridge 2014, <http://historymanifesto.cambridge.org>, § 4; J. van EIJNATTEN – T. PIETERS – J. VERHEUL, Big Data for Global History. The Transformative Promise of Digital Humanities, in «BMGN - Low Countries Historical Review», 128 (2013), n. 4, doi: 10.18352/bmgnlchr.9350, pp. 55-77; P. MANNING, Big Data in History, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2013. Per quanto riguarda la data visualisation si vedano, tra gli altri, Beautiful Data, ed. by T. SEARGAN and J. HAMMERBACHER, O’Reilly, Sebastopol, CA 2009 e Beautiful Visualisation, ed. by J. STEELE and N. ILIINSKY, O’Reilly, Sebastopol, CA 2010. Cfr. F. MORETTI, La letteratura vista da lontano, cit. Un esempio di distant reading ed elaborazione di dati storiografici è il progetto Mapping the Repubblic of Letter’s dell’università di Stanford che, ispirato dai lavori di Darton, restituisce un quadro grafico e interattivo della vita intellettuale e culturale dell’Illuminismo europeo (figg. 36, 37; <http://republicofletters.stanford.edu/index.html>). Cfr. J. STERFELD, Hstorical Understanding in the Quantum Age, cit. F. CLAVERT, Lecture des sources historiennes à l’ère numérique, L’histoire Contemporaine À L’ère Numérique, 14 novembre 2012 [blogpost], <http://histnum.hypotheses.org/1061 >. Cfr. J. DOUGHERTY et al., Conclusions, in Writing History in the Digital Age, ed. by J. DOUGHERTY and K. NAWROTZKI, Michigan University Press, Ann Arbor 2013, doi: 10.3998/dh.12230987.0001.001. 104 nell’ottica evitare un atteggiamento passivo, ancorché interessato nei confronti della tecnologia digitale150. Illustrazioni §3.2 Figura 34. La famosa carta della Campagna di Russia proposta da Paul Minard; vengono visualizzate tre variabili: il percorso dell’esercito napoleonico, il calo drammatico dei suoi effettivi in relazione alle rigide temperature invernali (<https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Minard.png>). Figura 35. Tramite la ricerca dei termini "Marc Bloch", "Fernand Braudel" e "Lucien Febvre" tramite Goolge Ngram Viewer è possibile avere un’idea quantitativa della fortuna critica che la prima scuola delle Annales ha avuto nel dibattito storiografico italiano. 150 Come osservava Genet, «l’apporto dell’informatica è immensamente positivo e riconfigura, per il meglio, le pratiche degli storici. […] Quanto alla pratica storica, […] non c’è […], scientificamente parlando domanda di informatica: l’incertezza e i pericoli sono troppo grandi e si preferisce lasciarla a degli specialisti» J.-P. GENET, La formation des historiens à l’informatique en France. espoir ou désespoir? in «Le médiéviste et l’ordinateur, histoire médiévale, informatique et nouvelles technologies», 31-32 (1995), <http://lemo.irht.cnrs.fr/31-32/mo3115.htm>; citato in S. NOIRET, Storia digitale, cit., p. 203. 105 Figura 36. Elaborazione grafica delle pubblicazioni di Voltaire tra il 1712 e il 1800; in rosso tutti i luoghi di edizione, in arancione quelli reali, in viola quelli fittizi (<http://republicofletters.stanford.edu/casestudies/voltairepub.html>). Figura 37. Elaborazione grafica della rete di corrispondenti di Voltaire tra il 1755 e il 1777 (<http://republicofletters.stanford.edu/casestudies/voltaire.html>). 106 3.3 Fare storia digitale. Un approccio comparativo 3.3.1 Premessa. Alcune risorse web per la ricerca storica Come si è cercato di mostrare, la storia digitale non è un campo disciplinare ben definito e universalmente accettato; in ambito statunitense esistono già da tempo corsi di laurea, dottorati di ricerca e posizioni accademiche in Digital History151 e anche in Europa, in questi anni, si è cominciata ad affacciare l’istituzionalizzazione di questa disciplina 152. Nonostante sia in corso un dibattito molto vivo nella comunità accademica, la storia digitale sembra un campo di ricerca – ibrido come tutte le Digital Humanities – già strutturato se si fa una ricognizione in rete. L’ottimo sito Bibliostoria, della Biblioteca del Dipartimento di Studi Storici dell’Univesità Statale di Milano, offre, in un sito costruito con Wordpress (quindi simile ad un blog), un elenco aggiornato della disponibilità di risorse digitali utili alla ricerca storica 153 (fondi archivistici, biblioteche digitali database, ecc.). I collegamenti esterni alle risorse digitali sono brevemente descritti ed è possibile filtrarli per tematicamente sia usando un elenco tematico che una tagcloud; infine, sono disponibili link per il rimando ad altri numerosi blog di interesse storico. Oltre a ciò Bibliostoria mette a disposizione un’interessante sezione dedicata agli strumenti utili per la navigazione Web, come un elenco di software per l’organizzazione bibliografica (come 151 Oltre ai già citati centri di ricerca avviati negli anni Novanta, si segnala l’interesse delle istituzioni accademiche statunitensi nell’inserire, all’interno dei propri dipartimenti, personale docente nel campo dalla Digital History, come, per esempio, le Università di Harvard (<http://history.fas.harvard.edu/digital_teaching_fellows_program>) e del Michigan (<http://www.cal.msu.edu/criticaldiversity/phase1/digitalhistory>). 152 Ad esempio l’Università del Lussemburgo ha aperto lo scorso anno una call per 13 posti per un corso di dottorato in Digital History (<http://www.fnr.lu/projects/digital-history-and-hermeneutics>); altre istituzioni che offrono Phd in storia digitale sono il King’s College di Londra (<http://www.kcl.ac.uk/artshums/depts/history/study/pgr/digi.aspx>) e il Digital History Research Centre dell’ Università dell’Hertfordshire (<https://www.herts.ac.uk/digital-history>). Nell’estate 2017 si terrà a Losanna la seconda Summer School in Digital History (<http://www.dhsummerschool.ch>). In ambito nazionale un insegnamento è stato attivato all’Univiersità di Venezia all’interno del master in Digital Humanities (<http://www.unive.it/data/insegnamento/224318>) e l’Istituto Universitario Europeo di Fiesole fornisce, nell’anno accademico in corso, un seminario inerente ai temi della storia digitale (<http://www.eui.eu/DepartmentsAndCentres/HistoryAndCivilization/ResearchAndTeaching/Seminar s/2016-2017-1st-term/TS-Digital-History-BLOCK-EtkindNoiret.aspx>). 153 Bibliostoria, <https://bibliostoria.wordpress.com>. 107 Zotero) o per svolgere lavori di office su piattaforme online gratuite; completa il sito una sua parte dedicata alla didattica della storia. L’approccio di raccogliere «risorse web interessanti per la storia» 154 è quello seguito da altre iniziative focalizzate maggiormente sui temi della Digital History, come il blog La boîte aux outilès des historiens155 gestito da Franziska Heimburger e Émilien Ruiz, due ricercatori francesi. Nato da un ciclo di lezioni metodologiche tenute nel 2009 all’EHESS di Parigi, il blog si propone «un monitoraggio sugli strumenti informatici disponibili e utili agli storici [con l’obiettivo di]: a) far conoscere e centralizzare le risorse utili per la ricerca storica; b) proporre un’attività formativa (tramite tutorial); c) suscitare delle riflessioni circa l’uso dell’informatica nelle discipline storiche»156. Il sito, oltre a proporre post inerenti alle esperienze di insegnamento e ricerca nell’ambito della histoire numérique, fornisce una ricognizione bibliografica abbastanza aggiornata su vari temi, da quelli epistemologici a quelli concernenti l’uso di applicazioni specifiche, utile per chi si approccia a questo campo di studi. Inoltre, sono presenti tutorial sia per strumenti basilari (come cataloghi bibliotecari, database) sia per quelli più avanzati (come la guida a Zotero o alla costruzione di cartografie). A differenza di Bibliostoria, che rimanda a progetti strutturati, La boîte aux outilès ha nei suoi collegamenti siti e blog inerenti alla Digital History o alla Digital Public History, come quelli di Serge Noiret157 o Fréderic Clavert158. Molte sono le risorse online che si occupano di mettere a disposizione strumenti utili alla ricerca tra cui, a titolo esemplificativo, si segnalano: il progetto Connected Histories, che consente un’interrogazione tra varie risorse digitali per la storia britannica tra il 1500 e il 1900159; il sito History Engine, che si propone come un motore di ricerca per la storia evenemenziale degli degli Stati Uniti dal XIX secolo ad oggi 160; infine la piattaforma Clio Visualizing History, che ha come obiettivo quello di costruire, a partire dal materiale 154 Ibidem. 155 La boîte aux outilès, <http://www.boiteaoutils.info>. Ivi, À propos du blog, <http://www.boiteaoutils.info/a-propos-du-blog>. Digital & Public History, <http://dph.hypotheses.org>. L’histoire contemporaine a l’ère numérique, <http://histnum.hypotheses.org>. Connected Histoires, <http://www.connectedhistories.org/Default.aspx>; la piattaforma consente di cercare all’interno di un vasto corpu testuale per mezzo di una struttura che consente una visualizzazione dei risultati simile a Google Books (la struttura è semantica, nel senso che si basa sull’indicizzazione dei testi, ma non è stata pensata in funzione di un espressione semantica dei dati). 160 History Engine, <http://historyengine.richmond.edu>; il sito, a carattere didattico, consente di navigare fra gli eventi più rilevanti della storia degli Stati Uniti contemporanei, sia usando una linea del tempo che una mappa interattiva, ottenendo ad ogni ricerca informazioni provenienti da collezioni di giornali digitalizzati. 156 157 158 159 108 fotografico, percorsi divulgativi e interattivi 161. Fatte queste premesse, in questo ultimo paragrafo ci si propone di fornire degli esempi di utilizzo di due piattaforme web europee pensate per la conservazione dell’eredità culturale e utili alla ricerca in ambito storico: Europeana e CDEC Digital Library. Data la natura complessiva del presente lavoro di tesi, si è scelto, in questa sede, un approccio comparativo, basato sull’esperienza d’ uso, più che gli aspetti tecnici, che metta in luce pregi e difetti di ciascun progetto. 3.3.2 Europeana, un luogo virtuale per la conservazione dell’eredità culturale europea? Come anticipato, è sostanzialmente inutile elencare i numerosi progetti che si occupano di fornire in rete contenuti utili alla ricerca storica in senso lato, dal momento che sarebbe un esercizio fine a sé stesso stante la massa di di risorse sterminata e in constante divenire162; per questo motivo non si intende restituire un’istantanea dello stato dell’arte a livello globale, ma si è preferito, nella stesura di questa tesi, adottare un approccio deliberatamente asistematico, attento a vagliare la natura delle fonti e dei contenitori digitali via via analizzati. Come case studies ne sono quindi scelti due riconducibili all’esperienza della conservazione in digitale in Italia. Numerosissimi sono i progetti di digitalizzazione di fondi bibliotecari, archivistici e di collezioni museali avviati nel nostro Paese a partire dalla seconda metà degli anni Novanta; tuttavia, a differenza di altre esperienze, come Gallica, il portale della Bibliothèque Nationale de France, in Italia, per ragioni anche strutturali, è risultata non del tutto adeguata una direzione da parte del Ministero dei Beni Culturali che da subito uniformasse i criteri di conservazione delle risorse digitalizzate, armonizzandole con quelli di altri progetti internazionali; così, il panorama delle istituzioni (pubbliche o private) che hanno messo a disposizione il loro patrimonio culturale in rete risulta assai frastagliato. Questa diversificazione scoraggia la ricerca, anche perché, troppo spesso, i progetti di digitalizzazione sono stati effettuati con finanziamenti una tantum e molti fondi o non sono completi, o resi disponibili nel solo formato immagine, oppure non consultabili163. Partendo da questo quadro abbastanza scoraggiante, se si pensa ad altri 161 Clio Visualizing History, <https://www.cliohistory.org/click>, percorso sulla storia del femminismo negli Stati Uniti. 162 Per un elenco, abbastanza aggiornato, ma non esaustivo, delle fonti digitali utili alla ricerca storica, archivistica e bibliografica si rimanda al volume Il web e gli studi storici, cit. 163 È il caso della Teca Digitale della Regione Piemonte, in cui i risultati di ricerca non possono essere visualizzati perché la piattaforma non è più aggiornata ai web browser più recenti; ad esempio, <http://www.regione.piemonte.it/TecaViewer/index.jsp?RisIdr=TECA0000326132&keyworks=vittorio %20amedeo>. 109 progetti europei o statunitensi, la linea degli ultimi anni è stata quella di creare dei metacataloghi che consentissero l’interrogazione su più singoli database di biblioteche digitali – con questo termine si intende tutto il complesso delle piattaforme che forniscono risorse documentarie digitalizzate. Sono nati così i progetti Internet Cultuale dell’ICCU (Istituto Centrale per il Catalogo Unico) e Cultura Italia che sfruttano i metadati per reperire risultati interrogando cataloghi di istituzioni più piccole 164; gli algoritmi che gestiscono il ranking non sono pubblici e in entrambi i casi i risultati di ricerca sono tutt’altro che esaltanti165. La cosa più sconcertante è che, proponendosi come onnicomprensivi, ci siano risorse poco diversificate e i risultati non siano minimamente paragonabili a quelli di un motore di ricerca generalista; sono state create due piattaforme gemelle che non comunicano efficacemente. Un approccio completamente diverso, e forse più intelligente, è quello di DARIAH – IT 166, che si propone di mettere a disposizione strumenti utili alla ricerca, senza però unificare le banche dati in un unico metacatalogo167. I problemi delle biblioteche digitali italiane si riverberano in Europeana, gigantesco progetto cofinanziato dall’UE rilasciato nel 2010 in versione stabile che ha l’obiettivo di «trasformare il mondo con la cultura! [e di] costruire sulla ricchezza dell’eredità culturale europea rendendola più facile l’accesso alle persone per lavoro, per l’apprendimento o per lo svago168». Non è facile nell’articolato sito del progetto trovare informazioni dettagliate sulla sua governance, sui suoi finanziamenti pubblici e sull’impatto effettivo nell’uso quotidiano. Europeana è gestita da una fondazione che ha sede nei Paesi Bassi, controllata dalla Commissione Europea e amministrata da un consiglio direttivo internazionale 169 e come tale riceve finanziamenti pubblici da parte dei singoli stati e dai fondi comunitari 164 Cultura Italia (<http://www.culturaitalia.it>) nasce con l’intento di conservare più che altro risorse provenienti dai musei o da altre istituzioni culturali; le sue ricerche interrogano, in parte Internet Culturale (<http://www.internetculturale.it/opencms/opencms/it>) che è invece fornisce cataloghi e collezioni digitali delle biblioteche italiane. 165 Per esempio se nella ricerca del termine "Primo Levi" nel catalogo dell’Internet Culturale si ottengono come primi risultati alcune scansioni dei libri dell’autore torinese (ma solo le copertine e gli indici, per via del diritto d’autore), in Cultura Italia vengono proposti una serie di oggetti per nulla inerenti all’indagine effettuata, in cui spiccano alcuni quadri e indicazioni museali. 166 DARIAH – IT, <http://it.dariah.eu>; è il nodo italiano di DARIAH – UE, con il quale condivide la missione principale. DARIAH fornisce servizi avanzati basati sull’uso delle ICT per i ricercatori nel campo delle arti e le scienze umane, coniugando lo sviluppo tecnologico con l’istruzione e la formazione, promuovendo la collaborazione e la ricerca comune, la comunicazione e la diffusione, la condivisione di esperienze e strumenti nel campo delle Digital Humanities per la trasmissione e l’utilizzo del patrimonio culturale digitale. 167 Per rendersi conto delle istituzioni partecipanti si rimanda a <http://it.dariah.eu/sito/strumenti>. 168 Europeana, <http://www.europeana.eu/portal/it>. 110 per circa 10 milioni di euro annui 170. Europeana si posiziona al 68.411. posto del ranking Alexa su scala globale171; nella sezione del sito dedicata alle statistiche sono disponibili i dati relativi agli accessi che ne mostrano l’ammontare per mese e per anno: si registra una netta diminuzione delle visite, dalle 1.400.000 annue circa del 2014 alle 560.000 del 2016, con una curva delle visualizzazioni che flette nei mesi estivi per riprendersi tra settembre e dicembre 172; incrociando questi dati con quelli di Alexa si evince che gli accessi sono per lo più concentrati ad alcuni Paesi europei e agli Stati Uniti. Partendo dalla considerazione che allo stato attuale solo il 10 per cento del patrimonio culturale europeo è digitalizzato (circa 300 milioni di oggetti, di cui un terzo disponibile online), Europeana si propone come una piattaforma in grado di garantire l’accesso stabile a queste risorse, che attualmente ammontano a circa 54 milioni, delle quali 32 milioni hanno metadati strutturati173. Per quanto concerne la conservazione dei documenti digitalizzati, l’obiettivo di Europeana è duplice; da un lato acquisire gli oggetti digitali dalle varie istituzioni nazionali, come l’ICCU, che hanno già dei loro cataloghi con sistemi di metadatazione propri; dall’altro fornire ai soggetti che ancora non hanno sviluppato piattaforme web per la conservazione dei loro materiali uno schema per organizzarli in modo da essere inseriti nativamente nella piattaforma comune. In entrambi i casi Europeana usa un suo modello ontologico, EDM (Europeana Data Model)174 che arricchisce i sistemi per la metedatazione degli oggetti maggiormente usati (Dublin Core175 e Open Archives Initiative Object Reuse & Exchange176) con le 169 Il consiglio direttivo della Fondazione (management board) è il risultato di una sintesi tra i membri nominati dalle istituzioni pubbliche e quelli che vi possono essere inseriti tramite un’elezione di secondo livello che avviene tra tutti gli iscritti alla Europeana Network Association (non sono richieste particolari credenziali basta appartenere, in senso largo, ad un’istituzione che si occupa di cutltural heritage). Cfr. Europeana Business Plan 2016. Creating Cultural Connections, 2016, <http://pro.europeana.eu/files/Europeana_Professional/Publications/europeana-bp-2016.pdf>. 170 Cfr. Europeana. Sharing The Beautiful Things. Annual Report & Accounts 2015, 2016, <http://pro.europeana.eu/files/Europeana_Professional/Publications/europeana-annual-reportaccounts-2015.pdf> e Europeana Strategy 2020. Network & Sustainability (draft), 2014, <http://pro.europeana.eu/files/Europeana_Professional/Publications/Europeana%20Strategy %20Network%20Sustainability.pdf>; circa 30 milioni di euro all’anno sono stati i finanziamenti nel 2010-2015. 171 Europeana.eu Traffic Statistics, <http://www.alexa.com/siteinfo/europeana.eu> . 172 Europeana statistics, <http://statistics.europeana.eu/europeana> . 173 Cfr. Europeana Strategy 2020, cit. 174 Europeana Data Model Primer, 2013, <http://pro.europeana.eu/share-your-data/data-guidelines/edmdocumentation>. 175 Dublin Core, <http://dublincore.org>. 176 Open Archives Initiative, <https://www.openarchives.org/ore>. 111 tecnologie semantiche (Skos177 e Cidoc Crm178); i dati sono cioè ad un primo livello organizzati seguendo ontologie dettagliate studiate per la conservazione dei beni culturali e quindi tradotti in formato RDF. Attraverso le best practices del Web Semantico, Europeana provvede quindi ad arricchire i propri oggetti con i Linked Open Data (LOD), il che rende il suo gigantesco dataset collegato agli altri nodi della rete semantica (come Geonames o DBpedia). Le informazioni relative ai documenti conservati sono quindi molteplici, non solo la descrizione del contenuto, ma anche la sua geolocalizzazione, i riferimenti all’ente di provenienza e al suo dataset, collegamenti con altri oggetti dello stesso autore o simili, ecc.; ogni risorsa è dotata di una didascalia che ne indica le possibilità di riuso179, può essere condivisa sui social network e si può navigare, in maniera casuale, ad altre immagini digitali che le sono simili per colore. I dataset di Europeana hanno accesso libero, possono essere interrogati da uno SPARQL endpoint, i dati e gli oggetti open access si possono riutilizzare liberamente e il portale incoraggia il riuso dei propri dati tramite delle API che gli sviluppatori hanno la facoltà di inglobare nei propri siti o applicazioni180. Questo è quanto si evince dal programma quinquennale 2015-2020 e dal business plan 2016 della Fondazione181, dimostrano un’attenzione maggiore riguardo al riuso dei contenuti rispetto al miglioramento degli algoritmi di ricerca. Proponendosi come concorrente al Google Arts & Cultural 182, Europeana si appoggia alla filosofia dell’open source al fine di favorire l’accesso interattivo alle proprie collezioni che possono ad esempio essere usate dai musei per la ricostruzione di ambienti virtuali o per la creazione di web app a scopo divulgativo183. Come sarà chiaro, Europeana si rivolge al tempo stesso a tre pubblici differenti: a) ai cittadini che desiderano avere accesso ai contenuti del patrimonio culturale; b) a biblioteche, archivi e musei che intendono usare una piattaforma pubblica per la conservazione dei propri oggetti digitali; c) alle imprese che si occupano di costruire applicazioni per costruire tour virtuali (per esempio l’app di un museo184) o a team di sviluppatori che operano nell’ambito dei Linked Open Data. Proprio per raggiungere i diversi tipi di pubblico Europeana presenta un sito diviso in diverse sezioni (Collections, 177 Skos, <https://www.w3.org/2004/02/skos>. 178 179 180 181 Cidoc Crm, <http://www.cidoc-crm.org>. Cfr. <http://www.europeana.eu/portal/it/rights/terms.html>. Europeana Pro, <http://pro.europeana.eu>. Cfr. Europeana Strategy 2015-2020, <http://pro.europeana.eu/files/Europeana_Professional/Publications/Europeana%20Strategy %202020.pdf> e Europeana Business Plan 2016, cit. 182 Google Arts & Cultural, <https://www.google.com/culturalinstitute/beta>. 183 Europeana Labs, <http://labs.europeana.eu>. 184 Come ad esempio l’app Muzeums, <http://labs.europeana.eu/apps/muzeums>. 112 2014, Pro, Labs e Research), tramite i quali chiunque può usare i contenuti digitali come meglio crede, purché vengano rispettati i diritti d’autore. Accanto al mashup dei propri contenuti Europeana ha investito molto nel costruire percorsi tematici divulgativi incentrati sulla storia dell’arte185 e della musica186 e della moda187. Parallelamente vengono organizzate delle esibizioni virtuali temporanee come, tra le altre, Europeana 280, una mostra virtuale di dieci capolavori dell’arte per ciascuno dei 28 Stati dell’Unione 188, da cui è derivato Faces of Europe, un progetto che si propone di ricostruire una storia del ritratto nell’Età moderna189. La sua struttura finalizzata alla divulgazione non ha reso Europeana una piattaforma particolarmente adatta all’uso nelle attività di ricerca in ambito documentario, privilegiando quello artistico museale 190. Ad esempio, ricercando il termine «Rousseau», in modo da ottenere risultati in lingua francese, Europeana non restituisce, in prima battuta, una qualunque delle opere dell’autore ginevrino, ma contenuti di varia natura tra cui mappe, cataloghi bibliotecari e immagini 191. Sono risultati non conformi alle aspettative, anche perché le collezioni digitali della BNF sono conservate in Europeana; confrontandoli con quelli ottenuti su Gallica o su Internet Archive (due piattaforme generaliste), i risultati di Europeana non sono soddisfacenti e invogliano a rivolgersi ad altri strumenti che invece restituiscono al primo impatto contenuti più pertinenti. 3.3.3 Una piattaforma di crowdsourcing. Europeana 1914-18 Accanto alla sua struttura generale, Europeana presenta, nell’ambito più ristretto della Digital History, un progetto interessante legato al centenario della Grande Guerra, Europeana 1914-1918 – Untold Stories & Official Histories of WW1192. Come si evince titolo, vengono proposti due approcci per la conservazione di documenti digitali inerenti alla Prima guerra mondiale: da un lato quello di esporre i materiali aggiunti dalle varie istituzioni nazionali; dall’altro Europeana si propone come piattaforma per conservare le riproduzioni digitali dei cimeli di guerra che sono custoditi nelle case dei cittadini. 185 Europeana Art, <http://www.europeana.eu/portal/it/collections/art>. 186 Europeana Music, <http://www.europeana.eu/portal/it/collections/music>. 187 Europeana Fashion, <http://www.europeana.eu/portal/it/collections/fashion >. 188 Europeana 280, <http://www.europeana.eu/portal/it/collections/art-history/Europeana280.html>. 189 Faces of Europe, <http://www.europeana.eu/portal/en/exhibitions/faces-of-europe>. 190 Prima di formulare la ricerca si è provato con altri termini e le pertinenze dei risultati migliora, di molto, se si inseriscono cognomi di pittori o musicisti; per esempio cercando "Caravaggio" il rumore informativo è molto minore e vengono subito mostrati i quadri più famosi del pittore lombardo. 191 <http://www.europeana.eu/portal/it/search?f%5BLANGUAGE%5D%5B%5D=fr&q=rousseau>. 192 Europeana 1914-1918, <http://www.europeana1914-1918.eu/it/about>. 113 Chiunque può caricare sul sito fotografie, onorificenze, lettere di congedo, ecc., appartenute a parenti o conoscenti che combatterono nella Grande Guerra; inoltre si possono trasmettere le storie legate all’oggetto digitalizzato 193. Dopo essere state sottoposte al vaglio istituzionale (di Europeana o dei partner affiliati)194, le risorse vengono, metadatate, arricchite di significato semantico e, potenzialmente, conservate per sempre in rete; si tratta di un modo utile per dare la possibilità a studiosi e appassionati di confrontarsi con una documentazione che altrimenti resterebbe difficilmente accessibile. La maschera di ricerca di Europeana 1914-1918 consente di navigare i contenuti in maniera efficace (pur ricalcando quella del motore generalista) ed è possibile scegliere se fare una ricerca su tutto il materiale o soltanto su quello pubblicato tramite crowdsourcing; l’indagine può anche essere geografica, tematica, per tipo di fonte e argomento trattato. Un’altra funzione molto interessante è quella di poter navigare non solo sulle risorse provenienti dall’Europa, ma anche da quelle che sono fornite da istituzioni statunitensi, canadesi, australiane e neozelandesi (ad esempio quelle della Digital Public Library of America195 che con Europeana condivide lo stesso modello di metadazione)196. Dalle statistiche si evince che i soggetti istituzionali hanno contribuito alla conservazione di circa 750.000 documenti, mentre circa di 230.000 oggetti è stato l’apporto da parte degli utenti197. Europeana 1914-1918 è dunque al tempo stesso una piattaforma classica per la conservazione dei contenuti digitali, una forma di crowdsourcing e un progetto di Digital Public History; gli utenti possono contribuire non solo caricando i propri cimeli, ma anche annotando, trascrivendo, traducendo, "taggando", metadatando, condividendo, collegando tra loro tutti gli oggetti conservati. Si può conoscere la storia di intere famiglie, si possono seguire le vicissitudini belliche dei singoli individui, ricostruire una storia dal basso di una battaglia, indagare le condizioni di vita nelle trincee, ecc. Gli stessi 193 Nel 2011-13 sono state organizzate in tutt’Europa delle giornate di raccolta di materiali e testimonianze che hanno portato ad ottenere circa 50.000 oggetti digitalizzati, ma è ancora possibile caricarli anche privatamente accedendo alla sezione "Aggiungi". Cfr. S. DI GIORGIO, Europeana 1914-1918. La Grande Guerra raccontata dalla gente comune, in «DigItalia Web. Rivista digitale nei Beni Culturali», 1 (2013), <http://digitalia.sbn.it/article/view/728/503>, pp. 157-160. 194 L'iniziativa è stata promossa da Europeana e dall’Università di Oxford. In Italia coinvolge il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo, tramite l’ICCU e altri istituti come la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma (BNCR), il Museo Centrale del Risorgimento di Roma e la Fondazione del Museo storico del Trentino; cfr. Ivi, p. 157. 195 DPLA, <https://dp.la>. 196 I due cataloghi sono infatti, in fase sperimentale, parzialmente interrogabili da una piattaforma comune, WUD; <http://www.unifr.ch/mh/wud>. 197 <http://www.europeana1914-1918.eu/it/statistics>. 114 contenuti vengono rielaborati da Europeana in esposizioni temporanee, come quella fatta in concomitanza con le vacanze natalizie198, o in percorsi divulgativi a carattere interattivo come il corso World War I. A Battle of Perspectives disponibile su iTunes U199; inoltre, le risorse possono essere liberamente riutilizzate ad esempio in lavori accademici e divulgativi, così come nella costruzione di siti web. Insomma, tra le tante speranze disattese da Europeana come luogo virtuale unico per l’eredità culturale europea, il progetto 1914-1918 appare un buon modo di conservare in rete la memoria storica collettiva della Prima guerra mondiale garantendo un accesso stabile e interattivo alle risorse. 3.3.4 L’organizzazione di risorse eterogenee attraverso i Linked Open Data: la CDEC Digital Library Europeana è, tra le piattaforme di conservazione dell’eredità culturale nel digitale, una delle poche che adotta una struttura semantica e apre alcune sezioni alla collaborazione degli utenti; nonostante abbia degli evidenti limiti rispetto alle iniziative private come Google o Internet Archive, Europeana presenta il grande vantaggio di consentire il riuso dei suoi contenuti liberi da copyright e un’ontologia pubblica di organizzazione dei metadati. Indagando in maniera più dettagliata nel campo di iniziative con obiettivi meno generali, si scopre una grande varietà di piattaforme utili alla ricerca storica e documentaria, che adottano un approccio collaborativo. È il caso per esempio dei progetti Transcribe Bentham dell’University College di Londra200 e Emigrant City della New York Public Library201; nel primo caso viene chiesto agli utenti di collaborare alla trascrizione delle opere manoscritte del filosofo Jeremy Bentham attraverso l’uso di un software di text encoding. Nel caso della biblioteca di New York il progetto riguarda la metadatazione e la trascrizione delle schede prodotte dalla Emigrant Saving Bank, la cassa di risparmio newyorkese che finanziava gli emigrati; tramite il crowdsourcing l’obiettivo è quello di ricostruire una storia sociale dell’immigrazione nella Grande Mela, favorito anche da un software pratico e intuitivo202 alla portata di tutti. 198 <http://www.europeana.eu/portal/en/exhibitions/sausages-and-cigars-for-christmas>. 199 M. POPOVA, Europeana launches Multi-Touch Book and iTunes U course on the First World War, in Europeana Pro, 13 ottobre 2015 [blog post], <http://pro.europeana.eu/blogpost/europeana-launchesmulti-touch-book-and-itunes-u-course-on-the-first-world-war>. 200 Transcrive Bentham, <http://blogs.ucl.ac.uk/transcribe-bentham>. 201 Emigrant City, <http://emigrantcity.nypl.org/#>. 202 Un’approccio simile, in entrambi i casi a Wiki Source. 115 Molte sono anche le iniziative che sfruttano le tecnologie del Web semantico per l’organizzazione, la conservazione, la fruizione e il riutilizzo di informazioni e risorse utili alla ricerca storica. Senza aprire, in questa sede, un’analisi su quei progetti che si occupano di estrarre informazioni da un corpu di dati (per esempio un fondo archivistico)203, ci si può concentrare su quelli che usano i Linked Open Data in ambito culturale204. Tra le varie iniziative di cui si può rendere conto, per esempio quelle che cercano di tradurre in linguaggio semantico i cataloghi bibliotecari o che cercano di organizzare ontologicamente i contenuti di un archivio 205, ci si concentrerà su quella avviata dalla Fondazione CDEC (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea) di Milano. Il progetto va contestualizzato nel diffuso interesse che i Linked Open Data hanno suscitato nel nostro Paese206. All’interno di un più ampio disegno per la valorizzazione e la fruizione del proprio patrimonio documentario, finanziato nel 2009 con una legge dello Stato, la Fondazione ha avviato, dal 2012, la sistemazione dei materiali conservati nel Centro di Documentazione ai fini della costituzione della CDEC Digital Library. La biblioteca digitale, inaugurata nel 2015, è stata realizzata in partnership con il MIBACT e la società Regesta.exe che ne cura gli aspetti informatici; data la vastità dei documenti conservati al CDEC, attivo dal 1955 come «Istituto per la raccolta e la conservazione dei documenti dell’ebraismo italiano dall’età dell’Emancipazione ai giorni nostri» 207, il focus su cui si sono concentrati gli sforzi della riorganizzazione documentaria è stato quello della Shoah e della Resistenza. Come ricordano Silvia Mazzini e Laura Brazzo, curatrici del progetto, i materiali cui ci si è dovuti approcciare sono di natura eterogenea: «300.000 documenti comuni; 27.000 volumi; 40.000 fotografie (analogiche e digitali); 2.200 203 Ad esempio i progetti STECH e Harlock avviati dal Dipartimento di Informatica dell’Università di Torino in collaborazione col Polo del ‘900, <http://beta.di.unito.it/index.php/english/research/groups/intelligent-semantic-technologies-humanand-artificial-agents-collaboration/projects/stech>. 204 Ci si può rendere idea della vitalità delle iniziative che ruotano intorno a questi temi visitando il sito LODLAM (Linked Open Data in Libraries, Archives, and Museums <http://lodlam.net>) all’interno del quale si può trovare il progetto Linked Jazz (<https://linkedjazz.org/network>), una rete semantica per la storia della musica jazz. Cfr. Linked data for cultural heritage, ed. by E. JONES and M. SEIKEL, Facet Publishing, London 2016, pp. 8-20. 205 Cfr. Ivi, § 6 e M. GUERRINI – T. POSSEMATO, Linked data per biblioteche, archivi e musei, cit., § 8. 206 Oltre Cultura Italia, tra le istituzioni che hanno reso disponibili i propri dati segnaliamo, a titolo esemplificativo, il CNR (<http://data.cnr.it/site/>) e la Camera dei Deputati <http://dati.camera.it/it/>. 207 CDEC Digital Library. Linked Open Data per l’organizzazione del patrimonio informativo sugli ebrei in Italia, a cura di L. BRAZZO e S. MAZZINI [slide presentate al seminario Lavorare coi Linked Data, Torino 16 giugno 2016], <http://www.mabitalia.org/index.php/comitatati/piemonte/item/download/243_d5c36de7abb91ad7db3d8a69a525e69a>. 116 collezioni di riviste; 1.200 registrazioni video 700 registrazioni audio» 208, catalogati con sistemi differenti e con diverse piattaforme; oltre a questa massa documentaria va aggiunto il database del CDEC che contiene circa 9.000 nomi di vittime cui si riferiscono svariate informazioni (familiari, luogo di deportazione, convoglio, ecc.). Integrando questi dati con quelli provenienti dalla banca dati delle vittime della Shoah in Italia, espressa in formato tabellare, è stato deciso di organizzare i contenuti documentari usando come fil rouge proprio le persone. Partendo da una ontologia FOAF si è quindi passato a costruire un’"ontologia della persecuzione" 209 che avesse come focus i due momenti dell’arresto e della deportazione delle vittime (vi sono connessi dati relativi ai luoghi, ai convogli ferroviari, al campo di concentramento, ecc.; figg. 38 39, 40). La prima fase del progetto, dopo l’organizzazione dei materiali e la parziale digitalizzazione, è stata quella di organizzare i metadati provenienti dai vari sistemi descrittivi in una piattaforma che non ne stravolgesse la natura; la seconda fase è stata quella di organizzare i dati in forma semantica secondo gli standard del W3C 210. Per compiere queste operazioni sono state usati due sistemi DAM (Digital Asset Management), xDams per organizzare i materiali in locale211 e Open Dams per la trasformazione del dato in triple RDF e per la pubblicazione sul Web. Organizzando i dati contenuti nei database secondo l’ontologia si è quindi avviata la terza fase, cioè quella della riconciliazione dei nomi interna a dataset, per armonizzare le varianti di un singolo nome, e di reasoning, cioè il collegamento tra i dati espressi in Open Dams e xDams con quelli del fondo documentario e, quando è stato possibile, coi documenti digitalizzati. Esprimere i contenuti documentari attraverso i Linked Open Data permette di connettere il dataset del CDEC con altri resi pubblici, per esempio Geonames, e quindi di inserire la Shoah Victim Names nel reticolo della LodCloud (fig. 41). A livello di usabilità la CDEC Digital Library è strutturata in modo agevole per tutte le tipologie di utenti (sono pensati anche in questo caso percorsi divulgativi), ma si percepisce come la finalità ultima sia quella dell’attività di ricerca; i risultati di una query possono essere filtrati facilmente e navigati seguendo le collezioni documentarie presenti sulla piattaforma, dai quali si può accedere al dettaglio della descrizione documentaria e, se presente, alla riproduzione digitale del documento cui si è interessati. La natura di questa piattaforma è quindi ibrida perché integra informazioni di tipo diverso (bibliotecarie, archivistiche, ipertestuali), ma riesce a restituire i risultati in maniera precisa e con una logica corrispondente alle aspettative. Ad un livello più profondo i dati 208 209 210 211 Ibidem. Shoah Vocabulary Specifications, <http://dati.cdec.it/lod/shoah/reference-document.html>. Cfr. supra §2.3.1. xDams, <http://www.xdams.org>. 117 organizzati dal CDEC sono interrogabili e visualizzabili usando gli strumenti del Web Semantico; si può fare una richiesta dallo SPARQL endpoint212 oppure visualizzare la descrizione ontologica di un singolo elemento attraverso LodView 213. Ma la possibilità veramente innovativa è quella usare LodLive 214 per costruire una rete semantica: partendo dal nome di una vittima è possibile scoprire in maniera interattiva i legami familiari, date e luoghi degli arresti, giorno della liberazione, ecc. In questo modo non solo è più facile visualizzare in maniera dinamica i dati altrimenti fruibili solo da un database realzionale, creando percorsi di ricerca o didattici (fig. 42). §§§ Il confronto tra CDEC e Europeana, pur tenendo presente le debite differenze, volge nettamente a sfavore della seconda; non solo nella piattaforma europea i risultati di ricerca sono, come visto, piuttosto inadeguati (ad esempio cercando "Primo Levi" compare come primo risultato un programma da sala di un concerto di un’associazione musicale ginevrina)215, ma è anche lontana anche l’ipotesi di visualizzare la rete semantica che è in back end rispetto ai risultati proposti dalla piattaforma. In entrambi i casi lo stato attuale dello sviluppo è ben lungi dall’essere completato ed ambedue le iniziative, nella loro diversità, sono un passo in avanti nell’ottica di una migliore organizzazione e di un miglior sistema di reperimento dei dati digitali, nella prospettiva di trasformare il Web nel Global Giant Graph216. Il caso del CDEC è particolarmente significativo, non a caso il progetto è stato insignito del "Grand Prize" nella Lodlam Challenge del 2015 217, e può essere preso dagli enti culturali medio-piccoli come modello di organizzazione di un complesso documentario eterogeneo e frastagliato, frutto della stratificazione di politiche di digitalizzazione di documenti e cataloghi non sempre svolte in maniera coerente. 212 Virtuoso SPARQL Query Editor, <http://lod.xdams.org/sparql>. 213 214 215 216 217 CDEC Linked Open Data, <http://dati.cdec.it/lod/shoah/website/html>. LodLive, <http://dati.cdec.it/lodlive/?http://dati.cdec.it/lod/shoah/person/4919>. <http://www.europeana.eu/portal/it/search?q=primo+levi&view=grid>. Cfr. supra § 2.3.1. <http://www.cdec.it/home2_2.asp?idtesto1=1569&idtesto=940&son=1>. 118 Illustrazioni §3.3 Figura 38. Schema ontologico FOAF (CDEC Digital Figura 39. Visualizzazione dei dettagli di un convoglio ferroviario diretto ad Auschwitz (Ibidem). Library. Linked Open Data). Figura 40. Modello ontologico della deportazione (Ibidem). 119 Figura 41. La Shoah Victim Names nel reticolo della Lod Cloud (<http://lod-cloud.net/versions/2017-0220/lod.svg>). Figura 42. Esempio di visualizzazione semantica dell’entità "Primo Levi" con l’applicazione Lod Live (<http://dati.cdec.it/lodlive/?http://dati.cdec.it/lod/shoah/person/5002>). 120