Corrado Pestelli
TOMASI DI LAMPEDUSA:
LE «LEZIONI SU STENDHAL»
E LA DIVINA FUSIONE NARRATIVA
Per Giuseppe l’Italia è anche il paese stendhaliano culla di ogni delitto1.
Secondo me […] l’interesse più vivo dei Racconti di Canterbury risiede
per noi nell’apparizione artistica che in essi vi fanno tre dei temi della letteratura
inglese: la casa […], l’umorismo e il fiabesco.
È per l’innato gusto del fabulieren, per la semplicità della presentazione, per
l’onnipresente humour, per queste tre caratteristiche-base della narrativa inglese
che queste quattro opere posseggono un appeal, un richiamo davvero universale
su chiunque sappia leggere, ad otto o ad ottanta anni2.
1 Cfr. G. Lanza Tomasi, Introduzione, in G. Tomasi di Lampedusa, Letteratura inglese, a cura di
N. Polo, con Introduzione e Postfazione dello stesso Lanza Tomasi, 2 voll., Milano, Mondadori, 19901991, i (1990: Dalle origini al Settecento), p. xxxviii. Speculare all’immagine dell’Italia «paese stendhaliano», sede di delitti, è quella, ben nota e insistente in Lampedusa, del Machiavelli in Inghilterra,
nemico del paese, idolo ufficialmente polemico, come tale istituito e identificato nell’età elisabettiana
(«sotto Elisabetta il Nemico si trovò: Niccolò Machiavelli»; G. Tomasi di Lampedusa, La prosa elisabettiana, ivi, pp. 161-162), investito della connotazione di «mostro di sregolatezza e di lussuria», e in
tal veste ampiamente studiato dalla tradizione critica (si pensi al Machiavelli in Inghilterra del Praz).
Efficace, anche a testimonianza dell’interesse profondo e non casuale dell’autore del Gattopardo per le
letterature straniere, la caratterizzazione dell’importanza, e delle storture di ricezione e d’immagine,
del Machiavelli “inglese”: «La leggenda che si formò intorno a lui ne falsò completamente la figura: ne
fece un campione della monarchia spagnola e della Curia Romana (ed era invece il difensore della Repubblica Fiorentina e l’autore della Mandragola), lo caricò non solo dei suoi reali “peccati” ideologici,
ma anche di quelli ben più effettivi dei Borgia e di Filippo II […]» (ivi, p. 162).
2 G. Tomasi di Lampedusa, Le Ballate e Chaucer, ivi, pp. 18-19; la seconda citazione è in Daniel
Defoe, ivi, p. 266; le «quattro opere» sono il Robinson, il Gulliver, il Circolo Pickwick e l’Isola del tesoro.
Si ricordino alcuni riferimenti bibliografici su questa serie di testi lampedusiani: le Lezioni su Stendhal
sono pubblicate in «Paragone-Letteratura», ix, 112 (aprile 1959), pp. 3-49, testo qui assunto a base
dell’esame critico (sono raccolte in Id., Lezioni su Stendhal, Palermo, Sellerio, 1977), anche perché
quasi contigue, nella loro connotazione di fresca uscita e per di più nella stessa annata della rivista, a
un altro famoso numero dedicato a Tomasi, il 110 (febbraio 1959), preceduto dall’Editoriale intitolato
Il ‘caso’ del ‘Gattopardo’, pp. 3-9 (nel ’59 la redazione è composta – oltre che da Bassani – dalla Banti,
da Bertolucci, da Bigongiari, da Gadda, dalla Noferi, da Zampa); per una biografia dell’autore, cfr. A.
Vitello, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Palermo, Sellerio, 1987; un profilo, con significativa antologia di testi, è presente in N. Zago, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, la figura e l’opera, Marina di Patti
(Messina), Editrice Pungitopo, 1987 (ancora, di Zago, si veda Tomasi di Lampedusa, Acireale-Roma,
Bonanno, 2011); su un piano in parte diverso si muove la biografia di D. Gilmour, The last Leopard.
A life of Giuseppe di Lampedusa, London, Quartet Books, 1988 (trad. it.: L’ultimo Gattopardo. Vita di
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Milano, Feltrinelli, 1989). Per i Racconti, si veda G. Tomasi di Lampedusa, I Racconti, a cura di N. Polo, con prefazione di G. Lanza Tomasi, Milano, Feltrinelli, 1988.
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Il “taglio” cronologico-schedatorio che, sia pure con le peculiari caratteristiche di Tomasi, attraversa la Letteratura inglese, destinata a scelto ma esiguo
uditorio privato e pronta a codificarsi in modalità allocutive, non manca di
identificare alcune connotazioni fondamentali della prosa britannica, quali
la casa (intesa come «il rifugio dalle intemperie, dalle asprezze e dai guai»),
l’umorismo, la semplicità di approccio alla narrazione, il gusto diffuso, pur
se vigile, del fabulieren; il tema della casa, ad esempio, «è un po’ presente
nella letteratura tedesca, assente o negato nella letteratura francese e italiana». La letteratura inglese, insomma, evidenzia agli occhi del lettore-scrittore
Lampedusa notevoli caratteristiche proprie, e tali da differenziarla, sotto
determinati profili artistici, da altre letterature europee. Ma già l’individuazione dei tratti demonizzanti della figura di Machiavelli (The Florentine),
nella stessa letteratura d’oltremanica3, ha in sorte di duplicarsi idealmente,
all’interno della visione lampedusiana, nell’immagine dell’Italia quale «paese
stendhaliano culla di ogni delitto»; Stendhal, la letteratura francese, l’Italia, i
momenti critici della vita e della storia si insinuano anche nei più importanti
concetti che segnano lo studio della letteratura inglese, a ricomposizione di
un quadro di interessi e di riferimenti culturali che vede agire, in chiave di
simultaneità intellettuale e scrittoria, la stessa Letteratura inglese, le lezioni
di letteratura francese e in particolare quelle stendhaliane, e naturalmente
Il Gattopardo4.
Importante l’opera di attribuzione, quasi certa, di testi ritrovati, in G. Aromatisi (Giuseppe Tomasi
di Lampedusa?), Scritti ritrovati, a cura di A. Vitello, premessa di F. D’Orsi Meli, Palermo, Flaccovio,
1993; per una fruizione dell’epistolario, specie in rapporto con le idee e con le reazioni del principe
palermitano alla frequentazione delle grandi capitali europee (soprattutto Londra), cfr. G. Tomasi di
Lampedusa, Viaggio in Europa. Epistolario 1925-1930, a cura e con introduzioni di G. Lanza Tomasi
(La memoria e le lettere) e di S. Silvano Nigro (Il romanzo di un turista), Milano, Mondadori, 2006;
i tre saggi genovesi del 1926-1927, comparsi nella rivista «Le opere e i giorni», i primi due dei quali
dedicati a Paul Morand e a W. B. Yeats e il Risorgimento irlandese, si possono leggere in Id., Il mito,
la gloria, a cura e con postfazione di M. Staglieno, Roma, Shakespeare and Company, 1989 (ma si
vedano in tal senso le perplessità di Vitello, nel cit. Scritti ritrovati, pp. 28-29 e n.). A sua volta, il citato
scritto di S.S. Nigro, Il romanzo di un turista, entra, rielaborato come singolo capitolo (pp. 13-44), in
Id., Il Principe fulvo, Palermo, Sellerio, 2012.
3 Una prospezione machiavelliana, anche priva d’esplicito riferimento al Segretario fiorentino,
perdura nella tradizione culturale britannica sino al Novecento; basti un cenno a The glimpse of reality
(Uno sprazzo di realtà) di Bernard Shaw. «Tragedietta» da «Rinascimento italiano», ispirata al calcolo,
al “cinismo”, tramata su una duplice minaccia di assassinio, è ambientata dall’autore «nel XV secolo»,
in «Una locanda sulle rive di un lago italiano», locanda che sembra arieggiare il luogo scenico del
verdiano Rigoletto. Riprendiamo solo uno squarcio di dialogo: «Ferruccio: | […] Il tuo sangue è
realmente nobile? || Giulia: È rosso, signor mio, come il sangue del Cristo che sta in chiesa. Non so
se il vostro è diverso. Lo vedrò quando mio padre vi ammazzerà»; si cfr. G.B. Shaw, Uno sprazzo di
realtà (1909), in Id., Ginevra. Uno sprazzo di realtà. Perchè lei non volle (Geneva, The glimpse of reality,
Why she would not), trad. di P. Ojetti, Milano, Mondadori («Biblioteca Moderna Mondadori», n. 630),
1960, p. 191.
4 Qualche ulteriore cenno di bibliografia lampedusiana: Il Gattopardo, Milano, Feltrinelli, nuova
edizione riveduta sul manoscritto a cura di G. Lanza Tomasi, Milano, Feltrinelli, 2002 (i ed.: ivi,
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Tomasi di Lampedusa: le «Lezioni su Stendhal» e la divina fusione narrativa
Scritte nei primi mesi del 1955, e cominciate quindi poco dopo la stesura
del romanzo (il cui inizio risale all’autunno del 1954), le Lezioni su Stendhal
si intrecciano con la concezione formale che presiede alla stesura gattopardesca e con lo spirito ideologico del «gran signore» (definizione di Montale) che
immette la propria autorevolezza aristocratica nella struttura dell’opera. Le
Lezioni, preziosa componente della francesistica lampedusiana, non costituiscono soltanto un significativo referto documentale del forte e serio interesse
per le letterature straniere, ma si connettono all’ispirazione romanzesca,
ora anticipandone alcuni tratti problematici, ora invece presupponendoli5.
A proposito della “priorità” gattopardesca riguardo alla linea ispirativa fondamentale delle Lezioni, il finale dello stesso Stendhal è altamente rivelatore
del ribaltamento funzionale di ruoli tra Le rouge et le noir e La Chartreuse6:
[…] inutile rinfacciarmi, eventualmente, la preferenza che un anno fa davo
al Rouge et Noir in confronto della Chartreuse. / È vero che lo ho detto; è vero pure
che ho cambiato idea. Le mie insopprimibili tendenze storiografiche mi avevano
fatto velo: come documento artistico di un’epoca storica il Rouge et Noir vale di più.
Dal punto di vista lirico, artistico, umano la Chartreuse primeggia. / Scritto da un
anziano per degli anziani, bisogna aver superato i quaranta anni per capirlo; allora
si vede che esso, spoglio di illusioni anche artistiche, quasi spoglio di aggettivi,
nostalgico, ironico, composto e soave, è il vertice della narrativa mondiale.
1958); Invito alle Lettere francesi del Cinquecento, Milano, Feltrinelli, 1979; Opere, a cura di N. Polo,
introduzione e premessa di G. Lanza Tomasi, Milano, Mondadori, 1995 (nuova edizione aumentata:
ivi, 2004); J. Trebesch, Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Leben und Werk des letzten Gattopardo, Berlin, nora, 2012. Sulle pagine stendhaliane, cfr. R. Fichera, “«Opus» signorile”. Giuseppe Tomasi di
Lampedusa lettore di Stendhal, in «Otto / Novecento», xxxvii, 2 (maggio-agosto 2013), pp. 139-150.
5 Un esempio del primo caso può essere rappresentato, sul piano del puro rilievo lessicale, dall’utilizzo dell’aggettivo «letèa», presente a proposito della capigliatura della bella Angelica nella celebre
scena del ballo gattopardesco, ma adoperato, con ogni probabilità, appunto, in anticipo, nelle Lezioni
(«cigni aggraziati che solcano la corrente letèa»: p. 40), come indicazione della divina “calma”, dell’atarassia che a parere di Tomasi pervadono, ad onta dei drammatici eventi della narrazione, l’intera cifra
stilistica della Chartreuse de Parme; esempi, ancor più numerosi, del secondo caso, possono emergere
da svariati riferimenti testuali del Gattopardo, ma sono, soprattutto, ricavabili dal finale delle Lezioni,
sul quale vedi qui sopra, nel testo.
6 Lezioni su Stendhal, cit., p. 49. Si noti il riferimento all’esiguità delle presenze aggettivali («quasi spoglio di aggettivi»), meta stilistica lampedusiana, potenziale e nel contempo irraggiungibile in
quanto estranea agli orizzonti di scrittura d’un autore che, sin dagli esordi elzeviristici 1922-1924
nel «Giornale di Sicilia», si segnala per l’«aggettivite» (come la definisce Vitello in Scritti ritrovati,
cit., pp. 43 ss.), uno scintillante caleidoscopio di forme che avocano a sé il peso semantico di normale
pertinenza del sostantivo. Sono gli aggettivi, indizio di cifra stilistica incondita, a garantire i «riflessi
di fuoco» che la volontà autoriale comunica alla pagina; di segno inverso rispetto a quelli dannunziani
(satireggiati dal mineolo Capuana nel racconto del Decameroncino intitolato appunto L’aggettivo), essi
rivelano profondità di coinvolgimento personale nelle idee e nei contenuti espressi, in piena coerenza
con una sontuosa sensibilità di concezioni storiche e d’intimi riflessi sentimentali. Quella di Tomasi è
insomma una vision du monde sincera ed emozionalmente sentita, condizione necessaria d’un’appassionata libertà di cartacea avventura.
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Molto più significativo e rappresentativo sul piano della storia Le rouge
et le noir, è invece la Chartreuse a dominare sul piano propriamente letterario come testo fondamentale e imprescindibile, mentre su altro, collegato
piano, si svolge il percorso di progressive, sofferte acquisizioni compositive,
stilistiche e ideologiche del Lampedusa romanziere; la calma “atarassica”, la
superiore serenità, l’immagine della narrazione stendhaliana come un’acqua
fluente e pura, non turbata dagli scogli sommersi, sono, insieme, struttura
costitutiva e metafora-modello di «opus signorile»7, di dominio appunto della
narrazione come riflesso ideologico della visione del nobile, dell’aristocratico
di alto blasone gentilizio, intimorito dalle minacce di moti storici pericolosi,
di momenti di crisi della società umana, e prima ancora “non persuaso” della
validità di tali sommovimenti8:
La Chartreuse ribocca di drammi, ma a me appaiono come scogli sommersi
sotto una forte ma quieta corrente di acqua pura che da essi non è turbata. Per me
essa è il trionfo dell’’atarassia’; i suoi personaggi si muovono in una calma divina,
cigni aggraziati che solcano la corrente letèa.
E, poco prima (pp. 39-40):
[…] pur conoscendo, pur avvedendomi che il racconto della Chartreuse è
fatto di orribili intrighi, di continue paure, di personaggi sinistri (il Duca, Rassi e
forse il conte Mosca), di prigioni incredibilmente feroci, pur sapendo queste cose
e sapendo come esse non siano solo rappresentate ma desunte da una spaventosa
documentabile realtà, io, ripeto, benché il mio intelletto sia a conoscenza di questi
elementi, quando leggo la Chartreuse li dimentico e sono colpito soltanto da una
placidità incomparabile, che reca con sé serenità e calma. […], in quanto a me,
Stendhal ha fallito il colpo: voleva dipingere l’Inferno, ha creato il più adorabile
Purgatorio dantesco.
Un riesame delle Lezioni stendhaliane permette, peraltro, di constatare in
quelle pagine un’autentica panoramica storico-critica sullo scrittore, tale da
mantenere in vigore, al massimo grado, l’altissimo concetto che Tomasi ha
sempre avuto, e che mantiene, del Rosso e il nero; la personale cifra saggistica
lampedusiana, come il suo “taglio” decisamente lontano da ogni accademismo, non sono certo fattore d’ostacolo a una considerazione globale dell’arte
di Henri Beyle, al punto che se la lettura si arrestasse allo Stendhal 1830,
data del Rosso e nero, risulterebbe ardua la previsione di quel “ribaltamento”
critico a favore della Chartreuse (1839) che in realtà interviene solo negli
7 Cfr., su questi concetti, R. Fichera, “«Opus» signorile”, cit., pp. 140-141.
8 Lezioni su Stendhal, cit., p. 40.
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Tomasi di Lampedusa: le «Lezioni su Stendhal» e la divina fusione narrativa
ultimi tre capoversi dell’ultima pagina, senza veramente sminuire, nonostante l’evidenza della collocazione finale, la notevole serie di rilievi critici sul
romanzo del 1830 e sul personaggio di Julien Sorel.
I protagonisti dei due romanzi sono, intanto, ciascuno a proprio titolo,
rappresentativi della personalità dell’autore (p. 4): «Nel suo Julien Sorel
Stendhal ha espresso sé stesso, quale realmente era, con i suoi ambiziosi
desideri. In Fabrizio del Dongo ha conferito vita reale, invece, all’uomo che
avrebbe voluto essere, all’uomo nobile, ricco, amato, che egli non fu»; via
maestra alla rappresentazione narrativa, lo «stile», esplicitamente nominato e
reso oggetto di paragrafi mirati, compare sin dalle prime pagine della trattazione lampedusiana di Stendhal, per poi venire partitamente ripreso sul
piano delle singole opere in una stillante ricaduta di osservazioni e di rilievi
tecnici e critici. Il rilievo fondamentale è costituito dalla brevità e dalla fluidità d’una scrittura che esprime in grado sommo una «mirabile rapidità»,
un «metodo sincopativo» che nasce dal «disprezzo ‘pour les phrases’» e dalla
«scarsa stima», come sottolinea Tomasi in riferimento alle lettere e al Journal,
«nella quale teneva i poeti, anche i più illustri» (p. 9): «‘Mon idéal de style est
celui du Code Civil’». Se si pensa all’«aggettivite» che caratterizza9, quanto
meno, gli esordi, i primi movimenti della scrittura lampedusiana, risulta
singolarmente significativo (ibidem) il riconoscimento d’una «Sobrietà miracolosa che raggiunge il più elevato effetto artistico»; e riguardo al sospirato
coronamento di «innumerevoli prove e intrighi», che hanno consentito l’ingresso di Fabrizio nella camera di Clelia, l’autore del Gattopardo soggiunge:
«Pensate quali universi di aggettivi avrebbe posto in moto Hugo», al posto
delle «cinque parole» dell’autore della Chartreuse («Aucune résistance ne fut
opposée»)10. Importanti notti d’amore, significati delle camere da letto che
9 Cfr. qui sopra, n. 6.
10 A proposito di Vanina Vanini, scritto nel 1826 e rimasto per molti anni nel cassetto, per essere
poi pubblicato nelle Chroniques italiennes, si veda, nelle stesse Lezioni su Stendhal (p. 22), un simile
passaggio comparativo, in questo caso concernente Balzac: «Non vi è un rigo che non sia indispensabile al tema; la satira sociale, l’ammirazione per la passione, il culto della personalità, la miracolosa
pittura del tempo e dell’ambiente, tutto è stato reso in un numero di pagine che a Balzac sarebbe
bastato appena per descrivere il guardaportone di casa Vanini». Ha rango sociale opposto (da vicolo
popolare) a quello della stendhaliana princesse Vanina Vanini il personaggio lirico di Vanina di Les rues
de Naples di André Frenaud (Naples-Paris, septembre-octobre 1959), con la finale figura femminile
di donna italiana che, nella sua incarnata fusione di miseria e di bellezza, fa registrare la sua presenza
nella letteratura francese; il testo, se letto in italiano, fruisce della bellissima traduzione di Giorgio
Caproni: «Pour parer la misére la beauté déchirante nue | descend dans les ruelles, dans les fourreau
du corps précieux, | l’oeil mince et glauque de la siréne sous la chevelure, | détresse au coeur, de haut
parage, secrète | Vanina que n’entanche pas la chanson triste» − «Per ornar la miseria la bellezza straziante nuda | scende pei vichi nella guaina del corpo prezioso, | l’occhio fine e glauco di sirena sotto
la capigliatura, | una fitta al cuore, d’alto loco, segreta | Vanina non contaminata dalla canzone triste»
(cfr., appunto, A. Frenaud, Les rues de Naples, in G. Caproni, Quaderno di traduzioni, a cura di E.
Testa, prefazione di P.V. Mengaldo, Torino, Einaudi [«Collezione di poesia», 274], 1998, pp. 140-141.
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vanno anche «oltre l’amore», possono essere riassunti in un punto e virgola,
come, in questo caso, nel Rosso, a proposito di Julien («La vertu de Julien fut
égale à son bonheur; il faut que je descende par l’échelle, dit-il à Mathilde,
quand il vit l’aube du jour paraître»). Ma la rapidità del brillante dettato
testuale stendhaliano è aiutata in modo decisivo dalla perdita d’interesse per
i personaggi, proprio per i principali, quando essi hanno condotto a compimento il proprio percorso narrativo; a quel punto, pervenuti artisticamente
alla «‘fine della ricerca’ […] Julien o Fabrizio sono per Stendhal dei morti
inutili», e possono andare tranquillamente incontro alla loro sorte, asciutto
il volto dello scrittore (ibidem; si osservi, in queste prime pagine, ovvero in
questa prima parte delle Lezioni su Stendhal, la perdurante intercambiabilità, per Tomasi, delle figure e dei personaggi di Julien e di Fabrizio, dei due
protagonisti, e si può quindi dire dei due romanzi). Bastino, ad esempio, le
pagine finali del Rouge et noir, dopo che è stata emessa la sentenza di condanna. Efficace, come sempre, la definizione dello stile di Stendhal fornita
da Tomasi (ibidem):
Spoglio di qualsiasi belletto, alieno da ogni parola ricercata, nemico del ritmo
intenzionale, avaro di aggettivi, lo stile di Stendhal è lo stile della prosa settecentesca con la sola differenza che Voltaire, per esempio, intendeva esprimere soltanto
dei ragionamenti, mentre Stendhal, con la medesima economia di mezzi, si propone
di trasmettere al lettore dei sentimenti. / Il suo genio per snellire, per sopprimere le
ridondanze, per ‘restare in tema’, rasenta il prodigio.
La ricognizione dell’opera stendhaliana comprende anche testi meno noti,
seguendo un fondamentale criterio cronologico; non mancano di passare al
vaglio di Lampedusa, ad esempio, prose giovanili, dedicate a varie espressioni artistiche, quali le Vies de Haydn, Mozart et Métastase, come Racine
et Shakespeare (in Croce, il “trittico” sarà Ariosto, Shakespeare e Corneille),
come, soprattutto, la Histoire de la peinture en Italie, e la Vie de Rossini, testi
compresi, tutti, fra il 1814 e il 1823. Ma è con i “libri di viaggio”, «in armonia o in contrasto con la sua personale concezione della felicità», in «perfetta
omogeneità […] con le sue grandi opere di romanzo» (p. 18), che Stendhal
compie un passo decisivo verso la maturità di scrittore; le Promenades dans
Rome, i Mémoirs d’un touriste, e così Rome, Naples et Florence guadagnano
gradualmente una cifra di scrittura che consiste (p. 19), soprattutto nell’ultima prosa citata (Rome, Naples et Florence), nel «genio di eliminazione del
superfluo», in quella «fulminea intuizione psicologica» che si esprime allora
nella forma dell’aneddoto (non nella novella, struttura di prosa estranea, si
può dire, alla penna di Stendhal), ma che già si pone come elemento identificativo di quella che sarà, con «maggior agio» dello scrittore, la «vasta inte84
Tomasi di Lampedusa: le «Lezioni su Stendhal» e la divina fusione narrativa
laiatura del romanzo». Esattamente a proposito di Rome, Naples et Florence,
Lampedusa (ibidem) individua la prima realizzazione della tecnica letteraria
che formerà la chiave stilistica dello Stendhal dei capolavori:
È in Rome, Naples et Florence che per la prima volta incontriamo nella tecnica letteraria di Stendhal quel suo modo di rendere coincidenti le tre persone che
collaborano durante la lettura di un libro: l’autore, il personaggio, il lettore. Il
valore unico dei suoi grandi capolavori scaturirà anche dalla perfezione raggiunta in
questa tecnica, e se ne dovrà parlare a lungo. Per adesso basti dire che essa è (come
tutto ciò che sia valido) un frutto di rinunzie, con l’eliminazione, per esempio, di
qualsiasi vocabolo troppo significativo o sontuoso che talvolta può render bella la
pagina ma che di colpo pone il lettore al di fuori dell’azione, nella posizione di chi
contempli un quadro.
Rimane un passo indietro rispetto allo status di capolavoro anche il
celebre De l’amour; i disiecta membra che caratterizzano la narrazione, la
serie di “mancate promesse” quanto alla compiutezza dell’“inventario” di
casistica amoroso-passionale, il procedere per «aneddoti acutissimi» che
non per questo giungono alla «fusione» tanto ammirata in altre prose, non
consentono al francesista di allineare in modo compiuto il “trattato” stendhaliano alla linea grande di una scrittura che, mentre sembra concedere
un “programma” di articolato svolgimento, risente, in realtà, della sottile
lama d’un vissuto che risulta personalmente dominato, ma anche sofferto. Di quattro «sottospecie di amori» (l’«amour-goût», l’«amour-caprice»,
l’«amour-vanité» e l’«amour-passion»), Stendhal (p. 21) «si mette a parlare
soltanto di una di queste varietà»; e, «dopo aver distinto con incomparabile
acume sette momenti dell’‘amour-passion’, non ci parla che del quinto e del
settimo (le famose ‘cristallizzazioni’)». Ma appare certo (p. 22) che «In De
l’amour, opera per tanti versi fallita, incomincia ad atteggiarsi lo Stendhal
narratore»11.
11 Non possono, in effetti, essere in alcun modo trascurate pagine come quelle dedicate alla peculiarità e all’unicità della ricezione dell’amore nella donna, e quindi dedicate, con uguale acutezza,
alla sensibilità femminile (sono proprio le pagine che splendono del concetto de «la seconde cristallisation»); non meno brillanti d’intelligenza letteraria e psicologica sono i passi nei quali viene pósta in
salutare ribaltamento critico e sentimentale l’etica del moralismo matrimoniale, in nome della verità
passionale e innocente, naturale e lineare (pur se talvolta «malgré soi») dell’amore adulterino, dell’amore, a Dio piacendo, “degli amanti”: «Comme l’amour fait douter des choses le plus démontrées,
cette femme qui, avant l’intimité, était si sûre que son amant est un homme au-dessus du vulgaire,
aussitôt qu’elle croit n’avoir plus rien à lui refuser, tremble qu’il n’ait cherché qu’à mettre une femme
de plus sur sa liste. | Alors seulement paraît la seconde cristallisation qui, parce que la crainte l’accompagne, est de beaucoup la plus forte. | Une femme croit du reine s’être faite esclave. Cet état de l’âme
et de l’esprit est aidé par l’ivresse nerveuse que font naître des plaisirs d’autant plus sensibles qu’ils sont
plus rares […]. Je croirais donc que la seconde cristallisation est beaucoup plus forte chez le femmes
parce que la crainte est plus vive: la vanité, l’honneur sont compromis, du moins les distractions sont-
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Si venga alla napoleonica «Heure des cuirassiers», espressione bonapartiana che Lampedusa riprende a proposito di uno Stendhal ormai pronto a
“sferrare” «le cariche dei suoi» corazzieri con la Rivoluzione di luglio, con
quella «Monarchie de Juillet» del 1830 che vide il liberale, il repubblicano,
il bonapartista e l’anticlericale più in sintonia con la realtà politica francese:
quella stessa monarchia di luglio che portò al potere, ad esempio, Thiers,
«maledettamente» simile «a un Julien Sorel che si fosse astenuto dalle
ultime pistolettate» (p. 26). La vera “carica” dell’autore è in quell’anno il
suo romanzo, Le rouge et le noir. Singolarmente utile, e importante, è la
messa a punto delle risorse tecniche, peculiarmente letterarie e narrative,
delle «rotelle del meccanismo» interno alla prosa, che permettono all’arte
dei romanzieri la comunicazione nel circuito scrittore-personaggi-lettori; si
affronterà, soprattutto, il «modo di esprimere il tempo, di concretizzare la
narrazione, di evocare l’ambiente, di trattare il dialogo» (p. 27). Dapprima,
nel trattare «la quistione del tempo», Tomasi si sofferma sui «rallentamenti
nel ritmo della narrazione», sull’«illusione», che «occorre dare al lettore»,
«che degli anni sono trascorsi durante il paio di giornate impiegate a leggere il libro»; maestro mirabile dell’«arte di rallentare» e in genere di tale
tipologia di ritmo narrativo è Tolstoj, di cui l’autore del Gattopardo ricorda
la resa dei dieci anni della durata di Guerra e pace, e «il trascorrere lento
dei mesi che hanno portato al disfacimento dell’amore» in Anna Karenina.
Sono risultati che il grande narratore non ottiene con indizi numerici «da
orario delle ferrovie» (p. 28), bensì «mediante impercettibili colpi che colpiscono il pre-conscio»; questi, e ancor più raffinati metodi, devono essere
posti in atto «di sfuggita e quasi di nascosto, perché in questo caso il modo
di far ricordare coincide con il modo di non far notare». Ma esiste, è ovvio,
anche il metodo opposto, «quello dell’accelerazione», ottenuto con la stessa
tecnica, benché, inevitabilmente, «rovesciata»: «Questa della modulazione
del tempo è la qualità principale (non la sola, si capisce) di ogni grande
romanziere o poeta epico». Quindi, non può stupire se «Dalla fusione di
questi due sistemi il romanziere (o il poeta epico, o il poeta drammatico)
viene a risultare come padrone del tempo»12; il problema stendhaliano del
elles plus difficiles […]. Il est beaucoup contre la pudeur de se mettre au lit avec un homme qu’on n’a
vu que deux fois, après trois mots latins dits à l’église, que de céder malgré soi à un homme qu’on
adore depuis deux ans» (cfr. Stendhal - H. Beyle, De l’amour, Paris, Colin, 1959, rispettivamente
chap. vii: Des différences entre la naissance de l’amour dans les deux sexes, pp. 53-54, e chap. xxi: De la
première vue, p. 80).
12 Sul concetto rappresentato dalla padronanza del tempo, cfr. R. Luperini, Il “gran signore” e il
dominio della temporalità. Saggio su Tomasi di Lampedusa, in Id., Controtempo. Critica e letteratura fra
moderno e postmoderno: proposte, polemiche e bilanci di fine secolo, Napoli, Liguori, 1999, p. 136, opportunamente richiamato da R. Fichera, “«Opus» signorile”, cit., p. 143 n.: «Il pieno possesso del tempo,
interdetto alle persone comuni, diventa marchio di distinzione, insieme, dei nobili e degli scrittori».
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Tomasi di Lampedusa: le «Lezioni su Stendhal» e la divina fusione narrativa
romanzo di Julien Sorel sarà in effetti quello inverso rispetto al problema
postosi a Tolstoj, ovvero sarà il problema della resa ritmico-strutturale dell’«accelerazione» (p. 29):
In esso [in «Le rouge et le noir»] il modo di creare il tempo è uno dei più splendenti della letteratura (né inferiore sarà quello adoperato nella Chartreuse). Non vi
è il rallentamento di Guerra e pace; anzi una accelerazione costante. La durata delle
azioni veramente narrate è minore del tempo di lettura, e da ciò deriva la necessità
di spronare l’espressione la quale si svolge davvero come un galoppo di cavalli veri.
Stendhal ha dovuto sacrificare molte cose a questa necessità temporale: abbiamo
perduto alcune preziose e forse necessarie pagine d’introspezione; ma ogni cosa vien
ricompensata dalla magnificenza del ritmo. Tutto il libro procede diritto e rapido
come una freccia. E non vi è che un solo ‘ritorno all’indietro’.
La stessa linea d’analisi prosegue riguardo al problema del “narratore”,
oggetto di alcune considerazioni da parte di Lampedusa. Gli «scrupoli» inerenti alla legittimità di penetrazione nel mondo sentimentale e intellettuale
dei personaggi sono stati, nella storia letteraria, risolti con il ricorso a svariate
modalità di protocollo enunciativo: dalla prosa epistolare (esposta al rischio
di rallentamenti e di divagazioni) al racconto in prima persona (che può essere di grande riuscita, ma è circoscritto al singolo personaggio, al limite individuale della solitaria voce emittente), alla narrazione en je che si protende
alla cattura conoscitiva del pensiero altrui, nel bilico marcato dalle differenti
capacità d’autore, fra gli estremi dello chef-d’œuvre da genio proustiano da
un lato, e, dall’altro, del possibile slittamento nel ridicolo:
Stendhal scelse la via più breve e più orgogliosa: quella che, per semplificare,
può definirsi il metodo di far narrare la storia da Dio. Stendhal in veste di divinità,
conosce i più riposti pensieri del personaggio, li addita al lettore che fa partecipe
della propria onniveggenza, non lascia nulla in ombra se non ciò che non vuole
esprimere per ottenere un raddoppiamento dell’emozione13.
L’esito dell’operazione tecnica (ma anche ideologica) stendhaliana, nella
lettura di Lampedusa francesista, «è la completa fusione dell’autore, del
personaggio e del lettore. Questi non è più un estraneo che contempla
l’azione ma quasi sempre uno degli attori della azione stessa»14. Appare,
13 Sulla «divinità» di Stendhal, cfr. R. Fichera, “«Opus» signorile”, cit., pp. 141-142.
14 Lezioni su Stendhal, cit., p. 30; si cfr. pure R. Fichera, “«Opus» signorile”, cit., pp. 143-144: «[…]
tale “fusione”, con questi spiccati tratti divinizzanti, può essere intesa come un modo peculiare di
dominare il lettore, attraverso la creazione di un preciso modello catartico di fruizione artistica. | […]
l’idea della “fusione” artistica divinizzante non è altro che il corrispettivo formale di quella pacatezza
olimpica e di quella trasognata “atarassia” che Tomasi attribuisce alla trama e ai personaggi della Cer-
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qui, almeno in parte, precocemente ribaltato uno dei principi, e uno dei
caratteri, della moderna estetica del “distacco” che si realizza criticamente
fra il testo e i lettori, e spesso anche tra il testo (con le sue vicende, con i
suoi personaggi) e lo stesso autore, a patto di considerare quale imprescindibile componente d’intelaiatura romanzesca esattamente l’ottica “interna”
ai personaggi stessi, la cui titolarità di gestione dell’ordito di trama può
essere breve, se non addirittura fulminea negli scorci temporali, ma è tale da
porsi, in una prosa in cui nulla si spreca e in cui non vi è sbavatura alcuna,
come elemento del tutto essenziale al procedere e alla caratterizzazione del
racconto e delle sue vicende. Volta a volta, come dice lo stesso Tomasi (p.
30), Julien, Mathilde, M. de Rênal, l’abbé Pirard, M. de la Môle, Kosarov
divengono «il centro di osservazione»; e in un’opera che, oltre che «effusione lirica» e «analisi psicologica», è «pittura del tempo» e “incalzare dei
fatti”, il metodo principe di narrazione, quel «‘monologo interiore’» che in
Proust, in Joyce e nella Woolf, da «mezzo di espressione» si muterà «in fine»
(pp. 30-31), risulta invece «usato da Stendhal con la più classica misura»;
e mentre i fattori costituiti dalla «pittura del tempo» e dall’“incalzare dei
fatti” non sembreranno davvero necessari, secondo Lampedusa, nella citata
triade novecentesca, la «concentrazione dei monologhi interiori» deriva in
Stendhal proprio da quella «necessità di azione» che preserva la prosa del
romanziere dagli «sforzi», pur «magnifici», di «concentrazione verbale» in
modalità joyciana (sotto osservazione di Tomasi è l’Ulysses), per rivolgerli
piuttosto «a ottenere una concentrazione sostanziale dei momenti psicologici». Di ognuno di questi momenti «egli ha salvato soltanto ciò che era
essenziale e soltanto in seguito lo ha sottoposto alla distillazione del suo
stile, uno dei più svelti che esistano. I ‘monologhi interiori’ dei personaggi
sono brevissimi: qualche rigo». È proprio la struttura romanzesca nelle sue
vaste intelaiature e nei suoi orditi complessi a dettare a Stendhal uno degli
stili «più svelti che esistano».
Importante anche la serie di cenni al carattere non descrittivo d’una prosa
che non nasce all’insegna della «minuzia» e della «meticolosità» (p. 32) di
un Balzac. Stendhal, non descrittore, accenna con accorte prolessi15 narrative, con “tocchi” sapienti d’atmosfera, agli ambienti in cui si svolgeranno
le azioni, senza indulgere poi a una loro analitica descrizione, e induce così
il lettore a farsene un’immagine mentale, già preparata ai successivi sviluppi
della vicenda. Non vi è ambiente che accolga un passaggio determinante
tosa». Nell’ottica di Fichera, anche questi rilievi critici, in sé attinenti al Rosso e nero, sono traguardabili
alla meta ideologico-artistica del romanzo che ha come protagonista Fabrizio del Dongo.
15 Cfr., in tal senso, anche il Fichera del citato “«Opus» signorile”, pp. 142-144 (il paragrafo Le
prolessi dell’«uomo che sa»).
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della trama senza che il lettore lo abbia in precedenza “visitato”, sia pure
(ed è appunto il dato artistico più qualificante) con il tocco impercettibile
e leggero, ma significativo, di Stendhal. E come avviene nella resa degli
ambienti, come avviene nell’uso tutto peculiare del monologo interiore, così
avviene nella fenomenologia narrativa del dialogo, del così definito “discorso
diretto”; anche i più grandi romanzi possono, secondo il principe francesista
(p. 33), annoverare il difetto «di rivelare l’animo delle persone attraverso ciò
che esse dicono»; e ancora interviene, a sottolineare la magistralità di pagina
di Stendhal quale magnifico cuirassier della penna prosastico-romanzesca,
il medesimo patrimonio di doti artistiche dei «‘monologhi interiori’ […]
brevissimi», in vista dello stile, «uno dei più svelti che esistano»; se Joyce
s’impegnerà nella «concentrazione verbale», da parte sua anche la «rivelazione verbale», la resa in “discorso diretto”, la pretesa di riproduzione della
“voce”, metodo che attraversa i tempi della storia della letteratura e della
riflessione sull’estetica, mostra in realtà i propri non veniali limiti, sino quasi
all’induzione d’un sospetto d’inesistenza, non della “verbalità”, ovviamente,
ma della “rivelazione”, del suo reale valore e della sua reale virtualità comunicativa (pp. 33-34):
Questa rivelazione verbale è infatti quasi assente dalla vita reale: il carattere
della gente noi lo comprendiamo di massima attraverso le loro azioni, i loro sguardi,
i loro balbettii, l’aggrovigliamento delle loro dita, i loro silenzi o la loro subitanea
loquela, il colore delle loro guance, il ritmo del loro passo: quasi mai attraverso i
loro discorsi che sono sempre maschere pudiche o sfacciate della loro interiorità.
Questo ha inteso alla perfezione Stendhal: non vi è di lui alcun brano di dialogo
famoso. I personaggi principali sono quelli le cui parole sono meno direttamente
riferite […]. Il dialogo non soltanto è espresso in questo modo magistrale, che fonde
in unico contesto l’elocuzione ed il commento psicologico ad essa, ma, come ho di
già detto, è maggiormente reso essenziale dalle indicazioni di gesti, di attitudini,
di tono.
La linea di “lezione” di Lampedusa, dopo aver dato un più che doveroso
cenno (pp. 36-38) dei Mémoires d’un touriste e delle Chroniques italiennes,
affronta la Chartreuse come coronamento di tutta l’elaborazione saggistica
precedente, potendo contare su una serie di premesse che gli permettono
(p. 43) «di fare a meno di una disamina minuta della Chartreuse»: scelta
profondamente stendhaliana, simile alla sordina sulle parole dei personaggi
principali, che sono quelle «meno direttamente riferite». Non rimane, in
effetti, che dettagliare in modalità esemplificativa (ma si tratta d’esempi da
romanziere in atto, che sta scrivendo con l’altra mano il suo Gattopardo) la
leggerezza dell’atmosfera da «après-midi», la levità acrobatica e ballerina di
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un Fabrizio-Nijinski, la mirabile resa d’un universo di passioni, di ambizioni,
di genialità e di crimini assunti nell’ottica d’«un simpatico signorino nobile,
noncurante, voluttuoso, tiepidamente sentimentale, dei primi dell’Ottocento» (ibidem); dramma e passioni nascosti dalla leggerezza, da una magica
bolla d’atarassia stilistica e sentimentale, in uno strenuo sforzo di fedele
adesione e di compenetrazione nel proprio personaggio (p. 43); e l’autore
simultaneo del Gattopardo è in stato di inquieta ammirazione:
[…] la vertiginosa evasione di Fabrizio evoca in me solo ammirazione per
l’acrobata e il ballerino perfetto: per me Fabrizio allora è una specie di Nijinski;
foggiatore di belle attitudini. E le pene, i rimorsi, gl’intrighi della Sanseverina
sono interamente sommersi nella sua materna bellezza e nel sorriso dolcissimo; il
conte Mosca è un adorabile gentiluomo disinteressato e spiritoso. Per me, il trionfo
maggiore dell’arte di Stendhal, di questo adoratore della passione prepotente, è
appunto questo: di esser riuscito a chiudere la sua opera con questo capolavoro
nel quale la passione è nascosta e nel quale, invece dello spietato sole meridiano di
Vanina Vanini e di Rouge et Noir brilla ‘la doucer étrange de cet après-midi qui n’a
jamais de fin’.
Il personale resoconto16 sulla Chartreuse può così proseguire con la sottolineatura della «leggera ironia sparsa su tutto» (p. 41); si assume ad esempio
la fine del XIII capitolo della prima parte («Neppure in dieci pagine dei
Mystères de Paris ci sono altrettante violenze. Eppure io non ho paura, non
provo ribrezzo, anzi sento scendere in me una calma ‘qui tient plus du ciel
que de l’enfer’»); «in un romanzo che vuol esser tragico ed ‘accusatore’», «l’andatura leggiadra» che prende la narrazione, anche di «fatti violenti» (ibid.),
deriva da
una ragione assai semplice: perché i fatti non intendono esser narrati come
sono ma come appaiono al temperamento frivolo, ma nello stesso tempo coraggioso
e ‘strafottente’ di Fabrizio, temperamento di ‘uomo di società’ che riduce al proprio
livello il mondo esteriore […]. Questo modo di narrare è di una difficoltà prodigiosa: l’autore deve restare sempre nella pelle del suo protagonista; e poiché il mondo
è visto tutto intero attraverso gli occhi di questi, anche il lettore contempla tutto
attraverso quella mente smagata, simpatica, accomodante, signorile e non troppo
intelligente […]. E il lettore è trascinato nel supremo piacere di levità e di spettacolo
che effettivamente il mondo fu per Fabrizio del Dongo.
L’indicazione che su queste basi Lampedusa dà al lettore (estrema significazione di contenuti espressa in mirabile leggerezza di stile e di scrittura)
16 Si ricordi il concetto di consapevole “faziosità” critica («non me importa niente») di Tomasi nella
lettura della Chartreuse, secondo quanto emerge dal citato Fichera di “«Opus» signorile”, pp. 139 e 144.
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mostra consapevolezza della novità, dell’originalità della propria fruizione
stendhaliana: «Tenete presente questo assioma e la lettura della Chartreuse vi
recherà nuove, più deliziose e credo più autentiche voluttà spirituali». L’aggancio con la propria contemporaneità non solamente di lettore, ma anche di
romanziere, e quindi di autore del Gattopardo, in questo passaggio, prossimo
al finale delle Lezioni, emerge in modo più aperto e palese (p. 43):
Il prodigio operato da Stendhal consiste nell’aver trasfuso il lettore del 1938
(e del 1955) nell’anima di un simpatico signorino nobile, noncurante, voluttuoso,
tiepidamente sentimentale, dei primi dell’Ottocento, e di avergli fatto capire la
Paura della Contro-Rivoluzione così come questi poteva capirla.
In tal modo, anche la celebre descrizione della battaglia di Waterloo si
sottrae, nella sua peculiarità narrativa, ai possibili paragoni con la Waterloo
vittorughiana o con i combattimenti tolstojani (ibidem):
La Waterloo di Stendhal è una battaglia come vien percepita appunto da un
Fabrizio cui la felicemente superficiale natura vieta di comprendere le cose gravi,
e percepisce con difficoltà perfino il pericolo. Per lui le granate che cadono non
sono che degli aggeggi noiosi che fanno sprizzare molto fango e possono sporcare
i vestiti.
Ma basta la “doppia prigionia” di Fabrizio a far intravedere una stratificazione in una molteplicità di piani; oltre al «consueto gioco rasserenatore
della mentalità del prigioniero che cambia gli orrori in gioco per sé stesso
ed in calma delizia per il lettore» (p. 44), vi è, da parte dell’autore, di
Marie-Henri Beyle, il piano «spirituale e lirico» della sottrazione «al mondo
comune» della «sua bene-amata controfigura», e vi è quindi anche un «terzo
piano», non distante dalle Affinità elettive, dalle Wahlverwandtschaften di
Goethe, mosso dal medesimo desiderio «di creare un mondo artificiale
e lontano nel quale far muovere i suoi prediletti»: «quelle che sono forse
le più poetiche pagine della prosa francese» nascono «Dal contrappunto
sagacissimo, dalle fusioni e dalle occasionali contrapposizioni di questi tre
temi». Certo, è soprattutto nel primo di quei “piani”, o di quei «temi» («il
consueto gioco rasserenatore»), che si può cogliere l’immagine del blasonato
signore nel pieno dell’impegno compositivo del suo romanzo, un’opera che
è immersa nelle profondità dello spazio e del tempo della Sicilia ctonia, e
che nel contempo trova quasi un movimento genetico nelle grandi letterature straniere europee, in una corrispondenza di identità letteraria che vede
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un rassegnato, gattopardesco Giove, o anche un fulvo leone17 dei soffitti
principeschi, incombere tra passione e sorriso, proprio dalle vòlte gentilizie
lampedusiane, sullo stendhaliano «vertice della narrativa mondiale».
17 Cfr., per questi temi e per queste atmosfere, il citato S.S. Nigro di Il Principe fulvo. Sugli ampi
spazi narrativi che in ogni caso si aprono, nella prosa stendhaliana, a fremiti di lirismo sentimentale
e soggettivo, alla ricognizione di stati d’animo e di reattività emotive individuali, allo scrutinio di
sensazioni lirico-paesistiche risorgenti e non dominate, si veda, a mero esempio, un passo dalla Vie de
Henry Brulard; il passo, si badi bene, è tratto dal chapitre 39, che è stato scritto, come ricorda (p. 332)
anche Henri Martineau (curatore del volume della «Pléiade»), «à Rome les 5 et 7 février 1836 et à Civitavecchia le 29 février», quindi piuttosto vicino alla temperie spirituale e scrittoria della Chartreuse; il
brano comprende fra i suoi passaggi qualificanti la scissione finale dalla «sagacité» («La sagacité qui n’a
jamais été mon fort me manquait tout à fait»): «N’avoir pas de montagnes perdait absolument Paris à
mes yeux. | Avoir dans les jardins des arbres taillés l’achevait. | Toutefois, ce qui me fait plaisir à distinguer aujourdu’hui (en 1836), je n’étais pas injuste pour le beau vert de ces arbres. | Je sentais, bien plus
que je ne me le disait nettement: leur forme est pitoyable, mais quelle verdure délicieuse et formant
masse avec de charmants labyrinthes où l’imagination se promène! Ce dernier détail est d’aujourd’hui.
Je sentais alors sans trop distinguer les causes. La sagacité qui n’a jamais été mon fort me manquait
tout à fait»; cfr. Stendhal, Vie de Henry Brulard, in Id., Œuvres intimes, texte établi et annoté par H.
Martineau, Paris, Gallimard («Bibliothèque de la Pléiade», n. 109), 1966, p. 340.
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abstract
Hillitam reius. Imincte dicia dolore dellaut expeliatur aut ea quis et autatemo venet
eossit aut amusciis nam restrup taturis dem numqui sum quam, conecessenda
ducium fuga. At eaquae dis non cus estiusdant.
Lestint iatur, vellace rumqui cumquisquas ex eaquam comniet eosanim quibus il
expererumet volent re derrovit quam quaepedis ea quia si sitist poriand endignihil
ius de nonsequam fuga. Met re, quiae. Acienim inctur aligeniae pre sollaut laborro
debit aritas a comnis alibus, offic tetur rendam dolupta consequatque pa doluptasim fuga. Ximus ium, tes nem numqui dolessitat.
Rum reperuptati nobis et apiciendis que se recum velis rererci psundi quatempos
dolecte moluptati ditiur, omnimagnatum id moluptas accate eos aut fuga. Ut rat
rem as et liquasinus everovitiam rem hiligent, suntur saperro occum sint, con rem
quatusam ut odipidem non cus, iniendamet, od ullorerum ium hilit rereriberis ipiet
aut explibus nest, odisimpedit repreni hitint odis coris et, optatibus modi idellit,
officia a sinimus porum, sae dolorerum eatus iduntur? Axim facearitas commolu
ptiissequis conem quam apicipi ciatusa pelicae cuptam faces quid molendis nonseri
siment, volo di optatiam rera s
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