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Scritture e riscritture bandelliane

2019

La nota dichiarazione di Bandello che le sue novelle non sono «fabule, ma vere istorie» ha una varia e articolata declinazione nell’ambito finzionale del Novelliere, nel quale non di rado emergono, con un ruolo tutt’altro che privo di significato, racconti che per ambiti, fatti e personaggi hanno una riconoscibile o pretesa corrispondenza a materia e fonti di matrice storiografica. E questo il caso delle due novelle prescelte come oggetto di analisi, per sondare modalita di scrittura e riscrittura messe in atto in tale prospettiva dall’autore: la novella incipitaria dell’intera opera I, 1, di cui sono fonte le Istorie machiavelliane, e la II, 37, di particolare interesse per la complessa e peculiare struttura, in cui sono tra loro contaminate vicende appartenenti a tempi storici differenti.The development and meaning of Bandello’s famous assertion – that his short stories are not fiction but true history – are varied and rich. In the literary and fictional world that he depicts with...

View metadata, citation and similar papers at core.ac.uk brought to you by CORE provided by AIR Universita degli studi di Milano SCRITTURE E RISCRITTURE BANDELLIANE L a programmatica libertà nella disposizione e nelle tematiche del Novelliere di Bandello, secondo la nota dichiarazione della dedicatoria della terza parte per la quale esse rappresentano «una mistura d’accidenti diversi, diversamente e in diversi luoghi e tempi a diverse persone avvenuti e senza ordine veruno recitati»,1 non preclude al «candido e umanissimo lettore», piú volte evocato, sia di metterne alla prova la piú o meno presunta casualità sia di ritrovare nel complesso e variato gioco – di tematiche, intrecci e sperimentazioni – ricorrenze ed elementi comuni, che fanno affiorare fili e collegamenti, ora prossimi ora a distanza, entro la tramatura della raccolta. Nelle tre parti messe a stampa dall’autore (mentre la quarta e ultima è, come noto, postuma), è possibile rilevare la funzione in senso lato strutturale deputata al versante milanese, vero e proprio polo di irradiazione del Novelliere:2 come messo in rilievo anche dalle novelle incipitarie,3 nelle quali l’elemento comune è la collocazione e l’occasione del racconto – e dunque anche il ruolo ad esso conferito – entro l’ambito del circolo eletto delle conversazioni e dei diporti milanesi. Ci si potrebbe interrogare se a tali novelle l’autore devolva una particolare funzione anche relativa alla sua ars narrandi: come “storico” in I, 1, a gara con Machiavelli; come emulo e concorrente del Boccaccio e della calandrinesca novella del «porco imbolato» (Decameron VIII, 5)4 in quella del furto del Bandello, La terza parte de le novelle (Maestri): 7. Nelle successive citazioni i volumi relativi alle quattro parti in cui è suddivisa l’opera, quando il titolo non è riportato per esteso, sono indicati in numeri romani. Il numero di pagina, se coincidente, non è ripetuto. 2 Cabrini 2017: 213-24. Per riferimenti bibliografici relativi all’autore e alla scrittura dell’opera cf. ibi: 215, n. 6 e i relativi rimandi; cf. inoltre Carapezza 2012: 287-92 e Carapezza 2017: 190-4; 202-5. 3 Non nell’edizione della quarta parte, dove tale ricorrenza scala invece alla seconda posizione, dato il ruolo spettante, al primo posto, alla novella che narra l’inaudito omicidio del lucchese Simone Turchi: novella che l’autore nella dedica ai «candidi lettori» dichiara essere stata «pretermessa di stamparsi» nella terza parte a cui era destinata, appunto a Lucca, dove erano state pubblicate tutte e tre le parti delle novelle, a causa della pressione fatta dai parenti dell’omicida (Bandello, La quarta parte de le novelle [Maestri]: 7). 4 Boccaccio, Decameron (Branca): 29. 1 Carte Romanze 7/1 (2019): 255-81 – ISSN 2282-7447 http://riviste.unimi.it/index.php/carteromanze/index 256 Carte Romanze 7/1 (2019) castrone in II, 1, in cui anche il linguaggio del contado milanese ha una parte peculiare; come esperto conoscitore e riscrittore, in un’unica novella, di piú temi novellistici e piú autori in III, 1.5 Comunque stiano le cose, è indiscutibile la massima evidenza che l’autore ha voluto conferire alla scelta di un racconto “storico” come oggetto della novella per eccellenza incipitaria, la prima della prima parte. Nell’ambito del ruolo inaugurale che spetta alla prima lettera dedicatoria a Ippolita Sforza Bentivoglio, in cui si mostra e definisce il circuito discorsivo dell’eletta compagnia che si raccoglie nella casa milanese dell’illustre patrona «perciò che sempre ne la brigata che vi concorre v'è alcun bello e dilettevole ragionamento degli accidenti che a la giornata accadeno»,6 con una notazione autobiografica («sovragiungendo io») l’autore-narratore si presenta come partecipe di una situazione in corso di svolgimento. Reduce da un delicato incarico affidatogli per negoziare il matrimonio della figlia di Ippolita e Alessandro Bentivoglio con il conte Roberto Sanseverino, figlio di Barbara Gonzaga contessa di Caiazzo, egli pone al centro dei ragionamenti i pareri in cui si soppesano le ragioni politico-diplomatiche che inducono a deliberarne la rinuncia.7 È proprio il discorrere e concludere su di un cruciale fatto del giorno ad introdurre, a specchio e dimostrazione dei rischi insiti nell’avventatezza di un precipitato matrimonio contro le promesse già intercorse, il racconto di «un fierissimo accidente, altre volte a Firenze avvenuto».8 Si pone dunque, in limine, un doppio rapporto fondante, da un lato tra i ragionamenti e la narrazione, dall’altro tra l’attualità degli accadimenti presenti, nel loro manifestarsi, e i fatti avvenuti. Ed è particolarmente significativo che il libro, Bandello coniuga il tema di amore e gelosia con quello dell’inganno e della disavventura, che conduce un vivo ad essere rinchiuso in una tomba o a rischiare di esserlo. Cf. ad es., per lo spunto della cassa in cui è chiuso l’amante per essere portato al sepolcro e sepolto con la donna amata, la prima tra le novelle tradizionalmente attribuite al Sermini, relativa a Vannino e alla Montanina (dove l’inganno non è però subito dall’uomo per l’atroce disegno di gelosia, come nella novella bandelliana, ma è predisposto dalla donna amata, che simula la propria morte, per amore, al fine di liberarsi del marito e ricostruirsi una nuova vita con l’amante); mentre, per il motivo della pericolosa disavventura e dell’inopinata salvezza, cf. Andreuccio nell’arca dell’arcivescovo Filippo Minutolo (Decameron II, 5). 6 Bandello, La Prima parte de le novelle (Maestri): 2. 7 Per evitare che papa Leone X si adirasse con i Bentivoglio, dato che l’arcivescovo Sanseverino, zio di Roberto, «teneva il maneggio di dare al detto suo nipote la sorella del cardinale Cibo». 8 I: 3. 5 A. M. Cabrini – Scritture e riscritture bandelliane 257 che il Bandello dichiara composto, su esortazione della Bentivoglio, con una scelta tra gli «accidenti» che «in diversi luoghi» egli sentiva narrare, avesse preso le mosse dall’occasione sopra ricordata e proprio da questa novella, come ci tiene a sottolineare l’autore, e non da altre raccontate alla presenza della nobildonna. Secondo il modulo finzionale che presiede alla scrittura, il racconto prima svolto oralmente da uno dei gentiluomini presenti, l’ambasciatore fiorentino Lodovico Alamanni, era stato poi debitamente trascritto dall’autore e, nel dono fattone a Ippolita, restituito appunto al contesto da cui aveva tratto origine. La scelta dell’Alamanni non è casuale e crea un particolare gioco prospettico, dal momento che il tempo interno della dedicatoria si colloca tra il febbraio del 1518 e il marzo del 1519, nel periodo in cui l’Alamanni fu a Milano.9 Egli era stato amico e corrispondente di Machiavelli,10 e proprio sulla sua bocca viene messo il racconto dell’uccisione di Buondelmonte Buondelmonti che Bandello, come è noto, riprende dalle Istorie fiorentine dello stesso Machiavelli,11 presentate nel 1525 al papa Clemente VII e uscite a stampa, postume, nel 1532. È come dunque se il racconto orale dell’Alamanni e poi la trascrizione del Bandello («Ond’io, parendomi il caso degno di compassione e di memoria, cosí precisamente com’era stato da l’Alemanni detto, quello scrissi») precedessero e non seguissero le Istorie. Per quanto la novella sia già stata piú volte studiata,12 ritengo che valga la pena di prenderla nuovamente in considerazione e che anzi proprio partendo da questa risulti proficuo cominciare a sondare qualche Se anche lo scrittore non avesse voluto delimitare secondo una stringente corrispondenza storica la presenza dell’Alamanni a Milano, la cronologia interna non ci potrebbe portare molto oltre, dato che Ippolita Bentivoglio morí intorno al 1520. 10 Si veda in Machiavelli. Enciclopedia machiavelliana la “voce” Alamanni, Lodovico, a c. di G. Inglese (Inglese 2014). 11 Cf. già Di Francia 1921: 302. In questo modo Bandello inaugura la propria opera con un racconto dichiaratamente “veridico”, ma che al tempo stesso si inserisce in una falsariga già stabilita, entro una tradizione storiografica e, in parte, novellistica che già aveva conferito al racconto dell’omicidio di Buondelmonte una certa notorietà. Non si può dire che qui la vicenda, presentata come esemplare, sia in tutto calzante in relazione all’oggetto e all’occasione; è invece interessante il duplice riuso della “fonte” machiavelliana: sia sul versante storiografico (in relazione alla cornice entro cui è inserita la narrazione) e sia su quello della già attuata elaborazione novellistica, anche se in Machiavelli molto piú sintetica. 12 Cf. Maestri 1991: 364-5 e soprattutto Pozzi 2000: 90-5. 9 258 Carte Romanze 7/1 (2019) aspetto dell’ampio arco di escursione nelle modalità di scrittura e riscrittura in novelle bandelliane che possiamo in senso lato definire, per ambiti e personaggi, “storiche”.13 Il primo e piú significativo aspetto nelle modalità di riuso della “fonte” è innanzitutto, ad apertura della novella, l’inserzione della “istoria” di Buondelmonte nel circuito dei ragionamenti a casa Bentivoglio, che il narratore Alamanni subito richiama, lodando la prudente decisione presa. È una modalità che si ripeterà poi pressoché costantemente nel Novelliere, ma che qui è praticata per la prima volta e che incornicia la novella entro il già avviato discorso, con un ritorno circolare nella conclusione. L’ «istoria» di Buondelmonte assume dunque il carattere di esempio di «quanto nocivo sia far mercatantia di questi matrimonii» (I: 5), e solo in subordine a tale scopo illustra la causa dell’origine della divisione prima di Firenze, che è invece la motivazione portante del narrare machiavelliano relativo a questo cruciale episodio. Lo spostamento del fuoco del racconto, da parte di Bandello, sulle «funeste e lagrimose nozze» non rimane senza conseguenze. Complessivamente nello svolgere la narrazione il Bandello segue, spesso molto da vicino e con dirette riprese o qualche amplificazione e modificazione, la scrittura machiavelliana di cui ha evidentemente riconosciuto, per questo episodio, la trasformazione già novellistica,14 che viene dunque accolta e potenziata, per esempio in relazione alla psicologia dei personaggi solo in sintesi prospettata da Machiavelli. L’operato di Bandello è tale da rendere immediatamente riconoscibile l’ipotesto su cui sta lavorando a quelli tra i suoi «candidi lettori» che potevano conoscere le Istorie.15 Ci si limiterà qui a due sole tappe – relative a questa novella e alla 37 della seconda parte – di un percorso la cui estensione non consente che se ne dia in questa sede piú articolato conto. 14 Sul racconto machiavelliano e le sue fonti cf. Cabrini 1985: 36-46. 15 Si vedano ad esempio le modalità con cui Machiavelli aveva introdotto il racconto, dopo aver parlato della «manifesta divisione» tra Impero e Chiesa: «si ridusse la Italia intra quello e la Chiesa in manifesta divisione; la quale non ostante, i Fiorentini si mantennono infino al 1215 uniti, ubbidendo a' vincitori, né cercando altro imperio che salvarsi. Ma come ne’ corpi nostri quanto piú sono tarde le infirmità tanto piú sono pericolose e mortali, cosí Florenzia, quanto la fu piú tarda a seguitare le sette di Italia, tanto di poi fu piú afflitta da quelle. La cagione della prima divisione è notissima, perché è da Dante e da molti altri scrittori celebrata; pure mi pare brevemente da raccontarla. Erano in Florenzia, intra le altre famiglie, potentissime Buondelmonti e Uberti; appresso a queste erano gli Amidei e i Donati. Era nella famiglia de’ Donati una donna vedova e ricca, la quale aveva una figliuola di bellissimo aspetto» (Machiavelli, 13 A. M. Cabrini – Scritture e riscritture bandelliane 259 Le due parti del racconto in cui il Bandello si allontana da Machiavelli riguardano la rappresentazione delle contraddizioni interiori dell’innamorato Buondelmonte e i preliminari, sul piano pratico, dell’organizzazione dell’omicidio. Se quest’ultima inserzione appare dettata dall’intento di rendere piú ricca e dettagliata la narrazione, la prima è piú interessante e comporta anche una diversa scansione nei tempi della decisione di Buondelmonte di venir meno alla promessa di matrimonio già fatta per sposare invece la bellissima fanciulla di casa Donati: decisione immediata per Machiavelli, con differimento al giorno successivo per Bandello.16 Con il tramite di questa estensione temporale Bandello introduce il tema dell’interiore contrasto di sentimenti in cui si dibatte il misero amante, che, «avvelenato dalla breve vista di begli occhi della fanciulla», finisce con l’essere travolto e condotto alla rovina: un tema che rappresenta uno dei fili rossi del Novelliere. Istorie [Varotti-Montevecchi], l. II, capp. 2-3: 195-196. I corsivi nelle citazioni, qui e altrove, quando non diversamente indicato, sono miei). Dopo un’analoga introduzione, che già amplifica – come poi piú ampiamente nel seguito – il dettato machiavelliano, Bandello scrive: «Erano adunque gli anni di nostra salute mille ducento quindeci, quando il miserabil caso, di cui parlarvi intendo, avvenne; e fin alora la cittá nostra era sempre stata ubidiente a li vincitori, non avendo i fiorentini cercato di ampliar lo stato loro né offender li vicini popoli, ma solamente atteso a conservarsi. E perché li corpi umani quanto piú tardano ad infermarsi, tanto piú le infermitá che poi li sopravengono o di febre o d’altro male sono piú dannose e mortali e seco mille pericoli recano, cosí avvenne a Firenze che, quanto piú tardi ella stette a pigliar le parti e divisioni che per tutta Italia con rovina di quella erano sparse, tanto piú poi di tutte l’altre dentro vi s’involse, e le sètte seguitò, cagione del miserabile essilio e crudel morte di tante migliaia di cittadini. [...] Ma, venendo al fatto, dico che tra l’altre famiglie de la nostra cittá nobili e potenti, due ce n’erano per ricchezze e séguito di gente potentissime e di grandissima reputazione appo il popolo, cioè gli Uberti e i Buondelmonti, dopo li quali nel secondo luoco fiorivano gli Amidei e li Donati, ne la qual famiglia de li Donati si ritrovava una gentildonna vedova molto ricca, con una figliuola senza piú d’etá idonea a poter maritarsi. La madre di lei, veggendola di bellissimo aspetto […] (I: 6). 16 E per il vero anche in altre fonti. Il riscontro piú interessante potrebbe riguardare le Historiae Florentini populi di Leonardo Bruni, piú volte a stampa dal 1476 in poi nel volgarizzamento di Donato Acciaioli. Anche nel racconto del Bruni il matrimonio è collocato nel giorno seguente, ma soprattutto è interessante il fatto che lo scrittore introduca la narrazione relativa a Buondelmonte proprio in relazione al tema dei matrimoni e all’importanza che questi assumono nei rapporti tra le grandi famiglie. In Bruni infatti la collocazione del racconto è differita rispetto all’ordine cronologico e introdotta, come esempio e monito e contrario, nell’occasione dei matrimoni sollecitati dal popolo per mettere fine alle discordie e inimicizie tra i nobili guelfi e ghibellini dopo la cacciata del conte Novello nel 1266. Cf. Cabrini 1990: 267-8; 285. 260 Carte Romanze 7/1 (2019) Per quanto il dettato machiavelliano sia tutt’altro che privo di rielaborazione e cambiamenti da parte di Bandello, pure, nel quadro di un complessivo bilancio, la portata dell’intervento sulla connotazione dei personaggi, sulla struttura della novella e sul suo svolgimento appare tutto sommato contenuta. Al polo opposto tra le novelle “storiche”, per quanto riguarda l’impegno di riscrittura ed elaborazione formale, si situa invece la novella II, 37, tra le piú ampie del Novelliere:17 in essa l’impegno di nuova scrittura e di affabulazione raggiunge uno dei gradi maggiori, anche se a mio giudizio non dei migliori, per una serie di interni squilibri anche sul piano strutturale. La II, 37 è di particolare interesse anche perché costituisce uno dei due soli casi, insieme con un’altra importante novella (I, 21), di documentata testimonianza di una precedente redazione. Di questa, conservata in un manoscritto autografo (l’unico pervenutoci del Novelliere, il ms. Toulouse Bibliothèque Municipale 837), ha dato dettagliato conto nel 1984 Godi.18 Lo studioso ha poi curato l’edizione critica della novella, secondo l’editio princeps del 1554, corretta con l’ausilio dell’autografo, di cui riporta le varianti in apparato.19 La novella ha un prestigioso dedicatario, il cardinale Giorgio d’Armagnac, ed è probabile che lo stesso ms. autografo fosse l’esemplare di dedica o una copia di mano dell’autore a questa prossima. La dedicatoria si apre in medias res con la notizia, appena giunta, della morte di Enrico VIII: dunque nel 1547, in cui si colloca anche il tempo interno dei ragionamenti (ma non necessariamente della composizione della novella)20 del cenacolo raccolto intorno all’ «eroina» Costanza Rangoni, vedova di Cesare Fregoso: ci troviamo in Francia, nel territorio agenese, presso la nobildonna che possiamo definire il secondo nume tutelare del Bandello, dopo la morte di Ippolita.21 Notevole ne fu la fortuna e, mediante traduzioni e adattamenti, in francese e in spagnolo, forní spunti a piú autori, tra cui Shakespeare e Calderon. 18 Godi 1984: 499-515. 19 Godi 1985: 482-538. Cf. le opportune puntualizzazioni con cui è ulteriormente intervenuto piú recentemente Bragantini anche a seguito dell’edizione di Maestri (Bandello, La terza parte de le novelle [Maestri]): Bragantini 2014: 55-62. 20 Per ipotesi sulla datazione cf. Godi 1984: 512-3. 21 Sulle vicende relative alla vita e alle frequentazioni di Bandello è sempre indispensabile Fiorato 1979. 17 A. M. Cabrini – Scritture e riscritture bandelliane 261 Il tema della lettera dedicatoria, sollecitato dal giudizio sulle azioni del morto re e, per estensione, sulla rievocazione di quanto si ricava «leggendo l’historie» dell’Inghilterra,22 ruota in particolare intorno al polo negativo su cui si attestano tutti quei reali inglesi che piú si sono distinti per crudeltà e scelleratezze, come per molti di loro viene sommariamente ricapitolato. Non è qui il caso di insistere sulle motivazioni politico-religiose di questa vera e propria intemerata, che bene si attaglia al dedicatario. Si possono invece osservare due altri aspetti che sottendono o tracciano fili interni alla raccolta. In primo luogo, le modalità con cui è introdotto il tema suddetto – e cioè il diretto richiamo all’Annibale liviano, la cui barbara e inumana crudeltà è ora ascritta ad appannaggio dei re inglesi – e l’ascrizione dei sovrani al novero non dei «rettori, prencipi e regi», ma dei «fieri e crudelissimi tiranni» (Godi 1985: 488) collegano questa dedicatoria ad altre, precedenti e successive, e alle connesse novelle, in cui sono enunciate e messe a fuoco le stesse tematiche (in relazione a piú figure o vicende “storiche”, classiche e moderne). D’altro lato, la figura di Enrico VIII torna piú volte nel Novelliere con riferimento alla sua crudeltà, viziosità, empietà ecc. (e come protagonista in III, 60 e 62). Tornando a II, 37, giunto infine l’excursus sulle scelleratezze dei re inglesi al padre di Enrico VIII, da cui era iniziato tutto il discorso, si ha una svolta nei ragionamenti: nella finzione di realtà messa in atto da Bandello, Giulio Basso (personaggio di discussa identificazione, che compare solo questa volta nell’opera)23 aveva proposto che si cambiasse argomento e aveva narrato «una historia avvenuta in Inghilterra a uno de i re passati». L’autore dunque, a cui era parso che «non le si disconvenisse d’essere messa insieme» con le altre sue novelle, aveva pensato di inviarla all’Armagnac. Anche in questo caso la scelta del «padrone» da dare alla novella ne costituisce sia un viatico nei confronti del pubblico sia un omaggio cortigiano all’illustre dedicatario, omaggio derubricato dal solito topos modestiae a «picciol dono» (Godi 1985: 490-1). La definizione dell’oggetto della narrazione come «historia» va qui preso, anche se certo non alla lettera, in senso proprio: i protagonisti sono storici e la vicenda d’amore che li riguarda è oggetto di narrazione in cronache e storie, per altro con una serie di differenze – anche stando solo agli estremi del racconto – eclatanti: la prima delle quali è che Bandello 22 Cito dall’edizione critica di Godi 1985: 488. Tutte le citazioni della novella sono tratte da questa edizione. 23 Cf. Godi 2001: 257-69. 262 Carte Romanze 7/1 (2019) opera una fusione tra due vicende che hanno protagonisti diversi, a piú di un secolo di distanza, ma anche un minimo denominatore comune. Infatti, come è da tempo noto, solo la prima parte della novella riguarda i due protagonisti dichiarati, il re Edoardo III e la bellissima Aelips, contessa di Salberí (cioè di Salisbury); il molto piú ampio seguito – sottoposto anche ad una piú radicale affabulazione – attribuisce ai due suddetti personaggi vicende che invece riguardano Edoardo IV e Elisabeth Woodville. Connor Fahy, che segnalò incidentalmente tale situazione in due studi nel 1960 e nel 1961 – a quanto mi risulta senza grande eco negli studi bandelliani – aveva lasciata aperta l’alternativa tra un errore di Bandello o una scelta voluta (Fahy 1960: 168-9; Fahy 1961: 667). Direi che si tratta senz’altro della seconda ipotesi, dimostrabile attraverso elementi di carattere testuale, e io credo anche allusa fin dalla rubrica della novella: «Odoardo terzo re d’Inghilterra ama la figliuola d’un suo soggetto, e la piglia per moglie» (Godi 1985: 491). Questa rubrica porta il nome di Edoardo III, ma la vicenda a cui si riferisce riguarda il solo Edoardo IV e non corrisponde a quanto raccontato nella prima parte della novella in relazione ad Aelips «nobilissima giovane» e qualificata con il riferimento non al padre ma al marito, Guglielmo Montaguto, conte di Salisbury (ibi: 492), che era tra l’altro consigliere privato e di grado elevato presso Edoardo III. Inoltre, quando Giulio Basso inizia a parlare, prima di cominciare il racconto, riprende le già viste considerazioni sulla crudeltà dei re inglesi, citandone la comune indole o comportamento «o siano de la Rosa bianca o siano de la rossa», con ciò evocando la guerra delle due Rose, cosa che rimanda ai tempi di Edoardo IV.24 Dubito che all’illustre dedicatario la fusione tra le due vicende di Edoardo III e Edoardo IV potesse sfuggire, data anche la notorietà delle ripercussioni storico-politiche e poi dinastiche, dopo la morte Edoardo IV (avvenuta nel 1483), dovute al matrimonio del re con la Woodville.25 Il Bandello segnala dunque già in limine la portata dell’ampio affresco affabulatorio costruito su quelle «historie» e «croniche» inglesi – o Cf. Godi 1985: 491. Sulla figura di Edoardo IV e le vicende storiche dell’Inghilterra nella seconda metà del sec. XV cf. Ross 1997; sul matrimonio con la Woodville cf. Kettle 2005: 1-20. 24 25 A. M. Cabrini – Scritture e riscritture bandelliane 263 presunte tali – a cui Giulio Basso fa a sua volta en passant piú oltre riferimento. Un «picciolo dono» sí, se lo si confronta con l’altezza del dedicatario, ma certo di rilevante e marcato impegno. Comunque stiano le cose, infatti, quello che subito risulta chiaro fin dall’inizio è l’insistente connotazione di letterarietà conferita sia al dettato sia al tessuto espressivo della novella, fino alle aperte citazioni come ad es. – per indicarne tre, ma sono molto frequenti – la petrarchesca «onde talhora meco stesso mi vergogno»,26 o l’oraziana «e, se lecito mi fosse, dire e mischiar le cose sacre in queste profane»27 (ma filtrata anche attraverso Castiglione,28 la cui presenza emerge in piú punti della novella) o la boccacciana «hora a me medesmo incresce andarmi tra tanti morti ravvolgendo».29 Per vederne ampiezza e portata basta anche solo scorrere l’apparato delle fonti che Godi ha fatto in questo senso in modo capillare – ma inevitabilmente non completo – nella sua edizione: con il limite per altro della nuda elencazione degli estremi dei passi che ha ritenuto di individuare, senza operare distinzioni o metterne in luce l’eventuale peso o ruolo. Per la sua struttura e articolazione il racconto si presenta come una novella-romanzo, ma anche come una novella-trattato, con piú o meno ampie digressioni – sulla fenomenologia e patologia dell’amore, sui confidenti e intermediari dei segreti degli amanti, sui principi, sui veri cortigiani –, e come una novella-teatro, vista l’ampiezza, soprattutto nella seconda parte, dell’uso del dialogo, con modalità oratorie e gli sviluppi patetici e potenzialmente tragici, nel contrasto tra amore e onore, che investe anche i ruoli familiari: sviluppi poi risolti in lieto fine, con il trionfo della virtú e castità dell’esemplare eroina e il riscatto da parte del re nella vittoria della moralità e dell’onore sulla sfrenata passione, ma anche la felice risoluzione della brama amorosa nel compimento del matrimonio regale, prima segretamente poi pubblicamente celebrato. La potenziale tragedia della nuova Virginia e nuova Lucrezia si risolve nella conclusione, per usare le parole di Bandello, nell’ «essaltamento» della bella Aelips «divenuta reina, degna nel vero di esser senza 26 Godi 1985: 491, trasparente ripresa del verso 11 del sonetto incipitario del Canzoniere. 27 Ibid. Cf. Hor. ep. I, 16, 54 «miscebis sacra profanis». 28 Cf. Castiglione, Il Libro del Cortegiano (Quondam), l. III: 295. 29 Godi 1985: 492. Cf., nell’introduzione della prima giornata del Decameron: «A me medesmo incresce andarmi tanto tra tante miserie ravolgendo» (Boccaccio, Decameron [Branca]: 29). 264 Carte Romanze 7/1 (2019) fine celebrata», cosí come del re, «il quale, operando del modo che fece, mostrò esser vero re e non tiranno», al quale non minor gloria va tributata per aver saputo regolare le «sue amorose passioni, di quella che se gli dà di tante e sí famose vittorie che per via de l’armi hebbe» (Godi 1985: 538). Mutatis mutandis, si potrebbe definire un nuovo re Carlo di decameroniana memoria (tanto piú che la relativa novella del Boccaccio, Decameron X, VI già era stata ampiamente usufruita nelle parti oratorie), se non che la resipiscenza del re avviene solo davanti al gesto estremo di Aelips, che dopo avergli fatto giurare di concederle una grazia prima che a lei si avvicinasse, tirato fuori un coltello che aveva nascosto sotto l’abito, l’aveva posto di fronte al dilemma di rinunciare alle intenzioni di violarla e, invece, di ucciderla o, se non avesse fatto questo, di assistere al suo suicidio. La conclusione celebrativa, dunque, come accade anche in altri casi in Bandello, non può non lasciare spiazzato il lettore, tanto piú che dall’iniziale esecrazione della crudeltà e scelleratezza dei re inglesi siamo approdati alla gloria e alla lode. Per ottenere tutto questo Bandello deve dotare i suoi personaggi di uno spessore romanzesco, che nella prima parte del racconto è intonato a una dimensione cortese e cavalleresca. Un significativo ausilio gli viene dato dalla sua fonte, già da molto tempo nota:30 non una cronaca inglese ma l’opera di uno storico francese che racconta anche le vicende d’Inghilterra e qui nella fattispecie quelle relative, oltre che alla guerra, all’innamoramento del re Edoardo III per la bellissima contessa di Salisbury. Si tratta del Froissart, che dedica piú capitoli della sua Cronique a questa vicenda nel contesto della narrazione degli eventi del 1342 relativi alla ripresa delle tensioni di Edoardo con gli Scozzesi, quando racconta della liberazione del castello di Salisbury da loro assediato, dove stava con tutte le sue genti la contessa in assenza del marito Guglielmo Montaguto, imprigionato in Francia a seguito di una missione svolta per conto del re. Accorso in aiuto, il re ivi, vista la bellissima contessa che lo accoglie in festa andandogli incontro e facendo aprire tutte le porte, subito è sorpreso da una scintilla di fin’amor per lei e inutilmente si dichiara alla nobildonna che saggiamente cerca di sottrarsi. Ma il re non riesce a pensare ad altro e invitato ad entrare nella sala del pranzo con i suoi cavalieri non riesce quasi a mangiare ed appare tanto turbato e malinconico da stupire tutti i presenti: egli è infatti assalito da pensieri contrastanti, tra il richiamo dell’onore e della lealtà e la forza sormontante dell’amore. Il giorno dopo, 30 Cf. Di Francia 1923: 27-9. A. M. Cabrini – Scritture e riscritture bandelliane 265 infine, parte per completare l’impresa contro gli scozzesi e si congeda dalla contessa, pregandola di sapersi meglio consigliare, nell’attesa di un incontro futuro. La vicenda verrà poi ripresa molti capitoli dopo – nell’occasione di una grande festa fatta organizzare dal re a Londra – e lasciata poi in sospeso dopo aver fatto balenare il timore della dama (taciuto al marito ignaro, che nel frattempo era stato liberato ed era tornato in Inghilterra) di subire il disonore e la violenza del re. A ciò Froissart non dà comunque luogo, sottolineando il vestire volutamente dimesso e la saggezza della contessa, mentre altre fonti, come Jean Le Bel – contestato in un successivo passo (non riportato in tutte le redazioni dell’opera) dallo stesso Froissart – danno il fatto per avvenuto.31 Molti sono, come si vede, gli ingredienti per una rielaborazione novellistica e non stupisce certo che Bandello si sia appropriato della «historia». Si ispira dunque alla falsariga di Froissart, con riprese in piú tratti anche letterali, ma procedendo in modo diverso rispetto a come aveva fatto per la già vista narrazione machiavelliana. Innanzitutto agisce sulla connotazione dei personaggi, potenziando sia la bellezza e leggiadria della donna sia la rappresentazione dello stato d’animo del re e della dinamica dell’innamoramento con tratti stilnovistici e petrarcheschi,32 e poi procede piú liberamente, con aggiunte e amplificazioni, con una diversa strategia nel mutare i punti di vista e attuando una sapiente dislocazione di microsequenze narrative, che per cosí dire smontano e rimontano tratti della struttura del racconto di Froissart. Si veda ad esempio, nella parte iniziale del racconto, come Bandello isoli gli sguardi del re, ponendo solo successivamente l’aspetto dell’ammirazione generale. Froissart descrive l’andamento narrativo della scena, mentre Bandello focalizza subito gli effetti sul re, al cui immediato innamoramento corrisponde la risposta alle «riverenze» della contessa, accolta tra le braccia e baciata. Froissart invece registra l’entrata nel castello (dislocata un poco piú oltre da Bandello) «main a main» e sottolinea anche la reazione della donna, vergognosa e sconcertata, di fronte agli sguardi insistenti del re. Anche la sequenza relativa al re «tutto solo appoggiato ad una finestra» è strategicamente ricollocata da Bandello, che fa subito Sul rapporto con l’opera di Jean Le Bel e sulla complessa questione delle diverse redazioni del primo libro della Chronique di Froissart, anche in relazione al racconto di questa vicenda, cf. Diller 1984, in particolare: 77-156. Sulle fonti cronachistiche e storiche relative alla presunta violenza cf. anche Gransden 1972: 333-44. 32 Cf. Godi 1985: 494. 31 266 Carte Romanze 7/1 (2019) seguire il discorso della contessa, in forma diretta (un primo e precedente discorso già era stato attribuito alla donna in forma indiretta, amplificando i ringraziamenti al re cui accenna Froissart). Si riportano a confronto i relativi passi. Come il re cosí bella la vide, e sí riccamente abbigliata, accrescendo meravigliosamente gli ornamenti del capo e di tutta la persona le native bellezze de la donna, non gli parendo mai haver in vita sua veduta la piú piacevole e bella cosa, incontinente di lei s’innamorò. Ella inchinatasi al suo re e volendogli con riverenza le mani basciare, egli non lo sofferse, anzi humanamente, a ciò che io amorosamente non dica, racogliendola ne le braccia, quella basciò. Tutti quei baroni e signori che con altri gentilhuomini erano col re, veduta sí incomparabil bellezza, restarono fuor di misura attoniti, e non donna mortale ma cosa divina pensarono di vedere. Ma piú di tutti era il re d'estrema meraviglia pieno, e non sapeva altrove rivoltar gli occhi, quando la donna, che bella e soave parlatrice era, poi che hebbe fatta la riverenza al re, quello sommamente con accomodate parole ringratiò del soccorso che preparato haveva, dicendo che gli Scocesi, come sentirono quello da Varoich esser partito, s’erano da l’assedio levati, non avendo havuto core d'aspettarlo. Ed insiememente de le cose alhora occorse ragionando, entrarono dentro il castello con trionfo e festa. Mentre che il desinare s'apprestava, il re, che venuto era per veder le batterie fatte da gli Scocesi, tanto si sentí da soverchio amor battuto, et aperta la via per gli occhi al core col folgorar de i begli occhi de la donna, che non trovava rimedio veruno da potersi riparare; anzi quanto piú vi pensava tanto piú la rovina si faceva maggiore, e d'hora in hora pareva che da i raggi di quei begli occhi si sentisse battere, né altrove che a questo Quant elle fut venue au roy, elle s’enclina jusques a terre contre lui, en le regraciant de son secours et l’amena au chastel pour le festoyer et honnorer, comme celle qui trés bien le savoit faire. Chascun la regardoit à merveilles, et le roy mesmes ne se povoit tenir de la regarder, et bien lui estoit advis que oncques ne avoit veue si noble belle, si frisque ne si belle dame. Si le ferit tantost une estincelle de fine amour au cueur, qui puis luy dura par long temps, car bien luy sembloit que au monde ny avoit dame qui tant fust à aymer comme elle. Si entrerent au chastel main à main, et le mena la dame premierement en la salle et puis en sa chambre, qui si estoit si noblement paree qu’il appartenoit à telle dame. Et tous jours regardoit le roy la gentille dame si fort qu’elle en devenoit toute honteuse. Quant il l’eut grant piece regardee, il se n’alla à une fenestre pour soy appuyer, et commencea moult fort a penser. La dame alla les autres chevaliers et escuyers festoyer, puis commanda a appareiller à disner, à mettre les tables et la salle parer et ordonner. Quant la dame eut tout devisé et commandé à ses gens ce que bon luy sembloit, elle s’en revint à joyeuse chiere par devers le roy, qui encores pensoit et musoit souvent et luy dist: “Chier sire, pourquoy penséz vous si fort? Tant penser ne appartient pas bien à vous, vostre grace sauve, aincois deussiéz vous mener feste et ioye, quant vous avéz enchassez voz ennemis qui ne vous ont osé attendre, et deussiéz laisser aux autres penser du demoutant.” Le roy luy dist: “Haa! chiere dame, sachiéz que depuis que je entray ceans, il m’est ung songe advenu de A. M. Cabrini – Scritture e riscritture bandelliane poteva rivolger l'animo. Egli s’era tutto solo appoggiato ad una finestra, a suoi amori pensando, e cercando via di poter la benevoglienza de la donna acquistare. In questo, ella, che vide il re cosí solo e pensoso, riverentemente a lui accostatasi, gli disse: « Sire, perché state voi pensando tanto, et in viso cosí malinconico vi mostrate? Egli è tempo che v’allegrate, e che stiate in gioia et in festa, poi che senza romper lancia havete cacciati i vostri nemici, i quali si confessano vinti, poi che stati non sono osi d’aspettarvi, sí che voi devete star di buona voglia, et allegrar con la lieta vista vostra i vostri soldati, e tutto il popolo, che dal volto vostro dipende. E come potranno eglino rallegrarsi, veggendo che voi, che il capo loro sète, non gli mostrate buon viso? ».33 267 quoy je ny prenois garde: si me y convient penser, et si ne sçay que advenir il men pourra, mais je ne sçay comment je en pourray mon cueur oster.” “Haa! chier sire,” dist la dame, “vous deussiéz tous jours faire bonne chiere, pour voz gens mieulx conforter, et laisser le penser et le muser. Dieu si vous a si tant aidé jusques à ores, en toutes voz besoignes et donne si grant grace que vous estes le plus doubté et honnouré prince des crestiens. Et se le roy d’Escoce vous à fait despit et dommaige, vous le pourrez bien amender quant vous vouldréz, ainsi que autrefois l’avéz fait. Si laissiéz le muser, et venéz en la salle, se il vous plaist, deléz voz chevalliers, car il sera tantost preste à disner.34 Nel seguito Bandello, oltre ad articolare piú ampiamente le parti diegetiche che introducono i discorsi diretti tra il re e la contessa e ad introdurre 33 Godi 1985: 493-4. Evidenzio mediante il corsivo i passi di cui piú significativo è il confronto. 34 Cito dalla copia digitalizzata dell’edizione parigina del 1514: Froissart, Le premier volume: 55r. La trascrizione è esemplata, per quanto riguarda la divisione delle parole e gli accenti, sulle norme adottate da Diller per l’edizione 1991 del ms. di Amiens, testimone, a quanto lo studioso ritiene, della prima redazione di questa parte della Cronique. Non è noto il testo da cui Bandello ha ripreso Froissart; non entrando nel merito della fitta selva di mss. relativi al primo libro dell’opera -su cui ho svolto solo un’indagine a campione tramite la piattaforma digitale The Online Froissart- ho optato per l’edizione parigina del 1514, nella quale il nome della donna, riportato nella tradizione della Cronique con piú varianti, Aelis, Alis, Alix, Aelips, corrisponde appunto a quello presente in Bandello: Aelips (nella copia digitalizzata dell’edizione parigina del 1530: Aelis; ma andrebbero naturalmente verificate le varianti di stato). Da un confronto tra i testi delle due cinquecentine, che fanno entrambe capo a quella che secondo Diller è la seconda redazione, poste anche a riscontro con l’edizione tuttora di riferimento di quest’ultima – pubblicata a Parigi nel 1870 da Simeon Luce, con ampio corredo di varianti –, si rilevano alcune differenze di carattere formale (nella dislocazione di parole o frasi e nella tendenza ad amplificare o ridurre in qualche misura il dettato), che non hanno però incidenza ai fini dell’analisi qui svolta. Differenze significative, anche sul piano strutturale, ha invece il ms. di Amiens, per il quale si rimanda, oltre che alla già citata edizione di Diller (Froissart, Chroniques [Diller]), a Diller 1984 (cf. ibid. anche per quanto riguarda quella che si ritiene la terza redazione della Chronique, nella quale l’intera vicenda dell’innamoramento è del tutto assente). 268 Carte Romanze 7/1 (2019) considerazioni sugli effetti e potenza di amore e riflessioni piú o meno moralistiche sui comportamenti degli innamorati, sceneggia per cosí dire la situazione rappresentata: gli occhi del re sono «colmi di lacrime» (poi «lagrimette»); egli sospira; le sue parole sono meno immediate e dirette;35 viene creato un effetto di sospensione prima che a Aelips, ancora inconsapevole, venga rivolta una chiara dichiarazione amorosa. Quest’ultima inoltre è molto amplificata da Bandello, cui la falsariga tratta da Froissart serve solo come spunto per innestare la retorica amorosa del re. Ciò vale anche per la risposta e repulsa della donna, che invita in conclusione il re a vincere e soggiogare se stesso. Nella rappresentazione invece relativa agli inconsapevoli spettatori del dialogo e stupiti osservatori del contegno turbato del re, Bandello di nuovo riprende piú da vicino, con inserti letterali, Froissart, mentre riduce radicalmente l’ampio passo dedicato dalla fonte alla battaglia interiore tra amore e onore nell’animo del re,36 per virare poi sul tema delle accuse di crudeltà fatte dagli innamorati alle donne virtuose che loro resistono e concludere cosí questa parte della vicenda: Cotal era il re Odoardo, il quale, veggendo che la donna perseverava nel suo proposito ferma, e punto a le di lui preghiere non si piegava, ma assai piú ritrosa si discopriva, quella diceva esser una fiera tigre, una donna intrattabile e crudelissima. E non havendo tempo di far dimora a Salberí per altri affari che occorrevano, sperando ricoverar meglior occasione per dar compimento al fatto suo, il dí seguente, per tempissimo levato si partí, e, prendendo congedo da la dama, pianamente le disse, pregandola, che meglio volesse pensar a i casi suoi e di lui haver pietá. Ella riverentemente gli rispose che pregava Dio che gli levasse quella fantasia di capo, e gli desse vettoria contra i suoi nemici.37 35 Viene qui collocata la ripresa della risposta del re nel su citato passo di Froissart: «Io ho un ardentissimo pensiero che fieramente mi molesta, né è possibile che di cor me lo levi, e mi v’è nato dapoi che io son giunto qui, e non mi so risolvere» (Godi 1985: 494). 36 Bandello ne aveva in parte tratto spunto per i moniti e le sollecitazioni della donna, nella ripulsa sopra citata. Piú esplicito è il narratore anche nell’esprimere il desiderio del re: «Stette quel giorno il re a Salberí, e considerò le batterie fatte dagli Scocesi et con i suoi lungamente ne ragionò, havendo di continovo l’animo a le sagge risposte de la dama, le quali quanto piú vere e piú honeste le stimava, tanto piú s’affliggeva e si disperava di poter conseguir l’intento suo, che tutto era fitto in questo: di prender amorosamente piacer con lei» (ibi: 496). 37 Ibi: 497. Cf. Froissart, Le premier volume: 55v: «Ainsi se debatoit le roy a luy mesmes tout ce jour et toute la nuyt. Au matin se leva et fist tout son ost deslogier et tirer aprés les Escocoys pour le chasser hors de son royaulme. Puis print congé de la A. M. Cabrini – Scritture e riscritture bandelliane 269 Dalla scena del congedo del re, che parte dal castello di Salisbury, il racconto del Bandello comincia a prendere un’altra piega rispetto a quello di Froissart: dalla fonte trae, sommariamente, gli eventi bellici narrati dopo quanto citato, ma volutamente ignora che il marito della contessa, uscito dalla prigionia e tornato appunto nel frattempo dalla Francia, continua ad essere ben vivo e vegeto (muore due anni dopo, nel 1344). Bandello invece lo fa morire perché per il seguito della sua storia ha bisogno che Aelips sia vedova (e lo stesso vale per il re: mentre, stando alla realtà storica, la regina morí nel 1369). Che Bandello avesse ben noto quanto in proposito scrive il Froissart risulta proprio dal fatto che il nome della donna – Aelips, appunto –38 compare nella Cronique nel capitolo in cui Froissart parla della grande festa data a Londra dal re: festa alla quale Edoardo aveva invitato tantissimi ospiti e, con particolare insistenza, il conte di Salisbury.39 Bandello cassa ogni riferimento alla festa e attribuisce la venuta di Aelips a Londra al fatto che, rimasta vedova, era tornata nella dimora londinese del padre. dame en disant: “Ma chiere dame, à Dieu vous commandz jusques au revenir et vous prie que vous vueissez adviser, et autrement estre conseillee que vous ne m’avéz dit.” “Chiers sire,” dist la dame, “Dieu le Pere Glorieux vous vueille conduire et oster de villaine pensee, car je suis et seray tous jours appareillee de vous servir à vostre honneur et au mien.” Atant se partit le roy tout esbahy […]». 38 Froissart, Le premier volume: 62v. 39 Tra il congedo del re alla donna a Salisbury e la festa di Londra intercorrono molti capitoli; nel precedente a quello della festa Froissart, ponendo un’esplicita transizione, dichiara di staccarsi dalle vicende che stava narrando, relative alla contessa di Montfort (la vera donna forte contro il nemico i cui tratti il Bandello aveva messo in conto a Aelips, al momento della presentazione), per tornare a parlare della passione amorosa che continuava a sollecitare giorno e notte il re Edoardo, ripresentando sempre alla sua mente l’immagine della bella e nobile Aelips. Per il desiderio di rivederla e senza avere riguardo del fatto che il conte di Salisbury fosse il piú stretto dei suoi consiglieri e uno di quelli che in Inghilterra piú lealmente l’avevano servito, il re aveva appositamente organizzato la festa, comandando appunto pressantemente al conte di parteciparvi e condurvi la moglie e le sue damigelle. Il marito, ignaro, è lieto di obbedire, mentre la donna è riluttante e preoccupata, ma non osa rivelargli la situazione. A differenza delle altre donne, molto riccamente abbigliate, Aelips aveva allora deciso di vestirsi nel modo piú semplice possibile, perché il re non fosse indotto a guardarla, dal momento che non intendeva né voleva obbedire al re in nessun caso oltraggioso che potesse recare disonore a lei e al marito. Ma prima che la festa finisse il re aveva dovuto mettere da parte tutte le altre occupazioni per le notizie di rischi di guerra da piú parti e inoltre dello scarso rispetto che gli scozzesi mostravano della tregua stipulata (Froissart, Le premier volume: 62v-63r). 270 Carte Romanze 7/1 (2019) Stiamo ormai per entrare – naturalmente senza esserne in alcun modo avvertiti, dato che i personaggi bandelliani continuano ad essere Edoardo III ed Aelips – nella parallela storia della passione di Edoardo IV per la bella vedova Elisabeth di Woodville. Il punto di sutura è dato, oltre che dalla collocazione londinese, dal tentativo della donna amata dal re di sottrarsi ai suoi sguardi e alle sue attenzioni.40 Un altro gioco di scambi illusionistico messo in atto da Bandello riguarda il padre attribuito alla donna, Ricciardo di Varveccia, che altro non è che Richard conte di Warwick:41 colui che, secondo i dati storici, non solo non era il padre di Elisabeth, ma voleva stipulare un matrimonio francese per Edoardo IV: cosa mandata a monte dalla passione amorosa di Edoardo per la Woodville e dalle loro nozze. Una situazione che avrebbe poi avuto dopo la morte di Edoardo drammatiche conseguenze nella successione dinastica, con la dichiarata illegittimità dei figli – poi trucidati – e l’ascesa al trono del fratello Riccardo III. Della storia di Edoardo IV e del suo matrimonio con Elisabeth si hanno resoconti di vario genere, ma l’unico che – a quanto mi risulta – può essere utilmente confrontato con la narrazione bandelliana è quello svolto nel De admirandis mulieribus da Antonio Cornazzano, in 229 versi in terzine, di cui Connor Fahy – come già sopra ho ricordato – curò l’edizione nel 1960. Fahy, pur rilevando una sostanziale somiglianza nella struttura narrativa tra il testo di Cornazzano e quello della novella bandelliana (Fahy 1960: 168), si dichiarò restio a concludere che il Bandello se ne fosse Cf. il passo di Froissart, sull’abbigliamento dimesso di Aelips, cosí ripreso e diversamente adattato da Bandello: «Ma che? Il re, quanto piú ella schifevole si dimostrava, tanto piú s’accendeva, e con piú aperte dimostrazioni ed atti amorosi, sforzavasi farle chiaro ciò che appo lei era chiarissimo. Onde la saggia e leggiadra Aelips, poi che vide il male del re farsi maggiore e andar di mal in peggio, per non dargli occasione di far cosa che a lei potesse biasimo recare, non avendo pur un minimo pensieruzzo di compiacergli, deliberò levar via tutte le vie che il re ad amarla potessero indurre. Cominciò adunque di rado uscir di casa, e raro a la finestra anco si lasciava vedere, e quando andar fuori le bisognava, si vestiva molto bassamente […]. Ella, come s’è detto, vestiva panni grossi, e, lasciati i soliti abbigliamenti, piú de la monaca teneva che di donna secolare; ma giá la piaga era nel petto del re tanto a dentro profondata, che per allentare che la donna facesse, nulla di profitto al re si recava, perciò che – come veramente il nostro gentilissimo Petrarca dice – “Piaga per allentar d’arco non s<an>a”. Poi tanta era la nativa bellezza di Aelips che, se bene si fosse vestita il piú ruvido panno e vile del mondo, ella sempre bellissima si vedeva» (Godi 1985: 500-1). 41 Godi 1985: 500 dà un’altra identificazione, che non ritengo persuasiva. 40 A. M. Cabrini – Scritture e riscritture bandelliane 271 avvalso, dato che ci è pervenuto in un codice unico (appartenente alla biblioteca estense di Modena)42 e si tratta di un’opera che per piú ragioni si mostra non conclusa, presumibilmente per la sopravvenuta morte della dedicataria, Bianca Maria Visconti, moglie di Francesco Sforza. Pur condividendo la necessaria cautela, il fatto che la destinazione fosse milanese e che l’autore avesse vissuto a lungo nell’ambito delle corti milanese e ferrarese (dove morí, nel 1483) potrebbero non far escludere che in tali ambienti, piú tardi assiduamente frequentati anche da Bandello, ci fosse stata un’eventuale circolazione o conoscenza dell’opera, o di alcuni dei ritratti in questa contenuti: e quello della regina d’Inghilterra era il piú attuale. Anche se non si può escludere che vi siano stati altri tramiti (Fahy 1960: 169), le corrispondenze che dal confronto emergono in piú tratti, a partire dalla struttura della vicenda e dal succedersi delle sequenze – come già sinteticamente indicato da Fahy –43 e che sembrano poi confermate da qualche coincidenza testuale sono tali da rendere comunque significativo, anche se in linea ipotetica, il confronto tra la novella bandelliana e questa parte dell’opera del Cornazzano, già dotata di una pretesa traduzione letteraria degli eventi, per quanto molto modesta. Dato che anche il Cornazzano mirava a delineare il ritratto di un’eroina esemplare, la sua versione appare visibilmente romanzata, ma a confronto con quella, molto ampia e articolata, di Bandello niente piú che un abbozzo. Se ne darà qualche esempio, scegliendo alcuni passi rappresentativi e funzionali a un confronto, a partire dalla parte iniziale del racconto di Cornazzano. Dopo il preambolo introduttivo, intonato alla lode dell’onestà e all’intento di narrarne «qualche atto audito, /amica di virtú vera, e non ficta»,44 Cornazzano introduce la figura del re colpito d’amore per una donna vedova, bella e onesta,45 che gli si presenta in «rimessi panni», cerca di sottrarsi ai suoi sguardi e poco ascolta le sue ambasciate. Il tempo passa e il re ancora piú s’accende d’amore e d’ira, pensando che la colpa del mancato contraccambio del suo amore sia del padre di lei, presso il quale Per la descrizione cf. anche Zancani e Bruni 1988: 249-50. Cf. Fahy 1960: 168. Fahy cosí conclude: «Bandello’s account is much more elaborated […]. But there can no doubt about the general identity of their stories». 44 Cito da Fahy 1960: 170. 45 Cornazzano non indica i nomi dei personaggi, ritenendoli evidentemente riconoscibili dall’intitolazione relativa alla donna: La regina d’Ingliterra. 42 43 272 Carte Romanze 7/1 (2019) la donna dimorava. Cerca in primo luogo di fare pressione sul padre con grandi promesse: «El padre, ben che sian strane dimande, / considerato assai, la figlia prega, / ma quanto allei si dice in mar si spande» (Fahy 1960: 171). La decisa repulsa della figlia, che antepone alla vita il proprio onore e l’immacolata virtú, è svolta in tre terzine, nelle quali si incorniciano alcuni versi in discorso diretto, in cui fermamente la donna esprime la sua volontà. Il padre dunque, sentita la «risposta degna» fatta dalla «magnanima figliola», non dà risposta al re «ch’el non si sdegna» e lascia la città con tutti i figli, abbandonando la figlia con la sola madre. L’atteggiamento del padre non è privo di ambiguità: non vuole «romper» la «invicta onestade» della figlia; ma al tempo stesso «al re per piú ragioni/ mostrò partendo dar comoditate». Le due terzine successive, prima che il re si rivolga alla madre di lei, mostrano la consapevolezza da parte di tutti i cortigiani della passione del re e della ripulsa della donna e il comune giudizio sulla responsabilità di quest’ultima per il perdurare di questo stato di cose, contrario al «regale impero». Quello che il Cornazzano ha fin qui raccontato in poco piú di un centinaio di versi è oggetto di un nutrito numero di pagine nella narrazione di Bandello, che oltre ad introdurre ancora digressioni (sulla necessità di segretezza in amore, da confidare solo a un fidatissimo compagno (Godi 1985: 498-500): qui un cameriere, che portava le ambasciate del re, e che, richiesto, cercava di dare, inascoltato, consigli al suo signore, accecato dalla passione) e a delineare compiutamente i personaggi,46 conferisce un ampio andamento oratorio allo scambio di discorsi in forma diretta tra il re e il padre della donna (che è qui sempre Aelips)47 e poi tra padre e figlia. Bandello crea una sorta di sceneggiatura teatrale, nell’ambito della quale il re – anche qui convinto che il padre fosse causa della durezza della figlia e intenzionato ad usare profferte e promesse, «deliberando riserbar la forza da sezzo» – prima si profonde nell’espressione del 46 Non solo il re ed Aelips, ma anche la figura del padre, il conte Ricciardo, che viene nobilitato, e quella della madre, di cui invece vengono ulteriormente sottolineati i tratti moralmente disdicevoli. 47 L’effetto di sovrapposizione tra le due diverse vicende – qui unificate dallo stesso nome dell’amata – risalta ulteriormente anche dalla commistione anacronistica dei riferimenti sia a personaggi storici del tempo di Edoardo IV (come lo stesso conte Ricciardo e il «duca di Lancastro») e la rievocazione, nel discorso del conte, di eventi di guerra del tempo di Edoardo III. A. M. Cabrini – Scritture e riscritture bandelliane 273 dolore causatogli dalla passione fino al rischio di morirne,48 senza rivelarne la causa, «con gravi singhiozzi». Poi, una volta ottenuta da Ricciardo, «da grandissima pietà commosso», «sí larga profferta di se stesso, dei figliuoli e d’ogni suo havere […] che far la maggiore era impossibile» (Godi 1985: 505), chiede, offrendogli carta bianca per tutti i beni e possedimenti da lui desiderati, che si adoperi perché Aelips ricambi il suo amore. Lo stupore e lo sdegno del padre, «intesa l’incivile e dishonesta domanda del suo signore» (ibi: 506), si articolano a loro volta, dopo il gesto immediato di rifiuto della carta bianca con il sigillo reale, in un ampio e argomentato discorso, deprecatorio e con intento suasorio, che per qualche aspetto ricorda le parole del duca di Monforte a re Carlo in Decameron X, VI per invitarlo a vincere se stesso e ad abbandonare la passione amorosa e i disonesti propositi. L’esito non è però lo stesso di quello della novella boccacciana e il re, pur lungamente e variamente combattuto tra amore e onore, non riesce a desistere dalla sua travolgente passione e decide di attendere quello che la figlia risponderà al padre. Questi, legato per onore alla parola e alle profferte date al re quando ancora era inconsapevole delle sue intenzioni, va dunque a parlare con la figlia e a pregarla, in nome della parola data e dell’incauta promessa. Si conferma ulteriormente la piega oratoria che assume la novella bandelliana, che si dilata in modo non felicissimo, indugiando in larghe volute, con un procedere sentenzioso,49 e una concentrazione di riprese -per altro disparate- da Dante, Petrarca e altri autori,50 connotate in piú luoghi da una riconoscibilità tale da non sembrare casuale,51 presumibilmente anche in relazione Bandello attribuisce al re la piena consapevolezza del proprio stato (qui presentato come quello di un uomo «anchor giovine e vedovo», altra trasgressione alla realtà storica per quanto riguarda sia Edoardo III, la cui moglie morí molti anni dopo l’incontro del re con la contessa di Salisbury, sia Edoardo IV, che ancora non era sposato) e dell’incapacità di vincere la passione: come, tra gli altri richiami intertestuali, attesta l’allusione ai versi finali della canzone 264 del Canzoniere di Petrarca (e, dunque, in controluce ad Ovidio): «quantunque io veggia il meglio, al peggiore non di meno m’appiglio» (Godi 1985: 504). Anche se la sostanza non cambia, questo conferisce al personaggio un maggiore spessore. 49 Non manca neppure una sorta di breve intermezzo sul principe, che sarà poi piú ampiamente sviluppato nel seguito. 50 Cf. le note di Godi 1985 (ma altre se ne potrebbero aggiungere): 512-3. 51 Cf. per es. la ripresa dantesca (da If. XXVI, vv. 65-66) «onde ti prego e vaglia il prego mille» (ibi: 513). 48 274 Carte Romanze 7/1 (2019) all’alto dedicatario. Lo stesso vale per la risposta della figlia, tutta orchestrata, dopo l’iniziale moto di meraviglia, sul tema dell’onestà e dello sdegno. Il discorso, dopo la rievocazione dei fatti precedenti, al tempo dell’incontro del re a Salberí (tentativo ulteriore di ‘fondere’ le due storie, di Edoardo III e di Edoardo IV), ruota sull’onore, a cui la vita stessa va sacrificata se necessario,52 e cosí si conclude, dopo una lezione al padre sul tema della parola data (per cui «de le cose malamente promesse la pattuita fede si deve rompere»; Godi 1985: 516): E, se per forza il re vorrá di me prendersi amorosamente trastullo, io farò bene che le sue e tutte l'altrui forze vane saranno, tenendo sempre ne la memoria che un bel morire tutta la passata vita honora.53 La novella bandelliana assume uno sviluppo di notevole ampiezza anche nel seguito,54 prima di approdare, come nei vv. 106-108 del Cornazzano 52 «Hor, perché egli è ostinato, et io mai non sono per far volontariamente cosa che gli piaccia, che dishonesta sia, a ciò che sforzatamente, che Dio non lo permetta, di me non faccia il suo volere, io seguirò il vostro conseglio, e di dui mali il minore eleggerò, me stessa prima occidendo, che soffrir mai che sí gran macchia e tal vituperio d’honor mio sia veduto, e per le strade sia, come putta del re, mostrata a dito. Mille volte ho sentito dire, e voi pur mo’ me lo diceste, che vie piú de la vita deve l’honore esser stimato. E certo la vita senza honore è come una vituperosa et infame morte. Tolga Iddio che io mai divenga bagascia di qualunque huomo al mondo sia, e che cosa in segreto faccia, che, in publico poi manifestata, sia cagione di farmi cangiar di colore». Per l’espressione «putta del re» cf. il Cornazzano, nella risposta della figlia al padre, «puttana da corte» (Fahy 1960: 171). Nella novella bandelliana la donna insiste, variandola, sulla definizione vergognosa: oltre che nel passo qui citato dove a «putta» segue «bagascia», cf. nel seguito: «femmina di chiazzo» (Godi 1985: 515). 53 Ibi: 517. Altra citazione petrarchesca, dalla canzone 207, vv. 63-65: «Tu ài li strali et l’arco:/fa’ di tua man, non pur bramand’io mora,/ch’un bel morir tutta la vita honora» (Petrarca, Canzoniere [Santagata]: 877). 54 Il racconto si sofferma ancora sul padre («Conobbe il padre, per la saggia e magnanima risposta de la figliuola, il valore e la grandezza de l'animo che in lei erano», cf. Cornazzano, ai già citati vv. 91-92: «audita la risposta degna/facta dalla magnanima figliola»). Questi ritorna dal re a dargli la risposta della figlia; poi, come nei versi del Cornazzano, va in villa con tutti i figli e lascia in città solo la figlia con la madre. Per il prosieguo della storia era certo necessario che il padre uscisse di scena, però nel racconto bandelliano non c’è ambiguità: si attribuisce al conte Ricciardo la convinzione che il re non vorrà usare violenza e che la figlia sappia difendersi con la propria invitta onestà. La narrazione poi si sofferma nuovamente sul contrasto interiore del sovrano e sulla patologia d’amore che tanto lo pervade da farlo venir meno ai suoi compiti di sovrano e anche – si potrebbe aggiungere – alle norme dell’amor cortese: non sa piú infatti celare il suo amore e le spiacevoli conseguenze che il rifiuto della donna gli causano, cosí a A. M. Cabrini – Scritture e riscritture bandelliane 275 (Fahy 1960: 171-2), all’intervento minaccioso del re nei confronti della madre dell’amata e al tentativo di quest’ultima di persuadere la figlia. Anche il dialogo tra madre e figlia è largamente sceneggiato dal Bandello, addirittura con un doppio e melodrammatico svenimento della madre. Tutti gli argomenti addotti dalla madre piangente nei versi di Cornazzano – la durezza della figlia che mette a rischio che la casata tutta si disfaccia; la volontà dei signori ai cui desideri non si può opporre diniego; la responsabilità della condizione della famiglia che tutta ricade sulla figlia, di cui, gridando, si finisce per deprecare persino il giorno della nascita – sono presenti, sviluppati e potenziati, nel testo bandelliano, in cui molto si insiste sul contrasto pieghevolezza-durezza e sul tema della crudeltà e ingratitudine della figlia.55 tutti diviene manifesto, tanto da spingere il popolo intero a biasimare e condannare la donna, tacciandola di crudeltà. Già piú volte ella e la madre erano state sollecitate da messi, tanto che Aelips, temendo un atto di violenza, si era procurata un coltello e l’aveva nascosto sotto le vesti («con animo, veggendosi far forza, prima che esser violata, ancider se stessa», Godi 1985: 520); mentre la madre aveva dato ascolto alle promesse e già inutilmente aveva sollecitato la figlia. Il comportamento dei cortigiani, che non solo non intervenivano per distogliere il re da questa incontrollata passione, ma addirittura per la maggior parte lo istigavano ad usare la forza e la prevaricazione, dà spazio ad una dichiarata digressione sui buoni e cattivi cortigiani, non priva di spunti di carattere trattatistico (sui veri cortigiani, contro gli adulatori e sul dire la verità al principe) che richiamano, ancora una volta, il Cortegiano. Dell’ampiezza di tale digressione prende nota anche il narratore, Giulio Basso: «ma io son troppo vagato, perciò che da fanciullo fin hora avendo praticato in molte corti, assai ben so come il far il piú delle volte si suole» (ibi: 523). Il racconto torna dunque agli adulatori e agli uomini di pessimo giudizio e di cattiva natura che circondavano il re. Anche la figura di quest’ultimo non ne esce bene: prima voleva ancora tentare l’animo della madre, ma riservava alla fine la forza; mandò dunque un cameriere fidato con forti minacce: se non avessero acconsentito, invece che segretamente tutto sarebbe comunque accaduto pubblicamente, ed Aelips sarebbe stata portata via di casa a mano armata, con disonore suo e dell’intera famiglia. 55 Si veda il crescendo a conclusione del discorso: «Quanto era meglio per noi che il primo dí, che in vita ti pose, fosse anco stato l’ultimo, o vero che io di parto fossi morta, per non vedermi a questa hora in tanti travagli. Deh, perché quando il conte di Salberí, uscito di prigione, morí, non fosti tu quella che in vece sua morisse? Io prego il nostro signor Iddio che di tanti affanni e travagli mi cavi, poi che tu disposta sei di perseverare in tanta durezza, e de la rovina di tutto il sangue tuo punto non ti cale. Non credi tu che io m’avveggia che tu brami la morte mia, figliuola crudele et ingrata, e molto poco cortese et amorevole verso i tuoi parenti? E certamente io adesso morirei piú che volentieri, conoscendo che minor pena mi saria morire che restar in questi penaci cordogli, i quali di continovo sento, che il core con fierissime punture mi trafiggono» (ibi: 525-6). Dopo queste parole «piú morta che viva rassembrando cadette in grembo d’Aelips» (il riferimento al «grembo» è anche in Cornazzano, diversamente svolto e senza 276 Carte Romanze 7/1 (2019) Aelips a «cosí pietoso caso» della madre è «vinta da interna compassione» e si dice «disposta e presta» ad andare con lei dal re.56 Bandello conferisce alla vicenda un tocco religioso, opponendo alla sconsideratezza della madre – che divenuta gioiosa ringrazia assurdamente Dio –57 la devozione e la preghiera della figlia alla Madonna, prima di avviarsi portando con sé il suo tagliente coltello: quasi una martire, disposta alla morte, «piena di fiducia e di costanza» (Godi 1985: 528). Da qui ha inizio una parte piú sciolta della narrazione, nello spostamento in barchetta, nell’ora di meriggio di quel giorno di giugno,58 sul Tamigi e la raffigurazione dei luoghi, dall’orto della casa del conte Ricciardo al giardino del re. Non priva di efficacia è anche la strategia narrativa che prepara l’incontro, contrassegnata da un periodare piú breve e discorsi di poche battute, che si inquadrano tra l’arrivo, la rappresentazione dello stato d’animo del re – immerso nei suoi pensieri e poi sorpreso dalla visita improvvisa delle donne, in contrappunto con l’atteggiamento di Aelips – e il percorso nel cammino segreto verso la camera reale. Quando i due sono soli tornano di nuovo ad infittirsi i riscontri con il Cornazzano (Fahy 1960: 172-4), nell’immediato inginocchiarsi della donna senza lasciare spazio alla violenza, nelle parole di lei (che dice di volersi «chiarire» – «certificare» in Bandello – dell’amore del re e chiede una grazia: una solenne promessa di cui non enuncia l’oggetto)59 e poi nella felice risoluzione della vicenda, a cui il re non può e non vuole sottrarsi. Di fronte all’esibito coltello e alla ferma richiesta della donna – in ottemperanza della promessa – di non farle violenza o di darle la morte,60 svenimenti: «la figlia, non facendo altra risposta,/ s’ascose in grembo el suo bel viso adorno», Fahy 1960: 172). 56 Godi 1985: 527. Cosí il Cornazzano: «[…] a vostra posta/[…] far ciò che piace al re mi son disposta» (Fahy 1960: 172). 57 «come se Iddio fosse spiratore d’adulterii, e fornicationi. O quanto sciocchi sono assai spesso i miseri et ignoranti mortali, che, dove pianger deverebbeno, ridono, e, dove allegrarsi, s’attristano! Cosí faceva questa buona donna, che, divenendo ruffa de la figliuola, si pensava di far un sacrificio a Dio» (Godi 1985: 527). 58 La scelta del tempo è della madre e l’aggiunta che a quell’ora per il caldo molti sono soliti dormire, sottolinea presumibilmente l’accortezza nel voler mantenere celata l’azione, secondo quanto ella si prefigurava, disonorevole. 59 Notevoli sono invece le differenze sul piano stilistico e tonale: si veda per es. il verso 167, relativo alla richiesta che il re piú solennemente giuri: «Non mi vender, signor, frasche o viole!» (Fahy 1960: 173). 60 Nella narrazione bandelliana Aelips si presenta come una novella Lucrezia (cf. il richiamo alle parole di Bruto dopo lo stupro, nel racconto liviano,): «solo il corpo A. M. Cabrini – Scritture e riscritture bandelliane 277 il re riconosce la costanza e il valore di lei, si piega alla sua volontà e decide ipso facto di sposarla: dandole subito l’anello e chiamando Dio a testimone nei versi del Cornazzano (ibi: 174); in modo non solo meno sbrigativo, ma ampiamente articolato nella novella bandelliana, con una privata cerimonia nuziale, officiata dall’arcivescovo eboracense, alla presenza di due tra i primi della corte, oltre che della madre di Aelips.61 Diverge ulteriormente il seguito del racconto, anche in relazione alle pubbliche nozze: senza alcuna descrizione e rimandate al momento in cui la donna fu gravida nei versi del Cornazzano (ibi: 174), celebrate con magnifica pompa «il dí delle calende di luglio» (cioè nel mese successivo) nel racconto di Bandello, che poi si conclude – come già accennato – non solo nell’esaltazione di Aelips, venuta: «in poco di tempo in tanta grazia del popolo e baroni, che ciascuno sommamente lodava il re, che sí buona eletione di moglie havesse fatta» (Godi 1985: 537), ma anche e non meno in lode del re: Né meno merita esser lodato il magnanimo e vertuoso re in questo caso, il quale, operando del modo che fece, mostrò sé esser vero re e non tiranno. E certo egli è degno, in ciò che con Aelips fece, d’ogni bella lode, la cui gloriosa di sé medesimo vittoria i suoi sudditi amorevoli ed ubidientissimi gli rese, et ad altri diede essempio di bene operare, insegnando a tutti che le fame immortali cosí s’acquistano. Et io per me credo, e porto ferma openione, che non minor gloria dar se gli debbia, che egli sapesse sí bene i suoi disordinati appetiti regolare, e sovrastare a le sue amorose passioni, di quella che se gli dá di tante e sí famose vittorie che per via de l’armi hebbe (ibi: 538). Riscattata cosí pienamente – e inopinatamente rispetto alle premesse – la figura del re, il narratore Giulio Basso pone fine al suo racconto, in cui bene si mostra fino a che punto la storia possa assumere nel Novelliere i contorni e lo spessore della finzione, come se si trattasse di due facce della stessa medaglia. mio haverete in balia, e non l’animo né la volontà mia», Godi 1985: 532); ma, a differenza dell’eroina romana, senza essere violata: se il re non l’avesse uccisa lei si sarebbe suicidata piuttosto che cedergli. D’altra parte Edoardo non è Sesto Tarquinio: Bandello intende riscattarne l’onore, mostrandolo vinto dalla fermezza della donna e da «vero amore». 61 Godi 1985: 536. Il racconto del Bandello corrisponde qui nella sostanza con quanto narrato da Robert Fabyan, The New Chronicles of England and France, in un passo citato da Kettle 2005: 1. Il cronista per altro parla genericamente di un prete e non dell’arcivescovo di York. 278 Carte Romanze 7/1 (2019) Non si tratta certo di un esito episodico o marginale. Anzi, nella multiforme varietà del narrare bandelliano la non trascurabile presenza di novelle “storiche” conferisce alla raccolta un tratto peculiare entro i molti casi che occorrono alla giornata e contribuisce anche per questa via a suggellare con il candido lettore il patto che accoglie le «favole» per «vere istorie».62 Anna Maria Cabrini (Università degli Studi di Milano) RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI LETTERATURA PRIMARIA Bandello, La prima parte de le novelle (Maestri) = Matteo Bandello, La prima parte de le Novelle, a c. di Delmo Maestri, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1992. Bandello, La seconda parte de le novelle (Maestri) = Matteo Bandello, La seconda parte de le Novelle, a c. di Delmo Maestri, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1993. 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I-II, Genève, Droz, 1991-1992. 62 Cf. la dedicatoria ad Emilio degli Emilii in II, 11: «E queste mie novelle, s’ingannato non sono da chi le recita, non sono favole, ma vere istorie» (Bandello, La seconda parte [Maestri]: 97). A. M. Cabrini – Scritture e riscritture bandelliane 279 Machiavelli, Istorie (Varotti–Montevecchi) = Niccolò Machiavelli, Istorie fiorentine, in Id., Opere storiche, a c. di Carlo Varotti, Alessandro Montevecchi, vol. I, Roma, Salerno, 2010. Petrarca, Canzoniere (Santagata) = Francesco Petrarca, Canzoniere, a c. di Marco Santagata, Milano, Mondadori, 1996. LETTERATURA SECONDARIA Bragantini 2014 = Renzo Bragantini, Restauri e recuperi per Bandello, in Id., Il governo del comico. Nuovi studi sulla narrativa italiana dal Tre al Cinquecento, Manziana, Vecchiarelli, 2014: 55-102. Cabrini 1985 = Anna Maria Cabrini, Per una valutazione delle «Istorie fiorentine» del Machiavelli. Note sulle fonti del secondo libro, Firenze, La Nuova Italia, 1985. 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È questo il caso delle due novelle prescelte come oggetto di analisi, per sondare modalità di scrittura e riscrittura messe in atto in tale prospettiva dall’autore: la novella incipitaria dell’intera opera I, 1, di cui sono fonte le Istorie machiavelliane, e la II, 37, di particolare interesse per la complessa e peculiare struttura, in cui sono tra loro contaminate vicende appartenenti a tempi storici differenti. PAROLE CHIAVE: Bandello; novella del Cinquecento; Machiavelli; Froissart; Cornazzano ABSTRACT: The development and meaning of Bandello’s famous assertion – that his short stories are not fiction but true history – are varied and rich. In the literary and fictional world that he depicts with the colours of an illusory realism, it is not rare to find meaningful tales in which frame, events and characters are clearly or claimed congruent and consonant with historical subjects and sources. This is the case of the two tales analyzed here to investigate Bandello’s writing and his reworking sources: the first one of the whole work (I, 1), the source of which is Machiavelli, and the much wider II, 37, particularly interesting for its complex structure that makes up events from different historical times together. KEYWORDS: Bandello; novella in the 16th century; Machiavelli; Froissart; Cornazzano.