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Filottete

2009

La tesi pone a confronto il Filottete sofocleo con quello di Heiner Muller, drammaturgo tedesco del secondo Novecento, rilevando punti di vicinanza e infedeltà al modello.

CAPITOLO 1: HEINER MÜLLER § 1.1.Presentazione dell’autore Personaggio scomodo e controverso, Heiner Müller assiste nella sua tormentata esistenza alla dissoluzione di tre stati: la Repubblica di Weimar, il Terzo Reich e la Repubblica Democratica Tedesca. La sua produzione letteraria, incentrata sul rapporto fra individuo e collettività, risente profondamente degli avvenimenti storici che segnano la Germania del Novecento; pur professandosi comunista e non abbandonando la DDR (Repubblica Democratica Tedesca) - avendone la possibilità – rimane deluso dall’attuazione concreta del socialismo e non aderisce all’ideologia del nuovo stato, che soffoca la libertà e il benessere di quegli operai che dovrebbe invece difendere. Coscienza critica della Germania, ne paga le conseguenze in termini di censura e allontanamento dalla vita pubblica, ciononostante, dopo la riunificazione, si sente un “sopravvissuto” e non riesce ad adattarsi al nuovo clima: vede chiaramente i limiti del socialismo reale, ma anche quelli di un Occidente che ha perso la sua anima inseguendo una vuota opulenza. Viene messo in discussione per la collaborazione con la Stasi, ma diventa anche direttore del Berliner Ensemble, il teatro più prestigioso del paese, fondato da Brecht ed Helene Weigel. Compone drammi, liriche, un’autobiografia; rielabora i grandi classici contaminandoli con una modernità mai scontata; si cimenta con la regia e si compiace nel dare interviste, sempre all’insegna della contraddizione, della frammentarietà, del rifiuto di verità universalmente valide e di facili risposte. Scrittore ostico, complesso, mira alla sostanza delle cose spogliate di ogni apparenza consolatoria, “inventando” un linguaggio denso, espressionista, talvolta ai limiti della comprensibilità, proprio come il mondo contemporaneo. Subisce l’influsso del teatro dell’assurdo, di Beckett, di Genet e del corrosivo Artaud, profeta del “teatro della crudeltà”, che entra nella coscienza e distrugge le certezze consolidate. § 1.1.1. La vita Heiner Müller nasce a Eppendorf, piccolo centro della Sassonia, nel 1929, da un impiegato comunale e un’operaia, entrambi iscritti al Partito Socialdemocratico. Durante la dittatura nazista, il padre viene arrestato per le sue idee sovversive e il piccolo Heiner subisce la discriminazione dei compagni di scuola, esperienza che si imprimerà indelebilmente nella memoria e segnerà il suo carattere, timido e introverso al punto da apparire altezzoso. Per continuare a frequentare gratuitamente la scuola deve iscriversi alla Gioventù Hitleriana, ma nel 1944 sfugge all’arruolamento a causa della pessima vista. Nel 1945 il padre, liberato dalla prigionia di guerra, ottiene vari incarichi presso la burocrazia locale grazie al suo passato di oppositore del regime. Heiner denota già passione per la letteratura leggendo avidamente di tutto; dopo il diploma liceale lavora come aiuto-bibliotecario e inizia a scrivere poesie e drammi a sfondo autobiografico. Nel 1950 il padre, in disaccordo con il partito sulla nazionalizzazione delle terre, si rifugia a Berlino Ovest, mentre il figlio si rifiuta di abbandonare la Repubblica Democratica Tedesca perché crede nel nuovo ordine sociale come catarsi rispetto alla passata dittatura. Da questo momento in poi i rapporti con la famiglia d’origine si fanno sporadici e prevalentemente epistolari. Fra il 1953 e il 1955 scrive sulla rivista “Sonntag” e collabora con la casa editrice Aufbau, ma il suo sogno di lavorare con Brecht al Berliner Ensemble sfumerà a causa del rapporto conflittuale con il grande maestro. Nel 1951 sposa la fidanzata Rosemarie, ma pochi anni dopo si unisce alla giornalista e poetessa berlinese Inge Meyer, con cui dà vita a un proficuo sodalizio artistico: nel 1958 esordiscono con Die Lohndrücker (Lo stakanovista), cui segue Die Korrektur (La correzione), drammi didascalici che trattano i problemi del passaggio da un’economia capitalistica a una pianificata. Intanto, il “disgelo” di Kruscev alimenta molte speranze anche nella DDR, che vengono bruscamente spazzate via dall’intervento armato sovietico in Ungheria del 1956. Müller vince il Premio Heinrich Mann e stipula un contratto con il Maxim – Gorki – Theater, che gli dà una certa tranquillità economica, ma la pièce Die Umsiedlerin (L’evacuata), viene censurata e l’autore espulso dall’Associazione degli Scrittori. Per due anni i Müller vivono in condizioni di isolamento, scrivendo sotto pseudonimo per poter pubblicare; Inge, fragile dal punto di vista psicologico e sofferente di depressione, segnata dagli orrori della guerra, si suicida nel 1966. Intanto, nel 1961 la DDR aveva chiuso le frontiere con la Germania Ovest ed eretto il muro di Berlino per porre fine all’emigrazione di cittadini dall’Est, tanto consistente da mettere in difficoltà il nuovo stato. Müller scrive l’ultimo dramma didascalico a sfondo operaio, Der Bau (La costruzione), che incontra ostilità a livello politico e sarà messo in scena la prima volta solo nel 1980. Per aggirare la situazione, abbandona il realismo e si dedica alla rielaborazione in chiave moderna dei drammi antichi, che gli danno l’opportunità di affrontare la relazione fra singolo e storia, fra missione civile e suo tradimento. Fra il 1964 e il ’69 scrive Philoktet (Filottete, da Sofocle), Herakles 5 (Eracle), Prometheus e Ödipus Tyrann (Edipo, da Hölderlin); durante le prove del quale conosce la studentessa bulgara che sposerà nel 1970 e con cui instaurerà un rapporto di collaborazione creativa. Negli anni seguenti si confronta con Shakespeare, riadattando liberamente i personaggi di Amleto, Macbeth e Tito. Nel 1970 corona il sogno di essere assunto dal Berliner Ensemble come drammaturgo; il suo primo lavoro è la rielaborazione del romanzo di Fëdor Gladkov Zement (Cemento), vicenda ambientata nei primi anni dopo la Rivoluzione d’Ottobre in Russia. Nel 1977 stipula un contratto con la Volksbühne – am – Rosa Luxemburg - Platz, per cui scrive Die Schlacht (La battaglia), Germania Tod in Berlin (Germania morte a Berlino) e il capolavoro Hamletmaschine (La macchina di Amleto). Intanto tramonta l’utopia di un “comunismo dal volto umano”: molti intellettuali tedesco-orientali, osteggiati dal regime, lasciano la patria, mentre Müller rimane, ma i drammi rispecchiano la sua amarezza e disillusione. Der Auftrag (La missione), ancora una volta tratto da una novella della Seghers, verte sul conflitto fra adempimento della missione rivoluzionaria e realizzazione personale. La moglie lo accusa di opportunismo e allineamento alla politica del regime, motivo per cui la relazione va in crisi e Heiner trova una nuova compagna nella fotografa Margarita Broich. Nel 1981 dà alle stampe Quartett (Quartetto), uno dei maggiori successi, ispirato a Le relazioni pericolose di Laclos, incentrato sul difficile rapporto fra i sessi, tematica presente anche in Medeamaterial Landshaft mit Argonauten (Materiale su Medea paesaggio con Argonauti, 1982). Intanto la fama dello scrittore varca i confini nazionali: ottiene riconoscimenti nella Germania Federale grazie alla fruttuosa collaborazione con il regista d’avanguardia Bob Wilson e il Partito rivede la posizione nei suoi confronti. Müller è ora simbolo positivo della DDR, viene accolto dall’Accademia delle Arti e nel 1988 riammesso all’Associazione Tedesca degli Scrittori. E’ libero di viaggiare all’estero, gode di agi e privilegi e nel 1986 riceve il Premio Nazionale di Prima Classe della DDR e diventa il drammaturgo più rappresentato del paese. Con la caduta del Muro di Berlino e dello stato tedesco-orientale, con cui nel bene e nel male si è riconosciuto per decenni, lo scrittore entra in una profonda crisi, creativa e personale, nonostante l’importante riconoscimento del Premio Kleist (1990). Invece di comporre nuove opere, interviene pubblicamente in dibattiti, letture e interviste, in una specie di messinscena teatrale di opinioni spesso in voluta contraddizione fra loro. Nel 1992 entra nel comitato dirigente del Berliner Ensemble con Peter Zadek, Peter Palitzsch e Fritz Marquardt, ma il tentativo del “direttorio a quattro” fallisce e Müller guida da solo il grande teatro, allestendo per lo più opere di Brecht (La resistibile ascesa di Arturo Ui, Frammento Fatzer) e sue. Si sposa nuovamente e ha una figlia; intanto pubblica la sua autobiografia Krieg ohne Schlacht. Leben in zwei Diktaturen (Guerra senza battaglia. Vivere in due dittature) e l’ultimo dramma Germania 3 Gespenster am Toten Mann (Germania 3 Spettri sull’uomo morto), che verte ancora una volta sul suo paese, crocevia della storia del Novecento. Diventa di dominio pubblico la sua collaborazione con la polizia segreta (Stasi) ai tempi del regime comunista, cosa che lo rende personaggio ancor più controverso. In questi anni partecipa a svariate tavole rotonde e convegni sia sulla sua opera che sul futuro della Germania (fra cui l’incontro - dibattito con Frano Quadri a Genova nel settembre 1991), tiene un seminario per attori alla Scuola Paolo Grassi di Milano e nel 1994 riceve il Premio Europa per il Teatro a Taormina Arte. Malato da tempo di cancro, muore l’anno successivo. Pare che il commiato dagli amici sia stato graffiante e cinico, com’è nel suo stile: “A me va di lusso. Io non devo venire al mio funerale, voi invece sì”. § 1.1.2 Le opere La prima fase della produzione drammaturgica di Müller risente del magistero di Brecht e del suo “teatro didattico”, ma soprattutto del difficile momento storico che la DDR attraversa, dovendo passare nel giro di pochi anni all’economia pianificata di stampo sovietico e alla collettivizzazione delle terre. La costruzione del comunismo non è indolore, richiedendo che il singolo si sacrifichi nel nome della comunità e dell’utopia di un “paradiso socialista” di là da venire. Il “teatro dialettico” di Müller, evoluzione del “teatro epico” di Brecht, si inserisce nel dibattito culturale stimolato dalle problematiche economiche e sociali ed esprime “il malessere profondo presente nella società” Da Pasquale Gallo, Il teatro dialettico di Heiner Müller, Lecce, Micella, 1987, pag. 262. Non si avventura nell’utopia, ma rimane nel campo della analisi critica della realtà, anche nel lessico (cantiere, fabbrica, trattori,…) che fa riferimento al mondo del lavoro di quegli anni. Più che i singoli personaggi, sottolinea l’elemento collettivo, mentre protagonisti sono “attivisti, capibrigata, funzionari di partito, semplici operai, figure tipiche del mondo socialista” Ibidem, pag. 323 connotate più dal ruolo che svolgono che dalle caratteristiche individuali. Müller demistifica eroi e dogmi con un’implacabile analisi socio-economica, che rifiuta le facili soluzioni: il maggior peso delle trasformazioni in atto viene portato ancora una volta dal proletariato. Il partito si dimostra diffidente nei confronti di una critica giudicata disfattista e pessimista, tacciata di “scetticismo esistenziale borghese”. Der Lohndrűcker (Lo stakanovista, 1956) è tratto da una vicenda realmente accaduta nel 1950 presso la Siemens: un operaio ha fatto risparmiare una cifra ingente all’azienda riparando una fornace senza aspettare che il macchinario si raffreddi, a rischio della sua incolumità, ma alzando anche gli “standard lavorativi” e quindi danneggiando indirettamente i colleghi. Da Hans Daiber, Storia del teatro tedesco contemporaneo 1945-1990, Roma, Gremese, 1993, pag. 111 L’immagine dell’eroe del lavoro socialista, topos della letteratura realista sovietica, viene rovesciata: l’operaio-modello si rivela un delatore, come già lo era stato sotto il regime nazista. Grazie a questa prima pièce e alla successiva Die Korrektur (La correzione) i Müller ottengono un importante riconoscimento, il Premio Heinrich Mann. Traktor (Trattori), opera didattica coeva, ma portata a termine nel 1972, arriva a negare la sovrapposizione fra i termini “eroismo” e “lavoro”: un trattorista, dovendo arare un campo minato, perde una gamba; dal punto di vista dell’individuo, il sacrificio, seppur per nobili fini, rimane un atto violento e innaturale, che contrasta con la sua innata tensione verso la felicità. “I pressanti imperativi alla produttività ad ogni costo […], gli appelli al senso di responsabilità, allo spirito di sacrificio, alla coscienza di classe vengono respinti”. Ibidem, pag. 113 La pièce Die Umsiedlerin oder das Leben auf dem Lande (L’evacuata o la vita in campagna, 1961) tratto da una novella di Anna Seghers che registra la frattura tra utopia comunista e realtà quotidiana in un villaggio contadino del Meclemburgo, prende le mosse dalla divisione delle terre del 1945. Il funzionario di partito che dovrebbe guidare le masse verso il “sol dell’avvenire” è ingenuo e dottrinario nei suoi entusiasmi, tanto da risultare inadeguato e perfino comico. Anche l’emancipazione femminile, sbandierata dal partito come acquisita, nella realtà cela situazioni di prevaricazione dell’uomo sulla donna e di generale arretratezza culturale. L’opera, che subisce il divieto di rappresentazione, gli costerà l’espulsione dalla Associazione degli Scrittori e l’ostracismo degli intellettuali di partito. Der Bau (Il cantiere, 1964) è una riflessione sul concetto di progresso umano a fronte di un impetuoso sviluppo tecnologico Ibidem, pag. 112: la stasi nei lavori di costruzione di un grande complesso chimico è causata dall’incapacità di pianificare e dall’eccesso di burocrazia, mentre le condizioni di lavoro sono infernali. L’arrivo di un nuovo segretario di partito, che giunge all’insubordinazione verso il potere pur di rendere produttivo il cantiere, guadagna alla causa del socialismo nuovi adepti. La metafora è chiara: il cantiere è la DDR di quegli anni, attraversata da duri conflitti, che possono essere superati solo attraverso un doloroso percorso di rinnovamento individuale, accettando transitoriamente la situazione, ma non rinunciando all’utopia. Marino Freschi, Il teatro tedesco del Novecento, Napoli, CUEN, 1998, passim In Mauser (1970) un rivoluzionario che ha ucciso molti nemici del comunismo viene giustiziato per aver risparmiato tre contadini, “nemici della rivoluzione perché ignoranti”. E’ sostituito da un compagno, che sarà liquidato a sua volta, perché uccide non in nome del partito, ma per sé, identificandosi con la propria arma. Dopo aver smarrito la sua umanità negli orrori della guerra, la ritrova paradossalmente nel momento supremo della condanna a morte. Il processo rivoluzionario azzera l’individuo e lo degrada in una spirale di violenza, facendogli compiere le peggiori nefandezze: mentre per Brecht la rivoluzione era cruenta, ma necessaria, per Müller tutte le certezze crollano. Dopo i ripetuti episodi censori, Müller abbandona le tematiche di stretta attualità per volgersi alla classicità, sia greco - latina, che elisabettiana. Nascono così alcuni dei capolavori che lo renderanno celebre all’estero, permettendogli di lavorare nella Repubblica Federale Tedesca: Philoktet (Filottete), Herakles 5 (Eracle), Orazio, Prometheus e Ödipus Tyrann (Edipo, da Hölderlin), Hamletmaschine (La macchina di Amleto, da Shakespeare), Medeamaterial Landshaft mit Argonauten (Materiale su Medea paesaggio con Argonauti). Adombrati sotto vicende mitologiche, ritornano i consueti problemi del vivere insieme: menzogna, sopraffazione, violenza, ragion di stato, espressi con un linguaggio concentrato, stratificato, mentre le forme drammatiche passano dal monolitismo della tragedia greca al frammento, dall’azione alla narrazione, dal dialogo al monologo. Orazio affronta in modo scarno e secco un problema che ritorna spesso nelle opere di Müller: il conflitto insanabile fra necessità storica e istanze individuali. Medeamaterial accumula aforismi, citazioni, spezzoni di dialogo e monologhi, mentre i ruoli dei personaggi sono intercambiabili. Hamletmaschine, il cui grande successo è dovuto anche alla messa in scena di Wilson, segna la sconfitta e la perdita di identità dell’intellettuale. Dopo l’epilogo, l’interprete di Amleto non riesce ad uscire dal personaggio ed è fagocitato da pensieri ossessivi e angoscianti: l’artista è ridotto a macchina, servitore del potere, incapace di cambiare lo stato delle cose. “I rapporti sociali appaiono dominati da un rigido sistema di gerarchie […] non esiste nemmeno la solidarietà fra le vittime, che si trovano nell’impossibilità di comunicare […] i personaggi non conoscono né l’interesse per le altrui sofferenze né la capacità di provare empatia.” Simonetta Falchi, , Amleto e la crisi dell’intellettuale in Hamletmaschine di Heiner Müller, Sassari, Composita editoria, 2006, pag.146 Germania Tod in Berlin (Germania morte a Berlino) riunisce in una “paratassi surreale sconfitta spartachista e carneficina nibelungica, Hitler e Goebbels, […]Federico di Prussia travestito da pagliaccio, la nascita della Repubblica Federale Tedesca e l’insurrezione berlinese del 1953” Roberto Alonge, (a cura di) Storia del teatro moderno e contemporaneo, Torino, Einaudi, 2001, pag. 543 L’ultimo Müller si connota per l’ “estetica del frammento”: tratta i testi come puri materiali e inserisce pezzi di una pièce in un’altra, rifacendosi al Brecht di Fatzer e all’avanguardia di Artaud, che fa irrompere con violenza la vita nel teatro. Dopo anni rimette in scena Die Lohndrücker capovolgendone il significato didattico (ormai le speranze riposte nel socialismo sono crollate del tutto) e aggiungendo un testo posteriore, Orazio; similmente, inserisce il suo Hamletmaschine nell’Amleto di Shakespeare. La creatività proteiforme di Müller negli ultimi anni si dedica alla regia, anche lirica, all’autobiografia Krieg ohne Schlacht, di una disarmante sincerità anche sugli aspetti meno edificanti della sua vita, alla poesia e al montaggio in nuove forme dei suoi lavori. Germania 3 Gespenster am Toten Mann (1995), l’ultima fatica dell’autore, risente di fatti autobiografici, la malattia innanzitutto, e dei recenti avvenimenti che hanno segnato la Germania. Heiner Muller, Teatro 4: Germania 3: spettri sull’uomo morto, a cura di Peter Kammerer, Milano, Ubulibri, 2001, pag. 11 In una successione concitata e frammentaria di scene si susseguono Rosa Luxemburg, Stalin, Hitler, tratteggiate come figure mitiche, la battaglia di Stalingrado, sottolineata da citazioni di Hölderlin e Kleist, la morte di Brecth e il XX Congresso del PCUS, durante il quale vengono denunciati i crimini dell’epoca staliniana. § 1.2 Philoktet di Heiner Müller § 1.2.1 Struttura e vicenda La stesura di Philoktet si inscrive nel periodo di rielaborazione dei classici, favorita dai problemi con la censura e dall’espulsione dalla Associazione degli scrittori. Müller però non smette di interessarsi alle questioni politiche e sociali, anzi corrobora le sue riflessioni alla luce dei grandi modelli letterari. La tendenza è comune ad altri scrittori della DDR, come Peter Hacks, alla ricerca di un modus vivendi all’interno del regime comunista. Il primo approccio con la figura della sfortunato eroe greco risale alla poesia Philoktet 1950, in cui si coglie l’eco della fondazione della DDR, avvenuta nel 1949: l’autore è consapevole che per far crescere il giovane stato nella concordia è necessario l’apporto di tutti, anche di coloro che, come Filottete ai tempi della guerra di Troia, covano rancore verso i nuovi potenti. L’incontro con l’altro personaggio-chiave del dramma, Ulisse, avviene alla fine degli anni Cinquanta, quando Müller scrive la lirica Ulyss: si tratta dell’eroe raccontato da Dante, spinto dalla curiosità a continuare il viaggio oltre le Colonne d’Ercole, nell’oceano aperto, a rischio della vita, lasciandosi alle spalle le certezze di una patria finalmente ritrovata. Heiner Müller, Filottete, traduzione di Peter Kammerer, Il Melangolo, 2003, pag. 15 L’amara constatazione dell’autore è che l’amore per la conoscenza e la fantasia non hanno più spazio nella DDR e in generale nella nostra società, dedita esclusivamente alla produzione e al consumo. Inizia a scrivere la pièce Philoktet nel 1962 e la termina due anni dopo, a breve distanza dalla costruzione del Muro di Berlino e in piena guerra fredda, quando i drammatici ricordi della seconda guerra mondiale e del nazismo sono ancora brucianti. Filottete, figlio di Peante, re di Melos, appicca il fuoco alla pira su cui giace Eracle, dilaniato dalla tunica avvelenata dal centauro Nesso: per ricompensarlo del pietoso gesto, il dio gli dona il suo infallibile arco. Nel frattempo egli risponde all’appello della guerra contro Troia, ma non giunge alla meta a causa del morso di un serpente, che gli provoca indicibili dolori; le sue grida e il fetore della ferita ammorbano i compagni, tanto che Ulisse decide di abbandonarlo sull’isola di Lemno. Qui trascorre dieci lunghi anni in totale solitudine, procacciandosi il cibo con il suo arco, finchè il veggente troiano Eleno rivela che per conquistare Ilio è indispensabile l’arma infallibile di Eracle. Allora Neottolemo, figlio di Achille, e Ulisse approdano sull’isola con il compito di prendere l’arma anche a costo della menzogna e del delitto. La tragedia non ha un solo protagonista, ma tre, che si fronteggiano con i loro antichi rancori: Neottolemo detesta il re di Itaca perché gli ha sottratto le armi del padre morto, Filottete ha maturato un insanabile odio verso tutti i Greci e Ulisse in modo particolare, in quanto responsabile del suo abbandono a Lemno. Il giovane Neottolemo, ingenuo e fragile al confronto degli altri due, oscilla fra la sincera simpatia per lo sfortunato guerriero e il senso del dovere nei confronti della patria. Ulisse è rappresentato come politico cinico dedito alla ragion di stato, corrotto dall’ambizione e dal successo, pronto all’inganno e alle peggiori nefandezze pur di raggiungere l’obiettivo. Dopo aver provato a blandire l’infermo con vaghe promesse e a sottrargli l’arma con l’inganno, la situazione precipita: Filottete reagisce cercando di uccidere il suo antico traditore, ma Neottolemo salva Ulisse sferrando un colpo mortale contro l’aggressore. La tragedia sta proprio nel contrasto fra la ferma volontà dell’uomo di essere padrone del proprio destino e il fato, mistero sacro e imperscrutabile che governa le nostre esistenze. § 1.2.2 Analisi del testo Si fa riferimento alla traduzione di Peter Kammerer e Gabriella Galvani Atto unico con tre soli personaggi (Ulisse, Filottete, Neottolemo), è preceduto dal Prologo, interpretato da Filottete con la maschera di un clown. Le sue parole esprimono una visione del mondo pessimistica e senza speranza: Confessiamolo subito: è fatale/quel che mostriamo qui è senza morale./ Per la vita da noi nulla potete imparar/ Chi vuole, se ne può ancora andare/Siete avvertiti./Per voi niente da ridere ci sarà/con quel che ora insieme si fa. Il dramma inizia con l’approdo di Ulisse e Neottolemo a Lemno e l’incontro con Filottete, che vive in una grotta scavata nella roccia dal mare, avendo per giaciglio un letto di foglie e per unico cibo gli avvoltoi che gli volano intorno, attratti dalle esalazioni della ferita. Ulisse, consapevole dell’odio del re di Melos nei suoi confronti, fa affidamento sul figlio di Achille: il ragazzo dovrebbe sottrargli l’arco distraendolo con belle parole. Neottolemo, ostile e sospettoso verso Ulisse, è recalcitrante di fronte alla prospettiva dell’inganno, preferirebbe un combattimento a viso aperto, ma il compagno lo richiama alla responsabilità e al dovere verso la patria. Il piano di Ulisse è questo: Neottolemo manifesterà sinceramente al guerriero ferito la sua identità e il suo odio verso Ulisse e i comandanti greci che si sono appropriati delle armi paterne, aggiungendo che sta ritornando in patria, offeso per l’onta subita. Nel frattempo, Ulisse si nasconderà per non essere riconosciuto. Il re di Itaca si mostra ancora una volta cinico e astuto: Ti ho scelto come aiuto per il mio piano/Perchè sarai credibile mentendo con la verità./ Con un nemico faccio cadere nella rete un nemico Filottete, sorpreso e insospettito dalla vista di un greco dopo tanti anni, minaccia Neottolemo di morte, ma poi il desiderio di ascoltare ancora una volta la sua lingua ha il sopravvento. Neottolemo si presenta e dice di essere diretto a Sciro, sua terra natale, risentito per l’ingratitudine dei greci e in particolare di Ulisse; Filottete risponde con la desolante affermazione Hai reso ai greci un servizio?/ Sono giusti, in cambio ti puniscono./ Solo un greco può essere tanto folle/ da muovere un dito per un greco. Negli anni ha perso la concezione del tempo e di sé stesso, abbrutito dal dolore, dalle privazioni e dalla nostalgia per la verde isola di Melos; ora non desidera altro che una nave che lo riporti a casa. Neottolemo gli racconta gli ultimi anni di guerra: la morte di Achille per mano di Paride, l’appropriazione delle sue armi da parte di Ulisse e la pazzia di Aiace, ma all’improvviso Filottete è assalito dall’eterno, crudo dolore al piede e, non reggendosi più in piedi, affida con fiducia il prezioso arco al ragazzo. Il figlio di Achille, di fronte alla sofferenza e alla solitudine di un greco come lui, non riesce più a recitare la parte impostagli da Ulisse e rivela la verità, pregando Filottete di seguirli sulla nave per rendere possibile la distruzione di Troia e la successiva vendetta sul traditore Ulisse. Filottete replica con amarezza: Il tuo maestro d’inganni, ingannatore/ tuo anche, rapinatore che ti ha insegnato a rapinare/ mio nemico e tuo non sarà avaro di lodi./[…]Metti il tuo piede sul mio collo, vincitore/insegna al vinto, quel che tu prima di lui hai imparato/ vinto prima di lui, insegnami a gustare la dolcezza/ della sottomissione, tu sottomesso […] Oh gioia del calpestato. Ancora un calcio./ Oh libidine di essere polvere sotto la suola/ che ha calpestato nella polvere un mio simile prima di me. e si rifiuta di seguire i due uomini alla volta di Troia: non sente più solidarietà verso i compagni d’armi e non gli importa nulla delle sorti della guerra, anzi si riferisce all’esercito greco con termini dispregiativi come “cani”. Neottolemo non vorrebbe usare la forza per convincerlo ed è sempre più combattuto fra pietà umana e senso del dovere, mentre Ulisse, pur di raggiungere il risultato, fa balenare al suo antagonista la prospettiva della vendetta su di lui, dopo l’arrivo a Troia. Il ragazzo ridà l’arco al legittimo proprietario, provocando la violenta reazione di Ulisse, ma ormai Filottete vuole rifarsi dell’affronto subito tanti anni prima e si appresta ad uccidere il suo nemico di sempre, quando interviene a sorpresa Neottolemo conficcando la spada nella schiena dell’aggressore e salvando malvolentieri l’odiato Ulisse NEOTTOLEMO: Triste gloria ammazzare un morto/ E’ il corpo della sua morte che perde il suo sangue/ da tempo stava sotto il piede della morte./ alle nostre e alle sue disgrazie ho messo fine/ Io Il cadavere serve ancora, Ulisse lo riporta a Troia per avvalorare la sua versione dei fatti: i troiani sono arrivati prima di loro a Lemno per cercare di corrompere Filottete e farsi consegnare l’arco invincibile, ma egli non ha ceduto e si è fatto uccidere piuttosto che rinnegare la propria patria. Il corpo senza vita è caduto dalle rocce in mare, dove i due greci l’hanno recuperato. I troiani, fuggendo precipitosamente per il sopraggiungere dei nemici, hanno dimenticato il prezioso arco, che è ora in mano greca. Con questo capovolgimento finale dei fatti Ulisse dà nuovamente saggio di una diabolica astuzia che non conosce umanità e irride i sacri valori di lealtà e pietà per i morti. A Neottolemo invece rimorde la coscienza per ciò che ha appena fatto e incolpa il compagno del punto di bassezza cui l’ha spinto: Seguendoti ho calpestato il meglio di me/ nella tua scuola bugiardo, ladro e anche assassino. Ma Ulisse ancora una volta sa come difendersi e prevenire eventuali esplosioni d’ira del giovane: se egli dovesse morire, mancherebbe un testimone importante della vicenda e i compagni potrebbero incolpare lui dell’uccisione di Ulisse, visto che tutti sono a conoscenza dell’ostilità fra i due. La chiusura dell’opera è una vera lezione di cinismo da parte di Ulisse: Ti dirò davanti a Troia la bugia/ con cui avresti potuto lavare le tue mani/ se avessi versato il mio sangue ora e qui/ Più svelto, non lasciarti sbollire la rabbia/ A Troia è apparecchiata la tua tavola, và più svelto I due si caricano sulle spalle il cadavere, prendono il prezioso arco con le frecce e si dirigono verso la nave, che li riporterà a Troia con la prospettiva della vittoria. § 1.2.3 Il linguaggio Müller ha una scrittura prettamente letteraria, si ispira ai classici e a Shakespeare; fa un uso accorto e stratificato del linguaggio, partendo dalla citazione per rivestirla di nuovi significati. Scrive i suoi drammi in versi: il Blankvers (verso di cinque giambi non rimato) shakespeariano e il Knittelvers (verso a rima baciata, di origine germanica e popolare) usato da Schiller, in un’epoca in cui non esiste più la tradizione del verso tragico Heiner Müller, Filottete, traduzione di Peter Kammerer, Il Melangolo, 2003, passim. Ciò pone notevoli problemi di traduzione: la scrittura di Müller è essenziale, scarnificata fino alla brutalità, spezza conclusione metrica e semantica con l’enjambement. L’ermetismo di alcuni passi rasenta l’incomprensibilità, molti versi sono cifrati, ambigui e lasciano aperte diverse interpretazioni, fra le quali il pubblico dovrà scegliere la propria, indirizzato dall’interpretazione dell’attore. L’autore usa raramente il punto interrogativo, per cui una frase può essere sia affermativa che interrogativa, così come un aggettivo o un verbo sono lontani dal sostantivo cui si riferiscono. Il linguaggio di Müller ha molto della concretezza tipica della lingua greca, del suo ricorso al paragone con gli oggetti (“la tua parola ha le maglie larghe”) Ibidem ed emana grande forza, talvolta perfino violenza evocativa, in cui si percepisce la tensione interna al testo, derivante dalla poetica del sottotesto e dalla continua riscrittura. Pur nella crudezza delle immagini, si ravvisa un senso del ritmo dato dall’assonanza delle parole. FILOTTETE Completamente ebbro del tuo puzzo/ carogna sotto gli avvoltoi, riducendoti negli avvoltoi/ stercoraio per avvoltoi, presto sterco di avvoltoi/ striscia in gara col tuo marciume/ che ha raggiunto già il tuo piede e/ presto prenderà te, lo strisciante, striscia più veloce. La parola, il suo uso cinico e raffinato diventano strumento non di comprensione reciproca ma di oppressione, arma con cui si perpetra un omicidio. Peter Kammerer e Gabriella Galvani non tentano neppure di appianare queste difficoltà nella traduzione di Philoktet, lasciando il più possibile immutata la simmetria e la posizione delle parole nel verso per restituirci il pensiero dell’autore; la loro traduzione è più lirica e ritmata di quella di Saverio Vertone. Saverio Vertone e Mario Missiroli cercano, nella loro versione, di “ricreare il ritmo del blankvers con un verso di quattordici sillabe, con qualche rottura e il ricorso al verso libero” Ibidem, non dimenticando che la lingua di Müller ha la funzione di costringere l’attore ad assumere determinate posizioni, coerenti con le espressioni, dal discorsivo al declamato eroico. § 1.2.4 Le tematiche Müller è un drammaturgo che spiazza, che pone problemi più che suggerire soluzioni ed esige da parte del pubblico una partecipazione attiva e un’interpretazione personale di ciò che vede sulla scena; gli stessi registi lo mettono in scena in modo molto diverso fra loro. Il contesto culturale cui attinge, la Germania e le sue trasformazioni nel corso del Novecento, è molto ricco e complesso. Non ha una visione monolitica della realtà, ma continua ad aggiornare le sue posizioni alla luce dei cambiamenti che avvengono nella società: ad esempio, la questione di quanto il singolo si debba sacrificare per il bene comune subisce un’evoluzione nel corso del tempo, ma non teme di essere tacciato per questo di opportunismo e ipocrisia. Sostituendo il concetto aristotelico di rappresentazione con quello di esperienza, identifica come Artaud il teatro con la vita, ovvero con una tremenda necessità di cui è impossibile spiegare tutto. Il suo è un teatro di rottura: rinuncia al personaggio principale, il linguaggio diventa un flusso ininterrotto, la frase non rispetta sempre la sintassi e torna alla tragedia in versi. Philoktet si inserisce nell’ampia riflessione, iniziata con il teatro dialettico degli anni Cinquanta, sull’uomo come “animale sociale”, sugli inevitabili conflitti che scaturiscono dal vivere insieme e sul valore della politica. Rispetto a quegli anni, il suo pensiero si è fatto più pessimista, fino a rasentare il nichilismo, alla luce degli esiti deludenti del socialismo calato nella realtà. Cala le medesime tematiche nel mondo classico per avere maggior libertà creativa e poter far arrivare il messaggio al pubblico aggirando la censura. Avverte con particolare acutezza il dissidio fra ragione di stato, rappresentata da Ulisse, e diritti del singolo, incarnati da Filottete. Non vi è alcun eroe positivo, i meccanismi inconfessabili della politica stritolano l’uomo e lo riducono a mero strumento. Anche Filottete non è del tutto innocente, anzi si configura come vittima-carnefice: dopo dieci anni di abbandono e di stenti, ha maturato un odio profondo contro coloro che lo hanno lasciato al suo destino e contro il maggior responsabile, Ulisse. Nei confronti di Neottolemo, impetuoso e incoerente nel suo candore giovanile, ha sentimenti ambivalenti: da un lato prova simpatia per il primo essere umano che vede dopo tanto tempo, dall’altro si sente raggirato e, come molti deboli, diventa aggressivo anche contro chi vorrebbe aiutarlo. Filottete è l’emblema di tutti gli sconfitti, degli emarginati, di coloro di cui la società vorrebbe dimenticarsi, nascondendoli in qualche anfratto. La sua è la solitudine del diverso, di chi è escluso dal consesso umano per una disgrazia di cui è incolpevole, ma che non può salvarsi. Rappresenta i reduci di tutte le guerre, meccanismi assurdi che distruggono la verità e la giustizia, facendo emergere la parte peggiore dell’animo umano. Ulisse incarna l’esito peggiore della ragion di stato, quando non rispetta più l’uomo e smarrisce ideali e forza propulsiva per ridursi a realpolitik: Machiavelli ante-litteram, architetta alla perfezione un piano, usando gli esseri umani e servendosi del ricatto e della menzogna. La politica diventa tirannide senza volto, fa commettere perbenisticamente il delitto “a qualcun altro” e tritura elementi positivi come Neottolemo, che non ha la forza di opporsi e dopo l’esperienza di ingiustizia subita – il furto delle armi di Achille da parte di Ulisse – diventa aggressore a sua volta. Non c’è speranza in questo universo cupo e violento, in cui risuonano sinistri gli echi di una guerra eterna, in cui l’uomo non ha diritto alla felicità. § 1.2.5 Le messe in scena italiane di Philoktet La prima rappresentazione di Philoktet in patria risale al 1968, ma la “prima” in Italia avviene nel 1979, in occasione della XXII Rassegna internazionale dei teatri stabili, dedicata al tema “I greci: nostri contemporanei?”. Elio Pagliarani, Il viaggio di Ulisse, in “Paese Sera”, 26 aprile 1979 Il Deutsches Theatr di Berlino Est presenta una messincena ad opera dei tre attori (Alexander Lang, Christian Grashof, Roman Kaminski), che si occupano anche delle scenografie. I personaggi indossano abiti vagamente contemporanei – Filottete ha pantaloni informi e camiciotto largo, Ulisse un impermeabile attillato, Neottolemo gilet e stivaletti da ragazzo di periferia – ma l’atmosfera cupa e allucinata e la luce cruda richiamano il teatro dell’assurdo Renzo Tian, Il Filottete di Müller, in “Il Messaggero”, 27 aprile 1979. Nel 1983 Glauco Mari dà vita al Teatro Carcano di Milano a un interessante e riuscito accostamento fra l’originale di Sofocle e la rielaborazione del drammaturgo tedesco, da lui già inscenata nel 1975 C.M, Archeologia in palcoscenico, in “Oggi”, 14 dicembre 1983. Nel 1985 il regista Flavio Ambrosiani accosta in una inedita trilogia Philoktet - Orazio - Mauser al Teatro della Piccola Commenda di Milano, nella traduzione di Saverio Vertone. Il filo conduttore è l’uomo come “animale politico”, inevitabilmente portato all’inganno e alla menzogna. Maria Grazia Gregori, La scena moralista, in “L’Unità”, 22 gennaio 1986 E’ ambientato nella Grecia del 1940, occupata dalle truppe fasciste italiane; Ulisse incarna una spietata, machiavellica ragion di stato, Filottete è un’ambigua vittima-carnefice: la politica ha lasciato il posto alla tirannia. Ugo Ronfani, Trilogia di Müller, in “Il Giorno”, 29 ottobre 1985: Sempre nel 1985 Francesco Capitano allestisce e interpreta Philoktet alla “Piramide”, con una scenografia geometrica in bianco e nero Francesca Bonanni, E’politico questo Filottete, in “L’Unita”, 20 ottobre 1985 e una armonica valorizzazione del Blankverse di Muller, nella traduzione di Saverio Vertone e Mario Missiroli. Le più recenti messe in scena risalgono al 2003, ad opera del Teatro Stabile di Genova e della Compagnia Lady Godiva. Lo Stabile di Genova si avvale della regia e della scenografia di Matthias Langhoff, stretto collaboratore dell’autore e della traduzione lirica e raffinata di Peter Kammerer e Graziella Galvani. “Lo spazio dove si recita è sovrastato da un proscenio postbarocco puntellato da una sghemba colonna classica […] sul fondale sono proiettati un mare sempre in movimento, ovvero immagini di guerra e sangue e dettagli vagamente ripugnanti” Masolino D’amico, Guerra, sangue e Filottette, in “La Stampa”, 2 giugno 2003 I costumi di Luciana Manari, vagamente horror, ma efficacissimi – Filottete è un cumulo di stracci, truccato da morto e vicino alla follia – riducono gli interpreti (Jurij Ferrini, Marco Sciaccaluga, Antonio Zavatteri e Ferderico Vanni) a fantocci, fra città bombardate e cataste di cadaveri, a sottolineare l’assurdità di ogni guerra. Franco Quadri, Storie di imperialisti da Troia ai giorni nostri, in “La Repubblica”, 2 giugno 2003 La messinscena della compagnia ravennate Lady Godiva, con la regia di Eugenio Sideri, si avvale di quattro giovani attori pressoché sconosciuti, che si muovono e danzano in una scena mobile e plasmabile. Gli interpreti comunicano un’umanità che l’autore si limita a sottintendere e lasciano aperto uno spiraglio di speranza che esorcizza la brutalità della sopraffazione. Esperimento originale di contaminazione fra le arti si deve a Magdalena Jetelova e Jannis Kounellis, che utilizzano il testo di Müller come base per l’evento realizzato a Roma nel 2004 presso Opera Paese. CAP. 2: FILOTTETE NEL MONDO ANTICO § 2.1 Filottete nei poemi epici La leggenda di Filottete è molto antica e conosciuta già in epoca preomerica; il secondo libro dell’Iliade la cita nel Catalogo delle navi, interpolazione estranea al poema Luigi Adriano Milani, Il mito di Filottete nella letterata classica e nell’arte figurata: studio monografico, Firenze, Le Monnier, 1879, pag. 4. Filottete, definito esperto arciere, si aggrega alla spedizione achea contro Troia con sette navi, ben presto però deve essere abbandonato dai compagni per una tremenda ferita causata dal morso di una serpe. Il Catalogo non narra l’antefatto del ferimento, né la circostanza in cui avvenne e non compare neppure l’arco di Eracle. Si fa cenno al futuro ruolo di Filottete nella presa di Troia, ma soprattutto si evidenzia la combinazione di dolore fisico e sofferenza interiore per l’abbandono subito dai compagni. Nell’Odissea il nome di Filottete è presente nel terzo libro (Od., III, 490), menzionato da Nestore come “eroe che rimpatria felicemente” e nell’ottavo (Od., VIII, 249 seg.), dove Odisseo, abile arciere, asserisce che solo Filottete poteva superarlo. Ibidem, pag. 4 Lo sfortunato guerriero compare frequentemente nel ciclo epico troiano che precedeva o seguiva le vicende narrate nell’Iliade. La Piccola Iliade, che racconta le ultime fasi della guerra, seguenti alla conclusione dell’Iliade, è stata compendiata nella Crestomazia di Proclo, a sua volta perduta, ma riassunta nella Biblioteca del bizantino Fozio ( IX sec.) Dario Del Corno, Letteratura greca, Milano, Principato, 1995, pag. 67, grazie alla quale possiamo farcene un’idea: Odisseo cattura Eleno, indovino figlio di Priamo, secondo la cui profezia Troia non sarà presa senza Filottete; Diomede si occupa di riportarlo sotto le mura di Ilio, dopodichè l’eroe, guarito da Macaone, figlio di Asclepio, torna a combattere e uccide Paride Sofocle, Filottete, introduzione e commento di Pietro Pucci; testo critico a cura di Guido Avezzù, Milano, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, 2003, pag. XII e segg.. Per il buon esito dell’assedio – aggiunge il vaticinio – è indispensabile anche Neottolemo, giovane figlio di Achille che vive a Sciro: Odisseo stesso vi si reca per portarlo in battaglia. Anche dei Canti Ciprii, in cui vengono esposti gli antecedenti dell’Iliade, abbiamo notizia attraverso la Crestomazia di Proclo: secondo questa versione i greci giungono dall’Aulide all’isola di Tenedo, nell’Egeo orientale, dove l’eroe viene morso da un serpente acquatico e successivamente abbandonato nella vicina Lemno a causa del fetore della ferita. L’unica discrepanza consiste nell’identificazione dell’isola in cui avviene l’incidente, mentre è sempre Lemno il luogo che ospita il figlio di Peante per dieci lunghi anni. Eustazio, Pausania, Tzetze e lo stesso Sofocle tramandano che la morsicatura del serpente sarebbe avvenuta sull’isoletta di Crise, sacra alla ninfa omonima e non lontana da Lemno. Secondo alcune interpretazioni, la ninfa, innamorata non ricambiata di Filottete, si sarebbe vendicata facendolo assalire da un’idra. Luigi Adriano Milani, Il mito di Filottete nella letterata classica e nell’arte figurata: studio monografico, Firenze, Le Monnier, 1879, pag. 12-13 Vi è addirittura una leggenda, riportata da Tzetze, secondo cui Filottete, dopo la caduta di Troia, sarebbe approdato in Campania. Ibidem, pag. 30 Non è possibile affermare con certezza quali di queste versioni indirette siano corrette poiché si tratta di pochi frammenti riportati da altri autori, in cui le tradizioni locali si intrecciano alla creazione letteraria. § 2.2. Filottete in Eschilo ed Euripide Il mito di Filottete è stato trattato da molti poeti drammatici: Eschilo, Sofocle, Euripide, Acheo Eretriense, Filocle, Teodecte ed Accio e dai comici Epicarmo e Antifone, ma l’unico dramma che possediamo per intero è quello di Sofocle. Delle tragedie di Eschilo ed Euripide conosciamo un breve riassunto attraverso la parole di Dione Crisostomo, che lascia anche qualche nota critica. Di Eschilo possediamo alcuni brevi frammenti, ma non sappiamo se abbia composto su questo soggetto una sola tragedia o una trilogia. Appare accertato che Odisseo si rechi senza compagni a Lemno da Filottete, che non lo riconosce e si fa convincere abbastanza facilmente a seguirlo a Troia; il coro è composto dagli abitanti dell’isola, che quindi non è deserta. La figura del re di Itaca non è negativa come in altre opere: è sì astuto, come di consueto, ma non cinico. La tragedia, per quanto se ne può arguire, è lineare, di austera, epica semplicità, com’è nello stile di Eschilo. Sofocle, Elettra e Filottete, Firenze, Sansoni, 1938, pag. 197 Si sa qualcosa di più della tragedia di Euripide, andata in scena attorno al 431 a.C. e tramandata da Dione Crisostomo, che fa addirittura la parafrasi della prima scena, e dallo scrittore latino Igino. Apporta alcune novità rispetto ai modelli precedenti: introduce Diomede e un personaggio nativo di Lemno, Attore, mentre il coro è composto da abitanti dell’isola. Il prologo è espositivo: Odisseo, ispirato in sogno da Atena, si precipita a Lemno insieme al compagno di ventura Diomede per riportare in guerra Filottete nel timore che i Frigi lo precedano. Camuffato da Atena in modo da non essere riconoscibile, si spaccia per nemico degli achei a causa dei torti subiti e conquista la fiducia dell’infermo, che gli espone i suoi patimenti e lo supplica di riportarlo in patria. Di fronte alle accattivanti profferte dei Troiani, capeggiati da Paride, che in cambio dell’arco gli conferirebbero il potere sulla loro città, Filottete sta per cedere, ma Odisseo con un discorso profondamente commovente, ridesta in lui l’amor di patria. Si suppone che l’agone fra Paride e Odisseo, probabile “pezzo forte” della pièce, fosse molto elaborato dal punto di vista retorico e convincente sotto l’aspetto drammatico. Poi, in modo non del tutto chiaro, l’astuto Odisseo, approfittando di un attimo di assopimento dello sfortunato eroe, si sarebbe impossessato della preziosa arma. Filottete, destatosi, si trova davanti il vecchio nemico, che gettata la maschera, gli espone il vero motivo della sua venuta, attribuendo la colpa delle sue sofferenze e del suo abbandono a Lemno al fato. Lo esorta a seguirlo a Troia, dove sarà guarito e adeguatamente ricompensato in gloria, perchè questo è il volere degli dei, cui non può non sottomettersi. Alla fine del dramma appare il consueto deus ex machina, di cui però non conosciamo l’identità, che conferma quanto detto da Odisseo. Da quanto si evince, la trama costruita da Euripide è più convincente e realistica di quella di Eschilo, dalla nobiltà arcaica e severa, ma piuttosto improbabile. L’attenzione di Euripide non è tanto concentrata sul dramma umano del protagonista, quanto sull’abilità politica e oratoria di Odisseo, che ottiene di più con la forza della parola che con le armi. Delle opere di Acheo Eretriense, contemporaneo di Euripide, Filocle e Teodecte abbiamo scarse notizie dalla Suda, monumentale raccolta enciclopedica bizantina del sec. XI. Luigi Adriano Milani, Il mito di Filottete nella letterata classica e nell’arte figurata: studio monografico, Firenze, Le Monnier, 1879, pag. XX § 2.3 Filottete di Sofocle § 2.3.1 L’autore e il suo tempo Sofocle, durante la sua lunghissima esistenza, che si estende su quasi tutto il V sec. a.C. (496-406 ca.), assiste allo splendore dell’età di Pericle e alla decadenza dovuta al protrarsi della guerra peloponnesiaca. Fra i tre grandi tragici, appartiene alla generazione di mezzo, pur morendo poco dopo Euripide. Durante la giovinezza vive l’epoca gloriosa delle guerre persiane (pare che per la sua avvenenza abbia guidato la danza per celebrare la vittoria di Salamina), assorbe la dignità e la grandezza della civiltà greca e ne fa propri i valori. Riceve un’educazione aristocratica, da giovane è uno stimato attore che primeggia nell’arte coreutica e nella musica, in età adulta è un uomo fortunato, bello, agiato, amato dai concittadini e dagli uomini di cultura, tanto che perfino gli strali dei comici lo risparmieranno. Ricopre cariche pubbliche di rilievo: ellenotamio (amministratore del tesoro) della lega delio-attica, stratega insieme a Pericle nella guerra contro Samo, sacerdote di una divinità locale; è amico di Erodoto e dello stesso Pericle. Riporta diciotto vittorie nell’agone drammatico, più di tutti gli altri poeti, ed è considerato colui che ha portato alla maturità espressiva il genere tragico. Aristotele nella Poetica gli attribuisce innovazioni importanti in ambito teatrale come l’introduzione del terzo attore, l’invenzione della scenografia dipinta e l’innalzamento del numero di coreuti da dodici a quindici, ma non abbiamo dati certi che lo comprovino. Inoltre abbandona la trilogia, tipica di Eschilo, a favore delle tragedie singole, incentrate sull’eroe solitario o sullo scontro fra due personalità d’eccezione, rappresentanti due modi diversi di concepire l’esistenza umana. Le sue pièce sono più varie e hanno più ritmo di quelle arcaiche, basandosi su vicende e rapporti interpersonali maggiormente articolati. Dario Del Corno, Letteratura greca, Milano, Principato, 1995, pag. 199 Diversamente da Eschilo, gli eroi non confidano esclusivamente negli dei per vedere risolte le contraddizioni del reale, ma spesso sono dannati alla sofferenza e vivono un dissidio inconciliabile fra libertà e necessità. Ibidem, pag. 211 La tragedia singola evidenzia, più che il destino di una intera stirpe, la figura dell’eroe, dall’individualità irripetibile, di cui porta tutto il peso; la divinità è presente, ma l’uomo deve trovare in sé stesso il significato del proprio vivere e della propria sofferenza. Questa tensione etica si esprime con mirabile equilibrio e qualità formale nelle sette tragedie che conosciamo, anche se gli alessandrini gliene attribuiscono più di cento. L’eroe dilaniato dai conflitti e dalle contraddizioni, rappresentante di tutta l’umanità, è solo di fronte alla sorte, che gli si accanisce contro senza che egli ne abbia colpa, come avviene in Edipo re, considerata “la tragedia” per antonomasia. Mancano riferimenti diretti all’attualità, anche se la riflessione generale sul destino umano non può prescindere dal rapporto individuo-società, calato nella fulgida Atene del tempo. Nonostante le tematiche ricche di pathos e di conflitti, lo stile sofocleo si distingue per la raffinatezza e l’eleganza armoniosa, vertice espressivo della Grecia classica. Pur consapevole del mistero insondabile della vita umana, pone al centro l’uomo, che non rinuncia alla propria dignità e sfida il fato anche quando è consapevole di soccombere. Paradigmatica in tal senso è Aiace: gli Atridi hanno attribuito ad Odisseo le armi di Achille; il re di Salamina, profondamente offeso per non essere stato giudicato il più valoroso, decide di uccidere i capi dell’esercito, ma Atena, per punire la sua presunzione, lo fa impazzire: non più capace di distinguere gli uomini dagli animali, fa strage di pecore invece che di condottieri. Ritornato in sé, non regge al disonore e si dà la morte; il re di Itaca però non gioisce per l’umiliazione del rivale, percependo la labilità del destino umano e la fragilità dell’esistenza, anzi si adopera per far tornare l’armonia fra gli Atridi e il fratellastro di Aiace, che stavano disputando sugli onori funebri da attribuire al cadavere. Dario Del Corno, Letteratura greca, Milano, Principato, 1995, pag. 201 Il protagonista è menomato nella mente, mentre Filottete lo è nel corpo, ma uguale è la solitudine di fronte alle meschinità della vita e alla indifferenza degli dei. Odisseo ha in Aiace un atteggiamento più rispettoso nei confronti delle umane sorti di quanto dimostri nel Filottete, ma per converso la divinità nel primo dramma appare lontana e distaccata, insensibile ai patimenti degli uomini. Al contrario, Eracle in Filottete è percepito come una divinità “amica”, che si manifesta per mostrare la strada da seguire al suo protetto e comporre nel migliore dei modi il dissidio creatosi. Trachinie racconta parte dell’antefatto della vicenda di Filottete: Deianira, moglie di Eracle, fa ricorso al filtro d’amore donatole dal centauro Nesso per riconquistare la passione del marito, distratto da una giovane concubina. In realtà, la pozione è un potente veleno e l’intento volto al bene della donna si tramuta in rovina, senza che ella ne abbia colpa: il suo amato viene dilaniato dalle vesti intrise della sostanza e va incontro ad un’atroce agonia. Deianira, sconvolta, si dà la morte, mentre il dio, resosi conto del tragico scherzo del destino, accetta con la grandezza di un eroe l’ingiusta fine che lo attende. La tragedia vuole che sia il figlio Illo ad appiccare il fuoco sotto la pira del padre per porre fine alle sue sofferenze, ma un’altra versione del mito attribuisce il merito a Filottete. Anche in questo caso un grande uomo, che aveva liberato la terra dai mostri, perisce senza colpa alcuna, perché tale è l’imperscrutabile volere degli dei. Dopo la morte, Eracle sarà assurto fra le divinità e in questa veste lo conosciamo nel Filottete. § 2.3.2 La tragedia Filottete Sofocle scrive due tragedie sul mito di Filottete: una, di cui abbiamo solo qualche frammento, intitolata Filottete a Troia, narra la guarigione del guerriero da parte di Esculapio e il duello con Paride, cui segue la restituzione del cadavere al padre; l’altra, Filottete, è incentrata sulla parte più nota della vicenda, la partenza da Lemno alla volta della Troade. E’ l’unica pièce di Sofocle di cui si conosce con certezza l’anno di rappresentazione, il 409 a.C., quando le omonime opere di Eschilo ed Euripide sono già state scritte. Con questa tragedia l’autore, ormai ottuagenario e molto famoso, vince il primo premio nell’agone drammatico. Infuria ormai da molti anni la guerra del Peloponneso (431- 404 a.C.), che dopo alterne vicende, vede la sconfitta della lega delio - attica, capeggiata da Atene, da parte di quella peloponnesiaca, guidata da Sparta. Persa gran parte della sua flotta in seguito alla disfatta siciliana, Atene è destinata a soccombere, cosa che accadrà nel 404 a.C., due anni dopo la morte di Sofocle. E’ possibile che nelle vicende dell’impresa troiana, topos della letteratura greca fin dalle origini, siano adombrati i convulsi avvenimenti contemporanei. L’eroe lacero e mendico, abbastanza ricorrente sulle scene verso la fine del V sec. a.C., rappresenta l’escluso, il reietto dalla sorte e dalla società, figura diversa da quella del povero, che pur marginalmente partecipa alla vita collettiva. Guido Avezzù, Il ferimento e il rito: la storia di Filottete sulla scena attica, Bari, Adriatica editrice, 1988, pag. 324 Similmente agli altri due grandi tragici, Sofocle sceglie per la rielaborazione drammatica il momento della difficile reintegrazione dell’eroe nell’esercito, mentre muta le condizioni entro cui si realizza, i mediatori umani e i fattori ambientali. Ibidem Anche qui il protagonista resiste strenuamente alla volontà di riportarlo nel consesso umano ed è morbosamente legato all’arco magico, che come in una leggenda medievale, lo tiene in vita. La tragedia di Sofocle si distingue da quelle dei predecessori per una serie di innovazioni: prima di tutto, Lemno è deserta, a differenza di come la conoscono gli spettatori dell’epoca, a sottolineare l’assoluta solitudine del protagonista. Si configura un paesaggio di desolazione preistorica di grande fascino, che riporta a un’epoca mitica e all’essenza a-storica dell’uomo. Il coro, non potendo più essere costituito da lemnii, è formato dai marinai di Sciro. Al posto di Diomede vi è il figlio di Achille, invenzione drammaturgica geniale: la freschezza giovanile di Neottolemo è mossa a pietà dalla sofferenza di un innocente, ma allo stesso tempo è soggiogata dalla forte personalità di Odisseo, che gli ricorda cinicamente l’amor di patria a discapito della giustizia. L’amicizia che si sviluppa gradualmente fra il maturo eroe e il fanciullo (e che per qualche critico ha i caratteri dell’efebia) ha accenti di grande bellezza e neutralizza il piano di Odisseo: Neottolemo, di fronte alla sofferenza e alla sincera richiesta d’aiuto di Filottete, vive un contrasto psicologico, alla fine del quale appare maturato e rafforzato nella sua nobile indole. Ancora una volta il re di Itaca è rappresentato come cinico ingannatore, che però, fedele all’esercito e alla volontà divina, si fa strumento della realizzazione della storia. Filottete è tratteggiato come vittima incolpevole, ma sorda alle parole conciliatrici del giovane amico e caparbiamente concentrato su sé stesso: si limita ad accusare i capi greci, e Odisseo prima di tutti, delle sue disgrazie. Il poeta di Colono non incentra i suoi drammi sulla storia di un gruppo gentilizio, ma attorno a un personaggio la cui vicenda si esaurisce in una singola tragedia. L’eroe è un individuo isolato, inflessibile nella propria moralità, fedele a sé stesso fino alle estreme conseguenze - si pensi ad Antigone - ; al coro, rappresentante della comunità, non rimane che meditare sul destino doloroso, spesso insondabile, del protagonista, paradigma di tutta l’umanità. L’impossibilità di integrarsi nella collettività rispecchia la crisi della società ateniese del V secolo a. C. Guido Paduano (saggio introduttivo), Il teatro greco: tragedie, Milano, BUR, 2006, pag. 98 § 2.3.3 Struttura e vicenda Per l’analisi e la traduzione del testo si fa riferimento a Sofocle, Filottete, introduzione e commento di Pietro Pucci; testo critico a cura di Guido Avezzù, Milano, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, 2003 La pièce si apre con un prologo espositivo, in cui Odisseo, cercando di convincere il riluttante Neottolemo a mentire per riportare Filottete a Troia, riassume gli antefatti: il morso del serpente e l’abbandono del guerriero sull’isola di Lemno. L’astuto eroe, che non vuole essere visto, istruisce dettagliatamente il giovane compagno su come individuare il nascondiglio: “una coppa di legno…e stesi al sole questi cenci, sporchi di brutta cancrena” Ibidem, vv. 35-39, accenno realistico insolito nelle tragedie antiche. Odisseo è perentorio su come Neottolemo si dovrà comportare e cosa dovrà dire per convincere Filottete della sua buona fede: egli è il figlio di Achille, di ritorno da Troia alla volta di Sciro, adirato perché le armi del padre sono state date a Odisseo invece che a lui. Consapevole della natura buona e leale del giovane, che preferirebbe usare la forza piuttosto che l’inganno, ammette che “Dediti alla giustizia ci mostreremo di nuovo in futuro” Ibidem, v. 82, mentre al momento la ragion di stato esige il raggiro e la menzogna. L’esperienza gli ha insegnato che spesso la parola giunge dove l’azione, pur valorosa, fallisce ed espone tale insegnamento nel modo più cinico: “quando fai qualcosa per trarne profitto, non esitare”. Ibidem, v. 111 Solletica l’orgoglio di Neottolemo ricordandogli che senza le armi di Filottete per lui non vi sarà gloria a Troia, come ha proferito l’oracolo, quindi invoca la benevola assistenza di Atena per la felice conclusione dell’impresa e scompare. Con la parodos entra in scena il coro, che conosce già a grandi linee il piano di Odisseo, e si rivolge al suo signore Neottolemo, per sapere chi sia Filottete e come comportarsi nei suoi confronti. La triste vicenda di Filottete suscita la sincera commozione dei marinai Pensando come, /senza nessuno che ne abbia cura,/ senza uno sguardo amico,/infelice, sempre solo,/ soffre d’un male selvaggio/ Ibidem, v. 169-173 portatori del sentire della comunità di fronte all’eterna sofferenza umana, senza ragione e senza colpa. Le riflessioni del coro sono interrotte dall’entrata in scena del protagonista, preannunciato da un lamento e dal passo strascicato. Questi, alla vista di uno straniero, si mostra dapprima stupito e ostile, poi la curiosità e il desiderio di udire una voce umana hanno il sopravvento. Neottolemo si presenta come greco, figlio di Achille, adirato contro i compagni d’armi e Odisseo in particolare, che gli ha sottratto le armi del padre morto. Di fronte al comune nemico, sorge una spontanea solidarietà fra i due uomini: Filottete, deluso dal fatto che il suo nome è stato ormai dimenticato dagli achei, racconta la sua storia e si dimostra lieto di conoscere il figlio del grande Achille. Dopo tanto forzato silenzio, le parole sgorgano sincere e abbondanti, narrando le difficoltà quotidiane del vivere solo, con una gamba dolorante, in un luogo inospitale e senza attracchi sul mare. La ferita fisica si somma a quella spirituale di essere stato abbandonato e tradito da coloro che riteneva fidati compagni d’armi, ma è la nostalgia della sua terra natale a rattristarlo maggiormente. Noettolemo gli racconta della morte del padre e di Aiace e della profezia che lo ritiene indispensabile per il buon esito della guerra, rimarcando l’odio verso tutti i capi greci. Filottete per un attimo si distrae dal suo dramma e si interessa vivamente alle sorti dei compagni, di cui non sa nulla da dieci anni: la notizia della morte di Aiace, di Achille e di Patroclo lo addolora profondamente; chiede del vecchio Nestore, re di Pilo e si dispiace che gli uomini più valorosi siano stati colpiti dalla sorte, mentre persone malvagie come Odisseo siano salve. Filottete usa un linguaggio colorito per manifestare il suo disappunto: “crepare” e “canaglia” non sono certamente termini usuali in una tragedia. Anche Neottolemo è deluso: quando il peggiore conta più del migliore,/ la virtù tramonta e il furbo prevale,/ non amerò mai e poi mai questa gente./ Mi basterà per l’avvenire Sciro petrosa,/ mi contenterò della mia casa. Vv. 456-460 Il coro sottolinea l’ingiustizia commessa dagli Atridi, attribuendo a Odisseo le armi di Achille e non al legittimo successore. Quando il giovane si appresta a lasciare l’isola, Filottete lo supplica con parole sincere e toccanti di prenderlo con sé e riportarlo in Grecia, facendo leva sulla magnanimità della sua stirpe. I marinai, interpretando il moto d’animo del padrone, non restano insensibili di fronte alla preghiera accorata e alle sagge parole di Filottete: quando si è fuori dai mali, bisogna vedere il pericolo,/ quando si è felici, proprio allora si deve badare che di nascosto la vita non volga a sciagura Vv. 504-506 cui Neottolemo promette il ritorno in patria dall’anziano padre. Mentre il gruppo si sta muovendo verso le navi, compare improvvisamente sulla scena una spia inviata da Odisseo per controllare la situazione, espediente drammatico di grande efficacia teatrale, ma non strettamente necessario al prosieguo dell’azione. Camuffato da mercante, asserisce di essere lì di passaggio, diretto a Pepareto, sua patria, e di essersi fermato per avvisare Neottolemo che gli Atridi sono sulle sue tracce: il vecchio Fenice e i figli di Teseo lo stanno inseguendo e un’altra spedizione, capeggiata da Odisseo e Diomede, è alla ricerca di Filottete. Infatti, in seguito della profezia di Eleno, veggente figlio di Priamo fatto prigioniero dai greci durante un’incursione notturna, proprio i due sono risultati indispensabili per la caduta di Ilio. L’intervento del falso mercante non fa che accrescere la fretta di Filottete di lasciare l’isola; prima di partire, il vecchio eroe entra nella spelonca che l’ha ospitato per prendere le sue povere cose. Nel frattempo, il coro esprime profonda compassione per le sorti dell’infelice, che non si è macchiato di alcuna colpa, ma ha ricevuto un castigo tanto atroce e sottolinea gli aspetti più ingrati e faticosi della sua esistenza solitaria. All’improvviso, Filottete è assalito da atroci dolori: la descrizione della sofferenza è realistica e commovente, le urla disarticolate esprimono con efficacia l’intensità del male, fisico e spirituale insieme. Dà sfogo all’amarezza e si lamenta perché, solo e abbandonato, da molti anni si trascina senza aiuto alla ricerca di cibo e acqua, riparandosi in una grotta sul mare, su un misero giaciglio di erba. Prima di cadere nel deliquio, consegna all’amico l’arco affinché lo conservi fino al suo risveglio. “La partenza è di nuovo rinviata e la tensione drammatica cresce; la descrizione dello strazio che attanaglia il corpo di Filottete non è solo un pezzo di grande effetto patetico, ma suscita lo scatenarsi di reazioni violente, inattese e generose”. Sofocle, Filottete, introduzione e commento di Pietro Pucci; testo critico a cura di Guido Avezzù, Milano, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, 2003, pag. 349 In Neottolemo, scosso dalla vista di tanta sofferenza e dalla dimostrazione di fiducia accordatagli, nasce uno stridente conflitto fra senso del dovere verso la patria e umana pietas. Mentre Filottete teme che l’attacco di dolore allontani l’amico, Neottolemo ne è conquistato; il dialogo fra i due è libero e intimo, senza accenti eroici o patetici. NEOTTOLEMO: E’ tremendo il peso della tua malattia! FILOTTETE: Tremendo, indicibile! Abbi pietà di me! NE: Che debbo fare? FI: Non ti spaventare! Non mi lasciare! Vv. 755-758 Filottete invoca la morte per porre fine alle sue sofferenze e ricorda che egli stesso ha liberato dal dolore Eracle appiccando il fuoco sotto la pira, gesto pietoso che gli ha procurato il famoso, invincibile arco. Neottolemo, profondamente commosso, promette di non abbandonare il sofferente, con versi umanamente sinceri e toccanti: NE: Da un bel po’ la pena per le tue sventure m’ha annientato. V. 806 […] FI: Resterai davvero? NE: Stanne certo! FI: Non c’ è bisogno che tu me lo giuri, figlio mio. NE: Anche perché non è lecito, che me ne vada senza di te FI: Dammi la mano e prometti NE: Prometto che resterò Vv. 811-816 Mentre Filottete è vinto dal sonno, matura nel ragazzo una trasformazione interiore, per cui la parte più genuina e leale del suo carattere non riesce più a sostenere il personaggio impostogli da Odisseo. Nello stesso tempo, il possesso dell’arco lo investe di una responsabilità nuova e lo mette in contatto con la volontà divina, in un quadro di notevole complessità psicologica. Al suggerimento del coro di fuggire approfittando del momento propizio, Neottolemo risponde che gli dei prescrivono la presenza dello stesso Filottete e non solo della sua arma, ma ricorda anche che un risultato ottenuto con la menzogna è il peggior disonore. Al risveglio dell’amico, che lo invita a raggiungere la nave, si trova in grande difficoltà e non sa come comportarsi, rimpiange di essersi lasciato coinvolgere in un’avventura non adatta al suo autentico modo di essere: NE: tutto è fastidio, quando si lascia la propria natura/ e si fanno le cose non adatte a sé! Vv. 902-903 […] Apparirò un infame: è questo che m’angustia… V. 906 Decide quindi di rivelare l’inganno ordito alle spalle di Filottete, che si dispera, sentendosi ancora una volta tradito da un compatriota. Di fronte alla richiesta dell’arco, il figlio di Achille oscilla fra la lealtà e l’obbedienza nei confronti dei capi dell’esercito. Filottete, sentendosi perso, un fantasma fra i vivi, senza più possibilità di procacciarsi il cibo, si rivolge a quella natura aspra (le scogliere, le insenature, le bestie feroci), ma ormai familiare, che ha assistito alle sue sofferenze per tanto tempo. Neottolemo esita, ma alla fine decide di restituire l’arma al legittimo possessore, quando sopraggiunge Odisseo, che con parole rudi e sbrigative cerca di convincerlo a unirsi a loro nella spedizione verso Troia. Nonostante la prospettiva di gloria, Filottete, irremovibile, è pronto a sfidare la morte pur di non arrendersi al suo peggior nemico. Il rancore è ravvivato dal confronto fra il crudele destino dell’uno e l’autorevolezza riconosciuta all’altro, che ha la sfrontatezza di dire Quale la circostanza chiede, tale io sono:/…per mia natura, desidero vincere sempre/… Non abbiamo bisogno di te,/ una volta che abbiamo quest’arco. Vv. 1049-1056 Filottete si trova di fronte alla prospettiva di una nuova solitudine, in attesa della morte per inedia. Il coro si mostra solidale con il disgraziato eroe, di cui cerca di attenuare l’astio e di convincere a seguire i compagni, ma allo stesso tempo è attento a non urtare il suo signore. Odisseo trascina via Neottolemo con l’arma, ma questi si ribella, torna indietro e la restituisce al legittimo possessore, dando prova di autentica nobiltà d’animo. I suoi tentativi di convincere Filottete a seguirli con la prospettiva della vittoria sono però vani: l’infermo ricorda la promessa fattagli di riportarlo a casa e Neottolemo si appresta a onorare l’impegno preso, quando compare ex machina Eracle, che ingiunge al suo protetto di obbedire all’imperscrutabile volere divino: Filottete deve andare a Troia, dove sarà guarito da Asclepio, uccidere Paride, espugnare la città e tornare dal vecchio padre con un ricco bottino; questa impresa sarà possibile solo con la presenza del figlio di Achille. L’affetto fra i due, sbocciato con spontaneità in una situazione drammatica, è inscritto nel disegno divino. Il figlio di Peante si piega alle parole di Eracle e, appoggiandosi al giovane amico, si avvia verso la nave, non prima di aver salutato, con un cenno di melanconia, la selvaggia natura dell’isola che lo ha ospitato per dieci anni. Il canto del coro chiude l’opera auspicando un fausto ritorno ad Ilio. § 2.3.4 Le tematiche In genere Sofocle viene considerato antecedente a Euripide: in effetti iniziò la sua attività prima di quest’ultimo, ma gli sopravvisse di qualche anno e le tematiche delle ultime opere presuppongono quelle del più giovane rivale. Mentre in Euripide l’elemento umano ha la preminenza su quello divino e il dolore non appare giustificato da ragioni di ordine superiore, in Sofocle il rapporto fra gli uomini ha come presupposto quello con l’assoluto e la sofferenza ha un significato. Vittorio Hösle, Il compimento della tragedia nell’opera tarda di Sofocle, Napoli, Bibliopolis, 1983, pag. 149 Filottete non ha un unico protagonista, come è consuetudine, ma tre personaggi delineati con finezza psicologica e abilità poetica. La natura fin dal prologo non è semplice sfondo, ma compartecipa alle vicende e si configura come “paesaggio psicologico”, che muta a seconda degli stati d’animo dei protagonisti, “non è romantica contemplazione, ma consuetudine amica e fraterna partecipazione alle gioie e ai dolori dell’uomo” Sofocle, Elettra e Filottete, Firenze, Sansoni, 1938, pag. 208. Diversamente da quanto narrano Omero e i suoi predecessori, Lemno appare disabitata e inospitale, con rocce a picco sul mare che non offrono riparo ai naviganti, ma nonostante ciò ha dato asilo, cibo e acqua allo sfortunato eroe, che prende commiato dall’isola con dolci accenti di nostalgia, intrisa di animismo. Emergono le figure di Filottete e Neottolemo, apparentemente così diverse: uno maturo, rude, selvatico e provato duramente dall’esistenza, l’altro giovane, impetuoso e fedele all’etica del guerriero. La detenzione forzata sull’isola è un presupposto esistenziale più che una ragione razionale: come altri personaggi di Sofocle – Edipo, Antigone – Filottete soffre all’origine di una condizione degradante di cui non ha colpa e che lo costringe in una posizione liminale: lo stesso Edipo è zoppo e Aiace è vittima della follia. Sofocle, Filottete, introduzione e commento di Pietro Pucci; testo critico a cura di Guido Avezzù, Milano, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, 2003, pag. 353 La relazione fra grandezza e solitudine è biunivoca: la grandezza condanna l’eroe alla solitudine, ma solo nella solitudine egli può manifestare appieno la sua grandezza. Filottete soffre proprio perché ha un animo nobile che gli permette di sopportare con dignità due lustri di sofferenze, senza perdere la sua umanità: quando incontra il forestiero sull’isola, non dimostra una diffidenza di principio, anzi è lieto di accoglierlo nella sua umile dimora. Al contrario, il più fortunato Odisseo, che andò a Troia perché costretto Nei canti Ciprii si narra che mentre il re di Itaca si fingeva pazzo per non andare in guerra, Palamede minacciò di uccidere il piccolo Telemaco, suscitando l’immediata reazione del padre, che dimostrò così la sua assennatezza. Da Fabio Copani, La figura di Odisseo da Omero ai drammaturghi del V sec., in “Stratagemmi”, Giugno 2009, viene meno ai principi etici fondamentali. Da questo contrasto nascono dialoghi di grande incisività, perfettamente costruiti per ottenere effetti di crescendo drammatico ed esprimere i contrasti interiori. Filottete, nella sua sofferenza, è profondamente umano; dopo anni di vita selvatica non sa più celare i suoi sentimenti e li manifesta candidamente, stabilendo subito un’empatia con Neottolemo e il pubblico. Nonostante tutto, non perde la speranza di tornare in Grecia, ode con piacere il suono della sua lingua ed è ben disposto nei confronti del giovane sconosciuto. Sofocle non cela la brutalità del male fisico, anzi lo utilizza per rendere al meglio il profilo del personaggio ed offrire all’attore l’occasione per mostrare le sue doti drammatiche. Sottolinea questi passaggi anche dal punto di vista stilistico con interiezioni, rottura ritmica dei versi, enjambement e uso accentuato della paratassi. La fierezza lo rende irremovibile sull’eventualità di venire a patti con i suoi persecutori e né le preghiere del giovane, né la profezia di Eleno riescono a farlo desistere dal proposito di non prendere parte alla guerra. Solo Eracle, divinità amica che gli ha donato l’arco invincibile, piega la sua ostinazione ricordandogli che egli stesso ha sofferto a lungo prima di diventare immortale. Odisseo è tratteggiato a tinte fosche: “le doti oratorie e la capacità di volgere ogni situazione a proprio vantaggio – qualità messe in luce già dall’epos – […] diventano spregiudicatezza e opportunismo” Ibidem, ma gli vanno riconosciuti anche nobili valori quali il desiderio di gloria e l’obbedienza al volere divino. Alla fine però il suo piano è sventato da un fattore che non aveva previsto: la lealtà di Neottolemo e il suo senso dell’onore che gli impediscono di circuire un debole con la menzogna. Inizialmente i silenzi del giovane adombrano la frode, ma nel corso della tragedia assumono il significato di coinvolgimento affettivo e di vergogna per la parte che si trova a ricoprire; essendo mosso da ideali elevati, quali la patria, l’onore in battaglia, il rispetto degli dei e l’amicizia. Sofocle, Trachinie, Filottete, introduzione di Vincenzo Di Benedetto, premessa al testo e note di Maria Serena Mirto, traduzione di Maria Pia Pattoni, Milano, BUR, 1990, pag. 62 Si configura una doppia iniziazione: di Neottolemo ai valori della pietà e dell’amicizia virile, di Filottete all’accettazione dell’imperscrutabile volontà divina. Il contatto fisico, la stretta di mano fra i due non solo suggella un patto, ma lenisce in qualche modo il dolore. A differenza del freddo deus-ex-machina di Euripide, Eracle è un dio amico, antico possessore dell’arco, che propone con calma benevolenza una soluzione che porta alla gloria il suo protetto. “Divino e umano non si escludono a vicenda, anzi la verità dell’oracolo si manifesta proprio nella libera decisione degli uomini.” Vittorio Hösle, Il compimento della tragedia nell’opera tarda di Sofocle, Napoli, Bibliopolis, 1983, pag. 169 L’anziano Sofocle, in piena guerra del Peloponneso, asserisce con forza che lo scopo non giustifica i mezzi: sotto la degradazione della figura di Odisseo alcuni critici “vedono la volontà del tragediografo di dipingere a tinte fosche alcuni atteggiamenti politici, spregiudicati quanto immorali, dell’Atene del tempo”. Da Fabio Copani, La figura di Odisseo da Omero ai drammaturghi del V sec., in Stratagemmi, Giugno 2009 La tragedia sta proprio nel contrasto fra la ferma volontà dell’uomo di essere padrone del proprio destino e il fato, mistero sacro e imperscrutabile che governa le nostre esistenze. Filottete, quando si vede privato di tutto, vorrebbe darsi la morte, ma a differenza di Eracle non ne ha il coraggio e sarà l’elemento soprannaturale a farlo uscire dall’impasse: come recitano gli ultimi versi di Trachinie “non vi è nessuna di queste cose che non abbia voluto Zeus”. L’andare a Troia con i compagni ha un valore positivo, di cooperazione all’interno della comunità per il raggiungimento del bene comune. § 2.4 Confronto fra antico e moderno Appare arduo accostare due opere separate da più di due millenni di storia e concepite in situazioni e per pubblici radicalmente diversi. Il teatro nell’antica Grecia è un rito collettivo cui, in determinati periodi dell’anno, partecipa la comunità nella sua interezza, in occasione delle feste. Il fenomeno ha carattere innanzitutto religioso, avendo luogo nell’ambito di celebrazioni in onore di Dioniso; i drammi vanno in scena una volta soltanto, in occasione dell’agone poetico, al termine del quale viene proclamato il vincitore. Soltanto nei secoli successivi si diffonde l’abitudine della lettura privata e della rappresentazione di opere non scritte appositamente per l’occasione. Il teatro ha anche un valore politico: l’organizzazione degli spettacoli è gestita dallo stato, che fa sì che anche i cittadini meno abbienti possano prendervi parte. I personaggi più ricchi e potenti della città fanno a gara a sovvenzionare le feste, da cui ricavano grande prestigio personale. La rappresentazione è allo stesso tempo rito, assemblea e gara, in cui si riflette la vitalità della polis ateniese del V sec. Dario Del Corno, Letteratura greca, Milano, Principato, 1995, pag. 170 e segg.; le tematiche attengono per lo più al mito e indagano il rapporto fra uomo, destino e divinità. Il pubblico vi assiste durante tutto l’arco della giornata, portando con sé bevande e cibi e non osservando il rigoroso silenzio cui siamo abituati oggi: l’entusiasmo o la disapprovazione per la performance dell’attore e il contenuto dell’opera viene manifestato apertamente. Molto diversi sono anche gli aspetti esteriori dello spettacolo, avendo luogo in teatri all’aperto, in cui hanno grande rilievo il paesaggio circostante e la luce naturale. Non disponiamo di informazioni certe, ma possiamo arguire che fossero comprese parti cantate e danzate, che la scenografia fosse scarna e che il pubblico dovesse accettare un nutrito sistema di convenzioni: non esisteva il sipario, gli uomini interpretavano anche i ruoli femminili, lo stesso attore poteva recitare più personaggi e si faceva largo ricorso alle maschere. La tragedia è scandita in parti fisse: prologo, parodo (canto d’ingresso del coro), episodi (sovrapponibili agli atti), stasimi (canti del coro) ed esodo (conclusione). La differenza più rilevante rispetto ai drammi odierni è la presenza del coro, portavoce del sentire della comunità, contrapposto o in armonia con i sentimenti del protagonista. Ciò che viene rappresentato sul palco è sentito come una realtà diversa, ma non fittizia e alternativa rispetto a quella quotidiana, secondo la celebre definizione di Gorgia “la tragedia è un inganno, in cui è più saggio chi più si lascia ingannare”. Ibidem Evidentemente molto diversi sono i presupposti su cui si basa il dramma moderno: il teatro è quasi sempre un luogo chiuso, deputato espressamente allo spettacolo, luci artificiali e scenografie giocano un ruolo esenziale, l’attore/attrice interpreta di norma un solo personaggio e le maschere sono piuttosto rare. Fra il pubblico e la rappresentazione è posta una “quarta parete” invisibile, che separa il luogo della realtà da quello della finzione, accettata in quanto tale. Venuto meno il significato rituale e religioso del teatro – se si eccettuano alcune avanguardie di inizio Novecento – è vissuto in modo passivo, come evento culturale o come occasione di svago. Sofocle scrive Filottete in età avanzata, pochi anni prima della morte e dai suoi versi lo si immagina equilibrato, sereno, soddisfatto della sua esistenza e pronto a lasciare questo mondo con un sorriso. La sua tragedia “a lieto fine” comunica fiducia nei confronti del fato, che arriva laddove l’uomo, accecato dalle passioni momentanee, non vede. Il finale è sospeso fra speranza e tristezza: speranza perché Filottete guarirà e trionferà sul campo di battaglia, tristezza perché si deve piegare a ciò che l’uomo razionalmente non può comprendere. Non si può certo asserire lo stesso per il tormentato e irrisolto Müller, che si avvicina ai classici per diluire l’urgenza del presente, senza però sciogliere il groviglio di conflitti e contraddizioni che lo caratterizzano. Il teatro di Heiner Müller, sviluppatosi nella Germania Est prima della caduta del Muro, recupera una forte valenza politica, di riflessione sul rapporto individuo - comunità, che per certi versi lo accosta al dramma antico. Dopo essere stato più volte censurato ed espulso dalla Associazione degli Scrittori per il contenuto eversivo dei suoi drammi didattici, si rivolge ai classici per potersi esprimere in modo più libero e dare un respiro più ampio, sovratemporale alle tematiche trattate. Si ispira alla vicenda di Filottete, non molto frequentata dagli autori contemporanei, per parlare di potere, stato e tirannide. Il titolo, i personaggi principali e gli antefatti della vicenda sono gli stessi del dramma sofocleo, ma già nel prologo si avverte un’atmosfera diversa: un clown dall’aria sinistra anticipa che in questa storia non c’è alcuna morale. Viene meno la dimensione etica e civile, fondamentale nella Grecia classica; il Filottete di Sofocle si basa su una concezione del mondo che lascia spazio all’irrazionale, pur composto in un’armonia superiore dall’elemento divino, mentre in Müller non c’è finalismo, né speranza: homo hominis lupus. Il più astuto vince, il debole soccombe, non vi è posto per la pietà e per la maturazione personale, in un universo dominato dall’abiezione e dalla tirannica ragion di stato. Anche la personalità di Filottete ha delle sfaccettature negative: la sete di vendetta e la rabbia a lungo repressa ne fanno un esempio inquietante di vittima-carnefice. Il Neottolemo di Müller ha più lati oscuri di quello di Sofocle: si intenerisce di fronte alle sofferenze dell’amico, ma non esita a pugnalarlo quando questi minaccia di uccidere Odisseo. Rappresenta la fragilità e l’ambiguità del bene quando si scontra con le soverchianti forze del male, di cui la politica è l’emblema. Non è sufficiente la menzogna, si giunge alla sopraffazione fisica e al delitto in nome di un distorto amor patrio, che in realtà cela sete di vittoria e di potere. Odisseo, personaggio negativo già nel dramma antico, subisce qui un’ulteriore degradazione, venendo meno i valori di amor patrio e fedeltà ai capi che là sussistevano. Non cerca neppure di ammantare le sue turpi azioni di un patetico velo di moralità, anzi esprime in modo chiaro e senza imbarazzi quali sono i suoi fini. Solo uomini siffatti possono ascendere al potere – sembra dirci Müller con disperato realismo. Un altro tema rilevante è la malattia, che nella società contemporanea costituisce una specie di tabù, qualcosa che si preferisce far finta di non vedere per non turbare il clima di felicità fasulla da spot pubblicitario. Non vi è più un dio che risolve i problemi umani con una semplice apparizione a fine tragedia: l’individuo è lasciato solo con le sue contraddizioni e il suo soffrire appare vano. Müller usa un linguaggio ermetico, con versi spezzati e un ritmo disarmonico per rendere i contrasti e i confitti insiti nella società moderna, mentre Sofocle, pur evidenziando con il linguaggio la forte tensione drammatica in alcuni punti, compone versi di grande bellezza e armonia. Lo spettatore esce da teatro con un senso di smarrimento, angoscia e disaffezione nei confronti della società: nessun “sacro valore” si salva dal suo spirito corrosivo e nichilista. 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I, Milano, LED, 2006 Periodici Fabio Copani, La figura di Odisseo da Omero ai drammaturghi del V sec., in “Stratagemmi”, Giugno 2009 PAGE 22