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argo | collana di cultura visuale
diretta da Michele Cometa
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via Siracusa 35
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© 2008 :duepunti edizioni – Palermo
Tutti i diritti riservati
ISBN
978-88-89987-15-5
Volume pubblicato con il contributo dell’Università degli Studi di Palermo
Dipartimento di Arti e Comunicazioni – fondi P R I N 2005 (R1D020P6DGC2005)
Filostrato
Immagini
a cura di Andrea L. Carbone
con un saggio di Michele Cometa
:duepunti edizioni
Palermo
Andrea L. Carbone
La ver ità e i l su o s p e c c h i o
Che cosa sono le immagini? Qual è il loro contenuto di verità? Quale
rapporto intrattengono con le parole? Le Immagini sono un tentativo di sperimentare una soluzione a questi interrogativi tutt’altro che
nuovi nell’ambito della cultura greca, ma mai affrontati in precedenza al di fuori del mito, della produzione letteraria o della speculazione filosofica. Ma anche un ibrido di mitologia, letteratura e filosofia, rielaborati e trasformati in ingredienti e strumenti per una
retorica che vuole estendere il suo dominio.
La cosiddetta “seconda sofistica”, iniziata con Eschine, giunge così
nel contempo a una delle sue espressioni più alte e a una svolta decisiva, perché la cifra formale e teorica delle Immagini conferisce
all’opera una collocazione particolare. I nuovi sofisti sono retori professionisti, che mirano al profitto con le loro performance e spesso
non esitano a far ricorso ad espedienti concettuosi e spettacolari –
tipica è la fioritura di “elogi” di cose inusitate – per corteggiare e
imbonire il pubblico. Le Immagini intendono ugualmente trovare un
nuovo campo di applicazione del dominio retorico, ma lo fanno
rimettendo in discussione il repertorio degli espedienti sofistici e lo
statuto epistemologico della disciplina.
Si addice allora alle Immagini la strana vaghezza che ammanta
l’opera su tre punti fondamentali, conferendole il fascino altero e
per certi versi ineffabile di un classico immortale: l’identità dell’autore, la materia e il genere.
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Andrea L. Carbone
L ’enigma delle Immagini
È incerta l’attribuzione delle Immagini a Filostrato di Lemno, detto
il Vecchio, nato verso il 165 d.C., retore allievo di Antipatro, attivo
prima ad Atene, poi a Roma sotto Settimio Severo. Il più antico
riferimento all’opera si trova in una seconda serie di Immagini,
anch’essa attribuita a un autore di nome Filostrato, che allude a una
precedente ékphrasis composta dal nonno materno, suo omonimo.
Una citazione della Vita di Apollonio nelle Vite dei sofisti – testo che
peraltro definisce e codifica la seconda sofistica come movimento e
tradizione – permetterebbe di attribuire queste opere a uno stesso
autore. Ma il dato si accorda male con le indicazioni cronologiche
derivate dalla Suda, che menziona con il nome di Filostrato tre
diversi personaggi, tra i quali un figlio di Nerviano, vissuto a cavallo
tra il I I e il I I I secolo d.C., anch’egli possibile autore del testo1.
Parimenti incerta è la reale esistenza delle pitture descritte nell’opera.
La narrazione è ambientata in una casa di Napoli, dove Filostrato si
offre di illustrare l’argomento dei dipinti che ornano la stoa, il portico, a
un gruppo di giovani. Al 1860-61 risale la querelle che oppose Friedrichs
e Brunn intorno alla questione: il primo sosteneva l’infondatezza degli
accostamenti proposti nel 1825 dall’archeologo Welcker a corredo dell’edizione Jacobs, obiettando che le descrizioni delle opere non collimano con i canoni dell’arte classica; il secondo replicava osservando che l’estetica ellenistico-romana non era affatto in contraddizione con gli
elementi stilistici e formali che si possono desumere dalle descrizioni di
Filostrato. Lehmann riassume i termini del dibattito annoverando tra gli
scettici Caylus, Friedrichs, Matz e Robert, e tra coloro che ammettevano l’esistenza delle pitture descritte Welcker, Brunn e Wickhoff2. Il
dibattito subì poi la forte influenza di Goethe, che nel 1818 aveva pubblicato un saggio sui Philostrats Gemaelde, promuovendo la realizzazione di un’edizione illustrata delle Immagini. Goethe sosteneva esplicitamente la tesi della reale esistenza delle opere descritte, ma metteva
anche in rilievo la presenza dei modelli tramandati da Filostrato nella
tradizione pittorica successiva: paradigmi che intendeva proporre
come fonte di ispirazione per l’arte a venire.
La verità e il suo specchio
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La diversità di vedute sull’interpretazione del testo mostra che le
Immagini di Filostrato sono state per lungo tempo un’opera viva, del
novero di quelle che non rimangono esclusivamente note agli specialisti, un testo di cui si è fatto uso, un classico conteso tra diverse
tradizioni e approcci disciplinari anche molto distanti, come la retorica, la critica e la storia dell’arte, e – più di recente – gli studi sulla
cultura visuale. La definizione dello statuto dell’opera, del resto, è
un problema avvertito dall’autore stesso: per questa ragione, il prologo delle Immagini non delinea soltanto la cornice narrativa del testo,
ma anche i principî teorico-formali che lo ispirano3.
L ’enigma delle immagini
La descrizione è stata un elemento di rilievo della scatola degli
attrezzi poetica fin dagli albori della cultura greca, e in questo
senso si può considerare lo «scudo di Achille» omerico come un
archetipo4 in seguito variamente sviluppato, in particolare da
Luciano e Longo Sofista oltre che dallo stesso Filostrato. La compiuta formalizzazione dell’ékphrasis come elemento retorico e
come genere è invece ben più tarda, e risale a Ermogene,
Quintiliano e ai progymnasmata retorici bizantini5. A partire dal
X V I I I secolo gli editori moderni delle Immagini, tuttavia, hanno
ascritto l’opera – spesso senza nuance – al genere dell’ékphrasis6.
L ’ interesse attuale per l’ékphrasis nell’ambito della critica letteraria e degli studi sulla cultura visuale rischia dunque di ingenerare
equivoci e anacronismi7, e a questo proposito occorre sottolineare che nelle Immagini il termine ékphrasis stesso non è attestato,
anche se – come si è detto – viene utilizzato poco più tardi da
Filostrato il Giovane in riferimento all’opera. Se è vero dunque
che le Immagini presentano tutte le caratteristiche salienti dell’ékphrasis in quanto genere, questa determinazione si evidenzia e
si formalizza nell’ambito di una tradizione posteriore.
Alcuni indizî testuali segnalano peraltro una certa cautela da parte
dell’autore nell’approccio allo stesso dominio retorico: Filostrato
dichiara ad esempio di non avere intenzione di fare un’esposizione
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Andrea L. Carbone
pubblica, utilizzando in questa occasione il termine melete, che tipicamente indica la declamazione retorica. Quando poi si riferisce al
discorso che si accinge a intraprendere con il termine – anch’esso proprio del lessico retorico – di epideixis, l’autore aggiunge immediatamente una precisazione inusuale. Rispetto all’alternativa classica tra la
macrologia tipica dell’arte retorica e la micrologia caratteristica dello
scambio dialettico, infatti, Filostrato opta programmaticamente per
l’esplorazione di una “terza via”8: un’esposizione che trasceglie nel
pubblico plurale un singolo destinatario e lo designa come interlocutore privilegiato, attribuendogli la facoltà di interagire con richieste e
domande, cioè di interrompere la continuità del discorso.
Le Immagini, pertanto, non si attengono al modello formale del
monologo retorico, e non a caso: questa cesura apre di fatto lo spazio in cui può dispiegarsi la mise en abîme – ovvero il complesso sistema di metadiscorsi – che è il tratto saliente dell’opera, e che nella pratica non si limiterà agli interventi (peraltro esigui) del giovane
ospite, ma si tradurrà in un rapporto dinamico tra parola e immagine. La forma narrativa delle Immagini corrisponde dunque in qualche modo a quella mista adottata secondo Aristotele (Poet. 3, 1448a
22) da Omero, fonte principale di Filostrato, che consiste nell’alternare il discorso dei personaggi al discorso in prima persona.
Rispetto al paradigma retorico, del resto, non è esattamente alla persuasione che l’ékphrasis aspira, ed è significativo che il termine peitho
ricorra più avanti nel testo (1.6) in un’accezione inequivocabilmente
negativa, a proposito di un ingannevole espediente amoroso.
Secondo Filostrato, all’immagine attiene la verità: il discorso amoroso dello sguardo non può dunque tradursi nella violenza della persuasione, anche – e soprattutto – quando la vista è tratta in inganno.
La strada percorsa secoli prima da Gorgia, l’estetica dell’inganno,
giunge così a un bivio: se Gorgia affermava la giustezza dell’inganno
perpetrato dalla tragedia e dell’apertura del pubblico dei teatri a
lasciarsi ingannare, Filostrato invece – pur senza disconoscere all’artista la legittimità del ricorso al pathos e agli altri espedienti che
inducono il fruitore a proiettarsi nell’immagine come se fosse reale –
rivendica il ruolo attivo dell’osservatore attraverso la descrizione e
La verità e il suo specchio
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l’interpretazione dell’enigma delle immagini (1.6). E l’enigma è la
cifra stessa della conoscenza che deve essere svelata.
Ciò che la descrizione coglie dunque nell’immagine è il suo contenuto di verità, la verità in pittura. Una verità che è frutto della
sapienza dell’artista e costituisce un tratto comune all’arte e alla poesia, cioè all’immagine e al discorso, quindi alla rappresentazione e,
chiudendo il cerchio, alla descrizione stessa. L ’ apertura del prologo
rimette esplicitamente in questione la critica platonica della rappresentazione (Resp. I I I e X, Sofista 235e e 265d, Leggi I I , 669), richiamandosi alla prospettiva aristotelica. Come è noto, secondo Platone
l’artista crede che la sua opera sia frutto di sapienza, ma si trova in
realtà sempre «a due gradi di distanza dalla verità», e la sua arte non è
altro che il frutto di una enthousia, un’ispirazione divina (Ione). Del
tutto opposto è il punto di vista di Aristotele, che incentra sulla
nozione di imitazione la definizione di arte, precisando che l’imitazione propria dei pittori e degli scultori è caratterizzata dall’uso di
colori e forme (Poet. 1, 1447a 17), e riconosce nell’arte l’opera dell’artista dotato e non di quello invasato (Poet. 17, 1455a 33). Il piacere dell’arte consiste per Aristotele nella conoscenza che essa procura, che
è tanto più grande quanto maggiore è l’esattezza della rappresentazione: «ciò che ci procura disgusto alla vista lo guardiamo invece con
piacere nelle immagini, quanto più siano rese con esattezza: ad esempio la conformazione degli animali più ripugnanti e dei cadaveri. La
ragione è che l’apprendimento è molto piacevole non soltanto per i
filosofi ma anche per gli altri, per quanto ne partecipino in minor
misura. Per questo le immagini procurano gioia, perché nel guardarle si apprende e si ragiona» (Poet. 4, 1448b 10). Il godimento di un’opera deriva dal fatto che si ha contezza dell’arte che l’ha prodotta, ed
è dunque analogo al piacere che proviene dalla conoscenza delle
cause di un fenomeno naturale. Tra l’arte e la natura esiste un rapporto di analogia, perché la forma dell’artefatto, che risiede nell’anima dell’artefice, è analoga alla natura formale, che costituisce il fine
della generazione di ciascun vivente. Ora, la bellezza naturale che è
oggetto dell’imitazione consiste essenzialmente nell’ordinata, simmetrica, disposizione delle parti e nella giustezza delle proporzioni:
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Andrea L. Carbone
«perché un animale (o anche ogni altra cosa costituita di parti) sia
bello, occorre che abbia non soltanto le parti ordinate e ben disposte, ma anche non dettate dal caso, poiché il bello consiste nelle
dimensioni e nell’ordinata disposizione delle parti» (Poet. 7, 1450b
34). A questa nozione del bello Filostrato si richiama sinteticamente quando accenna alla «scienza delle proporzioni (symmetria),
per cui l’arte partecipa della ragione».
Alla connessione stabilita da Filostrato tra pittura e verità si
affiancano una genealogia e un sistema delle arti, che conferiscono
alle Immagini la compiutezza teorica di un vero e proprio “discorso
sulla pittura”.
La genealogia delle arti ripercorre l’evoluzione dell’arte imitativa
illustrata da Aristotele nel quarto paragrafo della Poetica. Secondo
Filostrato, l’ipotesi platonica dell’origine divina dell’arte è non soltanto esclusa, ma perfino ridotta al rango del sofisma. La pittura si
definisce invece come arte in quanto è un’attività essenzialmente
umana, che dell’uomo rivela la virtù più essenziale, cioè l’intelligenza.
L ’ opposizione tra le due teorie sulla nascita dell’arte è resa particolarmente stridente da un’assonanza di difficile traduzione, che rivela
fin nella lettera del testo la portata rivoluzionaria dell’opera: se è un
sophisma l’ipotesi dell’origine divina, l’arte pittorica stessa invece
sophizetai – trae profitto, attinge sapienza – dall’uso accorto dei
colori e della tecnica9.
La verità in pittura attiene dunque essenzialmente alla sua sophia,
alla sapienza dell’arte. Una sophia che presenta forme innumerevoli.
Il pittore mostra ad esempio di tendervi (philosophei) nel rappresentare la personificazione delle favole di Esopo allorché si ispira a elementi tratti dai testi (1.3), o fa ricorso a un elaborato effetto di volume nella resa di soldati schierati a battaglia (1.4). La sophia, benché
presupponga la perizia tecnica richiesta ad esempio dalla riproduzione delle vesti riccamente colorate di un coro di ragazze (2.1), non
coincide tout court con la perfezione dell’imitazione delle caratteristiche esteriori del soggetto ritratto, e a fronte di una moltitudine di
dettagli, un singolo elemento – come l’abbraccio di due palme (1.9), o
un effetto d’insieme reso dalla luce (2.29) – basta a rivelare la sapienza
La verità e il suo specchio
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del pittore, cioè la sua inventiva e la capacità di esprimere un certo
pathos, trasmesso veridicamente all’osservatore.
L ’ opposizione al modello platonico rivela implicazioni ulteriori e
nuove ragioni di complessità se si considerano alcuni aspetti di carattere eminentemente formale. La drammatizzazione messa in atto da
Filostrato nel prologo riecheggia infatti il topos che nei dialoghi platonici introduce spesso la narrazione di una passata conversazione
filosofica avvenuta in precedenza. Questa analogia consente di mettere in rilievo alcune differenze decisive, che caratterizzano la peculiarità delle Immagini. Nel caso di Platone, la drammatizzazione iniziale ha di regola la funzione di stabilire una certa distanza tra il
tempo della narrazione e l’epoca dei fatti narrati. Il dialogo e le parole di Socrate vengono riportate per soddisfare il desiderio di conoscenza di ascoltatori nuovi. Nel caso delle Immagini, invece, il desiderio dell’esposizione viene messo in scena altrimenti. Filostrato
precisa infatti di avere avuto intenzione di elogiare i dipinti della casa
già prima che il suo giovane ospite lo invitasse, e il carattere privato
assunto dall’ékphrasis nella finzione narrativa risponde all’intenzione
di evitare in ogni caso una declamazione pubblica sui pinakes. Lo statuto del discorso sulla pittura si definisce allora dal punto di vista epistemologico assumendo in certo modo il dialogo socratico come
riscontro: all’approccio maieutico di Socrate si contrappone un’ermeneutica dell’immagine – ermeneuein è il verbo che Filostrato utilizza
per indicare la funzione del suo discorso – che ha lo scopo di indurre l’interlocutore a rintracciare nella memoria e nell’immaginario i
riferimenti letterari e iconografici necessari per interpretare ciò che
vede. La reminiscenza platonica e il mondo delle idee non potrebbero essere più distanti, perché di fronte alla rappresentazione e al suo
contenuto di verità si tratta non di cercare una realtà ulteriore e più
vera, ma di articolare una logica della tradizione che dia accesso alla
dimensione propria dell’immagine.
Quanto al sistema delle arti, occorre osservare innanzi tutto che
dal punto di vista dell’impianto logico la classificazione è chiaramente distante dai criteri della dialettica accademica, cioè non si
basa su un procedimento di divisione dicotomica, senza per questo
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Andrea L. Carbone
richiamarsi alle tecniche più avanzate di divisione per differenze
multiple sviluppate da Aristotele. L ’ arte si divide in due ambiti
maggiori, la pittura e l’arte plastica; quest’ultima si divide poi in più
specie: «la fusione del bronzo, la politura del marmo, Ligdo o Pario,
la lavorazione dell’avorio, e per Zeus anche l’incisione»; ciò che contraddistingue esclusivamente la pittura è invece l’impiego combinato delle ombre e dei colori.
Il criterio assunto da Filostrato è dunque una differenziazione che
considera unicamente la tecnica della rappresentazione, senza fare
riferimento ai contenuti o al genere. Sorprende per certi aspetti che
l’ambito della pittura non sia esaminato più in dettaglio, con riferimento ad esempio alla pittura vascolare, a quella muraria e infine a
quella dei pinakes, che è poi l’argomento delle Immagini. Ma questa
omissione indica chiaramente che il discorso non tiene conto del
supporto, bensì della tecnica, e in relazione all’effetto che l’artista
riesce a ottenere facendovi ricorso: la politura nel caso del marmo, la
fusione per il bronzo ecc. e naturalmente l’uso dei colori nel caso
della pittura, quale essa sia. Questa precisazione permette di spiegare un’altra omissione del discorso di Filostrato, lamentata da buona
parte dei commentatori moderni, cioè l’assenza di riferimenti alla
“poetica” dell’artista e di giudizi di valore che non si limitino a considerazioni sulla “fedeltà” della rappresentazione. Piuttosto
Filostrato si interessa al pathos dello sguardo – «l’ira, il dolore, la
gioia» e ancora «la brillantezza» – che l’artista riesce ad esprimere
sfruttando al meglio i mezzi che ha scelto: un pathos che, secondo la
tipica mise en abîme delle Immagini, appartiene allo sguardo dei soggetti rappresentati ma al tempo stesso anche allo sguardo di chi
osserva. Da questo punto di vista la pittura mostra dunque la sua
superiorità rispetto alle altre arti, perché la tecnica che la contraddistingue permette di ottenere questo risultato nel modo migliore.
Filostrato è estremamente chiaro su ciò che le sue descrizioni – le
Immagini – non sono, ovvero una storia: né una storia della pittura né
una storia dei pittori. Questa precisazione, d’altronde, si rivela assolutamente funzionale al tentativo di conferire alla descrizione un’effettiva autonomia nell’ambito della retorica. Ma anche su questo
La verità e il suo specchio
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punto occorre richiamare un precedente aristotelico, cioè le osservazioni su ciò che distingue la poesia dalla storia (Poet. 9, 1451b 29):
lo storico narra ciò che è effettivamente accaduto ed è unico, mentre il poeta racconta le cose come sarebbero potute verosimilmente
accadere, il che conferisce al suo discorso un valore universale e
rende la poesia «più filosofica» della storia. È chiaro che Filostrato
intenda qui “storia” nel senso di ricostruzione cronologica di eventi
e di cause che li hanno innescati. Ma il termine historia ha una forte
connessione con le nozioni di “aver visto”, “testimoniare”, “sapere”,
ed è una parola chiave, veicolo di una precisa rappresentazione della
conoscenza incentrata sul visuale, che non si può trascurare in questo contesto. Se Filostrato rifiuta di adottare lo sguardo dello storico è perché mira a cogliere la verità della pittura, che è cosa profondamente diversa dalla sua storia, attraverso uno sguardo nuovo, che
combina ékphrasis e interpretazione inaugurando un genere autonomo e destinato a una lunga fortuna.
Filostrato attraverso lo specchio
“Manifesto” di questo nuovo modo di vedere è lo sguardo che si
incrocia con quello di Narciso (1.23) ridisegnando lo spazio dell’immagine e quello dell’osservatore attraverso un vertiginoso sistema di
rinvii: «La fonte riproduce i tratti di Narciso come la pittura riproduce la fonte, Narciso stesso e la sua immagine. Il giovane, di ritorno dalla caccia, sta in piedi vicino alla sorgente sospirando per sé,
incantato dalla propria bellezza, e, come vedi, fa risplendere l’acqua
della sua splendida grazia. […] In effetti la fonte non è estranea al
culto di Dioniso, e anzi è il dio che in qualche modo l’ha fatta sgorgare per le baccanti». Narciso è ritratto nel lungo istante in cui ammira la propria bellezza riflessa – come in uno specchio – nell’acqua di
una sorgente, e se ne innamora perdutamente. La descrizione di questa immagine assume più di ogni altra per Filostrato una funzione
programmatica nel contesto delle Immagini, perché gli permette di
tematizzare – in una prospettiva che si potrebbe definire di secondo
livello – le coordinate teoriche e poetiche dell’ékphrasis: «Quanto a
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Andrea L. Carbone
te, giovane, non è una pittura la causa della tua illusione, non sono
colori o una cera ingannevole a legarti. Non vedi che l’acqua riproduce te stesso nell’atto di contemplarti, non ti accorgi dell’artificio di
questa fonte, eppure basterebbe che ti sporgessi appena o che cambiassi espressione, o che agitassi la mano o che ti spostassi? […] I due
Narcisi si somigliano, brillano della stessa bellezza. La sola differenza è che uno si staglia sul fondo del cielo, mentre l’altro è come se
fosse immerso nell’acqua. Il giovane rimane immobile sull’acqua, che
rimane anch’essa immobile, o forse lo contempla fissamente, come se
fosse conquistata dalla sua bellezza». A questo incrocio di sguardi
non è estranea la visione di Medusa, che arresta l’immagine cristallizzando al tempo stesso la figura di Narciso e quella del suo riflesso.
L ’ acqua della fonte, trasformata dall’immobilità in una superficie
riflettente, ripete il gesto della pittura, raddoppiando la rappresentazione e innescando un gioco di rinvii virtualmente infiniti e abissali
che coinvolgono Narciso e il suo doppio, la personificazione della
fonte stessa, il cui sguardo si aggiunge a quello dei due Narcisi, gli
spettatori fittizi – Filostrato e il gruppo di ragazzi ai quali è rivolta la
descrizione – l’ékphrasis in quanto ordine ulteriore della rappresentazione, che ancora una volta riproduce l’immagine traducendola in
parole, e da ultimo il fruitore delle Immagini.
Questo “sommario” degli sguardi coinvolti nell’immagine di
Narciso, necessariamente riduttivo e schematico, permette di osservare in che modo lo specchio dà forma al rapporto che l’ékphrasis
intrattiene con l’immagine. Nell’impianto delle Immagini, sia dal
punto di vista teorico che da quello narratologico, gli elementi si
dispongono infatti secondo una struttura che può essere definita “speculare”, e che si articola attraverso una serie di termini contrapposti,
la cui relazione dialettica non si riduce a quella della semplice polarità.
La coppia centrale di questo impianto speculare è naturalmente la
relazione stessa tra immagine e parola, ovvero tra pittura ed ékphrasis.
Come si è detto, ciò che Filostrato intende cogliere nelle immagini
attraverso le descrizioni, secondo le indicazioni programmatiche del
prologo dell’opera, è il loro contenuto di verità: in questo senso l’ékphrasis vuole essere specchio dell’immagine, poiché ambisce a rifletterne
La verità e il suo specchio
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fedelmente le fattezze, a coglierne il senso veritiero. Come si è detto,
tuttavia, non si tratta con ciò di negare all’artista la legittimità del ricorso alle tecniche e agli artifici caratteristici della sua arte, che indurranno il fruitore dell’immagine a proiettarvisi come se fosse reale. Nella
maggior parte delle sue descrizioni, Filostrato considera particolarmente rilevante questa potenzialità centripeta dell’immagine, che dà
l’illusione di essere accessibile all’osservatore. Ma anche in questo caso
la pittura rivela di mutuare una caratteristica che appartiene in sommo
grado allo specchio, poiché è propria dell’immagine speculare l’illusione di uno spazio abitabile al di là della superficie riflettente. Queste
considerazioni ci inducono a tornare sulla questione delle caratteristiche materiali delle immagini descritte da Filostrato. Lo spazio dell’immagine, nelle descrizioni di Filostrato, non si determina mai rispetto a
limiti, margini, a una cornice: il supporto dei pannelli dipinti, i pinakes,
non delimita un perimetro carico del senso di un’inquadratura. Non si
può dire, tuttavia, che queste immagini siano prive di uno spazio qualificato e orientato. La dimensione saliente è però quella che tanto
nello specchio quanto nella pittura appartiene alla sfera dell’illusione,
vale a dire la profondità. Non sembra casuale allora che nell’unico passo
in cui Filostrato accenna all’organizzazione spaziale di un’immagine, la
sua attenzione si applichi ad un effetto che anacronisticamente
potremmo definire di prospettiva: «Ammiriamo qui l’arte ingegnosa
del pittore: degli uomini in arme che circondano la città, alcuni ci
appaiono per intero, altri hanno le gambe nascoste, di questi si vede
soltanto metà del corpo, di questi altri il petto, poi emergono solo le
teste, poi gli elmi, poi le punte delle lance. È un effetto che gioca
sull’analogia, ragazzo mio: man mano che l’occhio penetra nel quadro,
i ranghi dei soldati devono coprirsi sempre di più l’un l’altro» (1.4).
Se in questo caso l’accento è posto sull’ingresso dello sguardo
nello spazio della pittura, nella descrizione stessa dell’immagine di
Narciso il riferimento al dettaglio dell’ape, che forse si è ingannata
posandosi su un fiore dipinto, o forse inganna noi perché è dipinta
anch’essa. L ’ attenzione si concentra sulla superficie dipinta intesa
come limite osmotico, al pari di quello di una superficie riflettente,
tra l’immagine e la realtà. A questo scambio attiene del resto la
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Andrea L. Carbone
drammatizzazione imperniata sull’intervento nell’azione raffigurata,
che è l’espediente retorico al quale più di frequente Filostrato ricorre nelle Immagini.
Ora, se la descrizione dell’immagine di Narciso ha il valore di un
manifesto programmatico, al pari del Prologo dell’opera, ma questa
volta – per così dire – sul campo, è proprio in virtù dell’intima connessione che lega il mito di Narciso all’ambigua natura dell’immagine speculare e al suo ingannevole eccesso di realtà: in questa prospettiva si articolano pertanto le fondamentali relazioni polari
caratteristiche dell’ékphrasis, cioè verità e inganno, realtà e imitazione. Ma quest’ottica può trovare applicazione per interpretare
anche il rapporto, richiamato ad esempio nella descrizione dello
Scamandro (1.1) e più volte ripreso, tra la fonte letteraria e la rappresentazione pittorica. Per un verso, infatti, dal lato del pittore, il
dipinto traduce in immagini visibili, rispecchia, gesta e personaggi
che appartengono allo spazio letterario, e che l’artista ha tradotto in
una nuova forma; per altro verso, dal lato dell’ékphrasis, si tratta di
rintracciare nell’immagine l’origine letteraria di ciò che la pittura
riflette, e di tenerne conto come guida e raffronto. Ma non si tratta
di un’opposizione lineare: le immagini di Filostrato – per riprendere
la locuzione coniata da W.J.T. Mitchell – sono mixed media, e se la
descrizione si abbandona volentieri al sapiente inganno dell’immagine, accade anche che Olimpo (1.21) sia invitato dal retore a non
ammirare la propria bellezza riflessa nell’acqua, paradigma della pittura, bensì ad ascoltarne la descrizione.
La visione di Medusa si è infiltrata nell’immagine, arrestando la
figura di Narciso e quella del suo riflesso; l’acqua della fonte ripete il
gesto della pittura, raddoppiando la rappresentazione; ancora un altro
sguardo si riproduce, quello di Dioniso, che rimirandosi nello specchio scorge i tratti dell’universo, un attimo prima che i titani portino
a termine le loro trame esiziali. Ma lo sguardo dell’osservatore smaschera tutte le illusioni, perché è lasciando essere l’enigma di cui ha
contezza che svela la verità dell’immagine.
La verità e il suo specchio
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NOTE
1. Cfr. F. Solmsen, Some Works of Philostratus the Elder, «Transactions and
Proceedings of the American Philological Association», 71 (1940), pp. 556-572.
2. K. Lehmann-Hartleben, The Imagines of the Elder Philostratus, «The Art
Bulletin», 23 (1941), pp. 16-44. Sulla questione cfr. anche M.L. Thompson, The
Monumental and Literary Evidence for Programmatic Painting in Antiquity,
«Marsyas», 9 (1961), pp. 36-77.
3. Questi non si limitano al semplice obiettivo della conquista di nuovi argomenti da aggiungere al repertorio del discorso retorico, al contrario di quanto
sembra sostenere A. Fairbanks (Elder Philostratus, Imagines; Younger
Philostratus, Imagines; Callistratus, Descriptions, trad. ing. di A. Fairbanks, Loeb,
Cambridge MASS -London 1931, p. xvi).
4. Cfr. P. Friedländer, Johannes von Gaza und Paulus Silentiarius:
Kunstbeschreibungen justinianischer Zeit, Berlin-Leipzig 1912. Sull’ékphrasis omerica dello scudo di Achille cfr. P.R. Hardie, Cosmological and Ideological Aspects
of the Shield of Achilles, «The Journal of Hellenic Studies», 105 (1985), pp. 11-31.
5. Cfr. A. Sprague Becker, Reading Poetry trough a distant Lens: Ecphrasis,
Ancient Greek Rhetoricians, and the Pseudo-Hesiodic “Shield of Heracles”, «The
American Journal of Philology», 113 (1992), pp. 5-24.
6. Cfr. ad esempio F. Lissarrague: «Le recueil d’Images de Philostrate relève d’un
genre ancien, celui de l’ekphrasis» (Philostrate, La Galerie de tableaux, a cura di F.
Lissarrague, con una prefazione di P. Hadot, Les Belles Lettres, Paris 1991, p. 2).
7. In proposito cfr. R. Webb, Ekphrasis Ancient and Modern: the Invention of a
Genre, «Word & Image», 15 (1999), pp. 7-18.
8. Sulla funzione del prologo in Luciano cfr. R. Bracht Branham, Introducing a
Sophist: Lucian’s Prologues, «Transactions of the American Philological
Association», 115 (1985), pp. 237-243, e in particolare quanto lo studioso osserva in
merito alla definizione del genere cui appartengono gli scritti di Luciano: «Lucian
is a notoriously difficult writer to place. He represents himself in the Bis
Accusatus as having abandoned the practice of epideictic and forensic rethoric,
the staples of sophistic performance, in favor of more inventive, literary forms»
(p. 237, n. 2).
9. Cfr. Immagini 1.3 e 1.4, dove Filostrato ricorre rispettivamente al verbo philosophei e al termine sophisma per lodare un espediente escogitato dall’artista.
10. Chiara reminiscenza dell’uva dipinta da Zeusi, capace di ingannare gli uccelli
(Plinio, Naturalis Historia, X X X V , 65).
18
Andrea L. Carbone
NOTA BIBLIOGRAFICA
L ’ edizione standard dell’opera è quella curata da O. Schonberger, corredata da
ampi apparati, integrati da E. Kalinka (Die Bilder, Heimeran, Munchen 1968).
Dell’edizione Teubner (1870) in due volumi, curata da C.L. Kayser, è facilmente reperibile una ristampa anastatica (Flavii Philostrati opera: accedunt
Apollonii Epistolae, Eusebius adversus Hieclem, Philostrati junioris Imagines,
Callistrati Descriptiones, Georg Olms, Hildesheim-New York 1985).
Per l’eleganza dello stile, la versione francese di A. Bougot (1881) costituisce un
modello impareggiabile per tutte le traduzioni moderne. Può essere consultata
nella versione riveduta e corretta da F. Lissarrague, con una prefazione di P. Hadot
e alcune delle incisioni che dal 1614 arricchirono l’edizione cinquecentesca curata
da Blaise de Vigenère (La Galerie de Tableaux, Les Belles Lettres, Paris 1991).
L’edizione Loeb è curata da A. Fairbanks, con alcune note essenziali (Elder
Philostratus, Imagines; Younger Philostratus, Imagines; Callistratus, Descriptions,
traduzione di A. Fairbanks, Loeb, Cambridge MASS -London 1931).
Si veda anche la versione spagnola curata da L.A. de la Cuenca e M.Á. Elvira
(Filóstrato el Viejo, Imágenes; Filóstrato el Joven, Imágenes; Calístrato,
Descripciones, Siruela, Madrid 1993)
La prima edizione italiana moderna è di G. Schilardi, con un’introduzione di
F. Fanizza (Immagini, Argo, Lecce 1997).
Immagini
Prologo
Chi non ama la pittura disprezza la verità stessa. Disprezza quel
genere di sapienza che appartiene anche ai poeti, perché, come la
poesia, la pittura rappresenta l’aspetto e le gesta degli eroi. Ma
disprezza anche la scienza delle proporzioni, che conduce l’arte al
dominio della ragione. Se volessi parlare per sofismi direi che la pittura è un’invenzione degli dèi, rivolgendo la mente alle forme variegate della terra e ai suoi prati, che sono come dipinti dalle stagioni,
o a tutti i fenomeni celesti. Ma se si vuole parlare seriamente
dell’origine dell’arte occorre osservare che l’imitazione è una delle
invenzioni più antiche, quanto la natura stessa. Dobbiamo questa
scoperta a uomini abili che la chiamarono ora pittura ora arte plastica. L ’ arte plastica, poi, si divide in più specie: la fusione del bronzo, la politura del Ligdo o del Pario1, la lavorazione dell’avorio, e per
Zeus anche l’incisione: tutto questo rientra nel dominio dell’arte
plastica. La pittura consiste nell’impiego dei colori, ma non soltanto in questo. Piuttosto, da quest’unico mezzo la pittura trae un profitto maggiore rispetto a quello di qualsiasi altra arte che pure
disponga di risorse più numerose. In effetti, la pittura rappresenta
le ombre, e sa come mostrare negli sguardi l’ira, il dolore, la gioia.
Dare agli sguardi la brillantezza che li contraddistingue: ecco che
cosa resta inaccessibile all’arte plastica. Sguardi che la pittura sa rendere fervidi, glauchi, neri. E capelli di un biondo fulvo, fiammeggiante, dorato. Ogni cosa ha il suo colore: le vesti, le armi, gli edifici
22
Filostrato
e le case, i boschi e le montagne, le sorgenti e l’aria che avvolge ogni
cosa. Molti sono stati maestri di quest’arte, molte città e re l’hanno
amata con passione, ma questa è una storia che altri hanno raccontato prima di me, ad esempio Aristodemo di Caria2, che è stato mio
ospite, per quattro anni, per amore della pittura, e che sapeva
aggiungere molta grazia all’arte del suo maestro Eumelo3. Il mio
discorso non riguarda i pittori né vuole raccontare la loro storia, ma
spiegare delle pitture ai giovani per renderli avvezzi a interpretarle e
comprenderle. Ecco in che occasione questo discorso fu pronunciato. Allora erano in corso dei giochi a Napoli, città fondata dai Greci
in Italia, che per il suo culto delle lettere si può considerare una città
greca. Non avevo l’intenzione di declamare in pubblico, anche se a
casa del mio ospite i giovani insistevano perché lo facessi. Il mio
alloggio era fuori le mura, in un borgo sul mare, dove si trovava un
portico a quattro o cinque piani che guardava il Tirreno4. Era rivestito dei più bei marmi che il lusso possa esigere, ma il suo splendore proveniva soprattutto dai pannelli dipinti5 incastonati nei muri,
che erano stati scelti, mi sembrava, con una cura particolare e davano un esempio della sapienza di molti pittori. Io stesso avevo già
maturato l’intenzione di tessere le lodi di quei dipinti, ma il figlio
del mio ospite, un bambino che poteva avere dieci anni ma era già
curioso e avido di conoscenze, colse l’occasione della mia visita per
chiedermi di spiegargli quelle pitture6. Non volevo sembrare avventato, quindi gli dissi: «inizierò con piacere la mia esposizione quando i tuoi giovani amici saranno arrivati». Quando questi furono presenti, dissi: «sarà il vostro compagno a rivolgermi delle domande: è
a lui che dedico il mio discorso; ma anche voi che seguite non limitatevi ad ascoltare, e interrompetemi se non sono chiaro».
Lib ro p r im o
1.1 Lo Scamandro. Di certo hai riconosciuto, ragazzo mio, che il
soggetto è tratto da Omero, ma forse non ci hai fatto caso.
Vedendo il fuoco che vive nell’acqua, la tua anima sarà stata interamente occupata a contemplare lo spettacolo meraviglioso. Ma
vediamo di capire quale può essere il significato. Permettimi allora di distrarre il tuo sguardo per rappresentarti la narrazione di
Omero cui l’artista si è ispirato. Ricordi il passo dell’Iliade 7 in cui
Omero ci mostra lo slancio di Achille che vuole vendicare
Patroclo, mentre gli dèi si apprestano a combattere gli uni contro
gli altri? La pittura non contempla tutti gli eventi di questa guerra divina, bensì uno solo: Efesto si precipita sullo Scamandro con
impeto e furore. Adesso considera nuovamente la pittura: ogni
cosa è tratta da lì. La città alta, cinta di mura merlate, è Ilio. La
pianura è ampia abbastanza per aver potuto assistere alle contese
di Europa e Asia. Il fuoco la copre come un torrente che ha rotto
gli argini: si arrampica e dilaga sulle rive del fiume, dove già la
vegetazione è scomparsa. Intanto Efesto avvolto dalle fiamme si
dirige verso il fiume: ed ecco il fiume in persona che geme e supplica Efesto. Come vedi, il fiume non ha la sua bella chioma, perché è stata bruciata dal fuoco. Come vedi, Efesto non zoppica, e
corre veloce8. Il rosso del fuoco non è vivido, non ha l’aspetto consueto: brilla come l’oro o come i raggi del sole. Omero non ha più
niente a che vedere con simili dettagli.
24
Filostrato
1.2 Como. Como, il genio che veglia sui cortei notturni dei convivî degli
uomini9, se ne sta sulla soglia di una stanza dalle porte dorate. Dorate
mi sembrano, in effetti, anche se l’occhio è lento a distinguerle nell’oscurità della notte. La notte non è personificata, ma si riconosce dai
suoi effetti10. Il vestibolo, degno di un tempio, testimonia dell’opulenza dei giovani sposi, che riposano sul letto nuziale. Como è venuto, giovane, a far visita ai giovani: ha ancora tutte le tenere grazie dell’infanzia,
ma i fumi del vino gli colorano il viso. È in piedi, ma già cede al sonno
dell’ebbrezza: dorme con il capo chino sul petto, la mano sinistra, poggiata su uno spiedo che crede di reggere, si distende e cede, come accade quando le prime carezze del sonno intorpidiscono la mente e la
memoria. La lanterna nella destra sembra anch’essa sfuggire, per effetto
della medesima causa, alla stretta delle dita languide. Temendo che il
fuoco possa toccargli la gamba, Como accavalla la coscia sinistra sulla
destra e passa a sinistra la lanterna per allontanare la mano e la fiamma
dal ginocchio proteso. I pittori devono elaborare con cura il volto dei
personaggi che hanno tutta la vivacità della giovinezza: senza di loro le
pitture sono cieche. Ma nel caso di Como, visto che il capo chino getta
un’ombra sui tratti del viso, la figura ha poca importanza. L ’ artista,
immagino, ha voluto così ricordare a chi ha l’età di Como di non festeggiare il dio senza indossare la maschera. Il resto del corpo dimostra
un’attenzione minuziosa per ogni dettaglio e la lanterna che lo avvolge
di luce li mette in risalto. Ammiriamo anche la corona di rose, ma non
per il suo aspetto: imitare i fiori con i colori, il rosso o il blu, secondo
necessità, non è un gran merito; ma perché bisogna lodarne la morbidezza e la delicatezza, e la freschezza che le rose mostrano di avere; oso
affermarlo: dipinte, hanno profumo di rose vere. Ora che abbiamo parlato di Como, resta da dire del suo seguito. Non senti i crotali, i suoni di
flauto, un mormorio confuso? Lanterne sparse qui e là consentono ai
nostri gioiosi compagni di vedere innanzi a sé, e a noi di vederli. È una
folla variegata e animata di uomini e donne: non distinguiamo il loro
sesso dalle calzature che portano, e sono vestiti in modo straordinario,
perché Como consente alla donna di atteggiarsi come un uomo e all’uomo di vestirsi e comportarsi come una donna. Ma le corone di fiori
hanno perso il loro splendore: per non perderle correndo, tutti le hanno
Immagini
25
fissate al capo, e il fiore, geloso della sua libertà, teme il contatto della
mano, che lo sciupa anzitempo. Infine la pittura rappresenta il battito
delle mani, quel che a Como piace più di ogni cosa: la destra batte con
le dita piegate nel palmo della sinistra, e quando tutte le mani si scontrano come cimbali mandano lo stesso suono.
1.3 Le Favole. Le favole vengono a far visita al loro amato Esopo,
ricambiando le sue premure. Non che Omero abbia disdegnato questo genere di finzioni, né lo ha fatto Archiloco, scrivendo contro
Licambe11. Ma è Esopo che ha reso nelle sue favole tutta la vita degli
uomini, che ha dato la parola alle bestie, per parlare come se avessero una ragione pari alla nostra. Perché reprime la cupidigia, e
mette al bando la tracotanza e l’inganno attribuendo un ruolo al
leone, alla volpe, al cavallo, a tutti gli animali, e persino alla tartaruga, che smette allora di essere muta, per istruire i bambini sulle cose
della vita. Ecco perché le favole, onorate da Esopo, si affrettano alla
porta del saggio per cingergli il capo di serti e coronarlo di nuove
foglie. Esopo, lui, compone una favola, immagino: lo capisco dal sorriso, dagli occhi fissi al suolo. Il compositore di favole ha bisogno di
una dolce serenità che ristora l’anima, e il pittore lo sapeva bene. La
pittura, inoltre, rivela una certa sapienza nella maniera in cui sono
personificate le favole: i personaggi che mette intorno a Esopo,
come un coro tragico, hanno in effetti qualcosa dell’uomo e della
bestia, e si compongono di elementi tratti dal teatro stesso del
poeta. La volpe è dipinta in veste di corifeo, perché nella maggior
parte dei casi Esopo ricorre alla volpe per esporre i suoi propositi,
come fa la commedia di Davo12.
1.4 Meneceo. Questa città sotto assedio è Tebe, perché il muro ha
sette porte. L ’ esercito è quello di Polinice, figlio di Edipo, perché è
diviso in sette armate13. Il capo che si avvicina al campo è Anfiarao:
ha l’aria scorata di un uomo che ha il presentimento di una catastrofe. I capitani delle armate sono anch’essi impauriti, e protendono le mani al cielo. Lo sguardo di Capaneo percorre con disprezzo le
muraglie e i merli, perché conta di poterli scalare. I difensori tebani
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Filostrato
non scagliano frecce, perché temono di scatenare la battaglia.
Ammiriamo qui l’astuzia del pittore: degli uomini in arme che circondano la città, alcuni ci appaiono per intero, altri hanno le gambe
nascoste, di questi si vede soltanto metà del corpo, di questi altri il
petto, poi emergono solo le teste, poi gli elmi, poi le punte delle
lance. Gioca sull’analogia, ragazzo mio: man mano che l’occhio
penetra nel quadro, i ranghi dei soldati devono coprirsi sempre di
più l’un l’altro. Neppure i vaticinî mancano a Tebe. Tiresia emette
un oracolo che condanna Meneceo, figlio di Creonte, a morire nella
tana di un drago, se vuole salvare la patria. Ed ecco Meneceo che
muore, all’insaputa del padre. L ’ età lo rende degno di pietà, ma un
tale coraggio è foriero di felicità. Considera infatti l’opera del pittore: non ha dipinto un giovane dal colorito delicato, dai tratti effeminati, ma pieno di vita, reso forte dalla ginnastica, ha questo bell’incarnato di un bruno dorato che piace al figlio di Aristone14. Il
petto è muscoloso, i fianchi, i glutei, le gambe sono ben proporzionati. Le spalle rivelano la forza, il collo non è rigido, la chioma è
abbondante ma non eccessiva. In piedi davanti all’antro del drago
estrae la spada con cui si è già trafitto il fianco. Raccogliamo, ragazzo mio, nella piega della nostra veste il sangue che scorre dalla ferita: scorre, e anche l’anima scappa via, ancora un momento e la sentirai levare il suo grido d’addio, perché le anime amano i bei corpi e
se ne separano con rammarico. Man mano che il sangue scorre,
Meneceo barcolla, poi si getta tra le braccia della morte con un viso
calmo e sorridente: sembra quasi un uomo che si addormenta.
1.5 I Bracci. Sulle rive del Nilo giocano i Bracci, bambini che prendono il nome dalla loro taglia, cari al Nilo per più di una ragione, e
innanzi tutto perché annunziano agli Egizi quanto profonda sarà la
piena15. Sono i flutti che li conducono al cospetto del dio, e sembra
che ne escano freschi e sorridenti, credo che non manchi loro perfino il dono della parola. Alcuni siedono sulle spalle del fiume, altri
si appendono alle trecce della sua chioma, questi si addormentano
tra le sue braccia, altri ancora si rincorrono sul suo petto. E lui, il
dio, dona loro i fiori che trovano ora sul suo petto, ora tra le sue
Immagini
27
braccia, perché intreccino ghirlande e sui fiori si addormentino come
esseri divini e profumati. Salgono l’uno sulle spalle dell’altro al suono
dei sistri, di cui le acque del Nilo amano riempirsi. I coccodrilli e gli
ippopotami, che certi artisti dispongono sulle rive del Nilo, rimangono invece nei recessi della gola per non impaurire i bambini. Ma
ecco gli attributi della navigazione e dell’agricoltura che con chiarezza contraddistinguono il Nilo, e tu non ne ignori certo la ragione,
ragazzo mio: il Nilo rende navigabile l’Egitto, e la terra beve le sue
acque dando alle pianure raccolti abbondanti. In Etiopia, dove sono le
sorgenti, regola il suo corso con prudenza, secondo le stagioni. Nella
pittura abbiamo l’impressione che la sua statura sia tale da toccare il
cielo: ha un piede presso le sorgenti, e sembra che inclini la testa,
come Poseidone, in segno di assenso. Il fiume gli rivolge lo sguardo, e
gli chiede che molti bambini vengano ancora, simili a questi.
1.6 Gli Amori. Gli Amori raccolgono le mele, come vedi. Non essere
sorpreso del loro numero, perché questi figli delle ninfe, che comandano la stirpe intera dei mortali, sono innumerevoli come innumerevoli sono i desideri degli uomini. Eppure, a quanto si dice, c’è un
amore celeste che ha facoltà divine16. Il dolce profumo che esala dal
frutteto non giunge fino a te? Il tuo olfatto è forse pigro? Allora
ascolta con attenzione, le mie parole ti porteranno l’odore dei frutti.
Piantati in schiere dritte, questi alberi aprono tra loro ampi viali per
chi intende passeggiare, e intorno ai viali prati d’erba sottile offrono
un letto al riposo. In cima ai rami pendono mele dorate, del colore
del fuoco o bionde come il sole, che invitano tutto quanto lo sciame
degli Amori a intraprendere il raccolto. Le faretre ricoperte d’oro o
dorate, piene di frecce, tutti le hanno abbandonate. Così si rincorrono, leggeri, liberatisi di questo fardello che hanno appeso ai meli, e i
loro mantelli variegati rimangono sul prato, dove risplendono di mille
colori. Gli Amori non hanno corone di fiori sul capo, la loro chioma
è già un ornamento, le ali azzurre o porpora o ancora dorate mandano quasi nell’aria un suono armonioso. Che bei cesti accolgono le
mele, che sardoniche, che smeraldi, che perle vere vi sono incastonati! Senza dubbio è l’opera di Efesto, ma non c’è bisigno delle sue
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Filostrato
scale, perché spiccano il volo e raggiungono le mele d’un balzo. Non
parleremo di quelli che danzano in cerchio o corrono o dormono o
mordono le mele e le mangiano: consideriamo piuttosto come si
divertono questi qui. Questi quattro Amori, i più belli di tutti, rimangono in disparte rispetto ai compagni. Due si lanciano scambievolmente una mela, gli altri due una freccia allo stesso modo. Ma sul
loro viso non si disegna minaccia alcuna, e ciascuno tende il petto,
perché là e non altrove intende ricevere il tiro del compagno. È un
bell’enigma, guarda un po’ se comprendo bene ciò che intende il pittore. Amicizia e reciproco desiderio, ecco, ragazzo mio. Quelli che
giocano con la mela sono appena al principio del desiderio: uno lancia la mela dopo averla baciata, e l’altro tende le mani per accoglierla. Vediamo chiaramente che quando l’avrà ricevuta la bacerà, e la
renderà al compagno. La coppia di arcieri è unita da un amore già
antico e si impegna a rinforzarlo. Dico che i primi due giocano per
incoraggiare un amore nascente, gli altri maneggiano l’arco perché in
loro il desiderio non si spenga. Questi altri Amori che circondano
una folla di astanti sono giunti ad accapigliarsi per la foga, li si scambierebbe quasi per lottatori. Ti spiegherò questa lotta, poiché vedo
che lo desideri ardentemente. Uno di loro, volteggiando intorno al
suo avversario, gli si è avvinghiato alle spalle e lo stringe fin quasi a
soffocarlo, serrandolo anche con le gambe. L ’ altro non intende cedere o piegarsi e si leva a gran fatica, forza la mano che lo serra, ha ritorto un dito e ogni altro, isolato, deve lasciare la presa. L ’ Amore che
patisce una tale tortura prova un dolore acuto e morde l’orecchio dell’avversario. Gli altri Amori che li guardano sono irritati da un sotterfugio così ingiusto, che viola le regole della lotta, e prendono a
lapidare il malcapitato con una gragnuola di mele. Scorgo anche una
lepre che non dobbiamo lasciarci sfuggire: diamole la caccia in compagnia degli Amori. Si era nascosta tra i meli, dove faceva incetta dei
frutti caduti, e molti sono rimasti lì, morsi a metà. Ma ecco i nostri
Amori che la inseguono e la spaventano ora con il battito delle mani,
ora gridando, ora agitando la clamide. Gli altri le corrono dietro senza
perderne le tracce. Eccone uno che ha preso lo slancio e si precipita
sulla preda, ma l’animale scarta, è riuscito a divincolarsi. Un altro
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vuole afferrare la lepre per la zampa, ma non fa in tempo a prenderla che già scappa. E ridono cadendo di fianco o in avanti o rovesciandosi, ciascuno a suo modo, a seconda di come l’animale gli sfugge. Nessuno tira frecce, si studiano di prendere viva la lepre, perché
questa è l’offerta più cara alla dea Afrodite. Tu sai di certo che la
lepre è nota per aver ricevuto da Afrodite buona parte del suo intuito: si dice che la femmina divenga nuovamente madre quando ancora allatta i piccoli, nutrendo la nuova prole con il latte della prima, e
che poi concepisca ancora, e che insomma non smette mai di essere pregna. Il maschio, invece, non solo feconda la femmina – questo
è il ruolo del maschio – ma pure concepisce, e questo è contro natura. Così gli innamorati privi di delicatezza, credendo che questo animale possieda qualche virtù di persuasione, se ne servono per fare
violenza all’oggetto dei loro sentimenti. Ma lasciamo questa pratica
agli uomini che non hanno lealtà e sono indegni di ispirare amore.
Rivolgi invece lo sguardo verso Afrodite. Dove si trova? In quale
parte del frutteto? Vedi laggiù quella grotta scavata nella roccia, da
cui sgorga una sorgente d’acqua limpida, che riflette l’azzurro del
cielo e il verde dei meli, dividendosi poi in canali che irrigano il frutteto? Sii certo che lì si trova un’Afrodite17, deposta – immagino –
dalle Ninfe che intendono così ringraziarla per averle rese madri
degli Amori, madri di bambini così belli. Lo specchio d’argento,
questo bel sandalo dorato, queste fibbie d’oro, sono offerte che parlano da sé: mi dicono che sono consacrate ad Afrodite. Del resto
così è scritto, e possiamo anche leggere che provengono dalle Ninfe.
Dal canto loro gli Amori offrono le primizie, e riuniti in cerchio pregano che il loro frutteto rimanga sempre così bello.
1.7 Memnone. Questo è l’esercito di Memnone. I soldati hanno
abbandonato le armi per esporre e piangere il più grande di loro,
raggiunto in pieno petto dalla lancia di frassino, immagino. In effetti vedendo quest’ampia pianura, queste tende, questo accampamento fortificato, questa città contornata da possenti muraglie non
posso trattenermi dal dire: ecco gli Etiopi, ecco Troia, l’eroe compianto è Memnone, figlio dell’Aurora. Era giunto per soccorrere
30
Filostrato
Troia e fu ucciso, si dice, dal figlio di Peleo18. I due avversari erano
degni l’uno dell’altro. Puoi anche vedere quanta terra copra il corpo
di Memnone, e come fosse curata la sua bella chioma riccia, che
intendeva offrire in dono al Nilo, credo, perché se è vero che la foce
del Nilo appartiene agli Egizi, gli Etiopi ne possiedono le sorgenti19.
Vedi? La sua bellezza virile ancora si manifesta, benché gli occhi
siano spenti. Vedi? Questa peluria leggera sul viso rivela che l’eroe
aveva la stessa età di colui che lo ha battuto. Non si direbbe poi che
Memnone fosse nero, perché la sua figura, che pure è di un nero
intenso, lascia trasparire un vago fiore di giovinezza20. Ci sono dee
che si rivelano in cielo. L ’ Aurora piange la perdita del figlio velando lo splendore del sole e prega la notte di stendere, prima del
tempo, le sue ombre sull’esercito, perché le sia possibile, se Zeus lo
permette, di portar via il cadavere del figlio. E guarda, il corpo non
c’è più, scorgiamo Memnone sul margine della pittura. Ma dove? In
quale luogo della terra? La tomba di Memnone non si trova da nessuna parte, ma Memnone stesso è in Etiopia, trasformato in pietra
nera: è come se stesse seduto e i suoi tratti sono, immagino, gli stessi. Sulla statua battono i raggi del sole, che scivolano come un plettro sulla bocca di Memnone facendone uscire una voce che consola
la dea del giorno con i suoni di questa parola artificiale21.
1.8 Amimone. Hai incontrato, credo, in Omero, Poseidone che viaggia sui flutti come sulla terra, quando dall’Egeo si reca presso gli
Achei e il mare gli offre per accompagnarlo i suoi cavalli e i mostri
degli abissi22. Questo corteo che freme di gioia sui passi del dio, lo
ritrovi qui. Secondo il poeta, è vero, si tratta di cavalli di terra. Lo
intuisci, immagino, dagli zoccoli di bronzo e dalla velocità cui li incita la frusta. Qui invece il carro è tirato da ippocampi: i loro zoccoli
sono adatti a sfiorare l’acqua e nuotare, gli occhi hanno un riflesso
verdastro. Si direbbe, Zeus mi sia testimone, si direbbe che somiglino a delfini. In Omero, Poseidone si mostra adirato, indignato contro Zeus che piega l’esercito greco e lo condanna alla sconfitta. Ma
qui la gioia brilla sul suo viso e anima lo sguardo: si agita come se lo
scuotesse una violenta passione. Amimone23, figlia di Danao, che a
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lungo ha frequentato le rive dell’Inaco, ha vinto il dio, e questi ora
si lancia al suo inseguimento. La ragazza non conosce ancora l’amore che può suscitare: il suo aspetto impaurito, l’inquietudine, le mani
che lasciano sfuggire la tazza dorata, ogni cosa rivela che Amimone
è smarrita e non sa per quale ragione il dio sorga all’improvviso dai
flutti. Intorno alle sue membra chiare l’oro brilla riflettendosi sull’acqua. Ritiriamoci, ragazzo mio, di fronte alla ninfa, perché il flutto già si ripiega avvolgendo la sposa: è un’onda blu dai toni d’azzurro, ma è di porpora che Poseidone presto la tingerà24.
1.9 La palude. Il terreno è umido, coperto di canne e sterpi che crescono spontaneamente, senza semina o lavoro, nelle regioni paludose25. Sono raffigurati anche il tamarisco e il papiro, che sono piante
acquatiche. Una cintura di montagne circonda la palude, e le cime si
perdono nel cielo. Pare che il terreno non abbia in tutte la stessa
natura. Il pino che cresce su questa è segno di una terra fine e leggera, quelle altre sono ricoperte di cipressi, che indicano la presenza dell’argilla. Questi abeti, invece, non dicono forse che la montagna che li ospita è rocciosa e battuta dai venti? Poiché non amano i
terreni fertili né i raggi del sole, allora preferiscono alla pianura la
montagna, dove raggiungono le più alte quote. Sorgenti sgorgano
spumeggiando, assecondano i declivi e poi, confondendo le loro
acque, trasformano la pianura in palude, senza pertanto produrre
disordine o pantani. La pittura ha governato il corso dei ruscelli
come la natura l’avrebbe fatto, con la sua sapienza sovrana. L ’ acqua
si perde in diversi meandri, dove l’appio cresce in abbondanza e gli
uccelli nuotano tranquilli. Vedi queste anatre, con che grazia nuotano e spruzzano getti d’acqua? E che diremo della stirpe delle oche?
La pittura è fedele alla loro natura: questi uccelli scivolano sulla
superficie dell’acqua, navigano. E questi altri, ritti su lunghe zampe,
riconosci senza fatica che si tratta di animali altèri, delicati: ciascuno ha piume diverse, e altrettanto vari sono i loro atteggiamenti.
Questo qui, in cima a una roccia, riposa ora su una zampa ora sull’altra, quell’altro si asciuga le ali, un altro ancora le pulisce, questo
tiene una preda che deve aver catturato nell’acqua, quello si piega
32
Filostrato
come se cercasse del cibo. E se vediamo dei cigni cavalcati da Amori,
non dobbiamo esserne sorpresi, perché sono dèi insolenti che nei loro
giochi non si curano di rispettare gli uccelli. Ma allora non manchiamo di gettare uno sguardo a questa corsa, e alla porzione dello stagno
che funge da ippodromo. Non c’è luogo in cui l’acqua sia più bella,
perché è proprio lì che sgorga dalla terra, e subito riempie uno splendido bacino. In mezzo gli amaranti fanno pendere i loro graziosi fusti
da una parte e dall’altra, e i boccioli sfiorano la superficie dell’acqua.
Intorno a questa barriera gli Amori incitano alla corsa gli uccelli sacri,
adorni di freni d’oro: uno rilascia le redini, l’altro le stringe, uno le tira
di lato, quest’altro ha già passato il segno e riprende il giro. Mi pare di
sentirli che esortano i cigni, scambiando minacce e offese, come si
legge sui volti. Uno sta disarcionando il vicino, l’altro vi è già riuscito,
questo ha voluto smontare dal suo destriero per tuffarsi. Intorno alla
riva si sono raccolti i più abili cantori tra i cigni: intonano, immagino,
il nomo ortiano, che è appropriato a simili dispute. Il giovane alato
che vedi mostra che gli uccelli stanno cantando: è Zefiro, il dio che
dona il canto ai cigni. È rappresentato come un giovane delicato e
affascinante, facendo allusione al dolce soffio di Zefiro, e infatti i cigni
spiegano le ali per raccogliere questo soffio. Guarda ancora il fiume
che esce dalla palude: è largo, le sue acque sono leggermente rigonfie,
caprai e pastori lo attraversano su un ponte. Non è degno di lodi il pittore che ha rappresentato le capre nell’atto di saltare, bizzose, mentre
le capre incedono con indolenza, come se la lana fosse un pesante fardello. Lasciamo perdere la siringa e i suonatori, non dobbiamo lodare
la maniera in cui poggiano le labbra chiuse alla canna, perché esprimeremmo stima per la parte più umile della pittura, che attiene all’imitazione, e non renderemmo giustizia alla sapienza del pittore e al
suo senso della convenienza, cioè a quanto nell’arte vi sia di migliore.
Dove si trova dunque questa sapienza? Il pittore ha gettato sul fiume
una palma per farne un ponte, e si tratta di un’idea piuttosto ingegnosa. Poiché conosce quel che si dice delle palme, cioè che vi sono
maschi e femmine26, e conosce i loro amori, e sa come il maschio si
protende verso la femmina, l’avvolge con i rami e vi si stringe, ha
dipinto due palme dei due sessi, sull’una e sull’altra riva. Il maschio si
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inclina amorosamente, attraversa il fiume, ma non può raggiungere la
palma femmina, ancora lontana, e allora si stende servilmente.
Unendo così le due rive diviene un ponte sul quale il piede, trattenuto dalla ruvidezza della corteccia, non potrà scivolare.
1.10 Anfione. Si dice che Ermes per primo abbia avuto l’astuzia di
costruire una lira servendosi di due corni, una traversa e un guscio
di tartaruga27, e che subito fece dono dello strumento ad Apollo e
alle Muse, e quindi ad Anfione di Tebe. Anfione, che viveva a Tebe
al tempo in cui la città non era ancora cinta di mura, parlò alle rocce
con la sua melodia, ed ecco che, docili all’ascolto, esse accorrono
numerose28. È il soggetto della pittura. Esamina innanzi tutto la lira,
per vedere se la rappresentazione è esatta. Il corno, il corno del capro
che s’impenna, come dice il poeta29, è buono per la lira del musico e
per l’arma dell’arciere30. Sono corna nere, come vedi, dentellate,
capaci di infliggere colpi terribili. Le parti di legno sono di un bosso
liscio, a grana densa. Non c’è avorio, perché allora gli uomini non
conoscevano né l’elefante né il modo in cui si sarebbero impiegate
le sue zanne. Il guscio è nero e dipinto fedelmente, sull’intera superficie cerchi irregolari si intrecciano, volute chiare disseminate di
occhi gialli. Sostenuta dal ponte, la parte inferiore delle corde è rialzata e si sovrappone alle volute, mentre sotto l’attaccatura si direbbe che si stendano ben dritte sulla lira. E che fa Anfione? Pizzica le
corde della lira, profondamente concentrato sulla sua esecuzione.
Lascia intravedere i denti quanto è necessario a chi canta. E canta,
immagino, la terra, madre feconda di ogni cosa che partorisce perfino spontaneamente delle muraglie. Una chioma aggraziata gli incorona la fronte e scende con la peluria del viso lungo l’orecchio, colorandosi di riflessi dorati. La mitra gli conferisce nuova grazia,
l’ornamento mirabile che tanto si addice a un suonatore di lira e che
il poeta dei “versi segreti”, ha definito opera della grazie. Per parte
mia, credo che Ermes, innamorato di Anfione, gli abbia fatto dono
della mitra insieme alla lira. Anche la clamide è un dono di Ermes:
ha un colore variegato e cangiante, e muta tutti i colori dell’iride.
Seduto, Anfione batte il tempo col piede, mentre la mano destra
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Filostrato
pizzica col plettro le corde, che preme con la sinistra. Le dita distese sporgono, e credevo che soltanto l’arte plastica potesse fare
altrettanto. Ma sorvoliamo. Che fanno le pietre? Accorrono in gran
numero, attratte dal canto. Ascoltano, e si compongono per innalzare la muraglia. Alcune hanno già preso posto nella costruzione,
altre stanno salendo, altre ancora si aggiungono senza sosta. Sono
pietre davvero gentili, che fanno a gara per meglio obbedire, come
mercenari, agli ordini della musica. Il muro avrà sette porte, quante
sono le corde della lira.
1.11 Fetonte. Lacrime d’oro piansero le Eliadi, a quanto si dice, lacrime d’oro alla morte di Fetonte, figlio del sole, che a causa della suo
desiderio di essere cocchiere osò salire sul carro del padre, ma poiché non seppe tenere le redini cadde nell’Eridano31. Secondo i
sapienti, si è trattato di un periodo di calore eccezionale. Ma per i
poeti e i pittori il carro e i cavalli sono cose vere. Il disordine regna
in cielo. Guarda: non è ancora pomeriggio e la notte scaccia il giorno, la sfera del sole si precipita sulla terra trascinando gli astri. Le
Ore disertano le porte affidate alla loro guardia e si lanciano a pazza
corsa contro le tenebre che vengono verso di loro. I cavalli, svincolatisi dal giogo, obbediscono ormai soltanto al furore che li prende.
La terra leva le mani al cielo mostrando il suo sconforto, e raccoglie
la caduta di questo torrente di fiamme. Il giovane è scaraventato
fuori dal carro, cade, la chioma è arsa dalla fiamma, il petto rigurgita il fumo. Cadrà nell’Eridano32, regalando al fiume la sua fama eccezionale. Perché da allora i cigni canteranno il giovane con sospiri
melodiosi, e viaggiando in schiere attraverso i cieli andranno a ripetere le tristi vicende al Caistro33 e all’Istro34. La storia allora sarà
nota in ogni luogo. Ovunque sulla loro strada troveranno Zefiro35, il
leggero, per accompagnare il loro canto, perché egli ha promesso, a
quanto si dice, di piangere Fetonte insieme a loro. Ed ecco che accade sotto i miei occhi: il soffio del vento sfiora i cigni, come se fossero dei veri strumenti. Le donne rimangono sulla riva: non hanno
ancora smesso di essere donne, ma pare che a forza di piangere si siano
tramutate in alberi, e che in questa forma ancora versino lacrime.
Immagini
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La pittura lo sa, e ci mostra le Eliadi mentre mettono radici: alcune
sono già alberi per metà del corpo, altre hanno già le mani tramutate in rami. Vedi questa chioma? È la cima di un pioppo nero. Vedi
queste lacrime? Sono dorate: scorrendo ravvivano le pupille e le illuminano, sull’incarnato delle guance scintillano, sul seno, dove
ruscellano goccia dopo goccia, sono già oro. Emergendo dal turbinio
delle acque, il fiume si lamenta. Tende a Fetonte la piega della sua
veste – così è atteggiato – per accoglierlo al termine della sua caduta. Farà dunque raccolto delle lacrime delle Eliadi: grazie a venti e
gelate le trasformerà in sassi e le porterà fino al mare con le sue
acque limpide. È così che queste pagliuzze di pioppo raggiungeranno i barbari attraverso l’Oceano.
1.12 Il Bosforo. Le donne che vedi sulla riva levano grida. Sembra
che raccomandino ai cavalli di non disarcionare i bambini che li
montano, di non mordere il freno e andare spediti, e calpestare le
bestie feroci. I cavalli le sentono, immagino, e si mostrano docili.
I giovani cacciatori, tornando dopo il pasto, attraversano su
un’imbarcazione i quattro stadi che separano l’Europa dall’Asia.
Sono loro a remare. Ecco, vedi, gettano l’àncora e vengono ricevuti in una bella casa di cui si intravedono all’interno le camere, le
sale per gli uomini, e ancora edifici provvisti di finestrelle. La casa
si trova al centro di un recinto formato da un muro merlato. Ma la
sua più grande bellezza è un portico di pietre ocra, a semicerchio
sul mare. L ’ origine delle pietre è dovuta all’azione delle acque: alle
pendici delle montagne della bassa Frigia sgorga una sorgente
d’acqua calda che si infiltra nelle cave e bagna alcune rocce, trasmettendo alle pietre una natura acquosa, e una colorazione variegata. Nel punto in cui l’acqua forma una falda quieta e giallastra, le
pietre hanno un aspetto terroso, dove è limpida sono trasparenti
come cristallo. Secondo le numerose fessure che la accolgono, conferisce tinte diverse agli strati della cava. La riva è elevata ed è segnata da una leggenda. Una bella ragazza e un bel giovane, allievi dello
stesso maestro, si infiammarono d’amore. Poiché non avevano
modo di unirsi senza correre rischi, decisero di morire. Si gettarono
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Filostrato
in mare dall’alto della roccia, stretti insieme per la prima e l’ultima
volta. Eros sulla roccia tende la mano verso il mare: ecco come il
pittore ci dà un segno che rinvia alla storia. Nella casa vicina abita
una vedova che giovani importuni hanno costretto a lasciare la
città: volevano prenderla, e con questa speranza si riunivano senza
sosta in cortei notturni, e la tentavano offrendole doni. La vedova
dal canto suo li provocava, mi pare, con abile civetteria, e si ritirò
in queste contrade, dove si stabilì in un palazzo fortificato. Vedi
come la piazza è ben difesa: la falesia a picco sul mare si ritira e si
incava vicino alle onde, mentre in alto aggetta e protende sul mare
la casa che sostiene. Così l’acqua, vista da questa altezza, sembra di
un blu più scuro, e se la terra potesse muoversi, somiglierebbe davvero a una nave. Ma la fortezza in cui si è rifugiata non basta a scoraggiare i pretendenti, che si lanciano all’inseguimento: uno in una
barca dalla prua azzurra, l’altro in una dalla prua dorata. La loro flotta stende mille colori. Eccoli agghindati e adorni di corone come
allegri convitati: uno suona il flauto, l’altro batte le mani, un terzo,
credo, canta. Lanciano corone, mandano baci, ma i remi rimangono
sospesi: la loro corsa si interrompe ai piedi del precipizio. Dalla casa,
come da un posto di guardia, la giovane donna contempla la scena e
ride della festa, fiera di aver costretto i pretendenti non solo a prendere il mare, ma anche a nuotare per venire a riva. Più in là ti imbatterai in greggi di pecore e sentirai i buoi muggire. La siringa risuonerà
ovunque alle tue orecchie. Ecco cacciatori e contadini, fiumi e stagni
e sorgenti, tutto è in questa pittura: ciò che è, ciò che è stato, si vede
perfino come andranno certe cose in futuro. E la quantità degli
oggetti non costituisce affatto un impedimento alla verità. Tutto è
perfettamente compiuto, come se l’artista avesse avuto un solo
oggetto da dipingere. Arriviamo così a Hieron36. Qui riesci a intravedere, penso, un tempio cinto da colonne e, all’imboccatura dello
stretto, l’alto faro che guida i viaggiatori provenienti dal Ponto.
1.13 Il Bosforo 37. – Ma non hai un’altra scena da spiegarci? Ci siamo
occupati abbastanza del Bosforo. – Non essere impaziente, non ho
detto tutto. Rimangono i pescatori, di cui prima avevo promesso di
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parlare. Per lasciare da parte i dettagli e occuparci soltanto delle cose
importanti, lasciamo da parte quelli che pescano con la lenza, quelli
che si servono della nassa insidiosa, quelli che tirano le reti o arpionano i pesci con il tridente. Non avrei molto da dire: stanno lì, ne
converrai, per abbellire il quadro. Ma soffermiamoci su quelli che
pescano i tonni: è un tipo importante di pesca, e pertanto merita di
essere descritta. I tonni, nascono nel Ponto Eusino38, dove si nutrono in parte di pesci e in parte del limo e del fango dell’Istro e della
Meotide39, che rendono più dolce e potabile l’acqua rispetto a quella degli alti mari. Quindi passano nel mare esterno, come una falange
di soldati. Nuotano incolonnati come un plotone in ranghi di otto,
sedici o trentadue, sovrapposti gli uni agli altri, allargandosi tanto in
profondità che in larghezza. Vengono catturati in molti modi diversi: uno spiedo dalla punta acuminata, un’esca gettata in superficie o
una rete sottile sono espedienti che bastano a chi si accontenta di
una piccola parte del banco. Ma ecco il metodo migliore: un uomo
capace di contare e dotato di vista eccellente rimane in osservazione
in cima a una pertica. Bisogna che tenga gli occhi fissi sul mare e che
il suo sguardo raggiunga le più grandi distanze. Quando vede i tonni
che si avvicinano, avverte con voce possente i pescatori che stanno
nelle altre barche: dice quante migliaia di tonni conta il banco, e allora gli altri, sbarrando la strada ai tonni e avvolgendoli con una rete
che scende in profondità fanno una pesca magnifica, buona per arricchire il padrone della flotta. Guarda la pittura, perché ora vedrai
tutto ciò che accade. La sentinella tiene gli occhi fissi sul mare per
stimare il numero dei pesci. Nel verde brillante dell’acqua, i pesci si
distinguono per il colore: i più vicini sembrano neri, i successivi lo
sono meno, la terza schiera già si sottrae alla vista, poi è solo un’ombra, poi si confondono con l’acqua, poi lo sguardo perde la sua nettezza a mano a mano che scende sotto le onde. Il gruppo dei pescatori ha la pelle abbronzata dal sole ed è un piacere guardarla. Uno
arma il remo, l’altro remando mostra un braccio gonfio per lo sforzo,
questo esorta il vicino, quello colpisce un vogatore pigro. Un grido
risuona alto tra i pescatori quando i pesci si gettano nella rete: alcuni
sono già catturati, altri si lasciano prendere. Non sapendo che farsene
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Filostrato
di questa abbondanza, i pescatori lasciano un’apertura nella rete e permettono a qualche pesce di scappare, tanto abbondante è la pesca.
1.14 Semele. Questo personaggio dal viso severo è Bronte. Quest’altro,
i cui occhi gettano fiamme, è Astrape40. La loro presenza, insieme a
questo fuoco violento che dal cielo si è abbattuto sulla casa reale, ci
indica, se hai buona memoria, che abbiamo di fronte agli occhi il soggetto che ora dirò. Una nuvola di fuoco, dopo aver avvolto la città di
Tebe, si infrange sul palazzo di Cadmo, dove Zeus si sollazza con
Semele. Semele muore, a quanto sembra, e per Zeus Dioniso nasce
davvero per opera delle fiamme41. Si intravede la pallida immagine
di Semele che sale in cielo, dove le Muse festeggeranno il suo arrivo
cantando. Dioniso viene fuori di slancio dal ventre squassato della
madre e brilla come un astro, facendo impallidire al confronto il fulgore del fuoco. La fiamma si schiude, schizzando intorno a Dioniso
la forma di un antro: il dio non ne ha uno più bello né in Assiria42
né in Lidia. Eliche, bacche di edera, e poi viti già robuste e fusti con
cui si fabbrica il tirso già lo ricoprono, e tutta questa vegetazione
esce dalla terra di così buon grado che in parte cresce in mezzo al
fuoco. E non ci sorprende che la terra posi sulle fiamme una corona, in onore di Dioniso: non dovrà forse conoscere un giorno, in
compagnia del dio, i furori delle Baccanti43, spandere vino in ruscelli, e dal suo suolo, perfino dalla rocce come se fossero mammelle,
lasciar uscire latte abbondante? Ascolta Pan44: sembra che canti
Dioniso dalle cime del Citerone45, saltando qui e là gridando evoè.
Il Citerone, sotto sembianze umane, piange le sventure di cui più
tardi sarà testimone. Tiene sul capo una corona che non sta ferma,
perché la porta controvoglia. Non lontano Megera46 pianta un
piede di abete e fa sgorgare una sorgente d’acqua fresca. La sorgente sarà funesta per il cacciatore Atteone47, l’abete per Penteo48.
1.15 Arianna. Arianna49 fu abbandonata nel sonno sull’isola di Dia50
dal perfido Teseo, ma forse non fu un’ingiustizia, perché secondo
certuni ubbidiva agli ordini di Dioniso51. La tua nutrice ti ha certamente raccontato la storia, perché le donne della sua condizione la
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sanno lunga in proposito, e mentre raccontano piangono a dirotto.
Non ho dunque bisogno di dirti che l’uomo sulla nave è Teseo, e che
sulla riva vediamo Dioniso. E se richiamo i tuoi occhi da questo lato,
non è certo per insegnarti il nome della giovane donna che dorme
placidamente sulle rocce. Non è neppure sufficiente lodare il pittore per qualità che potremmo lodare in altri, perché per qualunque
artista è facile dipingere una bella Arianna o un bel Teseo. Dioniso
ha una miriade di sembianze diverse, e allo scultore o al pittore ne
basta una per ritrarre il dio. Una corona fatta di bacche d’edera,
anche solo abbozzata, le corna che spuntano vicino alle tempie, la
pelle di leopardo appena accennata, sono simboli inequivocabili. Ma
quel che qui ci permette di riconoscere Dioniso non è altro che il
suo amore: le vesti ricamate, il tirso, la nebride, il dio si è spogliato
di tutto come se ora queste cose fossero inopportune. Le baccanti
non fanno risuonare i loro cimbali, i satiri non suonano il flauto. Lo
stesso Pan si trattiene per non svegliare la ragazza con i suoi balzi
scatenati. Vestito di un peplo di porpora e cinto di rose, Dioniso si
avvicina ad Arianna. È ebbro d’amore, come dice il poeta di Teo
quando parla di amanti troppo appassionati52. Anche Teseo sospira,
ma a causa del fumo che sale dai tetti di Atene. Non sa più chi sia
Arianna, non lo ha mai saputo, e dico di più, ha dimenticato il labirinto, non ricorda perché sia passato da Creta: vede soltanto davanti alla prua della sua nave. Guarda anche Arianna, o meglio guarda il
sonno stesso: il petto è nudo fino alla vita, il collo piegato all’indietro rivela una gola delicata, tutta la spalla destra è scoperta, la mano
sinistra trattiene i panni per prevenire la temerità del vento. Com’è
dolce e soave il suo alito, Dioniso! Ha il profumo delle mele o dell’uva? Ce lo dirai al tuo primo bacio.
1.16 Pasifae. Innamorata di un toro, Pasifae ha chiesto al genio di
Dedalo il modo di sedurre la bestia, e Dedalo fabbrica una giovenca
cava che somiglia in tutto e per tutto a una vera giovenca, compagna
consueta del toro. L ’ unione ebbe luogo, e ne è la prova l’aspetto del
Minotauro, composto mostruoso di due nature diverse. Ma non è
questa unione che qui il pittore ha voluto rappresentare, bensì la
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Filostrato
bottega di Dedalo. Le figure che lo circondano, alcune appena
abbozzate, altre compiute, quasi in procinto di alzarsi e camminare,
testimoniano di un progresso che l’arte della statuaria non aveva mai
raggiunto prima53. Dedalo ha un aspetto attico, perché il suo sguardo rivela una saggezza superiore, per così dire, e un certo senno. Ma
è attico il suo stesso contegno, perché non solo è avvolto in un mantello scuro, ma è rappresentato scalzo, alla maniera che gli ateniesi
prediligono. Si è seduto per lavorare meglio alla giovenca e si fa aiutare nella sua opera dagli Amori, perché non potrebbe fare a meno
di Afrodite. Li riconosci senza fatica, ragazzo mio: alcuni reggono il
trapano, altri lavorano con l’accetta i tratti appena sgrossati della
giovenca, altri ancora misurano, cercando le giuste proporzioni che
costituiscono il fine dell’arte, altri infine, che tengono la sega, sono
al di sopra di ogni elogio per l’invenzione, il tratto e i colori. Vedi
che la sega è entrata nel legno e lo attraversa da parte a parte. Due
Amori la manovrano, uno dal basso verso l’alto, l’altro dall’alto verso
il basso. Entrambi si alzano e si abbassano, ma non allo stesso
tempo; almeno è quel che dobbiamo credere. Perché uno si è abbassato come per alzarsi di nuovo, l’altro si rialza come per abbassarsi
ancora. Il primo, alzandosi, ha il petto gonfio per l’aria che inspira,
mentre l’altro, che pure inspira l’aria in alto, tiene le mani in basso
sulla sega, e ma è il ventre che è gonfio, per lo sforzo. Fuori della
bottega Pasifae, in mezzo al bestiame, guarda il toro con ammirazione. Pensa di sedurlo con la sua bellezza, con lo splendore meraviglioso della sua veste che gareggia per brillantezza con l’arcobaleno54. Vediamo nel suo sguardo il turbamento dell’anima perché ella
sa qual è l’oggetto del suo amore, eppure persiste nel desiderio dei
baci del toro. Quanto a lui, il toro rimane impassibile e guarda la sua
giovenca. È rappresentato in atteggiamento fiero, come conviene a
un capo, armato di corna eleganti, di un bianco splendente, cammina con passo fermo. Ha una larga giogaia, un collo robusto, l’occhio
fissa amorevolmente la compagna. La giovenca invece se ne sta libera insieme al resto del gruppo: ha la testa nera e il resto del corpo
bianco e prendendosi gioco del toro balza come una ragazza che si
sottrae alle insidie di un amante.
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1.17 Ippodamia. Spavento intorno all’arcade Enomao55. Senti gridare, immagino, una folla intera che rappresenta l’Arcadia e tutto
il Peloponneso. Il carro, creato dall’arte di Mirtilo, è andato in
frantumi: era tirato da quattro cavalli. Nessuno prima di allora
aveva osato servirsi di un mezzo simile per fare la guerra, ma il
carro era noto e reputato nei giochi pubblici. I Lidi, che hanno la
passione dei cavalli, legavano quattro animali ai loro carri già dai
tempi di Pelope. In seguito usarono anche quattro timoni e a
quanto si dice condussero per primi otto cavalli in una volta.
Osserva, ragazzo mio, i destrieri di Enomao sono fieri e focosi,
schiumano (è tipico dei cavalli dell’Arcadia), sono neri come si
addice a un ruolo insolito e sinistro. Quelli di Pelope invece sono
di un bianco brillante, come vedi sentono le redini, sono docili al
comando di Peitho, il loro nitrito è dolce come un canto di vittoria. Enomao, disteso a terra, è rappresentato come Diomede
trace, con un’aria feroce e crudele. Vedendo Pelope, invece, non
ti meraviglierai che Poseidone si sia innamorato della sua bellezza il giorno in cui servì gli dèi come coppiere sul Sipilo, e lo
ammirò a tal punto che senza curarsi della sua giovane età gli fece
dono di un carro. Si tratta di un carro capace di correre sui flutti
come sulla terra: neanche una goccia d’acqua toccherà le assi, perché il mare si stende come terra ferma sotto gli zoccoli del cavallo. Pelope e Ippodamia vincono la gara: li vediamo entrambi ritti
sul carro, stretti l’uno all’altro, quasi si abbracciano per l’ardore.
Pelope è vestito con eleganza, al modo lidio, ha l’età e la bellezza
che ammiravi poc’anzi quando chiedeva cavalli a Poseidone.
Ippodamia è vestita come una sposa promessa, ha appena sollevato il velo che le copriva il volto, poiché con la vittoria ha avuto
in dono un marito. Alfeo viene fuori dal turbine delle acque per
offrire una corona d’olivo a Pelope, che indirizza i cavalli verso il
fiume. I tumuli in mezzo all’ippodromo conservano le spoglie dei
tredici pretendenti uccisi da Enomao, che così rinviava le nozze
della figlia. La terra adesso genera fiori intorno alle tombe, come
se volesse far partecipare i pretendenti alla vittoria che li vendica
di Enomao, ed è come se offrisse loro una corona.
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1.18 Le Baccanti. Qui è raffigurata, ragazzo mio, la scena del Citerone.
Ecco il coro delle Baccanti, le pietre mandano ruscelli di vino, i grappoli stillano nettare, le zolle di terra rilucono di latte56. Ecco l’edera
dai fusti rampanti, i serpenti che sollevano la testa, i tirsi e gli alberi da
cui escono, credo, gocce di miele. Vedi questo abete steso al suolo, la
sua caduta è opera delle donne stravolte da Dioniso: scuotendolo lo
hanno fatto cadere, insieme a Penteo che scambiano per un leone.
Ecco che straziano la loro preda: le zie staccano le mani, la madre trascina il figlio per i capelli. Parrebbe di sentire il loro canto di vittoria,
il grido evoè sembra uscire dai loro petti ansimanti. Dioniso contempla la scena da un’altura, con le guance rosse di collera, pungolando le
donne d’ispirazione divina: non vedono ciò che fanno, Penteo si sfinisce in vane preghiere, ma tutto ciò che sentono sono i ruggiti di un
leone. Il tutto accade sulla montagna. Più vicino a noi, ecco Tebe e il
palazzo di Cadmo. Tra i lamenti funebri i familiari di Penteo compongono le membra disperse, per deporre almeno un cadavere intero
nella tomba. La testa giace al suolo, irriconoscibile: farebbe pena allo
stesso Dioniso per la sua giovinezza, il mento fine, la bionda chioma
che non conosce corone d’edera né smilace, né pampino, né il turbamento del flauto, né il furore bacchico. Infuriata dalle Baccanti le
infuriava a sua volta, e il suo delirio era dovuto al fatto che non sentiva il delirio ispirato da Dioniso. La nostra pietà si rivolge anche alle
donne che furono accecate sul Citerone e ora vedono con tremenda
chiarezza. Il delirio si è esaurito, come le loro forze. Vedi come sul
Citerone si lanciano inebriate dalla lotta, svegliando con le loro grida
l’eco della montagna. Qui invece sono calme, perché ora comprendono ciò che fecero in preda al furore bacchico. Sono sedute per terra,
una tiene la testa sulle ginocchia, l’altra reclinata sulla spalla. Agave57
vorrebbe abbracciare il figlio ma ha paura perfino di toccarlo: le mani,
le guance, il seno nudo, sono coperti di sangue. Ci sono anche Cadmo
e Armonia, ma non somigliano a quelli che erano un tempo: già le
membra inferiori si trasformano in serpenti58, tutto scompare sotto le
scaglie dai piedi ai fianchi, e la metamorfosi prende le parti superiori.
Sono terrorizzati e si abbracciano come se la stretta potesse arrestare
la fuga del corpo e salvare quel che resta delle loro sembianze umane.
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1.19 I Tirreni. Una nave di gala e una nave pirata. Al comando della
prima Dioniso, a bordo dell’altra i Tirreni che infestano le loro
coste59. Nella nave sacra le baccanti celebrano con furore le cerimonie sacre al cospetto di Dioniso. L ’ armonia dei misteri risuona sul
mare, che si placa in onore di Dioniso e sembra unito come la terra
di Lidia. Presa dalla follia, la ciurma dell’altra nave dimentica di remare, e molti hanno già perso l’uso delle mani. Qual è dunque il soggetto del quadro? Si tratta, ragazzo mio, del tentativo dei Tirreni di
prendere Dioniso alla sprovvista. Hanno sentito dire che Dioniso è
effeminato e rozzo, che la sua nave è come una miniera d’oro tanto è
ricolma di ricchezze, che al suo seguito ci sono donne lidie, satiri,
suonatori di flauto e un vecchio che porta la ferula, che beve vino di
Maronea e che Marone in persona fa parte del suo seguito, sanno
anche che i Pan sono sulla nave di Dioniso. Tramano di rapire le baccanti e donare a questi dèi, che hanno sembianze di becchi, capre
nate sul suolo tirreno. La nave dei pirati è armata di gru, speroni,
arpioni di ferro e lance acuminate. Per ispirare paura e dare al nemico l’impressione di essere un mostro è tinta di verde e sulla prua ha
occhi minacciosi che sembrano fissare una preda, mentre la poppa,
che termina a mezza luna, somiglia alla coda ricurva dei pesci. La
nave di Dioniso ha un aspetto ben strano, anche se la poppa si dissimula sotto i cimbali che si sovrappongono l’uno all’altro, precauzione utile nel caso in cui i satiri dovessero addormentarsi a causa del
vino, perché Dioniso non vogherebbe silenziosamente. La prua porta
invece a rilievo l’effigie di una pantera dorata, l’animale più caro a
Dioniso perché è il più focoso, e balza con la leggiadria di una menade. E puoi vedere che è una vera pantera quella che dalla nave di
Dioniso si scaglia sui Tirreni, ancor prima che il dio abbia dato il
segnale. In mezzo alla nave un tirso è ritto a guisa di albero e tiene le
vele di porpora che brilla nell’ombra delle pieghe e fa da sfondo alla
rappresentazione ricamata in oro delle baccanti dello Tmolo e delle
gesta di Dioniso in Lidia60. È meraviglioso che la nave sembri cinta
di viti e di edera, e che i grappoli vi pendano sopra, ma ancora più
meravigliosa è la fonte di vino che sgorga dal fondo, e per così dire,
dalla sentina. Ma torniamo ai Tirreni, finché sono ancora tali e quali,
44
Filostrato
perché Dioniso, dopo aver smarrito il loro senno li trasforma in delfini. Ma sono delfini che hanno ancora poca dimestichezza col mare:
uno ha i fianchi tinti d’azzurro, l’altro ha il petto viscido, una pinna
spunta sul dorso di questo, quell’altro ha una coda nuova, questo non
ha più testa umana, un altro ancora ha perso la consistenza delle
mani, uno si lamenta vedendo i piedi scomparire. Sul ponte Dioniso
ride della vicenda e incita i Tirreni, che da uomini perversi si trasformano così in animali fidati. Tra poco infatti Palemone solcherà i
mari sul dorso di un delfino, e non da sveglio, ma steso sul dorso di
un delfino che cullerà il suo sonno61. Arione di Tenaro62 ci mostra
del resto che i delfini sono amici dell’uomo, amano i canti e sono
capaci di battersi contro i pirati per amore dell’uomo e della musica.
1.20 I Satiri. Il luogo rappresentato è Cillene63, se le fonti e l’antro
non ci ingannano. Non c’è Marsia, ma forse guida al pascolo il gregge, o magari la disputa è già avvenuta64. Non indugiare ad ammirare l’acqua, per quanto sia stata rappresentata limpida e calma:
Olimpo65 ti sembrerà ancor più attraente. Ha smesso di suonare il
flauto e dorme, dolce giovane, su un morbido tappeto di fiori,
mescolando il sudore alla rugiada del prato. Zefiro cerca di svegliarlo soffiandogli tra i capelli, e il giovane risponde alle carezze del
vento col soffio del suo petto. Le canne sonore stanno ai piedi di
Olimpo, insieme agli attrezzi di ferro che servono a lavorare i flauti.
Innamorati del giovane, i satiri riuniti in gruppo lo contemplano,
con le gote infiammate e il sorriso sulla bocca. Vorrebbero carezzargli il petto, o gettarsi al suo collo, rubargli un bacio. Spargono
fiori su di lui e lo adorano come una statua divina. Il più destro afferra uno dei flauti, ancora tiepido per il calore delle labbra, strappa la
linguetta e la morde, immaginando così di baciare Olimpo e credendo perfino di respirare con delizia il profumo del suo fiato.
1.21 Olimpo. Per chi suoni il flauto, Olimpo? A che serve la musica
nella solitudine? Non ci sono pastori o caprai ad ascoltarti, e neanche
le ninfe, che pure volentieri danzerebbero al suono del flauto66. Non
so perché ti piace ammirare l’acqua che sgorga sotto la roccia. Che
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cosa vi accomuna? Non è per te che l’acqua gorgoglia e non accompagnerà il suono del flauto per scandire le ore del giorno. Ma non
vogliamo certo farti fretta, e anzi prolungheremmo fino a notte
fonda il piacere di ascoltarti. Se è la tua stessa bellezza che ammiri in
questo modo, non rivolgerti all’acqua, perché noi sapremo spiegartela meglio, e nei dettagli. I tuoi occhi brillano, e ogni sguardo si concentra sul flauto. Le tue sopracciglia descrivono un arco, indicando il
tipo di melodie che ci fai ascoltare. La tua guancia sembra agitarsi e
quasi danzare a ritmo cadenzato, ma quando soffi nello strumento
non gonfi oltre misura nessuna parte del viso. La tua chioma non è
incolta, ma non è neanche liscia e profumata di unguenti come quella di un giovane di città: quando si increspa, se è secca o arida, il difetto è coperto dalle foglie verdi e ritte del pino che ti cingono la testa.
È una bella corona che esalta lo splendore della tua bellezza. I fiori,
lascia che crescano per le ragazze, che le donne portino i loro colori
brillanti. Il tuo petto, oso dirlo, non è gonfio soltanto di fiato, ma di
ispirazione musicale e della scienza della modulazione. L ’ acqua su cui
ti sporgi dall’alto della roccia dipinge soltanto il tuo petto: se ti avesse
dipinto in piedi, la parte inferiore sarebbe apparsa deformata, perché
l’acqua imita gli oggetti come se venissero in superficie raccogliendosi su sé stessi. E poi la tua immagine vacilla: il soffio che esce dal flauto tocca la sorgente, e anche Zefiro ci mette del suo, Zefiro che ispira il musico, spira nel flauto e increspa la superficie dell’acqua.
1.22 Mida. Il satiro dorme, parliamo di lui a bassa voce, altrimenti
potrebbe svegliarsi e allora ciò che vediamo scomparirebbe. Mida67
l’ha preso in Frigia, alle pendici delle montagne che vedi. Il re aveva
mescolato del vino all’acqua di questa sorgente. Il satiro, ancora disteso, vomita fiotti di vino nel sonno. Amiamo i satiri per la loro vivacità,
quando danzano, per la loro gioiosa buffoneria, quando sorridono
amorevolmente, questi discoli, e con carezze esperte seducono le
donne di Lidia. Ai satiri si addicono tratti asciutti, sangue irrequieto,
orecchie smisurate, fianchi scavati, ogni insolenza, una coda di cavallo. Il prigioniero di Mida non è rappresentato in modo diverso.
Appesantito dal vino, ha il respiro difficile tipico dell’ebbrezza, e
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Filostrato
berrebbe tutta l’acqua della fonte come chiunque altro berrebbe una
sola coppa. Le ninfe che stuzzicano il satiro formano una catena
intorno a lui. Ammira la mollezza e l’indolenza di Mida, come ha
cura della sua mitra, dei boccoli della chioma, del tirso che porta e
della veste ricamata d’oro. Vedi le sue lunghe orecchie? Dobbiamo
dare a loro la colpa della sonnolenza che sembra conquistare i suoi
languidi occhi, del torpore che spegne l’adorabile vivacità dello
sguardo. La pittura vuole suggerirci che l’avventura è stata scoperta,
che le canne hanno parlato, perché la terra non ha saputo mantenere il segreto che le era stato confidato68.
1.23 Narciso. La fonte riproduce i tratti di Narciso come la pittura
riproduce la fonte e Narciso stesso nei dettagli. Il giovane, di ritorno dalla caccia, sta in piedi vicino alla sorgente sospirando per sé,
incantato dalla propria bellezza, e, come vedi, fa risplendere l’acqua69. L ’ antro è quello di Acheloo e delle Ninfe. La verosimiglianza è stata rispettata, perché vediamo statue scolpite grossolanamente nella pietra locale, alcune erose dal tempo, altre mutilate da
bambini, figli di bovari o pastori, che a causa della giovane età non
sentono ancora la presenza del dio in questi luoghi. In effetti la
fonte non è estranea al culto di Dioniso, e anzi è il dio che in qualche modo l’ha fatta sgorgare per le baccanti. La vite, l’edera, l’elica
dai bei viticci, formano una pergola carica di grappoli d’uva, intrecciandosi con la ferula che dà i tirsi. In alto si trastullano uccelli che
cantano armoniosamente, ciascuno a suo modo. Dei fiori, spuntati
nei pressi dell’acqua in onore del giovane, schiuderanno le bianche
corolle. Fedele alla verità, la pittura ci mostra la goccia di rugiada
sospesa ai fiori: un’ape si posa sul fiore e non saprei dire se è stata
ingannata dalla pittura, o se siamo noi a ingannarci credendo che
esista realmente. Ma lasciamo andare. Quanto a te, giovane, non è
una pittura la causa della tua illusione, non sono colori o una cera
ingannevole a legarti. Non vedi che l’acqua riproduce te stesso nell’atto di contemplarti, non ti accorgi dell’artificio di questa fonte,
eppure basterebbe che ti sporgessi appena o che cambiassi espressione, o che agitassi la mano o che ti spostassi. Ma, come se avessi
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incontrato un compagno, resti immobile in attesa degli eventi.
Credi forse che la fonte prenderà a conversare con te? Ma il giovane non ci ascolta, immerso occhi e orecchie nell’acqua. Diciamo
almeno come è dipinto. In piedi, il giovane incrocia i piedi reggendosi con la mano sinistra alla sua lancia poggiata per terra, mentre la
destra è distesa sul fianco. Così si regge, e il fianco destro sporge di
molto perché il sinistro si abbassa. Vediamo lo spazio tra il gomito
e il braccio, all’altezza del gomito, le pieghe che si formano alla giuntura del polso, le ombre che percorrono obliquamente il palmo della
mano, a causa della posizione delle dita che si flettono verso l’interno. Il petto si gonfia: è l’eccitazione della caccia che dura ancora, o
è già un sospiro d’amore? Non saprei: lo sguardo è quello di un uomo
innamorato. Spontaneamente vivace e risoluto, ora è smorzato da
qualche languore. Forse immagina di essere ricambiato in amore, perché la sua immagine lo guarda come egli la guarda. Avremmo avuto
molto da dire sulla sua chioma se avessimo incontrato Narciso durante la caccia: come si sarebbe mossa per la rapidità della corsa e grazie
al soffio del vento! Ma anche adesso non possiamo tacere al riguardo.
È molto abbondante e quasi dorata, ricade in parte sul collo e in parte
sulle orecchie, che la dividono. Ondulata sulla fronte, si confonde poi
con la peluria del viso. I due Narcisi si somigliano, l’uno ripete i tratti dell’altro. La sola differenza è che uno si staglia sul fondo del cielo,
mentre l’altro è come se fosse immerso nell’acqua. Il giovane rimane
immobile di fronte all’altro che è in acqua, anch’esso immobile, o
forse lo contempla fissamente, come assetato della sua bellezza.
1.24 Giacinto. Leggi sul giacinto il suo nome70. Il fiore stesso ci
ricorda di essere nato dalla terra in onore di un bel giovane. A ogni
primavera lo piange, di certo per ringraziarlo della vita che gli ha donato morendo. Non bisogna che l’aspetto di questo prato ricoperto di
fiori ti induca a credere a un’origine differente: come pianta, il fiore è
nato certamente qui. Ma il giovane, come ci dice la pittura, aveva una
chioma dello stesso colore del giacinto: il sangue che perdeva insieme
alla vita fu bevuto dalla terra e diede al fiore il suo colore. Qui il sangue scorre dalla testa su cui il disco è caduto: che strana goffaggine,
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Filostrato
facciamo fatica ad imputarla ad Apollo! Ma visto che siamo venuti
soltanto per ammirare le pitture, e non per spiegare i miti o avanzare dubbi, limitiamoci a esaminare la pittura, e innanzi tutto la piazzola di gioco. Si tratta di un piccolo rialzo di terra, sufficiente a ospitare un uomo in piedi: sostenendo la gamba destra, permette al
corpo di chinarsi in avanti e di spostare il peso liberando l’altra
gamba, che deve slanciarsi muovendosi insieme alla mano destra71.
In questa posa, il discobolo deve piegarsi girando la testa verso
destra fino a posare lo sguardo sui suoi fianchi, poi lanciare il disco
come se lo tirasse fuori da un pozzo, con la forza di tutta la parte
destra del corpo. È così che Apollo ha lanciato il disco, e non avrebbe potuto fare diversamente. Colpito dal disco, è sul disco stesso
che il giovane è disteso. Era un giovane lacedemone con le gambe
ben dritte, esercitato nella corsa, le braccia piene di forza. Lascia
indovinare sotto i muscoli un’ossatura aggraziata. Apollo ancora in
piedi sulla piazzola volge lo sguardo per terra: si direbbe che sia
paralizzato, tanto è il suo stupore. È il barbaro Zefiro che per la collera contro il dio ha deviato il disco contro il giovane. Gli sembra
solo un gioco, e ride sull’altura da cui osserva la scena. Lo riconosci,
penso, dalle ali che ha sulle tempie, dall’aria effeminata, e dalla corona intrecciata con tutti i fiori, ai quali presto aggiungerà il giacinto.
1.25 Gli abitanti di Andro. Soggetto del quadro sono gli abitanti di
Andro72, ebbri del vino che solca la loro isola come un fiume. È
Dioniso che l’ha fatto sgorgare per loro dalla terra: piccolo rispetto
ai fiumi d’acqua, ma divino e imponente se si pensa che è un fiume di
vino. Chi vi attinge potrà addirittura disprezzare il Nilo e l’Istro, e
dire che sarebbe meglio se somigliassero a questo fiume, anche se
dovessero, per questo, essere più piccoli. Questo cantano senz’altro
gli abitanti di Andro, con le donne e i bambini, tutti cinti di edera e
smilace, alcuni danzando, altri distesi su entrambe le rive. Immagino
di sentirli: l’Acheloo73, dicono, genera canne, il Peneo74 abbevera
Tempe, i fiori crescono sulle rive del Pattolo75, ma questo fiume
arricchisce gli uomini, rendendoli potenti negli affari pubblici e ricchi e servizievoli con gli amici, li rende belli, e se fossero nani dareb-
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be loro una statura di quattro braccia. Chi se ne è inebriato può raccogliere tutti questi beni e fregiarsene nella sua immaginazione.
Cantano di certo che è il solo fiume della regione a non essere attraversato dalle greggi o dai cavalli. Versato da Dioniso in persona, vi si
attinge un nettare purissimo, che scorre soltanto per gli uomini.
Immagina di sentire quest’inno, frammisto delle voci già impastate di
vino. Guardiamo la pittura: il fiume, disteso su un letto di grappoli
d’uva, si riversa mostrando il volto rubizzo, colore del vino pretto.
Vicino a lui sono cresciuti dei tirsi, come fanno le canne ai bordi
degli altri fiumi. Quando lascia la terra e i simposî, verso la foce, i
Tritoni76 gli vengono incontro, attingono il vino servendosi di conchiglie, lo bevono o lo scagliano in aria soffiando, e alcuni sono già
ebbri e danzano. Dioniso viaggia per mare alla volta di Andro con le
sue feste: già la nave entra nel porto, portando una ciurma brulicante
di satiri, baccanti e sileni. Porta anche Riso e Como, i genî più allegri,
i migliori compagni dell’ebbrezza, i più grati al dio nella vendemmia.
1.26 La nascita di Ermes. Questo bimbo appena nato, ancora in fasce,
che spinge delle giovenche verso un’apertura della terra, è Ermes. È
ancora lui, qui, che ruba le frecce di Apollo77. Le marachelle del dio
sono adorabili: si dice che il figlio di Maia, appena nato, abbia avuto
in dono la passione e il genio del furto non per povertà, perché era
un dio, ma come passatempo e diletto. Vuoi sapere cosa è capace di
fare? Guarda la pittura. È appena nato, sulla cima dell’Olimpo, nell’alta dimora degli dèi che – è Omero a dirlo78 – alta com’è non conosce la pioggia, non avverte il soffio dei venti e non è battuta dalla
neve: tutta la montagna è divina e libera dalle intemperie che funestano le alture abitate dagli uomini. È qui che le Ore si prendono
cura di Ermes79. Anche queste dee sono rappresentate, ognuna con
la grazia sua propria: avvolgono il bimbo nelle fasce e spargono su di
lui i fiori più belli, un onore che si addice a una culla non comune.
Poi si rivolgono verso la madre di Ermes, che è distesa sul letto.
Allora Ermes si libera delle fasce, si mette a camminare e scende
dall’Olimpo. Scorgendolo, la montagna gioisce, sorride quasi come
farebbe un uomo, fiera com’è di aver fatto nascere Ermes.
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Filostrato
Occupiamoci ora delle marachelle. Le giovenche che vedi, alle
pendici dell’Olimpo, hanno corna d’oro e un mantello più bianco
della neve, perché sono sacre ad Apollo. Le conduce, spingendole
avanti verso una fossa aperta nella terra. Non vuole certo ucciderle, ma nasconderle per un giorno, finché Apollo non si sarà accorto della scomparsa. Poi, come se niente fosse, torna ad avvolgersi
nelle sue fasce. Ma ecco Apollo che viene a far visita a Maia per
avere indietro le sue giovenche. Maia si mostra incredula, pensa
che il dio voglia prendersi gioco di lei. Vuoi sapere cosa dice? Ho
l’impressione non soltanto di vederlo parlare, ma di intendere
attraverso il volto il suo discorso. Sta per dire a Maia: “sono vittima di tuo figlio, questo bimbo che ieri hai messo al mondo ha precipitato in un abisso ignoto le giovenche che erano la mia gioia, ma
anche lui morirà, perché intendo precipitarlo in un abisso ancora
più profondo”. Maia è sorpresa, non comprende le parole del dio.
Nel frattempo Ermes, nascosto dietro Apollo, si arrampica leggero
sulle spalle del dio, poi gli sottrae l’arco. Vi riesce senza farsi vedere, ma adesso è chiaro chi sia l’autore di questo piccolo furto. Qui
il pittore dà prova della sua sapienza: stempera l’ira di Apollo, e ce
lo mostra allegro, con quel sorriso che si disegna sul volto quando
la collera cede al piacere.
1.27 Anfiarao. Il carro trainato da due cavalli (gli eroi del tempo,
all’infuori del valoroso Ettore, non attaccavano ancora quattro
cavalli insieme) conduce Anfiarao di ritorno da Tebe, quando la
terra si spalancò, a quanto si dice, perché voleva che fosse indovino
in Attica, profeta e sapiente tra gli uomini più assennati80. Dei sette
capi che tentarono di restituire il potere a Polinice, nessuno tornò
in patria, tranne Adrasto e Anfiarao. Gli altri giacciono presso la
Cadmea81. Tutti morirono colpiti dalla lancia, dalle pietre, dall’ascia.
Soltanto Capaneo fu colpito dalla folgore, pare, perché aveva offeso
Zeus con il suo orgoglio82. Ma questa è un’altra storia. La pittura ci
invita a guardare Anfiarao che già si introduce nella terra dischiusa, con la testa cinta di nastri e foglie d’alloro. Il tiro è bianco, sembra che le ruote del carro girino vorticosamente, i cavalli sbuffano
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dilatando le narici e bagnando la terra di schiuma, con la criniera
piegata, mentre il sudore corre in rivoli sui loro fianchi e si mescola
alla polvere sottile, rendendoli forse meno belli ma anche più veri.
Anfiarao è armato di tutto punto: manca soltanto l’elmo, perché la
sua testa è sacra ad Apollo. Ha lo sguardo di un uomo divino, di un
profeta. La pittura ci mostra anche Oropo83 da giovane, in mezzo a
un gruppo di donne vestite d’azzurro: si tratta delle ninfe marine.
Ecco rappresentato anche il santuario dove Anfiarao si apparta,
antro sacro e misterioso. È qui che si trova la Verità, vestita di bianco, e le porte del sogno, perché per consultare l’oracolo occorre
addormentarsi. Il Sogno stesso è rappresentato con i tratti del languore: porta una veste bianca sopra una veste nera, perché gli appartengono il giorno e la notte, e ha un corno in mano per mostrare che
introduce i sogni attraverso la porta della verità84.
1.28 I cacciatori. Aspettate a superarci, o cacciatori, non incitate i
vostri cavalli a briglia sciolta. Lasciateci piuttosto indovinare i vostri
intenti e scorgere la preda che inseguite. Date la caccia a un cinghiale
selvaggio85, dite, e infatti vedo i danni procurati dall’animale: ha sradicato gli olivi, strappato le viti, al suo passaggio non resta un solo fico,
una mela, neppure un fiore di melo. Ha devastato ogni cosa: qui ha
scavato, lì si è gettato riverso per terra, fregando il dorso sulle piante.
Lo vedo! Il pelo irsuto, il fuoco che getta dagli occhi, sento lo stridore dei denti con cui vi minaccia, cacciatori coraggiosi. Animali come
questo hanno un udito straordinario, grazie al quale avvertono da lontano il rumore di una squadra in marcia. La bellezza di questo giovane
vi ha sedotto, e ora che lo inseguite, siete diventati sue prede. È per
lui che avanzate verso il pericolo. Perché allora siete tanto vicini da
poterlo toccare? Perché i vostri occhi si volgono su lui solo? Perché
i vostri cavalli sono così stretti gli uni agli altri? Come mi sono
ingannato: ho l’impressione di vedere non figure dipinte, ma uomini
veri che si muovono, spinti dal loro amore, perché li chiamo come se
davvero mi sentissero, e immagino di cogliere la loro risposta. E tu,
che non hai detto niente per ricondurmi alla realtà mentre mi smarrivo, eri ingannato dalla stessa illusione, e non hai saputo difenderti
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Filostrato
meglio di me contro l’artificio del pittore e il sonno che esso procura. Ma guardiamo la pittura, perché è una pittura che abbiamo di
fronte a noi. Intorno al giovane di cui dicevo, si trovano altri giovani, belli e rapiti da cose belle, di buona famiglia, come mostra ogni
apparenza. Uno si distingue per la virilità propria delle palestre, un
altro per la grazia ingenua, un altro ancora per i modi raffinati, e si
direbbe che quest’altro abbia appena smesso di leggere e sollevi lo
sguardo. Montano tutti cavalli diversi, uno bianco, un altro biondo,
uno nero, un altro fulvo: tutti hanno freni d’argento, gualdrappe ricamate e falere d’oro. I barbari che vivono presso l’Oceano86 versano
tutti questi colori sul bronzo incandescente: così le tinte acquistano
consistenza, e ciò che viene dipinto in questo modo rimane inalterabile. Nessuna somiglianza neppure tra le vesti e la tenuta. Un cavaliere allaccia la tunica leggera con una grossa cintura: credo che sia un
uomo versato nel lancio del giavellotto. Quest’altro, come se intendesse ingaggiare col cinghiale un corpo a corpo, ha il petto e le gambe
coperti da un’armatura. Il ragazzo monta invece un cavallo bianco
dalla testa nera, con una stella bianca in mezzo alla fronte, simile alla
luna piena. Ha falere d’oro e una briglia tinta di rosso di Media, il
colore scintilla insieme alla lucentezza dell’oro. Il giovane veste una
clamide appena rigonfia e piegata dal vento, tinta con la porpora di
Tiro cara ai Fenici, la porpora più bella, perché pur essendo scura
sembra che abbia in sé la lucentezza del sole e che rifletta la brillantezza dell’arcobaleno. Poiché aveva vergogna di mostrarsi nudo ai
compagni, ha indossato una tunica leggera di porpora, che lo copre
fino a metà delle cosce e alla piega dei gomiti. Sorride, e il suo sguardo è vivace, la lunga chioma non basta a velare i suoi occhi quando è
scossa dal vento. Qualcun altro potrà forse ammirare le sue guance,
il naso ben proporzionato, e ogni parte del suo corpo. Io invece amo
soprattutto la sua figura altèra. È coraggioso come conviene a un
cacciatore, fiero del suo cavallo, che si sente ben voluto. Muli e mulattieri portano l’armamentario dei cacciatori: trappole, reti, spiedi, giavellotti, lance munite di denti su ogni lato. Ecco i conduttori di cani e
gli esploratori, e cani di ogni razza, non soltanto quelli che hanno il
naso fine o i piedi agili, ma anche quelli coraggiosi, perché occorre
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coraggio contro il cinghiale. Abbiamo sotto gli occhi cani di Locri, di
Laconia, d’India e di Creta: alcuni sollevano la testa abbaiando, altri si
raccolgono in gruppo, questi seguono la pista digrignando i denti.
Quando i cacciatori si saranno allontanati, canteranno un inno in
onore di Artemide cacciatrice, perché questo luogo ospita un tempio
consacrato alla dea, una statua levigata dal tempo, che raccoglie in
offerta teste di cinghiali e orsi. Nel tempio vivono anche in libertà animali sacri alla dea, come cerbiatti, lupi, lepri: sono tutti addomesticati e non temono l’uomo. Dopo l’invocazione comincia la caccia. Il cinghiale non può restare nascosto: balza fuori dalla tana, si scaglia contro
i cavalieri e li disperde con il suo slancio. Spossato dai colpi, non è
ancora ferito a morte: oppone una vera armatura agli attacchi dei suoi
nemici, che forse non sono ancora abbastanza potenti. Una leggera
ferita rallenta la sua corsa: si dissimula nella macchia, entra in uno stagno profondo, e dallo stagno passa in un lago poco distante. Tutti i
cacciatori lo inseguono gridando fino allo stagno, ma il giovane si precipita insieme alla bestia nel lago, seguito dai quattro cani che vedi. Il
cinghiale attacca con furia il cavallo, e riuscirebbe a ferirlo se il giovane non si sporgesse sulla destra colpendo l’animale con tutte le forze
nel punto in cui il collo si unisce alla spalla. I cani riportano il cinghiale
a terra, mentre gli innamorati gridano sulla riva, come se si incitassero a vicenda a superare ciascuno la voce del vicino. Uno è caduto, perché invece di trattenere il suo cavallo lo ha spaventato, un altro intreccia una corona per il vincitore, con i fiori che ha raccolto nel prato
intorno all’acquitrino. Il giovane si trova ancora nel lago, e mantiene
la posa che aveva quando ha scagliato il giavellotto. I compagni, incantati, lo ammirano come se fosse dipinto87.
1.29 Perseo. Questo non è il Mar Rosso o quello dell’India. Sono
Etiopi quelli che vedi, si tratta di un eroe greco in Etiopia e delle
gesta ardite che, credo, intraprende per amore. Penso, ragazzo mio,
che tu abbia certamente sentito parlare di Perseo: fu lui a sconfiggere questo mostro che, fuggito dall’Atlantico devastava l’Etiopia, straziando le greggi e le genti. Il pittore ha scelto questo soggetto per
ammirazione dell’eroe, ma anche per compassione di Andromeda,
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Filostrato
che fu in balìa del mostro88. La lotta si è conclusa: la bestia enorme
è distesa sulla riva, bagnata dai fiotti di sangue che si mescolano
all’acqua del mare tingendola di rosso89. Eros è rappresentato nell’atto di sciogliere i lacci di Andromeda. Il dio è alato, come al solito, ma in questo caso ha le sembianze di un giovane: respira a fatica, si capisce che il suo compito non è stato agevole. Il fatto è che
Perseo lo aveva pregato di aiutarlo ad affrontare il mostro, ed Eros
ha voluto rispondere alle invocazioni del greco. La giovane, che in
Etiopia si distingue per il suo fascino grazie alla chiarezza della sua
pelle, è resa ancora più bella dai tratti del volto: sarebbe capace di
mettere in ombra la grazia delle donne di Lidia, la bellezza delle
donne di Atene, il fascino virile delle donne di Sparta. Le circostanze stesse accentuano la sua bellezza: sembra che abbia ancora
una certa diffidenza, la sua gioia è frammista a stupore, ma allo
sguardo che rivolge a Perseo si accompagna già un sorriso. L ’ eroe
è disteso poco lontano sull’erba tenera e profumata, bagna la terra
del suo sudore, e tiene discosta la testa della Gorgone per non tramutare in pietre chi ne incontra lo sguardo90. Un folto gruppo di
bovari offre all’eroe del latte e del vino. Gli Etiopi non mancano di
fascino, anche se hanno un colore bizzarro: il loro sorriso è selvaggio ma esprime gioia. Per la maggior parte, questi uomini si rassomigliano. Perseo accetta i loro doni ma, poggiato sul gomito, il suo
sguardo è rivolto verso la giovane. La clamide di porpora ondeggia al
vento, punteggiata da piccole gocce di sangue stillate durante la lotta
contro il mostro. Lasciamo che i Pelopidi si vantino delle loro spalle,
non riescono a eguagliare quelle di Perseo: alla bellezza della sua
natura, allo splendore del sangue nobile, la fatica aggiunge una certa
grazia. Le vene sono gonfie, come accade quando la respirazione
accelera, ma la presenza della giovane vi concorre ugualmente.
1.30 Pelope. Vesti sontuose, tipiche della Lidia, un giovane poco
più che imberbe e Poseidone che sorride facendogli dono di splendidi cavalli. Riconosciamo senz’altro Pelope di Lidia, venuto al
mare per invocare la collera di Poseidone contro Enomao91. Come
sappiamo, Enomao rifiutava un marito alla figlia, e uccideva tutti
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i pretendenti di Ippodamia, facendosi poi un trofeo delle loro
teste, delle mani e dei piedi, come i cacciatori fanno con gli orsi o
i leoni. Pelope ha invocato il dio, ed ecco che Poseidone emerge dai
flutti col suo carro dorato, trainato da cavalli terrestri, ma capaci di
attraversare a pazza corsa l’Egeo senza bagnare le assi. Pelope ha
corso la gara con successo, ma vediamo che risultati ha conseguito
il pittore. Non è impresa da poco, credo, rappresentare quattro
cavalli che tirano un carro, mostrando tutte le zampe senza confonderle e raffigurandoli al tempo stesso impetuosi e docili: uno impaziente di partire, l’altro fremente, mentre il terzo si lascia trattenere e il quarto, fiero di portare un cavaliere così bello, dilata le narici
e sembra nitrire. Anche questa è una prova di sapienza. Poseidone
ama Pelope dal giorno in cui il giovane, uscendo dal calderone di
Cloto92, abbagliò il dio con lo splendore della sua spalla93.
Poseidone, invece di distogliere il giovane dalle nozze agognate, ma
contento di poter tenere la mano di Pelope nella sua, gli offrì il
mezzo per vincere la corsa. Da allora “respira la superbia e l’Alfeo”,
alzando con fierezza lo sguardo sui cavalli. I suoi occhi esprimono la
gioia e l’orgoglio di portare la tiara. La chioma si disperde in onde
dorate che insieme alla peluria della guance disegnano graziosamente i tratti del volto e ricadono come spruzzi d’oro ai due lati della
testa. I fianchi, il petto e tutte le parti del corpo nudo di Pelope che
potremmo enumerare, la pittura li dissimula: la veste copre perfino
la gamba, perché i Lidi e gli altri barbari imprigionano la bellezza
nelle vesti, e si fregiano con orgoglio dei loro abiti quando invece
potrebbero mostrare con orgoglio le loro grazie naturali. Il corpo è
dunque interamente nascosto, ma all’attaccatura della spalla sinistra
la tunica scomposta si schiude lasciandone intravedere lo splendore.
La notte già avanza, e il giovane è illuminato dalla sua stessa spalla,
che splende nelle tenebre come la stella della sera.
1.31 I doni ospitali. È bello raccogliere i fichi, ma è bello anche, adesso, non tralasciarli. Ecco dei fichi neri, ammucchiati su foglie di vite:
stillano un succo abbondante. Rappresentati con la scorza spaccata,
alcuni si schiudono lasciando scorrere una sorta di miele, altri più
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Filostrato
maturi sono quasi aperti in due metà. Intorno ai frutti si distende
un ramo carico, davvero per Zeus tutt’altro che sterile. All’ombra
delle foglie nasconde fichi ora duri e compatti, ora rigati e appassiti, ora appena dischiusi, che lasciano intravedere la lucentezza dorata del succo. Questo, all’estremità del ramo, è stato beccato da un
passero, come capita – a quanto si dice – soltanto ai fichi più saporiti. La terra è disseminata di noci: alcune hanno perso il mallo, altre
lo hanno ancora, ma dischiuso, altre ancora mostrano il bordo nudo
delle due valve94. Le pere si affollano sui peri, le mele sui meli95,
ovunque sono edifici di frutti a dieci piani, ovunque si diffonde un
profumo delizioso, un colore dorato. Non diresti neppure che la
lucentezza di questi frutti provenga dalla superficie, ma che fuoriesca dall’interno. Ecco i doni del ciliegio, ecco qui nella cesta un intero raccolto di grappoli d’uva, e lo stesso paniere è intrecciato con
tralci di vite. Se osservi la trama dei fusti, i grappoli che vi sono
sospesi, i grani che potresti contare uno per uno, sono certo che
loderai Dioniso, intonando l’inno dedicato alla vigna: «oh venerabile madre dei vermigli grappoli». Si direbbe proprio che gli acini rappresentati nella pittura siano maturi al punto giusto e gonfi di succo.
Ecco un altro bel dettaglio: sui fichi spicca un favo di un giallo chiaro. Basta premere delicatamente le celle nuove, colme di miele, perché trabocchino. Su un’altra foglia di vite vediamo un formaggio
appena cagliato, che sembra ancora tremolante, poi tazze piene di
latte più che bianco, brillante di bianchezza, e questo splendore proviene dalla crema che galleggia in superficie.
Lib ro s eco n d o
2.1 Coro di ragazze. In mezzo a un bosco di mirti fresche ragazze
cantano Afrodite elefantina. Il coro è diretto da una donna sapiente, la cui giovinezza non è ancora trascorsa: le prime rughe le conferiscono una certa grazia, in cui la nuova compostezza dell’età
matura ancora si fonde con l’ultima bellezza del fiore degli anni.
Afrodite ha la posa del Pudore, anche se è nuda: è una statua d’avorio fatta di piccoli blocchi riuniti. Ma la dea non vuole sembrare
dipinta, e allora si stacca in rilievo e sembra quasi che la si possa
toccare. Se vuoi, faremo sul suo altare una libagione di parole. Tra
le offerte abbondano già l’incenso, il rosmarino e la mirra, ed esala
anche – mi pare – un po’ di quel che ispirò Saffo. Loderemo allora
la sapienza del pittore. Innanzitutto, ornando la dea delle pietre
preziose che le sono care, più che con il colore ha cercato di imitarle con giochi di luce e un punto brillante, come se fossero pupille di altrettanti occhi. Ma anche perché ci permette di udire l’inno
che le ragazze cantano senza sosta, e quando una perde il tono la
maestra la guarda e battendo le mani le fa riprendere la melodia. Le
ragazze indossano semplici vesti, che non sarebbero d’intralcio nei
giochi: la cintura stringe la vita e la tunica lascia scoperte le braccia, mentre con i piedi nudi accarezzano l’erba tenera ancora umida
di fresca rugiada96. Le vesti fiorite come un prato sono riprodotte
divinamente, con un’incredibile armonia di colori. Si tratta forse di
dettagli accessori, ma la pittura che dovesse disdegnarli non sarebbe
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Filostrato
veritiera. Se chiedessimo a Paride97 di giudicare la bellezza delle
ragazze, avrebbe come chiunque altro l’imbarazzo della scelta, perché tutte hanno braccia fresche come le rose, occhi vividi, belle
gote e una voce di miele, per riprendere una bella espressione di
Saffo98. Poco lontano, Eros piega l’arco e pizzica la corda, facendola
cantare secondo tutti i modi, come una lira monocorde. Pare che
muova gli occhi rapidamente, come se scandisse tra sé qualche ritmo.
Ma cosa cantano le ragazze? La pittura rappresenta anche qualche
aspetto del loro canto: dicono che Afrodite è uscita dal mare fecondata dalla celeste pioggia di Urano, ma non parlano ancora di Pafo e
dell’isola in cui è giunta99. Cantano la nascita della dea, e il loro aspetto lo dimostra: con gli occhi rivolti verso l’alto dicono che la dea proviene dal cielo, sollevando le mani con i palmi all’insù mostrano com’è
uscita dalle onde, con il sorriso ricordano la quiete del mare.
2.2 L’educazione di Achille. Per adesso Achille caccia cerbiatti e lepri,
più tardi a Ilio le sue prede saranno città, cavalli, schiere d’uomini.
Suoi avversari saranno fiumi ai quali impedirà di scorrere, e i premi
per le sue gesta saranno Briseide, sette donne di Lesbo, oro, treppiedi100. La sorte degli Achei sarà nelle sue mani. Mele e favi colmi
di miele sono invece la ricompensa che gli dà Chirone. E tu ti accontenti, Achille, di questi umili doni, quando invece disdegnerai città
intere e l’amicizia di Agamennone. Un eroe sull’orlo del burrone che
fa indietreggiare i Troiani con il suo solo grido di battaglia, che uccide senza sosta tingendo di sangue le acque dello Scamandro101, che
conduce cavalli immortali102 trascinando il cadavere di Ettore103
intorno alle mura, che geme sul corpo di Patroclo: ecco come Achille
appare in Omero, che ce lo mostra anche mentre canta, invoca gli
dèi104 o accoglie Priamo nella sua tenda105. Ma qui è un ragazzo che
ancora non si rende conto del proprio coraggio, e ancora si nutre di
latte, midollo e miele. È l’allievo di Chirone106 che ha ancora tenere carni e un aspetto selvatico, ma già adesso è agile nella corsa: le
sue gambe sono ben dritte e le mani, ausilio indispensabile per il
corridore, arrivano alle ginocchia. La bella chioma non resta un attimo ferma: sembra che lo zefiro se ne prenda gioco scompigliandola
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in tutti i sensi, come se volesse mutare le sembianze del ragazzo. Le
sopracciglia sono già spesse e minacciose, compensate però da uno
sguardo senza cattiveria e da guance che conoscono la pietà e si illuminano di un tenero sorriso. La clamide che indossa è senza dubbio
un dono di sua madre: è bella, tinta di porpora, di un colore cangiante, ora scuro ora brillante, come fuoco che digrada verso un blu oltremare. Chirone lo stuzzica come farebbe con un leone, incitandolo a
catturare lepri e a mettersi sulle tracce dei cerbiatti. Ecco perché,
dopo aver catturato un cerbiatto, Achille chiede a Chirone la sua
ricompensa. Il centauro acconsente e piegandosi sulle zampe anteriori per adattarsi alla taglia del suo allievo gli offre mele di bell’aspetto e di un profumo squisito (sembra che la pittura renda bene
anche l’aroma), e ancora un favo grondante di miele, opera di api ben
nutrite. Quando le api hanno a disposizione le piante migliori, infatti, si caricano di nettare, e allora i favi sono stracolmi, e il miele trabocca dalle celle. Chirone è rappresentato come si fa solitamente con
i centauri: riunire il corpo di un cavallo a quello di un uomo non è
certo una cosa straordinaria, ma riuscire a dissimulare la transizione
da una natura all’altra, riunendo le due in una, senza lasciare che neppure la vista più acuta scorga il punto in cui una finisce e l’altra
comincia, per Zeus, a mio avviso è opera di un abile pittore. Lo sguardo di Chirone, poi, è pieno di dolcezza: agisce e pensa secondo giustizia, e poiché suona la lira ha subìto l’influsso della musica. Non lesina
le carezze, perché sa che per il ragazzo sono dolci come il miele e più
nutrienti del latte. Ora, tutto ciò accade all’ingresso della caverna, ma il
cavaliere che vedi nella piana, il ragazzo sul dorso del centauro, è sempre
Achille. Chirone è insieme maestro di equitazione e cavalcatura: adatta
l’andatura alle forze del ragazzo e poiché Achille ride per la grande gioia,
il centauro si gira verso di lui e dice quasi: «vedi come scalpito senza frusta, vedi come da solo mi aizzo a tuo vantaggio, se montassi un cavallo
focoso di certo non potresti ridere, ma grazie ai miei insegnamenti
accorti diverrai un provetto cavaliere, e un giorno condurrai Xanto e
Balio; allora prenderai città e farai strage dei nemici che di fronte a te
fuggiranno come se fossero al cospetto di un dio». Così Chirone emette
i suoi vaticinî allegri e belli, tanto diversi da quelli di Xanto107.
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Filostrato
2.3 Le donne centauro. Credevi che le donne centauro fossero nate dalle
querce, dalle rocce o magari, per Zeus, da cavalle fecondate dal figlio di
Issione108, e questo in effetti spiegherebbe la loro duplice natura. La
verità è che nella specie dei centauri le madri sono sempre state simili
a donne e i loro figli agli uomini, e che fin dall’inizio avevano una splendida dimora. Non credo che tu abbia pregiudizi sul Pelio e sulla vita che
vi si conduce109, sulle foreste di frassini coltivati dal vento che dànno
lance dritte, dalla punta infrangibile. E le belle caverne, le sorgenti frequentate dalle donne centauro, simili a Naiadi se tralasciamo la loro
natura equina, che in qualche modo ricordano le Amazzoni. Il cavallo
si unisce alla donna, la forza si coniuga con la delicatezza delle forme. I
figli dei centauri sono alcuni ancora in fasce, altri cominciano a venir
fuori, altri ancora sembrano piangere, quegli altri sono felici e sorridono alla poppa che versa per loro latte abbondante, altri guizzano sotto
la madre o abbracciano le donne centauro che piegano le zampe. Ecco
che un piccolo centauro lancia un sasso contro la madre, mostrando
un’insolenza precoce. Questi altri hanno ancora le fattezze appena
abbozzate, tipiche dei lattanti. Quelli là, che già si impennano, rivelano un’indole selvaggia a dispetto della criniera giovane e degli zoccoli
ancora teneri. Vedi anche come sono belle le madri, anche nella loro
parte equina, bianca in alcune, oppure bionda, o ancora variopinta:
tutte hanno lo splendore delle cavalle ben tenute. Questa qui, su un
corpo nero di cavalla ha un busto bianchissimo, e il contrasto acceso
accentua la bellezza dell’insieme.
2.4 Ippolito. Ubbidendo agli ordini di Teseo questo mostro si è scagliato sui cavalli di Ippolito: somiglia a un toro bianco, ma per lo
slancio è simile a un delfino. Il mare lo ha rigurgitato per compiere una vendetta ingiusta. Fedra, suocera di Ippolito, ha accusato il
giovane di averla violata, quando invece era lei che lo amava.
Teseo, allora, ingannato da questa calunnia, ha lanciato contro il
figlio una maledizione di cui scorgi qui il compimento. I cavalli,
come vedi, rizzano le criniere libere dal giogo: non scalpitano
come farebbero i cavalli migliori, che hanno il controllo di sé, perché sono sperduti e terrorizzati. Nella pianura che imbiancano con
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la loro schiuma, uno fugge volgendosi indietro verso il mostro, un
altro si precipita su di lui, un altro ancora lo guarda con occhi sbarrati, l’ultimo si scaglia verso le onde dimentico di sé e della terra.
Tutti hanno le froge al vento e lanciano alti nitriti, a meno che tu
non riesca a sentire la pittura. Una delle ruote del carro ha perso i
raggi, schiantati dal peso del carro che vi è caduto sopra, l’altra,
divelta dall’asse, gira ancora sullo slancio. Presi dallo stesso spavento, i cavalli dei compagni di Ippolito hanno disarcionato i loro
cavalieri: perché li trascinano a caso, a dispetto dei loro sforzi
disperati? E tu, ragazzo, il tuo amore per la saggezza ti ha messo in
balìa di tua suocera, e della più atroce ingiustizia di tuo padre. La
pittura stessa piange la tua sorte, come una lamentazione poetica o
un pianto funebre, composti in tuo onore. Le montagne scoscese
dove andavi a caccia insieme ad Artemide ci appaiono sotto sembianze di donne che si struggono dal dolore. Questi giovani rappresentano i prati mai profanati, come li avevi chiamati110. Per
compassione, i fiori appassiscono e le tue nutrici, le ninfe di queste
sorgenti, sollevano sull’acqua il ruscello dei loro seni e si strappano
i capelli. Il tuo coraggio, la forza del tuo braccio non bastano: le tue
membra sono state divelte e spezzate, i capelli insozzati, il petto
ancora respira come se la vita lo abbandonasse malvolentieri e sembra che il tuo sguardo si perda sulle ferite. Ma come sei bello, nonostante tutto. Non sapevamo ancora che la bellezza fosse invulnerabile: non solo non ha abbandonato il giovane, ma trae persino dalle
ferite una certa grazia.
2.5 Rodogune. Il sangue tinge la terra di rosso, aggiungendo un tono
vivido allo splendore del bronzo e delle vesti di porpora, di cui brilla il campo di battaglia. Lo spettacolo offerto dalla pittura è gradevole, ma non lo sono meno i cadaveri distesi qua e là, i cavalli che il
terrore fa uscire dai ranghi, un fiume dalle acque insanguinate. Ecco
dei prigionieri e un trofeo innalzato da Rodogune e i Persiani in
occasione della loro vittoria sugli Armeni, che ruppero il trattato già
durante la cerimonia. E Rodogune, senza neppure perder tempo ad
appuntare i capelli sulla tempia destra, li sconfisse in battaglia. Si
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Filostrato
vede com’è felice e fiera della sua vittoria. Senza dubbio sa che quest’impresa sarà cantata con la cetra e il flauto in ogni contrada greca.
Vicino a lei è dipinta una cavalla di Nisa111, con le gambe, bianchi il
petto e le froge ansimanti, e ancora con una macchia bianca, perfettamente rotonda, sulla fronte. Pietre preziose, collane, ricchi ornamenti di ogni sorta, Rodogune, disdegnandoli per sé, li ha offerti alla
sua cavalla, perché fiera del suo addobbo morda il freno con minore
impazienza. La brillantezza della porpora riluce in lei, ma il viso
splende di luce propria. Una graziosa cintura tiene la veste sollevata
al ginocchio, i suoi gambali attillati impressionano la vista per i loro
ricami. Dalla spalla al gomito, una serie di fibbie tiene la manica
della tunica, e negli intervalli si intravede lo splendore del braccio.
La spalla è coperta: non si tratta dunque del costume delle
Amazzoni. Dobbiamo ammirare anche lo scudo, che è di dimensioni contenute, ma basta a coprire il seno. Qui la precisione della pittura merita un esame approfondito. La mano sinistra attraversa la
maniglia oltrepassando lo scudo, e tiene una lancia, mantenendo lo
scudo discosto dal petto. Poiché lo scudo rimane in posizione verticale, di taglio, ne vediamo le due facce: quella esterna è splendente
come l’oro, non credi? Non sembra animata? Quella interna, vicina
alla mano, si imporpora dei riflessi della veste, che copre il braccio
fino al gomito. Mi pare che tu avverta la bellezza di questa posa,
ragazzo mio, e vuoi che mi soffermi ancora sull’argomento: ascolta.
Rodogune fa libagioni per celebrare la sua vittoria sugli Armeni.
Riusciamo a capire il significato delle sue invocazioni: chiede di
poter vincere gli uomini, ma come ha fatto oggi, perché non credo
che ami essere amata. La sua chioma è trattenuta in parte da una
fascia, temperando di pudore l’aspetto fiero del volto. In parte invece è sciolta, le dà un aspetto vivido e una forza di baccante. I capelli
liberi sono biondi e più lucenti dell’oro, mentre quelli legati sembrano già soltanto per questo di un altro tono. Le sopracciglia hanno
un’origine comune, vicino al naso, e questo è un segno di grazia: sono
flessuose, perché occorre non solo che siano sollevate in corrispondenza dell’occhio, ma che descrivano anche una curva. L ’ allegria diffusa sulla guancia per l’occasione (perché è la guancia che conferisce
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al sorriso tutto il suo fascino) accompagna la dolcezza dello sguardo.
Gli occhi sono di un azzurro intenso, quasi nero: la natura li ha fatti
belli, la vittoria li anima, il potere reale li rende fieri; la bocca delicata è pronta all’amore e sarà dolce baciarla. Descriverla112 è difficile.
Ti basti sapere, ragazzo mio, che le labbra sono rosse e regolari e la
bocca ben proporzionata si schiude per invocare gli dei, a causa del
trofeo. Tendiamo l’orecchio e forse potremo ascoltarla parlare greco.
2.6 Arrichione. Qui assisti al più bello dei giochi olimpici, il pancrazio. Arrichione è morto vincendo113. Ecco che il giudice di gara lo
incorona: è un giudice imparziale che prova così il suo amore della
verità, un vero giudice, rappresentato nei panni che si addicono a un
arbitro di questo genere114. Lo stadio si trova in una valle ininterrotta, piuttosto lunga, dalla quale sgorgano le lievi acque dell’Alfeo
(così leggere da essere le sole acque fluviali che il mare trasporti115),
tra rive cinte di begli olivastri dalle foglie verde chiaro, increspate
come l’appio. Ma ci soffermeremo più tardi su questi dettagli e su
molti altri. Osserviamo lo stadio e l’impresa di Arrichione. Sembra
che abbia trionfato non solo sul suo avversario, ma sulla Grecia intera. Gli spettatori balzano dai loro seggi gridando: agitano le mani, si
scuotono le vesti, saltano, qualcuno per gioco lotta anche lui con il
vicino. Uno spettacolo così appassionante non permette a nessuno
di trattenersi. Chi potrebbe essere così freddo da non acclamare un
atleta come questo? Era già una gloria straordinaria essere stato due
volte campione ai giochi olimpici: la sua terza vittoria è ancora più
bella, perché gli prende l’anima e lo accoglie nella dimora dei beati
coperto di polvere. Nessun merito va al caso, credimi: la sapienza e
il grande intuito sono valsi la vittoria all’atleta. Il pancrazio è una
lotta pericolosa, ragazzo mio. Bisogna saper cadere alla rovescia, e
questo non è senza pericolo per l’atleta. Bisogna avvinghiare l’avversario e vincere, anche quando sembra che ti tenga sotto di lui.
Bisogna, con arte, serrarlo con forza, ora qui ora lì, attaccare la caviglia col piede, torcergli una mano, colpire, assalire l’avversario saltando. Nel pancrazio tutto è permesso, tranne mordere e cavare gli
occhi. I Lacedemoni non hanno neppure queste restrizioni, visto che
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Filostrato
– immagino – lottano per esercitarsi alla guerra. Ma presso Elea, che
qui ospita i giochi, tutto è permesso tranne queste due cose, anche
soffocare fino alla morte. L ’ avversario di Arrichione ha preso il
nostro per la vita e vuole ucciderlo: gli tiene il gomito sulla gola,
impedendogli di respirare. Preme con le cosce sull’inguine e con ciascun piede gli circonda una caviglia. Un sonno mortale avvolge i sensi
di Arrichione, ma il vincitore che ha sorpreso il suo avversario riuscendo a soffocarlo, si lascia a sua volta sorprendere dall’abilità del
vinto, perché già non gli tiene più la gamba con forza sufficiente.
Arrichione infatti è riuscito a liberarsi, con uno sforzo violento, del
piede che stringeva la sua caviglia destra, e la sua gamba può ora slanciarsi. Tiene l’avversario contro i fianchi, impedendogli ogni resistenza, poi si appoggia sul lato sinistro e stringendo nella piega del
ginocchio il piede dell’avversario, con una torsione violenta gli svelle
l’osso che forma il malleolo del piede. Quando l’anima fugge dal
corpo lo rende una massa inerte, ma potente grazie al suo stesso
peso. L ’ atleta che soffoca l’altro è ritratto come un morto, mentre
con la mano ammette la sconfitta. Arrichione, invece, è rappresentato come un vincitore: i colori sono quelli della salute, nessun sudore
freddo imperla il corpo e sorride come chi sopravvive alla lotta ed è
consapevole della vittoria.
2.7 Antiloco. Achille amava Antiloco. Di certo, leggendo Omero, hai
capito che Antiloco era il più giovane tra i Greci116, considerando
anche il mezzo talento d’oro, premio per la vittoria117. Da lui Achille
ha appreso della morte di Patroclo118. Menelao lo aveva scelto abilmente come nunzio, pensando che per l’eroe sarebbe stata una consolazione avere sotto gli occhi l’amato. Antiloco piange con l’amico
affranto, gli tiene le mani, gli impedisce di uccidersi. Achille, immagino, gioisce di questa stretta, di queste lacrime. Così li ritrae
Omero. Altro è l’argomento trattato dal pittore119. Antiloco si getta
davanti al padre120, e l’etiope Memnone lo uccide, facendo indietreggiare gli Achei, raggelati dal terrore come alla vista di un mostro.
Perché prima di aver visto Memnone tutto quel che si raccontava
sui neri sembrava favoloso. Gli Achei sono riusciti a riprendere il
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cadavere, e Antiloco è pianto dagli Atridi, dagli eroi di Itaca, dal
figlio di Tideo121, dagli omonimi122. L ’ uomo di Itaca si riconosce
dall’aspetto serio e dalla vivacità dello sguardo; Menelao dalla mitezza; Agamennone ha qualcosa di divino; il figlio di Tideo trasmette
fierezza; Aiace Telamonio ha l’aria selvatica che lo contraddistingue;
Aiace di Locri è pronto a ogni impresa. L’esercito è schierato intorno al cadavere e lo piange. Appoggiati alle lance fisse al suolo, i compagni di Antiloco incrociano le gambe e reclinano la testa, appesantita dal dolore. Achille non si riconosce per la chioma, che ha tagliato
dopo la morte di Patroclo, ma per la bellezza, per la statura, e per il
fatto stesso che i suoi capelli non sono lunghi. Piange, disteso sul
petto di Antiloco. Gli promette un rogo, immagino, con le offerte
consuete, forse anche le armi e la testa di Memnone. Questi, in effetti, avrà la stessa sorte di Ettore, perché anche in questo occorre che
Antiloco non riceva un trattamento peggiore di quello riservato a
Patroclo. Memnone, invece, sta in piedi in mezzo all’esercito etiope,
con aria minacciosa, la lancia in mano, una pelle di leone sulla spalla,
e provoca Achille sorridendo. Ma osserviamo ancora Antiloco. L ’ età
della prima peluria sul viso è già passata, la chioma dorata ondeggia e
la gamba è leggiadra: il corpo ben proporzionato rivela un corridore
agile. Il petto, insanguinato dalla lancia, brilla come avorio tinto di
porpora. Morto com’è, il ragazzo non pare affatto triste e non somiglia a un cadavere. Ha il volto sereno e sorridente, perché – immagino – quando è stato colpito dalla lancia la gioia di aver salvato il padre
gli ha acceso volto, e quando l’anima ha smesso di muoverne i tratti,
la sofferenza è stata vinta dalla felicità.
2.8 Mele. Gli Amori di Enipeo e Tiro sono stati cantati da Omero123.
Il poeta parla anche dell’astuzia di Poseidone, che con le acque ha
creato una volta splendida sul letto nuziale. Ma l’argomento di questo quadro è diverso, e non si tratta della Tessaglia, bensì della Ionia.
La ionia Criteide ama Mele124: questi ha i tratti di un ragazzo, e chi
osserva attentamente può vederlo per intero, perché la fonte e la
foce stanno nel medesimo luogo. Criteide beve anche se non ha
sete, attingendo con la mano l’acqua del fiume: si intrattiene con la
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Filostrato
corrente, di cui scambia il mormorio per il suono delle parole. Sparge
lacrime d’amore che il fiume, altrettanto innamorato, trasporta felicemente unite alla sue acque. La pittura non ci regala nulla di più
attraente di Mele in persona. Ha un letto di croco, loto e giacinto,
fiore amato, simbolo di giovinezza. Ha la molle grazia propria della
giovane età, che però non è priva di una certa serietà. L ’ espressione
degli occhi lascia quasi intendere che Mele stia escogitando una delle
astuzie cantate dai poeti. È bello che le sue acque non sgorghino con
violenza come spesso, nelle pitture, fanno quelle di fiumi inetti.
Grattando la terra con la punta delle dita, riceve nel cavo della mano
un’acqua che sgorga senza far rumore. Acqua vediamo noi, acqua
vede anche Criteide: ma la ragazza immagina di amare un’ombra, o
un sogno, come si suol dire. No, non è un sogno, Criteide, e non è
sull’acqua che scrivi il tuo amore. So che il fiume ti ama, e gonfiando
le acque sta preparando un’alcova, un letto nuziale. Ti spiegherò
come potrà creare quest’alcova, se non mi credi. Una brezza leggera
sotto le onde arrotonda l’acqua a forma di volta, la rende accogliente
e variopinta, perché i raggi riflessi del sole dànno un aspetto iridato
all’acqua sospesa in aria. Perché, ragazzo mio, mi prendi la mano?
Non vuoi che mi soffermi sulle altre parti del quadro? Descriviamo
Criteide, perché so che desideri il piacere di ascoltarmi a lungo parlare di questo argomento. La sua delicata bellezza ci rivela che si tratta di una donna della Ionia. Questa bellezza, inoltre, è accentuata dal
pudore che tinge le sue gote di una tinta tenue. La chioma, appuntata dietro le orecchie, è coperta da un velo di porpora. Si tratta, penso,
del dono di una Nereide o di una Naiade, perché spesso queste dee
si riuniscono in coro nei pressi del Mele, che ha la fonte così vicina
alla foce. Il suo sguardo, particolarmente amabile e ingenuo, rivela
una bontà che rimane visibile anche attraverso le lacrime. Il suo collo
è ancora più attraente perché disadorno: catene, pietre scintillanti e
collane conferiscono, per Zeus, un certo splendore alle donne che
hanno mediocre bellezza, ma alle donne belle o molto brutte rendono solo un cattivo servizio, poiché queste si rivelano per quello che
sono, quelle sono trascurate dall’occhio distratto. Osserviamo le
mani: le dita sono delicate, non eccessivamente lunghe, bianche
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come il braccio intero. Vedi poi come attraverso la veste bianca il
braccio sembra ancora più chiaro? Vedi come i seni, gonfiandosi, sollevano la veste trasparente? Ma perché le Muse si trovano presso le
fonti del Mele? Quando gli Ateniesi fondarono una colonia nella
Ionia, le Muse condussero la spedizione sotto forma di api. Si rallegravano di andare a vivere nella Ionia grazie al Mele, perché sapevano che le sue acque sono più dolci rispetto al Cefiso o all’Olmeio125.
Forse un giorno le incontrerai mentre danzano, ma adesso filano la
nascita di Omero sotto l’occhio benevolo delle Parche126. Grazie a
Mele, o piuttosto a suo figlio, Peneo127 avrà argento nelle sue correnti, Titaresso128 sarà leggero e rapido, Enipeo129 sarà detto divino,
Axio130 bellissimo e Xanto131 sarà generato da Zeus, come tutti i
fiumi dell’Oceano132.
2.9 Pantea. Senofonte ha dipinto la bella Pantea dal punto di vista
morale, dicendo come respinse Araspe, resistette alle consolazioni
di Ciro e volle dividere la tomba di Abradate133. Ma della sua chioma, delle sopracciglia, dello sguardo, della bocca, Senofonte non
parla, anche se ha mostrato abilità nel trattare l’argomento. Un
uomo incapace di scrivere, ma davvero dotato nella pittura, che non
ha mai visto Pantea ma ha familiarità con Senofonte, rappresenta
Pantea come l’ha vista nella sua immaginazione, secondo le sue
virtù. Lasciamo, ragazzo mio, che le mura e le case brucino, lasciamo che i Persiani portino via le belle donne di Lidia e si impossessino di tutto ciò che può essere preso. Non stiamo a cercare Creso e
il suo rogo, che in Senofonte stesso non si trovano. Il pittore non
conosce questo particolare, o forse lo tralascia per rispetto nei confronti di Ciro. Osserviamo invece il dramma che la pittura intende
mostrarci: Pantea che muore sul cadavere di Abradate. Il loro amore
era reciproco. La donna aveva trasformato i suoi ornamenti in armi
per il marito. Abradate combatteva per Ciro contro Creso, guidando un carro con quattro timoni e otto cavalli. Era un uomo ancora
giovane, nell’età in cui la prima peluria ricopre il volto, un’età della
vita in cui perfino gli alberi divelti ispirano pietà ai poeti. Le ferite di
Abradate, ragazzo mio, sono proprio quelle che il coltello procura in
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battaglia: è come se le carni fossero dilaniate. Un fiotto di sangue
purissimo arrossa le armi di Abradate, Abradate stesso, e ha raggiunto perfino il pennacchio che si innalza da un casco dorato, esaltando con un riflesso di porpora lo splendore dell’oro. Le armi formano davvero un bel sudario per chi non le ha disonorate o perdute
in battaglia. Ciro porta a questo valente guerriero offerte abbondanti sottratte all’Assiria o alla Lidia, e tra queste un carro ricolmo
di sabbia d’oro. Uno degli inutili tesori di Creso. Ma per Pantea la
tomba non è ricca a sufficienza di offerte funebri se non offre anche
se stessa. Si è già immersa una lama nel petto, e con forza tale che
neppure ha levato un gemito. Si accascia, ma la bocca conserva una
forma perfetta, e le labbra risplendono perfino nell’attimo in cui
tacciono per sempre. Non estrae la lama dalla ferita, la spinge ancora tenendola per il manico. Il manico somiglia a un fusto d’oro adorno di due rami di smeraldo, ma ancor più belle sono le dita che la
tengono. Pantea non ha perduto niente della sua bellezza, morendo.
Anzi, non sembra neppure che soffra, ma che lasci piuttosto la vita
con gioia, come una donna che prenda congedo da sé. Non si ritira
come la moglie di Protesilao134, dopo le cerimonie bacchiche, ancora incoronata di edera, né come quella di Capaneo135, che dall’altare
si getta nella tomba. Conserva invece, e porta con sé, la bellezza
senza orpelli che Abradate ammirava. Lascia che una chioma spessa
e nera le copra le spalle e la nuca, mostrando soltanto la gola bianca
che ha graffiato, senza però sfigurarla, perché le tracce delle sue
unghie sono più belle di un dipinto. Il sopraggiungere della morte
non toglie alle sue gote lo splendore della bellezza e del pudore. Le
narici leggermente sollevate disegnano una sorta di basamento per il
naso che all’estremità dispiega, quasi fossero germogli incurvati, le
sopracciglia nere, che si stagliano sul bianco. Gli occhi, ragazzo mio,
non meritano lodi perché sono grandi o neri: osserviamo piuttosto
il sentimento profondo e, per Zeus, tutte le qualità dell’anima che –
per così dire – attirano dal fondo alla superficie. La pietà addolcisce
lo sguardo senza velarne lo splendore. Sono determinati, ma di una
determinatezza fatta più di ragione che di temerità. Aspettano la
morte, ma non si sono ancora chiusi. Il desiderio, compagno
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dell’amore, ha bagnato tanto bene i suoi occhi che lo si vede uscire
goccia a goccia. Ma ecco Eros, il testimone naturale di una simile
scena, ed ecco la Lidia che raccoglie il sangue di Pantea, come vedi,
nella piega dorata della sua veste.
2.10 Cassandra. Personaggi disseminati nella sala di un banchetto,
vino e sangue mescolati insieme, uomini che muoiono vicino alle
mense, il cratere spinto col piede da un convitato in preda alle convulsioni dell’agonia, una ragazza in abiti di profetessa mentre fissa
un’ascia che la colpirà. Tutto indica che si tratta del ritorno di
Agamennone dalla guerra di Troia e dell’accoglienza che
Clitemnestra gli ha preparato. L ’ ebbrezza di tutti è tanto profonda che perfino Egisto ha preso coraggio e colpisce. Clitemnestra ha
messo per precauzione ad Agamennone un cappuccio, e lo ha colpito con una di quelle asce a due lame che si usano per abbattere
gli alberi più alti. Poi, con la stessa ascia ancora calda, uccide la
figlia di Priamo che aveva avuto il torto di sembrare bella agli occhi
di Agamennone, e dava oracoli ignorati da tutti. Se consideriamo la
scena, ragazzo mio, siamo nel bel mezzo di una tragedia; se invece
osserviamo la pittura, mille dettagli ci colpiscono gli occhi. Ecco le
lampade che spandono la luce, perché la scena si svolge di notte, i
crateri d’oro più splendenti del fuoco, le mense piene di vivande
che erano state apparecchiate per l’eroe. Ma nessuna di queste cose
è al suo posto: alcune sono state spinte via dai piedi dei convitati,
altre sono andate in pezzi, altre ancora sono state scagliate lontano. Le mani hanno lasciato tazze per lo più colme di sangue. Tutti
questi uomini muoiono indifesi, perché sono ubriachi. Giacciono
riversi in varie posizioni: uno è stato sgozzato mentre ancora
mangiava o beveva, un altro ha perduto la testa mentre si chinava
sul cratere, questo qui portava la mano alla bocca quando un colpo
l’ha mozzata, quest’altro cade dalla sua lettiga trascinando con sé
la tavola, quello è caduto battendo le spalle e la testa (rivoltandosi su se stesso, come direbbe il poeta136), qualcuno ancora non
capisce di essere spacciato, qualcun altro non ha neppure la forza
di fuggire, come se l’ebbrezza gli trattenesse i piedi. Nessuno è
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Filostrato
pallido, perché chi muore durante l’orgia conserva per un po’una
tinta viva. Il protagonista del dramma è Agamennone: non è disteso nelle pianure di Troia né sulle rive dello Scamandro, ma tra
ragazzi e ragazze. «Un toro alla greppia»137: è così che diciamo
quando il banchetto viene dopo le fatiche. Ma Cassandra ci ispira
la pietà più profonda. Clitemnestra, gli occhi furenti e i capelli scompigliati, col braccio teso tiene l’ascia sospesa sulla sua vittima. Questa,
presa dalla tenerezza e dall’entusiasmo vorrebbe lanciarsi verso
Agamennone e getta lontano le bende, che – per così dire – sono le
insegne della sua arte. Ma solleva lo sguardo sull’ascia che incombe e
grida in modo tanto penoso che l’eroe, sentendola, spende il misero
resto della sua vita a piangerla. Si ricorderà di questa scena, negli inferi, e la racconterà a Ulisse in mezzo alle anime riunite.
2.11 Pan. Pan, dicevano le ninfe, non ha grazia nella danza. Quando
salta, nei suoi furori sconnessi ha la gaiezza selvatica dei capri:
vogliono insegnargli una danza più gradevole. Ma Pan non le ascolta e palpa loro il seno con la mano138. Allora lo sorprendono verso
mezzogiorno, quando, a quanto si dice, il dio si addormenta dopo le
fatiche della caccia. Se di solito dorme nel più grande abbandono,
con le pinne del naso mollemente rilassate, che grazie al sonno non
mostrano collera alcuna, adesso invece il dio è fuori di sé. Le ninfe
si sono scagliate su di lui e gli hanno legato le mani dietro la schiena, e ora teme per le sue gambe. La barba, che gli è tanto cara, è già
caduta sotto i colpi del rasoio. Le sue nemiche dicono che convinceranno Eco a ignorarlo e a non rispondere più ai suoi richiami. Ora
che abbiamo contemplato il gruppo delle ninfe nel complesso, esaminiamole per gruppi: ecco le naiadi con i capelli che stillano gocce
d’acqua, le ninfe dei campi, non meno belle con i capelli scompigliati e selvaggi, e altre ancora, che hanno avuto in dono dalla natura una corona di fiori colore del giacinto.
2.12 Pindaro. Sarai d’accordo che queste api sono davvero sorprendenti, dipinte con tale finezza che è possibile distinguerne tutte le
parti – la tromba, i piedi, le ali – e hanno la stessa disposizione e la
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stessa ricchezza di colori che in natura. Ma perché queste sagge operaie non sono nel loro alveare? Perché si trovano in una città? Si
affollano davanti alla porta di Daifanto139 – Pindaro è nato, come
vedi – per educare il bambino fin nella culla e insegnargli il gusto per
la melodia e il canto. Sono già all’opera. Il bambino è disteso su
foglie di alloro e rami di mirto, e il padre sente di aver generato un
figlio sacro. In casa risuonavano i cimbali quando è nato, si è sentito
il tamburo di Rea140 e ancora si diceva che le Ninfe danzassero in suo
onore tenendosi per mano, e che Pan si fosse messo a saltare. Si dice
poi che in seguito, quando Pindaro divenne poeta, il dio abbia smesso di saltare per declamare i suoi versi. La statua di Rea, finemente
lavorata, si trova vicino alle porte. Ho l’impressione di vedere una statua di vero marmo, perché la pittura rende perfettamente la durezza
della pietra e, per così dire, i segni dello scalpello. Ma conduce anche
le ninfe bagnate di rugiada e quelle delle sorgenti. Pan danza su qualche ritmo: il suo volto è radioso e le sue narici non respirano collera.
In casa, le api circondano il bambino e gli versano miele sulle labbra,
ritraendo il pungiglione per non colpirlo. Vengono senz’altro
dall’Imetto141 e dalla città eccelsa che ha fama poetica, e il miele che
stillano sulla bocca del poeta ha il sapore di queste origini142.
2.13 Giri. Sugli scogli che resistono ai flutti, colpiti dall’onda schiumante, resta un eroe dallo sguardo terribile, che sembra quasi adirato contro il mare. È il locride, che gettandosi dalla nave colpita dal
fulmine e avvolta dalle fiamme, si è lanciato contro le onde: alcune le
ha attraversate a nuoto, su altre è scivolato, altre ancora le ha respinte con la forza del petto. Ora che ha raggiunto i Giri, scogli che si
innalzano in mezzo all’Egeo143, si rivolta con orgoglio contro gli dèi144.
Allora Poseidone avanza verso i Giri, con l’orrore della tempesta sul
volto, ragazzo mio, e i capelli ritti. Eppure un tempo combatté al fianco dell’eroe di Locri contro Ilio, ma allora questi non conosceva la
superbia e non osava offendere gli dèi. Invece di toccarlo con lo scettro per trasmettergli, come allora, una forza invisibile, il dio punisce
la sua arroganza attaccandolo con il tridente: sta per colpire la sommità dello scoglio per far cadere insieme Aiace e il suo orgoglio. Ecco
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Filostrato
l’argomento della pittura: abbiamo l’impressione di vedere le rocce
bianche, gli scogli erosi dal lavorio incessante dei flutti, la nave che
rigurgita le fiamme gonfiate dal vento e naviga come se fosse spinta da
una vela. Aiace, quasi rinsavito, scruta il mare senza scorgere terre o
navigli. La vista di Poseidone in arrivo non lo spaventa nemmeno, e
pare anzi che voglia scagliarsi con più forza contro il dio: le braccia
sono ancora forti, e la testa e sollevata con fierezza come un tempo lo
era di fronte a Ettore e ai Troiani. Poseidone precipiterà Aiace in mare
con una parte dello scoglio: quel che resterà dei Giri durerà quanto il
mare stesso, ergendosi sulle onde e godendo del rispetto di Poseidone.
2.14 La Tessaglia. A prima vista si direbbe che la pittura rappresenti
l’Egitto, ma non è così. Si tratta invece della Tessaglia. Gli Egizi devono al Nilo il loro paese. Il Peneo145 invece un tempo non permetteva
ai Tessali di avere terre, perché tutte le pianure erano circondate da
montagne e inondate dal fiume, che non trovava sbocco146. Poseidone
allora colpirà la montagna col suo tridente e aprirà un varco al fiume.
Il momento è esattamente quello in cui il dio si impegna a sgomberare le pianure. La mano che colpirà è già levata, ma già i monti, prima
ancora di essere toccati, si schiudono per lasciar passare il fiume. Lo
sforzo del dio è reso con arte: il lato destro del corpo si raccoglie su se
stesso per protendersi di scatto, e allora Poseidone incombe non solo
con la mano ma con il corpo intero. Non è ritratto come dio azzurro
o del dio del mare: è il Poseidone della terra ferma, e per questo gli
piacciono le pianure ben connesse e ampie come il mare. Anche il
fiume si rallegra ed è quasi inorgoglito: reggendosi sul gomito – di solito i fiumi non stanno in piedi – sostiene il Titaresso147, che ha acque
più dolci, e promette a Poseidone di scorrere nelle pianure sul letto
che gli è stato tracciato. La Tessaglia emerge a mano a mano che le
acque si ritirano, coronandosi di olivi e di spighe, e accarezza un puledro giovane come lei, regalo di Poseidone, poiché la terra fecondata
dal dio addormentato deve dare alla luce un cavallo148.
2.15 Glauco dio del mare. La nave Argo149 ha doppiato il Bosforo e le
Simplegadi150 e già solca le acque del Ponto. Orfeo incanta con i suoi
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inni il mare attento e spiana la strada liquida. La nave conduce i
Dioscuri, Eracle, gli Eacidi151, i figli di Borea152, tutta una stirpe di
semidei che al tempo fioriva. La chiglia è fatta col legno di un albero
antico che lo stesso Zeus aveva scelto nella foresta di Dodona per
emettere i suoi oracoli153. Il motivo della spedizione è un vello d’oro
conservato a Colco: è quello di un ariete che, a quanto si dice, portò
in volo Elle e Frisso154. Giasone volle impossessarsene, ragazzo mio,
ma si tratta del premio per una vittoria perché nelle sue pieghe si
nasconde un guardiano terribile, un drago che non conosce sonno.
Giasone, che ha chiamato gli altri all’avventura, guida la nave. Il pilota
è Tifide, il primo uomo, pare155, ragazzo mio, che abbia osato praticare quest’arte sospetta. Linceo, figlio di Afareo, sta a prua: è dotato di
vista acuta, capace di vedere lontano e di scorgere subito, sotto le onde,
gli scogli nascosti. È il primo a salutare la terra che appare all’orizzonte, ma nel contempo i suoi occhi esprimono spavento per una visione
che lascia a mezz’aria i remi nelle mani di cinquanta vogatori. Soltanto
Eracle, avvezzo alle cose più strane, non è colpito, ma credo che gli altri
pensino a un prodigio. Glauco, dio del mare, è di fronte a loro. Come
dice il mito, Glauco viveva un tempo nell’antica Antedone156. Un giorno assaggiò un’erba che si trovava sulla riva, e all’improvviso fu trascinato dalle onde che lo portarono fino alla dimora dei pesci. Sta vaticinando un grande evento, perché eccelle in quest’arte157. Quanto al suo
aspetto, i peli ricci della barba sono umidi e bianchi come l’acqua che
sgorga, la chioma ricade in lunghe trecce versando sulle spalle il suo
carico d’acqua, le sopracciglia spesse si uniscono senza interruzione. La
forza delle braccia rivela che ha lottato contro il mare, colpendo senza
sosta le onde per spianarle e nuotare. Osserva il petto ricoperto qui e
là dai peli che trattengono le alghe e la schiuma. Il ventre invece non
corrisponde al resto del corpo, e si ripiega sotto il tronco perché termina in forma di pesce, come mostrano le due code che si sollevano
piegandosi verso i fianchi. All’estremità di ognuna, una mezzaluna brilla con riflessi quasi di porpora. Intorno a lui gli Alcioni cantano correndo: vogliono celebrare le gesta della stirpe umana, alla quale appartenevano con Glauco nella loro forma primitiva158; ma intendono anche
mostrare la loro voce a Orfeo, perché questa voce è la musica del mare.
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Filostrato
2.16 Palemone. Questo popolo che fa sacrifici sull’Istmo deve essere
quello dei Corinzi. Ecco il re: deve essere Sisifo. Infine ecco il temenos di Poseidone: le cime dei pini che lo circondano, ragazzo mio,
rispondono con un dolce mormorio alle onde. Ino e suo figlio sono
caduti in mare. Ino diverrà Leucotea ed entrerà nel coro delle
Nereidi, il figlio, invece, apparterrà alla terra: eccolo già a riva, portato da un delfino che, docile, appiattisce la schiena sotto il bambino che dorme, e per non svegliarlo scivola senza far rumore sulle
onde placide159. Nel momento stesso in cui il bambino si avvicina,
un santuario si spalanca nell’Istmo, nel ventre della terra, per volere
di Poseidone che ha senz’altro predetto a Sisifo l’arrivo di un nuovo
ospite, ordinandogli un sacrificio. Il re sacrifica, come vedi, un toro
nero che ha scelto, immagino, dalla mandria sacra a Poseidone. Non
parleremo né del rito sacrificale, né del costume degli officianti, né
delle libagioni, né del modo di sgozzare le vittime, poiché tutte queste cose appartengono ai misteri di Palemone: si tratta di un sapere
venerabile e assolutamente riservato, introdotto nella religione dal
saggio Sisifo. Di questa saggezza il suo aspetto vigile e grave è di per
sé una prova. Se Poseidone fosse in procinto di squassare le rocce di
Gyros o le montagne della Tessaglia, sarebbe rappresentato con
occhi selvaggi e nell’atto di colpire. Ma poiché accoglie Melicerte e
vuole nasconderlo nel ventre della terra, sorride al bambino che
entra nel porto, poi ordina all’Istmo di aprirsi e offrire asilo al figlio
di Ino. L ’ Istmo, ragazzo mio, è rappresentato nelle sembianze di un
dio: con i piedi per terra e gli occhi rivolti al cielo e, com’è in verità,
simile a un ponte gettato tra due mari, separa l’Adriatico dall’Egeo.
Alla sua destra si trova un giovane, Lecheo, come credo, mentre a
destra vi sono delle ragazze160: sono i due mari, belli e sereni, distesi sulla terra che rappresenta l’Istmo.
2.17 Le isole. Vuoi, ragazzo mio, che ti parli di queste isole come se
viaggiassimo in nave dall’una all’altra, in primavera, quando Zefiro
spande il suo alito sulle onde dando al mare un aspetto ridente?
Dimentica allora che questa sia terra: è un mare che non si gonfia né
si scatena, benché neppure sia piatto e addormentato. Asseconda le
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manovre dei marinai, come animato da un alito di vita. Ecco che già
siamo a bordo, se sei d’accordo, non credi? – E il ragazzo risponde:
non chiedo di meglio, spieghiamo le vele. – Il mare, come vedi, si
stende lontano, disseminato di isole che a dire il vero, per Zeus, non
somigliano a Lesbo, Imbro o Lemno. A vederle così modeste, così
piccole, si direbbe che siano villaggi, scali, o magari, per Zeus, fattorie disposte sul mare. La prima è scoscesa, inaccessibile, naturalmente fortificata, e innalza fino al cielo le sue cime, da cui
Poseidone sorveglia l’orizzonte. Vi sono ruscelli che diffondono
ovunque la freschezza delle acque, e le montagne sono coperte di
fiori che nutrono le api, e che certamente le Nereidi raccolgono
quando si rincorrono sulle onde. L ’ isola vicina ha il suolo uniforme
e adatto alle coltivazioni, ed è abitata da pescatori e contadini che
portano allo stesso mercato gli uni il raccolto, gli altri la pesca. Ecco
un Poseidone contadino che hanno messo a un aratro munito di
giogo, attribuendo a questo dio i benefici della terra: ma perché
Poseidone non abbia fino in fondo l’aspetto di una divinità della terraferma, una prua è stata adattata all’aratro, e sembra allora che il
dio navighi mentre fende la terra. Le due isole seguenti erano un
tempo riunite, ma furono separate dal mare che trovò un passaggio
della larghezza di un fiume: puoi rendertene conto, ragazzo mio,
guardando la pittura, poiché nel fendersi l’isola oppone due facce
dello stesso aspetto, in cui le parti cave e quelle prominenti si corrispondono simmetricamente. In Europa, in Tessaglia, la valle di
Tempe ha un aspetto simile. Squassate dai terremoti, le montagne
conservano ancora sui fianchi le tracce della rottura: si vedono le
cavità prodotte dalle rocce divelte, che ancora vi si potrebbero
adattare; la foresta, che ha accompagnato la montagna nello scarto,
non è scomparsa del tutto, e le cavità in cui si insinuavano le radici degli alberi si distinguono ancora. Ogni indizio mostra che la
nostra isola ha avuto lo stesso destino. Un ponte gettato sullo stretto sembra riunire le due metà: dall’una all’altra ci si sposta in barca
o con un carro, e come vedi c’è un andirivieni di viandanti e di
marinai. L ’ isola vicina, ragazzo mio, ci regala uno spettacolo meraviglioso: in tutta la sua ampiezza cova un fuoco sotterraneo che
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Filostrato
rigurgita fiamme attraverso le fenditure e le caverne come se fossero dei canali, e questa lava terribile forma grandi fiumi di fuoco che
si riversano in mare gorgogliando. Ecco la ragione di questo fenomeno. Il suolo dell’isola ha la stessa natura dell’asfalto e dello zolfo:
attaccata dai flutti, l’isola è battuta dai venti che vengono dal mare
e accendono questa materia combustibile. La pittura si conforma al
racconto dei poeti, che con un mito ci spiega l’eruzione dell’isola.
Un gigante vi fu precipitato un tempo, ma poiché ancora non periva, un’isola scagliata su di lui avrebbe dovuto fargli da prigione:
eppure non cede, e ancora lotta sotto terra lanciando minaccioso
torrenti di fuoco. Così fanno anche Tifone, in Sicilia, e qui in Italia
Encelado161: giganti su cui pesano continenti e isole, che non sono
ancora morti eppure non smettono di morire. Puoi immaginare,
ragazzo mio, di essere stato condotto di persona sul luogo della battaglia, se appena rivolgi lo sguardo alla cima della montagna. Ecco
cosa si vede: Zeus scaglia la folgore sul gigante che pur essendo allo
stremo delle forze confida sempre nel soccorso della terra. Ma la
terra è trattenuta da Poseidone, che le impedisce di intervenire, e
rinuncia alla lotta. La scena è avvolta nella nebbia, in modo che sembra appartenere più al passato che al presente. Questa collina, invece, bagnata dal mare da ogni lato, è abitata da un drago che vi sorveglia, immagino, un tesoro nascosto sotto terra. Pare infatti che
questo animale abbia un debole per l’oro: tutto ciò che è dorato, lo
ama appassionatamente e lo difende con il suo corpo. Ecco perché il
vello di Colco162 e le mele delle Esperidi163, che avevano la brillantezza dell’oro, erano sorvegliati da due draghi, sempre svegli, che li
consideravano come in loro possesso. E se il drago di Atene che abita
nell’Acropoli164 protegge gli Ateniesi, è senz’altro grazie alle cicale
d’oro con cui adornavano le loro chiome. Il drago che abbiamo qui è
dorato anch’esso, e sporge la testa dal suo antro, preoccupato,
immagino, per il suo tesoro nascosto. Quest’altra isola ricoperta di
edera, querce e vigne ci rivela di essere sacra a Dioniso, ma Dioniso
non c’è e si aggira ebbro sul continente, lasciando a Sileno le cose
sacre. I cimbali sacri sono stati abbandonati a terra, i crateri dorati
sono riversi, i flauti ancora tiepidi riposano accanto ai tamburi muti.
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Lo zefiro solleva da terra le pelli di cerbiatto, serpenti si avvolgono
intorno ai tirsi, oppure ebbri e assonnati lasciano che le Baccanti si
servano di loro come cinture. L ’ uva è ora gonfia di succo, ora appena matura, ora acerba e quasi ancora in fiore, perché Dioniso ha
avuto l’accortezza di non assegnare a tutte le viti la stesso periodo
per maturare, in modo che la vendemmia sia ininterrotta. I grappoli sono tanto abbondanti che scendono lungo la falesia e sfiorano le
onde. Stormi di uccelli si scagliano sui chicchi, dalla terra e dal mare,
per beccarli, e di certo a Dioniso piace che la vigna si offra a tutti gli
uccelli. Si rifiuta solo alla civetta165, che ispira agli uomini l’orrore
del vino: se un bambino mangia uova di questo uccello prima di aver
imparato a parlare e bevuto del vino, lo detesterà per tutta la vita,
astenendosi dal bere e biasimando l’ebbrezza degli altri. Quanto a
te, ragazzo mio, sei audace abbastanza per osservare il guardiano
dell’isola, Sileno, che è ubriaco e tende la mano su una baccante. Ma
questa non lo degna di uno sguardo, perché il suo amore è per
Dioniso, e la sua immaginazione glielo rappresenta anche se non c’è,
e lei lo vede: nello sguardo della baccante, fisso nel vuoto, si riflette
senza sosta un pensiero d’amore. Più in là, la natura ha riunito le
montagne formando un’isola coperta di boscaglia fitta e di foreste,
dove si distinguono il cipresso svettante, il pino, l’abete, la quercia e
il cedro, perché ogni albero è stato rappresentato con le sue caratteristiche proprie. Quest’isola è popolata da cinghiali e cervi, inseguiti da cacciatori armati di lance o frecce, e da altri più coraggiosi
che hanno la spada e la mazza per affrontare le belve da vicino. Le
reti che vedi sono tese attraverso la macchia per avvolgere, intrappolare o fermare le prede. E certe bestie sono già finite in trappola,
altre combattono, altre hanno steso l’avversario. Nessun cacciatore,
nessun giovane braccio è inerte, e i cani mescolano i loro latrati alle
grida degli uomini. Eco stessa sembra partecipare all’ebbrezza della
caccia. Taglialegna abbattono grandi alberi disseminati al suolo: uno
ha l’ascia sollevata, l’altro ha già colpito, questo affila il taglio della
lama smussato dal lungo uso, quello esamina un abete per vedere se
è adatto a diventare l’albero di una nave, quest’altro abbatte dei giovani alberi ben dritti per farne dei remi. Per quel che riguarda questa
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Filostrato
roccia scoscesa e questo stormo di gabbiani disposti intorno a un
altro uccello, tutto è dipinto per una precisa ragione. Gli uomini
danno la caccia ai gabbiani non per la loro carne, che è nera e malsana e non è buona da mangiare, ma perché il loro ventre contiene
un rimedio di cui i medici si servono per far riacquistare ai malati
l’appetito e il tono. I cacciatori li catturano di notte abbagliandoli
con la luce, i gabbiani accolgono tra loro la folaga, che fa la guardia
in cambio di una parte del bottino. Anche la folaga è un uccello
marino, ma indolente, pigro e poco incline alla caccia, che però è
capace di resistere al sonno e dormire poco. Per questo presta i suoi
occhi ai gabbiani: quando questi vanno in cerca di cibo, resta a guardia dei nidi, sulle rocce; la sera, quando tornano, i gabbiani gli portano la decima parte della caccia, poi si addormentano disponendosi intorno al loro guardiano che si lascia vincere dal sonno soltanto
con il loro permesso. Se sente un pericolo nelle vicinanze, lancia un
grido acuto e penetrante: allora al segnale tutti i gabbiani si alzano
in volo e fuggono, aiutando il loro guardiano perché non gli manchino le forze. In questo momento è sulle rocce e considera con lo
sguardo i gabbiani addormentati: ritto in mezzo agli uccelli somiglia
a Proteo tra le sue foche166, ma non dorme, e proprio questo è il suo
vantaggio su Proteo. Nel frattempo siamo approdati su un’altra
isola, ragazzo mio. Qual è il suo nome? Lo ignoro, e mi piacerebbe
chiamarla l’isola d’oro se i poeti non avessero già dato questo nome
a tutto ciò che è bello e meraviglioso. La sola dimora che offre è un
piccolo palazzo, e sarebbe impossibile lavorare la terra o coltivare la
vigna. In compenso le sorgenti abbondano, alcune limpide e fresche,
altre gorgoglianti. L ’ isola trabocca a tal punto che riversa in mare
l’eccesso delle acque. Vedi con quale impeto sgorgano, perché le
sorgenti che si trovano al centro dell’isola sono come l’acqua che si
agita in una pentola e trabocca dai bordi. Questa straordinaria quantità di sorgenti deve essere attribuita al mare o alla terra? Sarà
Proteo a svelarcelo, e in effetti è venuto per pronunciarsi sulla questione. Osserviamo ora l’altra metà dell’isola, cioè la città, o meglio
il simulacro della città, che pur essendo bella e splendente non è più
grande di una sola casa. Vi si alleva un erede reale, e la città è il suo
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passatempo, perché contiene teatri grandi a sufficienza per accoglierlo insieme ai compagni di gioco, e ha anche un ippodromo grande abbastanza per le corse dei piccoli cani di Malta, perché il bambino li usa come cavalli, aggiogandoli a un carro guidato dalle
scimmie sue servitrici. Ecco una lepre che da ieri si trova in casa: è
legata a un filo di porpora come un cane, ma non sopporta il vincolo e tenta di liberarsene con le zampe anteriori. Ecco infine in una
gabbia intrecciata un pappagallo e una gazza che, come Sirene,
fanno risuonare sull’isola i loro canti: l’una canta ciò che sa da sé, l’altro ciò che apprende.
2.18 Il ciclope. I raccoglitori e i vendemmiatori che vedi, ragazzo
mio, non hanno fatto la semina e non hanno curato le vigne, perché
la terra le produce da sé a loro vantaggio. Si tratta di Ciclopi, per i
quali, come vogliono i poeti, e non so per quale motivo, la terra è
fertile senza coltura. La terra li ha dunque resi pastori: allevano greggi, servendosi del latte come bevanda e alimento. Non hanno un’agorà, o un’assemblea, né abitazioni: vivono nelle caverne della montagna167. Tralascia pure tutti gli altri e osserva in questo luogo il più
selvaggio di tutti, Polifemo, figlio di Poseidone. Il suo unico sopracciglio traccia un arco sul solo occhio, e il naso schiacciato scende sul
labbro. Ecco il mostro che divora gli uomini come un leone feroce.
In questo momento però non rivolge i suoi pensieri a un simile
pasto, perché non vuole sembrare vorace e odioso: ama Galatea, che
si bagna nel mare, e la contempla dalle alture della montagna168. Ha
ancora la siringa sotto il braccio, e al modo dei pastori canta
Galatea, bianca e altèra e più dolce dell’uva. Per lei alleva cerbiatti e
orsetti. Così canta sotto un leccio, e non sa più dove pascolano le sue
pecore, né quante sono, né dov’è la terra. La pittura ha mantenuto il
suo aspetto montanaro e terribile: scuote la chioma folta e irsuta
come aghi di pino, le sue mascelle voraci lasciano intravedere denti
aguzzi, il petto, il ventre, le braccia fino alle unghie, tutto è coperto
di peli. Vorrebbe assumere un’espressione tenera, da innamorato, ma
il suo sguardo ha qualcosa di selvaggio e infido, come quello delle
bestie feroci quando cedono alla necessità. Galatea gioca sulle onde
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Filostrato
placide, conducendo un tiro a quattro di delfini uniti dallo stesso sentire come dallo stesso giogo, diretti dalle figlie di Tritone, schiave di
Galatea, per evitare che scartino o si ribellino al freno. Sopra la testa,
Galatea abbandona al soffio di Zefiro una stoffa leggera di porpora
che le fa ombra e funge da vela al carro, illuminandole la fronte e il
capo con un bel riflesso, che però è meno attraente della tinta delle
sue guance. La chioma non ondeggia al vento: intrisa d’acqua, sfida
gli sforzi di Zefiro. Il gomito destro è proteso e l’avambraccio, bianco, si flette a tal punto che le dita poggiano sulla delicata spalla di
Galatea. Le braccia hanno dolci curve, i seni sono sodi, il ginocchio
aggraziato, il piede, in armonia con la bellezza del resto del corpo,
poggia delicatamente sul mare e lo sfiora come se fosse il timone del
carro. Gli occhi sono una meraviglia: lo sguardo, come perduto, sembra raggiungere i limiti estremi del mare.
2.19 Forba. Questo fiume, ragazzo mio, è il Cefiso, in Beozia, ed è tra
quelli favoriti alle Muse. Sulla riva puoi scorgere le tende dei Flegi,
popolo barbaro che non ha ancora fondato città. Dei due personaggi
che combattono a pugni, uno è Apollo, penso, mentre l’altro è Forba,
acclamato re dai Flegi perché è il più grande e crudele di tutti. Apollo
lo ha sfidato per sgomberare il passaggio: poiché Forba ha occupato
la strada che porta nella Focide e a Delfi, nessuno più offre sacrifici
a Peito, o innalza peana al dio, e profezie, oracoli e tripodi, tutto è
tralasciato. Forba si è appostato lontano dagli altri Flegi. La quercia,
ragazzo mio, è la sua dimora, dove riceve i Flegi che si riuniscono per
dirimere le loro contese. Forba cattura i vecchi e i bambini che si
recano al tempio, e li invia al campo dei Flegi perché siano derubati
e paghino il pedaggio. Gli uomini forti, invece, li obbliga a battersi
con lui: alcuni li sconfigge nella lotta, altri li supera nella corsa, vince
sia nel pancrazio che nel lancio del disco. Poi taglia la testa della sue
vittime e le appende alla quercia, dove vive circondato da queste
spoglie sanguinanti che ondeggiano sui rami. Puoi scorgere le teste:
queste sono secche, queste altre sono recenti, ed altre ancora hanno
il cranio già nudo, lasciano vedere i denti e sembrano gemere quando un alito di vento le attraversa. Mentre Forba si vanta di questi
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trionfi degni di Olimpia, Apollo si presenta sotto le sembianze di un
giovane pugile. Riconosci il dio dalla lunga chioma legata con una
fascia, ragazzo mio, pronto a combattere con la testa, per così dire,
leggera. Raggi escono dai suoi occhi e le guance si contraggono al
tempo stesso per il riso e per la collera. Grazie allo sguardo penetrante i colpi vanno a segno con precisione: le mani fasciate da
bende sarebbero ancora più belle se portassero corone. La lotta è già
finita, la mano che ha colpito con forza mantiene ancora la posizione del colpo decisivo. Il Flegio è disteso al suolo, e il poeta dirà
quanta parte di terra copre il suo corpo169. La tempia è aperta e il
sangue zampilla dalla ferita come l’acqua da una sorgente. A giudicare dall’aspetto feroce e dalle sembianze di cinghiale che il pittore
ha dato al mostro, si direbbe che fosse capace di sbranare i viandanti vivi piuttosto che di ucciderli per passatempo. La folgore scagliata dal cielo si abbatte sull’albero per bruciarlo, senza però cancellarne il ricordo, perché il luogo che è stato testimone di questi orrori,
ragazzo mio, porta ancora il nome di “teste della quercia”.
2.20 Atlante. Eracle lottò anche contro Atlante170, anche se
Euristeo non ne aveva dato l’ordine, volendo mostrare di poter
sostenere la volta del cielo meglio del gigante che vedeva ricurvo,
schiacciato dal peso, con un ginocchio piegato e quasi sul punto di
perdere l’equilibrio. Eracle si sentiva invece capace di sollevare il
cielo e di reggerlo a lungo. Qui l’eroe dissimula la sua rivalità dicendo ad Atlante che prova pietà per le sue pene e vuole liberarlo per
un po’dal suo duro compito. Atlante non solo accetta con gioia l’offerta di Eracle, ma perfino lo prega di soccorrerlo. La pittura ci
mostra il corpo imperlato di sudore e il braccio fremente, lasciandoci intuire che cede alla fatica. L ’ eroe invece desidera con ardore
mettere alla prova le sue forze, come dimostra l’espressione di zelo
sul volto, la mazza abbandonata a terra, le mani che cercano il fardello. Le ombre sul corpo di Eracle sono ben rese, ma la riuscita del
pittore non deve sorprenderci perché la posizione distesa o eretta si
presta bene all’imitazione dell’ombra, e disegnarla con esattezza non è
indice di sapienza. Le ombre gettate su Atlante, invece, sono sapienti:
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Filostrato
poiché è rannicchiato su se stesso, si sovrappongono l’una all’altra, e
non soltanto le parti sporgenti non sono oscurate, ma anzi illuminano di riflesso quelle cave e rientrate. Sotto il busto che si piega si
distingue perfettamente il ventre, che pare abbassarsi e sollevarsi. I
corpi celesti sostenuti da Atlante sono stati disegnati nell’etere tali e
quali: ecco il toro, come brilla in cielo, e le orse sono uguali a quelle
che vediamo lassù; ecco i venti, che soffiano ora nella stessa direzione, ora in direzioni diverse, fedeli qui come in cielo alle loro amicizie
e rivalità. Oggi, Eracle, sostieni questi esseri, ma presto vivrai in cielo
tra loro, tenendo in una mano la coppa e abbracciando con l’altra la
bella Ebe171. Perché sposerai la più giovane e la più vecchia degli dèi: la
più vecchia, perché se anche gli dèi sono stati giovani è grazie a lei.
2.21 Anteo. Una nube di polvere, come nelle lotte che si svolgono
presso la fonte d’olio, e due atleti. Uno si copre le orecchie con la
cuffia, l’altro si toglie dalla spalla una pelle di leone. Tumuli funerari, colonne e iscrizioni incise sono tutti dettagli che ricordano la
Libia e Anteo, vero brigante partorito dalla Terra per sfidare alla
lotta e derubare i viandanti172. Ecco le imprese del mostro, ecco
come seppelliva nella palestra stessa le sue vittime. Di fronte a lui la
pittura conduce Eracle. L’eroe si è già impossessato delle famose
mele delle Esperidi173: aggirare la sorveglianza delle Esperidi è stato
facile, ma aver ucciso il drago ha dell’incredibile. Senza neppure flettere il ginocchio, come si dice, ancora ansimante per la fatica di una
lunga strada, Eracle si prepara al combattimento con Anteo. Lo
sguardo è fermo, già concentrato sulla contesa, e studia le mosse. Ha
messo un freno alla collera, per non lasciarsi andare a imprudenze.
Gonfio d’orgoglio e pieno di disprezzo per l’avversario, Anteo sembra dirgli «maledetto chi ha figli che…»174 e altre cose simili, facendosi coraggio con queste ingiurie. Poiché è nota l’esperienza di
Eracle nella lotta, non lo si sarebbe potuto rappresentare diversamente: infatti pare robusto, un lottatore provetto, ben proporzionato. Ma ha la statura di un gigante e una bellezza sovrumana: il suo
sangue risplende e le vene gonfie di collera sono in travaglio. Credo
però, ragazzo mio, che Anteo gli provochi anche qualche timore:
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somiglia a una bestia feroce, e ne ha le dimensioni in lunghezza e larghezza. Il collo è unito alle spalle in modo che la maggior parte di
queste sembra farne parte, il petto e il ventre sembrano scolpiti col
martello, la coscia mal tornita e troppo pesante gli conferisce una
gran forza ma lega i movimenti privandolo di destrezza. Questa è la
scena che precede la lotta. Ma hai anche sotto gli occhi la lotta stessa, o piuttosto la sua conclusione con la vittoria di Eracle. L’eroe ha
la meglio sul suo avversario alzandolo da terra, perché la Terra si sollevava venendo in aiuto di Anteo e lo rimetteva in piedi come una
leva ogni volta che cadeva. Dopo che Eracle ha lottato invano contro questo stratagemma, afferra Anteo al centro del corpo, sopra il
ventre e in corrispondenza dei fianchi, lo solleva senza flettersi, poi
lo preme contro la sua coscia trattenendogli le braccia, e mettendo
il gomito sulle parti molli del ventre lo schiaccia impedendogli di
respirare: così uccide Anteo trafiggendogli il fegato con la punta
delle sue stesse coste. Puoi vederlo mentre geme, con lo sguardo
fisso sulla Terra che non può più soccorrerlo. Eracle, invece, nel
pieno vigore delle forze, sorride sulla sua impresa. Osserva con
attenzione la cima delle montagne e pensa che da lì, come da un
posto di osservazione, gli dèi assistono al combattimento. In effetti
la pittura mostra una nuvola d’oro di cui, immagino, gli dèi si servono come riparo, e vedo Ermes scendere per incoronare Eracle che
gli ha regalato lo spettacolo di una lotta così bella.
2.22 Eracle tra i Pigmei. Eracle, che si era addormentato sulla terra
libica dopo aver ucciso Anteo, viene assalito dai Pigmei175 che reclamano vendetta, perché dicono di essere fratelli del gigante, e di
razza, perché pur non essendo atleti o lottatori provetti, sono pur
sempre figli robusti della Terra. Quando escono dal suolo la sabbia
ondeggia come la superficie del mare: i Pigmei in effetti abitano
sotto terra, come le formiche. Hanno le loro riserve e non si nutrono dei beni altrui ma delle loro provviste e delle coltivazioni. Perché
seminano e fanno il raccolto, con carri tirati da cavalli nani, e si
dice perfino che usino l’ascia per le spighe, che per loro sono come
alberi. Che audacia: ecco che avanzano contro Eracle e vogliono
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Filostrato
ucciderlo nel sonno. Ma non si tirerebbero indietro neppure se
fosse sveglio. Eracle, vinto dalle fatiche della lotta, dorme mollemente disteso sulla sabbia: la bocca è aperta, e respira con tutta la
forza dei polmoni, colmandosi di sonno. Il Sonno in persona giace
accanto a lui, e si vanta, credo, di aver messo a terra Eracle. Anche
Anteo è disteso, l’arte rappresenta Eracle che respira e mantiene il
calore della vita, mentre Anteo ha l’aspetto di un cadavere inerte,
reclamato dalla terra. L ’ esercito dei Pigmei ha circondato Eracle:
una falange attacca la mano sinistra, due compagnie marciano contro la mano destra, che è più forte, gli arcieri assediano i piedi e una
truppa intera di fanti armati di fionda si dispone sotto le cosce stupefacenti per la loro imponenza. L ’ assalto della testa sembra il più
difficile, e vi si dirige il re, accompagnato da un corpo di soldati
scelti. Accostano le macchine come se intendessero invadere un
fortino. Ecco il fuoco, per bruciare la chioma, ecco un forcone a
due punte per cavare gli occhi, ecco le assi per chiudere la bocca, e
altre per le narici, perché bisogna che Eracle non possa respirare
quando la testa sarà conquistata. Questo accade durante il sonno,
ma come vedi Eracle si rialza completamente e ride dei suoi nemici formidabili, poi li avvolge tutti nella sua pelle di leone con l’intenzione, penso, di portarli a Euristeo.
2.23 Eracle furioso. Combattete contro Eracle, prodi servitori, avanzate. Che risparmi almeno il bambino che è ancora vivo: due sono
già morti e con l’arco che impugna già mira al terzo, con una precisione che è davvero degna di Eracle. È un’impresa da eroi, ed Eracle
stesso, prima della sua follia, non ha compiuto niente di più arduo.
Ma non temete, non è a voi che pensa: vede Argo, e crede di sterminare i figli di Euristeo. L ’ ho sentito, in Euripide176, nell’attimo in
cui è salito su un carro e spronando i cavalli minacciava di massacrare la stirpe di Euristeo. La follia incorre in errore, perché vede le
cose non come sono ma come non sono. Non ho altro da dire a questi giovani: rivolgi allora lo sguardo alla pittura. Nella sala contro cui
Eracle si precipita sono rinchiusi Megara e uno dei figli di Eracle,
l’ultimo superstite177. Ceste, bacili, l’orzo sacrificale, i ceppi per la
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pira, il cratere, tutti gli oggetti propri del culto di Zeus Herkeios
sono riversi. Il toro è in piedi, ma i nobili figli dell’eroe, le vere vittime, giacciono presso l’altare e la pelle di leone del padre. Uno è
stato colpito al collo e la freccia gli ha trapassato le tenere carni della
gola. L ’ altro è caduto sul ventre, e la punta della freccia che lo ha
ucciso si è incastrata nelle vertebre, come puoi osservare, perché il
corpo è disteso di fianco. Le loro guance sono bagnate di lacrime.
Non ti sorprendano queste lacrime: poco abbondanti, piccole o
grandi che siano, sono d’oro, sono lacrime di bambini. L ’ intera folla
dei servitori si ammassa intorno all’eroe che delira, come i fattori
circondano un toro infuriato: uno cerca di legarlo, l’altro fa in modo
di poterlo trattenere, un terzo grida. Questo si avvinghia alle mani
dell’eroe, quest’altro cerca di fargli perdere l’equilibrio, altri ancora
si avventano su di lui. Ma Eracle neppure vede coloro che lottano
contro di lui e li disperde da un lato e dall’altro, scaraventandoli a
terra. Ha la schiuma alla bocca e sorride in modo strano e terribile.
Tiene lo sguardo fisso sull’opera che le sue stesse mani hanno compiuto, ma il suo spirito è distolto dalla realtà per opera di un immagine ingannevole. La sua gola geme, le vene del collo sono gonfie e
lasciano salire la malattia nelle parti decisive della testa, con la sua
carica di effetti nefasti. Questo disordine è l’opera dell’Erinni che
tante volte hai visto in scena, ma che qui non appare178: si è impossessata dello stesso Eracle, e si abbandona alla sua furia nel petto
dell’eroe, balzando con impeto e turbando profondamente il suo
senno. Ecco l’argomento del nostro quadro. Fin qui la pittura, ma i
poeti la superano in audacia: cantano Eracle in catene, eppure
sostengono che Eracle stesso abbia liberato Prometeo179.
2.24 Teodamante. Se quest’uomo è selvaggio, per Zeus, selvaggia è
anche la regione. Ecco l’isola di Rodi e il territorio di Lindo, il più
roccioso dell’isola. La vigna e il fico crescono rigogliosamente, ma è
impossibile lavorare la terra e non ci sono strade per i carri. Questo
vecchio ancora acerbo, dal viso scuro, dobbiamo credere che sia un
fattore. Si chiama Teodamante di Lindo, e forse ne avrai sentito
parlare180. Che coraggio: Teodamante affronta Eracle che davanti a
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Filostrato
lui sgozza e divora un bue della sua mandria. Un pasto simile rientra
nelle abitudini dell’eroe: avrai letto in Pindaro181 che quando Eracle
entrò in casa di Coroneo divorò un bue intero, comprese le ossa.
L ’ eroe si è imbattuto in Teodamante nel momento in cui toglieva il
giogo ai buoi, ha acceso un fuoco servendosi di sterco, ed ecco che
arrostisce il bue sui carboni ardenti, tastando le carni per controllare
la cottura e manca poco che sgridi il fuoco per la sua lentezza. La pittura mostra perfino il carattere distintivo della terra, perché anche
dove il suolo accoglie la coltura mi pare che si veda bene , se non mi
inganno, come non sia fertile. Eracle pensa soltanto a divorare il bue:
le imprecazioni di Teodamante lo fanno sorridere appena. Il fattore
attacca Eracle tirandogli sassi: la chioma è incolta, il viso immondo,
le braccia e le ginocchia sono le stesse che la terra amata dà agli atleti che lottano contro di lei. Dai tempi di quest’impresa contro Eracle,
Teodamante è venerato dagli abitanti di Lindo, che sacrificano un
bue da tiro a Eracle, e iniziano il rito imprecando come il fattore si
rivolse a Eracle. E poiché ad Eracle piace sentirle, concede ogni bene
agli abitanti di Lindo, ricompensandoli per le loro maledizioni.
2.25 I funerali di Abdera. Non crederemo certo, ragazzo mio, che
rapire le giumente di Diomede ed ucciderle con la mazza sia stata
per Eracle un’ardua impresa182. Una giace morta, l’altra geme, questa diresti che voglia alzarsi, quella si abbatte: tutte hanno la criniera irta e lo zoccolo ricoperto di pelo, come vere bestie selvagge. Le
mangiatoie traboccano di carni e ossa umane, il solo pasto ammesso nelle stalle di Diomede. Ed ecco il padrone, ancora più selvaggio,
riverso tra le sue giumente. L ’ impresa più difficile per Eracle fu
quella che gli comandò Eros, dopo tanti altri, perché un dolore crudele si aggiunse in questo caso alla fatica. Eccolo allora mentre conduce il corpo di Abdera, dopo averlo strappato ai denti delle cavalle, divorato a metà. Ancora giovane, più di Ifito, ha avuto la sfortuna
di essere dato in pasto a questi mostri. Quel che resta di lui ci permette di farci un’idea del suo passato aspetto, poiché i resti racchiusi nella pelle di leone conservano ancora una certa bellezza.
L ’ eroe ha versato lacrime su queste spoglie inanimate, ha stretto il
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cadavere tra le braccia lamentandosi, e il suo viso si è rabbuiato per
il dolore: sono segni di affetto comuni anche ad altri amanti, e se
qualcuno innalza una stele sulla tomba del bel giovane che amava,
Abdera meritò un omaggio più raro, poiché Eracle fondò una città
intera che noi ancora oggi chiamiamo con lo stesso nome, istituendovi giochi in modo che presso la tomba ci si contendesse il premio
del pugilato, del pancrazio, della lotta e di ogni esercizio, ad eccezione della corsa dei cavalli.
2.26 Doni ospitali. Questa lepre chiusa in gabbia è stata catturata con
la rete: seduta sulle zampe posteriori agita dolcemente quelle anteriori, tende l’orecchio e spalanca gli occhi. Vorrebbe guardare dietro
di sé, tanto è inquieta, e trema senza sosta. Quest’altra appesa a un
ramo secco di quercia, col ventre squarciato e le zampe scuoiate, è
prova della rapidità del cane che siede ai piedi dell’albero, dove si
riposa e mostra di aver catturato da solo la bestia. Ecco le anatre –
contale: dieci – e un numero uguale di oche. Non c’è bisogno di palparle per vedere che sono state spennate in corrispondenza del petto,
che è la parte più grassa degli uccelli acquatici. Se ti piacciono i pani
al lievito o quelli divisi in otto parti, ecco qui un gran cesto. E se ti
piace il pane condito, questi stessi pani ti accontenteranno, perché
sono preparati con finocchio, prezzemolo e semi di papavero, che
dànno un dolce sonno. Se poi sei impaziente di metterti a tavola,
manda queste provviste al cuciniere, ma nel frattempo placa la tua
fame con le buone cose che non hanno bisogno di fuoco. Perché non
prendi i frutti dalle due ceste? Non sai che basta anche una piccola
esitazione e già non li ritroverai più come li vedi adesso, con il loro
ornamento di rugiada? E non disdegnare i dolci, se non hai avversione per le nespole o per le ghiande di Zeus, frutti bizzarri che hanno
un guscio irto di spine ma crescono sull’albero più liscio. Il miele vale
niente al confronto di questo frutto che siamo soliti chiamare palateo, ma chiamalo pure come credi, niente è più dolce. Le foglie di
fico che avvolgono il paniere gli dànno un aspetto ancora più gradevole. Mi pare che la pittura offra questi doni al padrone della terra,
ma senza dubbio il padrone è andato ai bagni, e vuole un vino di
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Filostrato
Pramno o di Taso quando invece alla sua stessa tavola potrebbe bere
un vino delizioso, poi tornare in città tutto profumato di vendemmia
e d’ozio e vomitare sul primo cittadino che incontra.
2.27 La nascita di Atena. Sono dèi e dee quelli che vedi, così stupiti. È
stato dato ordine a tutti di non lasciare il cielo e presentarsi, perfino
alle ninfe, insieme ai fiumi che le hanno generate183. Tremano alla
vista di Atena che è appena uscita armata di tutto punto dalla testa di
Zeus, aperta grazie agli stratagemmi di Efesto, come l’ascia lo rivela184.
Non si capisce di che materiale sia fatta l’armatura della dea: quanti i
colori dispiegati da Iris, che riflettono la luce in mille modi, tante sono
le sfumature delle armi di Atena. Sembra che Efesto si chieda impaziente come potrà ottenere le grazie della dea: poiché non potrà
regalarle le armi che Atena possiede dalla nascita, ha già perso l’occasione di farle piacere. Zeus sospira beato come chi ha ottenuto un
bel premio al prezzo di un duro lavoro, contempla la figlia e sembra
fiero della sua opera. Era non sembra affatto adirata, e gioisce come
se Atena fosse nata da lei. E già su due acropoli di due città due
popoli, di Atene e di Rodi, la terra e il mare, offrono sacrifici alla dea.
A Rodi, dove non si usa il fuoco, la cerimonia resta incompleta. Presso
gli Ateniesi invece non manca nulla: il fuoco, il grasso bruciato delle
vittime, il fumo che si innalza dall’altare spandendo un dolce profumo
di cui la pittura quasi ci rende l’aroma. La dea si reca dunque presso
gli Ateniesi, che sono i più accorti e sapienti nell’arte dei sacrifici185.
Sulla gente di Rodi si squarcia invece una nube che libera una pioggia
d’oro, riempiendo le case e le strade: così Zeus li ringrazia di aver salutato la nascita di Atena186. Ecco Pluto in cima all’acropoli: è rappresentato con le ali, disceso dalle nuvole. È d’oro, poiché si è manifestato nelle sembianze di questo metallo, e ha anche gli occhi, poiché non
è alla cieca che si è recato presso la gente di Rodi187.
2.28 Le tele. Di fronte a una bella pittura che rappresenta Penelope
all’opera tessi le lodi della pittura: ecco, dici, una vera tela, i fili
dell’ordito sono ben tesi, gli ornamenti si intravedono sotto i licci, si
sente quasi il canto della spola. Penelope piange lacrime vere, simili
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a neve sciolta, secondo le parole di Omero188, e disfa da sé la propria
opera. Osserva ora, nei pressi, il lavoro di un ragno per vedere se non
sia un artigiano migliore di Penelope e persino dei Seri189, che fabbricano tessuti sottilissimi e quasi invisibili. Si tratta del vestibolo di
una casa senza fortuna: si direbbe che sia abbandonata, all’interno si
intravede un cortile deserto, le colonne hanno ceduto inclinandosi e
non sostengono più nulla. Unici abitanti sono i ragni, animali che
cercano il silenzio per tessere la tela. Guardali adesso all’opera, mentre lasciano cadere a terra il filo che tirano fuori dal ventre. Il pittore ce li mostra mentre scendono e salgono su questa scala, insetti
capaci di grandi voli, come li chiama Esiodo190, che appunto si esercitano a volare. È negli angoli che tessono le loro dimore, alcune piatte e altre di forma concava: nelle prime rimangono durante l’estate,
mentre le altre offrono un comodo rifugio durante l’inverno. Altro
successo del pittore, il suo ragno minuziosamente riprodotto, irsuto
e ricoperto di macchioline come in natura, ha un aspetto in certo
modo minaccioso e selvaggio. Da questi dettagli comprendi che l’artista è abile e cerca la verità, al punto che ha disegnato perfino i fili
più sottili della tela. Guarda, un filo quadrato tende come un cavo gli
angoli della tela leggera, formata da più cerchi concentrici. Questi
cerchi sono collegati, dal primo e più grande al più piccolo da fili che
li attraversano in linea retta, separati da una distanza uguale a quella
che c’è tra i cerchi. Gli artigiani si spostano sulla tela per tendere i
licci che hanno ceduto, e in effetti trovano la ricompensa per le loro
fatiche, perché divorano le mosche catturate dalle loro trappole. Il
pittore non ha tralasciato di rappresentare le prede. Una mosca è
trattenuta per la zampa, l’altra per la punta dell’ala, la testa di un’altra è già stata divorata. Le vittime fremono cercando di fuggire, ma
non riescono a spezzare o ad allargare le maglie della rete.
2.29 Antigone. Tideo e Capaneo, Ippomedonte e Partenopeo191 sono
tra i morti e saranno seppelliti dagli ateniesi che hanno combattuto
per recuperare i loro cadaveri. Polinice, invece, figlio di Edipo, è seppellito dalla sorella Antigone. È uscita nottetempo dalle mura, e
affida il fratello alla terra patria che un editto voleva proibirgli, col
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Filostrato
pretesto che quella stessa terra Polinice intendeva asservirla. La
piana è coperta di corpi ammucchiati, di cavalli riversi nel punto in
cui sono caduti, di armi abbandonate dai soldati e di questo fango
insanguinato che, a quanto si dice, riempie di gioia Enio192. Ai piedi
delle mura, tra i cadaveri dei capi riconoscibili per le dimensioni
sovrumane, scorgiamo Capaneo, simile a un gigante sia per la statura che per come è morto: colpito dalla folgore di Zeus, è avvolto dal
fumo. Antigone ha sollevato il corpo di Polinice, grande quanto
quello degli altri capi, per seppellirlo nella tomba di Eteocle, pensando così di poter riconciliare i fratelli: è ormai la sola pace possibile. Che diremo, ragazzo mio, della sapienza della pittura? La luna
versa sulla scena una luce incerta. Impaurita, la ragazza che tiene
con le braccia robuste il corpo del fratello sta per emettere un gemito, ma trattiene il grido sulle labbra, temendo di poter essere udita
dalle guardie, e si guarda intorno per poi fissare lo sguardo sul fratello, con un ginocchio poggiato a terra. Il melograno che vedi è cresciuto spontaneamente, si dice che le Erinni lo abbiano fatto germogliare sulla tomba: se raccogliessi un frutto, ancora adesso il
sangue sgorgherebbe dall’albero193. Il fuoco acceso per la cerimonia
funebre ha anch’esso un aspetto sorprendente, perché non è riunito
in un unico fascio: invece di fondersi, le fiamme si separano formando focolai distinti, e rivelano così che i due fratelli nemici
rimangono tali perfino nella tomba.
2.30 Evadne. Che cosa sta a indicare questa pira su cui giacciono
delle vittime sgozzate e un cadavere di dimensioni straordinarie?
Chi è questa donna che si getta con impeto nelle fiamme? Questa
pittura, ragazzo mio, ci conduce nella città di Argo, dove Capaneo è
seppellito dai suoi194. L ’ eroe è morto a Tebe, quando già era riuscito a scalare le mura della città. Hai ascoltato i poeti195 cantare come
fosse folgorato da Zeus che volle punirlo per la sua arroganza, e come
morisse prima ancora di toccare terra cadendo, lo stesso giorno in cui
anche altri capi perirono in terra cadmea. Dopo la vittoria ateniese,
che garantisce a tutti la sepoltura, Capaneo viene esposto: riceverà gli
stessi onori tributati a Tideo, a Ippomedonte e agli altri, ma ce n’è
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uno che gli dà un vantaggio rispetto agli altri re e capi. Evadne ha
voluto morire sul suo cadavere: non avvicina la spada alla gola, non si
impicca a una corda, come fanno le vedove disperate, ma si getta nel
fuoco, convinta che non potrebbe ritrovare il marito se questi non la
trovasse al suo fianco. Questo è l’omaggio funebre che riceve
Capaneo. Sua moglie, prendendo esempio da chi decora le vittime di
corone e d’oro per rendere il sacrificio più solenne e gradito agli dèi,
ha indossato i suoi ornamenti più belli. I suoi sguardi non mirano a
suscitare pietà, e si direbbe che lanciandosi in mezzo alle fiamme
chiami suo marito, perché sembra che gridi: sono certo che per salvare Capaneo avrebbe prestato la testa ai colpi della folgore. Gli
Amori si occupano di accendere la pira con le loro torce: sono certi
che la fiamma non sarà coperta di vergogna, ma abbellita e resa più
pura, quando avrà reso gli ultimi onori a chi ha saputo amare.
2.31 Temistocle. Un greco in mezzo ai barbari, un uomo che non si
trova tra uomini ma tra esseri incivili e dissoluti. È un ateniese, perché indossa il loro tipico mantello, e pronuncia, credo, un discorso
eloquente per redimere il suo uditorio e sottrarlo alla mollezza. Ci
troviamo tra i Medi, nel cuore stesso di Babilonia: ecco l’insegna
reale, l’aquila d’oro sullo scudo, ecco il re in persona sul suo trono
d’oro, agghindato come un pavone. Non staremo a lodare il pittore
per l’imitazione della tiara, della calasiris, del candis e degli animali
fantastici che i barbari ricamano sulle loro stoffe, ma per questi fili
d’oro abilmente frammisti ai tessuti e disposti secondo forme inalterabili196. Ma anche, per Zeus, per l’effigie di questi eunuchi. Ed è oro
vero quello che brilla nella corte del palazzo, dipinto in modo che
non sembri una pittura ma un edificio vero. Profumi d’incenso e
mirra giungono fino a noi, perché i barbari sottraggono all’aria la sua
purezza naturale viziandola con profumi. Di questi due dorifori, diremo che discutono del personaggio greco di cui la loro intelligenza
stupefatta intuisce vagamente la grandezza. Credo che Temistocle,
figlio di Neocle, si sia recato da Atene a Babilonia, dopo l’immortale
vittoria di Salamina, poiché non trovava in Grecia nessun rifugio
sicuro, e si intrattenne con il Gran Re sui servigi che aveva reso a
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Filostrato
Serse quando era generale dell’armata greca. L’apparato dei re medi
non lo spaventa e parla con fermezza, come dall’alto della tribuna. La
lingua non è la nostra ma quella dei Medi, che aveva studiato a lungo
in Persia. Se non mi credi, osserva come il suo auditorio mostra di
comprendere con l’espressione dello sguardo, e come Temistocle
stesso, che ha il contegno di un oratore, lascia vagare lo sguardo
come fa un uomo che si esprime in una lingua appresa di recente.
2.32 Palestra. Abbiamo di fronte agli occhi il luogo più bello
dell’Arcadia, il favorito da Zeus: la pianura di Olimpia. Non vi sono
ancora uomini in lotta, poiché ancora non conoscono la passione
della contesa, ma il momento è vicino. Palestra, figlia di Ermes, è già
nel fiore degli anni197: ha già inventato la lotta e la terra gioisce di
questa scoperta che, dando tregua alle dispute degli uomini, li obbligherà a deporre le armi, e farà loro preferire al campo di battaglia lo
stadio, dove combatteranno nudi. Questi ragazzi sono le diverse
figure della lotta: balzano petulanti intorno a Palestra, e ubbidendo
alle sue leggi piegano i loro corpi in mille posizioni diverse. Si direbbe che siano nati dalla terra, perché la vergine mostra con il suo
aspetto virile che non si sottometterà docilmente al giogo del matrimonio e non avrà figli. E poi le figure della lotta sono molto diverse
tra loro: la migliore è quella del pancrazio. L ’ aspetto di Palestra è
quello di una ragazza se la si confronta con un ragazzo, ma sembra
un ragazzo se la si compara a una ragazza. La chioma è troppo corta
per poter essere raccolta, lo sguardo non appartiene a un sesso più
che all’altro, il sopracciglio indica il suo disprezzo per gli amanti, e
perfino per i lottatori: sembra dire che si sente forte contro gli uni
e gli altri, e che nessuno riuscirà a toccarle il seno lottando, tanto è
forte. Il petto somiglia a quello di un adolescente, e ha seni appena
formati. I suoi gusti non sono femminili: non vuole avere le braccia
bianche e splendenti e certamente disapprova le Driadi che restano
all’ombra per essere bianche. Abita nelle profonde valli dell’Arcadia
e chiede al Sole il favore di una tinta di bronzo: il Sole infatti dà alla
ragazza un riflesso rossastro. Palestra è seduta, e qui, ragazzo mio, è la
grande sapienza della pittura, perché in questo modo il corpo proietta
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ombre più numerose, e la posa non è priva di grazia. Anche il ramo d’olivo su cui Palestra poggia il seno le dona: la dea ama questa pianta, che
dona ai lottatori l’indispensabile olio e fa la delizia degli uomini.
2.33 Dodona. La colomba d’oro, esperta di presagi, è ancora sulla quercia, le sue predizioni provengono dallo stesso Zeus. Ecco anche l’ascia abbandonata dal taglialegna Hello che dà il nome agli Helli di
Dodona. Bende sono sospese all’albero, che dà oracoli come il treppiedi di Pito198. Uno viene a fargli domande, un altro a fare sacrifici.
In questo momento è circondato da un coro di tebani che rendono
omaggio alla loro patria per la saggezza dell’albero. In effetti credo
che sia presso di loro che la colomba dalle ali dorate si è lasciata catturare. Questi indovini di Zeus, i cui piedi non conoscono lavacri e
che dormono sul duro, stando a Omero199, sono persone incuranti
del domani, e prive di mezzi sicuri di sussistenza. E non vogliono
averne, perché così fanno piacere a Zeus, accettando le cose come
vengono. Si tratta dei sacerdoti di Zeus: uno ha l’incarico di apprestare le mura del tempio, un altro recita le invocazioni, questo dispone i dolci sacri, quest’altro l’orzo e le ceste, quello sgozza la vittima,
quell’altro la scuoia. Da questo lato, riconosci le sacerdotesse di
Dodona200 per il loro aspetto altero e venerando, si direbbe che
mandino il profumo delle libagioni e degli unguenti. Il pittore ha rappresentato in effetti il fumo dell’incenso che avvolge tutto, perfino le
voci divine che vi risuonano. Ecco una statua di bronzo di Eco in atto
di mettere, come vedi, la mano sulla bocca. Tra le offerte consacrate
a Zeus nel tempio di Dodona c’era un bacile che risuonava per la
maggior parte del giorno, e taceva soltanto se lo si toccava.
2.34 Le Ore. Che le porte del cielo siano affidate alla guardia delle
Ore, soltanto Omero ha saputo cantarlo201, perché con le Ore ha vissuto, nel cielo che è stato la sua prima dimora. Ma ogni uomo è in
grado di riconoscere l’argomento della pittura. Scese dal cielo nella
forma che è loro propria, con le mani intrecciate, le Ore percorrono,
credo, il giro dell’anno, e la terra che è esperta nell’arte di rendersi
gradita produce per loro le ricchezze di tutte le stagioni. Non dirò
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Filostrato
alle Ore della primavera di non calpestare il giacinto e le rose, perché allora i fiori saranno più belli, e avranno il profumo che le Ore
stesse emanano. Non dirò alle Ore dell’inverno di non camminare
sulla morbida terra dei solchi, perché le spighe nasceranno sulle loro
orme. Queste, bionde, camminano sulla punta delle spighe senza
spezzarle o piegarle tanto sono leggere e tanto poco pesano sulle
messi. È un magnifico spettacolo vedervi, vigne, mentre cercate di
trattenere le Ore dell’autunno, perché le amate, queste Ore alle
quali dovete la vostra bellezza e l’umore zuccherino dei vostri frutti. È una sorta di raccolto della pittura, e le Ore sono splendide,
dipinte con arte sopraffina. Guarda come cantano, con che rapidità
girano in tondo, come nessuna è ritratta di spalle e tutte sembrano
venire incontro a chi guarda. Hanno un braccio alzato, la chioma
sciolta ondeggia, le guance sono ravvivate dalla corsa, e gli occhi
stessi partecipano al ritmo. Non so se ci permetteranno di raccontare una storia sul pittore: mi sembra infatti che abbia incontrato le
Ore mentre danzavano, e che si sia messo all’opera ascoltando il loro
invito irresistibile, perché le dee intendevano mostrare così che c’è
un’ora giusta per dipingere.
Note al testo
1. Endiadi che allude alle varietà del marmo bianco di Paro.
2. Autore a noi altrimenti ignoto.
3. Filostrato ricorda Eumelo anche nelle Vite dei sofisti (I I , 5), attribuendogli un
ritratto di Elena.
4. Testimonianza dello sviluppo urbanistico fuori le mura di Napoli, che risale
essenzialmente al periodo imperiale.
5. Il termine pivnax indica una pittura stesa su un pannello di legno.
6. Il testo ha eJrmhneuvein ta;ç grafavç, spiegare le immagini dipinte, poi ejpivedixin,
esposizione retorica.
7. Cfr. Iliade, X X I . Lo Scamandro è il fiume che scorre nella regione di Troia.
Il suo nome divino è Xanto, ovvero “biondo fulvo”.
8. Per l’iconografia di Efesto si veda ad esempio il Vaso François di Vulci,
l’Anfora Vivenzio del British Museum e l’Ara di Pergamo.
9. Filostrato personifica il kw'mo", corteo di convitati accompagnato da musicanti sotto gli auspici di Dioniso.
10. Nella tradizione orfica, Nyx, la notte, è rappresentata come un uccello nero
che depose nell’oscurità un uovo d’argento, fecondato dal vento, da cui nacque
Eros dalle ali d’oro.
11. Cfr. i frr. 24 e 166 Tarditi.
12. Personaggio di Menandro poi ripreso da Terenzio, archetipo del personaggio
del servo beffardo che avrà lunga fortuna nella commedia.
13. I riferimenti letterari sono a Eschilo, Sette contro Tebe, Sofocle, Antigone e
soprattutto Euripide, Le Fenicie. A capo delle sette armate dell’esercito di
Polinice sono Adrasto, Anfiarao, Tideo, Capaneo, Ippomedonte e Partenopeo.
14. Si tratta di Platone (cfr. Repubblica, V 474e).
15. I Bracci sono la personificazione dell’unità di misura corrispondente.
16. Filostrato stabilisce una polarità tra l’unicità dell’Eros divino e la molteplicità
98
Filostrato
degli amori umani, cioè essenzialmente tra la tradizione platonica e la moltiplicazione della figura di Eros che risale alla poesia ellenistica e sarà consacrata dagli
autori latini. La maternità degli amori non è più attribuita ad Afrodite, come
nelle versioni più antiche del mito, ma alle Ninfe, divinità minori, legate a elementi del mondo naturale qui variamente richiamati nell’ékphrasis.
17. Afrodite era detta anche “dei giardini”, per via dei giardini consacrati alla dea
ad Atene.
18. Achille aveva infatti una lancia di frassino (cfr. Iliade, X V I 139).
19. In Etiopia si trovano le sorgenti del cosiddetto Nilo Azzurro. Le reali sorgenti
del Nilo furono scoperte alla fine del Diciannovesimo secolo nell’odierna Uganda.
20. Memnone era un principe etiope, figlio di aurora e Titone (cfr. Odissea,
X I 522). L ’ eroe è raffigurato su una kylix attica a figure rosse attribuita al pittore Douris e in un dipinto perduto di Polignoto, descritto da Pausania (X 31, 7).
21. Cfr. Filostrato, Vita di Apollonio, V I 4. Si tratta delle statue colossali di
Amenofi I I I a Tebe in Egitto. Anche secondo la descrizione di Luciano
(Philopseudes; Tossari) la statua di Memnone cantava all’aurora, quando il calore
del sole riscaldava l’aria che, attraversando un foro posto in fondo alla bocca
aperta, produceva un suono simile a quello di una lira.
22. Cfr. Iliade, X I I I 17.
23. Una delle figlie di Danao.
24. Filostrato riprende qui la descrizione omerica dell’unione di Poseidone e Tiro
(Odissea, X I 241).
25. Cfr. Filostrato, Vita di Apollonio, V I 11. Il testo riecheggia la descrizione
omerica della terra dei ciclopi (Odissea, I X , 109), poi quella dello Scamandro
(Iliade, X X I 350).
26. Cfr. Teofrasto, Historia plantarum, V .
27. Cfr. Inno omerico a Ermes.
28. Anfione, figlio di Zeus e Antiope, si sarebbe servito della lira per la costruzione della cinta muraria di Tebe che il mito gli attribuisce insieme al fratello
gemello Zeto. Il mito riecheggia in parte quello, più antico, di Orfeo.
29. Cfr. Iliade, I V 105.
30. L ’ accostamento è di Eraclito (fr. 22 B 51 D K ).
31. Fetonte è figlio di Elio e di Climene secondo una delle versioni del mito tramandate da Igino (52 A ).
32. Fiume mitico identificato con il Po, dove si raccoglieva l’ambra in cui secondo la tradizione qui riportata si erano trasformate le lacrime delle Eliadi.
33. Fiume della Lidia.
34. Il Danubio.
35. Vento che soffia da occidente.
36. Il termine iJerovn indica genericamente un tempio, ma un luogo chiamato
Hieron è menzionato da Erodoto (I V 87, 4).
Immagini
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37. Di per sé l’incipit rende ragione della ripetizione, variamente emendata dagli
editori e ripresa da Bougot.
38. Lett. il “mare ospitale”, l’odierno Mar Nero.
39. L ’ odierno Mare d’Azov.
40.Bronte è la personificazione del fulmine, Astrape del lampo.
41. Filostrato fa riferimento alla versione del mito tramandata da Pausania (IX, 16,
5). Era, gelosa di Semele, la convince con l’inganno a chiedere a Zeus di assumere
la forma di folgore per unirsi a lei. Dall’unione, fatale per Semele, nascerà Dioniso.
42. Cfr. Erodoto, I I 17, 11.
43. Cfr. Euripide, Le baccanti.
44.Pan compare spesso nel seguito di Dioniso, con sembianze simili a quelle dei
satiri e spesso sdoppiato in un gruppo di figure dai tratti analoghi.
45. Catena montuosa situata tra la Beozia, la Megaride e l’Attica e sacra a Dioniso.
46. Una delle Erinni o Megere, rappresentate come donne alate, con serpenti per
capelli e occhi che lacrimano sangue.
47. Atteone, figlio di Aristeo e di Autonoe, sorella di Semele, fu divorato dai suoi
cani perché aveva scorto Artemide fare il bagno nella sorgente.
48. Penteo, figlio di Echione e di Agave, sorella di Semele fu punito da Dioniso
perché si era opposto all’introduzione del culto del dio nel suo regno: pertanto
fu dilaniato dalla madre e dalle sorelle Ino e Autonoe che, in preda al furore bacchico, lo scambiarono per un leone mentre si nascondeva dietro un albero per
spiare le Menadi.
49. Figlia di Minosse e Pasifae, dunque sorella del Minotauro.
50. L ’ identificazione è incerta: si tratta probabilmente di un isolotto di fronte a
Nasso, o forse della stessa Nasso, ma il nome è comune a molte isole greche che
rivendicavano il culto di Arianna.
51. Secondo una delle innumerevoli versioni del mito, qui ripresa da Filostrato,
Dioniso avrebbe indotto Teseo all’oblio perché di ritorno ad Atene da Creta,
dove aveva sconfitto il Minotauro, lasciasse Arianna sull’isola. Secondo Omero
Dioniso avrebbe invece chiesto ad Artemide di uccidere Arianna, colpevole di
aver tradito Teseo (Odissea, X I 322).
52. Cfr. Anacreonte, fr. 31 Page.
53. Cfr. Iliade, X V I I 590.
54. Pasifae, “la splendente”, era figlia del Sole e di Perseide.
55. Un oracolo aveva rivelato a Enomao, re di Pisa (città dell’Elide che Filostrato
colloca però nella mitica Arcadia), figlio di Ares, che il marito di sua figlia
Ippodamia lo avrebbe ucciso. Poiché il padre Ares gli aveva donato cavalli velocissimi, per sfuggire al suo destino decise allora che la figlia avrebbe sposato chi
fosse riuscito a batterlo nella corsa dei carri. Pelope, figlio di Tantalo (dunque
discendente di Zeus) lo sfidò a gareggiare, forte dei cavalli alati che Poseidone gli
aveva offerto come pegno d’amore. Per assicurarsi la vittoria, però, corruppe
100
Filostrato
l’auriga di Enomao, Mirtilo, che in cambio di metà del regno manomise il carro del
re. Il mito è rappresentato nel frontone orientale del tempio di Zeus a Olimpia.
56. Il testo è intriso di riferimenti alle Baccanti di Euripide. Cfr. Immagini 1.14
(Semele).
57. Figlia di Cadmo e madre di Penteo.
58. Il serpente è caratteristico nell’iconografia di Cadmo e Armonia, come si può
constatare soprattutto in alcuni pinakes ritrovati a Locri.
59. Secondo la versione tradizionale del mito, Dioniso viaggiava da Icaria a Nasso
a bordo di una nave pirata dei Tirreni. I marinai, tuttavia, intendevano segretamente vendere Dioniso come schiavo in Asia. Dioniso allora, mutandosi in pantera (o in leone), tra suoni di flauti trasformò in serpenti i remi e l’albero della
nave, che fu interamente avvolta dall’edera. I pirati, stravolti, si gettarono in mare,
dove furono trasformati in delfini. Secondo Erodoto (I , 94), Ati, re della Lidia,
aveva inviato il figlio Tirreno ad esplorare nuove terre per sfuggire a una tremenda carestia. Tirreno avrebbe colonizzato la regione degli Umbri. Una lunga tradizione storiografica ha riconosciuto in quei coloni gli antenati degli Etruschi.
60.Filostrato allude alle origini del culto dionisiaco e in particolare alle Baccanti di
Euripide, in cui si racconta l’arrivo a Tebe di Dioniso seguito da donne frigie e lidie.
61. Diversa la versione tradizionale del mito, su cui si basava Frisso, tragedia perduta di Euripide: Palemone si sarebbe trasformato in un animale marino quando la
madre si gettò in mare con lui per sfuggire alla follia omicida del marito Atamante.
62. Fonte dell’aneddoto è ancora una volta Erodoto (I , 23): Arione fu salvato dai
delfini quando i marinai che lo riportavano in patria lo gettarono in mare per
rubargli il premio vinto nel corso di una gara poetica in Sicilia.
63. La vetta più alta del Peloponneso, che aveva dato i natali a Ermes.
64. Marsia lanciò una sfida musicale ad Apollo. Sconfitto, fu legato a un albero e
scuoiato vivo dal dio: il suo sangue si trasformò in un torrente. Pare che un affresco perduto di Zeusi lo rappresentasse legato all’albero.
65. Abile suonatore di flauto, allievo di Marsia, spesso considerato inventore
dello strumento (cfr. Ovidio, Metamorfosi, V I 393 e Immagini 1.21).
66. Cfr. Immagini 1.20.
67. Mitico re di Frigia, noto per le sue ricchezze, è strettamente legato alla figura di Dioniso, che gli aveva offerto di esaudire qualunque desiderio in cambio
della generosità mostrata nei confronti di Sileno.
68. Apollo fece crescere a Mida orecchie d’asino perché si era pronunciato a
favore di Pan in una gara di musica. Il barbiere del re, che aveva scoperto il segreto, giurò di non rivelarlo a nessuno. Non riuscendo a trattenersi, per non tradire
la promessa si confidò parlando in una crepa del terreno. In quel punto però
crebbe una canna, che prese a ripetere ai passanti le parole del barbiere.
69. Così Nemesi aveva punito Narciso, che non aveva ricambiato l’amore della
ninfa Eco. Come Giacinto (cfr. Immagini 1.24) si trasformerà in fiore.
Immagini
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70. Cioè l’iniziale Y di Hyakinthos. Secondo altri, sul fiore nato dal sangue di
Giacinto, si poteva leggere A I A I , ovvero il grido di dolore del giovane colpito
dal disco di Apollo e deviato da Zefiro, desideroso di vendicarsi di Giacinto che
non aveva ricambiato il suo amore preferendogli Apollo. La figura di Giacinto è
legata all’iconografia dell’androgino. Pausania ne descrive la tomba riccamente
istoriata, nella città di Amicle.
71. Sul passo si veda H.A. Harris, Philostratus, Imagines I. 24. 2, «The Classical
Review», 11 (1961), pp. 3-5.
72. Isola delle Cicladi a sud-est dell’Eubea dove il culto di Dioniso era particolarmente diffuso.
73. Il fiume più grande della Grecia, scorre tra Acarnania ed Etolia sfociando
nello Ionio.
74. Due fiumi portano il nome di Peneo, uno in Tessaglia, l’altro nell’Elide. Il dio
fluviale è figlio di Oceano e Teti e padre di Dafne.
75. Fiume della Lidia.
76. Disseminazione tarda della figura di Tritone, figlio di Poseidone e di Anfitrite,
i Tritoni vengono rappresentati come creature marine per metà umane.
77. Si tratta di due momenti distinti della vicenda. Appena nato, già Ermes rubò ad
Apollo una mandria di buoi che pascolavano nella Pieria, e li nascose a Pilo. Apollo
invocò allora il giudizio di Zeus ma, secondo una versione del mito ripresa da
Orazio (Carmi, I 10, 11), in quel frangente Ermes gli rubò anche l’arco e la faretra.
78. Odissea, V I 42.
79. Le Ore stavano a guardia delle porte dell’Olimpo.
80.Figlio di Oricle e Ipermestra, partecipò alla spedizione degli Argonauti e alla
guerra contro Tebe, dove era destinato a morire secondo quanto, indovino, aveva
predetto egli stesso. Inseguito da Periclimeno fu soccorso da Zeus e Apollo che
spalancarono la terra sotto i suoi piedi per sottrarlo al nemico.
81. Cioè la rocca di Tebe.
82. Cfr. Eschilo, Sette contro Tebe, 430.
83. Personificazione della città di Oropo, nei pressi della quale si svolge la scena
e dove sorse un santuario dedicato ad Anfiarao, sede di un oracolo famoso.
84. Reminiscenza omerica (Odissea, X I X 562), ma cfr. anche Parmenide (28 B 9
D K ).
85. Il riferimento alla preda è anche un’allusione all’ékphrasis precedente, poiché
Anfiarao aveva preso parte alla caccia al cinghiale calidonio. Filostrato riprende
peraltro l’espressione utilizzata da Omero per l’animale mitico (Iliade, I X 539).
86. I Galli.
87. Cfr. Platone, Carmide, 153c.
88. Figlia di Cefeo, re dell’Etiopia e di Cassiopea, Andromeda era famosa per la sua
bellezza. Quando la madre ebbe l’ardire di sostenere che era più bella delle Nereidi,
figlie di Poseidone, il dio la punì inviando un mostro marino a devastare l’Etiopia.
102
Filostrato
Cefeo allora incatenò Andromeda a una roccia, offrendola al mostro, poiché solo
quel sacrificio avrebbe messo fine alla piaga. Ma la ragazza fu salvata da Perseo.
89. Il mare cui allude Filostrato in principio è dunque il Mar Rosso.
90.Le vicende di Perseo in Etiopia si svolgono durante il viaggio di ritorno a
Serifo da Tartesso, sulle rive dell’Oceano, dove l’eroe aveva ucciso la Gorgone.
91. Cfr. Immagini 1.17.
92. Una delle Moire.
93. Pelope fu offerto dal padre Tantalo in pasto agli dèi. Solo Demetra addentò la
spalla del bimbo, mentre gli altri si accorsero dell’inganno e risuscitarono l’eroe dandogli una spalla d’avorio (cfr. Euripide, Elena, 389 e Pindaro, Olimpica, I 27).
94. Evidenti le metafore sessuali del fico – attestata in Aristofane Pace, 1350, commedia da cui Filostrato cita successivamente anche l’invocazione a Dioniso (Pace,
520) del passero (che indica anche il libertino, come riporta Esichio), della noce.
95. Reminiscenza omerica (Odissea, V I I 120).
96. Secondo il mito, l’erba tenera cresceva sotto i passi di Afrodite.
97. Paride aggiudicò ad Afrodite il pomo della discordia, preferendola ad Era e
Atena.
98. Fr. 185 Lobel-Page.
99. Secondo Esiodo (Teogonia, 188), Afrodite nacque dal pene di Urano, il cielo,
che Crono aveva reciso e poi gettato in mare. Si diresse dapprima verso Citera,
poi a Cipro, dove approdò nei pressi di Pafo. La versione del mito secondo cui
Afrodite nacque da una conchiglia, attributo tradizionale della dea, è tramandata invece da Eliano (De natura animalium, X I V 28).
100.Iliade, I X 263.
101. Iliade, X 483; X X I 20.
102. Iliade, V I 154.
103. Iliade, X X I V 50.
104.Iliade, X V I 231
105. Iliade, X X I V 673
106.L ’ apprendistato degli eroi veniva tradizionalmente attribuito a Chirone,
figlio di Crono, il più saggio dei Centauri.
107. Iliade, X I X 408.
108. Centauro, che Issione aveva generato unendosi con un’ombra dalle sembianza
di Era, inviata da Zeus.
109.Il Pelio è un monte della Tessaglia, mitica dimora dei Centauri, che furono
tuttavia costretti a spostarsi dopo la sconfitta subita dai Lapiti. Filostrato sembra voler prendere le distanze dall’interpretazione tradizionale di questa mitica
battaglia, o Centauromachia (tempio di Zeus a Olimpia, Partenone, ecc.), che
simboleggiava l’affermazione della ragione sulla barbarie e sulla dissolutezza.
110. Euripide, Ippolito, 73. Tutta l’ékphrasis è intessuta di riferimenti alla tragedia
euripidea.
Immagini
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111. Cfr. H.G. Liddell, R. Scott, H.S. Jones, R. McKenzie, A Greek-English
Lexicon, Oxford up, Oxford 19969, s.v. Nuvsa: «nome di vari colli e città sacri a
Dioniso, di difficile localizzazione geografica: la più famosa è la città dell’India,
ove Dioniso sarebbe morto».
112. Il testo ha ajpaggevllw.
113. Pausania (VIII 40, 1) riferisce di una statua dell’atleta, che vinse all’Olimpiade
del 564 a.C., nella città di Figalia in Arcadia. Cfr. anche Filostrato, Gymnastikos, 21.
114. F. Lissarague (Philostrate, La Galerie de tableaux, cit., ad loc.) mette in rilievo l’ambivalenza dell’aggettivazione, per un verso riferita all’amore per la verità
del giudice, per l’altro alla veridicità della rappresentazione pittorica.
115. Fino a Siracusa, alla fonte Aretusa.
116. Cfr. Iliade, X V 569.
117. Cfr. Iliade, X X I I I . In realtà due talenti (e non mezzo) erano il premio per il
quinto arrivato alla gara dei carri in onore del defunto Patroclo. Antiloco e
Menelao si contenderanno invece il secondo premio, una cavalla di sei anni
indomita e gravida di un mulo.
118. Cfr. Iliade, X V I I I 1.
119. L ’ inversione terminologica delinea un manifesto dell’ékphrasis: au|tai me;n ou\n
ÔOmhvrou grafaiv, to; de; tou' zw/af
v ou dra'ma, ut pictura poesis, ut poesis pictura.
120. Nestore.
121. Diomede.
122. Aiace Telamonio e Aiace di Locri.
123. Odissea, X I 235. Enipeo era il dio di un fiume della Tessaglia. Poseidone ne
assunse le sembianze per sottrargli l’amore di Tiro, con cui generò Pelia e Neleo.
124. Fiume di Smirne. Una tradizione attribuiva al dio fluviale corrispondente la
paternità di Omero.
125. Fiumi della Beozia.
126. Si conserva un rilievo di scuola rodia che raffigura l’apoteosi di Omero con
le nove Muse.
127. Nome di un fiume della Tessaglia (cfr. Iliade, I I 753) e di uno dell’Elide. Il
dio fluviale era figlio di Oceano e Teti.
128. Fiume della Tessaglia (cfr. Iliade, I I 751).
129. Fiume della Tessagia (cfr. Odissea, X I 238).
130. Fiume della Macedonia (cfr. Iliade, I I 850).
131. Fiume della Licia (cfr. Iliade, X I V 434).
132. Nome del grande fiume che circonda la terra. Il dio fluviale generò tutti i
fiumi con Teti. Omero lo chiama «origine di ogni cosa» e «origine degli dèi» (cfr.
Iliade, X I V 246 e 201).
133. Senofonte, Ciropedia, V e V I .
134. Quando il marito partì per la guerra di Troia, Laodamia fece costruire un
simulacro che avesse le sembianze dello sposo. Dopo la morte di Protesilao,
104
Filostrato
Laodamia ottenne che il marito facesse ritorno dagli inferi, e che per tramite di
Ermes le parlasse un’ultima volta, attraverso il simulacro.
135. Evadne. Cfr. Euripide, Supplici, 1054.
136. Cfr. Iliade, V 585.
137. Cfr. Odissea, X I 411.
138. Secondo la tradizione, le ninfe erano oggetto delle insidie amorose di Pan,
tragicamente non corrisposte: per sfuggirgli, Eco si ridusse a pura voce, Pitis si
trasformò in pino, Siringa in canna.
139. Il padre di Pindaro.
140.Antica divinità legata al culto della terra, madre delle figure principali del
pantheon greco, riccamente rappresentata nella scultura e nella pittura vascolare.
141. Monte dell’Attica.
142. Pindaro attribuisce alle muse una voce dolce come il miele (Olimpica, V I 21).
143. La collocazione geografica è incerta, presso Mikonos o al largo dell’Eubea.
144.Secondo Omero (Odissea, I V 499), Poseidone aveva portato soccorso ad
Aiace, salvandolo dal naufragio durante il viaggio di ritorno da Troia. Ma Aiace
aveva offeso il dio attribuendosi il merito della propria salvezza, e pertanto
Poseidone aveva spaccato lo scoglio con il suo tridente lasciando che Aiace annegasse. Solo in apparenza, pertanto, Filostrato si discosta dal testo omerico, dando
in realtà credito, con un fine gioco prospettico, alla versione dei fatti sostenuta
da Aiace nella scena descritta da Omero.
145. Fiume della Tessagia. Il dio fluviale era padre di Dafne e Cirene.
146.Cfr. Erodoto, I I 5.
147. Affluente del Peneo.
148. Sposo della terra è uno degli epiteti tradizionali di Poseidone.
149.Il folto gruppo degli Argonauti comprende pressoché tutti gli eroi della
generazione precedente a quella dei poemi omerici.
150. Scogli che si trovano all’imboccatura del Ponto Eusino, il Mar Nero.
151. Peleo e Telamone.
152. Calais e Zete.
153. Dodona è secondo Erodoto (I I 51) il più antico oracolo di Grecia: Zeus vi
si manifestava attraverso il mormorio del vento tra gli alberi, amplificato da
recipienti di metallo appesi sui rami.
154. Figli di Nefele, la dea nuvola: questa, condannata a sacrificarli per rimediare
alla terribile siccità che aveva scatenato, riuscì a farli fuggire in volo, in groppa a
un ariete dal vello d’oro.
155. Apollonio Rodio, Argonautiche, I 1310.
156. Città della Beozia.
157. L ’ oracolo di Glauco era particolarmente caro alla gente di mare. Egli stesso
pescatore, si trasformò in dio mangiando un’erba capace di risuscitare i pesci, che
era stata seminata da Crono.
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158. Alcione si gettò in mare quando venne a sapere che il marito Ceice era
morto nel corso di una battuta di pesca. Gli dèi, commossi da quel gesto, tramutarono gli sposi in uccelli marini.
159. Ino era la donna mortale che divenne l’amante di Atamante, marito di
Nefele. Quando Atamante, reso pazzo da Nefele, uccise Learco, il figlio illegittimo avuto con Ino, questa si gettò in mare con l’altro figlio, Melicerte.
Secondo la versione più diffusa del mito, gli dèi trasformarono entrambi in divinità marine: Ino divenne Leucotea e Melicerte divenne Palemone. Filostrato
preferisce l’opposizione di mare e terra che ben si accorda con la doppia natura di Poseidone.
160. Lecheo e Cencreo sono due porti di Corinto.
161. In Italia, a Napoli, si svolge la narrazione. Secondo la versione più diffusa del
mito, il gigante Encelado fu seppellito da Zeus sotto l’Etna, dunque in Sicilia. La
stessa sorte toccò al drago Tifone che, fuggito dalla grotta della Cilicia in cui
Zeus l’aveva imprigionato, fu schiacciato dall’Etna. Quale che sia la versione di
questi miti ripresa da Filostrato, l’identificazione delle isole sembra volutamente vaga, benché evidentemente in parte ispirata alla morfologia degli arcipelaghi
siciliani minori.
162. Il mitico vello d’oro.
163. Il drago Ladone aiutava le Esperidi a custodire le mele offerte da Gea in
dono per il Matrimonio di Zeus ed Era.
164.Cfr. Erodoto, V I I I 41.
165. La civetta è sacra ad Atena, dea della saggezza. Cfr. G. Steiner, Owl’s eggs and
Dionysos, «Classical Weekly», 44 (1951), pp. 117-8.
166.Cfr. Odissea, I V 365.
167. Il passo riprende ampiamente Omero, Odissea, I X .
168. Filostrato segue il filo dell’ambientazione siciliana: Polifemo, figlio di
Poseidone e di una ninfa, abita le pendici dell’Etna. Rivale in amore di Aci, per
conquistare Galatea eliminerà l’avversario schiacciandolo sotto un masso.
169.Cfr. Iliade, X X I 407 e Odissea, X I 577.
170. Atlante, sconfitto da Zeus insieme agli altri Titani, fu condannato a sostenere la volta del cielo. L ’ impresa di Eracle richiamata da Filostrato non sembra
trovare riscontro nella tradizione.
171. Dea della giovinezza, figlia di Zeus e di Era, divenne sposa di Eracle quando
questi ascese all’Olimpo. Cfr. Odissea, X I 602.
172. Gigante figlio di Poseidone e di Gea, la terra, da quest’ultima traeva la sua
forza straordinaria. Eracle riuscì a sconfiggerlo sollevandolo da terra. L ’ impresa
precede la cattura dei buoi di Gerione, decima fatica.
173. Cfr. Immagini 2.17.
174. Espressione tipicamente omerica: cfr. Iliade, V I 127 e X X I 151. Per la prima
volta il discorso diretto è utilizzato per dar voce alla pittura.
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Filostrato
175. Aristotele dà notizia dei Pigmei, precisando che non si tratta di un popolo
mitico e attribuendo loro l’uso di cavalli nani e di grotte come abitazioni (cfr.
Historia animalium, V I I I 12 e De generatione animalium, I I 8).
176. Eracle furioso, 935.
177. Si tratta dei figli avuti con Megara, che Eracle uccide in uno stato di follia
furiosa indotto da Era.
178. Nella tragedia di Euripide entra in scena Lyssa, dea della furia.
179. I vincoli di Eracle sono la follia e la necessità tragica. Secondo la tradizione,
l’eroe liberò Prometeo e uccise l’aquila che lo straziava ogni giorno.
180. Cfr. Apollodoro, Biblioteca, I I 5, 11.
181. Riferimento a un passo oggi perduto.
182. Si tratta dell’ottava fatica.
183. Si tratta delle Naiadi, le Ninfe delle acque.
184. Cfr. Esiodo, Teogonia, 887. Urano e Gea avevano predetto a Zeus che
avrebbe avuto un figlio saggio e astuto, che avrebbe regnato sugli dèi e su gli
uomini. Zeus allora inghiottì Metide, dea dell’astuzia, che stava per partorire. Fu
Efesto (o Prometeo, secondo una variante del mito) a permettere la nascita di
Atena, aprendo la testa di Zeus con un colpo d’ascia.
185. Si tratta della festa delle Panatenee.
186. Cfr. Iliade, I I 270.
187. Figlio di Iasione e di Demetra, Pluto, dio della ricchezza, era stato accecato da Zeus perché distribuisse a caso i suoi favori.
188. Cfr. Odissea, X I X 204, ma il testo omerico tramandato è differente, o la
citazione non è letterale.
189. Genti asiatiche.
190. Esiodo, Le opere e i giorni, 777.
191. L ’ ékphrasis fa ampio riferimento alla vicenda dei sette contro Tebe, e in
particolare all’Antigone di Sofocle.
192. Dea della guerra, si inebria delle stragi.
193. La melagrana è legata al mito di Proserpina, che si nutre nell’Ade dei frutti
dell’albero nato dal sangue di Bacco.
194. Secondo Euripide (Supplici, 990) i funerali si tengono invece a Eleusi.
195. Eschilo, Sette contro Tebe, 423; Sofocle, Antigone, 127; Euripide, Fenicie, 1186.
196. L ’ ékphrasis è ispirata alla Ciropedia e all’Anabasi di Senofonte.
197. Secondo la tradizione, Palestra è piuttosto figlia di Corico, re dell’Arcadia.
198. Dodona, in Epiro, era un importante oracolo di Zeus, che si manifestava
attraverso il brusio delle fronde degli alberi del bosco sacro e nel volo delle
colombe. Gli Helli erano i sacerdoti dell’oracolo.
199. Cfr. Iliade, X V I 235.
200. Le Peleiadi.
201. Cfr. Iliade, V 749.
Michele Cometa
Il “ f a n ta s m a” d e l l e I mmagi n i
1. Spettri. Singolare destino quello delle Immagini di Filostrato. Non
solo perché a stento riusciamo a individuarne l’autore, non solo perché nulla sappiamo dei dipinti, rimangono ignoti i pittori e improbabile persino la galleria napoletana che avrebbe potuto ospitarli.
Ma soprattutto per l’ironico destino che ne ha fatto l’incunabulo di
un genere, l’ékphrasis, che nasce solo molti secoli più tardi.
Eppure questo “fantasma” – e chi si occupa di cultura visuale sa
quanto centrale sia questa nozione per una teoria delle immagini1 –
ha attraversato indenne i secoli per ripresentarsi puntualmente in
quelli che W.J.T. Mitchell chiamerebbe i “pictorial turns” della storia dell’ékphrasis: il suo momento inaugurale, con le descrizioni del
retore cristiano Procopio di Gaza (465-528 ca.), la grande stagione
delle “arti sorelle”, il Rinascimento europeo, epoca in cui inizia la
diffusione a stampa delle Immagini (dal 1503) e la circolazione delle
loro imitazioni, o forse sarebbe meglio dire “reincarnazioni”, in
autori come Mantegna, Tiziano e Giulio Romano. Infine, l’età di
Goethe, un ampio arco temporale che va dalle considerazioni del
Conte di Caylus alle riscritture dei Philostrats Gemählde (1818) di
Goethe2, passando per la prima traduzione tedesca di D.Ch.
Seybold (1776), le cesure imposte dal Laocoonte (1766)3 di Lessing e
le descrizioni poetiche di Keats4, Byron e Wordsworth.
Oggi, una volta affrontata criticamente la questione di un’edizione moderna5, le Immagini di Filostrato sono il “fantasma” con cui si
108
Michele Cometa
confronta una nutrita schiera di teorici della cultura visuale moderna,
e la questione dell’ékphrasis si è collocata definitivamente al centro del
dibattito teorico-letterario e della comparatistica internazionale.
Già la semplice esistenza di un “pictorial turn” (Mitchell) o di un
“iconic turn” (Boehm) degli studi culturali novecenteschi, che ovviamente sono concepibili solo a partire dal “linguistic turn” (Rorty)6,
impone una riflessione sul rapporto tra parola e immagine. Tutte le
più agguerrite disamine della “svolta visuale”, qualunque sia la loro
provenienza – gli studi culturali e la letteratura nel caso di Mitchell o
l’ermeneutica filosofica nel caso di Boehm – non possono fare a meno
di mettere al centro della riflessione teorica la questione del confronto tra dimensione verbale e dimensione immaginale (nel senso ampio
che si può dare a questa parola). Da qui la necessità di fare i conti con
l’inesausta tradizione lessinghiana che ha cercato di dire l’ultima parola su verbale e visuale, con scarsi risultati dal punto di vista della pratica artistica, come dimostra lo sperimentalismo romantico o quello
delle avanguardie novecentesche, ma con notevoli conseguenze sul
piano della teoria, almeno sino alla semiotica novecentesca.
Sull’altro fronte, la costante “(ri)apparizione” del fantasma ecfrastico – non a caso secondo Mitchell foriero di un’“angoscia” specifica7
– ha costretto le punte più avanzate dei visual studies contemporanei
a confrontarsi ex novo con nozioni come “arti sorelle”, “ut pictura
poësis”, “melete” ed “epideissi”, “image/text” e via discorrendo.
Non c’è bisogno di ricostruire la storia novecentesca di questa
peculiare “spettrologia”. Dalla “reciproca illuminazione tra le arti”8
di Oskar Walzel agli studi sulle “arti sorelle” di Jean Hagstrum9,
Rensselaer W. Lee10 e Wendy Steiner11; dalla scuola iconologica alle
ricerche interartistiche di Ulrich Weisstein12. Un’ininterrotta tradizione ci conduce sino agli eventi che determinano il panorama
odierno della visual culture. Si tratta di studi che sono nati indipendentemente gli uni dagli altri e in contesti culturali parecchio diversi tra loro e che solo negli ultimi anni, e grazie alla mediazione di
figure strategiche della visual culture contemporanea come Mitchell
Boehm, Belting, convergono su esperienze comuni e finalmente
intrecciano un dialogo sempre più fitto.
Il “fantasma” delle Immagini
109
La questione dell’ékphrasis ha assunto infatti dapprima in area
anglosassone una sua irriducibile connotazione teorica negli scritti
di Murray Krieger13, James Heffernan14 e W.J.T. Mitchell15 che, agli
inizi degli anni Novanta del Novecento, hanno cercato di delimitare16, sia pure con alterne vicende, lo studio dell’ékphrasis alla
«imitation in literature of a work of plastic art»17 ovvero alla «rappresentazione verbale di una rappresentazione grafica»18 secondo la
fortunata espressione di Heffernan, escludendo dunque tutto il
campo dell’ipotiposi classica che spesso aveva contribuito a far dissolvere il genere specifico dell’ékphrasis delle opere d’arte in una
generica e incontrollabile teoria della descrizione19.
Solo in un secondo momento, e del tutto indipendentemente
dalla ricerca anglosassone, si consolida, a metà degli anni Novanta
una risposta “tedesca” agli studi d’oltreoceano con lo sviluppo di una
serrata indagine sui rapporti tra testo e immagine (Bild und Text)20,
confluita più tardi in una più specifica ricerca sull’ékphrasis, ovvero
sulla descrizione delle opere d’arte (Kunstbeschreibung).
Nel frattempo la formula di Heffernan, «the verbal representation
of a graphic representation», contribuisce a fare chiarezza sui limiti
dell’ékphrasis che a quel punto si è emancipata dal pur necessario
rapporto con la descrizione. La definizione di Heffernan diventa
ancora più utile – e da qui il suo successo – se si guarda agli ambiti
che essa programmaticamente esclude, quelli del “pittorialismo” e
dell’“iconismo”21 che nulla hanno a che fare con la resa verbale di un
manufatto artistico, ma semmai tendono a sostituirsi alle opere d’arte visive: «Il pittorialismo genera nel linguaggio effetti simili a quelli creati dalle pitture […], poiché rappresenta il mondo con l’ausilio
di tecniche pittoriche […]; ma senza rappresentare le pitture stesse
[…]. Gli iconismi visivi (visual iconicity) sono una somiglianza visibile tra la disposizione delle parole o delle lettere su una pagina e ciò
che esse significano. Come il pittorialismo gli iconismi visivi normalmente contengono un implicito riferimento alla rappresentazione grafica […]. Ma anche in questo caso la letteratura iconica (iconic
literature) non ha il fine di rappresentare pitture; essa imita la forma
delle pitture al fine di rappresentare oggetti naturali»22.
110
Michele Cometa
Nel suo studio del 1991, Ekphrasis. The Illusion of Natural Sign,
Murray Krieger – dopo un primo saggio dedicato a dirimere e a
riformulare la questione lessinghiana del rapporto tra spaziale e
temporale23 – aveva tentato un ulteriore sforzo sintetico riconducendo la questione dell’ékphrasis allo scontro inesausto, nella rappresentazione occidentale, fra quelli che egli definisce (con qualche
approssimazione) “segni naturali”, cioè i segni mimetici delle arti
visive, e i “segni arbitrari” tipici dei linguaggi verbali. La distinzione
ovviamente trascura il fatto che anche i segni prodotti nell’ambito
delle arti visive non sono affatto mimetici ma corrispondono
anch’essi a semiotiche convenzionali e consensuali. Tuttavia è merito di Krieger aver ribadito il carattere “infinito”24 di quella che egli
stesso opportunamente definisce un’illusione tipica della cultura
occidentale: conquistare, attraverso segni arbitrari, la medesima
verosimiglianza e icasticità degli “oggetti” rappresentati in pittura, o
almeno dei suoi presunti “segni naturali”.
Il libro di Krieger è per altro uno straordinario attraversamento
dell’ékphrasis occidentale intesa come inesausto tentativo di “rappresentare l’irrappresentabile”25, l’illusione cioè di poter ri-presentare la realtà agli occhi dei lettori attraverso segni arbitrari.
È evidente comunque che le tesi di Heffernan e di Krieger, cui
abbiamo brevemente accennato, spostano definitivamente la riflessione sull’ékphrasis dal piano delle semiotiche – com’era nella tradizione lessinghiana – e del rapporto tra forme spaziali e forme temporali sul piano della “rappresentazione” tout-court, laddove ciò che
conta non è più la differenza tra parola e immagine, spazio e tempo,
coesistente e successivo, quanto semmai la possibilità che entrambi
i poli di questa infinita dialettica possano comunicare qualcosa sulla
realtà, e, in definitiva, la contaminazione tra di essi.
In un celebre saggio in risposta alle “spatial forms” di Joseph
Frank26, Mitchell ricorre alla relazione corpo/anima per trovare una
metafora adeguata alla consustanzialità di termini solo apparentemente opposti come verbale e visuale: «Lo spazio è il corpo del
tempo, la forma o l’immagine che ci dà un’intuizione di qualcosa che
non è direttamente percepibile ma che permea di sé tutto ciò che
Il “fantasma” delle Immagini
111
conosciamo. Il tempo è l’anima dello spazio, l’entità invisibile che
anima il campo della nostra esperienza»27. Una metafora che verrà
ripresa, con maggior dovizia di argomentazioni, proprio nelle pagine di Picture Theory dedicate alla comparazione tra le arti28.
Mitchell insomma preferisce interpretare la letteratura e le arti figurative non come campi segnici opposti ma come i luoghi in cui si
mette in scena la battaglia tra il visuale e il verbale29. Questa visione “agonale” dell’ékphrasis è quella che Mitchell, ispirandosi a
Krieger, ma disattivandone del tutto le semplificazioni semiotiche e
storiche, ha imposto nel dibattito contemporaneo. Ed è significativo che sia lui sia Heffernan rafforzino le loro argomentazioni sottolineando, ad esempio, le sfumature gender delle “prevaricazioni” del
verbale (maschile) sul visuale (femminile), della parola sull’immagine. Mitchell addirittura – aprendo prospettive davvero inedite per
l’uso “culturale” dell’ékphrasis – ipotizza che questo “genere” sia solo
un’ennesima performance culturale dell’appropriazione dell’Altro
con tutte le sue sfumature sociali e politiche. Come il colonizzato,
il proletario, le donne, l’immagine è ciò che non ha parola, il nonrisolto e il non-assimilato nelle magnifiche sorti e progressive del
verbale30. Da qui la nostra “ambivalenza” nei confronti dell’ékphrasis che rispecchia la nostra diffidenza nei confronti del diverso e dell’altro31. Anche l’ékphrasis dunque può essere iscritta in una logica
del “desiderio” – un’intuizione di Krieger nelle ultime pagine del suo
studio32 – la quale si articola attraverso una complessa fenomenologia che Mitchell descrive nei termini di “ekphrastic hope”, “ekphrastic fear” e “ekphrastic indifference”.
La prima esprimerebbe il desiderio di “superare l’alterità” (the
overcoming of otherness), di dissimulare, nel senso hegeliano della
Aufhebung ma nel contempo anche di esibire ciò che Mitchell, sulla
scorta di Hollander33, definisce il “resident alien” di ogni descrizione: l’immagine. La paura ecfrastica scaturisce invece dal confronto
con un’alterità che può essere castrante (il mutismo che Lessing
tanto temeva), troppo implicata con la sensualità/sessualità (da qui
le forme di iconofobia classica) e feticistica. Infine l’indifferenza che
sancisce l’impraticabilità di questa trasgressione dei limiti.
112
Michele Cometa
Per Mitchell l’unica via d’uscita da questo vicolo cieco della teoresi occidentale sta nel riconoscimento della totale equivalenza tra
le due semiotiche, soprattutto dal punto di vista comunicativo e
sociale: «Non vi è alcuna differenza essenziale tra testi ed immagini
e dunque nessun divario da colmare tra questi media in virtù di speciali strategie ecfrastiche. Il linguaggio può sostituire la raffigurazione (depiction) e la raffigurazione può sostituire il linguaggio perché gli atti comunicativi, espressivi, la narrazione, l’argomentazione,
la descrizione, l’esposizione e gli altri cosiddetti “atti linguistici”
non sono specifici di alcun medium, non sono “propri” di nessun
medium»34. Ciò è poi ulteriormente rafforzato dalla nozione di
“image/text”35 intesa come un «problematic gap, cleavage, or rupture in representation»36.
Se gli studi di Krieger (1991), di Mitchell (1992) e di Heffernan
(1993) hanno definito i limiti di un’indagine teorico-letteraria sull’ékphrasis, il poderoso volume tedesco di Helmut Pfotenhauer e
Gottfried Boehm, apparso qualche anno più tardi nel 199537, di fatto
sanciva la ripresa in Germania, in Austria e in Svizzera degli studi
interartistici, riattivando una tradizione che, appunto, risale almeno a Walzel e che instaura una nuova forma di dialogo tra
Literaturwissenschaft e Kunstwissenschaft 38. Chi conosce il panorama degli studi di lingua tedesca 39 sa che nell’ultimo decennio del
secolo scorso non solo si è proceduto a un’analisi capillare delle
“descrizioni” presenti nei testi, con notevoli novità ermeneutiche,
ma questo fenomeno ha portato alla riscrittura di intere sezioni
della storia letteraria tedesca (e non solo), alla riscoperta di classici
dimenticati e alla riformulazione di edizioni critiche che si credevano ormai canoniche e che, alla luce degli studi di Kunstbeschreibung,
hanno subìto non pochi aggiornamenti e modificazioni. Si pensi
all’edizione monacense di Goethe o alle edizioni hoffmanniane. In
parallelo la ricerca francese ha inaugurato una rilettura della narrativa ottocentesca alla luce delle tecniche ecfrastiche40 (e, più in
generale, della cultura visuale degli scrittori)41, mentre gli studiosi
italiani – del resto provenienti dalla semiotica e dalla critica stilistica – hanno preferito costruire tipologie per l’analisi dell’ékphrasis
Il “fantasma” delle Immagini
113
letteraria e storico-artistica (che in Italia costituisce un genere a sé).
Si pensi ai lavori di Umbero Eco42, di Cesare Segre43 e di Pier
Vincenzo Mengaldo44. Un’eccezione, tuttora vitale anche se a
distanza di parecchi decenni, è costituita in Italia da Mario Praz il
cui straordinario e pioneristico volume sulle arti sorelle, Mnemosyne.
Parallelo tra la letteratura e le arti visive 45, viene ripubblicato sintomaticamente nel 200846.
2. Ékphrasis nozionale ed ékphrasis mimetica. È nota la distinzione che
in un celeberrimo articolo apparso nel 1988 nella prestigiosa rivista
Word & Image 47, John Hollander ha fatto tra “ékphrasis nozionale” –
quella che caratterizzerebbe gli antichi dallo Scudo di Achille48 alle
Immagini appunto – ed “ékphrasis mimetica” (actual), destinata alla
verbalizzazione di opere d’arte realmente esistenti e verificabili. È
però evidente – e Hollander se ne rende presto conto – che i confini
tra le due forme sono costantemente messi in crisi proprio dalla creatività linguistica degli autori, interessati, sin dai tempi di Filostrato,
a esibire le potenzialità retoriche delle proprie descrizioni che programmaticamente travalicano l’opera d’arte49. Del resto proprio
l’ékphrasis mimetica moderna sembra essere il luogo in cui si recuperano i modelli retorici sperimentati dagli antichi50.
Difficile distinguere in Filostrato tra le due ékphrasis. E certo
non solo per motivi storici o archeologici. Almeno dallo studio di
Karl Lehmann-Hartleben51 gli interpreti tendono a considerare
plausibile l’esistenza dei dipinti e la loro disposizione in una galleria-portico in Italia. Lehmann-Hartleben, prendendo spunto da
alcune considerazioni goethiane, ha molto insistito sul fatto che
proprio il “disordine” della sequenza costruita da Filostrato è la
prova evidente che egli si trovava nelle stanze di una reale galleria
dove alcuni cicli di pitture erano esposti l’uno sopra l’altro.
Riportiamo qui di seguito a titolo esemplificativo lo schizzo proposto da Lehmann-Hartleben per la cosiddetta sala di Afrodite che
inaugura la seconda parte nella quale si intrecciano storie legate alla
dea e una serie di pitture più piccole, di soggetto vario, esposte a
mo’ di fregio in alto nella stanza (fig. 1).
114
Michele Cometa
Fig. 1
Lo stesso schema viene applicato nella ricostruzione della più complessa sala di Dioniso. Filostrato, secondo Lehmann-Hartleben, non
interessato alle sequenze narrative delle pitture ma al loro significato
morale, non avrebbe dunque esitato a saltare da una sequenza all’altra. Otto Schönberger ha insistito su questa divisione per “stanze”,
scorgendo nella sequenza delle descrizioni vere e proprie unità tematiche (una sala dedicata ai fiumi, una a Dioniso, una ad Afrodite
ecc.52). Sempre più facile – da Goethe in poi – è stato individuare pitture su vasi o affreschi e mosaici che fanno riferimento agli stessi
modelli figurativi53. Altrettanto evidente è però che Filostrato tende
ad emanciparsi costantemente dal modello figurativo integrandolo in
un processo dialogico che non solo coinvolge gli astanti – il giovane
Il “fantasma” delle Immagini
115
interlocutore e i compagni – ma intesse tra le parti delle singole
descrizioni tutta una serie di rimandi che esaltano la vis retorica dell’autore e dialettizzano sistematicamente visibile e verbale.
La descrizione più complessa – come è stato accertato54 – comprende di norma uno “sguardo d’insieme” sul dipinto, seguito da una
“messa a fuoco” dei particolari55, da una “digressione” verbale sul
mito che lascia straripare l’immagine nel passato e nel futuro, a sua
volta corroborata da una descrizione di minuti dettagli delle figure
principali (una seconda “messa a fuoco”), e, infine, un’ulteriore
incursione nel mito che descrive per lo più le conseguenze dell’azione rappresentata. Questo schema in cinque fasi viene variato alla
bisogna, ridotto o semplicemente articolato in maniera diversa. La
struttura delle singole descrizioni oscilla da un massimo di complessità a svariate combinazioni di singole parti.
A volte, ad esempio, Filostrato ritiene inutile soffermarsi sul mito
perché troppo noto, oppure propone una minuta descrizione dei varî
piani di un dipinto, moltiplicando la descrizione d’insieme iniziale e
parcellizzandola a un tempo. Si tratta comunque di una strategia che fa
leva sul “nozionale” almeno quanto fa leva sul “mimetico”. Anzi proprio l’assetto dialogico delle varie parti dell’ékphrasis è la prova che
Filostrato è interessato a una ricostruzione, a un’ermeneutica dell’immagine che decisamente ne travalica i limiti. Risulta evidente dunque
che già nelle sue scaturigini è a dir poco avventato distinguere tra le
due ékphrasis, per non parlare del fatto che la finalità ultima delle
descrizioni di Filostrato è l’epideissi e la melete e non la mera mimesi
verbale. Filostrato non è affatto interessato ad esempio agli aspetti
compositivi o tecnici delle pitture, anche i colori e le ombre vengono
citati solo come fonti di emozioni e sentimenti e non come fatto tecnico della pittura. Albin Lesky ha icasticamente detto che Filostrato
è interessato ai “feuilletons” che si possono ricavare dalle immagini56.
La parte puramente descrittiva delle singole “icone” è infatti
sempre piuttosto limitata e comunque “incastonata” in una struttura dialogica complessa57. Raramente invece Filostrato si serve di
una figura tipica dell’ipotiposi come l’accumulazione, pure essenziale all’ékphrasis ma certo spesso destinata a distruggerne l’effetto
116
Michele Cometa
retorico. Sempre molto controllate sono le sue enumerazioni ed
elencazioni58, e significativamente, quando vi ricorre, lo fa nella
forma della preterizione: «Non parleremo di quelli che danzano in
cerchio…» (1.6). Così come rifugge dalla deissi – con l’eccezione
della descrizione della palude (1.9) – perché troppo arida e indeterminata e certamente non perspicua in assenza del dipinto.
Il costante richiamo nei testi a ciò che si vede effettivamente –
per lo più interpretato come richiamo alla fedeltà ecfrastica – è invece un modo per riavvicinarsi al dato figurativo dopo essersene allontanati seguendo un ductus argomentativo che trascende l’opera.
Come quando nella brevissima digressione sul mito di Giacinto l’autore si sente in dovere di richiamare all’ordine se stesso e il giovane:
«Ma visto che siamo venuti per ammirare dei quadri, come semplici
curiosi, e non per spiegare i miti o avanzare dubbi, limitiamoci a esaminare la pittura» (1.24).
È significativo però che Filostrato insista sul fatto che le digressioni mitologiche non sono dovute alla debolezza emotiva del fruitore, ma sono invece un effetto indotto dalla pittura stessa che
producendo illusione colloca lo spettatore in uno stato di trance
simile al sogno. È il dipinto stesso che reclama un’attenzione che è
dovuta altrimenti solo alla vita reale come si legge in una delle
descrizioni più problematiche, soprattutto per via dei costanti rinvii metatestuali: «Sento che l’illusione è perfetta: ho l’impressione di
vedere non figure dipinte, ma uomini veri che si muovono, spinti dal
loro amore, perché mi prendo gioco di loro come se davvero mi sentissero, e immagino di cogliere la loro risposta. E tu, che non hai
detto niente per ricondurmi alla realtà mentre mi smarrivo, eri
ingannato dalla stessa illusione, e non hai saputo difenderti meglio
di me contro l’artificio del pittore e il sonno che esso procura. Ma
guardiamo la pittura, perché è una pittura che abbiamo di fronte a
noi» (1.28). Se è vero che il testo è tutto sbilanciato sull’interpretazione pedagogica del retore, non per questo Filostrato nega alla pittura le sue potenzialità e i suoi diritti. Il patto ecfrastico si costruisce
affidandosi al fascino delle immagini e delle parole, senza che questo prefiguri il predominio delle une sulle altre, ma semmai facendo
Il “fantasma” delle Immagini
117
leva sull’armonia implicita del cosmo. L ’ osmosi continua tra realtà e
pittura, passato e futuro, mito e immagine costituisce la prova che il
messaggio pedagogico voluto da Filostrato si fonda su questa armonia.
3. Modi dell’ékphrasis. «Non sembra animata?» chiede Filostrato al
giovane guardando con improbabile simultaneità la doppia superficie dello scudo di Rodogune (2.5). È nascosta in questa semplice
domanda la missione più profonda dell’ékphrasis occidentale: la
dinamizzazione delle immagini.
Abbiamo in altra sede proposto uno schema delle principali
modalità dell’ékphrasis e in particolare delle forme che attengono
alla dinamizzazione, alla trasformazione cioè del “coesistente” in
“successivo”, per dirla con Lessing, forme di “temporalizzazione” e
“narrativizzazione” che coinvolgono i soggetti principali dell’ékphrasis: l’immagine innanzitutto ma anche il processo compositivo59 e lo
sguardo. Per quest’ultimo, com’è anche nel caso di Filostrato che
discuteremo più avanti, è opportuno distinguere tra le diverse forme
di sguardo che possono attivarsi intorno a un’immagine dipinta: lo
sguardo dell’osservatore/fruitore (reale o fittizio), quello dello scrittore e quello del lettore, sguardi che spesso si sovrappongono e che
operano in due direzioni: da un lato sul fronte della ricezione, dell’effetto che l’immagine fa su chi la guarda, dall’altro come proiezione di istanze del fruitore sulla sostanza dell’immagine.
Quanto detto si potrebbe schematizzare secondo quanto proposto dall’illustrazione riportata qui di seguito (fig. 2).
Filostrato utilizza tutte e tre queste modalità, con una particolare
preferenza per la prima e la terza, mentre la seconda – quella adottata da Omero nella descrizione-costruzione dello Scudo di Achille
non gli è particolarmente congeniale. D’altronde è stato notato che
alla seconda sofistica interessa primariamente, da un lato, l’abilità
retorica profusa nella vivificazione dell’immagine – tecnica in cui
Filostrato eccelle – e, parallelamente, la descrizione degli effetti psicologici ed emotivi che l’immagine produce sul fruitore. Da qui l’attenzione per gli sguardi degli spettatori e per ciò che discende da
quello che con Eco potremmo chiamare il «patto ecfrastico»60.
ÉKPHRASIS
Forme di
dinamizzazione
(narrativizzazione)
delle immagini
del processo
compositivo
dell’immagine
istruzioni
per il pittore
per lo scrittore
genesi
dell’immagine
Fig. 2
dello sguardo
dell’osservatore
dell’immagine
del lettore
dello scrittore
Ricezione
Proiezione
narrativizzazione
della percezione
dello scrittore nell’immagine
(o nella realtà evocata
dall’immagine)
narrativizzazione
dell’effetto
della ricezione
dell’osservatore nell’immagine
(o nella realtà evocata
dall’immagine)
narrativizzazione
dell’interpretazione
(la storia della ricezione)
del lettore nell’immagine
(o nella realtà evocata
dall’immagine)
Il “fantasma” delle Immagini
119
Quest’ultimo pone le basi per le descrizioni che Eco ha definito
«con richiamo alle esperienze personali e culturali del destinatario»
e «con richiamo ad esperienze percettive del destinatario» che forse
si potrebbero considerare, includendo altri processi ermeneutici,
“forme di integrazione” perché in gioco vi è appunto la capacità del
destinatario, del fruitore (sia esso lo scrittore o il lettore stesso) di
colmare le lacune della descrizione con l’immaginazione e con gli
altri sensi, o, molto più spesso, con le proprie preconoscenze culturali e artistiche. Una tecnica cui Filostrato ricorre costantemente,
attraverso le sinestesie e le spiegazioni mitologiche, ma anche grazie
al coinvolgimento sensibile del fruitore. Anche in questo caso, sia
pure solo a livello esemplificativo giacché i piani dell’integrazione
esattamente come quelli della dinamizzazione spesso si sovrappongono, potremmo proporre uno schema chiarificatore (fig. 3).
Che la dinamizzazione delle immagini sia la via maestra del retore
Filostrato è dimostrato da scene come quelle descritte negli Amori o
nella Palude dove l’uso del tempo presente non lascia adito a dubbi:
«Intorno a questa barriera gli Amori incitano alla corsa gli uccelli
sacri, adorni di freni d’oro: uno rilascia le redini, l’altro le stringe, uno
le tira di lato, quest’altro ha già passato il segno e riprende il giro. Mi
pare di sentirli che esortano i cigni, scambiando minacce e offese,
come si legge sui volti. Uno sta disarcionando il vicino, l’altro vi è già
riuscito, questo ha voluto smontare dal suo destriero per tuffarsi.
Intorno alla riva si sono raccolti i più abili cantori tra i cigni: intonano, immagino, il nomo ortiano, che è appropriato a simili dispute. Il
giovane alato che vedi serve a mostrare che gli uccelli stanno cantando: è Zefiro, il dio che dona il canto ai cigni» (1.9). Filostrato anima i
personaggi dipinti e nel testo che racconta l’incipiente metamorfosi
delle Eliadi enfatizza la contemporaneità di sguardo e azione: «Ed
ecco che accade sotto i miei occhi: il soffio del vento sfiora i cigni,
come se fossero dei veri strumenti. Le Eliadi rimangono sulla riva:
non hanno ancora smesso di essere donne, ma pare che a forza di
piangere si siano tramutate in alberi, e che in questa forma ancora
versino lacrime» (1.11)61. Un procedimento simile adotta quando gli
preme sottolineare la profonda drammaticità dell’azione come nella
ÉKPHRASIS
Forme di
integrazione
Sinestetica
suono, olfatto,
tatto ecc.
Ermeneutica
Traspositiva
Associativa
prosopopea
(le immagini parlano)
(il fruitore interroga)
quello che lo scrittore
e/o l’osservatore
e/o il lettore sanno
l’mmagine come
setting della narrazione
(esplicito/implicito)
giustapposizione,
combinazione ecc.
di più immagini
Fig. 3
Il “fantasma” delle Immagini
121
concitatissima e certo cinematografica caccia al cinghiale (1.28), o
nella descrizione della morte di Ippolito (2.4) o della lotta mortale di
Arrichione (2.6)62.
Dallo schema delle descrizioni che più sopra abbiamo esplicitato
appare chiaro però che la tecnica delle “integrazioni” è quella in cui
Filostrato eccelle. L ’ impianto pedagogico delle Immagini lo induce
a non lesinare tecniche di seduzione che vanno dalle più semplici
sinestesie e prosopopee, volte a illudere i sensi, alle più acute
Nacherzählungen dei miti greci, retaggio di un’ermeneutica del mito
raffinata, per quanto – come è stato notato – non priva di errori.
Alle integrazioni sinestetiche Filostrato fa costantemente ricorso,
non privando le sue immagini di fascino sensuale e a volte esplicitamente erotico. Tutti i sensi sono coinvolti, dall’olfatto al tatto, dal
gusto all’udito. Il testo è attraversato da odori e voci soprattutto,
che costituiscono prove di realtà più efficaci di quelle offerte dalla
vista e illusioni irresistibili. Citiamo qui di seguito gli esempi più tipici: «oso affermarlo, dipinte hanno profumo di rose vere» (1.2); «come
cimbali mandano lo stesso suono» (1.2); «sentirai i buoi muggire… la
siringa risuonerà…» (1.12); «com’è dolce e soave il suo alito, Dioniso!
Ha il profumo delle mele o dell’uva? Ce lo dirai al tuo primo bacio»
(1.15); «parrebbe di sentire il loro canto di vittoria, il grido evoè sembra uscire dai loro petti ansimanti» (1.18); «si direbbe proprio che gli
acini rappresentati nella pittura siano maturi al punto giusto e gonfi
di succo» (1.31); «Ma la dea non vuole sembrare dipinta, e allora si
stacca in rilievo e sembra quasi che la si possa toccare» (2.1); «ci permette di udire l’inno che le ragazze cantano senza sosta» (2.1); «e forse
potremmo ascoltarla parlare greco» (2.5). La sinestesia si rivela dunque la via maestra per richiamare nella mente del lettore esperienze
condivise che rafforzino il patto ecfrastico.
Tali sinestesie, oltre a stimolare l’immaginazione del fruitore,
rappresentano una costante e programmatica trasgressione dei
confini tra realtà e finzione, tra pittura e mondo reale. Più volte
Filostrato allude a un’interazione completa tra i due mondi paralleli: «Il dolce profumo che esala dal frutteto non giunge fino a te?
Il tuo olfatto è forse pigro? Sì? Allora ascolta con attenzione, le mie
122
Michele Cometa
parole ti porteranno l’odore dei frutti» (1.6). Infrazione che non è
solo affidata alla vista o all’olfatto, ma spesso coinvolge gli altri sensi,
persino il tatto. Come nel racconto fantastico romantico63 i dipinti
sono in Filostrato soglie verso una realtà altra, visiva e verbale insieme, un mondo parallelo che è quello dell’immaginazione, ma non per
questo è meno reale o consistente. E così il maestro incita il fanciullo a raccogliere «nella piega della […] veste il sangue che scorre dalla
ferita» (1.4), o a non assistere alla tragedia di Amimone «perché il flutto già si ripiega avvolgendo la sposa: è un’onda blu dai toni d’azzurro,
ma è di porpora che Poseidone presto la tingerà» (1.8), o, ancora a
dare «la caccia in compagnia degli Amori» a una lepre che si agita nel
dipinto (1.6) e a tacere per non svegliare il satiro che dorme catturato nell’ebbrezza dal re Mida (1.22). Del resto lo sguardo del fruitore
va educato e “introdotto” lentamente nell’immagine. L’occhio deve
«penetrare» (1.4) nel quadro – si legge in una delle prime descrizioni
– e deve imparare a distinguere i piani del dipinto man mano che il
fruitore li attraversa con il proprio corpo.
Né Filostrato trascura quella che può essere considerata una forma
particolare di sinestesia poiché fa appello all’udito del lettore: si tratta della prosopopea, che Filostrato però applica, per così dire, nelle
due direzioni. A volte sono i personaggi dipinti a parlare, come quando ascolta insieme al giovane le parole di Apollo: «Vuoi sapere cosa
dice? Ho l’impressione non soltanto di vederlo parlare, ma di comprendere ciò che dice attraverso la sua immagine. Sta per fare a Maia
questo discorso: “sono vittima di tuo figlio, questo bimbo che ieri hai
messo al mondo ha precipitato in un abisso ignoto le giovenche che
erano la mia gioia, ma anche lui morirà, perché intendo precipitarlo
in un abisso ancora più profondo”» (1.26).
A volte è egli stesso a rivolgersi ad alta voce all’immagine rafforzando l’illusione di un possibile transito in una realtà altra: «Per chi
suoni il flauto, Olimpo? A che serve la musica nella solitudine?» (1.20).
Si tratta di qualcosa di più di una domanda retorica se, più avanti nel
testo, il retore si rivolge direttamente a Narciso (1.23), al solito alludendo alla propria posizione. Proprio come Narciso che vuole parlare con l’immagine riflessa nella fonte, il retore parla con il dipinto che
Il “fantasma” delle Immagini
123
gli sta dinnanzi: «Credi forse che la fonte prenderà a conversare con
te?» (1.23) grida a Narciso che lo ignora. Tutte le domande rimangono senza risposta, come nei Cacciatori (1.28), anche se lo sprone che
dà ai Pigmei affinché annientino Eracle sembra esser ascoltato.
Un vertice assoluto è poi ancora una volta costituito dalla “proiezione” dello sguardo dell’osservatore nell’immagine, come nell’incipit
della scena dei Cacciatori, in cui il fruitore e il suo compagno sono
letteralmente trasposti nel quadro – come nella descrizione delle
Isole – ma per di più assumono gli sguardi dei carnefici e delle vittime, in una forma di proiezione magistrale della propria psiche in
quella dei personaggi: «Aspettate a superarci, o cacciatori, non incitate i vostri cavalli a briglia sciolta. Lasciateci piuttosto indovinare i
vostri intenti e scorgere la preda che inseguite. Date la caccia a un
cinghiale, dite, e infatti vedo i danni procurati dall’animale: ha sradicato gli olivi, strappato le viti, al suo passaggio non resta un solo fico,
una mela, neppure un fiore di melo. Ha devastato ogni cosa: qui ha
scavato, lì si è gettato riverso per terra, fregando il dorso sulle piante. Vedo il pelo irsuto, il fuoco che getta dagli occhi, sento lo stridore dei denti con cui vi minaccia, cacciatori coraggiosi. Animali come
questo hanno un udito straordinario, grazie al quale avvertono da
lontano il rumore di una squadra in marcia. La bellezza di questo giovane vi ha sedotto, e ora che lo inseguite, siete diventati sue prede. È
per lui che avanzate verso il pericolo. Perché allora siete tanto vicini
da poterlo toccare? Perché i vostri occhi si volgono su lui solo?
Perché i vostri cavalli sono così stretti gli uni agli altri? Sento che l’illusione è perfetta: ho l’impressione di vedere non figure dipinte, ma
uomini veri che si muovono, spinti dal loro amore, perché mi prendo
gioco di loro come se davvero mi sentissero, e immagino di cogliere
la loro risposta» (1.28). E non si tratta soltanto di un coinvolgimento
nella scena. Il patto ecfrastico arriva al punto che il retore coinvolge
gli spettatori in una caccia in cui non si vede affatto la preda, ma solo
gli effetti che essa lascia sulla vegetazione. In questa ékphrasis non vi
è dunque nulla più da vedere, la cosa principale – il cinghiale – programmaticamente si sottrae alla vista, dei cacciatori, del retore e degli
astanti, ma non per questo è meno vividamente presente nella scena.
124
Michele Cometa
Il patto ecfrastico non conosce dunque limiti, come non ne conosce l’immaginazione, anche se, a volte, è reso possibile dalle preconoscenze del fanciullo (e di noi lettori), tanto che Filostrato non si astiene da appelli diretti: «tu non ne ignori certo la ragione» (1.5) si dice a
proposito dei doni del Nilo, «tu sai di certo…» (1.6), fino a smascherare la propria tecnica ammettendo il ricorso al mito che fonda la pittura e dunque, opportunamente citato, ce ne consegna un’interpretazione. Nella lunga descrizione delle Isole Filostrato ricorre alla più
esplicita delle integrazioni ermeneutiche quando scrive: «L ’ isola vicina, ragazzo mio, ci regala uno spettacolo meraviglioso: in tutta la sua
ampiezza cova un fuoco sotterraneo che rigurgita fiamme attraverso
le fenditure e le caverne come se fossero dei canali, e questa lava
terribile forma grandi fiumi di fuoco che si riversano in mare gorgogliando. Ecco la ragione di questo fenomeno. Il suolo dell’isola ha la
stessa natura dell’asfalto e dello zolfo: attaccata dai flutti, l’isola è battuta dai venti che vengono dal mare e accendono questa materia
combustibile. La pittura si conforma al racconto dei poeti, che con
un mito ci spiega l’eruzione dell’isola. Un gigante vi fu precipitato un
tempo, ma poiché ancora non periva, un’isola scagliata su di lui
avrebbe dovuto fargli da prigione: eppure non cede, e ancora lotta
sotto terra lanciando minaccioso torrenti di fuoco. Così fanno anche
Tifone, in Sicilia, e qui in Italia Encelado: giganti su cui pesano continenti e isole, che non sono ancora morti eppure non smettono di
morire […]. Ecco cosa si vede: Zeus scaglia la folgore sul gigante che
pur essendo allo stremo delle forze confida sempre nel soccorso della
terra. Ma la terra è trattenuta da Poseidone, che le impedisce di
intervenire, e rinuncia alla lotta. L ’ artista ha avvolto la scena nella
nebbia, in modo che sembra appartenere più al passato che al presente» (2.17). Come si vede Filostrato abbozza dapprima una spiegazione parascientifica e poi ricorre decisamente al mito offrendo per
altro una forma specifica di Nacherzählung mitologica tipica della
scrittura ecfrastica64. È questa “narrazione postuma” una variazione
che consapevolmente lo scrittore adotta per visualizzare proprio quei
dettagli che il dipinto mostra ma che non erano perspicui nelle versioni precedenti del mito. Per questo – come abbiamo dimostrato in
Il “fantasma” delle Immagini
125
altra sede – Marie Luise Kaschnitz racconta nuovamente il celebre
episodio di Elpenore arricchendolo di particolari figurativi che era
possibile scorgere solo nelle pitture vascolari greche, le quali – secondo un circuito cui ha dedicato pagine molto importanti Károly
Kerényi65 – stavano alla base degli stessi racconti mitologici.
L ’ integrazione ermeneutica si sposa poi perfettamente con quella
associativa, una tecnica che produce effetti di visualizzazione proprio
accostando immagini meno note a immagini più note, come quando
per descrivere l’isola sconosciuta che ha davanti agli occhi nell’immagine dipinta Filostrato la paragona alla valle di Tempe (2.17).
L ’ integrazione ermeneutica o associativa dell’immagine dipinta
risponde ovviamente a una sorta di “logica del riconoscimento”,
sulla quale si fonda il fascino di ogni narrazione. Filostrato ne è consapevole se tralascia i particolari quando si tratta di miti ben noti o
afferma: «Ma ogni uomo è in grado di riconoscere l’argomento della
pittura» (2.34).
4. Sguardi. Non stupisce, dopo quanto detto, che il testo di
Filostrato si configuri, al pari dei capolavori del genere ecfrastico,
come una “drammaturgia di sguardi”. Già alle scaturigini della pittura occidentale si pone il fondamento formale del suo destino: articolare, al di qua e al di là della superficie dipinta, una corrispondenza tra gli sguardi intradiegetici e gli sguardi extradiegetici. Non a
caso l’autore che più di tutti ha studiato i fondamenti antropologici
dell’immagine, Hans Belting, propone oggi una “iconologia dello
sguardo”66, un percorso ermeneutico che sia in grado di definire la
struttura di questa drammaturgia.
Già nel prologo Filostrato stabilisce il primato dello sguardo in pittura. Compito della pittura non è solo quello di articolare colori e
ombre, cui pure dedicherà ampio spazio nel testo, ma «mostrare negli
sguardi l’ira, il dolore, la gioia» (Prologo). Si tratta non di una mera
aspirazione fisiognomica ma della volontà di dare «agli sguardi la brillantezza che li contraddistingue… sguardi che la pittura sa rendere
fervidi, glauchi, neri» (Prologo). Al punto che nella sua ékphrasis non
mancano, tra le tipiche raccomandazioni ai pittori, – uno dei modi di
126
Michele Cometa
cui la descrizione si serve per instaurare un dialogo con l’immagine –
quella secondo cui gli artisti «devono elaborare con cura il volto dei
personaggi […]: senza di loro le pitture sono cieche» (Prologo).
Per questo ciò che lo attira dapprima in un dipinto è lo sguardo dei
personaggi, quello di «Capaneo che percorre con disprezzo le muraglie
e i merli» (1.23), quello di Andromaca che si posa pieno di erotismo e
gratitudine su Perseo (1.29), quello della baccante «fisso nel vuoto» in
cui «si riflette senza sosta un pensiero d’amore» (2.17) per Sileno, o
quello, infine, inevitabilmente «selvaggio e infido» (2.18) di Polifemo
che si strugge tuttavia per Galatea i cui «occhi sono una meraviglia: lo
sguardo come perduto sembra raggiungere i limiti estremi del mare»
(2.18). Sguardi che si inseguono da un testo all’altro, sguardi dolci e
innamorati, come quelli di Narciso (1.23) cui Filostrato dedica pagine
indimenticabili che per altro hanno una chiara funzione metatestuale,
o terribili e assassini come quelli di Forba (2.19) e di Medusa (1.29). Ma
soprattutto sguardi raddoppiati e corrisposti come quando, con la
consueta commistione tra realtà e finzione il retore quasi si riconosce nello sguardo di una folaga che «presta i suoi occhi ai gabbiani»
(2.17) per evitare che i loro piccoli vengano catturati dai cacciatori. O,
nella capitale scena dei Cacciatori, con un gioco di specchi davvero
singolare Filostrato raddoppia la scena scorgendo nel dipinto stesso
figure che guardano come se osservassero un dipinto. È il caso del
giovane cacciatore che ha appena scagliato il giavellotto e rimane al
centro di uno specchio d’acqua mentre i «compagni, incantati, lo
ammirano come se fosse dipinto» (1.28).
Gran parte delle indicazioni che il vecchio retore dà sono destinate a focalizzare lo sguardo del giovane: «rivolgi invece lo sguardo
verso Afrodite» (1.6), «esamina innanzi tutto la lira, per vedere se la
rappresentazione è esatta» (1.10), «osserva, ragazzo mio…» (1.17),
«abbiamo sotto gli occhi» (1.28). Ma è significativo, tuttavia, che questa propedeutica alla visione si basi anche sulla capacità di distanziarsi dalle pitture. Già nella prima descrizione, dedicata allo
Scamandro, il retore si trova costretto a “distrarre” lo sguardo del
fanciullo per meglio rappresentargli la narrazione omerica cui il
dipinto si ispira. Quasi che il non-vedere la pittura predisponga per
Il “fantasma” delle Immagini
127
una superiore sophia, quella del mito. Distrazione che diverrà una
costante di questa propedeutica se si pensa che la maggior parte delle
ékphrasis è inframezzata da richiami mitologici per lo più omerici.
È stato giustamente detto che Filostrato costruisce il dipinto
quasi fosse una scena teatrale67 e, essendo una scena teatrale muta,
gli sguardi non possono che divenire i protagonisti assoluti del dialogo tra i personaggi. Nell’ampio affresco che è la descrizione del
Bosforo, e in particolare nella concitata scena della pesca del tonno,
questa drammaturgia raggiunge una complessità mai vista prima,
poiché coinvolge i fruitori e i personaggi del dipinto insieme: «Ma
ecco il metodo migliore: un uomo capace di contare e dotato di vista
eccellente rimane in osservazione in cima a una pertica. Bisogna che
tenga gli occhi fissi sul mare e che il suo sguardo raggiunga le più
grandi distanze possibili. Quando vede i tonni entrare nella sua
zona, ha bisogno di una voce possente per avvertire i pescatori che
stanno nelle altre barche: dice quante migliaia di tonni conta il
branco, e allora gli altri, sbarrando la strada ai tonni e avvolgendoli
con una rete che scende in profondità fanno una pesca magnifica,
buona per arricchire il padrone della flotta. Guarda la pittura, perché ora vedrai tutti questi dettagli. La sentinella tiene gli occhi fissi
sul mare per stimare il numero dei pesci. Nel verde brillante dell’acqua, i pesci si distinguono per il colore: i più vicini sembrano neri, i
successivi lo sono meno, la terza schiera già si sottrae alla vista, poi
è solo un’ombra, poi si confondono con l’acqua, poi bisogna indovinarli perché lo sguardo perde la sua nettezza a mano a mano che
scende sotto le onde» (1.13).
È stato del resto notato che i pescatori e i cacciatori sono solo le
controfigure di colui che descrive: «la pesca, come la caccia di 1.28,
è dunque in Filostrato – ha scritto Filippo Fimiani – meta-poetica e
meta-testuale; è cioè rappresentazione della performance della visione in generale e della visione sulla pittura, del percorso scritto dello
sguardo. Meglio: è la rappresentazione del processo di reperimento,
di disposizione e lettura del voler-dire dei segni certi e incerti, dell’uposemainein dei sumbola e degli ainigmata. I pescatori o i cacciatori sono i luogotenenti del nostro sguardo attento, dello sguardo
128
Michele Cometa
del “noi” che Filostrato forma ed educa nelle Eikones (il narratore e
il fanciullo, noi come spettatori e lettori). Anzi: cacciatore e pescatore sono le vedette, l’avanguardia dell’avventura del nostro sguardo
iperattivo, l’acme e la punta della mira del nostro occhio ipertrofico, quasi una protesi del nostro organo della vista, l’estremità del
toccare da lontano del vedere e del dire»68.
Ma il vertice assoluto di quello che giustamente Andrea L.
Carbone chiama “pathos dello sguardo” lo si ha in una delle descrizioni del paesaggio della seconda parte. Chi conosce i destini
dell’ékphrasis occidentale sa che il suo corrispettivo si trova molti
secoli più tardi in un altro incunabulo questa volta dell’ékphrasis
moderna che sono i Salons di Diderot69. Come Diderot rivitalizzerà
la scrittura ecfrastica nel Settecento attraversando “di persona” i
paesaggi di Vernet, Filostrato attraversa il mare – qualcuno ha pensato che potesse trattarsi del mare delle Eolie – cogliendo con lo
sguardo in campo lungo, a volte lunghissimo, la teoria delle isole felici che si dispiega nel dipinto. Ci troviamo di fronte ad una forma di
“dinamizzazione” – la tecnica maestra dell’ékphrasis come abbiamo
ricordato – che in una mirabile sintesi anima insieme gli sguardi dei
fruitori, i loro corpi e persino lo scrittore. Tutti e tre si lasciano
coinvolgere in un viaggio fantastico all’interno dell’immagine. Una
dinamizzazione che, in una perfetta sintesi, trascolora in un’integrazione traspositiva, giacché il dipinto diviene nel contempo il setting
della descrizione. Non solo lo sguardo si muove nello spazio del
dipinto ma il dipinto stesso diviene una complessa scenografia che,
nel caso specifico, sintetizza alcune delle più straordinarie visioni
delle “isole fortunate” allora note70.
La pedagogia del retore è in questo caso completamente esplicita e
fonda per così dire un genere dell’ékphrasis di lunghissima durata. Val
la pena di riportare diffusamente il passo: «Vuoi, ragazzo mio, che ti
parli di queste isole come se viaggiassimo in nave dall’una all’altra, in
primavera, quando Zefiro spande il suo alito sulle onde dando al mare
un aspetto ridente? È il mare stesso, lo vedi, che ti chiama a lasciare la
riva: non si gonfia né si scatena, ma non è neppure piatto e addormentato. Asseconda le manovre dei marinai, come animato da un alito di
Il “fantasma” delle Immagini
129
vita. Ecco che già siamo a bordo, se sei d’accordo, non credi? – E il
ragazzo risponde: non chiedo di meglio, spieghiamo le vele. – Il mare,
come vedi, si stende lontano, disseminato di isole che a dire il vero non
somigliano a Lesbo, Imbro o Lemno. A vederle così modeste, così piccole, si direbbe che siano villaggi, scali, o magari fattorie disposte sul
mare. La prima è scoscesa, inaccessibile, naturalmente fortificata, e
innalza fino al cielo le sue cime, da cui Poseidone sorveglia l’orizzonte.
Vi sono ruscelli che diffondono ovunque la freschezza delle acque, e le
montagne sono coperte di fiori che nutrono le api…» (2.17).
La descrizione continua per qualche pagina, inframezzata dalle
consuete annotazioni mitologiche e dai repentini avvicinamenti dello
sguardo che alternano minuti dettagli a campi lunghi in una sorta di
ripresa cinematografica. Del resto la narrazione mima i modi di una
lunga carrellata su personaggi mitologici – i giganti, Zeus, Pan e le
ninfe – immaginando persino delle inquadrature vantaggiose per
cogliere le scene nella loro totalità, come quando il retore suggerisce
al ragazzo di immaginarsi sulla «cima della montagna» (2.17) o lo invita a puntare uno sguardo telescopico su una baccante insidiata da
Sileno, una scena capitale del voyeurismo ecfrastico. Questa alternanza tra sguardo dall’alto e telescopia, questa ossessione topologica
dello sguardo in Filostrato, è del resto ciò che rende il testo uno dei
luoghi fondamentali della “teoresi” occidentale71.
Qui Filostrato di fatto costruisce il proprio capolavoro ecfrastico.
Nel viaggio per mare tra le isole della felicità si integrano a perfezione tutte le forme di dinamizzazione che abbiamo esposto in precedenza: innanzitutto delle immagini (Zeus che scaglia la folgore, la
baccante che, sotto i nostri occhi, lancia sguardi innamorati a
Sileno, i taglialegna operosi), poi del processo compositivo, giacché
Filostrato si sofferma sulle ragioni del pittore, e infine dei due fruitori (e noi lettori con loro) che letteralmente si imbracano per solcare il mare che divide le isole. Né mancano integrazioni ermeneutiche e associative, giacché – come abbiamo visto – Filostrato ci
facilita la comprensione delle scene citando il mito o riconducendo l’ignoto al noto, i paesaggi delle isole alla Tessaglia o alla Sicilia.
Né infine mancano integrazioni sinestetiche, spinte questa volta al
130
Michele Cometa
limite della prosopopea se Filostrato può annunciare che Proteo «è
venuto» (2.17) per spiegarci cos’è l’“isola d’oro” e le ragioni delle sue
copiose sorgenti72.
Ma ciò che definisce più d’ogni altra cosa la strategia ecfrastica di
questo capolavoro è certamente quello che con Mitchell potremmo
definire il “patto comunicativo” che s’instaura tra il retore e il bambino di dieci anni che viene introdotto ai misteri della pittura e della
scrittura, dell’immagine e del mito. È significativo che il retore esordisca con un “come se” («come se viaggiassimo in nave da una all’altra», 2.17), ma chieda esplicitamente al giovane la sua complicità:
«Ecco che già siamo a bordo, se sei d’accordo, non credi?» (2.17).
Ecco il patto di collaborazione che presiede ad ogni ékphrasis. Senza
di esso il baratro tra il verbale e il visuale è destinato a non colmarsi mai. Perché si dia un’ékphrasis è necessario che il narratore e lo
spettatore, qualunque sia la loro collocazione nella finzione o nella
realtà, decidano di abbandonarsi all’immaginazione, di lasciarsi
coinvolgere in una “visione” comune. È solo nell’immaginazione che
i due momenti dell’ékphrasis si lasciano – sia pure solo provvisoriamente – cogliere insieme.
In altra sede abbiamo parlato, utilizzando un’immagine di Roland
Barthes, dell’ovvio e dell’ottuso dell’ékphrasis. Sappiamo che l’ovvio
del verbale è insieme l’ottuso del visuale. E viceversa. Ma nel patto
ecfrastico riusciamo a vedere, sia pure per un solo momento epifanico, contestualmente entrambi gli aspetti, altrimenti inconciliabili. Filostrato sembra intuirlo quando ci concede, nel testo, di vedere «di taglio» le due facce dello scudo di Rodogune. Una visione
impossibile, come è impossibile vedere insieme le due facce di una
stessa medaglia, ma necessaria, se sin dai tempi di Filostrato il pensiero occidentale ha inteso mettere in scena con l’ékphrasis l’irriducibile reciprocità di verbale e visuale.
Il “fantasma” delle Immagini
131
NOTE
1. Da ultimo si vedano le considerazioni di J. Crary, Nineteenth-Century Visual
Incapacities, in J. Elkins (a cura di), Visual Literacy, Routledge, New YorkLondon 2007, pp. 59-76, in particolare le pp. 72 ss. e, in un contesto più ampio,
ma non meno privo di suggestioni, F. Vitale, Spettrografie. Jacques Derrida tra singolarità e scrittura, Il Melangolo, Genova 2008.
2. Se ne veda l’edizione italiana in J.W. Goethe, Saggi sulla pittura, a cura di
R. Venuti, Artemide, Roma 2005.
3. Sulla cesura imposta dal Laocoonte di Lessing mi permetto di rimandare oltre
che alla mia edizione del testo (Laocoonte, a cura di M. Cometa, consulenza per
le fonti classiche di G. Spatafora, Æsthetica edizioni, Palermo 2000, seconda
edizione riveduta), anche al mio saggio: Die Tragödie des Laokoon. Drama und
Skulptur bei Goethe, in B. Witte, M. Ponzi (a cura di), Goethes Rückblick auf die
Antike, Schmidt, Berlin 1999, pp. 132-160.
4. A Keats è dedicato il fondamentale saggio di Leo Spitzer sull’ékphrasis, uno
dei punti di non ritorno della critica novecentesca. Cfr. L. Spitzer, «The ‘Ode on
a Grecian Urn,’ or Content vs. Metagrammar», in Id., Essays on English and American
Literature, a cura di A. Hatcher, Princeton University Press, Princeton 1962,
pp. 67-97. Spitzer, anticipando Krieger, parla di «poetic description of a pictorial or sculptural work of art» (ibidem, p. 72).
5. In particolare, anche per una storia della ricezione, si veda Philostratos, Die
Bilder, sulla base dei lavori preparatori di Ernst Kalinka, curate, tradotte e commentate da O. Schönberger, Ernst Heimeran Verlag, München 1968, passim.
6. Sul “pictorial turn/iconic turn” mi permetto di rinviare alla mia Postfazione a
W.J.T. Mitchell, Pictorial turn. Saggi di cultura visuale, a cura di M. Cometa,
:duepunti edizioni, Palermo 2008.
7. È un’espressione che W.J.T. Mitchell usa in Picture Theory: Essays on Verbal
and Visual Representation, University of Chicago Press, Chicago 1994, pp. 154 ss.
8. O. Walzel, Wechselseitige Erhellung der Künste, Reuther & Richard, Berlin 1917.
9. J.H. Hagstrum, The Sister Arts. The Tradition of Literary Pictorialism and
English Poetry from Dryden to Gray, University of Chicago Press, Chicago 1958. È
significativo che Hagstrum, proprio per non confondere il piano delle Eikones
con quello della tradizione ecfrastica più tarda, parli di “poesia iconica” (iconic
poetry): «I justify this usage of the word “iconic” to refer to literary description
of works of graphic art by the example of Lucian and Philostratus who called
their works in this genre eikones. They use it of their own prose; I have extended the usage to poetry […]. I use the noun “ecphrasis” and the adjective “ecphrastic” in a more limited sense to refer to that special quality of giving voice and
language to the otherwise mute art object. My usage is ethimologically sound
132
Michele Cometa
since the Greek noun and adjective come from ekphrazein, which means “to
speak out”, “to tell in full”. It should be clear that my usage is more limited than
the usual one […]. The Oxford Classical Dictionary defines it as “the rhetorical
description of a work of art” […]. For Saintsbury, if we confine ourselves to the
vocabulary of the ancients, an ekphrasis is that which achieves enargeia» (ibidem,
p. XXII, nota 34).
10. R.W. Lee, Ut Pictura Poesis, The Humanistic Theory of Painting, New York,
Norton, 1967 (Ut Pictura Poesis, Sansoni, Firenze 1974).
11. W. Steiner, The Colors of Rethoric, University of Chicago Press, Chicago and
London 1982.
12. U. Weisstein, Einführung in die vergleichende Literaturwissenschaft,
Kohlhammer, Stuttgart 1968; Id., Zur wechselseitigen Erhellung der Künste, in
H. Rüdiger (a cura di), Komparatistik. Aufgaben und Methoden, Kohlhammer,
Stuttgart 1973, pp. 152-165 e I. Hoesterey, U. Weisstein (a cura di), Intertextuality.
German Literature and Visual Art from the Renaissance to the Twentieth Century,
Camden House, Columbia S C 1993.
13. L ’ opera fondamentale di M. Krieger, Ekphrasis. The Illusion of Natural Sign,
Johns Hopkins University Press, Baltimore-London 1991 è preceduta da un
importante saggio in cui questi fa i conti con la tradizione lessinghiana. Cfr.
M. Krieger, Ekphrasis and the Still Movement of Poetry, or Laokoön Revisited, in
F.P.W. McDowell (a cura di), The Poet as Critic, Northwestern University Press,
Evanston 1967, pp. 3-26, ora in Ekphrasis. The Illusion of Natural Sign, cit., pp.
263-288. Su Krieger: G. Raaberg, Ekphrasis and the Temporal/Spatial Metaphor in
Murray Krieger’s Critical Theory, «New Orleans Review», 12 (1985), pp. 34-43.
14. J. Heffernan, Ekphrasis and Representation, «New Literary History», 22 (1991),
pp. 297-316 e Id., Museum of Words. The Poetry of Ekphrasis from Homer to
Ashbery, University of Chicago Press, Chicago 1993.
15. W.J.T. Mitchell, Ekphrasis and the Other, «South Atlantic Quarterly», 91 (1992),
pp. 695-719. Di seguito questo saggio sarà citato dalla versione compresa qualche
anno più tardi in Picture Theory. Essays on Verbal and Visual Representation, cit.,
pp. 151-181.
16. In realtà Krieger sa benissimo di procedere ad un allargamento del campo
semantico dell’ékphrasis che comprende adesso tutta la tradizione che va dalle
Immagini di Filostrato alla poesia ecfrastica moderna: «Hagstrum, trying to be
ethimologically faithful to the word ekphrasis, uses this word more narrowly than
I do […]. To be true to the sense of “speaking out”, he restricts it “to that special quality of giving voice and language to the otherwise mute art object”. The
other descriptions of spatial works of art, those that are not made to “speak out”
he merely calls “iconic” even as he admits this is a narrower use of ekphrasis than
that of his predecessors […]. Since I confess from the start that I intend to broaden poetry’s ekphrastic propensities, it would be expected that I also am using
Il “fantasma” delle Immagini
133
ekphrasis here to include what Hagstrum calls “iconic” as well as what he calls
“ekphrastic”» (ibidem, p. 7).
17. M. Krieger, Ekphrasis and the Still Movement of Poetry, or Laokoön Revisited,
cit., p. 265.
18. J. Heffernan, Ekphrasis and Representation, cit., p. 299: «ekphrasis is the verbal
representation of grapich representation».
19. Cfr. R. Webb, Ekphrasis Ancient and Modern: The Invention of a Genre, «Word
& Image», 15 (1999), pp. 7-18 e sul versante della descrizione l’ormai classico Ph.
Hamon, Du descriptif, Hachette, Paris 1993.
20. A dire il vero preceduta, già nel 1988, da W. Harms (a cura di), Text und Bild.
Bild und Text. DFG-Symposion 1988, Metzler, Stuttgart 1990.
21. Per una distinzione tra queste forme di interazione tra verbale e visuale mi
permetto di rimandare al mio Letteratura e arti figurative: un catalogo,
«Contemporanea», 3 (2005), pp. 15-29.
22. J. Heffernan, Museum of Words, cit., p. 300. E ancora: «I have tried to
distinguish ekphrasis from pictorialism and iconicity, but I see no reason to
close its borders against any kind of writing that is explicity concerned with a
work of art, and unless representation requires the absence of the thing represented, a picture title is a verbal representation of the picture» (ibidem, p.
303). La questione dei “titoli” delle opere d’arte visiva è questione particolarmente spinosa. In fin dei conti essa potrebbe rappresentare il “grado zero” dell’ékphrasis, una forma embrionale di descrizione che per altro, come vedremo
più avanti, “integra” l’opera visiva e la rende partecipe di un orizzonte ermeneutico più ampio. Heffernan, con ragioni che vanno considerate, nella sua
opera più tarda tende a sottolineare che l’ékphrasis è sempre un momento
“secondo” rispetto alla creazione dell’opera d’arte visiva e che dunque i titoli
apposti dagli stessi artisti vanno visti come parti integranti dell’opera e non
costituisco un’ékphrasis secondaria (ibidem, p. 194, nota 23). Distinguere i due
momenti appare però difficile se si considera – come ha insegnato Mitchell –
ogni opere visiva fortemente condizionata da esperienze verbali e dunque,
congenitamente, un “mixed medium”.
23. M. Krieger, Ekphrasis and the Still Movement of Poetry, or Laokoön Revisited,
cit., passim.
24. Sul carattere “infinito” di questa tensione tra verbale e visuale mi sono soffermato a partire da Foucault in Modi dell’ékphrasis in Foucault, in M. Cometa,
S. Vaccaro (a cura di), Lo sguardo di Foucault, Meltemi, Roma 2007, pp. 39-62.
25. M. Krieger, Ekphrasis. The Illusion of Natural Sign, cit., p. 22. Su questa “infinita relazione” si veda anche G. Shapiro, The Absent Image: Ekphrasis and the ‘Infinite
Relation’ of Translation, «Journal of Visual Culture», 6 (2007), pp. 13-24.
26. W.J.T. Mitchell, Spatial Form in literature: Toward a General Theory, «Critical
Inquiry», 6 (1980), pp. 539-567. Questo saggio sarà poi ripubblicato all’interno
134
Michele Cometa
della raccolta curata dallo stesso Mitchell, The Languages of Images, University of
Chicago Press, Chicago 1980.
27. W.J.T. Mitchell, Spatial Form in Literature: Toward a General Theory, cit., p. 545.
28. W.J.T. Mitchell, Picture Theory: Essays on Verbal and Visual Representation,
cit., pp. 83 ss.
29. W.J.T. Mitchell, Spatial Form in literature: Toward a General Theory, cit., p.
566: «Instead of Lessing’s strict opposition between literature and the visual arts
as pure expressions of temporality and spatiality, we should regard literature and
language as the meeting grounds of those two modalities, the arena in which
rhythm, shape, and articularity convert babbling into song and speech, doodling
into writing and drawing».
30. W.J.T. Mitchell, Picture Theory: Essays on Verbal and Visual Representation,
cit., p. 157.
31. Ibidem, p. 163.
32. M. Krieger, Ekphrasis. The Illusion of Natural Sign, cit., pp. 232 ss. dove parla
di un “semiotic desire” represso in nome della natura!
33. J. Hollander, The Poetic of Ekphrasis, «Word & Image», 4 (1988), pp. 209-219.
34. W.J.T. Mitchell, Picture Theory: Essays on Verbal and Visual Representation,
cit., p. 160.
35. Ibidem, p. 89. E ancora più esplicitamente «One will, above all, be constrained
to take on the subject of the image/text, not as a kind of luxury “option” for the
amateur, the generalist, or the aesthete, but as a literal, material necessity dictated by the concrete forms of actual representational practices […]. The
image/text problem is not just something constructed “between” the arts, the
media, or different forms of representation, but an avoidable issue within the
individual arts and media. In short, all arts are “composite” arts (both text and
image); all media are mixed media, combining different codes, discursive conventions, channels, sensory and cognitive modes» (ibidem, pp. 94-95).
36. Ibidem. È questo il presupposto da cui si muove tutta la ricerca filosofica di
Gottfried Boehm, il teorico dell’«iconic turn», che sta studiando, una volta accertata la consistenza filosofica e gnoseologica delle immagini, una «Logik der
Bilder». Si veda l’epocale dibattito tra Mitchell e Boehm stimolato da Hans
Belting in H. Belting (a cura di), Bilderfragen: Die Bildwissenschaften im Aufbruch,
Fink, München 2007, pp. 27 ss. Per una ricostruzione dell’itinerario teorico di
Boehm si veda ora Wie Bilder Sinn erzeugen. Die Macht des Zeigens, Berlin
University Press, Berlin 2007.
37. G. Boehm, H. Pfotenhauer (a cura di), Beschreibungskunst - Kunstbeschreibung.
Ekphrasis von der Antike bis zur Gegenwart, Fink, München 1995. Molti degli esiti
di questa ricerca tedesca sono adesso disponibili nella collana curata da G.
Boehm, G. Brandstetter e K. Stierle presso l’editore Fink di Monaco di Baviera
38. Storia dell’arte che nel frattempo si dotava di importanti riconsiderazioni
Il “fantasma” delle Immagini
135
della questione dell’ékphrasis intesa questa volta come questione precipua della
cultura visuale delle diverse epoche. Su ciò si vedano almeno gli studi di Svetlana
Alpers, Describe or Narrate? A Problem in Realistic Representation, «New Literary
History», 8 (1976), pp. 15-41 e Id., Ekphrasis and Aesthetic Attitudes in Vasari’s
Lives, «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 23 (1960), pp. 190-215
nonché quelli di Max Baxandall, Painting and Experience in Fifteenth Century Italy,
Oxford University Press, Oxford 1972 (Pittura ed esprienze sociali nell’Italia del
Quattrocento, Einaudi, Torino 1978); Id., Patterns of Intention, Yale University
Press, Yale 1983 (Forme dell’intenzione. Sulla spiegazione storica delle opere d’arte,
Einaudi, Torino 2000) e Id., The Language of Art History, «New Literary
History», 10 (1979), pp. 453-465.
39. Nel quale vanno almeno ricordate due opere fondamentali sull’ékphrasis della
Goethezeit come quelle di H. Pfotenhauer, Um 1800. Konfigurationen der
Literatur, Kunstliteratur und Ästhetik, Niemeyer, Tübingen 1991 e di E.
Osterkamp, Im Buchstabenbilde. Studien zum Verfahren goethischer
Bildbeschreibungen, Metzger, Stuttgart 1991. Un precursore di questi studi sulla
Kunstbeschreibung è Bernhard Dieterle, Erzählte Bilder. Zum narrativen Umgang
mit Gemälden, Hitzeroth, Marburg 1988. Si cfr. inoltre: U. Fix, H. Wellmann (a
cura di), Bild im Text-Text und Bild, Winter, Heidelberg 2000; K. Fiedl, I. Fiedl
(a cura di), Kunst im Text, Stroemfeld, Frankfurt a.M. - Basel 2005, C. Meister,
Legenden. Zur Sichtbarkeit der Bildbeschreibung, Diaphanes, Zürich-Berlin 2005.
40.Si cfr. L. Louvel, Texte/Image. Images à lire, textes à voir, Presses
Universitaires des Rennes, Rennes 2002; J. Labarthe-Postel, Littérature et peinture dans le Roman Moderne. Une rhéthorique de la vision, L ’ Harmattan, Paris
2002; J. Morizot, Interfaces: texte et image. Pour prendre du recul vis-à-vis de la
sémiotiques, Presse Universitaires de Rennes, Rennes 2004; B. Vouilloux, La
Peinture dans le texte X V I I I e – X X e siécles, C N R S Editions, Paris 2005.
41. I capiscuola di questa rinnovata attenzione per la visualità vanno considerati
Max Milner e Philippe Hamon. Del primo si vedano almeno La Fantasmagorie.
Essai sur l’optique fantastique, P U F , Paris 1982 (La fantasmagoria. Saggio sull’ottica
fantastica, il Mulino, Bologna 1989) e L’Envers du visible. Essai sur l’ombre, Seuil,
Paris 2005. Di Hamon: Expositions, littérature et architecture au X I X e siècle, José
Corti, Paris 1989 (Esposizioni: Letteratura e architettura nel X I X secolo, trad. it. di
M. Giuffredi, prefazione di M. Di Puolo, Clueb, Bologna 1995); Imageries.
Littérature et image au XIXe siècle, José Corti, Paris 2007 e La letteratura, la linea,
il punto, il piano, in R. Coglitore (a cura di), Cultura visuale. Paradigmi a confronto, :duepunti edizioni, Palermo 2008, pp. 63-79.
42. U. Eco, Les sémaphores sous la pluie, in Id., Sulla letteratura, Bompiani, Milano
2002, pp. 191-214.
43. C. Segre, La pelle di San Bartolomeo. Discorso e tempo dell’arte, Einaudi, Torino
2003 e Id., Pittura, linguaggio e tempo, Monte Università, Parma 2006.
136
Michele Cometa
44.P.V. Mengaldo, Tra due linguaggi. Arti figurative e critica, Bollati Boringhieri,
Torino 2005.
45. M. Praz, Mnemosine, parallelo tra la letteratura e le altre arti (1971), S E , Milano,
2008. Il testo rappresentò all’epoca della sua pubblicazione la tempestiva ed
innovativa risposta italiana agli studi di Hagstrum e di Lee.
46. Sul piano della riflessione teorica si vedano in Italia anche gli studi di M.
Carboni, L’occhio e la pagina. Tra immagine e parola, Jaca Book, Milano 2002.
Ampie ricognizioni storiche sono quelle effettuate in A. D’Amelia, F. Di
Giovanni, L. Perrone Capano (a cura di), Scritture dell’immagine. Percorsi figurativi della parola, Liguori, Napoli 2007; R.S. Crivelli, Lo sguardo narrato: Letteratura
e arti visive, Carocci, Roma 2003; A. Valtolina (a cura di), L’immagine rubata.
Seduzioni e astuzie dell’ékphrasis, Bruno Mondadori, Milano 2007.
47. Cfr. J. Hollander, The Poetics of Ekphrasis, «Word & Image», 4 (1988), p. 209.
John Hollander è anche autore di una più recente opera dedicata all’ékphrasis, dal
titolo The Gazer’s Spirit: Poems Speaking to Silent Works of Art, University of
Chicago Press, Chicago 1995, dove riprende la distinzione tra “notional” e “actual”.
48. Sullo “scudo di Achille” si vedano i saggi di A.S. Becker che costituiscono
ormai un punto di riferimento della ricerca sull’ékphrasis: Reading Poetry through
Distant Lens: Ecphrasis, Ancient Greek Rhetoricians, and the Pseudo-Hesiodic “Shield
of Heracles”, «The American Journal of Philology», 113 (1992), pp. 5-24; Sculpture
and Language in Early Greek Ekphrasis: Lessing’s Laocoon, Burke’s Enquiry, and the
Hesiodic Description of Pandora, «Arethusa», 26 (1993), pp. 277-293; The Shield of
Achilles and the Poetics of Homeric Description, «The American Journal of
Philology», 111 (1990), pp. 139-153.
49. O molto più semplicemente perché alcune opere d’arte vanno perdute e le
loro descrizioni diventano l’unico modo per avvicinarci ad esse. Cfr. J. Hollander,
The Gazer’s Spirit: Poems Speaking to Silent Works of Art, cit., pp. 34 ss..
50. J. Hollander, The Poetics of Ekphrasis, cit., p. 209.
51. K. Lehmann-Hartleben, The Imagines of the Elder Philostratus, «The Art
Bulletin», 23 (1941), pp. 16-44.
52. Philostratos, Die Bilder, cit., pp. 41 ss.
53. Se ne vedano alcuni esempi in Philostratos, Die Bilder, cit., nell’appendice
iconografica.
54. Ibidem, pp. 51 ss.
55. Di solito più di uno tanto da indurre gli interpreti, a cominciare da Caylus, a
deprecare la disorganicità delle pitture. Quasi replicando all’accusa che gli avrebbe mosso molti secoli dopo il Conte di Caylus – Filostrato stabilisce il principio
che la «quantità degli oggetti non costituisce affatto un impedimento alla verità»
(1.12) purché l’artista sappia armonizzare tante parti come se si trattasse di un
«solo oggetto». Oggi per altro sappiamo che alcune di queste pitture avrebbero
potuto essere composte da più scene sovrapposte o giustapposte – come nei
Il “fantasma” delle Immagini
137
fumetti – e questo avrebbe autorizzato Filostrato a descrivere sequenze di azioni molto lunghe e complesse. Sullo “stile continuo” delle immagini di Filostrato
si cfr. le considerazioni di Schönberger in Philostratos, Die Bilder, cit., pp. 37 ss.
56. A. Lesky, Bildwerk und Deutung bei Philostrat und Homer, «Hermes», 75 (1940),
pp. 38-53.
57. Sulle Immagini come scena primaria della filosofia ha scritto pagine molto
convincenti F. Fimiani, Forme informi. Studi di Poetiche del visuale, Il Melangolo,
Genova 2006, pp. 33-75 al quale rimandiamo per una più ampia considerazione
della “teoresi” di Filostrato. Di Fimiani si veda anche Lo sguardo parlato, in
A. Somaini (a cura di), Il luogo dello spettatore. Forme dello sguardo nella cultura
delle immagini, Vita e Pensiero, Milano 2005, pp. 27-52 che costituisce una variazione del saggio più sopra citato.
58. Sulle elencazioni cfr. U. Eco, Les Sémaphores sous la pluie I e II, «Golem.
L ’ indispensabile», 7-8 (2002) «http://www.golemindispensabile.it/index.php?_idnodo=8702» e « http://www.golemindispensabile.it/index.php?_idnodo=7450». Eco ha
sviluppato in questo saggio in formato digitale le considerazioni già svolte in Sulla
letteratura, cit.
59. Le istruzioni per i pittori costituscono una forma di ékphrasis tra le più diffuse. Su ciò si cfr. innanzitutto J. Hollander, The Gazer’s Spirit: Poems Speaking to
Silent Works of Art, cit., p. 23.
60.U. Eco, Les sémaphores sous la pluie I e II, cit., passim.
61. Va notato che Filostrato privilegia queste metamorfosi, perché sono la prova
che anche un’immagine può vivere ed “agire” come un racconto. Cfr. Ch. Michel,
Die ‘Weisheit’ der Maler und Dichter in den Bildern des älteren Philostrat, «Hermes»,
102 (1974), pp. 457-466.
62. Un discorso a parte, che esula dai compiti di questa postfazione, sarebbe una
discussione delle scene di morte del testo, assai numerose e culminanti nella considerazione – parecchio significativa dal punto di vista della storia dell’estetica – che
la descrizione della morte e in fin dei conti la morte stessa non ha nulla di orroroso.
Anzi i volti degli eroi, prima contratti nella sofferenza o nella lotta, subiscono una
sorta di trasfigurazione di cui la pittura è complice. Si prenda il caso di Ippolito in
cui il retore si rivolge agli astanti e all’eroe stesso esclamando: «Ma come sei bello,
nonostante tutto. Non sapevamo ancora che la bellezza fosse invulnerabile: non solo
non ha abbandonato il giovane, ma trae persino dalle ferite una certa grazia» (2.4).
Nella descrizione immediatamente successiva – fatto che ci conferma nella convinzione di un’elaborazione per così dire trasversale dei singoli testi – Filostrato esordisce con una scena d’orrore, dove persino il sangue e i cadaveri producono piacere
all’occhio (2.5). Più avanti Pantea quasi risplende trasfigurata nella morte (2.9).
63. Su ciò mi permetto di rimandare alla mia tipologia dell’ékphrasis romantica
contenuta in Descrizione e desiderio. I quadri viventi di E.T.A. Hoffmann, Meltemi,
Roma 2005.
138
Michele Cometa
64. Sulla Nacherzählung mi permetto di rimandare al mio Dipingere il mito, in M.
Cometa, Parole che dipingono. Letteratura e cultura visuale tra Settecento e
Novecento, Meltemi, Roma 2004, pp. 56 ss.
65. Ibidem, p. 50.
66. H. Belting, Per una iconologia dello sguardo, in R. Coglitore (a cura di), Cultura
visuale. Paradigmi a confronto, cit., pp. 5-27. Sulla centralità del “gaze” nella riflessione della visual culture contemporanea si vedano almeno N. Bryson, Vision and
Painting. The Logic of Gaze, Yale University Press, New Haven 1983 e K.
Silvermann, The Threshold of the Visible World, Routledge, New York-London
1996. In Italia si vedano almeno F. Curi, La forza dello sguardo, Bollati
Boringhieri, Torino 2004 e A. Somaini (a cura di), Il luogo dello spettatore. Forme
dello sguardo nella cultura delle immagini, Vita & Pensiero, Milano 2005.
67. Ad esempio J. Hagstrum, The Sister Arts. The Tradition of Literary Pictorialism
and English Poetry from Dryden to Gray, cit., p. 30: «Philostratus looks upon verbal expression as painterly, but he also considered paintings literary. Philostratus
reads paintings as though they were dramas. He reconstructs their fables, myths,
and even geographical details; he makes them speak and even act». Filostrato è
perfettamente consapevole di questo procedimento se nella descrizione dedicata a Cassandra può scrivere: «Se consideriamo la scena, ragazzo mio, siamo nel
bel mezzo di una tragedia; se invece osserviamo la pittura, mille dettagli ci colpiscono gli occhi» (2.10). Stephen Beall ha interpretato anche questo passaggio
come una chiara indicazione del fatto che la descrizione è ermeneuticamente più
ricca persino della scena teatrale (Word-Painting in the ‘Imagines’ of the Elder
Philostratus, «Hermes», 121 (1993), pp. 350-363).
68. F. Fimiani, Forme informi. Studi di Poetiche del visuale, cit., p. 45.
69. Sull’ékphrasis di Diderot, oltre al sempre fondamentale August Langen, Die
Technik der Bildbeschreibung in Diderots “Salons”, «Romanische Forschungen», 61
(1948), pp. 324-397, si veda K. Berri, Diderot’s Hieroglyphs, «SubStance», 92 (2000),
pp. 68-93.
70. Se ne veda l’analitica ricostruzione in K. Lehmann-Hartleben, The Imagines of
the Elder Philostratus, cit., passim.
71. Si vedano le osservazioni topologiche di F. Fimiani, Forme informi. Studi di
Poetiche del visuale, cit., pp. 54 ss.
72. Nell’incipit dei Cacciatori il retore riporta quello che i cacciatori dicono sul
cinghiale selvaggio: «Date la caccia a un cinghiale selvaggio, dite…» (1.28).
Atlante delle immagini
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1. Jean-Baptiste Deshays, Hector exposé sur les rives du Scamandre, Musée Fabre,
Montpellier [Immagini 1.1].
2. Lorenzo Costa, Il regno del dio Como (Studiolo di Isabella d’Este), Louvre, Parigi [1.2].
3. Sir Roger L ’ Estrange, illustrazione da Fables of Æsop: and other eminent mythologists, with
morals and reflexions, R. Sare, London 1694 [1.3].
4. Francesco Albani, Venere (La primavera), Galleria Borghese, Roma [1.6].
5. Nicolas Poussin, Bacchanale de putti, Galleria Nazionale d’Arte Antica, Roma [1.6].
5. Guido Reni, Lotta di putti, Galleria Doria Pamphilj, Roma [1.6].
7. Pieter Paul Rubens, Venere, Kunsthistorisches Museum, Vienna [1.6].
8. Tiziano Vecellio, La festa di Venere, Prado, Madrid [1.6].
9. Bernard Picart, Memnon, in Michel de Marolles, De Tempel der Zang-Godinen,
Amsterdam, 1732 [1.7].
10. Geremia Discanno, Nettuno e Amimone (Pompei, Casa della Regina Margherita),
Deutsches Archäologisches Institut im Rom, Roma [1.8].
11. Elisabeth LouiseVigée Le Brun, Anfione, collezione privata [1.8].
12. Johann Liss, The Fall of Phæton, Denis Mahon Collection, Londra [1.11].
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13. Pieter Paul Rubens, Caduta di Fetonte, National Gallery of Art, Washington D C
[Immagini 1.11].
14. Gustave Moreau, Jupiter et Sémélé, Musée Gustave Moreau, Parigi [1.14].
15. Giulio Carpioni, Arianna abbandonata, Pinacoteca Civica di Castello Sforzesco, Milano
[1.15].
16. Antoine Coypel, Bacchus et Ariane, Ermitage, San Pietroburgo [1.15].
17. Jacob Jordaens, Bacco e Arianna, Museum of fine arts, M. Theresa B. Hopkins Fund,
Boston [1.15].
18. Charles Le Brun, Thésée abandonnant Ariane, collezione privata [1.15].
19. Jean Raoux, Bacchus et Ariane, Fondazione Ugo e Olga Levi, Venezia [1.15].
20. Guido Reni, Bacco e Arianna, Los Angeles County Museum of Art, Los Angeles [1.15].
21. Eustache Le Sueur, Bacchus et Ariane, Museum of Fine Arts, Boston [1.15].
22. Tiziano Vecellio, Bacco e Arianna, Prado, Madrid [1.15].
23. Alessandro Turchi, Bacco e Arianna, Ermitage, San Pietroburgo [1.15].
24. Giulio Romano, Pasiphae, Palazzo T e, Mantova [1.16].
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25. Charles Gleyre, La Danse des bacchantes, Musée Cantonal des Beaux-Arts, Losanna
[Immagini 1.18].
26. Nicolas Poussin, Mida e Bacco, Schloß Nymphenburg, Monaco di Baviera [1.22].
27. Caravaggio, Narciso, Galleria Nazionale d’Arte Antica, Roma [1.23].
28. Jean Broc, La Mort de Hyacinthe, Musée Sainte-Croix, Poitiers [1.24].
29. Jacopo Zanguidi Bertoja, Baccanale degli Andri, collezione privata [1.25].
30. Pieter Paul Rubens, Gli Andri, Nationalmuseum, Stoccolma [1.25].
31. Tiziano Vecellio, Baccanale degli Andri, Prado, Madrid [1.25].
32. Piero di Cosimo, Perseo libera Andromeda, Museo degli Uffizi, Firenze [1.29].
33. Charles-Antoine Coypel, Persée délivrant Andromède, Musée du Louvre, Parigi [1.29].
34. François Le Moine, Persée et Andromède, Wallace collection, Londra [1.29].
35. Pierre Mignard, La Délivrance d’Andromède, Musée du Louvre, Parigi [1.29].
36. Rembrandt Harmenszoon van Rijn, Andromeda, Mauritshuis, L ’ Aia [1.29].
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37. Pieter Paul Rubens, Perseo e Andromeda, Ermitage, San Pietroburgo [Immagini 1.29].
38. Anton van Dyck, Andromeda incatenata, Los Angeles County Museum of Art,
Los Angeles [1.29].
39. Carle Van Loo, Perseo e Andromeda, Ermitage, San Pietroburgo [1.29].
40. Giorgio Vasari, Perseo libera Andromeda, Studiolo di Francesco I, Palazzo Vecchio,
Firenze [1.29].
41. Paolo Veronese, Perseo libera Andromeda, Musée des Beaux-Arts, Rennes [1.29].
42. Giovanni Battista Cipriani, Chirone educa Achille al tiro con l’arco, Philadelphia Museum
of Art, Philadelphia [2.2].
43. Pieter Paul Rubens, La morte di Ippolito, Fitzwilliam Museum, Cambridge [2.4].
44. Jacob Jordaens, Pan punito dalle ninfe, Mauritshuis, L ’ Aia [2.11].
45. Pollaiolo, Ercole e Anteo, Museo degli Uffizi, Firenze [2.21].
46. Lucas Cranch der Jüngere, Der erwachte Herkules vertreibt die Pygmäen, Staatliche
Kunstsammlungen Dresden, Dresda [2.22].
47. Gustave Moreau, Diomède dévoré par ses chevaux, Musée des Beaux-Arts, Rouen [2.25].
48. Jean-Baptiste Marie Pierre, Diomède tué par Hercule est dévoré par ses propres chevaux,
Musée Fabre, Montpellier [2.25].
Indice dei nomi
Abdera 86, 87
Abradate 67, 68
Achei 30, 58, 64
Acheloo 46, 48
Achille 23, 58, 59, 64, 65
Acropoli 76, 88
Adrasto 50
Adriatico 74
Afareo 73
Afrodite 29, 40, 57, 58
Agamennone 58, 65, 69, 70
Agave 42
Aiace di Locri 65
Aiace Telamonio 65, 71, 72
Alcioni 73
Alfeo 41, 55, 63
Amazzoni 60, 62
Amimone 30, 31
Amori 27, 28, 29, 32, 40, 65, 91
Andro 48, 49
Andromeda 53, 54
Anfiarao 25, 50, 51
Anfione 33
Antedone 73
Anteo 82, 83, 84
Antigone 89, 90
Antiloco 64, 65
Apollo 33, 48, 50, 51, 80, 81
Araspe 67
Arcadia 41, 92
Archiloco 25
Argo (nave) 72
Argo (mostro) 84
Argo (città) 90
Arianna 38, 39
Arione di Tenaro 44
Aristodemo di Caria 22
Aristone 26
Armeni 61, 62
Armonia 42, 43, 57, 80
Arrichione 63, 64
Artemide 53, 61
Asia 23, 35
Assiria 38, 68
Astrape 38
Atena 88
Atene 39, 54, 76, 88, 91
Ateniesi 40, 67, 76, 88, 89
Atlante 81, 82
Atlantico 53
Atridi 65
Atteone 38
Attica 50
Aurora 29, 30
Axio 67
Babilonia 91
150
Filostrato
Baccanti 38, 39, 42, 43, 46, 49, 77
Balio 59
Beozia 80
Borea 73
Bosforo 35, 36, 72
Bracci 26
Briseide 58
Bronte 38
Cadmea 50, 90
Cadmo 38, 42
Caistro 34
Capaneo 25, 50, 68, 89, 90, 91
Cassandra 69, 70
Cefiso 67, 80
Chirone 58, 59
Ciclopi 79
Cillene 44
Ciro 67, 68
Citerone 38, 42
Clitemnestra 69, 70
Cloto 55
Colco 73, 76
Como 24, 25, 49
Corinzi 74
Coroneo 86
Creonte 26
Creso 67, 68
Creta 39, 53
Criteide 65, 66
Daifanto 71
Danao 30
Davo 25
Dedalo 39, 40
Delfi 80
Dia 38
Diomede 41, 86
Dioniso 38, 39, 42, 43, 44, 46, 48, 49, 56,
76, 77
Dioscuri 73
Dodona 73, 93
Driadi 92
Eacidi 73
Ebe 82
Eco 42, 70, 77, 93
Edipo 25, 89
Efesto 23, 27, 88
Egeo 30, 55, 71, 74
Egisto 69
Egitto 27, 72
Egizi 26, 30, 72
Elea 64
Eliadi 34, 35
Elle 73
Encelado 76
Enio 90
Enipeo 65, 67
Enomao 41, 54
Eracle 73, 81, 82, 83, 84, 85, 86, 87
Eridano 34
Erinni 85, 90
Ermes 33, 49, 50, 83, 92
Eros 36, 54, 58, 69, 86
Esiodo 89
Esopo 25
Esperidi 76, 82
Eteocle 90
Etiopi 29, 30, 53, 54
Etiopia 27, 30, 53, 54
Ettore 50, 58, 65, 72
Eumelo 22
Euripide 84
Euristeo 81, 84
Europa 23, 35, 75
Evadne 90, 91
Fedra 60
Fenici 52
Fetonte 34, 35
Flegi 80
Focide 80
Forba 80
Frigia 35, 45
Frisso 73
Galatea 79, 80
Giacinto 47
Giasone 73
Giri 71, 72
Immagini
Glauco 72, 73
Gorgone 54
Gran Re (Dario) 91
Greci 64
Grecia 63, 91
Gyros 74
Helli 93
Hello 93
Hieron 36
Iliade 23
Ilio (Troia) 23, 58, 71
Imbro 75
Imetto 71
Inaco 31
India 53
Ino 74
Ionia 65, 66, 67
Ippodamia 41, 55
Ippolito 60, 61
Ippomedonte 89, 90
Iris 88
Issione 60
Istmo 74
Istro 34, 37, 48
Itaca 65
Italia 22, 76
Lacedemoni 63
Laconia 53
Lecheo 74
Lemno 75
Lesbo 58, 75
Leucotea 74
Libia 82
Licambe 25
Lidi 41, 55
Lidia 38, 43, 45, 54, 67, 68, 69
Linceo 73
Lindo 85, 86
Locri 53, 65, 71
Maia 49, 50
Malta 79
Mar Rosso 53
Marone 43
151
Maronea 43
Marsia 44
Medi 91, 92
Media 52
Megara 84
Megera 38
Mele 65, 66
Melicerte 74
Memnone 29, 30, 64, 65
Meneceo 25, 26
Menelao 64, 65
Meotide 37
Mida 45, 46
Mirtilo 41
Muse 33, 38, 67, 80
Naiadi 60, 66, 70
Napoli 22
Narciso 46, 47
Neocle 91
Nereidi 66, 74, 75
Nilo 26, 27, 30, 48, 72
Ninfe 27, 29, 44, 46, 51, 61, 70, 71, 88
Nisa 62
Oceano 35, 52, 67
Olimpia 81, 92
Olimpo 44, 49, 50
Olmeio 67
Omero 23, 25, 30, 49, 58, 64, 65, 67, 89, 93
Ore 34, 45, 49, 93, 94
Orfeo 72, 73
Oropo 51
Pafo 58
Palemone 44, 74
Palestra 82, 92, 93
Pan 38, 39, 43, 70, 71
Pantea 67, 68, 69
Parche 67
Paride 58
Partenopeo 89
Pasifae 39, 40
Patroclo 23, 58, 64, 65
Pattolo 48
Peitho 41
152
Filostrato
Peleo 30
Pelio 60
Pelope 41, 54, 55
Pelopidi 54
Peloponneso 41
Penelope 88, 89
Peneo 48, 67, 72
Penteo 38, 42
Perseo 53, 54
Persia 92
Persiani 61, 67
Pigmei 83, 84
Pindaro 70, 71, 86
Pito 93
Polifemo 79
Polinice 25, 50, 89, 90
Ponto 36, 37, 72
Poseidone 27, 30, 31, 41, 54, 55, 65, 71, 72,
74, 75, 79
Pramno 88
Priamo 58, 69
Prometeo 85
Proteo 78
Protesilao 68
Pudore 57
Rea 71
Riso 49, 81
Rodi 85, 88
Rodogune 61, 62
Saffo 57, 58
Salamina 91
Scamandro 23, 58, 70
Semele 38
Senofonte 67
Seri 89
Serse 92
Sicilia 76
Sileno 76, 77
Simplegadi 72
Sipilo 41
Sirene 79
Sisifo 74
Sogno 51
Sole 92
Sonno 84
Sparta 54
Taso 88
Tebe 25, 26, 33, 38, 42, 50, 90
Temistocle 91, 92
Tempe 48, 75
Teo 39
Teodamante 85, 86
Terra 82, 83
Teseo 38, 39, 60
Tessaglia 65, 72, 74, 75
Tessali 72
Tideo 65, 89, 90
Tifide 73
Tifone 76
Tiro 28, 50, 52, 65, 80, 86
Tirreni 43, 44
Tirreno 22
Titaresio 67
Titaresso 72
Tmolo 43
Tritoni 49, 80
Troia 29, 30, 69, 70
Troiani 58, 72
Ulisse 70
Urano 58
Verità 51
Xanto 59
Zefiro 32, 34, 44, 45, 48, 58, 74, 76, 80
Zeus 21, 30, 38, 50, 56, 59, 60, 66, 67, 68,
73, 75, 76, 85, 87, 88, 90, 91, 92, 93
Zeus Herkeios 85
INDICE
Andrea L. Carbone
La verità e il suo specchio
IMMAGINI
Prologo
Libro I
1.1 Lo Scamandro
1.2 Como
1.3 Le Favole
1.4 Meneceo
1.5 I Bracci
1.6 Gli Amori
1.7 Memnone
1.8 Amimone
1.9 La palude
1.10 Anfione
1.11 Fetonte
1.12 Il Bosforo
1.13 Il Bosforo
1.14 Semele
1.15 Arianna
1.16 Pasifae
1.17 Ippodamia
1.18 Le Baccanti
1.19 I Tirreni
1.20 I Satiri
1.21 Olimpo
1.22 Mida
1.23 Narciso
1.24 Giacinto
1.25 Gli abitanti di Andro
1.26 La nascita di Ermes
1.27 Anfiarao
1.28 I cacciatori
1.29 Perseo
1.30 Pelope
1.31 I doni ospitali
5
19
21
23
23
24
25
25
26
27
29
30
31
33
34
35
36
38
38
39
41
42
43
44
44
45
46
47
48
49
50
51
53
54
55
156
Libro II
2.1 Coro di ragazze
2.2 L'educazione di Achille
2.3 Le donne centauro
2.4 Ippolito
2.5 Rodogune
2.6 Arrichione
2.7 Antiloco
2.8 Mele
2.9 Pantea
2.10 Cassandra
2.11 Pan
2.12 Pindaro
2.13 Giri
2.14 La Tessaglia
2.15 Glauco dio del mare
2.16 Palemone
2.17 Le isole
2.18 Il ciclope
2.19 Forba
2.20 Atlante
2.21 Anteo
2.22 Eracle tra i Pigmei
2.23 Eracle furioso
2.24 Teodamante
2.25 I funerali di Abdera
2.26 Doni ospitali
2.27 La nascita di Atena
2.28 Le tele
2.29 Antigone
2.30 Evadne
2.31 Temistocle
2.32 Palestra
2.33 Dodona
2.34 Le Ore
Note al testo
Filostrato
57
57
58
60
60
61
63
64
65
67
69
70
70
71
72
72
74
74
79
80
81
82
83
84
85
86
87
88
88
89
90
91
92
93
93
95
Michele Cometa
Il “fantasma” delle Immagini
107
ATLANTE DELLE IMMAGINI
140
INDICE DEI NOMI
149
Finito di stampare nel mese di ottobre 2008
per i tipi della Legatoria Manna – Rende (C S )
per conto di :duepunti edizioni – Palermo