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Filostrato, Immagini

Le Immagini raccontano sessantaquattro pitture che adornavano il portico di una villa nei pressi di Napoli. Filostrato le descrive e le interpreta per un gruppo di giovani ascoltatori fondando nella letteratura occidentale il genere dell’ékphrasis, e inventando la forma del museo letterario. La descrizione coglie la verità della pittura, frutto della sapienza dell’artista e obbligatoria palestra per il poeta e per il retore. Reinterpretate da Goethe e recuperate da innumerevoli pittori, le eikones mettono in scena l’eterno confronto tra parola e immagine. L’opera è corredata da apparati esegetici e critici di Andrea L. Carbone, arricchita da un percorso iconografico e completata da un saggio di Michele Cometa che mette in luce la fondamentale rilevanza del testo per le moderne indagini della cultura visuale.

3. argo | collana di cultura visuale diretta da Michele Cometa :duepunti edizioni via Siracusa 35 90141 Palermo [email protected] www.duepuntiedizioni.it Progetto grafico e impaginazione .:terzopunto.it © 2008 :duepunti edizioni – Palermo Tutti i diritti riservati ISBN 978-88-89987-15-5 Volume pubblicato con il contributo dell’Università degli Studi di Palermo Dipartimento di Arti e Comunicazioni – fondi P R I N 2005 (R1D020P6DGC2005) Filostrato Immagini a cura di Andrea L. Carbone con un saggio di Michele Cometa :duepunti edizioni Palermo Andrea L. Carbone La ver ità e i l su o s p e c c h i o Che cosa sono le immagini? Qual è il loro contenuto di verità? Quale rapporto intrattengono con le parole? Le Immagini sono un tentativo di sperimentare una soluzione a questi interrogativi tutt’altro che nuovi nell’ambito della cultura greca, ma mai affrontati in precedenza al di fuori del mito, della produzione letteraria o della speculazione filosofica. Ma anche un ibrido di mitologia, letteratura e filosofia, rielaborati e trasformati in ingredienti e strumenti per una retorica che vuole estendere il suo dominio. La cosiddetta “seconda sofistica”, iniziata con Eschine, giunge così nel contempo a una delle sue espressioni più alte e a una svolta decisiva, perché la cifra formale e teorica delle Immagini conferisce all’opera una collocazione particolare. I nuovi sofisti sono retori professionisti, che mirano al profitto con le loro performance e spesso non esitano a far ricorso ad espedienti concettuosi e spettacolari – tipica è la fioritura di “elogi” di cose inusitate – per corteggiare e imbonire il pubblico. Le Immagini intendono ugualmente trovare un nuovo campo di applicazione del dominio retorico, ma lo fanno rimettendo in discussione il repertorio degli espedienti sofistici e lo statuto epistemologico della disciplina. Si addice allora alle Immagini la strana vaghezza che ammanta l’opera su tre punti fondamentali, conferendole il fascino altero e per certi versi ineffabile di un classico immortale: l’identità dell’autore, la materia e il genere. 6 Andrea L. Carbone L ’enigma delle Immagini È incerta l’attribuzione delle Immagini a Filostrato di Lemno, detto il Vecchio, nato verso il 165 d.C., retore allievo di Antipatro, attivo prima ad Atene, poi a Roma sotto Settimio Severo. Il più antico riferimento all’opera si trova in una seconda serie di Immagini, anch’essa attribuita a un autore di nome Filostrato, che allude a una precedente ékphrasis composta dal nonno materno, suo omonimo. Una citazione della Vita di Apollonio nelle Vite dei sofisti – testo che peraltro definisce e codifica la seconda sofistica come movimento e tradizione – permetterebbe di attribuire queste opere a uno stesso autore. Ma il dato si accorda male con le indicazioni cronologiche derivate dalla Suda, che menziona con il nome di Filostrato tre diversi personaggi, tra i quali un figlio di Nerviano, vissuto a cavallo tra il I I e il I I I secolo d.C., anch’egli possibile autore del testo1. Parimenti incerta è la reale esistenza delle pitture descritte nell’opera. La narrazione è ambientata in una casa di Napoli, dove Filostrato si offre di illustrare l’argomento dei dipinti che ornano la stoa, il portico, a un gruppo di giovani. Al 1860-61 risale la querelle che oppose Friedrichs e Brunn intorno alla questione: il primo sosteneva l’infondatezza degli accostamenti proposti nel 1825 dall’archeologo Welcker a corredo dell’edizione Jacobs, obiettando che le descrizioni delle opere non collimano con i canoni dell’arte classica; il secondo replicava osservando che l’estetica ellenistico-romana non era affatto in contraddizione con gli elementi stilistici e formali che si possono desumere dalle descrizioni di Filostrato. Lehmann riassume i termini del dibattito annoverando tra gli scettici Caylus, Friedrichs, Matz e Robert, e tra coloro che ammettevano l’esistenza delle pitture descritte Welcker, Brunn e Wickhoff2. Il dibattito subì poi la forte influenza di Goethe, che nel 1818 aveva pubblicato un saggio sui Philostrats Gemaelde, promuovendo la realizzazione di un’edizione illustrata delle Immagini. Goethe sosteneva esplicitamente la tesi della reale esistenza delle opere descritte, ma metteva anche in rilievo la presenza dei modelli tramandati da Filostrato nella tradizione pittorica successiva: paradigmi che intendeva proporre come fonte di ispirazione per l’arte a venire. La verità e il suo specchio 7 La diversità di vedute sull’interpretazione del testo mostra che le Immagini di Filostrato sono state per lungo tempo un’opera viva, del novero di quelle che non rimangono esclusivamente note agli specialisti, un testo di cui si è fatto uso, un classico conteso tra diverse tradizioni e approcci disciplinari anche molto distanti, come la retorica, la critica e la storia dell’arte, e – più di recente – gli studi sulla cultura visuale. La definizione dello statuto dell’opera, del resto, è un problema avvertito dall’autore stesso: per questa ragione, il prologo delle Immagini non delinea soltanto la cornice narrativa del testo, ma anche i principî teorico-formali che lo ispirano3. L ’enigma delle immagini La descrizione è stata un elemento di rilievo della scatola degli attrezzi poetica fin dagli albori della cultura greca, e in questo senso si può considerare lo «scudo di Achille» omerico come un archetipo4 in seguito variamente sviluppato, in particolare da Luciano e Longo Sofista oltre che dallo stesso Filostrato. La compiuta formalizzazione dell’ékphrasis come elemento retorico e come genere è invece ben più tarda, e risale a Ermogene, Quintiliano e ai progymnasmata retorici bizantini5. A partire dal X V I I I secolo gli editori moderni delle Immagini, tuttavia, hanno ascritto l’opera – spesso senza nuance – al genere dell’ékphrasis6. L ’ interesse attuale per l’ékphrasis nell’ambito della critica letteraria e degli studi sulla cultura visuale rischia dunque di ingenerare equivoci e anacronismi7, e a questo proposito occorre sottolineare che nelle Immagini il termine ékphrasis stesso non è attestato, anche se – come si è detto – viene utilizzato poco più tardi da Filostrato il Giovane in riferimento all’opera. Se è vero dunque che le Immagini presentano tutte le caratteristiche salienti dell’ékphrasis in quanto genere, questa determinazione si evidenzia e si formalizza nell’ambito di una tradizione posteriore. Alcuni indizî testuali segnalano peraltro una certa cautela da parte dell’autore nell’approccio allo stesso dominio retorico: Filostrato dichiara ad esempio di non avere intenzione di fare un’esposizione 8 Andrea L. Carbone pubblica, utilizzando in questa occasione il termine melete, che tipicamente indica la declamazione retorica. Quando poi si riferisce al discorso che si accinge a intraprendere con il termine – anch’esso proprio del lessico retorico – di epideixis, l’autore aggiunge immediatamente una precisazione inusuale. Rispetto all’alternativa classica tra la macrologia tipica dell’arte retorica e la micrologia caratteristica dello scambio dialettico, infatti, Filostrato opta programmaticamente per l’esplorazione di una “terza via”8: un’esposizione che trasceglie nel pubblico plurale un singolo destinatario e lo designa come interlocutore privilegiato, attribuendogli la facoltà di interagire con richieste e domande, cioè di interrompere la continuità del discorso. Le Immagini, pertanto, non si attengono al modello formale del monologo retorico, e non a caso: questa cesura apre di fatto lo spazio in cui può dispiegarsi la mise en abîme – ovvero il complesso sistema di metadiscorsi – che è il tratto saliente dell’opera, e che nella pratica non si limiterà agli interventi (peraltro esigui) del giovane ospite, ma si tradurrà in un rapporto dinamico tra parola e immagine. La forma narrativa delle Immagini corrisponde dunque in qualche modo a quella mista adottata secondo Aristotele (Poet. 3, 1448a 22) da Omero, fonte principale di Filostrato, che consiste nell’alternare il discorso dei personaggi al discorso in prima persona. Rispetto al paradigma retorico, del resto, non è esattamente alla persuasione che l’ékphrasis aspira, ed è significativo che il termine peitho ricorra più avanti nel testo (1.6) in un’accezione inequivocabilmente negativa, a proposito di un ingannevole espediente amoroso. Secondo Filostrato, all’immagine attiene la verità: il discorso amoroso dello sguardo non può dunque tradursi nella violenza della persuasione, anche – e soprattutto – quando la vista è tratta in inganno. La strada percorsa secoli prima da Gorgia, l’estetica dell’inganno, giunge così a un bivio: se Gorgia affermava la giustezza dell’inganno perpetrato dalla tragedia e dell’apertura del pubblico dei teatri a lasciarsi ingannare, Filostrato invece – pur senza disconoscere all’artista la legittimità del ricorso al pathos e agli altri espedienti che inducono il fruitore a proiettarsi nell’immagine come se fosse reale – rivendica il ruolo attivo dell’osservatore attraverso la descrizione e La verità e il suo specchio 9 l’interpretazione dell’enigma delle immagini (1.6). E l’enigma è la cifra stessa della conoscenza che deve essere svelata. Ciò che la descrizione coglie dunque nell’immagine è il suo contenuto di verità, la verità in pittura. Una verità che è frutto della sapienza dell’artista e costituisce un tratto comune all’arte e alla poesia, cioè all’immagine e al discorso, quindi alla rappresentazione e, chiudendo il cerchio, alla descrizione stessa. L ’ apertura del prologo rimette esplicitamente in questione la critica platonica della rappresentazione (Resp. I I I e X, Sofista 235e e 265d, Leggi I I , 669), richiamandosi alla prospettiva aristotelica. Come è noto, secondo Platone l’artista crede che la sua opera sia frutto di sapienza, ma si trova in realtà sempre «a due gradi di distanza dalla verità», e la sua arte non è altro che il frutto di una enthousia, un’ispirazione divina (Ione). Del tutto opposto è il punto di vista di Aristotele, che incentra sulla nozione di imitazione la definizione di arte, precisando che l’imitazione propria dei pittori e degli scultori è caratterizzata dall’uso di colori e forme (Poet. 1, 1447a 17), e riconosce nell’arte l’opera dell’artista dotato e non di quello invasato (Poet. 17, 1455a 33). Il piacere dell’arte consiste per Aristotele nella conoscenza che essa procura, che è tanto più grande quanto maggiore è l’esattezza della rappresentazione: «ciò che ci procura disgusto alla vista lo guardiamo invece con piacere nelle immagini, quanto più siano rese con esattezza: ad esempio la conformazione degli animali più ripugnanti e dei cadaveri. La ragione è che l’apprendimento è molto piacevole non soltanto per i filosofi ma anche per gli altri, per quanto ne partecipino in minor misura. Per questo le immagini procurano gioia, perché nel guardarle si apprende e si ragiona» (Poet. 4, 1448b 10). Il godimento di un’opera deriva dal fatto che si ha contezza dell’arte che l’ha prodotta, ed è dunque analogo al piacere che proviene dalla conoscenza delle cause di un fenomeno naturale. Tra l’arte e la natura esiste un rapporto di analogia, perché la forma dell’artefatto, che risiede nell’anima dell’artefice, è analoga alla natura formale, che costituisce il fine della generazione di ciascun vivente. Ora, la bellezza naturale che è oggetto dell’imitazione consiste essenzialmente nell’ordinata, simmetrica, disposizione delle parti e nella giustezza delle proporzioni: 10 Andrea L. Carbone «perché un animale (o anche ogni altra cosa costituita di parti) sia bello, occorre che abbia non soltanto le parti ordinate e ben disposte, ma anche non dettate dal caso, poiché il bello consiste nelle dimensioni e nell’ordinata disposizione delle parti» (Poet. 7, 1450b 34). A questa nozione del bello Filostrato si richiama sinteticamente quando accenna alla «scienza delle proporzioni (symmetria), per cui l’arte partecipa della ragione». Alla connessione stabilita da Filostrato tra pittura e verità si affiancano una genealogia e un sistema delle arti, che conferiscono alle Immagini la compiutezza teorica di un vero e proprio “discorso sulla pittura”. La genealogia delle arti ripercorre l’evoluzione dell’arte imitativa illustrata da Aristotele nel quarto paragrafo della Poetica. Secondo Filostrato, l’ipotesi platonica dell’origine divina dell’arte è non soltanto esclusa, ma perfino ridotta al rango del sofisma. La pittura si definisce invece come arte in quanto è un’attività essenzialmente umana, che dell’uomo rivela la virtù più essenziale, cioè l’intelligenza. L ’ opposizione tra le due teorie sulla nascita dell’arte è resa particolarmente stridente da un’assonanza di difficile traduzione, che rivela fin nella lettera del testo la portata rivoluzionaria dell’opera: se è un sophisma l’ipotesi dell’origine divina, l’arte pittorica stessa invece sophizetai – trae profitto, attinge sapienza – dall’uso accorto dei colori e della tecnica9. La verità in pittura attiene dunque essenzialmente alla sua sophia, alla sapienza dell’arte. Una sophia che presenta forme innumerevoli. Il pittore mostra ad esempio di tendervi (philosophei) nel rappresentare la personificazione delle favole di Esopo allorché si ispira a elementi tratti dai testi (1.3), o fa ricorso a un elaborato effetto di volume nella resa di soldati schierati a battaglia (1.4). La sophia, benché presupponga la perizia tecnica richiesta ad esempio dalla riproduzione delle vesti riccamente colorate di un coro di ragazze (2.1), non coincide tout court con la perfezione dell’imitazione delle caratteristiche esteriori del soggetto ritratto, e a fronte di una moltitudine di dettagli, un singolo elemento – come l’abbraccio di due palme (1.9), o un effetto d’insieme reso dalla luce (2.29) – basta a rivelare la sapienza La verità e il suo specchio 11 del pittore, cioè la sua inventiva e la capacità di esprimere un certo pathos, trasmesso veridicamente all’osservatore. L ’ opposizione al modello platonico rivela implicazioni ulteriori e nuove ragioni di complessità se si considerano alcuni aspetti di carattere eminentemente formale. La drammatizzazione messa in atto da Filostrato nel prologo riecheggia infatti il topos che nei dialoghi platonici introduce spesso la narrazione di una passata conversazione filosofica avvenuta in precedenza. Questa analogia consente di mettere in rilievo alcune differenze decisive, che caratterizzano la peculiarità delle Immagini. Nel caso di Platone, la drammatizzazione iniziale ha di regola la funzione di stabilire una certa distanza tra il tempo della narrazione e l’epoca dei fatti narrati. Il dialogo e le parole di Socrate vengono riportate per soddisfare il desiderio di conoscenza di ascoltatori nuovi. Nel caso delle Immagini, invece, il desiderio dell’esposizione viene messo in scena altrimenti. Filostrato precisa infatti di avere avuto intenzione di elogiare i dipinti della casa già prima che il suo giovane ospite lo invitasse, e il carattere privato assunto dall’ékphrasis nella finzione narrativa risponde all’intenzione di evitare in ogni caso una declamazione pubblica sui pinakes. Lo statuto del discorso sulla pittura si definisce allora dal punto di vista epistemologico assumendo in certo modo il dialogo socratico come riscontro: all’approccio maieutico di Socrate si contrappone un’ermeneutica dell’immagine – ermeneuein è il verbo che Filostrato utilizza per indicare la funzione del suo discorso – che ha lo scopo di indurre l’interlocutore a rintracciare nella memoria e nell’immaginario i riferimenti letterari e iconografici necessari per interpretare ciò che vede. La reminiscenza platonica e il mondo delle idee non potrebbero essere più distanti, perché di fronte alla rappresentazione e al suo contenuto di verità si tratta non di cercare una realtà ulteriore e più vera, ma di articolare una logica della tradizione che dia accesso alla dimensione propria dell’immagine. Quanto al sistema delle arti, occorre osservare innanzi tutto che dal punto di vista dell’impianto logico la classificazione è chiaramente distante dai criteri della dialettica accademica, cioè non si basa su un procedimento di divisione dicotomica, senza per questo 12 Andrea L. Carbone richiamarsi alle tecniche più avanzate di divisione per differenze multiple sviluppate da Aristotele. L ’ arte si divide in due ambiti maggiori, la pittura e l’arte plastica; quest’ultima si divide poi in più specie: «la fusione del bronzo, la politura del marmo, Ligdo o Pario, la lavorazione dell’avorio, e per Zeus anche l’incisione»; ciò che contraddistingue esclusivamente la pittura è invece l’impiego combinato delle ombre e dei colori. Il criterio assunto da Filostrato è dunque una differenziazione che considera unicamente la tecnica della rappresentazione, senza fare riferimento ai contenuti o al genere. Sorprende per certi aspetti che l’ambito della pittura non sia esaminato più in dettaglio, con riferimento ad esempio alla pittura vascolare, a quella muraria e infine a quella dei pinakes, che è poi l’argomento delle Immagini. Ma questa omissione indica chiaramente che il discorso non tiene conto del supporto, bensì della tecnica, e in relazione all’effetto che l’artista riesce a ottenere facendovi ricorso: la politura nel caso del marmo, la fusione per il bronzo ecc. e naturalmente l’uso dei colori nel caso della pittura, quale essa sia. Questa precisazione permette di spiegare un’altra omissione del discorso di Filostrato, lamentata da buona parte dei commentatori moderni, cioè l’assenza di riferimenti alla “poetica” dell’artista e di giudizi di valore che non si limitino a considerazioni sulla “fedeltà” della rappresentazione. Piuttosto Filostrato si interessa al pathos dello sguardo – «l’ira, il dolore, la gioia» e ancora «la brillantezza» – che l’artista riesce ad esprimere sfruttando al meglio i mezzi che ha scelto: un pathos che, secondo la tipica mise en abîme delle Immagini, appartiene allo sguardo dei soggetti rappresentati ma al tempo stesso anche allo sguardo di chi osserva. Da questo punto di vista la pittura mostra dunque la sua superiorità rispetto alle altre arti, perché la tecnica che la contraddistingue permette di ottenere questo risultato nel modo migliore. Filostrato è estremamente chiaro su ciò che le sue descrizioni – le Immagini – non sono, ovvero una storia: né una storia della pittura né una storia dei pittori. Questa precisazione, d’altronde, si rivela assolutamente funzionale al tentativo di conferire alla descrizione un’effettiva autonomia nell’ambito della retorica. Ma anche su questo La verità e il suo specchio 13 punto occorre richiamare un precedente aristotelico, cioè le osservazioni su ciò che distingue la poesia dalla storia (Poet. 9, 1451b 29): lo storico narra ciò che è effettivamente accaduto ed è unico, mentre il poeta racconta le cose come sarebbero potute verosimilmente accadere, il che conferisce al suo discorso un valore universale e rende la poesia «più filosofica» della storia. È chiaro che Filostrato intenda qui “storia” nel senso di ricostruzione cronologica di eventi e di cause che li hanno innescati. Ma il termine historia ha una forte connessione con le nozioni di “aver visto”, “testimoniare”, “sapere”, ed è una parola chiave, veicolo di una precisa rappresentazione della conoscenza incentrata sul visuale, che non si può trascurare in questo contesto. Se Filostrato rifiuta di adottare lo sguardo dello storico è perché mira a cogliere la verità della pittura, che è cosa profondamente diversa dalla sua storia, attraverso uno sguardo nuovo, che combina ékphrasis e interpretazione inaugurando un genere autonomo e destinato a una lunga fortuna. Filostrato attraverso lo specchio “Manifesto” di questo nuovo modo di vedere è lo sguardo che si incrocia con quello di Narciso (1.23) ridisegnando lo spazio dell’immagine e quello dell’osservatore attraverso un vertiginoso sistema di rinvii: «La fonte riproduce i tratti di Narciso come la pittura riproduce la fonte, Narciso stesso e la sua immagine. Il giovane, di ritorno dalla caccia, sta in piedi vicino alla sorgente sospirando per sé, incantato dalla propria bellezza, e, come vedi, fa risplendere l’acqua della sua splendida grazia. […] In effetti la fonte non è estranea al culto di Dioniso, e anzi è il dio che in qualche modo l’ha fatta sgorgare per le baccanti». Narciso è ritratto nel lungo istante in cui ammira la propria bellezza riflessa – come in uno specchio – nell’acqua di una sorgente, e se ne innamora perdutamente. La descrizione di questa immagine assume più di ogni altra per Filostrato una funzione programmatica nel contesto delle Immagini, perché gli permette di tematizzare – in una prospettiva che si potrebbe definire di secondo livello – le coordinate teoriche e poetiche dell’ékphrasis: «Quanto a 14 Andrea L. Carbone te, giovane, non è una pittura la causa della tua illusione, non sono colori o una cera ingannevole a legarti. Non vedi che l’acqua riproduce te stesso nell’atto di contemplarti, non ti accorgi dell’artificio di questa fonte, eppure basterebbe che ti sporgessi appena o che cambiassi espressione, o che agitassi la mano o che ti spostassi? […] I due Narcisi si somigliano, brillano della stessa bellezza. La sola differenza è che uno si staglia sul fondo del cielo, mentre l’altro è come se fosse immerso nell’acqua. Il giovane rimane immobile sull’acqua, che rimane anch’essa immobile, o forse lo contempla fissamente, come se fosse conquistata dalla sua bellezza». A questo incrocio di sguardi non è estranea la visione di Medusa, che arresta l’immagine cristallizzando al tempo stesso la figura di Narciso e quella del suo riflesso. L ’ acqua della fonte, trasformata dall’immobilità in una superficie riflettente, ripete il gesto della pittura, raddoppiando la rappresentazione e innescando un gioco di rinvii virtualmente infiniti e abissali che coinvolgono Narciso e il suo doppio, la personificazione della fonte stessa, il cui sguardo si aggiunge a quello dei due Narcisi, gli spettatori fittizi – Filostrato e il gruppo di ragazzi ai quali è rivolta la descrizione – l’ékphrasis in quanto ordine ulteriore della rappresentazione, che ancora una volta riproduce l’immagine traducendola in parole, e da ultimo il fruitore delle Immagini. Questo “sommario” degli sguardi coinvolti nell’immagine di Narciso, necessariamente riduttivo e schematico, permette di osservare in che modo lo specchio dà forma al rapporto che l’ékphrasis intrattiene con l’immagine. Nell’impianto delle Immagini, sia dal punto di vista teorico che da quello narratologico, gli elementi si dispongono infatti secondo una struttura che può essere definita “speculare”, e che si articola attraverso una serie di termini contrapposti, la cui relazione dialettica non si riduce a quella della semplice polarità. La coppia centrale di questo impianto speculare è naturalmente la relazione stessa tra immagine e parola, ovvero tra pittura ed ékphrasis. Come si è detto, ciò che Filostrato intende cogliere nelle immagini attraverso le descrizioni, secondo le indicazioni programmatiche del prologo dell’opera, è il loro contenuto di verità: in questo senso l’ékphrasis vuole essere specchio dell’immagine, poiché ambisce a rifletterne La verità e il suo specchio 15 fedelmente le fattezze, a coglierne il senso veritiero. Come si è detto, tuttavia, non si tratta con ciò di negare all’artista la legittimità del ricorso alle tecniche e agli artifici caratteristici della sua arte, che indurranno il fruitore dell’immagine a proiettarvisi come se fosse reale. Nella maggior parte delle sue descrizioni, Filostrato considera particolarmente rilevante questa potenzialità centripeta dell’immagine, che dà l’illusione di essere accessibile all’osservatore. Ma anche in questo caso la pittura rivela di mutuare una caratteristica che appartiene in sommo grado allo specchio, poiché è propria dell’immagine speculare l’illusione di uno spazio abitabile al di là della superficie riflettente. Queste considerazioni ci inducono a tornare sulla questione delle caratteristiche materiali delle immagini descritte da Filostrato. Lo spazio dell’immagine, nelle descrizioni di Filostrato, non si determina mai rispetto a limiti, margini, a una cornice: il supporto dei pannelli dipinti, i pinakes, non delimita un perimetro carico del senso di un’inquadratura. Non si può dire, tuttavia, che queste immagini siano prive di uno spazio qualificato e orientato. La dimensione saliente è però quella che tanto nello specchio quanto nella pittura appartiene alla sfera dell’illusione, vale a dire la profondità. Non sembra casuale allora che nell’unico passo in cui Filostrato accenna all’organizzazione spaziale di un’immagine, la sua attenzione si applichi ad un effetto che anacronisticamente potremmo definire di prospettiva: «Ammiriamo qui l’arte ingegnosa del pittore: degli uomini in arme che circondano la città, alcuni ci appaiono per intero, altri hanno le gambe nascoste, di questi si vede soltanto metà del corpo, di questi altri il petto, poi emergono solo le teste, poi gli elmi, poi le punte delle lance. È un effetto che gioca sull’analogia, ragazzo mio: man mano che l’occhio penetra nel quadro, i ranghi dei soldati devono coprirsi sempre di più l’un l’altro» (1.4). Se in questo caso l’accento è posto sull’ingresso dello sguardo nello spazio della pittura, nella descrizione stessa dell’immagine di Narciso il riferimento al dettaglio dell’ape, che forse si è ingannata posandosi su un fiore dipinto, o forse inganna noi perché è dipinta anch’essa. L ’ attenzione si concentra sulla superficie dipinta intesa come limite osmotico, al pari di quello di una superficie riflettente, tra l’immagine e la realtà. A questo scambio attiene del resto la 16 Andrea L. Carbone drammatizzazione imperniata sull’intervento nell’azione raffigurata, che è l’espediente retorico al quale più di frequente Filostrato ricorre nelle Immagini. Ora, se la descrizione dell’immagine di Narciso ha il valore di un manifesto programmatico, al pari del Prologo dell’opera, ma questa volta – per così dire – sul campo, è proprio in virtù dell’intima connessione che lega il mito di Narciso all’ambigua natura dell’immagine speculare e al suo ingannevole eccesso di realtà: in questa prospettiva si articolano pertanto le fondamentali relazioni polari caratteristiche dell’ékphrasis, cioè verità e inganno, realtà e imitazione. Ma quest’ottica può trovare applicazione per interpretare anche il rapporto, richiamato ad esempio nella descrizione dello Scamandro (1.1) e più volte ripreso, tra la fonte letteraria e la rappresentazione pittorica. Per un verso, infatti, dal lato del pittore, il dipinto traduce in immagini visibili, rispecchia, gesta e personaggi che appartengono allo spazio letterario, e che l’artista ha tradotto in una nuova forma; per altro verso, dal lato dell’ékphrasis, si tratta di rintracciare nell’immagine l’origine letteraria di ciò che la pittura riflette, e di tenerne conto come guida e raffronto. Ma non si tratta di un’opposizione lineare: le immagini di Filostrato – per riprendere la locuzione coniata da W.J.T. Mitchell – sono mixed media, e se la descrizione si abbandona volentieri al sapiente inganno dell’immagine, accade anche che Olimpo (1.21) sia invitato dal retore a non ammirare la propria bellezza riflessa nell’acqua, paradigma della pittura, bensì ad ascoltarne la descrizione. La visione di Medusa si è infiltrata nell’immagine, arrestando la figura di Narciso e quella del suo riflesso; l’acqua della fonte ripete il gesto della pittura, raddoppiando la rappresentazione; ancora un altro sguardo si riproduce, quello di Dioniso, che rimirandosi nello specchio scorge i tratti dell’universo, un attimo prima che i titani portino a termine le loro trame esiziali. Ma lo sguardo dell’osservatore smaschera tutte le illusioni, perché è lasciando essere l’enigma di cui ha contezza che svela la verità dell’immagine. La verità e il suo specchio 17 NOTE 1. Cfr. F. Solmsen, Some Works of Philostratus the Elder, «Transactions and Proceedings of the American Philological Association», 71 (1940), pp. 556-572. 2. K. Lehmann-Hartleben, The Imagines of the Elder Philostratus, «The Art Bulletin», 23 (1941), pp. 16-44. Sulla questione cfr. anche M.L. Thompson, The Monumental and Literary Evidence for Programmatic Painting in Antiquity, «Marsyas», 9 (1961), pp. 36-77. 3. Questi non si limitano al semplice obiettivo della conquista di nuovi argomenti da aggiungere al repertorio del discorso retorico, al contrario di quanto sembra sostenere A. Fairbanks (Elder Philostratus, Imagines; Younger Philostratus, Imagines; Callistratus, Descriptions, trad. ing. di A. Fairbanks, Loeb, Cambridge MASS -London 1931, p. xvi). 4. Cfr. P. Friedländer, Johannes von Gaza und Paulus Silentiarius: Kunstbeschreibungen justinianischer Zeit, Berlin-Leipzig 1912. Sull’ékphrasis omerica dello scudo di Achille cfr. P.R. Hardie, Cosmological and Ideological Aspects of the Shield of Achilles, «The Journal of Hellenic Studies», 105 (1985), pp. 11-31. 5. Cfr. A. Sprague Becker, Reading Poetry trough a distant Lens: Ecphrasis, Ancient Greek Rhetoricians, and the Pseudo-Hesiodic “Shield of Heracles”, «The American Journal of Philology», 113 (1992), pp. 5-24. 6. Cfr. ad esempio F. Lissarrague: «Le recueil d’Images de Philostrate relève d’un genre ancien, celui de l’ekphrasis» (Philostrate, La Galerie de tableaux, a cura di F. Lissarrague, con una prefazione di P. Hadot, Les Belles Lettres, Paris 1991, p. 2). 7. In proposito cfr. R. Webb, Ekphrasis Ancient and Modern: the Invention of a Genre, «Word & Image», 15 (1999), pp. 7-18. 8. Sulla funzione del prologo in Luciano cfr. R. Bracht Branham, Introducing a Sophist: Lucian’s Prologues, «Transactions of the American Philological Association», 115 (1985), pp. 237-243, e in particolare quanto lo studioso osserva in merito alla definizione del genere cui appartengono gli scritti di Luciano: «Lucian is a notoriously difficult writer to place. He represents himself in the Bis Accusatus as having abandoned the practice of epideictic and forensic rethoric, the staples of sophistic performance, in favor of more inventive, literary forms» (p. 237, n. 2). 9. Cfr. Immagini 1.3 e 1.4, dove Filostrato ricorre rispettivamente al verbo philosophei e al termine sophisma per lodare un espediente escogitato dall’artista. 10. Chiara reminiscenza dell’uva dipinta da Zeusi, capace di ingannare gli uccelli (Plinio, Naturalis Historia, X X X V , 65). 18 Andrea L. Carbone NOTA BIBLIOGRAFICA L ’ edizione standard dell’opera è quella curata da O. Schonberger, corredata da ampi apparati, integrati da E. Kalinka (Die Bilder, Heimeran, Munchen 1968). Dell’edizione Teubner (1870) in due volumi, curata da C.L. Kayser, è facilmente reperibile una ristampa anastatica (Flavii Philostrati opera: accedunt Apollonii Epistolae, Eusebius adversus Hieclem, Philostrati junioris Imagines, Callistrati Descriptiones, Georg Olms, Hildesheim-New York 1985). Per l’eleganza dello stile, la versione francese di A. Bougot (1881) costituisce un modello impareggiabile per tutte le traduzioni moderne. Può essere consultata nella versione riveduta e corretta da F. Lissarrague, con una prefazione di P. Hadot e alcune delle incisioni che dal 1614 arricchirono l’edizione cinquecentesca curata da Blaise de Vigenère (La Galerie de Tableaux, Les Belles Lettres, Paris 1991). L’edizione Loeb è curata da A. Fairbanks, con alcune note essenziali (Elder Philostratus, Imagines; Younger Philostratus, Imagines; Callistratus, Descriptions, traduzione di A. Fairbanks, Loeb, Cambridge MASS -London 1931). Si veda anche la versione spagnola curata da L.A. de la Cuenca e M.Á. Elvira (Filóstrato el Viejo, Imágenes; Filóstrato el Joven, Imágenes; Calístrato, Descripciones, Siruela, Madrid 1993) La prima edizione italiana moderna è di G. Schilardi, con un’introduzione di F. Fanizza (Immagini, Argo, Lecce 1997). Immagini Prologo Chi non ama la pittura disprezza la verità stessa. Disprezza quel genere di sapienza che appartiene anche ai poeti, perché, come la poesia, la pittura rappresenta l’aspetto e le gesta degli eroi. Ma disprezza anche la scienza delle proporzioni, che conduce l’arte al dominio della ragione. Se volessi parlare per sofismi direi che la pittura è un’invenzione degli dèi, rivolgendo la mente alle forme variegate della terra e ai suoi prati, che sono come dipinti dalle stagioni, o a tutti i fenomeni celesti. Ma se si vuole parlare seriamente dell’origine dell’arte occorre osservare che l’imitazione è una delle invenzioni più antiche, quanto la natura stessa. Dobbiamo questa scoperta a uomini abili che la chiamarono ora pittura ora arte plastica. L ’ arte plastica, poi, si divide in più specie: la fusione del bronzo, la politura del Ligdo o del Pario1, la lavorazione dell’avorio, e per Zeus anche l’incisione: tutto questo rientra nel dominio dell’arte plastica. La pittura consiste nell’impiego dei colori, ma non soltanto in questo. Piuttosto, da quest’unico mezzo la pittura trae un profitto maggiore rispetto a quello di qualsiasi altra arte che pure disponga di risorse più numerose. In effetti, la pittura rappresenta le ombre, e sa come mostrare negli sguardi l’ira, il dolore, la gioia. Dare agli sguardi la brillantezza che li contraddistingue: ecco che cosa resta inaccessibile all’arte plastica. Sguardi che la pittura sa rendere fervidi, glauchi, neri. E capelli di un biondo fulvo, fiammeggiante, dorato. Ogni cosa ha il suo colore: le vesti, le armi, gli edifici 22 Filostrato e le case, i boschi e le montagne, le sorgenti e l’aria che avvolge ogni cosa. Molti sono stati maestri di quest’arte, molte città e re l’hanno amata con passione, ma questa è una storia che altri hanno raccontato prima di me, ad esempio Aristodemo di Caria2, che è stato mio ospite, per quattro anni, per amore della pittura, e che sapeva aggiungere molta grazia all’arte del suo maestro Eumelo3. Il mio discorso non riguarda i pittori né vuole raccontare la loro storia, ma spiegare delle pitture ai giovani per renderli avvezzi a interpretarle e comprenderle. Ecco in che occasione questo discorso fu pronunciato. Allora erano in corso dei giochi a Napoli, città fondata dai Greci in Italia, che per il suo culto delle lettere si può considerare una città greca. Non avevo l’intenzione di declamare in pubblico, anche se a casa del mio ospite i giovani insistevano perché lo facessi. Il mio alloggio era fuori le mura, in un borgo sul mare, dove si trovava un portico a quattro o cinque piani che guardava il Tirreno4. Era rivestito dei più bei marmi che il lusso possa esigere, ma il suo splendore proveniva soprattutto dai pannelli dipinti5 incastonati nei muri, che erano stati scelti, mi sembrava, con una cura particolare e davano un esempio della sapienza di molti pittori. Io stesso avevo già maturato l’intenzione di tessere le lodi di quei dipinti, ma il figlio del mio ospite, un bambino che poteva avere dieci anni ma era già curioso e avido di conoscenze, colse l’occasione della mia visita per chiedermi di spiegargli quelle pitture6. Non volevo sembrare avventato, quindi gli dissi: «inizierò con piacere la mia esposizione quando i tuoi giovani amici saranno arrivati». Quando questi furono presenti, dissi: «sarà il vostro compagno a rivolgermi delle domande: è a lui che dedico il mio discorso; ma anche voi che seguite non limitatevi ad ascoltare, e interrompetemi se non sono chiaro». Lib ro p r im o 1.1 Lo Scamandro. Di certo hai riconosciuto, ragazzo mio, che il soggetto è tratto da Omero, ma forse non ci hai fatto caso. Vedendo il fuoco che vive nell’acqua, la tua anima sarà stata interamente occupata a contemplare lo spettacolo meraviglioso. Ma vediamo di capire quale può essere il significato. Permettimi allora di distrarre il tuo sguardo per rappresentarti la narrazione di Omero cui l’artista si è ispirato. Ricordi il passo dell’Iliade 7 in cui Omero ci mostra lo slancio di Achille che vuole vendicare Patroclo, mentre gli dèi si apprestano a combattere gli uni contro gli altri? La pittura non contempla tutti gli eventi di questa guerra divina, bensì uno solo: Efesto si precipita sullo Scamandro con impeto e furore. Adesso considera nuovamente la pittura: ogni cosa è tratta da lì. La città alta, cinta di mura merlate, è Ilio. La pianura è ampia abbastanza per aver potuto assistere alle contese di Europa e Asia. Il fuoco la copre come un torrente che ha rotto gli argini: si arrampica e dilaga sulle rive del fiume, dove già la vegetazione è scomparsa. Intanto Efesto avvolto dalle fiamme si dirige verso il fiume: ed ecco il fiume in persona che geme e supplica Efesto. Come vedi, il fiume non ha la sua bella chioma, perché è stata bruciata dal fuoco. Come vedi, Efesto non zoppica, e corre veloce8. Il rosso del fuoco non è vivido, non ha l’aspetto consueto: brilla come l’oro o come i raggi del sole. Omero non ha più niente a che vedere con simili dettagli. 24 Filostrato 1.2 Como. Como, il genio che veglia sui cortei notturni dei convivî degli uomini9, se ne sta sulla soglia di una stanza dalle porte dorate. Dorate mi sembrano, in effetti, anche se l’occhio è lento a distinguerle nell’oscurità della notte. La notte non è personificata, ma si riconosce dai suoi effetti10. Il vestibolo, degno di un tempio, testimonia dell’opulenza dei giovani sposi, che riposano sul letto nuziale. Como è venuto, giovane, a far visita ai giovani: ha ancora tutte le tenere grazie dell’infanzia, ma i fumi del vino gli colorano il viso. È in piedi, ma già cede al sonno dell’ebbrezza: dorme con il capo chino sul petto, la mano sinistra, poggiata su uno spiedo che crede di reggere, si distende e cede, come accade quando le prime carezze del sonno intorpidiscono la mente e la memoria. La lanterna nella destra sembra anch’essa sfuggire, per effetto della medesima causa, alla stretta delle dita languide. Temendo che il fuoco possa toccargli la gamba, Como accavalla la coscia sinistra sulla destra e passa a sinistra la lanterna per allontanare la mano e la fiamma dal ginocchio proteso. I pittori devono elaborare con cura il volto dei personaggi che hanno tutta la vivacità della giovinezza: senza di loro le pitture sono cieche. Ma nel caso di Como, visto che il capo chino getta un’ombra sui tratti del viso, la figura ha poca importanza. L ’ artista, immagino, ha voluto così ricordare a chi ha l’età di Como di non festeggiare il dio senza indossare la maschera. Il resto del corpo dimostra un’attenzione minuziosa per ogni dettaglio e la lanterna che lo avvolge di luce li mette in risalto. Ammiriamo anche la corona di rose, ma non per il suo aspetto: imitare i fiori con i colori, il rosso o il blu, secondo necessità, non è un gran merito; ma perché bisogna lodarne la morbidezza e la delicatezza, e la freschezza che le rose mostrano di avere; oso affermarlo: dipinte, hanno profumo di rose vere. Ora che abbiamo parlato di Como, resta da dire del suo seguito. Non senti i crotali, i suoni di flauto, un mormorio confuso? Lanterne sparse qui e là consentono ai nostri gioiosi compagni di vedere innanzi a sé, e a noi di vederli. È una folla variegata e animata di uomini e donne: non distinguiamo il loro sesso dalle calzature che portano, e sono vestiti in modo straordinario, perché Como consente alla donna di atteggiarsi come un uomo e all’uomo di vestirsi e comportarsi come una donna. Ma le corone di fiori hanno perso il loro splendore: per non perderle correndo, tutti le hanno Immagini 25 fissate al capo, e il fiore, geloso della sua libertà, teme il contatto della mano, che lo sciupa anzitempo. Infine la pittura rappresenta il battito delle mani, quel che a Como piace più di ogni cosa: la destra batte con le dita piegate nel palmo della sinistra, e quando tutte le mani si scontrano come cimbali mandano lo stesso suono. 1.3 Le Favole. Le favole vengono a far visita al loro amato Esopo, ricambiando le sue premure. Non che Omero abbia disdegnato questo genere di finzioni, né lo ha fatto Archiloco, scrivendo contro Licambe11. Ma è Esopo che ha reso nelle sue favole tutta la vita degli uomini, che ha dato la parola alle bestie, per parlare come se avessero una ragione pari alla nostra. Perché reprime la cupidigia, e mette al bando la tracotanza e l’inganno attribuendo un ruolo al leone, alla volpe, al cavallo, a tutti gli animali, e persino alla tartaruga, che smette allora di essere muta, per istruire i bambini sulle cose della vita. Ecco perché le favole, onorate da Esopo, si affrettano alla porta del saggio per cingergli il capo di serti e coronarlo di nuove foglie. Esopo, lui, compone una favola, immagino: lo capisco dal sorriso, dagli occhi fissi al suolo. Il compositore di favole ha bisogno di una dolce serenità che ristora l’anima, e il pittore lo sapeva bene. La pittura, inoltre, rivela una certa sapienza nella maniera in cui sono personificate le favole: i personaggi che mette intorno a Esopo, come un coro tragico, hanno in effetti qualcosa dell’uomo e della bestia, e si compongono di elementi tratti dal teatro stesso del poeta. La volpe è dipinta in veste di corifeo, perché nella maggior parte dei casi Esopo ricorre alla volpe per esporre i suoi propositi, come fa la commedia di Davo12. 1.4 Meneceo. Questa città sotto assedio è Tebe, perché il muro ha sette porte. L ’ esercito è quello di Polinice, figlio di Edipo, perché è diviso in sette armate13. Il capo che si avvicina al campo è Anfiarao: ha l’aria scorata di un uomo che ha il presentimento di una catastrofe. I capitani delle armate sono anch’essi impauriti, e protendono le mani al cielo. Lo sguardo di Capaneo percorre con disprezzo le muraglie e i merli, perché conta di poterli scalare. I difensori tebani 26 Filostrato non scagliano frecce, perché temono di scatenare la battaglia. Ammiriamo qui l’astuzia del pittore: degli uomini in arme che circondano la città, alcuni ci appaiono per intero, altri hanno le gambe nascoste, di questi si vede soltanto metà del corpo, di questi altri il petto, poi emergono solo le teste, poi gli elmi, poi le punte delle lance. Gioca sull’analogia, ragazzo mio: man mano che l’occhio penetra nel quadro, i ranghi dei soldati devono coprirsi sempre di più l’un l’altro. Neppure i vaticinî mancano a Tebe. Tiresia emette un oracolo che condanna Meneceo, figlio di Creonte, a morire nella tana di un drago, se vuole salvare la patria. Ed ecco Meneceo che muore, all’insaputa del padre. L ’ età lo rende degno di pietà, ma un tale coraggio è foriero di felicità. Considera infatti l’opera del pittore: non ha dipinto un giovane dal colorito delicato, dai tratti effeminati, ma pieno di vita, reso forte dalla ginnastica, ha questo bell’incarnato di un bruno dorato che piace al figlio di Aristone14. Il petto è muscoloso, i fianchi, i glutei, le gambe sono ben proporzionati. Le spalle rivelano la forza, il collo non è rigido, la chioma è abbondante ma non eccessiva. In piedi davanti all’antro del drago estrae la spada con cui si è già trafitto il fianco. Raccogliamo, ragazzo mio, nella piega della nostra veste il sangue che scorre dalla ferita: scorre, e anche l’anima scappa via, ancora un momento e la sentirai levare il suo grido d’addio, perché le anime amano i bei corpi e se ne separano con rammarico. Man mano che il sangue scorre, Meneceo barcolla, poi si getta tra le braccia della morte con un viso calmo e sorridente: sembra quasi un uomo che si addormenta. 1.5 I Bracci. Sulle rive del Nilo giocano i Bracci, bambini che prendono il nome dalla loro taglia, cari al Nilo per più di una ragione, e innanzi tutto perché annunziano agli Egizi quanto profonda sarà la piena15. Sono i flutti che li conducono al cospetto del dio, e sembra che ne escano freschi e sorridenti, credo che non manchi loro perfino il dono della parola. Alcuni siedono sulle spalle del fiume, altri si appendono alle trecce della sua chioma, questi si addormentano tra le sue braccia, altri ancora si rincorrono sul suo petto. E lui, il dio, dona loro i fiori che trovano ora sul suo petto, ora tra le sue Immagini 27 braccia, perché intreccino ghirlande e sui fiori si addormentino come esseri divini e profumati. Salgono l’uno sulle spalle dell’altro al suono dei sistri, di cui le acque del Nilo amano riempirsi. I coccodrilli e gli ippopotami, che certi artisti dispongono sulle rive del Nilo, rimangono invece nei recessi della gola per non impaurire i bambini. Ma ecco gli attributi della navigazione e dell’agricoltura che con chiarezza contraddistinguono il Nilo, e tu non ne ignori certo la ragione, ragazzo mio: il Nilo rende navigabile l’Egitto, e la terra beve le sue acque dando alle pianure raccolti abbondanti. In Etiopia, dove sono le sorgenti, regola il suo corso con prudenza, secondo le stagioni. Nella pittura abbiamo l’impressione che la sua statura sia tale da toccare il cielo: ha un piede presso le sorgenti, e sembra che inclini la testa, come Poseidone, in segno di assenso. Il fiume gli rivolge lo sguardo, e gli chiede che molti bambini vengano ancora, simili a questi. 1.6 Gli Amori. Gli Amori raccolgono le mele, come vedi. Non essere sorpreso del loro numero, perché questi figli delle ninfe, che comandano la stirpe intera dei mortali, sono innumerevoli come innumerevoli sono i desideri degli uomini. Eppure, a quanto si dice, c’è un amore celeste che ha facoltà divine16. Il dolce profumo che esala dal frutteto non giunge fino a te? Il tuo olfatto è forse pigro? Allora ascolta con attenzione, le mie parole ti porteranno l’odore dei frutti. Piantati in schiere dritte, questi alberi aprono tra loro ampi viali per chi intende passeggiare, e intorno ai viali prati d’erba sottile offrono un letto al riposo. In cima ai rami pendono mele dorate, del colore del fuoco o bionde come il sole, che invitano tutto quanto lo sciame degli Amori a intraprendere il raccolto. Le faretre ricoperte d’oro o dorate, piene di frecce, tutti le hanno abbandonate. Così si rincorrono, leggeri, liberatisi di questo fardello che hanno appeso ai meli, e i loro mantelli variegati rimangono sul prato, dove risplendono di mille colori. Gli Amori non hanno corone di fiori sul capo, la loro chioma è già un ornamento, le ali azzurre o porpora o ancora dorate mandano quasi nell’aria un suono armonioso. Che bei cesti accolgono le mele, che sardoniche, che smeraldi, che perle vere vi sono incastonati! Senza dubbio è l’opera di Efesto, ma non c’è bisigno delle sue 28 Filostrato scale, perché spiccano il volo e raggiungono le mele d’un balzo. Non parleremo di quelli che danzano in cerchio o corrono o dormono o mordono le mele e le mangiano: consideriamo piuttosto come si divertono questi qui. Questi quattro Amori, i più belli di tutti, rimangono in disparte rispetto ai compagni. Due si lanciano scambievolmente una mela, gli altri due una freccia allo stesso modo. Ma sul loro viso non si disegna minaccia alcuna, e ciascuno tende il petto, perché là e non altrove intende ricevere il tiro del compagno. È un bell’enigma, guarda un po’ se comprendo bene ciò che intende il pittore. Amicizia e reciproco desiderio, ecco, ragazzo mio. Quelli che giocano con la mela sono appena al principio del desiderio: uno lancia la mela dopo averla baciata, e l’altro tende le mani per accoglierla. Vediamo chiaramente che quando l’avrà ricevuta la bacerà, e la renderà al compagno. La coppia di arcieri è unita da un amore già antico e si impegna a rinforzarlo. Dico che i primi due giocano per incoraggiare un amore nascente, gli altri maneggiano l’arco perché in loro il desiderio non si spenga. Questi altri Amori che circondano una folla di astanti sono giunti ad accapigliarsi per la foga, li si scambierebbe quasi per lottatori. Ti spiegherò questa lotta, poiché vedo che lo desideri ardentemente. Uno di loro, volteggiando intorno al suo avversario, gli si è avvinghiato alle spalle e lo stringe fin quasi a soffocarlo, serrandolo anche con le gambe. L ’ altro non intende cedere o piegarsi e si leva a gran fatica, forza la mano che lo serra, ha ritorto un dito e ogni altro, isolato, deve lasciare la presa. L ’ Amore che patisce una tale tortura prova un dolore acuto e morde l’orecchio dell’avversario. Gli altri Amori che li guardano sono irritati da un sotterfugio così ingiusto, che viola le regole della lotta, e prendono a lapidare il malcapitato con una gragnuola di mele. Scorgo anche una lepre che non dobbiamo lasciarci sfuggire: diamole la caccia in compagnia degli Amori. Si era nascosta tra i meli, dove faceva incetta dei frutti caduti, e molti sono rimasti lì, morsi a metà. Ma ecco i nostri Amori che la inseguono e la spaventano ora con il battito delle mani, ora gridando, ora agitando la clamide. Gli altri le corrono dietro senza perderne le tracce. Eccone uno che ha preso lo slancio e si precipita sulla preda, ma l’animale scarta, è riuscito a divincolarsi. Un altro Immagini 29 vuole afferrare la lepre per la zampa, ma non fa in tempo a prenderla che già scappa. E ridono cadendo di fianco o in avanti o rovesciandosi, ciascuno a suo modo, a seconda di come l’animale gli sfugge. Nessuno tira frecce, si studiano di prendere viva la lepre, perché questa è l’offerta più cara alla dea Afrodite. Tu sai di certo che la lepre è nota per aver ricevuto da Afrodite buona parte del suo intuito: si dice che la femmina divenga nuovamente madre quando ancora allatta i piccoli, nutrendo la nuova prole con il latte della prima, e che poi concepisca ancora, e che insomma non smette mai di essere pregna. Il maschio, invece, non solo feconda la femmina – questo è il ruolo del maschio – ma pure concepisce, e questo è contro natura. Così gli innamorati privi di delicatezza, credendo che questo animale possieda qualche virtù di persuasione, se ne servono per fare violenza all’oggetto dei loro sentimenti. Ma lasciamo questa pratica agli uomini che non hanno lealtà e sono indegni di ispirare amore. Rivolgi invece lo sguardo verso Afrodite. Dove si trova? In quale parte del frutteto? Vedi laggiù quella grotta scavata nella roccia, da cui sgorga una sorgente d’acqua limpida, che riflette l’azzurro del cielo e il verde dei meli, dividendosi poi in canali che irrigano il frutteto? Sii certo che lì si trova un’Afrodite17, deposta – immagino – dalle Ninfe che intendono così ringraziarla per averle rese madri degli Amori, madri di bambini così belli. Lo specchio d’argento, questo bel sandalo dorato, queste fibbie d’oro, sono offerte che parlano da sé: mi dicono che sono consacrate ad Afrodite. Del resto così è scritto, e possiamo anche leggere che provengono dalle Ninfe. Dal canto loro gli Amori offrono le primizie, e riuniti in cerchio pregano che il loro frutteto rimanga sempre così bello. 1.7 Memnone. Questo è l’esercito di Memnone. I soldati hanno abbandonato le armi per esporre e piangere il più grande di loro, raggiunto in pieno petto dalla lancia di frassino, immagino. In effetti vedendo quest’ampia pianura, queste tende, questo accampamento fortificato, questa città contornata da possenti muraglie non posso trattenermi dal dire: ecco gli Etiopi, ecco Troia, l’eroe compianto è Memnone, figlio dell’Aurora. Era giunto per soccorrere 30 Filostrato Troia e fu ucciso, si dice, dal figlio di Peleo18. I due avversari erano degni l’uno dell’altro. Puoi anche vedere quanta terra copra il corpo di Memnone, e come fosse curata la sua bella chioma riccia, che intendeva offrire in dono al Nilo, credo, perché se è vero che la foce del Nilo appartiene agli Egizi, gli Etiopi ne possiedono le sorgenti19. Vedi? La sua bellezza virile ancora si manifesta, benché gli occhi siano spenti. Vedi? Questa peluria leggera sul viso rivela che l’eroe aveva la stessa età di colui che lo ha battuto. Non si direbbe poi che Memnone fosse nero, perché la sua figura, che pure è di un nero intenso, lascia trasparire un vago fiore di giovinezza20. Ci sono dee che si rivelano in cielo. L ’ Aurora piange la perdita del figlio velando lo splendore del sole e prega la notte di stendere, prima del tempo, le sue ombre sull’esercito, perché le sia possibile, se Zeus lo permette, di portar via il cadavere del figlio. E guarda, il corpo non c’è più, scorgiamo Memnone sul margine della pittura. Ma dove? In quale luogo della terra? La tomba di Memnone non si trova da nessuna parte, ma Memnone stesso è in Etiopia, trasformato in pietra nera: è come se stesse seduto e i suoi tratti sono, immagino, gli stessi. Sulla statua battono i raggi del sole, che scivolano come un plettro sulla bocca di Memnone facendone uscire una voce che consola la dea del giorno con i suoni di questa parola artificiale21. 1.8 Amimone. Hai incontrato, credo, in Omero, Poseidone che viaggia sui flutti come sulla terra, quando dall’Egeo si reca presso gli Achei e il mare gli offre per accompagnarlo i suoi cavalli e i mostri degli abissi22. Questo corteo che freme di gioia sui passi del dio, lo ritrovi qui. Secondo il poeta, è vero, si tratta di cavalli di terra. Lo intuisci, immagino, dagli zoccoli di bronzo e dalla velocità cui li incita la frusta. Qui invece il carro è tirato da ippocampi: i loro zoccoli sono adatti a sfiorare l’acqua e nuotare, gli occhi hanno un riflesso verdastro. Si direbbe, Zeus mi sia testimone, si direbbe che somiglino a delfini. In Omero, Poseidone si mostra adirato, indignato contro Zeus che piega l’esercito greco e lo condanna alla sconfitta. Ma qui la gioia brilla sul suo viso e anima lo sguardo: si agita come se lo scuotesse una violenta passione. Amimone23, figlia di Danao, che a Immagini 31 lungo ha frequentato le rive dell’Inaco, ha vinto il dio, e questi ora si lancia al suo inseguimento. La ragazza non conosce ancora l’amore che può suscitare: il suo aspetto impaurito, l’inquietudine, le mani che lasciano sfuggire la tazza dorata, ogni cosa rivela che Amimone è smarrita e non sa per quale ragione il dio sorga all’improvviso dai flutti. Intorno alle sue membra chiare l’oro brilla riflettendosi sull’acqua. Ritiriamoci, ragazzo mio, di fronte alla ninfa, perché il flutto già si ripiega avvolgendo la sposa: è un’onda blu dai toni d’azzurro, ma è di porpora che Poseidone presto la tingerà24. 1.9 La palude. Il terreno è umido, coperto di canne e sterpi che crescono spontaneamente, senza semina o lavoro, nelle regioni paludose25. Sono raffigurati anche il tamarisco e il papiro, che sono piante acquatiche. Una cintura di montagne circonda la palude, e le cime si perdono nel cielo. Pare che il terreno non abbia in tutte la stessa natura. Il pino che cresce su questa è segno di una terra fine e leggera, quelle altre sono ricoperte di cipressi, che indicano la presenza dell’argilla. Questi abeti, invece, non dicono forse che la montagna che li ospita è rocciosa e battuta dai venti? Poiché non amano i terreni fertili né i raggi del sole, allora preferiscono alla pianura la montagna, dove raggiungono le più alte quote. Sorgenti sgorgano spumeggiando, assecondano i declivi e poi, confondendo le loro acque, trasformano la pianura in palude, senza pertanto produrre disordine o pantani. La pittura ha governato il corso dei ruscelli come la natura l’avrebbe fatto, con la sua sapienza sovrana. L ’ acqua si perde in diversi meandri, dove l’appio cresce in abbondanza e gli uccelli nuotano tranquilli. Vedi queste anatre, con che grazia nuotano e spruzzano getti d’acqua? E che diremo della stirpe delle oche? La pittura è fedele alla loro natura: questi uccelli scivolano sulla superficie dell’acqua, navigano. E questi altri, ritti su lunghe zampe, riconosci senza fatica che si tratta di animali altèri, delicati: ciascuno ha piume diverse, e altrettanto vari sono i loro atteggiamenti. Questo qui, in cima a una roccia, riposa ora su una zampa ora sull’altra, quell’altro si asciuga le ali, un altro ancora le pulisce, questo tiene una preda che deve aver catturato nell’acqua, quello si piega 32 Filostrato come se cercasse del cibo. E se vediamo dei cigni cavalcati da Amori, non dobbiamo esserne sorpresi, perché sono dèi insolenti che nei loro giochi non si curano di rispettare gli uccelli. Ma allora non manchiamo di gettare uno sguardo a questa corsa, e alla porzione dello stagno che funge da ippodromo. Non c’è luogo in cui l’acqua sia più bella, perché è proprio lì che sgorga dalla terra, e subito riempie uno splendido bacino. In mezzo gli amaranti fanno pendere i loro graziosi fusti da una parte e dall’altra, e i boccioli sfiorano la superficie dell’acqua. Intorno a questa barriera gli Amori incitano alla corsa gli uccelli sacri, adorni di freni d’oro: uno rilascia le redini, l’altro le stringe, uno le tira di lato, quest’altro ha già passato il segno e riprende il giro. Mi pare di sentirli che esortano i cigni, scambiando minacce e offese, come si legge sui volti. Uno sta disarcionando il vicino, l’altro vi è già riuscito, questo ha voluto smontare dal suo destriero per tuffarsi. Intorno alla riva si sono raccolti i più abili cantori tra i cigni: intonano, immagino, il nomo ortiano, che è appropriato a simili dispute. Il giovane alato che vedi mostra che gli uccelli stanno cantando: è Zefiro, il dio che dona il canto ai cigni. È rappresentato come un giovane delicato e affascinante, facendo allusione al dolce soffio di Zefiro, e infatti i cigni spiegano le ali per raccogliere questo soffio. Guarda ancora il fiume che esce dalla palude: è largo, le sue acque sono leggermente rigonfie, caprai e pastori lo attraversano su un ponte. Non è degno di lodi il pittore che ha rappresentato le capre nell’atto di saltare, bizzose, mentre le capre incedono con indolenza, come se la lana fosse un pesante fardello. Lasciamo perdere la siringa e i suonatori, non dobbiamo lodare la maniera in cui poggiano le labbra chiuse alla canna, perché esprimeremmo stima per la parte più umile della pittura, che attiene all’imitazione, e non renderemmo giustizia alla sapienza del pittore e al suo senso della convenienza, cioè a quanto nell’arte vi sia di migliore. Dove si trova dunque questa sapienza? Il pittore ha gettato sul fiume una palma per farne un ponte, e si tratta di un’idea piuttosto ingegnosa. Poiché conosce quel che si dice delle palme, cioè che vi sono maschi e femmine26, e conosce i loro amori, e sa come il maschio si protende verso la femmina, l’avvolge con i rami e vi si stringe, ha dipinto due palme dei due sessi, sull’una e sull’altra riva. Il maschio si Immagini 33 inclina amorosamente, attraversa il fiume, ma non può raggiungere la palma femmina, ancora lontana, e allora si stende servilmente. Unendo così le due rive diviene un ponte sul quale il piede, trattenuto dalla ruvidezza della corteccia, non potrà scivolare. 1.10 Anfione. Si dice che Ermes per primo abbia avuto l’astuzia di costruire una lira servendosi di due corni, una traversa e un guscio di tartaruga27, e che subito fece dono dello strumento ad Apollo e alle Muse, e quindi ad Anfione di Tebe. Anfione, che viveva a Tebe al tempo in cui la città non era ancora cinta di mura, parlò alle rocce con la sua melodia, ed ecco che, docili all’ascolto, esse accorrono numerose28. È il soggetto della pittura. Esamina innanzi tutto la lira, per vedere se la rappresentazione è esatta. Il corno, il corno del capro che s’impenna, come dice il poeta29, è buono per la lira del musico e per l’arma dell’arciere30. Sono corna nere, come vedi, dentellate, capaci di infliggere colpi terribili. Le parti di legno sono di un bosso liscio, a grana densa. Non c’è avorio, perché allora gli uomini non conoscevano né l’elefante né il modo in cui si sarebbero impiegate le sue zanne. Il guscio è nero e dipinto fedelmente, sull’intera superficie cerchi irregolari si intrecciano, volute chiare disseminate di occhi gialli. Sostenuta dal ponte, la parte inferiore delle corde è rialzata e si sovrappone alle volute, mentre sotto l’attaccatura si direbbe che si stendano ben dritte sulla lira. E che fa Anfione? Pizzica le corde della lira, profondamente concentrato sulla sua esecuzione. Lascia intravedere i denti quanto è necessario a chi canta. E canta, immagino, la terra, madre feconda di ogni cosa che partorisce perfino spontaneamente delle muraglie. Una chioma aggraziata gli incorona la fronte e scende con la peluria del viso lungo l’orecchio, colorandosi di riflessi dorati. La mitra gli conferisce nuova grazia, l’ornamento mirabile che tanto si addice a un suonatore di lira e che il poeta dei “versi segreti”, ha definito opera della grazie. Per parte mia, credo che Ermes, innamorato di Anfione, gli abbia fatto dono della mitra insieme alla lira. Anche la clamide è un dono di Ermes: ha un colore variegato e cangiante, e muta tutti i colori dell’iride. Seduto, Anfione batte il tempo col piede, mentre la mano destra 34 Filostrato pizzica col plettro le corde, che preme con la sinistra. Le dita distese sporgono, e credevo che soltanto l’arte plastica potesse fare altrettanto. Ma sorvoliamo. Che fanno le pietre? Accorrono in gran numero, attratte dal canto. Ascoltano, e si compongono per innalzare la muraglia. Alcune hanno già preso posto nella costruzione, altre stanno salendo, altre ancora si aggiungono senza sosta. Sono pietre davvero gentili, che fanno a gara per meglio obbedire, come mercenari, agli ordini della musica. Il muro avrà sette porte, quante sono le corde della lira. 1.11 Fetonte. Lacrime d’oro piansero le Eliadi, a quanto si dice, lacrime d’oro alla morte di Fetonte, figlio del sole, che a causa della suo desiderio di essere cocchiere osò salire sul carro del padre, ma poiché non seppe tenere le redini cadde nell’Eridano31. Secondo i sapienti, si è trattato di un periodo di calore eccezionale. Ma per i poeti e i pittori il carro e i cavalli sono cose vere. Il disordine regna in cielo. Guarda: non è ancora pomeriggio e la notte scaccia il giorno, la sfera del sole si precipita sulla terra trascinando gli astri. Le Ore disertano le porte affidate alla loro guardia e si lanciano a pazza corsa contro le tenebre che vengono verso di loro. I cavalli, svincolatisi dal giogo, obbediscono ormai soltanto al furore che li prende. La terra leva le mani al cielo mostrando il suo sconforto, e raccoglie la caduta di questo torrente di fiamme. Il giovane è scaraventato fuori dal carro, cade, la chioma è arsa dalla fiamma, il petto rigurgita il fumo. Cadrà nell’Eridano32, regalando al fiume la sua fama eccezionale. Perché da allora i cigni canteranno il giovane con sospiri melodiosi, e viaggiando in schiere attraverso i cieli andranno a ripetere le tristi vicende al Caistro33 e all’Istro34. La storia allora sarà nota in ogni luogo. Ovunque sulla loro strada troveranno Zefiro35, il leggero, per accompagnare il loro canto, perché egli ha promesso, a quanto si dice, di piangere Fetonte insieme a loro. Ed ecco che accade sotto i miei occhi: il soffio del vento sfiora i cigni, come se fossero dei veri strumenti. Le donne rimangono sulla riva: non hanno ancora smesso di essere donne, ma pare che a forza di piangere si siano tramutate in alberi, e che in questa forma ancora versino lacrime. Immagini 35 La pittura lo sa, e ci mostra le Eliadi mentre mettono radici: alcune sono già alberi per metà del corpo, altre hanno già le mani tramutate in rami. Vedi questa chioma? È la cima di un pioppo nero. Vedi queste lacrime? Sono dorate: scorrendo ravvivano le pupille e le illuminano, sull’incarnato delle guance scintillano, sul seno, dove ruscellano goccia dopo goccia, sono già oro. Emergendo dal turbinio delle acque, il fiume si lamenta. Tende a Fetonte la piega della sua veste – così è atteggiato – per accoglierlo al termine della sua caduta. Farà dunque raccolto delle lacrime delle Eliadi: grazie a venti e gelate le trasformerà in sassi e le porterà fino al mare con le sue acque limpide. È così che queste pagliuzze di pioppo raggiungeranno i barbari attraverso l’Oceano. 1.12 Il Bosforo. Le donne che vedi sulla riva levano grida. Sembra che raccomandino ai cavalli di non disarcionare i bambini che li montano, di non mordere il freno e andare spediti, e calpestare le bestie feroci. I cavalli le sentono, immagino, e si mostrano docili. I giovani cacciatori, tornando dopo il pasto, attraversano su un’imbarcazione i quattro stadi che separano l’Europa dall’Asia. Sono loro a remare. Ecco, vedi, gettano l’àncora e vengono ricevuti in una bella casa di cui si intravedono all’interno le camere, le sale per gli uomini, e ancora edifici provvisti di finestrelle. La casa si trova al centro di un recinto formato da un muro merlato. Ma la sua più grande bellezza è un portico di pietre ocra, a semicerchio sul mare. L ’ origine delle pietre è dovuta all’azione delle acque: alle pendici delle montagne della bassa Frigia sgorga una sorgente d’acqua calda che si infiltra nelle cave e bagna alcune rocce, trasmettendo alle pietre una natura acquosa, e una colorazione variegata. Nel punto in cui l’acqua forma una falda quieta e giallastra, le pietre hanno un aspetto terroso, dove è limpida sono trasparenti come cristallo. Secondo le numerose fessure che la accolgono, conferisce tinte diverse agli strati della cava. La riva è elevata ed è segnata da una leggenda. Una bella ragazza e un bel giovane, allievi dello stesso maestro, si infiammarono d’amore. Poiché non avevano modo di unirsi senza correre rischi, decisero di morire. Si gettarono 36 Filostrato in mare dall’alto della roccia, stretti insieme per la prima e l’ultima volta. Eros sulla roccia tende la mano verso il mare: ecco come il pittore ci dà un segno che rinvia alla storia. Nella casa vicina abita una vedova che giovani importuni hanno costretto a lasciare la città: volevano prenderla, e con questa speranza si riunivano senza sosta in cortei notturni, e la tentavano offrendole doni. La vedova dal canto suo li provocava, mi pare, con abile civetteria, e si ritirò in queste contrade, dove si stabilì in un palazzo fortificato. Vedi come la piazza è ben difesa: la falesia a picco sul mare si ritira e si incava vicino alle onde, mentre in alto aggetta e protende sul mare la casa che sostiene. Così l’acqua, vista da questa altezza, sembra di un blu più scuro, e se la terra potesse muoversi, somiglierebbe davvero a una nave. Ma la fortezza in cui si è rifugiata non basta a scoraggiare i pretendenti, che si lanciano all’inseguimento: uno in una barca dalla prua azzurra, l’altro in una dalla prua dorata. La loro flotta stende mille colori. Eccoli agghindati e adorni di corone come allegri convitati: uno suona il flauto, l’altro batte le mani, un terzo, credo, canta. Lanciano corone, mandano baci, ma i remi rimangono sospesi: la loro corsa si interrompe ai piedi del precipizio. Dalla casa, come da un posto di guardia, la giovane donna contempla la scena e ride della festa, fiera di aver costretto i pretendenti non solo a prendere il mare, ma anche a nuotare per venire a riva. Più in là ti imbatterai in greggi di pecore e sentirai i buoi muggire. La siringa risuonerà ovunque alle tue orecchie. Ecco cacciatori e contadini, fiumi e stagni e sorgenti, tutto è in questa pittura: ciò che è, ciò che è stato, si vede perfino come andranno certe cose in futuro. E la quantità degli oggetti non costituisce affatto un impedimento alla verità. Tutto è perfettamente compiuto, come se l’artista avesse avuto un solo oggetto da dipingere. Arriviamo così a Hieron36. Qui riesci a intravedere, penso, un tempio cinto da colonne e, all’imboccatura dello stretto, l’alto faro che guida i viaggiatori provenienti dal Ponto. 1.13 Il Bosforo 37. – Ma non hai un’altra scena da spiegarci? Ci siamo occupati abbastanza del Bosforo. – Non essere impaziente, non ho detto tutto. Rimangono i pescatori, di cui prima avevo promesso di Immagini 37 parlare. Per lasciare da parte i dettagli e occuparci soltanto delle cose importanti, lasciamo da parte quelli che pescano con la lenza, quelli che si servono della nassa insidiosa, quelli che tirano le reti o arpionano i pesci con il tridente. Non avrei molto da dire: stanno lì, ne converrai, per abbellire il quadro. Ma soffermiamoci su quelli che pescano i tonni: è un tipo importante di pesca, e pertanto merita di essere descritta. I tonni, nascono nel Ponto Eusino38, dove si nutrono in parte di pesci e in parte del limo e del fango dell’Istro e della Meotide39, che rendono più dolce e potabile l’acqua rispetto a quella degli alti mari. Quindi passano nel mare esterno, come una falange di soldati. Nuotano incolonnati come un plotone in ranghi di otto, sedici o trentadue, sovrapposti gli uni agli altri, allargandosi tanto in profondità che in larghezza. Vengono catturati in molti modi diversi: uno spiedo dalla punta acuminata, un’esca gettata in superficie o una rete sottile sono espedienti che bastano a chi si accontenta di una piccola parte del banco. Ma ecco il metodo migliore: un uomo capace di contare e dotato di vista eccellente rimane in osservazione in cima a una pertica. Bisogna che tenga gli occhi fissi sul mare e che il suo sguardo raggiunga le più grandi distanze. Quando vede i tonni che si avvicinano, avverte con voce possente i pescatori che stanno nelle altre barche: dice quante migliaia di tonni conta il banco, e allora gli altri, sbarrando la strada ai tonni e avvolgendoli con una rete che scende in profondità fanno una pesca magnifica, buona per arricchire il padrone della flotta. Guarda la pittura, perché ora vedrai tutto ciò che accade. La sentinella tiene gli occhi fissi sul mare per stimare il numero dei pesci. Nel verde brillante dell’acqua, i pesci si distinguono per il colore: i più vicini sembrano neri, i successivi lo sono meno, la terza schiera già si sottrae alla vista, poi è solo un’ombra, poi si confondono con l’acqua, poi lo sguardo perde la sua nettezza a mano a mano che scende sotto le onde. Il gruppo dei pescatori ha la pelle abbronzata dal sole ed è un piacere guardarla. Uno arma il remo, l’altro remando mostra un braccio gonfio per lo sforzo, questo esorta il vicino, quello colpisce un vogatore pigro. Un grido risuona alto tra i pescatori quando i pesci si gettano nella rete: alcuni sono già catturati, altri si lasciano prendere. Non sapendo che farsene 38 Filostrato di questa abbondanza, i pescatori lasciano un’apertura nella rete e permettono a qualche pesce di scappare, tanto abbondante è la pesca. 1.14 Semele. Questo personaggio dal viso severo è Bronte. Quest’altro, i cui occhi gettano fiamme, è Astrape40. La loro presenza, insieme a questo fuoco violento che dal cielo si è abbattuto sulla casa reale, ci indica, se hai buona memoria, che abbiamo di fronte agli occhi il soggetto che ora dirò. Una nuvola di fuoco, dopo aver avvolto la città di Tebe, si infrange sul palazzo di Cadmo, dove Zeus si sollazza con Semele. Semele muore, a quanto sembra, e per Zeus Dioniso nasce davvero per opera delle fiamme41. Si intravede la pallida immagine di Semele che sale in cielo, dove le Muse festeggeranno il suo arrivo cantando. Dioniso viene fuori di slancio dal ventre squassato della madre e brilla come un astro, facendo impallidire al confronto il fulgore del fuoco. La fiamma si schiude, schizzando intorno a Dioniso la forma di un antro: il dio non ne ha uno più bello né in Assiria42 né in Lidia. Eliche, bacche di edera, e poi viti già robuste e fusti con cui si fabbrica il tirso già lo ricoprono, e tutta questa vegetazione esce dalla terra di così buon grado che in parte cresce in mezzo al fuoco. E non ci sorprende che la terra posi sulle fiamme una corona, in onore di Dioniso: non dovrà forse conoscere un giorno, in compagnia del dio, i furori delle Baccanti43, spandere vino in ruscelli, e dal suo suolo, perfino dalla rocce come se fossero mammelle, lasciar uscire latte abbondante? Ascolta Pan44: sembra che canti Dioniso dalle cime del Citerone45, saltando qui e là gridando evoè. Il Citerone, sotto sembianze umane, piange le sventure di cui più tardi sarà testimone. Tiene sul capo una corona che non sta ferma, perché la porta controvoglia. Non lontano Megera46 pianta un piede di abete e fa sgorgare una sorgente d’acqua fresca. La sorgente sarà funesta per il cacciatore Atteone47, l’abete per Penteo48. 1.15 Arianna. Arianna49 fu abbandonata nel sonno sull’isola di Dia50 dal perfido Teseo, ma forse non fu un’ingiustizia, perché secondo certuni ubbidiva agli ordini di Dioniso51. La tua nutrice ti ha certamente raccontato la storia, perché le donne della sua condizione la Immagini 39 sanno lunga in proposito, e mentre raccontano piangono a dirotto. Non ho dunque bisogno di dirti che l’uomo sulla nave è Teseo, e che sulla riva vediamo Dioniso. E se richiamo i tuoi occhi da questo lato, non è certo per insegnarti il nome della giovane donna che dorme placidamente sulle rocce. Non è neppure sufficiente lodare il pittore per qualità che potremmo lodare in altri, perché per qualunque artista è facile dipingere una bella Arianna o un bel Teseo. Dioniso ha una miriade di sembianze diverse, e allo scultore o al pittore ne basta una per ritrarre il dio. Una corona fatta di bacche d’edera, anche solo abbozzata, le corna che spuntano vicino alle tempie, la pelle di leopardo appena accennata, sono simboli inequivocabili. Ma quel che qui ci permette di riconoscere Dioniso non è altro che il suo amore: le vesti ricamate, il tirso, la nebride, il dio si è spogliato di tutto come se ora queste cose fossero inopportune. Le baccanti non fanno risuonare i loro cimbali, i satiri non suonano il flauto. Lo stesso Pan si trattiene per non svegliare la ragazza con i suoi balzi scatenati. Vestito di un peplo di porpora e cinto di rose, Dioniso si avvicina ad Arianna. È ebbro d’amore, come dice il poeta di Teo quando parla di amanti troppo appassionati52. Anche Teseo sospira, ma a causa del fumo che sale dai tetti di Atene. Non sa più chi sia Arianna, non lo ha mai saputo, e dico di più, ha dimenticato il labirinto, non ricorda perché sia passato da Creta: vede soltanto davanti alla prua della sua nave. Guarda anche Arianna, o meglio guarda il sonno stesso: il petto è nudo fino alla vita, il collo piegato all’indietro rivela una gola delicata, tutta la spalla destra è scoperta, la mano sinistra trattiene i panni per prevenire la temerità del vento. Com’è dolce e soave il suo alito, Dioniso! Ha il profumo delle mele o dell’uva? Ce lo dirai al tuo primo bacio. 1.16 Pasifae. Innamorata di un toro, Pasifae ha chiesto al genio di Dedalo il modo di sedurre la bestia, e Dedalo fabbrica una giovenca cava che somiglia in tutto e per tutto a una vera giovenca, compagna consueta del toro. L ’ unione ebbe luogo, e ne è la prova l’aspetto del Minotauro, composto mostruoso di due nature diverse. Ma non è questa unione che qui il pittore ha voluto rappresentare, bensì la 40 Filostrato bottega di Dedalo. Le figure che lo circondano, alcune appena abbozzate, altre compiute, quasi in procinto di alzarsi e camminare, testimoniano di un progresso che l’arte della statuaria non aveva mai raggiunto prima53. Dedalo ha un aspetto attico, perché il suo sguardo rivela una saggezza superiore, per così dire, e un certo senno. Ma è attico il suo stesso contegno, perché non solo è avvolto in un mantello scuro, ma è rappresentato scalzo, alla maniera che gli ateniesi prediligono. Si è seduto per lavorare meglio alla giovenca e si fa aiutare nella sua opera dagli Amori, perché non potrebbe fare a meno di Afrodite. Li riconosci senza fatica, ragazzo mio: alcuni reggono il trapano, altri lavorano con l’accetta i tratti appena sgrossati della giovenca, altri ancora misurano, cercando le giuste proporzioni che costituiscono il fine dell’arte, altri infine, che tengono la sega, sono al di sopra di ogni elogio per l’invenzione, il tratto e i colori. Vedi che la sega è entrata nel legno e lo attraversa da parte a parte. Due Amori la manovrano, uno dal basso verso l’alto, l’altro dall’alto verso il basso. Entrambi si alzano e si abbassano, ma non allo stesso tempo; almeno è quel che dobbiamo credere. Perché uno si è abbassato come per alzarsi di nuovo, l’altro si rialza come per abbassarsi ancora. Il primo, alzandosi, ha il petto gonfio per l’aria che inspira, mentre l’altro, che pure inspira l’aria in alto, tiene le mani in basso sulla sega, e ma è il ventre che è gonfio, per lo sforzo. Fuori della bottega Pasifae, in mezzo al bestiame, guarda il toro con ammirazione. Pensa di sedurlo con la sua bellezza, con lo splendore meraviglioso della sua veste che gareggia per brillantezza con l’arcobaleno54. Vediamo nel suo sguardo il turbamento dell’anima perché ella sa qual è l’oggetto del suo amore, eppure persiste nel desiderio dei baci del toro. Quanto a lui, il toro rimane impassibile e guarda la sua giovenca. È rappresentato in atteggiamento fiero, come conviene a un capo, armato di corna eleganti, di un bianco splendente, cammina con passo fermo. Ha una larga giogaia, un collo robusto, l’occhio fissa amorevolmente la compagna. La giovenca invece se ne sta libera insieme al resto del gruppo: ha la testa nera e il resto del corpo bianco e prendendosi gioco del toro balza come una ragazza che si sottrae alle insidie di un amante. Immagini 41 1.17 Ippodamia. Spavento intorno all’arcade Enomao55. Senti gridare, immagino, una folla intera che rappresenta l’Arcadia e tutto il Peloponneso. Il carro, creato dall’arte di Mirtilo, è andato in frantumi: era tirato da quattro cavalli. Nessuno prima di allora aveva osato servirsi di un mezzo simile per fare la guerra, ma il carro era noto e reputato nei giochi pubblici. I Lidi, che hanno la passione dei cavalli, legavano quattro animali ai loro carri già dai tempi di Pelope. In seguito usarono anche quattro timoni e a quanto si dice condussero per primi otto cavalli in una volta. Osserva, ragazzo mio, i destrieri di Enomao sono fieri e focosi, schiumano (è tipico dei cavalli dell’Arcadia), sono neri come si addice a un ruolo insolito e sinistro. Quelli di Pelope invece sono di un bianco brillante, come vedi sentono le redini, sono docili al comando di Peitho, il loro nitrito è dolce come un canto di vittoria. Enomao, disteso a terra, è rappresentato come Diomede trace, con un’aria feroce e crudele. Vedendo Pelope, invece, non ti meraviglierai che Poseidone si sia innamorato della sua bellezza il giorno in cui servì gli dèi come coppiere sul Sipilo, e lo ammirò a tal punto che senza curarsi della sua giovane età gli fece dono di un carro. Si tratta di un carro capace di correre sui flutti come sulla terra: neanche una goccia d’acqua toccherà le assi, perché il mare si stende come terra ferma sotto gli zoccoli del cavallo. Pelope e Ippodamia vincono la gara: li vediamo entrambi ritti sul carro, stretti l’uno all’altro, quasi si abbracciano per l’ardore. Pelope è vestito con eleganza, al modo lidio, ha l’età e la bellezza che ammiravi poc’anzi quando chiedeva cavalli a Poseidone. Ippodamia è vestita come una sposa promessa, ha appena sollevato il velo che le copriva il volto, poiché con la vittoria ha avuto in dono un marito. Alfeo viene fuori dal turbine delle acque per offrire una corona d’olivo a Pelope, che indirizza i cavalli verso il fiume. I tumuli in mezzo all’ippodromo conservano le spoglie dei tredici pretendenti uccisi da Enomao, che così rinviava le nozze della figlia. La terra adesso genera fiori intorno alle tombe, come se volesse far partecipare i pretendenti alla vittoria che li vendica di Enomao, ed è come se offrisse loro una corona. 42 Filostrato 1.18 Le Baccanti. Qui è raffigurata, ragazzo mio, la scena del Citerone. Ecco il coro delle Baccanti, le pietre mandano ruscelli di vino, i grappoli stillano nettare, le zolle di terra rilucono di latte56. Ecco l’edera dai fusti rampanti, i serpenti che sollevano la testa, i tirsi e gli alberi da cui escono, credo, gocce di miele. Vedi questo abete steso al suolo, la sua caduta è opera delle donne stravolte da Dioniso: scuotendolo lo hanno fatto cadere, insieme a Penteo che scambiano per un leone. Ecco che straziano la loro preda: le zie staccano le mani, la madre trascina il figlio per i capelli. Parrebbe di sentire il loro canto di vittoria, il grido evoè sembra uscire dai loro petti ansimanti. Dioniso contempla la scena da un’altura, con le guance rosse di collera, pungolando le donne d’ispirazione divina: non vedono ciò che fanno, Penteo si sfinisce in vane preghiere, ma tutto ciò che sentono sono i ruggiti di un leone. Il tutto accade sulla montagna. Più vicino a noi, ecco Tebe e il palazzo di Cadmo. Tra i lamenti funebri i familiari di Penteo compongono le membra disperse, per deporre almeno un cadavere intero nella tomba. La testa giace al suolo, irriconoscibile: farebbe pena allo stesso Dioniso per la sua giovinezza, il mento fine, la bionda chioma che non conosce corone d’edera né smilace, né pampino, né il turbamento del flauto, né il furore bacchico. Infuriata dalle Baccanti le infuriava a sua volta, e il suo delirio era dovuto al fatto che non sentiva il delirio ispirato da Dioniso. La nostra pietà si rivolge anche alle donne che furono accecate sul Citerone e ora vedono con tremenda chiarezza. Il delirio si è esaurito, come le loro forze. Vedi come sul Citerone si lanciano inebriate dalla lotta, svegliando con le loro grida l’eco della montagna. Qui invece sono calme, perché ora comprendono ciò che fecero in preda al furore bacchico. Sono sedute per terra, una tiene la testa sulle ginocchia, l’altra reclinata sulla spalla. Agave57 vorrebbe abbracciare il figlio ma ha paura perfino di toccarlo: le mani, le guance, il seno nudo, sono coperti di sangue. Ci sono anche Cadmo e Armonia, ma non somigliano a quelli che erano un tempo: già le membra inferiori si trasformano in serpenti58, tutto scompare sotto le scaglie dai piedi ai fianchi, e la metamorfosi prende le parti superiori. Sono terrorizzati e si abbracciano come se la stretta potesse arrestare la fuga del corpo e salvare quel che resta delle loro sembianze umane. Immagini 43 1.19 I Tirreni. Una nave di gala e una nave pirata. Al comando della prima Dioniso, a bordo dell’altra i Tirreni che infestano le loro coste59. Nella nave sacra le baccanti celebrano con furore le cerimonie sacre al cospetto di Dioniso. L ’ armonia dei misteri risuona sul mare, che si placa in onore di Dioniso e sembra unito come la terra di Lidia. Presa dalla follia, la ciurma dell’altra nave dimentica di remare, e molti hanno già perso l’uso delle mani. Qual è dunque il soggetto del quadro? Si tratta, ragazzo mio, del tentativo dei Tirreni di prendere Dioniso alla sprovvista. Hanno sentito dire che Dioniso è effeminato e rozzo, che la sua nave è come una miniera d’oro tanto è ricolma di ricchezze, che al suo seguito ci sono donne lidie, satiri, suonatori di flauto e un vecchio che porta la ferula, che beve vino di Maronea e che Marone in persona fa parte del suo seguito, sanno anche che i Pan sono sulla nave di Dioniso. Tramano di rapire le baccanti e donare a questi dèi, che hanno sembianze di becchi, capre nate sul suolo tirreno. La nave dei pirati è armata di gru, speroni, arpioni di ferro e lance acuminate. Per ispirare paura e dare al nemico l’impressione di essere un mostro è tinta di verde e sulla prua ha occhi minacciosi che sembrano fissare una preda, mentre la poppa, che termina a mezza luna, somiglia alla coda ricurva dei pesci. La nave di Dioniso ha un aspetto ben strano, anche se la poppa si dissimula sotto i cimbali che si sovrappongono l’uno all’altro, precauzione utile nel caso in cui i satiri dovessero addormentarsi a causa del vino, perché Dioniso non vogherebbe silenziosamente. La prua porta invece a rilievo l’effigie di una pantera dorata, l’animale più caro a Dioniso perché è il più focoso, e balza con la leggiadria di una menade. E puoi vedere che è una vera pantera quella che dalla nave di Dioniso si scaglia sui Tirreni, ancor prima che il dio abbia dato il segnale. In mezzo alla nave un tirso è ritto a guisa di albero e tiene le vele di porpora che brilla nell’ombra delle pieghe e fa da sfondo alla rappresentazione ricamata in oro delle baccanti dello Tmolo e delle gesta di Dioniso in Lidia60. È meraviglioso che la nave sembri cinta di viti e di edera, e che i grappoli vi pendano sopra, ma ancora più meravigliosa è la fonte di vino che sgorga dal fondo, e per così dire, dalla sentina. Ma torniamo ai Tirreni, finché sono ancora tali e quali, 44 Filostrato perché Dioniso, dopo aver smarrito il loro senno li trasforma in delfini. Ma sono delfini che hanno ancora poca dimestichezza col mare: uno ha i fianchi tinti d’azzurro, l’altro ha il petto viscido, una pinna spunta sul dorso di questo, quell’altro ha una coda nuova, questo non ha più testa umana, un altro ancora ha perso la consistenza delle mani, uno si lamenta vedendo i piedi scomparire. Sul ponte Dioniso ride della vicenda e incita i Tirreni, che da uomini perversi si trasformano così in animali fidati. Tra poco infatti Palemone solcherà i mari sul dorso di un delfino, e non da sveglio, ma steso sul dorso di un delfino che cullerà il suo sonno61. Arione di Tenaro62 ci mostra del resto che i delfini sono amici dell’uomo, amano i canti e sono capaci di battersi contro i pirati per amore dell’uomo e della musica. 1.20 I Satiri. Il luogo rappresentato è Cillene63, se le fonti e l’antro non ci ingannano. Non c’è Marsia, ma forse guida al pascolo il gregge, o magari la disputa è già avvenuta64. Non indugiare ad ammirare l’acqua, per quanto sia stata rappresentata limpida e calma: Olimpo65 ti sembrerà ancor più attraente. Ha smesso di suonare il flauto e dorme, dolce giovane, su un morbido tappeto di fiori, mescolando il sudore alla rugiada del prato. Zefiro cerca di svegliarlo soffiandogli tra i capelli, e il giovane risponde alle carezze del vento col soffio del suo petto. Le canne sonore stanno ai piedi di Olimpo, insieme agli attrezzi di ferro che servono a lavorare i flauti. Innamorati del giovane, i satiri riuniti in gruppo lo contemplano, con le gote infiammate e il sorriso sulla bocca. Vorrebbero carezzargli il petto, o gettarsi al suo collo, rubargli un bacio. Spargono fiori su di lui e lo adorano come una statua divina. Il più destro afferra uno dei flauti, ancora tiepido per il calore delle labbra, strappa la linguetta e la morde, immaginando così di baciare Olimpo e credendo perfino di respirare con delizia il profumo del suo fiato. 1.21 Olimpo. Per chi suoni il flauto, Olimpo? A che serve la musica nella solitudine? Non ci sono pastori o caprai ad ascoltarti, e neanche le ninfe, che pure volentieri danzerebbero al suono del flauto66. Non so perché ti piace ammirare l’acqua che sgorga sotto la roccia. Che Immagini 45 cosa vi accomuna? Non è per te che l’acqua gorgoglia e non accompagnerà il suono del flauto per scandire le ore del giorno. Ma non vogliamo certo farti fretta, e anzi prolungheremmo fino a notte fonda il piacere di ascoltarti. Se è la tua stessa bellezza che ammiri in questo modo, non rivolgerti all’acqua, perché noi sapremo spiegartela meglio, e nei dettagli. I tuoi occhi brillano, e ogni sguardo si concentra sul flauto. Le tue sopracciglia descrivono un arco, indicando il tipo di melodie che ci fai ascoltare. La tua guancia sembra agitarsi e quasi danzare a ritmo cadenzato, ma quando soffi nello strumento non gonfi oltre misura nessuna parte del viso. La tua chioma non è incolta, ma non è neanche liscia e profumata di unguenti come quella di un giovane di città: quando si increspa, se è secca o arida, il difetto è coperto dalle foglie verdi e ritte del pino che ti cingono la testa. È una bella corona che esalta lo splendore della tua bellezza. I fiori, lascia che crescano per le ragazze, che le donne portino i loro colori brillanti. Il tuo petto, oso dirlo, non è gonfio soltanto di fiato, ma di ispirazione musicale e della scienza della modulazione. L ’ acqua su cui ti sporgi dall’alto della roccia dipinge soltanto il tuo petto: se ti avesse dipinto in piedi, la parte inferiore sarebbe apparsa deformata, perché l’acqua imita gli oggetti come se venissero in superficie raccogliendosi su sé stessi. E poi la tua immagine vacilla: il soffio che esce dal flauto tocca la sorgente, e anche Zefiro ci mette del suo, Zefiro che ispira il musico, spira nel flauto e increspa la superficie dell’acqua. 1.22 Mida. Il satiro dorme, parliamo di lui a bassa voce, altrimenti potrebbe svegliarsi e allora ciò che vediamo scomparirebbe. Mida67 l’ha preso in Frigia, alle pendici delle montagne che vedi. Il re aveva mescolato del vino all’acqua di questa sorgente. Il satiro, ancora disteso, vomita fiotti di vino nel sonno. Amiamo i satiri per la loro vivacità, quando danzano, per la loro gioiosa buffoneria, quando sorridono amorevolmente, questi discoli, e con carezze esperte seducono le donne di Lidia. Ai satiri si addicono tratti asciutti, sangue irrequieto, orecchie smisurate, fianchi scavati, ogni insolenza, una coda di cavallo. Il prigioniero di Mida non è rappresentato in modo diverso. Appesantito dal vino, ha il respiro difficile tipico dell’ebbrezza, e 46 Filostrato berrebbe tutta l’acqua della fonte come chiunque altro berrebbe una sola coppa. Le ninfe che stuzzicano il satiro formano una catena intorno a lui. Ammira la mollezza e l’indolenza di Mida, come ha cura della sua mitra, dei boccoli della chioma, del tirso che porta e della veste ricamata d’oro. Vedi le sue lunghe orecchie? Dobbiamo dare a loro la colpa della sonnolenza che sembra conquistare i suoi languidi occhi, del torpore che spegne l’adorabile vivacità dello sguardo. La pittura vuole suggerirci che l’avventura è stata scoperta, che le canne hanno parlato, perché la terra non ha saputo mantenere il segreto che le era stato confidato68. 1.23 Narciso. La fonte riproduce i tratti di Narciso come la pittura riproduce la fonte e Narciso stesso nei dettagli. Il giovane, di ritorno dalla caccia, sta in piedi vicino alla sorgente sospirando per sé, incantato dalla propria bellezza, e, come vedi, fa risplendere l’acqua69. L ’ antro è quello di Acheloo e delle Ninfe. La verosimiglianza è stata rispettata, perché vediamo statue scolpite grossolanamente nella pietra locale, alcune erose dal tempo, altre mutilate da bambini, figli di bovari o pastori, che a causa della giovane età non sentono ancora la presenza del dio in questi luoghi. In effetti la fonte non è estranea al culto di Dioniso, e anzi è il dio che in qualche modo l’ha fatta sgorgare per le baccanti. La vite, l’edera, l’elica dai bei viticci, formano una pergola carica di grappoli d’uva, intrecciandosi con la ferula che dà i tirsi. In alto si trastullano uccelli che cantano armoniosamente, ciascuno a suo modo. Dei fiori, spuntati nei pressi dell’acqua in onore del giovane, schiuderanno le bianche corolle. Fedele alla verità, la pittura ci mostra la goccia di rugiada sospesa ai fiori: un’ape si posa sul fiore e non saprei dire se è stata ingannata dalla pittura, o se siamo noi a ingannarci credendo che esista realmente. Ma lasciamo andare. Quanto a te, giovane, non è una pittura la causa della tua illusione, non sono colori o una cera ingannevole a legarti. Non vedi che l’acqua riproduce te stesso nell’atto di contemplarti, non ti accorgi dell’artificio di questa fonte, eppure basterebbe che ti sporgessi appena o che cambiassi espressione, o che agitassi la mano o che ti spostassi. Ma, come se avessi Immagini 47 incontrato un compagno, resti immobile in attesa degli eventi. Credi forse che la fonte prenderà a conversare con te? Ma il giovane non ci ascolta, immerso occhi e orecchie nell’acqua. Diciamo almeno come è dipinto. In piedi, il giovane incrocia i piedi reggendosi con la mano sinistra alla sua lancia poggiata per terra, mentre la destra è distesa sul fianco. Così si regge, e il fianco destro sporge di molto perché il sinistro si abbassa. Vediamo lo spazio tra il gomito e il braccio, all’altezza del gomito, le pieghe che si formano alla giuntura del polso, le ombre che percorrono obliquamente il palmo della mano, a causa della posizione delle dita che si flettono verso l’interno. Il petto si gonfia: è l’eccitazione della caccia che dura ancora, o è già un sospiro d’amore? Non saprei: lo sguardo è quello di un uomo innamorato. Spontaneamente vivace e risoluto, ora è smorzato da qualche languore. Forse immagina di essere ricambiato in amore, perché la sua immagine lo guarda come egli la guarda. Avremmo avuto molto da dire sulla sua chioma se avessimo incontrato Narciso durante la caccia: come si sarebbe mossa per la rapidità della corsa e grazie al soffio del vento! Ma anche adesso non possiamo tacere al riguardo. È molto abbondante e quasi dorata, ricade in parte sul collo e in parte sulle orecchie, che la dividono. Ondulata sulla fronte, si confonde poi con la peluria del viso. I due Narcisi si somigliano, l’uno ripete i tratti dell’altro. La sola differenza è che uno si staglia sul fondo del cielo, mentre l’altro è come se fosse immerso nell’acqua. Il giovane rimane immobile di fronte all’altro che è in acqua, anch’esso immobile, o forse lo contempla fissamente, come assetato della sua bellezza. 1.24 Giacinto. Leggi sul giacinto il suo nome70. Il fiore stesso ci ricorda di essere nato dalla terra in onore di un bel giovane. A ogni primavera lo piange, di certo per ringraziarlo della vita che gli ha donato morendo. Non bisogna che l’aspetto di questo prato ricoperto di fiori ti induca a credere a un’origine differente: come pianta, il fiore è nato certamente qui. Ma il giovane, come ci dice la pittura, aveva una chioma dello stesso colore del giacinto: il sangue che perdeva insieme alla vita fu bevuto dalla terra e diede al fiore il suo colore. Qui il sangue scorre dalla testa su cui il disco è caduto: che strana goffaggine, 48 Filostrato facciamo fatica ad imputarla ad Apollo! Ma visto che siamo venuti soltanto per ammirare le pitture, e non per spiegare i miti o avanzare dubbi, limitiamoci a esaminare la pittura, e innanzi tutto la piazzola di gioco. Si tratta di un piccolo rialzo di terra, sufficiente a ospitare un uomo in piedi: sostenendo la gamba destra, permette al corpo di chinarsi in avanti e di spostare il peso liberando l’altra gamba, che deve slanciarsi muovendosi insieme alla mano destra71. In questa posa, il discobolo deve piegarsi girando la testa verso destra fino a posare lo sguardo sui suoi fianchi, poi lanciare il disco come se lo tirasse fuori da un pozzo, con la forza di tutta la parte destra del corpo. È così che Apollo ha lanciato il disco, e non avrebbe potuto fare diversamente. Colpito dal disco, è sul disco stesso che il giovane è disteso. Era un giovane lacedemone con le gambe ben dritte, esercitato nella corsa, le braccia piene di forza. Lascia indovinare sotto i muscoli un’ossatura aggraziata. Apollo ancora in piedi sulla piazzola volge lo sguardo per terra: si direbbe che sia paralizzato, tanto è il suo stupore. È il barbaro Zefiro che per la collera contro il dio ha deviato il disco contro il giovane. Gli sembra solo un gioco, e ride sull’altura da cui osserva la scena. Lo riconosci, penso, dalle ali che ha sulle tempie, dall’aria effeminata, e dalla corona intrecciata con tutti i fiori, ai quali presto aggiungerà il giacinto. 1.25 Gli abitanti di Andro. Soggetto del quadro sono gli abitanti di Andro72, ebbri del vino che solca la loro isola come un fiume. È Dioniso che l’ha fatto sgorgare per loro dalla terra: piccolo rispetto ai fiumi d’acqua, ma divino e imponente se si pensa che è un fiume di vino. Chi vi attinge potrà addirittura disprezzare il Nilo e l’Istro, e dire che sarebbe meglio se somigliassero a questo fiume, anche se dovessero, per questo, essere più piccoli. Questo cantano senz’altro gli abitanti di Andro, con le donne e i bambini, tutti cinti di edera e smilace, alcuni danzando, altri distesi su entrambe le rive. Immagino di sentirli: l’Acheloo73, dicono, genera canne, il Peneo74 abbevera Tempe, i fiori crescono sulle rive del Pattolo75, ma questo fiume arricchisce gli uomini, rendendoli potenti negli affari pubblici e ricchi e servizievoli con gli amici, li rende belli, e se fossero nani dareb- Immagini 49 be loro una statura di quattro braccia. Chi se ne è inebriato può raccogliere tutti questi beni e fregiarsene nella sua immaginazione. Cantano di certo che è il solo fiume della regione a non essere attraversato dalle greggi o dai cavalli. Versato da Dioniso in persona, vi si attinge un nettare purissimo, che scorre soltanto per gli uomini. Immagina di sentire quest’inno, frammisto delle voci già impastate di vino. Guardiamo la pittura: il fiume, disteso su un letto di grappoli d’uva, si riversa mostrando il volto rubizzo, colore del vino pretto. Vicino a lui sono cresciuti dei tirsi, come fanno le canne ai bordi degli altri fiumi. Quando lascia la terra e i simposî, verso la foce, i Tritoni76 gli vengono incontro, attingono il vino servendosi di conchiglie, lo bevono o lo scagliano in aria soffiando, e alcuni sono già ebbri e danzano. Dioniso viaggia per mare alla volta di Andro con le sue feste: già la nave entra nel porto, portando una ciurma brulicante di satiri, baccanti e sileni. Porta anche Riso e Como, i genî più allegri, i migliori compagni dell’ebbrezza, i più grati al dio nella vendemmia. 1.26 La nascita di Ermes. Questo bimbo appena nato, ancora in fasce, che spinge delle giovenche verso un’apertura della terra, è Ermes. È ancora lui, qui, che ruba le frecce di Apollo77. Le marachelle del dio sono adorabili: si dice che il figlio di Maia, appena nato, abbia avuto in dono la passione e il genio del furto non per povertà, perché era un dio, ma come passatempo e diletto. Vuoi sapere cosa è capace di fare? Guarda la pittura. È appena nato, sulla cima dell’Olimpo, nell’alta dimora degli dèi che – è Omero a dirlo78 – alta com’è non conosce la pioggia, non avverte il soffio dei venti e non è battuta dalla neve: tutta la montagna è divina e libera dalle intemperie che funestano le alture abitate dagli uomini. È qui che le Ore si prendono cura di Ermes79. Anche queste dee sono rappresentate, ognuna con la grazia sua propria: avvolgono il bimbo nelle fasce e spargono su di lui i fiori più belli, un onore che si addice a una culla non comune. Poi si rivolgono verso la madre di Ermes, che è distesa sul letto. Allora Ermes si libera delle fasce, si mette a camminare e scende dall’Olimpo. Scorgendolo, la montagna gioisce, sorride quasi come farebbe un uomo, fiera com’è di aver fatto nascere Ermes. 50 Filostrato Occupiamoci ora delle marachelle. Le giovenche che vedi, alle pendici dell’Olimpo, hanno corna d’oro e un mantello più bianco della neve, perché sono sacre ad Apollo. Le conduce, spingendole avanti verso una fossa aperta nella terra. Non vuole certo ucciderle, ma nasconderle per un giorno, finché Apollo non si sarà accorto della scomparsa. Poi, come se niente fosse, torna ad avvolgersi nelle sue fasce. Ma ecco Apollo che viene a far visita a Maia per avere indietro le sue giovenche. Maia si mostra incredula, pensa che il dio voglia prendersi gioco di lei. Vuoi sapere cosa dice? Ho l’impressione non soltanto di vederlo parlare, ma di intendere attraverso il volto il suo discorso. Sta per dire a Maia: “sono vittima di tuo figlio, questo bimbo che ieri hai messo al mondo ha precipitato in un abisso ignoto le giovenche che erano la mia gioia, ma anche lui morirà, perché intendo precipitarlo in un abisso ancora più profondo”. Maia è sorpresa, non comprende le parole del dio. Nel frattempo Ermes, nascosto dietro Apollo, si arrampica leggero sulle spalle del dio, poi gli sottrae l’arco. Vi riesce senza farsi vedere, ma adesso è chiaro chi sia l’autore di questo piccolo furto. Qui il pittore dà prova della sua sapienza: stempera l’ira di Apollo, e ce lo mostra allegro, con quel sorriso che si disegna sul volto quando la collera cede al piacere. 1.27 Anfiarao. Il carro trainato da due cavalli (gli eroi del tempo, all’infuori del valoroso Ettore, non attaccavano ancora quattro cavalli insieme) conduce Anfiarao di ritorno da Tebe, quando la terra si spalancò, a quanto si dice, perché voleva che fosse indovino in Attica, profeta e sapiente tra gli uomini più assennati80. Dei sette capi che tentarono di restituire il potere a Polinice, nessuno tornò in patria, tranne Adrasto e Anfiarao. Gli altri giacciono presso la Cadmea81. Tutti morirono colpiti dalla lancia, dalle pietre, dall’ascia. Soltanto Capaneo fu colpito dalla folgore, pare, perché aveva offeso Zeus con il suo orgoglio82. Ma questa è un’altra storia. La pittura ci invita a guardare Anfiarao che già si introduce nella terra dischiusa, con la testa cinta di nastri e foglie d’alloro. Il tiro è bianco, sembra che le ruote del carro girino vorticosamente, i cavalli sbuffano Immagini 51 dilatando le narici e bagnando la terra di schiuma, con la criniera piegata, mentre il sudore corre in rivoli sui loro fianchi e si mescola alla polvere sottile, rendendoli forse meno belli ma anche più veri. Anfiarao è armato di tutto punto: manca soltanto l’elmo, perché la sua testa è sacra ad Apollo. Ha lo sguardo di un uomo divino, di un profeta. La pittura ci mostra anche Oropo83 da giovane, in mezzo a un gruppo di donne vestite d’azzurro: si tratta delle ninfe marine. Ecco rappresentato anche il santuario dove Anfiarao si apparta, antro sacro e misterioso. È qui che si trova la Verità, vestita di bianco, e le porte del sogno, perché per consultare l’oracolo occorre addormentarsi. Il Sogno stesso è rappresentato con i tratti del languore: porta una veste bianca sopra una veste nera, perché gli appartengono il giorno e la notte, e ha un corno in mano per mostrare che introduce i sogni attraverso la porta della verità84. 1.28 I cacciatori. Aspettate a superarci, o cacciatori, non incitate i vostri cavalli a briglia sciolta. Lasciateci piuttosto indovinare i vostri intenti e scorgere la preda che inseguite. Date la caccia a un cinghiale selvaggio85, dite, e infatti vedo i danni procurati dall’animale: ha sradicato gli olivi, strappato le viti, al suo passaggio non resta un solo fico, una mela, neppure un fiore di melo. Ha devastato ogni cosa: qui ha scavato, lì si è gettato riverso per terra, fregando il dorso sulle piante. Lo vedo! Il pelo irsuto, il fuoco che getta dagli occhi, sento lo stridore dei denti con cui vi minaccia, cacciatori coraggiosi. Animali come questo hanno un udito straordinario, grazie al quale avvertono da lontano il rumore di una squadra in marcia. La bellezza di questo giovane vi ha sedotto, e ora che lo inseguite, siete diventati sue prede. È per lui che avanzate verso il pericolo. Perché allora siete tanto vicini da poterlo toccare? Perché i vostri occhi si volgono su lui solo? Perché i vostri cavalli sono così stretti gli uni agli altri? Come mi sono ingannato: ho l’impressione di vedere non figure dipinte, ma uomini veri che si muovono, spinti dal loro amore, perché li chiamo come se davvero mi sentissero, e immagino di cogliere la loro risposta. E tu, che non hai detto niente per ricondurmi alla realtà mentre mi smarrivo, eri ingannato dalla stessa illusione, e non hai saputo difenderti 52 Filostrato meglio di me contro l’artificio del pittore e il sonno che esso procura. Ma guardiamo la pittura, perché è una pittura che abbiamo di fronte a noi. Intorno al giovane di cui dicevo, si trovano altri giovani, belli e rapiti da cose belle, di buona famiglia, come mostra ogni apparenza. Uno si distingue per la virilità propria delle palestre, un altro per la grazia ingenua, un altro ancora per i modi raffinati, e si direbbe che quest’altro abbia appena smesso di leggere e sollevi lo sguardo. Montano tutti cavalli diversi, uno bianco, un altro biondo, uno nero, un altro fulvo: tutti hanno freni d’argento, gualdrappe ricamate e falere d’oro. I barbari che vivono presso l’Oceano86 versano tutti questi colori sul bronzo incandescente: così le tinte acquistano consistenza, e ciò che viene dipinto in questo modo rimane inalterabile. Nessuna somiglianza neppure tra le vesti e la tenuta. Un cavaliere allaccia la tunica leggera con una grossa cintura: credo che sia un uomo versato nel lancio del giavellotto. Quest’altro, come se intendesse ingaggiare col cinghiale un corpo a corpo, ha il petto e le gambe coperti da un’armatura. Il ragazzo monta invece un cavallo bianco dalla testa nera, con una stella bianca in mezzo alla fronte, simile alla luna piena. Ha falere d’oro e una briglia tinta di rosso di Media, il colore scintilla insieme alla lucentezza dell’oro. Il giovane veste una clamide appena rigonfia e piegata dal vento, tinta con la porpora di Tiro cara ai Fenici, la porpora più bella, perché pur essendo scura sembra che abbia in sé la lucentezza del sole e che rifletta la brillantezza dell’arcobaleno. Poiché aveva vergogna di mostrarsi nudo ai compagni, ha indossato una tunica leggera di porpora, che lo copre fino a metà delle cosce e alla piega dei gomiti. Sorride, e il suo sguardo è vivace, la lunga chioma non basta a velare i suoi occhi quando è scossa dal vento. Qualcun altro potrà forse ammirare le sue guance, il naso ben proporzionato, e ogni parte del suo corpo. Io invece amo soprattutto la sua figura altèra. È coraggioso come conviene a un cacciatore, fiero del suo cavallo, che si sente ben voluto. Muli e mulattieri portano l’armamentario dei cacciatori: trappole, reti, spiedi, giavellotti, lance munite di denti su ogni lato. Ecco i conduttori di cani e gli esploratori, e cani di ogni razza, non soltanto quelli che hanno il naso fine o i piedi agili, ma anche quelli coraggiosi, perché occorre Immagini 53 coraggio contro il cinghiale. Abbiamo sotto gli occhi cani di Locri, di Laconia, d’India e di Creta: alcuni sollevano la testa abbaiando, altri si raccolgono in gruppo, questi seguono la pista digrignando i denti. Quando i cacciatori si saranno allontanati, canteranno un inno in onore di Artemide cacciatrice, perché questo luogo ospita un tempio consacrato alla dea, una statua levigata dal tempo, che raccoglie in offerta teste di cinghiali e orsi. Nel tempio vivono anche in libertà animali sacri alla dea, come cerbiatti, lupi, lepri: sono tutti addomesticati e non temono l’uomo. Dopo l’invocazione comincia la caccia. Il cinghiale non può restare nascosto: balza fuori dalla tana, si scaglia contro i cavalieri e li disperde con il suo slancio. Spossato dai colpi, non è ancora ferito a morte: oppone una vera armatura agli attacchi dei suoi nemici, che forse non sono ancora abbastanza potenti. Una leggera ferita rallenta la sua corsa: si dissimula nella macchia, entra in uno stagno profondo, e dallo stagno passa in un lago poco distante. Tutti i cacciatori lo inseguono gridando fino allo stagno, ma il giovane si precipita insieme alla bestia nel lago, seguito dai quattro cani che vedi. Il cinghiale attacca con furia il cavallo, e riuscirebbe a ferirlo se il giovane non si sporgesse sulla destra colpendo l’animale con tutte le forze nel punto in cui il collo si unisce alla spalla. I cani riportano il cinghiale a terra, mentre gli innamorati gridano sulla riva, come se si incitassero a vicenda a superare ciascuno la voce del vicino. Uno è caduto, perché invece di trattenere il suo cavallo lo ha spaventato, un altro intreccia una corona per il vincitore, con i fiori che ha raccolto nel prato intorno all’acquitrino. Il giovane si trova ancora nel lago, e mantiene la posa che aveva quando ha scagliato il giavellotto. I compagni, incantati, lo ammirano come se fosse dipinto87. 1.29 Perseo. Questo non è il Mar Rosso o quello dell’India. Sono Etiopi quelli che vedi, si tratta di un eroe greco in Etiopia e delle gesta ardite che, credo, intraprende per amore. Penso, ragazzo mio, che tu abbia certamente sentito parlare di Perseo: fu lui a sconfiggere questo mostro che, fuggito dall’Atlantico devastava l’Etiopia, straziando le greggi e le genti. Il pittore ha scelto questo soggetto per ammirazione dell’eroe, ma anche per compassione di Andromeda, 54 Filostrato che fu in balìa del mostro88. La lotta si è conclusa: la bestia enorme è distesa sulla riva, bagnata dai fiotti di sangue che si mescolano all’acqua del mare tingendola di rosso89. Eros è rappresentato nell’atto di sciogliere i lacci di Andromeda. Il dio è alato, come al solito, ma in questo caso ha le sembianze di un giovane: respira a fatica, si capisce che il suo compito non è stato agevole. Il fatto è che Perseo lo aveva pregato di aiutarlo ad affrontare il mostro, ed Eros ha voluto rispondere alle invocazioni del greco. La giovane, che in Etiopia si distingue per il suo fascino grazie alla chiarezza della sua pelle, è resa ancora più bella dai tratti del volto: sarebbe capace di mettere in ombra la grazia delle donne di Lidia, la bellezza delle donne di Atene, il fascino virile delle donne di Sparta. Le circostanze stesse accentuano la sua bellezza: sembra che abbia ancora una certa diffidenza, la sua gioia è frammista a stupore, ma allo sguardo che rivolge a Perseo si accompagna già un sorriso. L ’ eroe è disteso poco lontano sull’erba tenera e profumata, bagna la terra del suo sudore, e tiene discosta la testa della Gorgone per non tramutare in pietre chi ne incontra lo sguardo90. Un folto gruppo di bovari offre all’eroe del latte e del vino. Gli Etiopi non mancano di fascino, anche se hanno un colore bizzarro: il loro sorriso è selvaggio ma esprime gioia. Per la maggior parte, questi uomini si rassomigliano. Perseo accetta i loro doni ma, poggiato sul gomito, il suo sguardo è rivolto verso la giovane. La clamide di porpora ondeggia al vento, punteggiata da piccole gocce di sangue stillate durante la lotta contro il mostro. Lasciamo che i Pelopidi si vantino delle loro spalle, non riescono a eguagliare quelle di Perseo: alla bellezza della sua natura, allo splendore del sangue nobile, la fatica aggiunge una certa grazia. Le vene sono gonfie, come accade quando la respirazione accelera, ma la presenza della giovane vi concorre ugualmente. 1.30 Pelope. Vesti sontuose, tipiche della Lidia, un giovane poco più che imberbe e Poseidone che sorride facendogli dono di splendidi cavalli. Riconosciamo senz’altro Pelope di Lidia, venuto al mare per invocare la collera di Poseidone contro Enomao91. Come sappiamo, Enomao rifiutava un marito alla figlia, e uccideva tutti Immagini 55 i pretendenti di Ippodamia, facendosi poi un trofeo delle loro teste, delle mani e dei piedi, come i cacciatori fanno con gli orsi o i leoni. Pelope ha invocato il dio, ed ecco che Poseidone emerge dai flutti col suo carro dorato, trainato da cavalli terrestri, ma capaci di attraversare a pazza corsa l’Egeo senza bagnare le assi. Pelope ha corso la gara con successo, ma vediamo che risultati ha conseguito il pittore. Non è impresa da poco, credo, rappresentare quattro cavalli che tirano un carro, mostrando tutte le zampe senza confonderle e raffigurandoli al tempo stesso impetuosi e docili: uno impaziente di partire, l’altro fremente, mentre il terzo si lascia trattenere e il quarto, fiero di portare un cavaliere così bello, dilata le narici e sembra nitrire. Anche questa è una prova di sapienza. Poseidone ama Pelope dal giorno in cui il giovane, uscendo dal calderone di Cloto92, abbagliò il dio con lo splendore della sua spalla93. Poseidone, invece di distogliere il giovane dalle nozze agognate, ma contento di poter tenere la mano di Pelope nella sua, gli offrì il mezzo per vincere la corsa. Da allora “respira la superbia e l’Alfeo”, alzando con fierezza lo sguardo sui cavalli. I suoi occhi esprimono la gioia e l’orgoglio di portare la tiara. La chioma si disperde in onde dorate che insieme alla peluria della guance disegnano graziosamente i tratti del volto e ricadono come spruzzi d’oro ai due lati della testa. I fianchi, il petto e tutte le parti del corpo nudo di Pelope che potremmo enumerare, la pittura li dissimula: la veste copre perfino la gamba, perché i Lidi e gli altri barbari imprigionano la bellezza nelle vesti, e si fregiano con orgoglio dei loro abiti quando invece potrebbero mostrare con orgoglio le loro grazie naturali. Il corpo è dunque interamente nascosto, ma all’attaccatura della spalla sinistra la tunica scomposta si schiude lasciandone intravedere lo splendore. La notte già avanza, e il giovane è illuminato dalla sua stessa spalla, che splende nelle tenebre come la stella della sera. 1.31 I doni ospitali. È bello raccogliere i fichi, ma è bello anche, adesso, non tralasciarli. Ecco dei fichi neri, ammucchiati su foglie di vite: stillano un succo abbondante. Rappresentati con la scorza spaccata, alcuni si schiudono lasciando scorrere una sorta di miele, altri più 56 Filostrato maturi sono quasi aperti in due metà. Intorno ai frutti si distende un ramo carico, davvero per Zeus tutt’altro che sterile. All’ombra delle foglie nasconde fichi ora duri e compatti, ora rigati e appassiti, ora appena dischiusi, che lasciano intravedere la lucentezza dorata del succo. Questo, all’estremità del ramo, è stato beccato da un passero, come capita – a quanto si dice – soltanto ai fichi più saporiti. La terra è disseminata di noci: alcune hanno perso il mallo, altre lo hanno ancora, ma dischiuso, altre ancora mostrano il bordo nudo delle due valve94. Le pere si affollano sui peri, le mele sui meli95, ovunque sono edifici di frutti a dieci piani, ovunque si diffonde un profumo delizioso, un colore dorato. Non diresti neppure che la lucentezza di questi frutti provenga dalla superficie, ma che fuoriesca dall’interno. Ecco i doni del ciliegio, ecco qui nella cesta un intero raccolto di grappoli d’uva, e lo stesso paniere è intrecciato con tralci di vite. Se osservi la trama dei fusti, i grappoli che vi sono sospesi, i grani che potresti contare uno per uno, sono certo che loderai Dioniso, intonando l’inno dedicato alla vigna: «oh venerabile madre dei vermigli grappoli». Si direbbe proprio che gli acini rappresentati nella pittura siano maturi al punto giusto e gonfi di succo. Ecco un altro bel dettaglio: sui fichi spicca un favo di un giallo chiaro. Basta premere delicatamente le celle nuove, colme di miele, perché trabocchino. Su un’altra foglia di vite vediamo un formaggio appena cagliato, che sembra ancora tremolante, poi tazze piene di latte più che bianco, brillante di bianchezza, e questo splendore proviene dalla crema che galleggia in superficie. Lib ro s eco n d o 2.1 Coro di ragazze. In mezzo a un bosco di mirti fresche ragazze cantano Afrodite elefantina. Il coro è diretto da una donna sapiente, la cui giovinezza non è ancora trascorsa: le prime rughe le conferiscono una certa grazia, in cui la nuova compostezza dell’età matura ancora si fonde con l’ultima bellezza del fiore degli anni. Afrodite ha la posa del Pudore, anche se è nuda: è una statua d’avorio fatta di piccoli blocchi riuniti. Ma la dea non vuole sembrare dipinta, e allora si stacca in rilievo e sembra quasi che la si possa toccare. Se vuoi, faremo sul suo altare una libagione di parole. Tra le offerte abbondano già l’incenso, il rosmarino e la mirra, ed esala anche – mi pare – un po’ di quel che ispirò Saffo. Loderemo allora la sapienza del pittore. Innanzitutto, ornando la dea delle pietre preziose che le sono care, più che con il colore ha cercato di imitarle con giochi di luce e un punto brillante, come se fossero pupille di altrettanti occhi. Ma anche perché ci permette di udire l’inno che le ragazze cantano senza sosta, e quando una perde il tono la maestra la guarda e battendo le mani le fa riprendere la melodia. Le ragazze indossano semplici vesti, che non sarebbero d’intralcio nei giochi: la cintura stringe la vita e la tunica lascia scoperte le braccia, mentre con i piedi nudi accarezzano l’erba tenera ancora umida di fresca rugiada96. Le vesti fiorite come un prato sono riprodotte divinamente, con un’incredibile armonia di colori. Si tratta forse di dettagli accessori, ma la pittura che dovesse disdegnarli non sarebbe 58 Filostrato veritiera. Se chiedessimo a Paride97 di giudicare la bellezza delle ragazze, avrebbe come chiunque altro l’imbarazzo della scelta, perché tutte hanno braccia fresche come le rose, occhi vividi, belle gote e una voce di miele, per riprendere una bella espressione di Saffo98. Poco lontano, Eros piega l’arco e pizzica la corda, facendola cantare secondo tutti i modi, come una lira monocorde. Pare che muova gli occhi rapidamente, come se scandisse tra sé qualche ritmo. Ma cosa cantano le ragazze? La pittura rappresenta anche qualche aspetto del loro canto: dicono che Afrodite è uscita dal mare fecondata dalla celeste pioggia di Urano, ma non parlano ancora di Pafo e dell’isola in cui è giunta99. Cantano la nascita della dea, e il loro aspetto lo dimostra: con gli occhi rivolti verso l’alto dicono che la dea proviene dal cielo, sollevando le mani con i palmi all’insù mostrano com’è uscita dalle onde, con il sorriso ricordano la quiete del mare. 2.2 L’educazione di Achille. Per adesso Achille caccia cerbiatti e lepri, più tardi a Ilio le sue prede saranno città, cavalli, schiere d’uomini. Suoi avversari saranno fiumi ai quali impedirà di scorrere, e i premi per le sue gesta saranno Briseide, sette donne di Lesbo, oro, treppiedi100. La sorte degli Achei sarà nelle sue mani. Mele e favi colmi di miele sono invece la ricompensa che gli dà Chirone. E tu ti accontenti, Achille, di questi umili doni, quando invece disdegnerai città intere e l’amicizia di Agamennone. Un eroe sull’orlo del burrone che fa indietreggiare i Troiani con il suo solo grido di battaglia, che uccide senza sosta tingendo di sangue le acque dello Scamandro101, che conduce cavalli immortali102 trascinando il cadavere di Ettore103 intorno alle mura, che geme sul corpo di Patroclo: ecco come Achille appare in Omero, che ce lo mostra anche mentre canta, invoca gli dèi104 o accoglie Priamo nella sua tenda105. Ma qui è un ragazzo che ancora non si rende conto del proprio coraggio, e ancora si nutre di latte, midollo e miele. È l’allievo di Chirone106 che ha ancora tenere carni e un aspetto selvatico, ma già adesso è agile nella corsa: le sue gambe sono ben dritte e le mani, ausilio indispensabile per il corridore, arrivano alle ginocchia. La bella chioma non resta un attimo ferma: sembra che lo zefiro se ne prenda gioco scompigliandola Immagini 59 in tutti i sensi, come se volesse mutare le sembianze del ragazzo. Le sopracciglia sono già spesse e minacciose, compensate però da uno sguardo senza cattiveria e da guance che conoscono la pietà e si illuminano di un tenero sorriso. La clamide che indossa è senza dubbio un dono di sua madre: è bella, tinta di porpora, di un colore cangiante, ora scuro ora brillante, come fuoco che digrada verso un blu oltremare. Chirone lo stuzzica come farebbe con un leone, incitandolo a catturare lepri e a mettersi sulle tracce dei cerbiatti. Ecco perché, dopo aver catturato un cerbiatto, Achille chiede a Chirone la sua ricompensa. Il centauro acconsente e piegandosi sulle zampe anteriori per adattarsi alla taglia del suo allievo gli offre mele di bell’aspetto e di un profumo squisito (sembra che la pittura renda bene anche l’aroma), e ancora un favo grondante di miele, opera di api ben nutrite. Quando le api hanno a disposizione le piante migliori, infatti, si caricano di nettare, e allora i favi sono stracolmi, e il miele trabocca dalle celle. Chirone è rappresentato come si fa solitamente con i centauri: riunire il corpo di un cavallo a quello di un uomo non è certo una cosa straordinaria, ma riuscire a dissimulare la transizione da una natura all’altra, riunendo le due in una, senza lasciare che neppure la vista più acuta scorga il punto in cui una finisce e l’altra comincia, per Zeus, a mio avviso è opera di un abile pittore. Lo sguardo di Chirone, poi, è pieno di dolcezza: agisce e pensa secondo giustizia, e poiché suona la lira ha subìto l’influsso della musica. Non lesina le carezze, perché sa che per il ragazzo sono dolci come il miele e più nutrienti del latte. Ora, tutto ciò accade all’ingresso della caverna, ma il cavaliere che vedi nella piana, il ragazzo sul dorso del centauro, è sempre Achille. Chirone è insieme maestro di equitazione e cavalcatura: adatta l’andatura alle forze del ragazzo e poiché Achille ride per la grande gioia, il centauro si gira verso di lui e dice quasi: «vedi come scalpito senza frusta, vedi come da solo mi aizzo a tuo vantaggio, se montassi un cavallo focoso di certo non potresti ridere, ma grazie ai miei insegnamenti accorti diverrai un provetto cavaliere, e un giorno condurrai Xanto e Balio; allora prenderai città e farai strage dei nemici che di fronte a te fuggiranno come se fossero al cospetto di un dio». Così Chirone emette i suoi vaticinî allegri e belli, tanto diversi da quelli di Xanto107. 60 Filostrato 2.3 Le donne centauro. Credevi che le donne centauro fossero nate dalle querce, dalle rocce o magari, per Zeus, da cavalle fecondate dal figlio di Issione108, e questo in effetti spiegherebbe la loro duplice natura. La verità è che nella specie dei centauri le madri sono sempre state simili a donne e i loro figli agli uomini, e che fin dall’inizio avevano una splendida dimora. Non credo che tu abbia pregiudizi sul Pelio e sulla vita che vi si conduce109, sulle foreste di frassini coltivati dal vento che dànno lance dritte, dalla punta infrangibile. E le belle caverne, le sorgenti frequentate dalle donne centauro, simili a Naiadi se tralasciamo la loro natura equina, che in qualche modo ricordano le Amazzoni. Il cavallo si unisce alla donna, la forza si coniuga con la delicatezza delle forme. I figli dei centauri sono alcuni ancora in fasce, altri cominciano a venir fuori, altri ancora sembrano piangere, quegli altri sono felici e sorridono alla poppa che versa per loro latte abbondante, altri guizzano sotto la madre o abbracciano le donne centauro che piegano le zampe. Ecco che un piccolo centauro lancia un sasso contro la madre, mostrando un’insolenza precoce. Questi altri hanno ancora le fattezze appena abbozzate, tipiche dei lattanti. Quelli là, che già si impennano, rivelano un’indole selvaggia a dispetto della criniera giovane e degli zoccoli ancora teneri. Vedi anche come sono belle le madri, anche nella loro parte equina, bianca in alcune, oppure bionda, o ancora variopinta: tutte hanno lo splendore delle cavalle ben tenute. Questa qui, su un corpo nero di cavalla ha un busto bianchissimo, e il contrasto acceso accentua la bellezza dell’insieme. 2.4 Ippolito. Ubbidendo agli ordini di Teseo questo mostro si è scagliato sui cavalli di Ippolito: somiglia a un toro bianco, ma per lo slancio è simile a un delfino. Il mare lo ha rigurgitato per compiere una vendetta ingiusta. Fedra, suocera di Ippolito, ha accusato il giovane di averla violata, quando invece era lei che lo amava. Teseo, allora, ingannato da questa calunnia, ha lanciato contro il figlio una maledizione di cui scorgi qui il compimento. I cavalli, come vedi, rizzano le criniere libere dal giogo: non scalpitano come farebbero i cavalli migliori, che hanno il controllo di sé, perché sono sperduti e terrorizzati. Nella pianura che imbiancano con Immagini 61 la loro schiuma, uno fugge volgendosi indietro verso il mostro, un altro si precipita su di lui, un altro ancora lo guarda con occhi sbarrati, l’ultimo si scaglia verso le onde dimentico di sé e della terra. Tutti hanno le froge al vento e lanciano alti nitriti, a meno che tu non riesca a sentire la pittura. Una delle ruote del carro ha perso i raggi, schiantati dal peso del carro che vi è caduto sopra, l’altra, divelta dall’asse, gira ancora sullo slancio. Presi dallo stesso spavento, i cavalli dei compagni di Ippolito hanno disarcionato i loro cavalieri: perché li trascinano a caso, a dispetto dei loro sforzi disperati? E tu, ragazzo, il tuo amore per la saggezza ti ha messo in balìa di tua suocera, e della più atroce ingiustizia di tuo padre. La pittura stessa piange la tua sorte, come una lamentazione poetica o un pianto funebre, composti in tuo onore. Le montagne scoscese dove andavi a caccia insieme ad Artemide ci appaiono sotto sembianze di donne che si struggono dal dolore. Questi giovani rappresentano i prati mai profanati, come li avevi chiamati110. Per compassione, i fiori appassiscono e le tue nutrici, le ninfe di queste sorgenti, sollevano sull’acqua il ruscello dei loro seni e si strappano i capelli. Il tuo coraggio, la forza del tuo braccio non bastano: le tue membra sono state divelte e spezzate, i capelli insozzati, il petto ancora respira come se la vita lo abbandonasse malvolentieri e sembra che il tuo sguardo si perda sulle ferite. Ma come sei bello, nonostante tutto. Non sapevamo ancora che la bellezza fosse invulnerabile: non solo non ha abbandonato il giovane, ma trae persino dalle ferite una certa grazia. 2.5 Rodogune. Il sangue tinge la terra di rosso, aggiungendo un tono vivido allo splendore del bronzo e delle vesti di porpora, di cui brilla il campo di battaglia. Lo spettacolo offerto dalla pittura è gradevole, ma non lo sono meno i cadaveri distesi qua e là, i cavalli che il terrore fa uscire dai ranghi, un fiume dalle acque insanguinate. Ecco dei prigionieri e un trofeo innalzato da Rodogune e i Persiani in occasione della loro vittoria sugli Armeni, che ruppero il trattato già durante la cerimonia. E Rodogune, senza neppure perder tempo ad appuntare i capelli sulla tempia destra, li sconfisse in battaglia. Si 62 Filostrato vede com’è felice e fiera della sua vittoria. Senza dubbio sa che quest’impresa sarà cantata con la cetra e il flauto in ogni contrada greca. Vicino a lei è dipinta una cavalla di Nisa111, con le gambe, bianchi il petto e le froge ansimanti, e ancora con una macchia bianca, perfettamente rotonda, sulla fronte. Pietre preziose, collane, ricchi ornamenti di ogni sorta, Rodogune, disdegnandoli per sé, li ha offerti alla sua cavalla, perché fiera del suo addobbo morda il freno con minore impazienza. La brillantezza della porpora riluce in lei, ma il viso splende di luce propria. Una graziosa cintura tiene la veste sollevata al ginocchio, i suoi gambali attillati impressionano la vista per i loro ricami. Dalla spalla al gomito, una serie di fibbie tiene la manica della tunica, e negli intervalli si intravede lo splendore del braccio. La spalla è coperta: non si tratta dunque del costume delle Amazzoni. Dobbiamo ammirare anche lo scudo, che è di dimensioni contenute, ma basta a coprire il seno. Qui la precisione della pittura merita un esame approfondito. La mano sinistra attraversa la maniglia oltrepassando lo scudo, e tiene una lancia, mantenendo lo scudo discosto dal petto. Poiché lo scudo rimane in posizione verticale, di taglio, ne vediamo le due facce: quella esterna è splendente come l’oro, non credi? Non sembra animata? Quella interna, vicina alla mano, si imporpora dei riflessi della veste, che copre il braccio fino al gomito. Mi pare che tu avverta la bellezza di questa posa, ragazzo mio, e vuoi che mi soffermi ancora sull’argomento: ascolta. Rodogune fa libagioni per celebrare la sua vittoria sugli Armeni. Riusciamo a capire il significato delle sue invocazioni: chiede di poter vincere gli uomini, ma come ha fatto oggi, perché non credo che ami essere amata. La sua chioma è trattenuta in parte da una fascia, temperando di pudore l’aspetto fiero del volto. In parte invece è sciolta, le dà un aspetto vivido e una forza di baccante. I capelli liberi sono biondi e più lucenti dell’oro, mentre quelli legati sembrano già soltanto per questo di un altro tono. Le sopracciglia hanno un’origine comune, vicino al naso, e questo è un segno di grazia: sono flessuose, perché occorre non solo che siano sollevate in corrispondenza dell’occhio, ma che descrivano anche una curva. L ’ allegria diffusa sulla guancia per l’occasione (perché è la guancia che conferisce Immagini 63 al sorriso tutto il suo fascino) accompagna la dolcezza dello sguardo. Gli occhi sono di un azzurro intenso, quasi nero: la natura li ha fatti belli, la vittoria li anima, il potere reale li rende fieri; la bocca delicata è pronta all’amore e sarà dolce baciarla. Descriverla112 è difficile. Ti basti sapere, ragazzo mio, che le labbra sono rosse e regolari e la bocca ben proporzionata si schiude per invocare gli dei, a causa del trofeo. Tendiamo l’orecchio e forse potremo ascoltarla parlare greco. 2.6 Arrichione. Qui assisti al più bello dei giochi olimpici, il pancrazio. Arrichione è morto vincendo113. Ecco che il giudice di gara lo incorona: è un giudice imparziale che prova così il suo amore della verità, un vero giudice, rappresentato nei panni che si addicono a un arbitro di questo genere114. Lo stadio si trova in una valle ininterrotta, piuttosto lunga, dalla quale sgorgano le lievi acque dell’Alfeo (così leggere da essere le sole acque fluviali che il mare trasporti115), tra rive cinte di begli olivastri dalle foglie verde chiaro, increspate come l’appio. Ma ci soffermeremo più tardi su questi dettagli e su molti altri. Osserviamo lo stadio e l’impresa di Arrichione. Sembra che abbia trionfato non solo sul suo avversario, ma sulla Grecia intera. Gli spettatori balzano dai loro seggi gridando: agitano le mani, si scuotono le vesti, saltano, qualcuno per gioco lotta anche lui con il vicino. Uno spettacolo così appassionante non permette a nessuno di trattenersi. Chi potrebbe essere così freddo da non acclamare un atleta come questo? Era già una gloria straordinaria essere stato due volte campione ai giochi olimpici: la sua terza vittoria è ancora più bella, perché gli prende l’anima e lo accoglie nella dimora dei beati coperto di polvere. Nessun merito va al caso, credimi: la sapienza e il grande intuito sono valsi la vittoria all’atleta. Il pancrazio è una lotta pericolosa, ragazzo mio. Bisogna saper cadere alla rovescia, e questo non è senza pericolo per l’atleta. Bisogna avvinghiare l’avversario e vincere, anche quando sembra che ti tenga sotto di lui. Bisogna, con arte, serrarlo con forza, ora qui ora lì, attaccare la caviglia col piede, torcergli una mano, colpire, assalire l’avversario saltando. Nel pancrazio tutto è permesso, tranne mordere e cavare gli occhi. I Lacedemoni non hanno neppure queste restrizioni, visto che 64 Filostrato – immagino – lottano per esercitarsi alla guerra. Ma presso Elea, che qui ospita i giochi, tutto è permesso tranne queste due cose, anche soffocare fino alla morte. L ’ avversario di Arrichione ha preso il nostro per la vita e vuole ucciderlo: gli tiene il gomito sulla gola, impedendogli di respirare. Preme con le cosce sull’inguine e con ciascun piede gli circonda una caviglia. Un sonno mortale avvolge i sensi di Arrichione, ma il vincitore che ha sorpreso il suo avversario riuscendo a soffocarlo, si lascia a sua volta sorprendere dall’abilità del vinto, perché già non gli tiene più la gamba con forza sufficiente. Arrichione infatti è riuscito a liberarsi, con uno sforzo violento, del piede che stringeva la sua caviglia destra, e la sua gamba può ora slanciarsi. Tiene l’avversario contro i fianchi, impedendogli ogni resistenza, poi si appoggia sul lato sinistro e stringendo nella piega del ginocchio il piede dell’avversario, con una torsione violenta gli svelle l’osso che forma il malleolo del piede. Quando l’anima fugge dal corpo lo rende una massa inerte, ma potente grazie al suo stesso peso. L ’ atleta che soffoca l’altro è ritratto come un morto, mentre con la mano ammette la sconfitta. Arrichione, invece, è rappresentato come un vincitore: i colori sono quelli della salute, nessun sudore freddo imperla il corpo e sorride come chi sopravvive alla lotta ed è consapevole della vittoria. 2.7 Antiloco. Achille amava Antiloco. Di certo, leggendo Omero, hai capito che Antiloco era il più giovane tra i Greci116, considerando anche il mezzo talento d’oro, premio per la vittoria117. Da lui Achille ha appreso della morte di Patroclo118. Menelao lo aveva scelto abilmente come nunzio, pensando che per l’eroe sarebbe stata una consolazione avere sotto gli occhi l’amato. Antiloco piange con l’amico affranto, gli tiene le mani, gli impedisce di uccidersi. Achille, immagino, gioisce di questa stretta, di queste lacrime. Così li ritrae Omero. Altro è l’argomento trattato dal pittore119. Antiloco si getta davanti al padre120, e l’etiope Memnone lo uccide, facendo indietreggiare gli Achei, raggelati dal terrore come alla vista di un mostro. Perché prima di aver visto Memnone tutto quel che si raccontava sui neri sembrava favoloso. Gli Achei sono riusciti a riprendere il Immagini 65 cadavere, e Antiloco è pianto dagli Atridi, dagli eroi di Itaca, dal figlio di Tideo121, dagli omonimi122. L ’ uomo di Itaca si riconosce dall’aspetto serio e dalla vivacità dello sguardo; Menelao dalla mitezza; Agamennone ha qualcosa di divino; il figlio di Tideo trasmette fierezza; Aiace Telamonio ha l’aria selvatica che lo contraddistingue; Aiace di Locri è pronto a ogni impresa. L’esercito è schierato intorno al cadavere e lo piange. Appoggiati alle lance fisse al suolo, i compagni di Antiloco incrociano le gambe e reclinano la testa, appesantita dal dolore. Achille non si riconosce per la chioma, che ha tagliato dopo la morte di Patroclo, ma per la bellezza, per la statura, e per il fatto stesso che i suoi capelli non sono lunghi. Piange, disteso sul petto di Antiloco. Gli promette un rogo, immagino, con le offerte consuete, forse anche le armi e la testa di Memnone. Questi, in effetti, avrà la stessa sorte di Ettore, perché anche in questo occorre che Antiloco non riceva un trattamento peggiore di quello riservato a Patroclo. Memnone, invece, sta in piedi in mezzo all’esercito etiope, con aria minacciosa, la lancia in mano, una pelle di leone sulla spalla, e provoca Achille sorridendo. Ma osserviamo ancora Antiloco. L ’ età della prima peluria sul viso è già passata, la chioma dorata ondeggia e la gamba è leggiadra: il corpo ben proporzionato rivela un corridore agile. Il petto, insanguinato dalla lancia, brilla come avorio tinto di porpora. Morto com’è, il ragazzo non pare affatto triste e non somiglia a un cadavere. Ha il volto sereno e sorridente, perché – immagino – quando è stato colpito dalla lancia la gioia di aver salvato il padre gli ha acceso volto, e quando l’anima ha smesso di muoverne i tratti, la sofferenza è stata vinta dalla felicità. 2.8 Mele. Gli Amori di Enipeo e Tiro sono stati cantati da Omero123. Il poeta parla anche dell’astuzia di Poseidone, che con le acque ha creato una volta splendida sul letto nuziale. Ma l’argomento di questo quadro è diverso, e non si tratta della Tessaglia, bensì della Ionia. La ionia Criteide ama Mele124: questi ha i tratti di un ragazzo, e chi osserva attentamente può vederlo per intero, perché la fonte e la foce stanno nel medesimo luogo. Criteide beve anche se non ha sete, attingendo con la mano l’acqua del fiume: si intrattiene con la 66 Filostrato corrente, di cui scambia il mormorio per il suono delle parole. Sparge lacrime d’amore che il fiume, altrettanto innamorato, trasporta felicemente unite alla sue acque. La pittura non ci regala nulla di più attraente di Mele in persona. Ha un letto di croco, loto e giacinto, fiore amato, simbolo di giovinezza. Ha la molle grazia propria della giovane età, che però non è priva di una certa serietà. L ’ espressione degli occhi lascia quasi intendere che Mele stia escogitando una delle astuzie cantate dai poeti. È bello che le sue acque non sgorghino con violenza come spesso, nelle pitture, fanno quelle di fiumi inetti. Grattando la terra con la punta delle dita, riceve nel cavo della mano un’acqua che sgorga senza far rumore. Acqua vediamo noi, acqua vede anche Criteide: ma la ragazza immagina di amare un’ombra, o un sogno, come si suol dire. No, non è un sogno, Criteide, e non è sull’acqua che scrivi il tuo amore. So che il fiume ti ama, e gonfiando le acque sta preparando un’alcova, un letto nuziale. Ti spiegherò come potrà creare quest’alcova, se non mi credi. Una brezza leggera sotto le onde arrotonda l’acqua a forma di volta, la rende accogliente e variopinta, perché i raggi riflessi del sole dànno un aspetto iridato all’acqua sospesa in aria. Perché, ragazzo mio, mi prendi la mano? Non vuoi che mi soffermi sulle altre parti del quadro? Descriviamo Criteide, perché so che desideri il piacere di ascoltarmi a lungo parlare di questo argomento. La sua delicata bellezza ci rivela che si tratta di una donna della Ionia. Questa bellezza, inoltre, è accentuata dal pudore che tinge le sue gote di una tinta tenue. La chioma, appuntata dietro le orecchie, è coperta da un velo di porpora. Si tratta, penso, del dono di una Nereide o di una Naiade, perché spesso queste dee si riuniscono in coro nei pressi del Mele, che ha la fonte così vicina alla foce. Il suo sguardo, particolarmente amabile e ingenuo, rivela una bontà che rimane visibile anche attraverso le lacrime. Il suo collo è ancora più attraente perché disadorno: catene, pietre scintillanti e collane conferiscono, per Zeus, un certo splendore alle donne che hanno mediocre bellezza, ma alle donne belle o molto brutte rendono solo un cattivo servizio, poiché queste si rivelano per quello che sono, quelle sono trascurate dall’occhio distratto. Osserviamo le mani: le dita sono delicate, non eccessivamente lunghe, bianche Immagini 67 come il braccio intero. Vedi poi come attraverso la veste bianca il braccio sembra ancora più chiaro? Vedi come i seni, gonfiandosi, sollevano la veste trasparente? Ma perché le Muse si trovano presso le fonti del Mele? Quando gli Ateniesi fondarono una colonia nella Ionia, le Muse condussero la spedizione sotto forma di api. Si rallegravano di andare a vivere nella Ionia grazie al Mele, perché sapevano che le sue acque sono più dolci rispetto al Cefiso o all’Olmeio125. Forse un giorno le incontrerai mentre danzano, ma adesso filano la nascita di Omero sotto l’occhio benevolo delle Parche126. Grazie a Mele, o piuttosto a suo figlio, Peneo127 avrà argento nelle sue correnti, Titaresso128 sarà leggero e rapido, Enipeo129 sarà detto divino, Axio130 bellissimo e Xanto131 sarà generato da Zeus, come tutti i fiumi dell’Oceano132. 2.9 Pantea. Senofonte ha dipinto la bella Pantea dal punto di vista morale, dicendo come respinse Araspe, resistette alle consolazioni di Ciro e volle dividere la tomba di Abradate133. Ma della sua chioma, delle sopracciglia, dello sguardo, della bocca, Senofonte non parla, anche se ha mostrato abilità nel trattare l’argomento. Un uomo incapace di scrivere, ma davvero dotato nella pittura, che non ha mai visto Pantea ma ha familiarità con Senofonte, rappresenta Pantea come l’ha vista nella sua immaginazione, secondo le sue virtù. Lasciamo, ragazzo mio, che le mura e le case brucino, lasciamo che i Persiani portino via le belle donne di Lidia e si impossessino di tutto ciò che può essere preso. Non stiamo a cercare Creso e il suo rogo, che in Senofonte stesso non si trovano. Il pittore non conosce questo particolare, o forse lo tralascia per rispetto nei confronti di Ciro. Osserviamo invece il dramma che la pittura intende mostrarci: Pantea che muore sul cadavere di Abradate. Il loro amore era reciproco. La donna aveva trasformato i suoi ornamenti in armi per il marito. Abradate combatteva per Ciro contro Creso, guidando un carro con quattro timoni e otto cavalli. Era un uomo ancora giovane, nell’età in cui la prima peluria ricopre il volto, un’età della vita in cui perfino gli alberi divelti ispirano pietà ai poeti. Le ferite di Abradate, ragazzo mio, sono proprio quelle che il coltello procura in 68 Filostrato battaglia: è come se le carni fossero dilaniate. Un fiotto di sangue purissimo arrossa le armi di Abradate, Abradate stesso, e ha raggiunto perfino il pennacchio che si innalza da un casco dorato, esaltando con un riflesso di porpora lo splendore dell’oro. Le armi formano davvero un bel sudario per chi non le ha disonorate o perdute in battaglia. Ciro porta a questo valente guerriero offerte abbondanti sottratte all’Assiria o alla Lidia, e tra queste un carro ricolmo di sabbia d’oro. Uno degli inutili tesori di Creso. Ma per Pantea la tomba non è ricca a sufficienza di offerte funebri se non offre anche se stessa. Si è già immersa una lama nel petto, e con forza tale che neppure ha levato un gemito. Si accascia, ma la bocca conserva una forma perfetta, e le labbra risplendono perfino nell’attimo in cui tacciono per sempre. Non estrae la lama dalla ferita, la spinge ancora tenendola per il manico. Il manico somiglia a un fusto d’oro adorno di due rami di smeraldo, ma ancor più belle sono le dita che la tengono. Pantea non ha perduto niente della sua bellezza, morendo. Anzi, non sembra neppure che soffra, ma che lasci piuttosto la vita con gioia, come una donna che prenda congedo da sé. Non si ritira come la moglie di Protesilao134, dopo le cerimonie bacchiche, ancora incoronata di edera, né come quella di Capaneo135, che dall’altare si getta nella tomba. Conserva invece, e porta con sé, la bellezza senza orpelli che Abradate ammirava. Lascia che una chioma spessa e nera le copra le spalle e la nuca, mostrando soltanto la gola bianca che ha graffiato, senza però sfigurarla, perché le tracce delle sue unghie sono più belle di un dipinto. Il sopraggiungere della morte non toglie alle sue gote lo splendore della bellezza e del pudore. Le narici leggermente sollevate disegnano una sorta di basamento per il naso che all’estremità dispiega, quasi fossero germogli incurvati, le sopracciglia nere, che si stagliano sul bianco. Gli occhi, ragazzo mio, non meritano lodi perché sono grandi o neri: osserviamo piuttosto il sentimento profondo e, per Zeus, tutte le qualità dell’anima che – per così dire – attirano dal fondo alla superficie. La pietà addolcisce lo sguardo senza velarne lo splendore. Sono determinati, ma di una determinatezza fatta più di ragione che di temerità. Aspettano la morte, ma non si sono ancora chiusi. Il desiderio, compagno Immagini 69 dell’amore, ha bagnato tanto bene i suoi occhi che lo si vede uscire goccia a goccia. Ma ecco Eros, il testimone naturale di una simile scena, ed ecco la Lidia che raccoglie il sangue di Pantea, come vedi, nella piega dorata della sua veste. 2.10 Cassandra. Personaggi disseminati nella sala di un banchetto, vino e sangue mescolati insieme, uomini che muoiono vicino alle mense, il cratere spinto col piede da un convitato in preda alle convulsioni dell’agonia, una ragazza in abiti di profetessa mentre fissa un’ascia che la colpirà. Tutto indica che si tratta del ritorno di Agamennone dalla guerra di Troia e dell’accoglienza che Clitemnestra gli ha preparato. L ’ ebbrezza di tutti è tanto profonda che perfino Egisto ha preso coraggio e colpisce. Clitemnestra ha messo per precauzione ad Agamennone un cappuccio, e lo ha colpito con una di quelle asce a due lame che si usano per abbattere gli alberi più alti. Poi, con la stessa ascia ancora calda, uccide la figlia di Priamo che aveva avuto il torto di sembrare bella agli occhi di Agamennone, e dava oracoli ignorati da tutti. Se consideriamo la scena, ragazzo mio, siamo nel bel mezzo di una tragedia; se invece osserviamo la pittura, mille dettagli ci colpiscono gli occhi. Ecco le lampade che spandono la luce, perché la scena si svolge di notte, i crateri d’oro più splendenti del fuoco, le mense piene di vivande che erano state apparecchiate per l’eroe. Ma nessuna di queste cose è al suo posto: alcune sono state spinte via dai piedi dei convitati, altre sono andate in pezzi, altre ancora sono state scagliate lontano. Le mani hanno lasciato tazze per lo più colme di sangue. Tutti questi uomini muoiono indifesi, perché sono ubriachi. Giacciono riversi in varie posizioni: uno è stato sgozzato mentre ancora mangiava o beveva, un altro ha perduto la testa mentre si chinava sul cratere, questo qui portava la mano alla bocca quando un colpo l’ha mozzata, quest’altro cade dalla sua lettiga trascinando con sé la tavola, quello è caduto battendo le spalle e la testa (rivoltandosi su se stesso, come direbbe il poeta136), qualcuno ancora non capisce di essere spacciato, qualcun altro non ha neppure la forza di fuggire, come se l’ebbrezza gli trattenesse i piedi. Nessuno è 70 Filostrato pallido, perché chi muore durante l’orgia conserva per un po’una tinta viva. Il protagonista del dramma è Agamennone: non è disteso nelle pianure di Troia né sulle rive dello Scamandro, ma tra ragazzi e ragazze. «Un toro alla greppia»137: è così che diciamo quando il banchetto viene dopo le fatiche. Ma Cassandra ci ispira la pietà più profonda. Clitemnestra, gli occhi furenti e i capelli scompigliati, col braccio teso tiene l’ascia sospesa sulla sua vittima. Questa, presa dalla tenerezza e dall’entusiasmo vorrebbe lanciarsi verso Agamennone e getta lontano le bende, che – per così dire – sono le insegne della sua arte. Ma solleva lo sguardo sull’ascia che incombe e grida in modo tanto penoso che l’eroe, sentendola, spende il misero resto della sua vita a piangerla. Si ricorderà di questa scena, negli inferi, e la racconterà a Ulisse in mezzo alle anime riunite. 2.11 Pan. Pan, dicevano le ninfe, non ha grazia nella danza. Quando salta, nei suoi furori sconnessi ha la gaiezza selvatica dei capri: vogliono insegnargli una danza più gradevole. Ma Pan non le ascolta e palpa loro il seno con la mano138. Allora lo sorprendono verso mezzogiorno, quando, a quanto si dice, il dio si addormenta dopo le fatiche della caccia. Se di solito dorme nel più grande abbandono, con le pinne del naso mollemente rilassate, che grazie al sonno non mostrano collera alcuna, adesso invece il dio è fuori di sé. Le ninfe si sono scagliate su di lui e gli hanno legato le mani dietro la schiena, e ora teme per le sue gambe. La barba, che gli è tanto cara, è già caduta sotto i colpi del rasoio. Le sue nemiche dicono che convinceranno Eco a ignorarlo e a non rispondere più ai suoi richiami. Ora che abbiamo contemplato il gruppo delle ninfe nel complesso, esaminiamole per gruppi: ecco le naiadi con i capelli che stillano gocce d’acqua, le ninfe dei campi, non meno belle con i capelli scompigliati e selvaggi, e altre ancora, che hanno avuto in dono dalla natura una corona di fiori colore del giacinto. 2.12 Pindaro. Sarai d’accordo che queste api sono davvero sorprendenti, dipinte con tale finezza che è possibile distinguerne tutte le parti – la tromba, i piedi, le ali – e hanno la stessa disposizione e la Immagini 71 stessa ricchezza di colori che in natura. Ma perché queste sagge operaie non sono nel loro alveare? Perché si trovano in una città? Si affollano davanti alla porta di Daifanto139 – Pindaro è nato, come vedi – per educare il bambino fin nella culla e insegnargli il gusto per la melodia e il canto. Sono già all’opera. Il bambino è disteso su foglie di alloro e rami di mirto, e il padre sente di aver generato un figlio sacro. In casa risuonavano i cimbali quando è nato, si è sentito il tamburo di Rea140 e ancora si diceva che le Ninfe danzassero in suo onore tenendosi per mano, e che Pan si fosse messo a saltare. Si dice poi che in seguito, quando Pindaro divenne poeta, il dio abbia smesso di saltare per declamare i suoi versi. La statua di Rea, finemente lavorata, si trova vicino alle porte. Ho l’impressione di vedere una statua di vero marmo, perché la pittura rende perfettamente la durezza della pietra e, per così dire, i segni dello scalpello. Ma conduce anche le ninfe bagnate di rugiada e quelle delle sorgenti. Pan danza su qualche ritmo: il suo volto è radioso e le sue narici non respirano collera. In casa, le api circondano il bambino e gli versano miele sulle labbra, ritraendo il pungiglione per non colpirlo. Vengono senz’altro dall’Imetto141 e dalla città eccelsa che ha fama poetica, e il miele che stillano sulla bocca del poeta ha il sapore di queste origini142. 2.13 Giri. Sugli scogli che resistono ai flutti, colpiti dall’onda schiumante, resta un eroe dallo sguardo terribile, che sembra quasi adirato contro il mare. È il locride, che gettandosi dalla nave colpita dal fulmine e avvolta dalle fiamme, si è lanciato contro le onde: alcune le ha attraversate a nuoto, su altre è scivolato, altre ancora le ha respinte con la forza del petto. Ora che ha raggiunto i Giri, scogli che si innalzano in mezzo all’Egeo143, si rivolta con orgoglio contro gli dèi144. Allora Poseidone avanza verso i Giri, con l’orrore della tempesta sul volto, ragazzo mio, e i capelli ritti. Eppure un tempo combatté al fianco dell’eroe di Locri contro Ilio, ma allora questi non conosceva la superbia e non osava offendere gli dèi. Invece di toccarlo con lo scettro per trasmettergli, come allora, una forza invisibile, il dio punisce la sua arroganza attaccandolo con il tridente: sta per colpire la sommità dello scoglio per far cadere insieme Aiace e il suo orgoglio. Ecco 72 Filostrato l’argomento della pittura: abbiamo l’impressione di vedere le rocce bianche, gli scogli erosi dal lavorio incessante dei flutti, la nave che rigurgita le fiamme gonfiate dal vento e naviga come se fosse spinta da una vela. Aiace, quasi rinsavito, scruta il mare senza scorgere terre o navigli. La vista di Poseidone in arrivo non lo spaventa nemmeno, e pare anzi che voglia scagliarsi con più forza contro il dio: le braccia sono ancora forti, e la testa e sollevata con fierezza come un tempo lo era di fronte a Ettore e ai Troiani. Poseidone precipiterà Aiace in mare con una parte dello scoglio: quel che resterà dei Giri durerà quanto il mare stesso, ergendosi sulle onde e godendo del rispetto di Poseidone. 2.14 La Tessaglia. A prima vista si direbbe che la pittura rappresenti l’Egitto, ma non è così. Si tratta invece della Tessaglia. Gli Egizi devono al Nilo il loro paese. Il Peneo145 invece un tempo non permetteva ai Tessali di avere terre, perché tutte le pianure erano circondate da montagne e inondate dal fiume, che non trovava sbocco146. Poseidone allora colpirà la montagna col suo tridente e aprirà un varco al fiume. Il momento è esattamente quello in cui il dio si impegna a sgomberare le pianure. La mano che colpirà è già levata, ma già i monti, prima ancora di essere toccati, si schiudono per lasciar passare il fiume. Lo sforzo del dio è reso con arte: il lato destro del corpo si raccoglie su se stesso per protendersi di scatto, e allora Poseidone incombe non solo con la mano ma con il corpo intero. Non è ritratto come dio azzurro o del dio del mare: è il Poseidone della terra ferma, e per questo gli piacciono le pianure ben connesse e ampie come il mare. Anche il fiume si rallegra ed è quasi inorgoglito: reggendosi sul gomito – di solito i fiumi non stanno in piedi – sostiene il Titaresso147, che ha acque più dolci, e promette a Poseidone di scorrere nelle pianure sul letto che gli è stato tracciato. La Tessaglia emerge a mano a mano che le acque si ritirano, coronandosi di olivi e di spighe, e accarezza un puledro giovane come lei, regalo di Poseidone, poiché la terra fecondata dal dio addormentato deve dare alla luce un cavallo148. 2.15 Glauco dio del mare. La nave Argo149 ha doppiato il Bosforo e le Simplegadi150 e già solca le acque del Ponto. Orfeo incanta con i suoi Immagini 73 inni il mare attento e spiana la strada liquida. La nave conduce i Dioscuri, Eracle, gli Eacidi151, i figli di Borea152, tutta una stirpe di semidei che al tempo fioriva. La chiglia è fatta col legno di un albero antico che lo stesso Zeus aveva scelto nella foresta di Dodona per emettere i suoi oracoli153. Il motivo della spedizione è un vello d’oro conservato a Colco: è quello di un ariete che, a quanto si dice, portò in volo Elle e Frisso154. Giasone volle impossessarsene, ragazzo mio, ma si tratta del premio per una vittoria perché nelle sue pieghe si nasconde un guardiano terribile, un drago che non conosce sonno. Giasone, che ha chiamato gli altri all’avventura, guida la nave. Il pilota è Tifide, il primo uomo, pare155, ragazzo mio, che abbia osato praticare quest’arte sospetta. Linceo, figlio di Afareo, sta a prua: è dotato di vista acuta, capace di vedere lontano e di scorgere subito, sotto le onde, gli scogli nascosti. È il primo a salutare la terra che appare all’orizzonte, ma nel contempo i suoi occhi esprimono spavento per una visione che lascia a mezz’aria i remi nelle mani di cinquanta vogatori. Soltanto Eracle, avvezzo alle cose più strane, non è colpito, ma credo che gli altri pensino a un prodigio. Glauco, dio del mare, è di fronte a loro. Come dice il mito, Glauco viveva un tempo nell’antica Antedone156. Un giorno assaggiò un’erba che si trovava sulla riva, e all’improvviso fu trascinato dalle onde che lo portarono fino alla dimora dei pesci. Sta vaticinando un grande evento, perché eccelle in quest’arte157. Quanto al suo aspetto, i peli ricci della barba sono umidi e bianchi come l’acqua che sgorga, la chioma ricade in lunghe trecce versando sulle spalle il suo carico d’acqua, le sopracciglia spesse si uniscono senza interruzione. La forza delle braccia rivela che ha lottato contro il mare, colpendo senza sosta le onde per spianarle e nuotare. Osserva il petto ricoperto qui e là dai peli che trattengono le alghe e la schiuma. Il ventre invece non corrisponde al resto del corpo, e si ripiega sotto il tronco perché termina in forma di pesce, come mostrano le due code che si sollevano piegandosi verso i fianchi. All’estremità di ognuna, una mezzaluna brilla con riflessi quasi di porpora. Intorno a lui gli Alcioni cantano correndo: vogliono celebrare le gesta della stirpe umana, alla quale appartenevano con Glauco nella loro forma primitiva158; ma intendono anche mostrare la loro voce a Orfeo, perché questa voce è la musica del mare. 74 Filostrato 2.16 Palemone. Questo popolo che fa sacrifici sull’Istmo deve essere quello dei Corinzi. Ecco il re: deve essere Sisifo. Infine ecco il temenos di Poseidone: le cime dei pini che lo circondano, ragazzo mio, rispondono con un dolce mormorio alle onde. Ino e suo figlio sono caduti in mare. Ino diverrà Leucotea ed entrerà nel coro delle Nereidi, il figlio, invece, apparterrà alla terra: eccolo già a riva, portato da un delfino che, docile, appiattisce la schiena sotto il bambino che dorme, e per non svegliarlo scivola senza far rumore sulle onde placide159. Nel momento stesso in cui il bambino si avvicina, un santuario si spalanca nell’Istmo, nel ventre della terra, per volere di Poseidone che ha senz’altro predetto a Sisifo l’arrivo di un nuovo ospite, ordinandogli un sacrificio. Il re sacrifica, come vedi, un toro nero che ha scelto, immagino, dalla mandria sacra a Poseidone. Non parleremo né del rito sacrificale, né del costume degli officianti, né delle libagioni, né del modo di sgozzare le vittime, poiché tutte queste cose appartengono ai misteri di Palemone: si tratta di un sapere venerabile e assolutamente riservato, introdotto nella religione dal saggio Sisifo. Di questa saggezza il suo aspetto vigile e grave è di per sé una prova. Se Poseidone fosse in procinto di squassare le rocce di Gyros o le montagne della Tessaglia, sarebbe rappresentato con occhi selvaggi e nell’atto di colpire. Ma poiché accoglie Melicerte e vuole nasconderlo nel ventre della terra, sorride al bambino che entra nel porto, poi ordina all’Istmo di aprirsi e offrire asilo al figlio di Ino. L ’ Istmo, ragazzo mio, è rappresentato nelle sembianze di un dio: con i piedi per terra e gli occhi rivolti al cielo e, com’è in verità, simile a un ponte gettato tra due mari, separa l’Adriatico dall’Egeo. Alla sua destra si trova un giovane, Lecheo, come credo, mentre a destra vi sono delle ragazze160: sono i due mari, belli e sereni, distesi sulla terra che rappresenta l’Istmo. 2.17 Le isole. Vuoi, ragazzo mio, che ti parli di queste isole come se viaggiassimo in nave dall’una all’altra, in primavera, quando Zefiro spande il suo alito sulle onde dando al mare un aspetto ridente? Dimentica allora che questa sia terra: è un mare che non si gonfia né si scatena, benché neppure sia piatto e addormentato. Asseconda le Immagini 75 manovre dei marinai, come animato da un alito di vita. Ecco che già siamo a bordo, se sei d’accordo, non credi? – E il ragazzo risponde: non chiedo di meglio, spieghiamo le vele. – Il mare, come vedi, si stende lontano, disseminato di isole che a dire il vero, per Zeus, non somigliano a Lesbo, Imbro o Lemno. A vederle così modeste, così piccole, si direbbe che siano villaggi, scali, o magari, per Zeus, fattorie disposte sul mare. La prima è scoscesa, inaccessibile, naturalmente fortificata, e innalza fino al cielo le sue cime, da cui Poseidone sorveglia l’orizzonte. Vi sono ruscelli che diffondono ovunque la freschezza delle acque, e le montagne sono coperte di fiori che nutrono le api, e che certamente le Nereidi raccolgono quando si rincorrono sulle onde. L ’ isola vicina ha il suolo uniforme e adatto alle coltivazioni, ed è abitata da pescatori e contadini che portano allo stesso mercato gli uni il raccolto, gli altri la pesca. Ecco un Poseidone contadino che hanno messo a un aratro munito di giogo, attribuendo a questo dio i benefici della terra: ma perché Poseidone non abbia fino in fondo l’aspetto di una divinità della terraferma, una prua è stata adattata all’aratro, e sembra allora che il dio navighi mentre fende la terra. Le due isole seguenti erano un tempo riunite, ma furono separate dal mare che trovò un passaggio della larghezza di un fiume: puoi rendertene conto, ragazzo mio, guardando la pittura, poiché nel fendersi l’isola oppone due facce dello stesso aspetto, in cui le parti cave e quelle prominenti si corrispondono simmetricamente. In Europa, in Tessaglia, la valle di Tempe ha un aspetto simile. Squassate dai terremoti, le montagne conservano ancora sui fianchi le tracce della rottura: si vedono le cavità prodotte dalle rocce divelte, che ancora vi si potrebbero adattare; la foresta, che ha accompagnato la montagna nello scarto, non è scomparsa del tutto, e le cavità in cui si insinuavano le radici degli alberi si distinguono ancora. Ogni indizio mostra che la nostra isola ha avuto lo stesso destino. Un ponte gettato sullo stretto sembra riunire le due metà: dall’una all’altra ci si sposta in barca o con un carro, e come vedi c’è un andirivieni di viandanti e di marinai. L ’ isola vicina, ragazzo mio, ci regala uno spettacolo meraviglioso: in tutta la sua ampiezza cova un fuoco sotterraneo che 76 Filostrato rigurgita fiamme attraverso le fenditure e le caverne come se fossero dei canali, e questa lava terribile forma grandi fiumi di fuoco che si riversano in mare gorgogliando. Ecco la ragione di questo fenomeno. Il suolo dell’isola ha la stessa natura dell’asfalto e dello zolfo: attaccata dai flutti, l’isola è battuta dai venti che vengono dal mare e accendono questa materia combustibile. La pittura si conforma al racconto dei poeti, che con un mito ci spiega l’eruzione dell’isola. Un gigante vi fu precipitato un tempo, ma poiché ancora non periva, un’isola scagliata su di lui avrebbe dovuto fargli da prigione: eppure non cede, e ancora lotta sotto terra lanciando minaccioso torrenti di fuoco. Così fanno anche Tifone, in Sicilia, e qui in Italia Encelado161: giganti su cui pesano continenti e isole, che non sono ancora morti eppure non smettono di morire. Puoi immaginare, ragazzo mio, di essere stato condotto di persona sul luogo della battaglia, se appena rivolgi lo sguardo alla cima della montagna. Ecco cosa si vede: Zeus scaglia la folgore sul gigante che pur essendo allo stremo delle forze confida sempre nel soccorso della terra. Ma la terra è trattenuta da Poseidone, che le impedisce di intervenire, e rinuncia alla lotta. La scena è avvolta nella nebbia, in modo che sembra appartenere più al passato che al presente. Questa collina, invece, bagnata dal mare da ogni lato, è abitata da un drago che vi sorveglia, immagino, un tesoro nascosto sotto terra. Pare infatti che questo animale abbia un debole per l’oro: tutto ciò che è dorato, lo ama appassionatamente e lo difende con il suo corpo. Ecco perché il vello di Colco162 e le mele delle Esperidi163, che avevano la brillantezza dell’oro, erano sorvegliati da due draghi, sempre svegli, che li consideravano come in loro possesso. E se il drago di Atene che abita nell’Acropoli164 protegge gli Ateniesi, è senz’altro grazie alle cicale d’oro con cui adornavano le loro chiome. Il drago che abbiamo qui è dorato anch’esso, e sporge la testa dal suo antro, preoccupato, immagino, per il suo tesoro nascosto. Quest’altra isola ricoperta di edera, querce e vigne ci rivela di essere sacra a Dioniso, ma Dioniso non c’è e si aggira ebbro sul continente, lasciando a Sileno le cose sacre. I cimbali sacri sono stati abbandonati a terra, i crateri dorati sono riversi, i flauti ancora tiepidi riposano accanto ai tamburi muti. Immagini 77 Lo zefiro solleva da terra le pelli di cerbiatto, serpenti si avvolgono intorno ai tirsi, oppure ebbri e assonnati lasciano che le Baccanti si servano di loro come cinture. L ’ uva è ora gonfia di succo, ora appena matura, ora acerba e quasi ancora in fiore, perché Dioniso ha avuto l’accortezza di non assegnare a tutte le viti la stesso periodo per maturare, in modo che la vendemmia sia ininterrotta. I grappoli sono tanto abbondanti che scendono lungo la falesia e sfiorano le onde. Stormi di uccelli si scagliano sui chicchi, dalla terra e dal mare, per beccarli, e di certo a Dioniso piace che la vigna si offra a tutti gli uccelli. Si rifiuta solo alla civetta165, che ispira agli uomini l’orrore del vino: se un bambino mangia uova di questo uccello prima di aver imparato a parlare e bevuto del vino, lo detesterà per tutta la vita, astenendosi dal bere e biasimando l’ebbrezza degli altri. Quanto a te, ragazzo mio, sei audace abbastanza per osservare il guardiano dell’isola, Sileno, che è ubriaco e tende la mano su una baccante. Ma questa non lo degna di uno sguardo, perché il suo amore è per Dioniso, e la sua immaginazione glielo rappresenta anche se non c’è, e lei lo vede: nello sguardo della baccante, fisso nel vuoto, si riflette senza sosta un pensiero d’amore. Più in là, la natura ha riunito le montagne formando un’isola coperta di boscaglia fitta e di foreste, dove si distinguono il cipresso svettante, il pino, l’abete, la quercia e il cedro, perché ogni albero è stato rappresentato con le sue caratteristiche proprie. Quest’isola è popolata da cinghiali e cervi, inseguiti da cacciatori armati di lance o frecce, e da altri più coraggiosi che hanno la spada e la mazza per affrontare le belve da vicino. Le reti che vedi sono tese attraverso la macchia per avvolgere, intrappolare o fermare le prede. E certe bestie sono già finite in trappola, altre combattono, altre hanno steso l’avversario. Nessun cacciatore, nessun giovane braccio è inerte, e i cani mescolano i loro latrati alle grida degli uomini. Eco stessa sembra partecipare all’ebbrezza della caccia. Taglialegna abbattono grandi alberi disseminati al suolo: uno ha l’ascia sollevata, l’altro ha già colpito, questo affila il taglio della lama smussato dal lungo uso, quello esamina un abete per vedere se è adatto a diventare l’albero di una nave, quest’altro abbatte dei giovani alberi ben dritti per farne dei remi. Per quel che riguarda questa 78 Filostrato roccia scoscesa e questo stormo di gabbiani disposti intorno a un altro uccello, tutto è dipinto per una precisa ragione. Gli uomini danno la caccia ai gabbiani non per la loro carne, che è nera e malsana e non è buona da mangiare, ma perché il loro ventre contiene un rimedio di cui i medici si servono per far riacquistare ai malati l’appetito e il tono. I cacciatori li catturano di notte abbagliandoli con la luce, i gabbiani accolgono tra loro la folaga, che fa la guardia in cambio di una parte del bottino. Anche la folaga è un uccello marino, ma indolente, pigro e poco incline alla caccia, che però è capace di resistere al sonno e dormire poco. Per questo presta i suoi occhi ai gabbiani: quando questi vanno in cerca di cibo, resta a guardia dei nidi, sulle rocce; la sera, quando tornano, i gabbiani gli portano la decima parte della caccia, poi si addormentano disponendosi intorno al loro guardiano che si lascia vincere dal sonno soltanto con il loro permesso. Se sente un pericolo nelle vicinanze, lancia un grido acuto e penetrante: allora al segnale tutti i gabbiani si alzano in volo e fuggono, aiutando il loro guardiano perché non gli manchino le forze. In questo momento è sulle rocce e considera con lo sguardo i gabbiani addormentati: ritto in mezzo agli uccelli somiglia a Proteo tra le sue foche166, ma non dorme, e proprio questo è il suo vantaggio su Proteo. Nel frattempo siamo approdati su un’altra isola, ragazzo mio. Qual è il suo nome? Lo ignoro, e mi piacerebbe chiamarla l’isola d’oro se i poeti non avessero già dato questo nome a tutto ciò che è bello e meraviglioso. La sola dimora che offre è un piccolo palazzo, e sarebbe impossibile lavorare la terra o coltivare la vigna. In compenso le sorgenti abbondano, alcune limpide e fresche, altre gorgoglianti. L ’ isola trabocca a tal punto che riversa in mare l’eccesso delle acque. Vedi con quale impeto sgorgano, perché le sorgenti che si trovano al centro dell’isola sono come l’acqua che si agita in una pentola e trabocca dai bordi. Questa straordinaria quantità di sorgenti deve essere attribuita al mare o alla terra? Sarà Proteo a svelarcelo, e in effetti è venuto per pronunciarsi sulla questione. Osserviamo ora l’altra metà dell’isola, cioè la città, o meglio il simulacro della città, che pur essendo bella e splendente non è più grande di una sola casa. Vi si alleva un erede reale, e la città è il suo Immagini 79 passatempo, perché contiene teatri grandi a sufficienza per accoglierlo insieme ai compagni di gioco, e ha anche un ippodromo grande abbastanza per le corse dei piccoli cani di Malta, perché il bambino li usa come cavalli, aggiogandoli a un carro guidato dalle scimmie sue servitrici. Ecco una lepre che da ieri si trova in casa: è legata a un filo di porpora come un cane, ma non sopporta il vincolo e tenta di liberarsene con le zampe anteriori. Ecco infine in una gabbia intrecciata un pappagallo e una gazza che, come Sirene, fanno risuonare sull’isola i loro canti: l’una canta ciò che sa da sé, l’altro ciò che apprende. 2.18 Il ciclope. I raccoglitori e i vendemmiatori che vedi, ragazzo mio, non hanno fatto la semina e non hanno curato le vigne, perché la terra le produce da sé a loro vantaggio. Si tratta di Ciclopi, per i quali, come vogliono i poeti, e non so per quale motivo, la terra è fertile senza coltura. La terra li ha dunque resi pastori: allevano greggi, servendosi del latte come bevanda e alimento. Non hanno un’agorà, o un’assemblea, né abitazioni: vivono nelle caverne della montagna167. Tralascia pure tutti gli altri e osserva in questo luogo il più selvaggio di tutti, Polifemo, figlio di Poseidone. Il suo unico sopracciglio traccia un arco sul solo occhio, e il naso schiacciato scende sul labbro. Ecco il mostro che divora gli uomini come un leone feroce. In questo momento però non rivolge i suoi pensieri a un simile pasto, perché non vuole sembrare vorace e odioso: ama Galatea, che si bagna nel mare, e la contempla dalle alture della montagna168. Ha ancora la siringa sotto il braccio, e al modo dei pastori canta Galatea, bianca e altèra e più dolce dell’uva. Per lei alleva cerbiatti e orsetti. Così canta sotto un leccio, e non sa più dove pascolano le sue pecore, né quante sono, né dov’è la terra. La pittura ha mantenuto il suo aspetto montanaro e terribile: scuote la chioma folta e irsuta come aghi di pino, le sue mascelle voraci lasciano intravedere denti aguzzi, il petto, il ventre, le braccia fino alle unghie, tutto è coperto di peli. Vorrebbe assumere un’espressione tenera, da innamorato, ma il suo sguardo ha qualcosa di selvaggio e infido, come quello delle bestie feroci quando cedono alla necessità. Galatea gioca sulle onde 80 Filostrato placide, conducendo un tiro a quattro di delfini uniti dallo stesso sentire come dallo stesso giogo, diretti dalle figlie di Tritone, schiave di Galatea, per evitare che scartino o si ribellino al freno. Sopra la testa, Galatea abbandona al soffio di Zefiro una stoffa leggera di porpora che le fa ombra e funge da vela al carro, illuminandole la fronte e il capo con un bel riflesso, che però è meno attraente della tinta delle sue guance. La chioma non ondeggia al vento: intrisa d’acqua, sfida gli sforzi di Zefiro. Il gomito destro è proteso e l’avambraccio, bianco, si flette a tal punto che le dita poggiano sulla delicata spalla di Galatea. Le braccia hanno dolci curve, i seni sono sodi, il ginocchio aggraziato, il piede, in armonia con la bellezza del resto del corpo, poggia delicatamente sul mare e lo sfiora come se fosse il timone del carro. Gli occhi sono una meraviglia: lo sguardo, come perduto, sembra raggiungere i limiti estremi del mare. 2.19 Forba. Questo fiume, ragazzo mio, è il Cefiso, in Beozia, ed è tra quelli favoriti alle Muse. Sulla riva puoi scorgere le tende dei Flegi, popolo barbaro che non ha ancora fondato città. Dei due personaggi che combattono a pugni, uno è Apollo, penso, mentre l’altro è Forba, acclamato re dai Flegi perché è il più grande e crudele di tutti. Apollo lo ha sfidato per sgomberare il passaggio: poiché Forba ha occupato la strada che porta nella Focide e a Delfi, nessuno più offre sacrifici a Peito, o innalza peana al dio, e profezie, oracoli e tripodi, tutto è tralasciato. Forba si è appostato lontano dagli altri Flegi. La quercia, ragazzo mio, è la sua dimora, dove riceve i Flegi che si riuniscono per dirimere le loro contese. Forba cattura i vecchi e i bambini che si recano al tempio, e li invia al campo dei Flegi perché siano derubati e paghino il pedaggio. Gli uomini forti, invece, li obbliga a battersi con lui: alcuni li sconfigge nella lotta, altri li supera nella corsa, vince sia nel pancrazio che nel lancio del disco. Poi taglia la testa della sue vittime e le appende alla quercia, dove vive circondato da queste spoglie sanguinanti che ondeggiano sui rami. Puoi scorgere le teste: queste sono secche, queste altre sono recenti, ed altre ancora hanno il cranio già nudo, lasciano vedere i denti e sembrano gemere quando un alito di vento le attraversa. Mentre Forba si vanta di questi Immagini 81 trionfi degni di Olimpia, Apollo si presenta sotto le sembianze di un giovane pugile. Riconosci il dio dalla lunga chioma legata con una fascia, ragazzo mio, pronto a combattere con la testa, per così dire, leggera. Raggi escono dai suoi occhi e le guance si contraggono al tempo stesso per il riso e per la collera. Grazie allo sguardo penetrante i colpi vanno a segno con precisione: le mani fasciate da bende sarebbero ancora più belle se portassero corone. La lotta è già finita, la mano che ha colpito con forza mantiene ancora la posizione del colpo decisivo. Il Flegio è disteso al suolo, e il poeta dirà quanta parte di terra copre il suo corpo169. La tempia è aperta e il sangue zampilla dalla ferita come l’acqua da una sorgente. A giudicare dall’aspetto feroce e dalle sembianze di cinghiale che il pittore ha dato al mostro, si direbbe che fosse capace di sbranare i viandanti vivi piuttosto che di ucciderli per passatempo. La folgore scagliata dal cielo si abbatte sull’albero per bruciarlo, senza però cancellarne il ricordo, perché il luogo che è stato testimone di questi orrori, ragazzo mio, porta ancora il nome di “teste della quercia”. 2.20 Atlante. Eracle lottò anche contro Atlante170, anche se Euristeo non ne aveva dato l’ordine, volendo mostrare di poter sostenere la volta del cielo meglio del gigante che vedeva ricurvo, schiacciato dal peso, con un ginocchio piegato e quasi sul punto di perdere l’equilibrio. Eracle si sentiva invece capace di sollevare il cielo e di reggerlo a lungo. Qui l’eroe dissimula la sua rivalità dicendo ad Atlante che prova pietà per le sue pene e vuole liberarlo per un po’dal suo duro compito. Atlante non solo accetta con gioia l’offerta di Eracle, ma perfino lo prega di soccorrerlo. La pittura ci mostra il corpo imperlato di sudore e il braccio fremente, lasciandoci intuire che cede alla fatica. L ’ eroe invece desidera con ardore mettere alla prova le sue forze, come dimostra l’espressione di zelo sul volto, la mazza abbandonata a terra, le mani che cercano il fardello. Le ombre sul corpo di Eracle sono ben rese, ma la riuscita del pittore non deve sorprenderci perché la posizione distesa o eretta si presta bene all’imitazione dell’ombra, e disegnarla con esattezza non è indice di sapienza. Le ombre gettate su Atlante, invece, sono sapienti: 82 Filostrato poiché è rannicchiato su se stesso, si sovrappongono l’una all’altra, e non soltanto le parti sporgenti non sono oscurate, ma anzi illuminano di riflesso quelle cave e rientrate. Sotto il busto che si piega si distingue perfettamente il ventre, che pare abbassarsi e sollevarsi. I corpi celesti sostenuti da Atlante sono stati disegnati nell’etere tali e quali: ecco il toro, come brilla in cielo, e le orse sono uguali a quelle che vediamo lassù; ecco i venti, che soffiano ora nella stessa direzione, ora in direzioni diverse, fedeli qui come in cielo alle loro amicizie e rivalità. Oggi, Eracle, sostieni questi esseri, ma presto vivrai in cielo tra loro, tenendo in una mano la coppa e abbracciando con l’altra la bella Ebe171. Perché sposerai la più giovane e la più vecchia degli dèi: la più vecchia, perché se anche gli dèi sono stati giovani è grazie a lei. 2.21 Anteo. Una nube di polvere, come nelle lotte che si svolgono presso la fonte d’olio, e due atleti. Uno si copre le orecchie con la cuffia, l’altro si toglie dalla spalla una pelle di leone. Tumuli funerari, colonne e iscrizioni incise sono tutti dettagli che ricordano la Libia e Anteo, vero brigante partorito dalla Terra per sfidare alla lotta e derubare i viandanti172. Ecco le imprese del mostro, ecco come seppelliva nella palestra stessa le sue vittime. Di fronte a lui la pittura conduce Eracle. L’eroe si è già impossessato delle famose mele delle Esperidi173: aggirare la sorveglianza delle Esperidi è stato facile, ma aver ucciso il drago ha dell’incredibile. Senza neppure flettere il ginocchio, come si dice, ancora ansimante per la fatica di una lunga strada, Eracle si prepara al combattimento con Anteo. Lo sguardo è fermo, già concentrato sulla contesa, e studia le mosse. Ha messo un freno alla collera, per non lasciarsi andare a imprudenze. Gonfio d’orgoglio e pieno di disprezzo per l’avversario, Anteo sembra dirgli «maledetto chi ha figli che…»174 e altre cose simili, facendosi coraggio con queste ingiurie. Poiché è nota l’esperienza di Eracle nella lotta, non lo si sarebbe potuto rappresentare diversamente: infatti pare robusto, un lottatore provetto, ben proporzionato. Ma ha la statura di un gigante e una bellezza sovrumana: il suo sangue risplende e le vene gonfie di collera sono in travaglio. Credo però, ragazzo mio, che Anteo gli provochi anche qualche timore: Immagini 83 somiglia a una bestia feroce, e ne ha le dimensioni in lunghezza e larghezza. Il collo è unito alle spalle in modo che la maggior parte di queste sembra farne parte, il petto e il ventre sembrano scolpiti col martello, la coscia mal tornita e troppo pesante gli conferisce una gran forza ma lega i movimenti privandolo di destrezza. Questa è la scena che precede la lotta. Ma hai anche sotto gli occhi la lotta stessa, o piuttosto la sua conclusione con la vittoria di Eracle. L’eroe ha la meglio sul suo avversario alzandolo da terra, perché la Terra si sollevava venendo in aiuto di Anteo e lo rimetteva in piedi come una leva ogni volta che cadeva. Dopo che Eracle ha lottato invano contro questo stratagemma, afferra Anteo al centro del corpo, sopra il ventre e in corrispondenza dei fianchi, lo solleva senza flettersi, poi lo preme contro la sua coscia trattenendogli le braccia, e mettendo il gomito sulle parti molli del ventre lo schiaccia impedendogli di respirare: così uccide Anteo trafiggendogli il fegato con la punta delle sue stesse coste. Puoi vederlo mentre geme, con lo sguardo fisso sulla Terra che non può più soccorrerlo. Eracle, invece, nel pieno vigore delle forze, sorride sulla sua impresa. Osserva con attenzione la cima delle montagne e pensa che da lì, come da un posto di osservazione, gli dèi assistono al combattimento. In effetti la pittura mostra una nuvola d’oro di cui, immagino, gli dèi si servono come riparo, e vedo Ermes scendere per incoronare Eracle che gli ha regalato lo spettacolo di una lotta così bella. 2.22 Eracle tra i Pigmei. Eracle, che si era addormentato sulla terra libica dopo aver ucciso Anteo, viene assalito dai Pigmei175 che reclamano vendetta, perché dicono di essere fratelli del gigante, e di razza, perché pur non essendo atleti o lottatori provetti, sono pur sempre figli robusti della Terra. Quando escono dal suolo la sabbia ondeggia come la superficie del mare: i Pigmei in effetti abitano sotto terra, come le formiche. Hanno le loro riserve e non si nutrono dei beni altrui ma delle loro provviste e delle coltivazioni. Perché seminano e fanno il raccolto, con carri tirati da cavalli nani, e si dice perfino che usino l’ascia per le spighe, che per loro sono come alberi. Che audacia: ecco che avanzano contro Eracle e vogliono 84 Filostrato ucciderlo nel sonno. Ma non si tirerebbero indietro neppure se fosse sveglio. Eracle, vinto dalle fatiche della lotta, dorme mollemente disteso sulla sabbia: la bocca è aperta, e respira con tutta la forza dei polmoni, colmandosi di sonno. Il Sonno in persona giace accanto a lui, e si vanta, credo, di aver messo a terra Eracle. Anche Anteo è disteso, l’arte rappresenta Eracle che respira e mantiene il calore della vita, mentre Anteo ha l’aspetto di un cadavere inerte, reclamato dalla terra. L ’ esercito dei Pigmei ha circondato Eracle: una falange attacca la mano sinistra, due compagnie marciano contro la mano destra, che è più forte, gli arcieri assediano i piedi e una truppa intera di fanti armati di fionda si dispone sotto le cosce stupefacenti per la loro imponenza. L ’ assalto della testa sembra il più difficile, e vi si dirige il re, accompagnato da un corpo di soldati scelti. Accostano le macchine come se intendessero invadere un fortino. Ecco il fuoco, per bruciare la chioma, ecco un forcone a due punte per cavare gli occhi, ecco le assi per chiudere la bocca, e altre per le narici, perché bisogna che Eracle non possa respirare quando la testa sarà conquistata. Questo accade durante il sonno, ma come vedi Eracle si rialza completamente e ride dei suoi nemici formidabili, poi li avvolge tutti nella sua pelle di leone con l’intenzione, penso, di portarli a Euristeo. 2.23 Eracle furioso. Combattete contro Eracle, prodi servitori, avanzate. Che risparmi almeno il bambino che è ancora vivo: due sono già morti e con l’arco che impugna già mira al terzo, con una precisione che è davvero degna di Eracle. È un’impresa da eroi, ed Eracle stesso, prima della sua follia, non ha compiuto niente di più arduo. Ma non temete, non è a voi che pensa: vede Argo, e crede di sterminare i figli di Euristeo. L ’ ho sentito, in Euripide176, nell’attimo in cui è salito su un carro e spronando i cavalli minacciava di massacrare la stirpe di Euristeo. La follia incorre in errore, perché vede le cose non come sono ma come non sono. Non ho altro da dire a questi giovani: rivolgi allora lo sguardo alla pittura. Nella sala contro cui Eracle si precipita sono rinchiusi Megara e uno dei figli di Eracle, l’ultimo superstite177. Ceste, bacili, l’orzo sacrificale, i ceppi per la Immagini 85 pira, il cratere, tutti gli oggetti propri del culto di Zeus Herkeios sono riversi. Il toro è in piedi, ma i nobili figli dell’eroe, le vere vittime, giacciono presso l’altare e la pelle di leone del padre. Uno è stato colpito al collo e la freccia gli ha trapassato le tenere carni della gola. L ’ altro è caduto sul ventre, e la punta della freccia che lo ha ucciso si è incastrata nelle vertebre, come puoi osservare, perché il corpo è disteso di fianco. Le loro guance sono bagnate di lacrime. Non ti sorprendano queste lacrime: poco abbondanti, piccole o grandi che siano, sono d’oro, sono lacrime di bambini. L ’ intera folla dei servitori si ammassa intorno all’eroe che delira, come i fattori circondano un toro infuriato: uno cerca di legarlo, l’altro fa in modo di poterlo trattenere, un terzo grida. Questo si avvinghia alle mani dell’eroe, quest’altro cerca di fargli perdere l’equilibrio, altri ancora si avventano su di lui. Ma Eracle neppure vede coloro che lottano contro di lui e li disperde da un lato e dall’altro, scaraventandoli a terra. Ha la schiuma alla bocca e sorride in modo strano e terribile. Tiene lo sguardo fisso sull’opera che le sue stesse mani hanno compiuto, ma il suo spirito è distolto dalla realtà per opera di un immagine ingannevole. La sua gola geme, le vene del collo sono gonfie e lasciano salire la malattia nelle parti decisive della testa, con la sua carica di effetti nefasti. Questo disordine è l’opera dell’Erinni che tante volte hai visto in scena, ma che qui non appare178: si è impossessata dello stesso Eracle, e si abbandona alla sua furia nel petto dell’eroe, balzando con impeto e turbando profondamente il suo senno. Ecco l’argomento del nostro quadro. Fin qui la pittura, ma i poeti la superano in audacia: cantano Eracle in catene, eppure sostengono che Eracle stesso abbia liberato Prometeo179. 2.24 Teodamante. Se quest’uomo è selvaggio, per Zeus, selvaggia è anche la regione. Ecco l’isola di Rodi e il territorio di Lindo, il più roccioso dell’isola. La vigna e il fico crescono rigogliosamente, ma è impossibile lavorare la terra e non ci sono strade per i carri. Questo vecchio ancora acerbo, dal viso scuro, dobbiamo credere che sia un fattore. Si chiama Teodamante di Lindo, e forse ne avrai sentito parlare180. Che coraggio: Teodamante affronta Eracle che davanti a 86 Filostrato lui sgozza e divora un bue della sua mandria. Un pasto simile rientra nelle abitudini dell’eroe: avrai letto in Pindaro181 che quando Eracle entrò in casa di Coroneo divorò un bue intero, comprese le ossa. L ’ eroe si è imbattuto in Teodamante nel momento in cui toglieva il giogo ai buoi, ha acceso un fuoco servendosi di sterco, ed ecco che arrostisce il bue sui carboni ardenti, tastando le carni per controllare la cottura e manca poco che sgridi il fuoco per la sua lentezza. La pittura mostra perfino il carattere distintivo della terra, perché anche dove il suolo accoglie la coltura mi pare che si veda bene , se non mi inganno, come non sia fertile. Eracle pensa soltanto a divorare il bue: le imprecazioni di Teodamante lo fanno sorridere appena. Il fattore attacca Eracle tirandogli sassi: la chioma è incolta, il viso immondo, le braccia e le ginocchia sono le stesse che la terra amata dà agli atleti che lottano contro di lei. Dai tempi di quest’impresa contro Eracle, Teodamante è venerato dagli abitanti di Lindo, che sacrificano un bue da tiro a Eracle, e iniziano il rito imprecando come il fattore si rivolse a Eracle. E poiché ad Eracle piace sentirle, concede ogni bene agli abitanti di Lindo, ricompensandoli per le loro maledizioni. 2.25 I funerali di Abdera. Non crederemo certo, ragazzo mio, che rapire le giumente di Diomede ed ucciderle con la mazza sia stata per Eracle un’ardua impresa182. Una giace morta, l’altra geme, questa diresti che voglia alzarsi, quella si abbatte: tutte hanno la criniera irta e lo zoccolo ricoperto di pelo, come vere bestie selvagge. Le mangiatoie traboccano di carni e ossa umane, il solo pasto ammesso nelle stalle di Diomede. Ed ecco il padrone, ancora più selvaggio, riverso tra le sue giumente. L ’ impresa più difficile per Eracle fu quella che gli comandò Eros, dopo tanti altri, perché un dolore crudele si aggiunse in questo caso alla fatica. Eccolo allora mentre conduce il corpo di Abdera, dopo averlo strappato ai denti delle cavalle, divorato a metà. Ancora giovane, più di Ifito, ha avuto la sfortuna di essere dato in pasto a questi mostri. Quel che resta di lui ci permette di farci un’idea del suo passato aspetto, poiché i resti racchiusi nella pelle di leone conservano ancora una certa bellezza. L ’ eroe ha versato lacrime su queste spoglie inanimate, ha stretto il Immagini 87 cadavere tra le braccia lamentandosi, e il suo viso si è rabbuiato per il dolore: sono segni di affetto comuni anche ad altri amanti, e se qualcuno innalza una stele sulla tomba del bel giovane che amava, Abdera meritò un omaggio più raro, poiché Eracle fondò una città intera che noi ancora oggi chiamiamo con lo stesso nome, istituendovi giochi in modo che presso la tomba ci si contendesse il premio del pugilato, del pancrazio, della lotta e di ogni esercizio, ad eccezione della corsa dei cavalli. 2.26 Doni ospitali. Questa lepre chiusa in gabbia è stata catturata con la rete: seduta sulle zampe posteriori agita dolcemente quelle anteriori, tende l’orecchio e spalanca gli occhi. Vorrebbe guardare dietro di sé, tanto è inquieta, e trema senza sosta. Quest’altra appesa a un ramo secco di quercia, col ventre squarciato e le zampe scuoiate, è prova della rapidità del cane che siede ai piedi dell’albero, dove si riposa e mostra di aver catturato da solo la bestia. Ecco le anatre – contale: dieci – e un numero uguale di oche. Non c’è bisogno di palparle per vedere che sono state spennate in corrispondenza del petto, che è la parte più grassa degli uccelli acquatici. Se ti piacciono i pani al lievito o quelli divisi in otto parti, ecco qui un gran cesto. E se ti piace il pane condito, questi stessi pani ti accontenteranno, perché sono preparati con finocchio, prezzemolo e semi di papavero, che dànno un dolce sonno. Se poi sei impaziente di metterti a tavola, manda queste provviste al cuciniere, ma nel frattempo placa la tua fame con le buone cose che non hanno bisogno di fuoco. Perché non prendi i frutti dalle due ceste? Non sai che basta anche una piccola esitazione e già non li ritroverai più come li vedi adesso, con il loro ornamento di rugiada? E non disdegnare i dolci, se non hai avversione per le nespole o per le ghiande di Zeus, frutti bizzarri che hanno un guscio irto di spine ma crescono sull’albero più liscio. Il miele vale niente al confronto di questo frutto che siamo soliti chiamare palateo, ma chiamalo pure come credi, niente è più dolce. Le foglie di fico che avvolgono il paniere gli dànno un aspetto ancora più gradevole. Mi pare che la pittura offra questi doni al padrone della terra, ma senza dubbio il padrone è andato ai bagni, e vuole un vino di 88 Filostrato Pramno o di Taso quando invece alla sua stessa tavola potrebbe bere un vino delizioso, poi tornare in città tutto profumato di vendemmia e d’ozio e vomitare sul primo cittadino che incontra. 2.27 La nascita di Atena. Sono dèi e dee quelli che vedi, così stupiti. È stato dato ordine a tutti di non lasciare il cielo e presentarsi, perfino alle ninfe, insieme ai fiumi che le hanno generate183. Tremano alla vista di Atena che è appena uscita armata di tutto punto dalla testa di Zeus, aperta grazie agli stratagemmi di Efesto, come l’ascia lo rivela184. Non si capisce di che materiale sia fatta l’armatura della dea: quanti i colori dispiegati da Iris, che riflettono la luce in mille modi, tante sono le sfumature delle armi di Atena. Sembra che Efesto si chieda impaziente come potrà ottenere le grazie della dea: poiché non potrà regalarle le armi che Atena possiede dalla nascita, ha già perso l’occasione di farle piacere. Zeus sospira beato come chi ha ottenuto un bel premio al prezzo di un duro lavoro, contempla la figlia e sembra fiero della sua opera. Era non sembra affatto adirata, e gioisce come se Atena fosse nata da lei. E già su due acropoli di due città due popoli, di Atene e di Rodi, la terra e il mare, offrono sacrifici alla dea. A Rodi, dove non si usa il fuoco, la cerimonia resta incompleta. Presso gli Ateniesi invece non manca nulla: il fuoco, il grasso bruciato delle vittime, il fumo che si innalza dall’altare spandendo un dolce profumo di cui la pittura quasi ci rende l’aroma. La dea si reca dunque presso gli Ateniesi, che sono i più accorti e sapienti nell’arte dei sacrifici185. Sulla gente di Rodi si squarcia invece una nube che libera una pioggia d’oro, riempiendo le case e le strade: così Zeus li ringrazia di aver salutato la nascita di Atena186. Ecco Pluto in cima all’acropoli: è rappresentato con le ali, disceso dalle nuvole. È d’oro, poiché si è manifestato nelle sembianze di questo metallo, e ha anche gli occhi, poiché non è alla cieca che si è recato presso la gente di Rodi187. 2.28 Le tele. Di fronte a una bella pittura che rappresenta Penelope all’opera tessi le lodi della pittura: ecco, dici, una vera tela, i fili dell’ordito sono ben tesi, gli ornamenti si intravedono sotto i licci, si sente quasi il canto della spola. Penelope piange lacrime vere, simili Immagini 89 a neve sciolta, secondo le parole di Omero188, e disfa da sé la propria opera. Osserva ora, nei pressi, il lavoro di un ragno per vedere se non sia un artigiano migliore di Penelope e persino dei Seri189, che fabbricano tessuti sottilissimi e quasi invisibili. Si tratta del vestibolo di una casa senza fortuna: si direbbe che sia abbandonata, all’interno si intravede un cortile deserto, le colonne hanno ceduto inclinandosi e non sostengono più nulla. Unici abitanti sono i ragni, animali che cercano il silenzio per tessere la tela. Guardali adesso all’opera, mentre lasciano cadere a terra il filo che tirano fuori dal ventre. Il pittore ce li mostra mentre scendono e salgono su questa scala, insetti capaci di grandi voli, come li chiama Esiodo190, che appunto si esercitano a volare. È negli angoli che tessono le loro dimore, alcune piatte e altre di forma concava: nelle prime rimangono durante l’estate, mentre le altre offrono un comodo rifugio durante l’inverno. Altro successo del pittore, il suo ragno minuziosamente riprodotto, irsuto e ricoperto di macchioline come in natura, ha un aspetto in certo modo minaccioso e selvaggio. Da questi dettagli comprendi che l’artista è abile e cerca la verità, al punto che ha disegnato perfino i fili più sottili della tela. Guarda, un filo quadrato tende come un cavo gli angoli della tela leggera, formata da più cerchi concentrici. Questi cerchi sono collegati, dal primo e più grande al più piccolo da fili che li attraversano in linea retta, separati da una distanza uguale a quella che c’è tra i cerchi. Gli artigiani si spostano sulla tela per tendere i licci che hanno ceduto, e in effetti trovano la ricompensa per le loro fatiche, perché divorano le mosche catturate dalle loro trappole. Il pittore non ha tralasciato di rappresentare le prede. Una mosca è trattenuta per la zampa, l’altra per la punta dell’ala, la testa di un’altra è già stata divorata. Le vittime fremono cercando di fuggire, ma non riescono a spezzare o ad allargare le maglie della rete. 2.29 Antigone. Tideo e Capaneo, Ippomedonte e Partenopeo191 sono tra i morti e saranno seppelliti dagli ateniesi che hanno combattuto per recuperare i loro cadaveri. Polinice, invece, figlio di Edipo, è seppellito dalla sorella Antigone. È uscita nottetempo dalle mura, e affida il fratello alla terra patria che un editto voleva proibirgli, col 90 Filostrato pretesto che quella stessa terra Polinice intendeva asservirla. La piana è coperta di corpi ammucchiati, di cavalli riversi nel punto in cui sono caduti, di armi abbandonate dai soldati e di questo fango insanguinato che, a quanto si dice, riempie di gioia Enio192. Ai piedi delle mura, tra i cadaveri dei capi riconoscibili per le dimensioni sovrumane, scorgiamo Capaneo, simile a un gigante sia per la statura che per come è morto: colpito dalla folgore di Zeus, è avvolto dal fumo. Antigone ha sollevato il corpo di Polinice, grande quanto quello degli altri capi, per seppellirlo nella tomba di Eteocle, pensando così di poter riconciliare i fratelli: è ormai la sola pace possibile. Che diremo, ragazzo mio, della sapienza della pittura? La luna versa sulla scena una luce incerta. Impaurita, la ragazza che tiene con le braccia robuste il corpo del fratello sta per emettere un gemito, ma trattiene il grido sulle labbra, temendo di poter essere udita dalle guardie, e si guarda intorno per poi fissare lo sguardo sul fratello, con un ginocchio poggiato a terra. Il melograno che vedi è cresciuto spontaneamente, si dice che le Erinni lo abbiano fatto germogliare sulla tomba: se raccogliessi un frutto, ancora adesso il sangue sgorgherebbe dall’albero193. Il fuoco acceso per la cerimonia funebre ha anch’esso un aspetto sorprendente, perché non è riunito in un unico fascio: invece di fondersi, le fiamme si separano formando focolai distinti, e rivelano così che i due fratelli nemici rimangono tali perfino nella tomba. 2.30 Evadne. Che cosa sta a indicare questa pira su cui giacciono delle vittime sgozzate e un cadavere di dimensioni straordinarie? Chi è questa donna che si getta con impeto nelle fiamme? Questa pittura, ragazzo mio, ci conduce nella città di Argo, dove Capaneo è seppellito dai suoi194. L ’ eroe è morto a Tebe, quando già era riuscito a scalare le mura della città. Hai ascoltato i poeti195 cantare come fosse folgorato da Zeus che volle punirlo per la sua arroganza, e come morisse prima ancora di toccare terra cadendo, lo stesso giorno in cui anche altri capi perirono in terra cadmea. Dopo la vittoria ateniese, che garantisce a tutti la sepoltura, Capaneo viene esposto: riceverà gli stessi onori tributati a Tideo, a Ippomedonte e agli altri, ma ce n’è Immagini 91 uno che gli dà un vantaggio rispetto agli altri re e capi. Evadne ha voluto morire sul suo cadavere: non avvicina la spada alla gola, non si impicca a una corda, come fanno le vedove disperate, ma si getta nel fuoco, convinta che non potrebbe ritrovare il marito se questi non la trovasse al suo fianco. Questo è l’omaggio funebre che riceve Capaneo. Sua moglie, prendendo esempio da chi decora le vittime di corone e d’oro per rendere il sacrificio più solenne e gradito agli dèi, ha indossato i suoi ornamenti più belli. I suoi sguardi non mirano a suscitare pietà, e si direbbe che lanciandosi in mezzo alle fiamme chiami suo marito, perché sembra che gridi: sono certo che per salvare Capaneo avrebbe prestato la testa ai colpi della folgore. Gli Amori si occupano di accendere la pira con le loro torce: sono certi che la fiamma non sarà coperta di vergogna, ma abbellita e resa più pura, quando avrà reso gli ultimi onori a chi ha saputo amare. 2.31 Temistocle. Un greco in mezzo ai barbari, un uomo che non si trova tra uomini ma tra esseri incivili e dissoluti. È un ateniese, perché indossa il loro tipico mantello, e pronuncia, credo, un discorso eloquente per redimere il suo uditorio e sottrarlo alla mollezza. Ci troviamo tra i Medi, nel cuore stesso di Babilonia: ecco l’insegna reale, l’aquila d’oro sullo scudo, ecco il re in persona sul suo trono d’oro, agghindato come un pavone. Non staremo a lodare il pittore per l’imitazione della tiara, della calasiris, del candis e degli animali fantastici che i barbari ricamano sulle loro stoffe, ma per questi fili d’oro abilmente frammisti ai tessuti e disposti secondo forme inalterabili196. Ma anche, per Zeus, per l’effigie di questi eunuchi. Ed è oro vero quello che brilla nella corte del palazzo, dipinto in modo che non sembri una pittura ma un edificio vero. Profumi d’incenso e mirra giungono fino a noi, perché i barbari sottraggono all’aria la sua purezza naturale viziandola con profumi. Di questi due dorifori, diremo che discutono del personaggio greco di cui la loro intelligenza stupefatta intuisce vagamente la grandezza. Credo che Temistocle, figlio di Neocle, si sia recato da Atene a Babilonia, dopo l’immortale vittoria di Salamina, poiché non trovava in Grecia nessun rifugio sicuro, e si intrattenne con il Gran Re sui servigi che aveva reso a 92 Filostrato Serse quando era generale dell’armata greca. L’apparato dei re medi non lo spaventa e parla con fermezza, come dall’alto della tribuna. La lingua non è la nostra ma quella dei Medi, che aveva studiato a lungo in Persia. Se non mi credi, osserva come il suo auditorio mostra di comprendere con l’espressione dello sguardo, e come Temistocle stesso, che ha il contegno di un oratore, lascia vagare lo sguardo come fa un uomo che si esprime in una lingua appresa di recente. 2.32 Palestra. Abbiamo di fronte agli occhi il luogo più bello dell’Arcadia, il favorito da Zeus: la pianura di Olimpia. Non vi sono ancora uomini in lotta, poiché ancora non conoscono la passione della contesa, ma il momento è vicino. Palestra, figlia di Ermes, è già nel fiore degli anni197: ha già inventato la lotta e la terra gioisce di questa scoperta che, dando tregua alle dispute degli uomini, li obbligherà a deporre le armi, e farà loro preferire al campo di battaglia lo stadio, dove combatteranno nudi. Questi ragazzi sono le diverse figure della lotta: balzano petulanti intorno a Palestra, e ubbidendo alle sue leggi piegano i loro corpi in mille posizioni diverse. Si direbbe che siano nati dalla terra, perché la vergine mostra con il suo aspetto virile che non si sottometterà docilmente al giogo del matrimonio e non avrà figli. E poi le figure della lotta sono molto diverse tra loro: la migliore è quella del pancrazio. L ’ aspetto di Palestra è quello di una ragazza se la si confronta con un ragazzo, ma sembra un ragazzo se la si compara a una ragazza. La chioma è troppo corta per poter essere raccolta, lo sguardo non appartiene a un sesso più che all’altro, il sopracciglio indica il suo disprezzo per gli amanti, e perfino per i lottatori: sembra dire che si sente forte contro gli uni e gli altri, e che nessuno riuscirà a toccarle il seno lottando, tanto è forte. Il petto somiglia a quello di un adolescente, e ha seni appena formati. I suoi gusti non sono femminili: non vuole avere le braccia bianche e splendenti e certamente disapprova le Driadi che restano all’ombra per essere bianche. Abita nelle profonde valli dell’Arcadia e chiede al Sole il favore di una tinta di bronzo: il Sole infatti dà alla ragazza un riflesso rossastro. Palestra è seduta, e qui, ragazzo mio, è la grande sapienza della pittura, perché in questo modo il corpo proietta Immagini 93 ombre più numerose, e la posa non è priva di grazia. Anche il ramo d’olivo su cui Palestra poggia il seno le dona: la dea ama questa pianta, che dona ai lottatori l’indispensabile olio e fa la delizia degli uomini. 2.33 Dodona. La colomba d’oro, esperta di presagi, è ancora sulla quercia, le sue predizioni provengono dallo stesso Zeus. Ecco anche l’ascia abbandonata dal taglialegna Hello che dà il nome agli Helli di Dodona. Bende sono sospese all’albero, che dà oracoli come il treppiedi di Pito198. Uno viene a fargli domande, un altro a fare sacrifici. In questo momento è circondato da un coro di tebani che rendono omaggio alla loro patria per la saggezza dell’albero. In effetti credo che sia presso di loro che la colomba dalle ali dorate si è lasciata catturare. Questi indovini di Zeus, i cui piedi non conoscono lavacri e che dormono sul duro, stando a Omero199, sono persone incuranti del domani, e prive di mezzi sicuri di sussistenza. E non vogliono averne, perché così fanno piacere a Zeus, accettando le cose come vengono. Si tratta dei sacerdoti di Zeus: uno ha l’incarico di apprestare le mura del tempio, un altro recita le invocazioni, questo dispone i dolci sacri, quest’altro l’orzo e le ceste, quello sgozza la vittima, quell’altro la scuoia. Da questo lato, riconosci le sacerdotesse di Dodona200 per il loro aspetto altero e venerando, si direbbe che mandino il profumo delle libagioni e degli unguenti. Il pittore ha rappresentato in effetti il fumo dell’incenso che avvolge tutto, perfino le voci divine che vi risuonano. Ecco una statua di bronzo di Eco in atto di mettere, come vedi, la mano sulla bocca. Tra le offerte consacrate a Zeus nel tempio di Dodona c’era un bacile che risuonava per la maggior parte del giorno, e taceva soltanto se lo si toccava. 2.34 Le Ore. Che le porte del cielo siano affidate alla guardia delle Ore, soltanto Omero ha saputo cantarlo201, perché con le Ore ha vissuto, nel cielo che è stato la sua prima dimora. Ma ogni uomo è in grado di riconoscere l’argomento della pittura. Scese dal cielo nella forma che è loro propria, con le mani intrecciate, le Ore percorrono, credo, il giro dell’anno, e la terra che è esperta nell’arte di rendersi gradita produce per loro le ricchezze di tutte le stagioni. Non dirò 94 Filostrato alle Ore della primavera di non calpestare il giacinto e le rose, perché allora i fiori saranno più belli, e avranno il profumo che le Ore stesse emanano. Non dirò alle Ore dell’inverno di non camminare sulla morbida terra dei solchi, perché le spighe nasceranno sulle loro orme. Queste, bionde, camminano sulla punta delle spighe senza spezzarle o piegarle tanto sono leggere e tanto poco pesano sulle messi. È un magnifico spettacolo vedervi, vigne, mentre cercate di trattenere le Ore dell’autunno, perché le amate, queste Ore alle quali dovete la vostra bellezza e l’umore zuccherino dei vostri frutti. È una sorta di raccolto della pittura, e le Ore sono splendide, dipinte con arte sopraffina. Guarda come cantano, con che rapidità girano in tondo, come nessuna è ritratta di spalle e tutte sembrano venire incontro a chi guarda. Hanno un braccio alzato, la chioma sciolta ondeggia, le guance sono ravvivate dalla corsa, e gli occhi stessi partecipano al ritmo. Non so se ci permetteranno di raccontare una storia sul pittore: mi sembra infatti che abbia incontrato le Ore mentre danzavano, e che si sia messo all’opera ascoltando il loro invito irresistibile, perché le dee intendevano mostrare così che c’è un’ora giusta per dipingere. Note al testo 1. Endiadi che allude alle varietà del marmo bianco di Paro. 2. Autore a noi altrimenti ignoto. 3. Filostrato ricorda Eumelo anche nelle Vite dei sofisti (I I , 5), attribuendogli un ritratto di Elena. 4. Testimonianza dello sviluppo urbanistico fuori le mura di Napoli, che risale essenzialmente al periodo imperiale. 5. Il termine pivnax indica una pittura stesa su un pannello di legno. 6. Il testo ha eJrmhneuvein ta;ç grafavç, spiegare le immagini dipinte, poi ejpivedixin, esposizione retorica. 7. Cfr. Iliade, X X I . Lo Scamandro è il fiume che scorre nella regione di Troia. Il suo nome divino è Xanto, ovvero “biondo fulvo”. 8. Per l’iconografia di Efesto si veda ad esempio il Vaso François di Vulci, l’Anfora Vivenzio del British Museum e l’Ara di Pergamo. 9. Filostrato personifica il kw'mo", corteo di convitati accompagnato da musicanti sotto gli auspici di Dioniso. 10. Nella tradizione orfica, Nyx, la notte, è rappresentata come un uccello nero che depose nell’oscurità un uovo d’argento, fecondato dal vento, da cui nacque Eros dalle ali d’oro. 11. Cfr. i frr. 24 e 166 Tarditi. 12. Personaggio di Menandro poi ripreso da Terenzio, archetipo del personaggio del servo beffardo che avrà lunga fortuna nella commedia. 13. I riferimenti letterari sono a Eschilo, Sette contro Tebe, Sofocle, Antigone e soprattutto Euripide, Le Fenicie. A capo delle sette armate dell’esercito di Polinice sono Adrasto, Anfiarao, Tideo, Capaneo, Ippomedonte e Partenopeo. 14. Si tratta di Platone (cfr. Repubblica, V 474e). 15. I Bracci sono la personificazione dell’unità di misura corrispondente. 16. Filostrato stabilisce una polarità tra l’unicità dell’Eros divino e la molteplicità 98 Filostrato degli amori umani, cioè essenzialmente tra la tradizione platonica e la moltiplicazione della figura di Eros che risale alla poesia ellenistica e sarà consacrata dagli autori latini. La maternità degli amori non è più attribuita ad Afrodite, come nelle versioni più antiche del mito, ma alle Ninfe, divinità minori, legate a elementi del mondo naturale qui variamente richiamati nell’ékphrasis. 17. Afrodite era detta anche “dei giardini”, per via dei giardini consacrati alla dea ad Atene. 18. Achille aveva infatti una lancia di frassino (cfr. Iliade, X V I 139). 19. In Etiopia si trovano le sorgenti del cosiddetto Nilo Azzurro. Le reali sorgenti del Nilo furono scoperte alla fine del Diciannovesimo secolo nell’odierna Uganda. 20. Memnone era un principe etiope, figlio di aurora e Titone (cfr. Odissea, X I 522). L ’ eroe è raffigurato su una kylix attica a figure rosse attribuita al pittore Douris e in un dipinto perduto di Polignoto, descritto da Pausania (X 31, 7). 21. Cfr. Filostrato, Vita di Apollonio, V I 4. Si tratta delle statue colossali di Amenofi I I I a Tebe in Egitto. Anche secondo la descrizione di Luciano (Philopseudes; Tossari) la statua di Memnone cantava all’aurora, quando il calore del sole riscaldava l’aria che, attraversando un foro posto in fondo alla bocca aperta, produceva un suono simile a quello di una lira. 22. Cfr. Iliade, X I I I 17. 23. Una delle figlie di Danao. 24. Filostrato riprende qui la descrizione omerica dell’unione di Poseidone e Tiro (Odissea, X I 241). 25. Cfr. Filostrato, Vita di Apollonio, V I 11. Il testo riecheggia la descrizione omerica della terra dei ciclopi (Odissea, I X , 109), poi quella dello Scamandro (Iliade, X X I 350). 26. Cfr. Teofrasto, Historia plantarum, V . 27. Cfr. Inno omerico a Ermes. 28. Anfione, figlio di Zeus e Antiope, si sarebbe servito della lira per la costruzione della cinta muraria di Tebe che il mito gli attribuisce insieme al fratello gemello Zeto. Il mito riecheggia in parte quello, più antico, di Orfeo. 29. Cfr. Iliade, I V 105. 30. L ’ accostamento è di Eraclito (fr. 22 B 51 D K ). 31. Fetonte è figlio di Elio e di Climene secondo una delle versioni del mito tramandate da Igino (52 A ). 32. Fiume mitico identificato con il Po, dove si raccoglieva l’ambra in cui secondo la tradizione qui riportata si erano trasformate le lacrime delle Eliadi. 33. Fiume della Lidia. 34. Il Danubio. 35. Vento che soffia da occidente. 36. Il termine iJerovn indica genericamente un tempio, ma un luogo chiamato Hieron è menzionato da Erodoto (I V 87, 4). Immagini 99 37. Di per sé l’incipit rende ragione della ripetizione, variamente emendata dagli editori e ripresa da Bougot. 38. Lett. il “mare ospitale”, l’odierno Mar Nero. 39. L ’ odierno Mare d’Azov. 40.Bronte è la personificazione del fulmine, Astrape del lampo. 41. Filostrato fa riferimento alla versione del mito tramandata da Pausania (IX, 16, 5). Era, gelosa di Semele, la convince con l’inganno a chiedere a Zeus di assumere la forma di folgore per unirsi a lei. Dall’unione, fatale per Semele, nascerà Dioniso. 42. Cfr. Erodoto, I I 17, 11. 43. Cfr. Euripide, Le baccanti. 44.Pan compare spesso nel seguito di Dioniso, con sembianze simili a quelle dei satiri e spesso sdoppiato in un gruppo di figure dai tratti analoghi. 45. Catena montuosa situata tra la Beozia, la Megaride e l’Attica e sacra a Dioniso. 46. Una delle Erinni o Megere, rappresentate come donne alate, con serpenti per capelli e occhi che lacrimano sangue. 47. Atteone, figlio di Aristeo e di Autonoe, sorella di Semele, fu divorato dai suoi cani perché aveva scorto Artemide fare il bagno nella sorgente. 48. Penteo, figlio di Echione e di Agave, sorella di Semele fu punito da Dioniso perché si era opposto all’introduzione del culto del dio nel suo regno: pertanto fu dilaniato dalla madre e dalle sorelle Ino e Autonoe che, in preda al furore bacchico, lo scambiarono per un leone mentre si nascondeva dietro un albero per spiare le Menadi. 49. Figlia di Minosse e Pasifae, dunque sorella del Minotauro. 50. L ’ identificazione è incerta: si tratta probabilmente di un isolotto di fronte a Nasso, o forse della stessa Nasso, ma il nome è comune a molte isole greche che rivendicavano il culto di Arianna. 51. Secondo una delle innumerevoli versioni del mito, qui ripresa da Filostrato, Dioniso avrebbe indotto Teseo all’oblio perché di ritorno ad Atene da Creta, dove aveva sconfitto il Minotauro, lasciasse Arianna sull’isola. Secondo Omero Dioniso avrebbe invece chiesto ad Artemide di uccidere Arianna, colpevole di aver tradito Teseo (Odissea, X I 322). 52. Cfr. Anacreonte, fr. 31 Page. 53. Cfr. Iliade, X V I I 590. 54. Pasifae, “la splendente”, era figlia del Sole e di Perseide. 55. Un oracolo aveva rivelato a Enomao, re di Pisa (città dell’Elide che Filostrato colloca però nella mitica Arcadia), figlio di Ares, che il marito di sua figlia Ippodamia lo avrebbe ucciso. Poiché il padre Ares gli aveva donato cavalli velocissimi, per sfuggire al suo destino decise allora che la figlia avrebbe sposato chi fosse riuscito a batterlo nella corsa dei carri. Pelope, figlio di Tantalo (dunque discendente di Zeus) lo sfidò a gareggiare, forte dei cavalli alati che Poseidone gli aveva offerto come pegno d’amore. Per assicurarsi la vittoria, però, corruppe 100 Filostrato l’auriga di Enomao, Mirtilo, che in cambio di metà del regno manomise il carro del re. Il mito è rappresentato nel frontone orientale del tempio di Zeus a Olimpia. 56. Il testo è intriso di riferimenti alle Baccanti di Euripide. Cfr. Immagini 1.14 (Semele). 57. Figlia di Cadmo e madre di Penteo. 58. Il serpente è caratteristico nell’iconografia di Cadmo e Armonia, come si può constatare soprattutto in alcuni pinakes ritrovati a Locri. 59. Secondo la versione tradizionale del mito, Dioniso viaggiava da Icaria a Nasso a bordo di una nave pirata dei Tirreni. I marinai, tuttavia, intendevano segretamente vendere Dioniso come schiavo in Asia. Dioniso allora, mutandosi in pantera (o in leone), tra suoni di flauti trasformò in serpenti i remi e l’albero della nave, che fu interamente avvolta dall’edera. I pirati, stravolti, si gettarono in mare, dove furono trasformati in delfini. Secondo Erodoto (I , 94), Ati, re della Lidia, aveva inviato il figlio Tirreno ad esplorare nuove terre per sfuggire a una tremenda carestia. Tirreno avrebbe colonizzato la regione degli Umbri. Una lunga tradizione storiografica ha riconosciuto in quei coloni gli antenati degli Etruschi. 60.Filostrato allude alle origini del culto dionisiaco e in particolare alle Baccanti di Euripide, in cui si racconta l’arrivo a Tebe di Dioniso seguito da donne frigie e lidie. 61. Diversa la versione tradizionale del mito, su cui si basava Frisso, tragedia perduta di Euripide: Palemone si sarebbe trasformato in un animale marino quando la madre si gettò in mare con lui per sfuggire alla follia omicida del marito Atamante. 62. Fonte dell’aneddoto è ancora una volta Erodoto (I , 23): Arione fu salvato dai delfini quando i marinai che lo riportavano in patria lo gettarono in mare per rubargli il premio vinto nel corso di una gara poetica in Sicilia. 63. La vetta più alta del Peloponneso, che aveva dato i natali a Ermes. 64. Marsia lanciò una sfida musicale ad Apollo. Sconfitto, fu legato a un albero e scuoiato vivo dal dio: il suo sangue si trasformò in un torrente. Pare che un affresco perduto di Zeusi lo rappresentasse legato all’albero. 65. Abile suonatore di flauto, allievo di Marsia, spesso considerato inventore dello strumento (cfr. Ovidio, Metamorfosi, V I 393 e Immagini 1.21). 66. Cfr. Immagini 1.20. 67. Mitico re di Frigia, noto per le sue ricchezze, è strettamente legato alla figura di Dioniso, che gli aveva offerto di esaudire qualunque desiderio in cambio della generosità mostrata nei confronti di Sileno. 68. Apollo fece crescere a Mida orecchie d’asino perché si era pronunciato a favore di Pan in una gara di musica. Il barbiere del re, che aveva scoperto il segreto, giurò di non rivelarlo a nessuno. Non riuscendo a trattenersi, per non tradire la promessa si confidò parlando in una crepa del terreno. In quel punto però crebbe una canna, che prese a ripetere ai passanti le parole del barbiere. 69. Così Nemesi aveva punito Narciso, che non aveva ricambiato l’amore della ninfa Eco. Come Giacinto (cfr. Immagini 1.24) si trasformerà in fiore. Immagini 101 70. Cioè l’iniziale Y di Hyakinthos. Secondo altri, sul fiore nato dal sangue di Giacinto, si poteva leggere A I A I , ovvero il grido di dolore del giovane colpito dal disco di Apollo e deviato da Zefiro, desideroso di vendicarsi di Giacinto che non aveva ricambiato il suo amore preferendogli Apollo. La figura di Giacinto è legata all’iconografia dell’androgino. Pausania ne descrive la tomba riccamente istoriata, nella città di Amicle. 71. Sul passo si veda H.A. Harris, Philostratus, Imagines I. 24. 2, «The Classical Review», 11 (1961), pp. 3-5. 72. Isola delle Cicladi a sud-est dell’Eubea dove il culto di Dioniso era particolarmente diffuso. 73. Il fiume più grande della Grecia, scorre tra Acarnania ed Etolia sfociando nello Ionio. 74. Due fiumi portano il nome di Peneo, uno in Tessaglia, l’altro nell’Elide. Il dio fluviale è figlio di Oceano e Teti e padre di Dafne. 75. Fiume della Lidia. 76. Disseminazione tarda della figura di Tritone, figlio di Poseidone e di Anfitrite, i Tritoni vengono rappresentati come creature marine per metà umane. 77. Si tratta di due momenti distinti della vicenda. Appena nato, già Ermes rubò ad Apollo una mandria di buoi che pascolavano nella Pieria, e li nascose a Pilo. Apollo invocò allora il giudizio di Zeus ma, secondo una versione del mito ripresa da Orazio (Carmi, I 10, 11), in quel frangente Ermes gli rubò anche l’arco e la faretra. 78. Odissea, V I 42. 79. Le Ore stavano a guardia delle porte dell’Olimpo. 80.Figlio di Oricle e Ipermestra, partecipò alla spedizione degli Argonauti e alla guerra contro Tebe, dove era destinato a morire secondo quanto, indovino, aveva predetto egli stesso. Inseguito da Periclimeno fu soccorso da Zeus e Apollo che spalancarono la terra sotto i suoi piedi per sottrarlo al nemico. 81. Cioè la rocca di Tebe. 82. Cfr. Eschilo, Sette contro Tebe, 430. 83. Personificazione della città di Oropo, nei pressi della quale si svolge la scena e dove sorse un santuario dedicato ad Anfiarao, sede di un oracolo famoso. 84. Reminiscenza omerica (Odissea, X I X 562), ma cfr. anche Parmenide (28 B 9 D K ). 85. Il riferimento alla preda è anche un’allusione all’ékphrasis precedente, poiché Anfiarao aveva preso parte alla caccia al cinghiale calidonio. Filostrato riprende peraltro l’espressione utilizzata da Omero per l’animale mitico (Iliade, I X 539). 86. I Galli. 87. Cfr. Platone, Carmide, 153c. 88. Figlia di Cefeo, re dell’Etiopia e di Cassiopea, Andromeda era famosa per la sua bellezza. Quando la madre ebbe l’ardire di sostenere che era più bella delle Nereidi, figlie di Poseidone, il dio la punì inviando un mostro marino a devastare l’Etiopia. 102 Filostrato Cefeo allora incatenò Andromeda a una roccia, offrendola al mostro, poiché solo quel sacrificio avrebbe messo fine alla piaga. Ma la ragazza fu salvata da Perseo. 89. Il mare cui allude Filostrato in principio è dunque il Mar Rosso. 90.Le vicende di Perseo in Etiopia si svolgono durante il viaggio di ritorno a Serifo da Tartesso, sulle rive dell’Oceano, dove l’eroe aveva ucciso la Gorgone. 91. Cfr. Immagini 1.17. 92. Una delle Moire. 93. Pelope fu offerto dal padre Tantalo in pasto agli dèi. Solo Demetra addentò la spalla del bimbo, mentre gli altri si accorsero dell’inganno e risuscitarono l’eroe dandogli una spalla d’avorio (cfr. Euripide, Elena, 389 e Pindaro, Olimpica, I 27). 94. Evidenti le metafore sessuali del fico – attestata in Aristofane Pace, 1350, commedia da cui Filostrato cita successivamente anche l’invocazione a Dioniso (Pace, 520) del passero (che indica anche il libertino, come riporta Esichio), della noce. 95. Reminiscenza omerica (Odissea, V I I 120). 96. Secondo il mito, l’erba tenera cresceva sotto i passi di Afrodite. 97. Paride aggiudicò ad Afrodite il pomo della discordia, preferendola ad Era e Atena. 98. Fr. 185 Lobel-Page. 99. Secondo Esiodo (Teogonia, 188), Afrodite nacque dal pene di Urano, il cielo, che Crono aveva reciso e poi gettato in mare. Si diresse dapprima verso Citera, poi a Cipro, dove approdò nei pressi di Pafo. La versione del mito secondo cui Afrodite nacque da una conchiglia, attributo tradizionale della dea, è tramandata invece da Eliano (De natura animalium, X I V 28). 100.Iliade, I X 263. 101. Iliade, X 483; X X I 20. 102. Iliade, V I 154. 103. Iliade, X X I V 50. 104.Iliade, X V I 231 105. Iliade, X X I V 673 106.L ’ apprendistato degli eroi veniva tradizionalmente attribuito a Chirone, figlio di Crono, il più saggio dei Centauri. 107. Iliade, X I X 408. 108. Centauro, che Issione aveva generato unendosi con un’ombra dalle sembianza di Era, inviata da Zeus. 109.Il Pelio è un monte della Tessaglia, mitica dimora dei Centauri, che furono tuttavia costretti a spostarsi dopo la sconfitta subita dai Lapiti. Filostrato sembra voler prendere le distanze dall’interpretazione tradizionale di questa mitica battaglia, o Centauromachia (tempio di Zeus a Olimpia, Partenone, ecc.), che simboleggiava l’affermazione della ragione sulla barbarie e sulla dissolutezza. 110. Euripide, Ippolito, 73. Tutta l’ékphrasis è intessuta di riferimenti alla tragedia euripidea. Immagini 103 111. Cfr. H.G. Liddell, R. Scott, H.S. Jones, R. McKenzie, A Greek-English Lexicon, Oxford up, Oxford 19969, s.v. Nuvsa: «nome di vari colli e città sacri a Dioniso, di difficile localizzazione geografica: la più famosa è la città dell’India, ove Dioniso sarebbe morto». 112. Il testo ha ajpaggevllw. 113. Pausania (VIII 40, 1) riferisce di una statua dell’atleta, che vinse all’Olimpiade del 564 a.C., nella città di Figalia in Arcadia. Cfr. anche Filostrato, Gymnastikos, 21. 114. F. Lissarague (Philostrate, La Galerie de tableaux, cit., ad loc.) mette in rilievo l’ambivalenza dell’aggettivazione, per un verso riferita all’amore per la verità del giudice, per l’altro alla veridicità della rappresentazione pittorica. 115. Fino a Siracusa, alla fonte Aretusa. 116. Cfr. Iliade, X V 569. 117. Cfr. Iliade, X X I I I . In realtà due talenti (e non mezzo) erano il premio per il quinto arrivato alla gara dei carri in onore del defunto Patroclo. Antiloco e Menelao si contenderanno invece il secondo premio, una cavalla di sei anni indomita e gravida di un mulo. 118. Cfr. Iliade, X V I I I 1. 119. L ’ inversione terminologica delinea un manifesto dell’ékphrasis: au|tai me;n ou\n ÔOmhvrou grafaiv, to; de; tou' zw/af v ou dra'ma, ut pictura poesis, ut poesis pictura. 120. Nestore. 121. Diomede. 122. Aiace Telamonio e Aiace di Locri. 123. Odissea, X I 235. Enipeo era il dio di un fiume della Tessaglia. Poseidone ne assunse le sembianze per sottrargli l’amore di Tiro, con cui generò Pelia e Neleo. 124. Fiume di Smirne. Una tradizione attribuiva al dio fluviale corrispondente la paternità di Omero. 125. Fiumi della Beozia. 126. Si conserva un rilievo di scuola rodia che raffigura l’apoteosi di Omero con le nove Muse. 127. Nome di un fiume della Tessaglia (cfr. Iliade, I I 753) e di uno dell’Elide. Il dio fluviale era figlio di Oceano e Teti. 128. Fiume della Tessaglia (cfr. Iliade, I I 751). 129. Fiume della Tessagia (cfr. Odissea, X I 238). 130. Fiume della Macedonia (cfr. Iliade, I I 850). 131. Fiume della Licia (cfr. Iliade, X I V 434). 132. Nome del grande fiume che circonda la terra. Il dio fluviale generò tutti i fiumi con Teti. Omero lo chiama «origine di ogni cosa» e «origine degli dèi» (cfr. Iliade, X I V 246 e 201). 133. Senofonte, Ciropedia, V e V I . 134. Quando il marito partì per la guerra di Troia, Laodamia fece costruire un simulacro che avesse le sembianze dello sposo. Dopo la morte di Protesilao, 104 Filostrato Laodamia ottenne che il marito facesse ritorno dagli inferi, e che per tramite di Ermes le parlasse un’ultima volta, attraverso il simulacro. 135. Evadne. Cfr. Euripide, Supplici, 1054. 136. Cfr. Iliade, V 585. 137. Cfr. Odissea, X I 411. 138. Secondo la tradizione, le ninfe erano oggetto delle insidie amorose di Pan, tragicamente non corrisposte: per sfuggirgli, Eco si ridusse a pura voce, Pitis si trasformò in pino, Siringa in canna. 139. Il padre di Pindaro. 140.Antica divinità legata al culto della terra, madre delle figure principali del pantheon greco, riccamente rappresentata nella scultura e nella pittura vascolare. 141. Monte dell’Attica. 142. Pindaro attribuisce alle muse una voce dolce come il miele (Olimpica, V I 21). 143. La collocazione geografica è incerta, presso Mikonos o al largo dell’Eubea. 144.Secondo Omero (Odissea, I V 499), Poseidone aveva portato soccorso ad Aiace, salvandolo dal naufragio durante il viaggio di ritorno da Troia. Ma Aiace aveva offeso il dio attribuendosi il merito della propria salvezza, e pertanto Poseidone aveva spaccato lo scoglio con il suo tridente lasciando che Aiace annegasse. Solo in apparenza, pertanto, Filostrato si discosta dal testo omerico, dando in realtà credito, con un fine gioco prospettico, alla versione dei fatti sostenuta da Aiace nella scena descritta da Omero. 145. Fiume della Tessagia. Il dio fluviale era padre di Dafne e Cirene. 146.Cfr. Erodoto, I I 5. 147. Affluente del Peneo. 148. Sposo della terra è uno degli epiteti tradizionali di Poseidone. 149.Il folto gruppo degli Argonauti comprende pressoché tutti gli eroi della generazione precedente a quella dei poemi omerici. 150. Scogli che si trovano all’imboccatura del Ponto Eusino, il Mar Nero. 151. Peleo e Telamone. 152. Calais e Zete. 153. Dodona è secondo Erodoto (I I 51) il più antico oracolo di Grecia: Zeus vi si manifestava attraverso il mormorio del vento tra gli alberi, amplificato da recipienti di metallo appesi sui rami. 154. Figli di Nefele, la dea nuvola: questa, condannata a sacrificarli per rimediare alla terribile siccità che aveva scatenato, riuscì a farli fuggire in volo, in groppa a un ariete dal vello d’oro. 155. Apollonio Rodio, Argonautiche, I 1310. 156. Città della Beozia. 157. L ’ oracolo di Glauco era particolarmente caro alla gente di mare. Egli stesso pescatore, si trasformò in dio mangiando un’erba capace di risuscitare i pesci, che era stata seminata da Crono. Immagini 105 158. Alcione si gettò in mare quando venne a sapere che il marito Ceice era morto nel corso di una battuta di pesca. Gli dèi, commossi da quel gesto, tramutarono gli sposi in uccelli marini. 159. Ino era la donna mortale che divenne l’amante di Atamante, marito di Nefele. Quando Atamante, reso pazzo da Nefele, uccise Learco, il figlio illegittimo avuto con Ino, questa si gettò in mare con l’altro figlio, Melicerte. Secondo la versione più diffusa del mito, gli dèi trasformarono entrambi in divinità marine: Ino divenne Leucotea e Melicerte divenne Palemone. Filostrato preferisce l’opposizione di mare e terra che ben si accorda con la doppia natura di Poseidone. 160. Lecheo e Cencreo sono due porti di Corinto. 161. In Italia, a Napoli, si svolge la narrazione. Secondo la versione più diffusa del mito, il gigante Encelado fu seppellito da Zeus sotto l’Etna, dunque in Sicilia. La stessa sorte toccò al drago Tifone che, fuggito dalla grotta della Cilicia in cui Zeus l’aveva imprigionato, fu schiacciato dall’Etna. Quale che sia la versione di questi miti ripresa da Filostrato, l’identificazione delle isole sembra volutamente vaga, benché evidentemente in parte ispirata alla morfologia degli arcipelaghi siciliani minori. 162. Il mitico vello d’oro. 163. Il drago Ladone aiutava le Esperidi a custodire le mele offerte da Gea in dono per il Matrimonio di Zeus ed Era. 164.Cfr. Erodoto, V I I I 41. 165. La civetta è sacra ad Atena, dea della saggezza. Cfr. G. Steiner, Owl’s eggs and Dionysos, «Classical Weekly», 44 (1951), pp. 117-8. 166.Cfr. Odissea, I V 365. 167. Il passo riprende ampiamente Omero, Odissea, I X . 168. Filostrato segue il filo dell’ambientazione siciliana: Polifemo, figlio di Poseidone e di una ninfa, abita le pendici dell’Etna. Rivale in amore di Aci, per conquistare Galatea eliminerà l’avversario schiacciandolo sotto un masso. 169.Cfr. Iliade, X X I 407 e Odissea, X I 577. 170. Atlante, sconfitto da Zeus insieme agli altri Titani, fu condannato a sostenere la volta del cielo. L ’ impresa di Eracle richiamata da Filostrato non sembra trovare riscontro nella tradizione. 171. Dea della giovinezza, figlia di Zeus e di Era, divenne sposa di Eracle quando questi ascese all’Olimpo. Cfr. Odissea, X I 602. 172. Gigante figlio di Poseidone e di Gea, la terra, da quest’ultima traeva la sua forza straordinaria. Eracle riuscì a sconfiggerlo sollevandolo da terra. L ’ impresa precede la cattura dei buoi di Gerione, decima fatica. 173. Cfr. Immagini 2.17. 174. Espressione tipicamente omerica: cfr. Iliade, V I 127 e X X I 151. Per la prima volta il discorso diretto è utilizzato per dar voce alla pittura. 106 Filostrato 175. Aristotele dà notizia dei Pigmei, precisando che non si tratta di un popolo mitico e attribuendo loro l’uso di cavalli nani e di grotte come abitazioni (cfr. Historia animalium, V I I I 12 e De generatione animalium, I I 8). 176. Eracle furioso, 935. 177. Si tratta dei figli avuti con Megara, che Eracle uccide in uno stato di follia furiosa indotto da Era. 178. Nella tragedia di Euripide entra in scena Lyssa, dea della furia. 179. I vincoli di Eracle sono la follia e la necessità tragica. Secondo la tradizione, l’eroe liberò Prometeo e uccise l’aquila che lo straziava ogni giorno. 180. Cfr. Apollodoro, Biblioteca, I I 5, 11. 181. Riferimento a un passo oggi perduto. 182. Si tratta dell’ottava fatica. 183. Si tratta delle Naiadi, le Ninfe delle acque. 184. Cfr. Esiodo, Teogonia, 887. Urano e Gea avevano predetto a Zeus che avrebbe avuto un figlio saggio e astuto, che avrebbe regnato sugli dèi e su gli uomini. Zeus allora inghiottì Metide, dea dell’astuzia, che stava per partorire. Fu Efesto (o Prometeo, secondo una variante del mito) a permettere la nascita di Atena, aprendo la testa di Zeus con un colpo d’ascia. 185. Si tratta della festa delle Panatenee. 186. Cfr. Iliade, I I 270. 187. Figlio di Iasione e di Demetra, Pluto, dio della ricchezza, era stato accecato da Zeus perché distribuisse a caso i suoi favori. 188. Cfr. Odissea, X I X 204, ma il testo omerico tramandato è differente, o la citazione non è letterale. 189. Genti asiatiche. 190. Esiodo, Le opere e i giorni, 777. 191. L ’ ékphrasis fa ampio riferimento alla vicenda dei sette contro Tebe, e in particolare all’Antigone di Sofocle. 192. Dea della guerra, si inebria delle stragi. 193. La melagrana è legata al mito di Proserpina, che si nutre nell’Ade dei frutti dell’albero nato dal sangue di Bacco. 194. Secondo Euripide (Supplici, 990) i funerali si tengono invece a Eleusi. 195. Eschilo, Sette contro Tebe, 423; Sofocle, Antigone, 127; Euripide, Fenicie, 1186. 196. L ’ ékphrasis è ispirata alla Ciropedia e all’Anabasi di Senofonte. 197. Secondo la tradizione, Palestra è piuttosto figlia di Corico, re dell’Arcadia. 198. Dodona, in Epiro, era un importante oracolo di Zeus, che si manifestava attraverso il brusio delle fronde degli alberi del bosco sacro e nel volo delle colombe. Gli Helli erano i sacerdoti dell’oracolo. 199. Cfr. Iliade, X V I 235. 200. Le Peleiadi. 201. Cfr. Iliade, V 749. Michele Cometa Il “ f a n ta s m a” d e l l e I mmagi n i 1. Spettri. Singolare destino quello delle Immagini di Filostrato. Non solo perché a stento riusciamo a individuarne l’autore, non solo perché nulla sappiamo dei dipinti, rimangono ignoti i pittori e improbabile persino la galleria napoletana che avrebbe potuto ospitarli. Ma soprattutto per l’ironico destino che ne ha fatto l’incunabulo di un genere, l’ékphrasis, che nasce solo molti secoli più tardi. Eppure questo “fantasma” – e chi si occupa di cultura visuale sa quanto centrale sia questa nozione per una teoria delle immagini1 – ha attraversato indenne i secoli per ripresentarsi puntualmente in quelli che W.J.T. Mitchell chiamerebbe i “pictorial turns” della storia dell’ékphrasis: il suo momento inaugurale, con le descrizioni del retore cristiano Procopio di Gaza (465-528 ca.), la grande stagione delle “arti sorelle”, il Rinascimento europeo, epoca in cui inizia la diffusione a stampa delle Immagini (dal 1503) e la circolazione delle loro imitazioni, o forse sarebbe meglio dire “reincarnazioni”, in autori come Mantegna, Tiziano e Giulio Romano. Infine, l’età di Goethe, un ampio arco temporale che va dalle considerazioni del Conte di Caylus alle riscritture dei Philostrats Gemählde (1818) di Goethe2, passando per la prima traduzione tedesca di D.Ch. Seybold (1776), le cesure imposte dal Laocoonte (1766)3 di Lessing e le descrizioni poetiche di Keats4, Byron e Wordsworth. Oggi, una volta affrontata criticamente la questione di un’edizione moderna5, le Immagini di Filostrato sono il “fantasma” con cui si 108 Michele Cometa confronta una nutrita schiera di teorici della cultura visuale moderna, e la questione dell’ékphrasis si è collocata definitivamente al centro del dibattito teorico-letterario e della comparatistica internazionale. Già la semplice esistenza di un “pictorial turn” (Mitchell) o di un “iconic turn” (Boehm) degli studi culturali novecenteschi, che ovviamente sono concepibili solo a partire dal “linguistic turn” (Rorty)6, impone una riflessione sul rapporto tra parola e immagine. Tutte le più agguerrite disamine della “svolta visuale”, qualunque sia la loro provenienza – gli studi culturali e la letteratura nel caso di Mitchell o l’ermeneutica filosofica nel caso di Boehm – non possono fare a meno di mettere al centro della riflessione teorica la questione del confronto tra dimensione verbale e dimensione immaginale (nel senso ampio che si può dare a questa parola). Da qui la necessità di fare i conti con l’inesausta tradizione lessinghiana che ha cercato di dire l’ultima parola su verbale e visuale, con scarsi risultati dal punto di vista della pratica artistica, come dimostra lo sperimentalismo romantico o quello delle avanguardie novecentesche, ma con notevoli conseguenze sul piano della teoria, almeno sino alla semiotica novecentesca. Sull’altro fronte, la costante “(ri)apparizione” del fantasma ecfrastico – non a caso secondo Mitchell foriero di un’“angoscia” specifica7 – ha costretto le punte più avanzate dei visual studies contemporanei a confrontarsi ex novo con nozioni come “arti sorelle”, “ut pictura poësis”, “melete” ed “epideissi”, “image/text” e via discorrendo. Non c’è bisogno di ricostruire la storia novecentesca di questa peculiare “spettrologia”. Dalla “reciproca illuminazione tra le arti”8 di Oskar Walzel agli studi sulle “arti sorelle” di Jean Hagstrum9, Rensselaer W. Lee10 e Wendy Steiner11; dalla scuola iconologica alle ricerche interartistiche di Ulrich Weisstein12. Un’ininterrotta tradizione ci conduce sino agli eventi che determinano il panorama odierno della visual culture. Si tratta di studi che sono nati indipendentemente gli uni dagli altri e in contesti culturali parecchio diversi tra loro e che solo negli ultimi anni, e grazie alla mediazione di figure strategiche della visual culture contemporanea come Mitchell Boehm, Belting, convergono su esperienze comuni e finalmente intrecciano un dialogo sempre più fitto. Il “fantasma” delle Immagini 109 La questione dell’ékphrasis ha assunto infatti dapprima in area anglosassone una sua irriducibile connotazione teorica negli scritti di Murray Krieger13, James Heffernan14 e W.J.T. Mitchell15 che, agli inizi degli anni Novanta del Novecento, hanno cercato di delimitare16, sia pure con alterne vicende, lo studio dell’ékphrasis alla «imitation in literature of a work of plastic art»17 ovvero alla «rappresentazione verbale di una rappresentazione grafica»18 secondo la fortunata espressione di Heffernan, escludendo dunque tutto il campo dell’ipotiposi classica che spesso aveva contribuito a far dissolvere il genere specifico dell’ékphrasis delle opere d’arte in una generica e incontrollabile teoria della descrizione19. Solo in un secondo momento, e del tutto indipendentemente dalla ricerca anglosassone, si consolida, a metà degli anni Novanta una risposta “tedesca” agli studi d’oltreoceano con lo sviluppo di una serrata indagine sui rapporti tra testo e immagine (Bild und Text)20, confluita più tardi in una più specifica ricerca sull’ékphrasis, ovvero sulla descrizione delle opere d’arte (Kunstbeschreibung). Nel frattempo la formula di Heffernan, «the verbal representation of a graphic representation», contribuisce a fare chiarezza sui limiti dell’ékphrasis che a quel punto si è emancipata dal pur necessario rapporto con la descrizione. La definizione di Heffernan diventa ancora più utile – e da qui il suo successo – se si guarda agli ambiti che essa programmaticamente esclude, quelli del “pittorialismo” e dell’“iconismo”21 che nulla hanno a che fare con la resa verbale di un manufatto artistico, ma semmai tendono a sostituirsi alle opere d’arte visive: «Il pittorialismo genera nel linguaggio effetti simili a quelli creati dalle pitture […], poiché rappresenta il mondo con l’ausilio di tecniche pittoriche […]; ma senza rappresentare le pitture stesse […]. Gli iconismi visivi (visual iconicity) sono una somiglianza visibile tra la disposizione delle parole o delle lettere su una pagina e ciò che esse significano. Come il pittorialismo gli iconismi visivi normalmente contengono un implicito riferimento alla rappresentazione grafica […]. Ma anche in questo caso la letteratura iconica (iconic literature) non ha il fine di rappresentare pitture; essa imita la forma delle pitture al fine di rappresentare oggetti naturali»22. 110 Michele Cometa Nel suo studio del 1991, Ekphrasis. The Illusion of Natural Sign, Murray Krieger – dopo un primo saggio dedicato a dirimere e a riformulare la questione lessinghiana del rapporto tra spaziale e temporale23 – aveva tentato un ulteriore sforzo sintetico riconducendo la questione dell’ékphrasis allo scontro inesausto, nella rappresentazione occidentale, fra quelli che egli definisce (con qualche approssimazione) “segni naturali”, cioè i segni mimetici delle arti visive, e i “segni arbitrari” tipici dei linguaggi verbali. La distinzione ovviamente trascura il fatto che anche i segni prodotti nell’ambito delle arti visive non sono affatto mimetici ma corrispondono anch’essi a semiotiche convenzionali e consensuali. Tuttavia è merito di Krieger aver ribadito il carattere “infinito”24 di quella che egli stesso opportunamente definisce un’illusione tipica della cultura occidentale: conquistare, attraverso segni arbitrari, la medesima verosimiglianza e icasticità degli “oggetti” rappresentati in pittura, o almeno dei suoi presunti “segni naturali”. Il libro di Krieger è per altro uno straordinario attraversamento dell’ékphrasis occidentale intesa come inesausto tentativo di “rappresentare l’irrappresentabile”25, l’illusione cioè di poter ri-presentare la realtà agli occhi dei lettori attraverso segni arbitrari. È evidente comunque che le tesi di Heffernan e di Krieger, cui abbiamo brevemente accennato, spostano definitivamente la riflessione sull’ékphrasis dal piano delle semiotiche – com’era nella tradizione lessinghiana – e del rapporto tra forme spaziali e forme temporali sul piano della “rappresentazione” tout-court, laddove ciò che conta non è più la differenza tra parola e immagine, spazio e tempo, coesistente e successivo, quanto semmai la possibilità che entrambi i poli di questa infinita dialettica possano comunicare qualcosa sulla realtà, e, in definitiva, la contaminazione tra di essi. In un celebre saggio in risposta alle “spatial forms” di Joseph Frank26, Mitchell ricorre alla relazione corpo/anima per trovare una metafora adeguata alla consustanzialità di termini solo apparentemente opposti come verbale e visuale: «Lo spazio è il corpo del tempo, la forma o l’immagine che ci dà un’intuizione di qualcosa che non è direttamente percepibile ma che permea di sé tutto ciò che Il “fantasma” delle Immagini 111 conosciamo. Il tempo è l’anima dello spazio, l’entità invisibile che anima il campo della nostra esperienza»27. Una metafora che verrà ripresa, con maggior dovizia di argomentazioni, proprio nelle pagine di Picture Theory dedicate alla comparazione tra le arti28. Mitchell insomma preferisce interpretare la letteratura e le arti figurative non come campi segnici opposti ma come i luoghi in cui si mette in scena la battaglia tra il visuale e il verbale29. Questa visione “agonale” dell’ékphrasis è quella che Mitchell, ispirandosi a Krieger, ma disattivandone del tutto le semplificazioni semiotiche e storiche, ha imposto nel dibattito contemporaneo. Ed è significativo che sia lui sia Heffernan rafforzino le loro argomentazioni sottolineando, ad esempio, le sfumature gender delle “prevaricazioni” del verbale (maschile) sul visuale (femminile), della parola sull’immagine. Mitchell addirittura – aprendo prospettive davvero inedite per l’uso “culturale” dell’ékphrasis – ipotizza che questo “genere” sia solo un’ennesima performance culturale dell’appropriazione dell’Altro con tutte le sue sfumature sociali e politiche. Come il colonizzato, il proletario, le donne, l’immagine è ciò che non ha parola, il nonrisolto e il non-assimilato nelle magnifiche sorti e progressive del verbale30. Da qui la nostra “ambivalenza” nei confronti dell’ékphrasis che rispecchia la nostra diffidenza nei confronti del diverso e dell’altro31. Anche l’ékphrasis dunque può essere iscritta in una logica del “desiderio” – un’intuizione di Krieger nelle ultime pagine del suo studio32 – la quale si articola attraverso una complessa fenomenologia che Mitchell descrive nei termini di “ekphrastic hope”, “ekphrastic fear” e “ekphrastic indifference”. La prima esprimerebbe il desiderio di “superare l’alterità” (the overcoming of otherness), di dissimulare, nel senso hegeliano della Aufhebung ma nel contempo anche di esibire ciò che Mitchell, sulla scorta di Hollander33, definisce il “resident alien” di ogni descrizione: l’immagine. La paura ecfrastica scaturisce invece dal confronto con un’alterità che può essere castrante (il mutismo che Lessing tanto temeva), troppo implicata con la sensualità/sessualità (da qui le forme di iconofobia classica) e feticistica. Infine l’indifferenza che sancisce l’impraticabilità di questa trasgressione dei limiti. 112 Michele Cometa Per Mitchell l’unica via d’uscita da questo vicolo cieco della teoresi occidentale sta nel riconoscimento della totale equivalenza tra le due semiotiche, soprattutto dal punto di vista comunicativo e sociale: «Non vi è alcuna differenza essenziale tra testi ed immagini e dunque nessun divario da colmare tra questi media in virtù di speciali strategie ecfrastiche. Il linguaggio può sostituire la raffigurazione (depiction) e la raffigurazione può sostituire il linguaggio perché gli atti comunicativi, espressivi, la narrazione, l’argomentazione, la descrizione, l’esposizione e gli altri cosiddetti “atti linguistici” non sono specifici di alcun medium, non sono “propri” di nessun medium»34. Ciò è poi ulteriormente rafforzato dalla nozione di “image/text”35 intesa come un «problematic gap, cleavage, or rupture in representation»36. Se gli studi di Krieger (1991), di Mitchell (1992) e di Heffernan (1993) hanno definito i limiti di un’indagine teorico-letteraria sull’ékphrasis, il poderoso volume tedesco di Helmut Pfotenhauer e Gottfried Boehm, apparso qualche anno più tardi nel 199537, di fatto sanciva la ripresa in Germania, in Austria e in Svizzera degli studi interartistici, riattivando una tradizione che, appunto, risale almeno a Walzel e che instaura una nuova forma di dialogo tra Literaturwissenschaft e Kunstwissenschaft 38. Chi conosce il panorama degli studi di lingua tedesca 39 sa che nell’ultimo decennio del secolo scorso non solo si è proceduto a un’analisi capillare delle “descrizioni” presenti nei testi, con notevoli novità ermeneutiche, ma questo fenomeno ha portato alla riscrittura di intere sezioni della storia letteraria tedesca (e non solo), alla riscoperta di classici dimenticati e alla riformulazione di edizioni critiche che si credevano ormai canoniche e che, alla luce degli studi di Kunstbeschreibung, hanno subìto non pochi aggiornamenti e modificazioni. Si pensi all’edizione monacense di Goethe o alle edizioni hoffmanniane. In parallelo la ricerca francese ha inaugurato una rilettura della narrativa ottocentesca alla luce delle tecniche ecfrastiche40 (e, più in generale, della cultura visuale degli scrittori)41, mentre gli studiosi italiani – del resto provenienti dalla semiotica e dalla critica stilistica – hanno preferito costruire tipologie per l’analisi dell’ékphrasis Il “fantasma” delle Immagini 113 letteraria e storico-artistica (che in Italia costituisce un genere a sé). Si pensi ai lavori di Umbero Eco42, di Cesare Segre43 e di Pier Vincenzo Mengaldo44. Un’eccezione, tuttora vitale anche se a distanza di parecchi decenni, è costituita in Italia da Mario Praz il cui straordinario e pioneristico volume sulle arti sorelle, Mnemosyne. Parallelo tra la letteratura e le arti visive 45, viene ripubblicato sintomaticamente nel 200846. 2. Ékphrasis nozionale ed ékphrasis mimetica. È nota la distinzione che in un celeberrimo articolo apparso nel 1988 nella prestigiosa rivista Word & Image 47, John Hollander ha fatto tra “ékphrasis nozionale” – quella che caratterizzerebbe gli antichi dallo Scudo di Achille48 alle Immagini appunto – ed “ékphrasis mimetica” (actual), destinata alla verbalizzazione di opere d’arte realmente esistenti e verificabili. È però evidente – e Hollander se ne rende presto conto – che i confini tra le due forme sono costantemente messi in crisi proprio dalla creatività linguistica degli autori, interessati, sin dai tempi di Filostrato, a esibire le potenzialità retoriche delle proprie descrizioni che programmaticamente travalicano l’opera d’arte49. Del resto proprio l’ékphrasis mimetica moderna sembra essere il luogo in cui si recuperano i modelli retorici sperimentati dagli antichi50. Difficile distinguere in Filostrato tra le due ékphrasis. E certo non solo per motivi storici o archeologici. Almeno dallo studio di Karl Lehmann-Hartleben51 gli interpreti tendono a considerare plausibile l’esistenza dei dipinti e la loro disposizione in una galleria-portico in Italia. Lehmann-Hartleben, prendendo spunto da alcune considerazioni goethiane, ha molto insistito sul fatto che proprio il “disordine” della sequenza costruita da Filostrato è la prova evidente che egli si trovava nelle stanze di una reale galleria dove alcuni cicli di pitture erano esposti l’uno sopra l’altro. Riportiamo qui di seguito a titolo esemplificativo lo schizzo proposto da Lehmann-Hartleben per la cosiddetta sala di Afrodite che inaugura la seconda parte nella quale si intrecciano storie legate alla dea e una serie di pitture più piccole, di soggetto vario, esposte a mo’ di fregio in alto nella stanza (fig. 1). 114 Michele Cometa Fig. 1 Lo stesso schema viene applicato nella ricostruzione della più complessa sala di Dioniso. Filostrato, secondo Lehmann-Hartleben, non interessato alle sequenze narrative delle pitture ma al loro significato morale, non avrebbe dunque esitato a saltare da una sequenza all’altra. Otto Schönberger ha insistito su questa divisione per “stanze”, scorgendo nella sequenza delle descrizioni vere e proprie unità tematiche (una sala dedicata ai fiumi, una a Dioniso, una ad Afrodite ecc.52). Sempre più facile – da Goethe in poi – è stato individuare pitture su vasi o affreschi e mosaici che fanno riferimento agli stessi modelli figurativi53. Altrettanto evidente è però che Filostrato tende ad emanciparsi costantemente dal modello figurativo integrandolo in un processo dialogico che non solo coinvolge gli astanti – il giovane Il “fantasma” delle Immagini 115 interlocutore e i compagni – ma intesse tra le parti delle singole descrizioni tutta una serie di rimandi che esaltano la vis retorica dell’autore e dialettizzano sistematicamente visibile e verbale. La descrizione più complessa – come è stato accertato54 – comprende di norma uno “sguardo d’insieme” sul dipinto, seguito da una “messa a fuoco” dei particolari55, da una “digressione” verbale sul mito che lascia straripare l’immagine nel passato e nel futuro, a sua volta corroborata da una descrizione di minuti dettagli delle figure principali (una seconda “messa a fuoco”), e, infine, un’ulteriore incursione nel mito che descrive per lo più le conseguenze dell’azione rappresentata. Questo schema in cinque fasi viene variato alla bisogna, ridotto o semplicemente articolato in maniera diversa. La struttura delle singole descrizioni oscilla da un massimo di complessità a svariate combinazioni di singole parti. A volte, ad esempio, Filostrato ritiene inutile soffermarsi sul mito perché troppo noto, oppure propone una minuta descrizione dei varî piani di un dipinto, moltiplicando la descrizione d’insieme iniziale e parcellizzandola a un tempo. Si tratta comunque di una strategia che fa leva sul “nozionale” almeno quanto fa leva sul “mimetico”. Anzi proprio l’assetto dialogico delle varie parti dell’ékphrasis è la prova che Filostrato è interessato a una ricostruzione, a un’ermeneutica dell’immagine che decisamente ne travalica i limiti. Risulta evidente dunque che già nelle sue scaturigini è a dir poco avventato distinguere tra le due ékphrasis, per non parlare del fatto che la finalità ultima delle descrizioni di Filostrato è l’epideissi e la melete e non la mera mimesi verbale. Filostrato non è affatto interessato ad esempio agli aspetti compositivi o tecnici delle pitture, anche i colori e le ombre vengono citati solo come fonti di emozioni e sentimenti e non come fatto tecnico della pittura. Albin Lesky ha icasticamente detto che Filostrato è interessato ai “feuilletons” che si possono ricavare dalle immagini56. La parte puramente descrittiva delle singole “icone” è infatti sempre piuttosto limitata e comunque “incastonata” in una struttura dialogica complessa57. Raramente invece Filostrato si serve di una figura tipica dell’ipotiposi come l’accumulazione, pure essenziale all’ékphrasis ma certo spesso destinata a distruggerne l’effetto 116 Michele Cometa retorico. Sempre molto controllate sono le sue enumerazioni ed elencazioni58, e significativamente, quando vi ricorre, lo fa nella forma della preterizione: «Non parleremo di quelli che danzano in cerchio…» (1.6). Così come rifugge dalla deissi – con l’eccezione della descrizione della palude (1.9) – perché troppo arida e indeterminata e certamente non perspicua in assenza del dipinto. Il costante richiamo nei testi a ciò che si vede effettivamente – per lo più interpretato come richiamo alla fedeltà ecfrastica – è invece un modo per riavvicinarsi al dato figurativo dopo essersene allontanati seguendo un ductus argomentativo che trascende l’opera. Come quando nella brevissima digressione sul mito di Giacinto l’autore si sente in dovere di richiamare all’ordine se stesso e il giovane: «Ma visto che siamo venuti per ammirare dei quadri, come semplici curiosi, e non per spiegare i miti o avanzare dubbi, limitiamoci a esaminare la pittura» (1.24). È significativo però che Filostrato insista sul fatto che le digressioni mitologiche non sono dovute alla debolezza emotiva del fruitore, ma sono invece un effetto indotto dalla pittura stessa che producendo illusione colloca lo spettatore in uno stato di trance simile al sogno. È il dipinto stesso che reclama un’attenzione che è dovuta altrimenti solo alla vita reale come si legge in una delle descrizioni più problematiche, soprattutto per via dei costanti rinvii metatestuali: «Sento che l’illusione è perfetta: ho l’impressione di vedere non figure dipinte, ma uomini veri che si muovono, spinti dal loro amore, perché mi prendo gioco di loro come se davvero mi sentissero, e immagino di cogliere la loro risposta. E tu, che non hai detto niente per ricondurmi alla realtà mentre mi smarrivo, eri ingannato dalla stessa illusione, e non hai saputo difenderti meglio di me contro l’artificio del pittore e il sonno che esso procura. Ma guardiamo la pittura, perché è una pittura che abbiamo di fronte a noi» (1.28). Se è vero che il testo è tutto sbilanciato sull’interpretazione pedagogica del retore, non per questo Filostrato nega alla pittura le sue potenzialità e i suoi diritti. Il patto ecfrastico si costruisce affidandosi al fascino delle immagini e delle parole, senza che questo prefiguri il predominio delle une sulle altre, ma semmai facendo Il “fantasma” delle Immagini 117 leva sull’armonia implicita del cosmo. L ’ osmosi continua tra realtà e pittura, passato e futuro, mito e immagine costituisce la prova che il messaggio pedagogico voluto da Filostrato si fonda su questa armonia. 3. Modi dell’ékphrasis. «Non sembra animata?» chiede Filostrato al giovane guardando con improbabile simultaneità la doppia superficie dello scudo di Rodogune (2.5). È nascosta in questa semplice domanda la missione più profonda dell’ékphrasis occidentale: la dinamizzazione delle immagini. Abbiamo in altra sede proposto uno schema delle principali modalità dell’ékphrasis e in particolare delle forme che attengono alla dinamizzazione, alla trasformazione cioè del “coesistente” in “successivo”, per dirla con Lessing, forme di “temporalizzazione” e “narrativizzazione” che coinvolgono i soggetti principali dell’ékphrasis: l’immagine innanzitutto ma anche il processo compositivo59 e lo sguardo. Per quest’ultimo, com’è anche nel caso di Filostrato che discuteremo più avanti, è opportuno distinguere tra le diverse forme di sguardo che possono attivarsi intorno a un’immagine dipinta: lo sguardo dell’osservatore/fruitore (reale o fittizio), quello dello scrittore e quello del lettore, sguardi che spesso si sovrappongono e che operano in due direzioni: da un lato sul fronte della ricezione, dell’effetto che l’immagine fa su chi la guarda, dall’altro come proiezione di istanze del fruitore sulla sostanza dell’immagine. Quanto detto si potrebbe schematizzare secondo quanto proposto dall’illustrazione riportata qui di seguito (fig. 2). Filostrato utilizza tutte e tre queste modalità, con una particolare preferenza per la prima e la terza, mentre la seconda – quella adottata da Omero nella descrizione-costruzione dello Scudo di Achille non gli è particolarmente congeniale. D’altronde è stato notato che alla seconda sofistica interessa primariamente, da un lato, l’abilità retorica profusa nella vivificazione dell’immagine – tecnica in cui Filostrato eccelle – e, parallelamente, la descrizione degli effetti psicologici ed emotivi che l’immagine produce sul fruitore. Da qui l’attenzione per gli sguardi degli spettatori e per ciò che discende da quello che con Eco potremmo chiamare il «patto ecfrastico»60. ÉKPHRASIS Forme di dinamizzazione (narrativizzazione) delle immagini del processo compositivo dell’immagine istruzioni per il pittore per lo scrittore genesi dell’immagine Fig. 2 dello sguardo dell’osservatore dell’immagine del lettore dello scrittore Ricezione Proiezione narrativizzazione della percezione dello scrittore nell’immagine (o nella realtà evocata dall’immagine) narrativizzazione dell’effetto della ricezione dell’osservatore nell’immagine (o nella realtà evocata dall’immagine) narrativizzazione dell’interpretazione (la storia della ricezione) del lettore nell’immagine (o nella realtà evocata dall’immagine) Il “fantasma” delle Immagini 119 Quest’ultimo pone le basi per le descrizioni che Eco ha definito «con richiamo alle esperienze personali e culturali del destinatario» e «con richiamo ad esperienze percettive del destinatario» che forse si potrebbero considerare, includendo altri processi ermeneutici, “forme di integrazione” perché in gioco vi è appunto la capacità del destinatario, del fruitore (sia esso lo scrittore o il lettore stesso) di colmare le lacune della descrizione con l’immaginazione e con gli altri sensi, o, molto più spesso, con le proprie preconoscenze culturali e artistiche. Una tecnica cui Filostrato ricorre costantemente, attraverso le sinestesie e le spiegazioni mitologiche, ma anche grazie al coinvolgimento sensibile del fruitore. Anche in questo caso, sia pure solo a livello esemplificativo giacché i piani dell’integrazione esattamente come quelli della dinamizzazione spesso si sovrappongono, potremmo proporre uno schema chiarificatore (fig. 3). Che la dinamizzazione delle immagini sia la via maestra del retore Filostrato è dimostrato da scene come quelle descritte negli Amori o nella Palude dove l’uso del tempo presente non lascia adito a dubbi: «Intorno a questa barriera gli Amori incitano alla corsa gli uccelli sacri, adorni di freni d’oro: uno rilascia le redini, l’altro le stringe, uno le tira di lato, quest’altro ha già passato il segno e riprende il giro. Mi pare di sentirli che esortano i cigni, scambiando minacce e offese, come si legge sui volti. Uno sta disarcionando il vicino, l’altro vi è già riuscito, questo ha voluto smontare dal suo destriero per tuffarsi. Intorno alla riva si sono raccolti i più abili cantori tra i cigni: intonano, immagino, il nomo ortiano, che è appropriato a simili dispute. Il giovane alato che vedi serve a mostrare che gli uccelli stanno cantando: è Zefiro, il dio che dona il canto ai cigni» (1.9). Filostrato anima i personaggi dipinti e nel testo che racconta l’incipiente metamorfosi delle Eliadi enfatizza la contemporaneità di sguardo e azione: «Ed ecco che accade sotto i miei occhi: il soffio del vento sfiora i cigni, come se fossero dei veri strumenti. Le Eliadi rimangono sulla riva: non hanno ancora smesso di essere donne, ma pare che a forza di piangere si siano tramutate in alberi, e che in questa forma ancora versino lacrime» (1.11)61. Un procedimento simile adotta quando gli preme sottolineare la profonda drammaticità dell’azione come nella ÉKPHRASIS Forme di integrazione Sinestetica suono, olfatto, tatto ecc. Ermeneutica Traspositiva Associativa prosopopea (le immagini parlano) (il fruitore interroga) quello che lo scrittore e/o l’osservatore e/o il lettore sanno l’mmagine come setting della narrazione (esplicito/implicito) giustapposizione, combinazione ecc. di più immagini Fig. 3 Il “fantasma” delle Immagini 121 concitatissima e certo cinematografica caccia al cinghiale (1.28), o nella descrizione della morte di Ippolito (2.4) o della lotta mortale di Arrichione (2.6)62. Dallo schema delle descrizioni che più sopra abbiamo esplicitato appare chiaro però che la tecnica delle “integrazioni” è quella in cui Filostrato eccelle. L ’ impianto pedagogico delle Immagini lo induce a non lesinare tecniche di seduzione che vanno dalle più semplici sinestesie e prosopopee, volte a illudere i sensi, alle più acute Nacherzählungen dei miti greci, retaggio di un’ermeneutica del mito raffinata, per quanto – come è stato notato – non priva di errori. Alle integrazioni sinestetiche Filostrato fa costantemente ricorso, non privando le sue immagini di fascino sensuale e a volte esplicitamente erotico. Tutti i sensi sono coinvolti, dall’olfatto al tatto, dal gusto all’udito. Il testo è attraversato da odori e voci soprattutto, che costituiscono prove di realtà più efficaci di quelle offerte dalla vista e illusioni irresistibili. Citiamo qui di seguito gli esempi più tipici: «oso affermarlo, dipinte hanno profumo di rose vere» (1.2); «come cimbali mandano lo stesso suono» (1.2); «sentirai i buoi muggire… la siringa risuonerà…» (1.12); «com’è dolce e soave il suo alito, Dioniso! Ha il profumo delle mele o dell’uva? Ce lo dirai al tuo primo bacio» (1.15); «parrebbe di sentire il loro canto di vittoria, il grido evoè sembra uscire dai loro petti ansimanti» (1.18); «si direbbe proprio che gli acini rappresentati nella pittura siano maturi al punto giusto e gonfi di succo» (1.31); «Ma la dea non vuole sembrare dipinta, e allora si stacca in rilievo e sembra quasi che la si possa toccare» (2.1); «ci permette di udire l’inno che le ragazze cantano senza sosta» (2.1); «e forse potremmo ascoltarla parlare greco» (2.5). La sinestesia si rivela dunque la via maestra per richiamare nella mente del lettore esperienze condivise che rafforzino il patto ecfrastico. Tali sinestesie, oltre a stimolare l’immaginazione del fruitore, rappresentano una costante e programmatica trasgressione dei confini tra realtà e finzione, tra pittura e mondo reale. Più volte Filostrato allude a un’interazione completa tra i due mondi paralleli: «Il dolce profumo che esala dal frutteto non giunge fino a te? Il tuo olfatto è forse pigro? Sì? Allora ascolta con attenzione, le mie 122 Michele Cometa parole ti porteranno l’odore dei frutti» (1.6). Infrazione che non è solo affidata alla vista o all’olfatto, ma spesso coinvolge gli altri sensi, persino il tatto. Come nel racconto fantastico romantico63 i dipinti sono in Filostrato soglie verso una realtà altra, visiva e verbale insieme, un mondo parallelo che è quello dell’immaginazione, ma non per questo è meno reale o consistente. E così il maestro incita il fanciullo a raccogliere «nella piega della […] veste il sangue che scorre dalla ferita» (1.4), o a non assistere alla tragedia di Amimone «perché il flutto già si ripiega avvolgendo la sposa: è un’onda blu dai toni d’azzurro, ma è di porpora che Poseidone presto la tingerà» (1.8), o, ancora a dare «la caccia in compagnia degli Amori» a una lepre che si agita nel dipinto (1.6) e a tacere per non svegliare il satiro che dorme catturato nell’ebbrezza dal re Mida (1.22). Del resto lo sguardo del fruitore va educato e “introdotto” lentamente nell’immagine. L’occhio deve «penetrare» (1.4) nel quadro – si legge in una delle prime descrizioni – e deve imparare a distinguere i piani del dipinto man mano che il fruitore li attraversa con il proprio corpo. Né Filostrato trascura quella che può essere considerata una forma particolare di sinestesia poiché fa appello all’udito del lettore: si tratta della prosopopea, che Filostrato però applica, per così dire, nelle due direzioni. A volte sono i personaggi dipinti a parlare, come quando ascolta insieme al giovane le parole di Apollo: «Vuoi sapere cosa dice? Ho l’impressione non soltanto di vederlo parlare, ma di comprendere ciò che dice attraverso la sua immagine. Sta per fare a Maia questo discorso: “sono vittima di tuo figlio, questo bimbo che ieri hai messo al mondo ha precipitato in un abisso ignoto le giovenche che erano la mia gioia, ma anche lui morirà, perché intendo precipitarlo in un abisso ancora più profondo”» (1.26). A volte è egli stesso a rivolgersi ad alta voce all’immagine rafforzando l’illusione di un possibile transito in una realtà altra: «Per chi suoni il flauto, Olimpo? A che serve la musica nella solitudine?» (1.20). Si tratta di qualcosa di più di una domanda retorica se, più avanti nel testo, il retore si rivolge direttamente a Narciso (1.23), al solito alludendo alla propria posizione. Proprio come Narciso che vuole parlare con l’immagine riflessa nella fonte, il retore parla con il dipinto che Il “fantasma” delle Immagini 123 gli sta dinnanzi: «Credi forse che la fonte prenderà a conversare con te?» (1.23) grida a Narciso che lo ignora. Tutte le domande rimangono senza risposta, come nei Cacciatori (1.28), anche se lo sprone che dà ai Pigmei affinché annientino Eracle sembra esser ascoltato. Un vertice assoluto è poi ancora una volta costituito dalla “proiezione” dello sguardo dell’osservatore nell’immagine, come nell’incipit della scena dei Cacciatori, in cui il fruitore e il suo compagno sono letteralmente trasposti nel quadro – come nella descrizione delle Isole – ma per di più assumono gli sguardi dei carnefici e delle vittime, in una forma di proiezione magistrale della propria psiche in quella dei personaggi: «Aspettate a superarci, o cacciatori, non incitate i vostri cavalli a briglia sciolta. Lasciateci piuttosto indovinare i vostri intenti e scorgere la preda che inseguite. Date la caccia a un cinghiale, dite, e infatti vedo i danni procurati dall’animale: ha sradicato gli olivi, strappato le viti, al suo passaggio non resta un solo fico, una mela, neppure un fiore di melo. Ha devastato ogni cosa: qui ha scavato, lì si è gettato riverso per terra, fregando il dorso sulle piante. Vedo il pelo irsuto, il fuoco che getta dagli occhi, sento lo stridore dei denti con cui vi minaccia, cacciatori coraggiosi. Animali come questo hanno un udito straordinario, grazie al quale avvertono da lontano il rumore di una squadra in marcia. La bellezza di questo giovane vi ha sedotto, e ora che lo inseguite, siete diventati sue prede. È per lui che avanzate verso il pericolo. Perché allora siete tanto vicini da poterlo toccare? Perché i vostri occhi si volgono su lui solo? Perché i vostri cavalli sono così stretti gli uni agli altri? Sento che l’illusione è perfetta: ho l’impressione di vedere non figure dipinte, ma uomini veri che si muovono, spinti dal loro amore, perché mi prendo gioco di loro come se davvero mi sentissero, e immagino di cogliere la loro risposta» (1.28). E non si tratta soltanto di un coinvolgimento nella scena. Il patto ecfrastico arriva al punto che il retore coinvolge gli spettatori in una caccia in cui non si vede affatto la preda, ma solo gli effetti che essa lascia sulla vegetazione. In questa ékphrasis non vi è dunque nulla più da vedere, la cosa principale – il cinghiale – programmaticamente si sottrae alla vista, dei cacciatori, del retore e degli astanti, ma non per questo è meno vividamente presente nella scena. 124 Michele Cometa Il patto ecfrastico non conosce dunque limiti, come non ne conosce l’immaginazione, anche se, a volte, è reso possibile dalle preconoscenze del fanciullo (e di noi lettori), tanto che Filostrato non si astiene da appelli diretti: «tu non ne ignori certo la ragione» (1.5) si dice a proposito dei doni del Nilo, «tu sai di certo…» (1.6), fino a smascherare la propria tecnica ammettendo il ricorso al mito che fonda la pittura e dunque, opportunamente citato, ce ne consegna un’interpretazione. Nella lunga descrizione delle Isole Filostrato ricorre alla più esplicita delle integrazioni ermeneutiche quando scrive: «L ’ isola vicina, ragazzo mio, ci regala uno spettacolo meraviglioso: in tutta la sua ampiezza cova un fuoco sotterraneo che rigurgita fiamme attraverso le fenditure e le caverne come se fossero dei canali, e questa lava terribile forma grandi fiumi di fuoco che si riversano in mare gorgogliando. Ecco la ragione di questo fenomeno. Il suolo dell’isola ha la stessa natura dell’asfalto e dello zolfo: attaccata dai flutti, l’isola è battuta dai venti che vengono dal mare e accendono questa materia combustibile. La pittura si conforma al racconto dei poeti, che con un mito ci spiega l’eruzione dell’isola. Un gigante vi fu precipitato un tempo, ma poiché ancora non periva, un’isola scagliata su di lui avrebbe dovuto fargli da prigione: eppure non cede, e ancora lotta sotto terra lanciando minaccioso torrenti di fuoco. Così fanno anche Tifone, in Sicilia, e qui in Italia Encelado: giganti su cui pesano continenti e isole, che non sono ancora morti eppure non smettono di morire […]. Ecco cosa si vede: Zeus scaglia la folgore sul gigante che pur essendo allo stremo delle forze confida sempre nel soccorso della terra. Ma la terra è trattenuta da Poseidone, che le impedisce di intervenire, e rinuncia alla lotta. L ’ artista ha avvolto la scena nella nebbia, in modo che sembra appartenere più al passato che al presente» (2.17). Come si vede Filostrato abbozza dapprima una spiegazione parascientifica e poi ricorre decisamente al mito offrendo per altro una forma specifica di Nacherzählung mitologica tipica della scrittura ecfrastica64. È questa “narrazione postuma” una variazione che consapevolmente lo scrittore adotta per visualizzare proprio quei dettagli che il dipinto mostra ma che non erano perspicui nelle versioni precedenti del mito. Per questo – come abbiamo dimostrato in Il “fantasma” delle Immagini 125 altra sede – Marie Luise Kaschnitz racconta nuovamente il celebre episodio di Elpenore arricchendolo di particolari figurativi che era possibile scorgere solo nelle pitture vascolari greche, le quali – secondo un circuito cui ha dedicato pagine molto importanti Károly Kerényi65 – stavano alla base degli stessi racconti mitologici. L ’ integrazione ermeneutica si sposa poi perfettamente con quella associativa, una tecnica che produce effetti di visualizzazione proprio accostando immagini meno note a immagini più note, come quando per descrivere l’isola sconosciuta che ha davanti agli occhi nell’immagine dipinta Filostrato la paragona alla valle di Tempe (2.17). L ’ integrazione ermeneutica o associativa dell’immagine dipinta risponde ovviamente a una sorta di “logica del riconoscimento”, sulla quale si fonda il fascino di ogni narrazione. Filostrato ne è consapevole se tralascia i particolari quando si tratta di miti ben noti o afferma: «Ma ogni uomo è in grado di riconoscere l’argomento della pittura» (2.34). 4. Sguardi. Non stupisce, dopo quanto detto, che il testo di Filostrato si configuri, al pari dei capolavori del genere ecfrastico, come una “drammaturgia di sguardi”. Già alle scaturigini della pittura occidentale si pone il fondamento formale del suo destino: articolare, al di qua e al di là della superficie dipinta, una corrispondenza tra gli sguardi intradiegetici e gli sguardi extradiegetici. Non a caso l’autore che più di tutti ha studiato i fondamenti antropologici dell’immagine, Hans Belting, propone oggi una “iconologia dello sguardo”66, un percorso ermeneutico che sia in grado di definire la struttura di questa drammaturgia. Già nel prologo Filostrato stabilisce il primato dello sguardo in pittura. Compito della pittura non è solo quello di articolare colori e ombre, cui pure dedicherà ampio spazio nel testo, ma «mostrare negli sguardi l’ira, il dolore, la gioia» (Prologo). Si tratta non di una mera aspirazione fisiognomica ma della volontà di dare «agli sguardi la brillantezza che li contraddistingue… sguardi che la pittura sa rendere fervidi, glauchi, neri» (Prologo). Al punto che nella sua ékphrasis non mancano, tra le tipiche raccomandazioni ai pittori, – uno dei modi di 126 Michele Cometa cui la descrizione si serve per instaurare un dialogo con l’immagine – quella secondo cui gli artisti «devono elaborare con cura il volto dei personaggi […]: senza di loro le pitture sono cieche» (Prologo). Per questo ciò che lo attira dapprima in un dipinto è lo sguardo dei personaggi, quello di «Capaneo che percorre con disprezzo le muraglie e i merli» (1.23), quello di Andromaca che si posa pieno di erotismo e gratitudine su Perseo (1.29), quello della baccante «fisso nel vuoto» in cui «si riflette senza sosta un pensiero d’amore» (2.17) per Sileno, o quello, infine, inevitabilmente «selvaggio e infido» (2.18) di Polifemo che si strugge tuttavia per Galatea i cui «occhi sono una meraviglia: lo sguardo come perduto sembra raggiungere i limiti estremi del mare» (2.18). Sguardi che si inseguono da un testo all’altro, sguardi dolci e innamorati, come quelli di Narciso (1.23) cui Filostrato dedica pagine indimenticabili che per altro hanno una chiara funzione metatestuale, o terribili e assassini come quelli di Forba (2.19) e di Medusa (1.29). Ma soprattutto sguardi raddoppiati e corrisposti come quando, con la consueta commistione tra realtà e finzione il retore quasi si riconosce nello sguardo di una folaga che «presta i suoi occhi ai gabbiani» (2.17) per evitare che i loro piccoli vengano catturati dai cacciatori. O, nella capitale scena dei Cacciatori, con un gioco di specchi davvero singolare Filostrato raddoppia la scena scorgendo nel dipinto stesso figure che guardano come se osservassero un dipinto. È il caso del giovane cacciatore che ha appena scagliato il giavellotto e rimane al centro di uno specchio d’acqua mentre i «compagni, incantati, lo ammirano come se fosse dipinto» (1.28). Gran parte delle indicazioni che il vecchio retore dà sono destinate a focalizzare lo sguardo del giovane: «rivolgi invece lo sguardo verso Afrodite» (1.6), «esamina innanzi tutto la lira, per vedere se la rappresentazione è esatta» (1.10), «osserva, ragazzo mio…» (1.17), «abbiamo sotto gli occhi» (1.28). Ma è significativo, tuttavia, che questa propedeutica alla visione si basi anche sulla capacità di distanziarsi dalle pitture. Già nella prima descrizione, dedicata allo Scamandro, il retore si trova costretto a “distrarre” lo sguardo del fanciullo per meglio rappresentargli la narrazione omerica cui il dipinto si ispira. Quasi che il non-vedere la pittura predisponga per Il “fantasma” delle Immagini 127 una superiore sophia, quella del mito. Distrazione che diverrà una costante di questa propedeutica se si pensa che la maggior parte delle ékphrasis è inframezzata da richiami mitologici per lo più omerici. È stato giustamente detto che Filostrato costruisce il dipinto quasi fosse una scena teatrale67 e, essendo una scena teatrale muta, gli sguardi non possono che divenire i protagonisti assoluti del dialogo tra i personaggi. Nell’ampio affresco che è la descrizione del Bosforo, e in particolare nella concitata scena della pesca del tonno, questa drammaturgia raggiunge una complessità mai vista prima, poiché coinvolge i fruitori e i personaggi del dipinto insieme: «Ma ecco il metodo migliore: un uomo capace di contare e dotato di vista eccellente rimane in osservazione in cima a una pertica. Bisogna che tenga gli occhi fissi sul mare e che il suo sguardo raggiunga le più grandi distanze possibili. Quando vede i tonni entrare nella sua zona, ha bisogno di una voce possente per avvertire i pescatori che stanno nelle altre barche: dice quante migliaia di tonni conta il branco, e allora gli altri, sbarrando la strada ai tonni e avvolgendoli con una rete che scende in profondità fanno una pesca magnifica, buona per arricchire il padrone della flotta. Guarda la pittura, perché ora vedrai tutti questi dettagli. La sentinella tiene gli occhi fissi sul mare per stimare il numero dei pesci. Nel verde brillante dell’acqua, i pesci si distinguono per il colore: i più vicini sembrano neri, i successivi lo sono meno, la terza schiera già si sottrae alla vista, poi è solo un’ombra, poi si confondono con l’acqua, poi bisogna indovinarli perché lo sguardo perde la sua nettezza a mano a mano che scende sotto le onde» (1.13). È stato del resto notato che i pescatori e i cacciatori sono solo le controfigure di colui che descrive: «la pesca, come la caccia di 1.28, è dunque in Filostrato – ha scritto Filippo Fimiani – meta-poetica e meta-testuale; è cioè rappresentazione della performance della visione in generale e della visione sulla pittura, del percorso scritto dello sguardo. Meglio: è la rappresentazione del processo di reperimento, di disposizione e lettura del voler-dire dei segni certi e incerti, dell’uposemainein dei sumbola e degli ainigmata. I pescatori o i cacciatori sono i luogotenenti del nostro sguardo attento, dello sguardo 128 Michele Cometa del “noi” che Filostrato forma ed educa nelle Eikones (il narratore e il fanciullo, noi come spettatori e lettori). Anzi: cacciatore e pescatore sono le vedette, l’avanguardia dell’avventura del nostro sguardo iperattivo, l’acme e la punta della mira del nostro occhio ipertrofico, quasi una protesi del nostro organo della vista, l’estremità del toccare da lontano del vedere e del dire»68. Ma il vertice assoluto di quello che giustamente Andrea L. Carbone chiama “pathos dello sguardo” lo si ha in una delle descrizioni del paesaggio della seconda parte. Chi conosce i destini dell’ékphrasis occidentale sa che il suo corrispettivo si trova molti secoli più tardi in un altro incunabulo questa volta dell’ékphrasis moderna che sono i Salons di Diderot69. Come Diderot rivitalizzerà la scrittura ecfrastica nel Settecento attraversando “di persona” i paesaggi di Vernet, Filostrato attraversa il mare – qualcuno ha pensato che potesse trattarsi del mare delle Eolie – cogliendo con lo sguardo in campo lungo, a volte lunghissimo, la teoria delle isole felici che si dispiega nel dipinto. Ci troviamo di fronte ad una forma di “dinamizzazione” – la tecnica maestra dell’ékphrasis come abbiamo ricordato – che in una mirabile sintesi anima insieme gli sguardi dei fruitori, i loro corpi e persino lo scrittore. Tutti e tre si lasciano coinvolgere in un viaggio fantastico all’interno dell’immagine. Una dinamizzazione che, in una perfetta sintesi, trascolora in un’integrazione traspositiva, giacché il dipinto diviene nel contempo il setting della descrizione. Non solo lo sguardo si muove nello spazio del dipinto ma il dipinto stesso diviene una complessa scenografia che, nel caso specifico, sintetizza alcune delle più straordinarie visioni delle “isole fortunate” allora note70. La pedagogia del retore è in questo caso completamente esplicita e fonda per così dire un genere dell’ékphrasis di lunghissima durata. Val la pena di riportare diffusamente il passo: «Vuoi, ragazzo mio, che ti parli di queste isole come se viaggiassimo in nave dall’una all’altra, in primavera, quando Zefiro spande il suo alito sulle onde dando al mare un aspetto ridente? È il mare stesso, lo vedi, che ti chiama a lasciare la riva: non si gonfia né si scatena, ma non è neppure piatto e addormentato. Asseconda le manovre dei marinai, come animato da un alito di Il “fantasma” delle Immagini 129 vita. Ecco che già siamo a bordo, se sei d’accordo, non credi? – E il ragazzo risponde: non chiedo di meglio, spieghiamo le vele. – Il mare, come vedi, si stende lontano, disseminato di isole che a dire il vero non somigliano a Lesbo, Imbro o Lemno. A vederle così modeste, così piccole, si direbbe che siano villaggi, scali, o magari fattorie disposte sul mare. La prima è scoscesa, inaccessibile, naturalmente fortificata, e innalza fino al cielo le sue cime, da cui Poseidone sorveglia l’orizzonte. Vi sono ruscelli che diffondono ovunque la freschezza delle acque, e le montagne sono coperte di fiori che nutrono le api…» (2.17). La descrizione continua per qualche pagina, inframezzata dalle consuete annotazioni mitologiche e dai repentini avvicinamenti dello sguardo che alternano minuti dettagli a campi lunghi in una sorta di ripresa cinematografica. Del resto la narrazione mima i modi di una lunga carrellata su personaggi mitologici – i giganti, Zeus, Pan e le ninfe – immaginando persino delle inquadrature vantaggiose per cogliere le scene nella loro totalità, come quando il retore suggerisce al ragazzo di immaginarsi sulla «cima della montagna» (2.17) o lo invita a puntare uno sguardo telescopico su una baccante insidiata da Sileno, una scena capitale del voyeurismo ecfrastico. Questa alternanza tra sguardo dall’alto e telescopia, questa ossessione topologica dello sguardo in Filostrato, è del resto ciò che rende il testo uno dei luoghi fondamentali della “teoresi” occidentale71. Qui Filostrato di fatto costruisce il proprio capolavoro ecfrastico. Nel viaggio per mare tra le isole della felicità si integrano a perfezione tutte le forme di dinamizzazione che abbiamo esposto in precedenza: innanzitutto delle immagini (Zeus che scaglia la folgore, la baccante che, sotto i nostri occhi, lancia sguardi innamorati a Sileno, i taglialegna operosi), poi del processo compositivo, giacché Filostrato si sofferma sulle ragioni del pittore, e infine dei due fruitori (e noi lettori con loro) che letteralmente si imbracano per solcare il mare che divide le isole. Né mancano integrazioni ermeneutiche e associative, giacché – come abbiamo visto – Filostrato ci facilita la comprensione delle scene citando il mito o riconducendo l’ignoto al noto, i paesaggi delle isole alla Tessaglia o alla Sicilia. Né infine mancano integrazioni sinestetiche, spinte questa volta al 130 Michele Cometa limite della prosopopea se Filostrato può annunciare che Proteo «è venuto» (2.17) per spiegarci cos’è l’“isola d’oro” e le ragioni delle sue copiose sorgenti72. Ma ciò che definisce più d’ogni altra cosa la strategia ecfrastica di questo capolavoro è certamente quello che con Mitchell potremmo definire il “patto comunicativo” che s’instaura tra il retore e il bambino di dieci anni che viene introdotto ai misteri della pittura e della scrittura, dell’immagine e del mito. È significativo che il retore esordisca con un “come se” («come se viaggiassimo in nave da una all’altra», 2.17), ma chieda esplicitamente al giovane la sua complicità: «Ecco che già siamo a bordo, se sei d’accordo, non credi?» (2.17). Ecco il patto di collaborazione che presiede ad ogni ékphrasis. Senza di esso il baratro tra il verbale e il visuale è destinato a non colmarsi mai. Perché si dia un’ékphrasis è necessario che il narratore e lo spettatore, qualunque sia la loro collocazione nella finzione o nella realtà, decidano di abbandonarsi all’immaginazione, di lasciarsi coinvolgere in una “visione” comune. È solo nell’immaginazione che i due momenti dell’ékphrasis si lasciano – sia pure solo provvisoriamente – cogliere insieme. In altra sede abbiamo parlato, utilizzando un’immagine di Roland Barthes, dell’ovvio e dell’ottuso dell’ékphrasis. Sappiamo che l’ovvio del verbale è insieme l’ottuso del visuale. E viceversa. Ma nel patto ecfrastico riusciamo a vedere, sia pure per un solo momento epifanico, contestualmente entrambi gli aspetti, altrimenti inconciliabili. Filostrato sembra intuirlo quando ci concede, nel testo, di vedere «di taglio» le due facce dello scudo di Rodogune. Una visione impossibile, come è impossibile vedere insieme le due facce di una stessa medaglia, ma necessaria, se sin dai tempi di Filostrato il pensiero occidentale ha inteso mettere in scena con l’ékphrasis l’irriducibile reciprocità di verbale e visuale. Il “fantasma” delle Immagini 131 NOTE 1. Da ultimo si vedano le considerazioni di J. Crary, Nineteenth-Century Visual Incapacities, in J. Elkins (a cura di), Visual Literacy, Routledge, New YorkLondon 2007, pp. 59-76, in particolare le pp. 72 ss. e, in un contesto più ampio, ma non meno privo di suggestioni, F. Vitale, Spettrografie. Jacques Derrida tra singolarità e scrittura, Il Melangolo, Genova 2008. 2. Se ne veda l’edizione italiana in J.W. Goethe, Saggi sulla pittura, a cura di R. Venuti, Artemide, Roma 2005. 3. Sulla cesura imposta dal Laocoonte di Lessing mi permetto di rimandare oltre che alla mia edizione del testo (Laocoonte, a cura di M. Cometa, consulenza per le fonti classiche di G. Spatafora, Æsthetica edizioni, Palermo 2000, seconda edizione riveduta), anche al mio saggio: Die Tragödie des Laokoon. Drama und Skulptur bei Goethe, in B. Witte, M. Ponzi (a cura di), Goethes Rückblick auf die Antike, Schmidt, Berlin 1999, pp. 132-160. 4. A Keats è dedicato il fondamentale saggio di Leo Spitzer sull’ékphrasis, uno dei punti di non ritorno della critica novecentesca. Cfr. L. Spitzer, «The ‘Ode on a Grecian Urn,’ or Content vs. Metagrammar», in Id., Essays on English and American Literature, a cura di A. Hatcher, Princeton University Press, Princeton 1962, pp. 67-97. Spitzer, anticipando Krieger, parla di «poetic description of a pictorial or sculptural work of art» (ibidem, p. 72). 5. In particolare, anche per una storia della ricezione, si veda Philostratos, Die Bilder, sulla base dei lavori preparatori di Ernst Kalinka, curate, tradotte e commentate da O. Schönberger, Ernst Heimeran Verlag, München 1968, passim. 6. Sul “pictorial turn/iconic turn” mi permetto di rinviare alla mia Postfazione a W.J.T. Mitchell, Pictorial turn. Saggi di cultura visuale, a cura di M. Cometa, :duepunti edizioni, Palermo 2008. 7. È un’espressione che W.J.T. Mitchell usa in Picture Theory: Essays on Verbal and Visual Representation, University of Chicago Press, Chicago 1994, pp. 154 ss. 8. O. Walzel, Wechselseitige Erhellung der Künste, Reuther & Richard, Berlin 1917. 9. J.H. Hagstrum, The Sister Arts. The Tradition of Literary Pictorialism and English Poetry from Dryden to Gray, University of Chicago Press, Chicago 1958. È significativo che Hagstrum, proprio per non confondere il piano delle Eikones con quello della tradizione ecfrastica più tarda, parli di “poesia iconica” (iconic poetry): «I justify this usage of the word “iconic” to refer to literary description of works of graphic art by the example of Lucian and Philostratus who called their works in this genre eikones. They use it of their own prose; I have extended the usage to poetry […]. I use the noun “ecphrasis” and the adjective “ecphrastic” in a more limited sense to refer to that special quality of giving voice and language to the otherwise mute art object. My usage is ethimologically sound 132 Michele Cometa since the Greek noun and adjective come from ekphrazein, which means “to speak out”, “to tell in full”. It should be clear that my usage is more limited than the usual one […]. The Oxford Classical Dictionary defines it as “the rhetorical description of a work of art” […]. For Saintsbury, if we confine ourselves to the vocabulary of the ancients, an ekphrasis is that which achieves enargeia» (ibidem, p. XXII, nota 34). 10. R.W. Lee, Ut Pictura Poesis, The Humanistic Theory of Painting, New York, Norton, 1967 (Ut Pictura Poesis, Sansoni, Firenze 1974). 11. W. Steiner, The Colors of Rethoric, University of Chicago Press, Chicago and London 1982. 12. U. Weisstein, Einführung in die vergleichende Literaturwissenschaft, Kohlhammer, Stuttgart 1968; Id., Zur wechselseitigen Erhellung der Künste, in H. Rüdiger (a cura di), Komparatistik. Aufgaben und Methoden, Kohlhammer, Stuttgart 1973, pp. 152-165 e I. Hoesterey, U. Weisstein (a cura di), Intertextuality. German Literature and Visual Art from the Renaissance to the Twentieth Century, Camden House, Columbia S C 1993. 13. L ’ opera fondamentale di M. Krieger, Ekphrasis. The Illusion of Natural Sign, Johns Hopkins University Press, Baltimore-London 1991 è preceduta da un importante saggio in cui questi fa i conti con la tradizione lessinghiana. Cfr. M. Krieger, Ekphrasis and the Still Movement of Poetry, or Laokoön Revisited, in F.P.W. McDowell (a cura di), The Poet as Critic, Northwestern University Press, Evanston 1967, pp. 3-26, ora in Ekphrasis. The Illusion of Natural Sign, cit., pp. 263-288. Su Krieger: G. Raaberg, Ekphrasis and the Temporal/Spatial Metaphor in Murray Krieger’s Critical Theory, «New Orleans Review», 12 (1985), pp. 34-43. 14. J. Heffernan, Ekphrasis and Representation, «New Literary History», 22 (1991), pp. 297-316 e Id., Museum of Words. The Poetry of Ekphrasis from Homer to Ashbery, University of Chicago Press, Chicago 1993. 15. W.J.T. Mitchell, Ekphrasis and the Other, «South Atlantic Quarterly», 91 (1992), pp. 695-719. Di seguito questo saggio sarà citato dalla versione compresa qualche anno più tardi in Picture Theory. Essays on Verbal and Visual Representation, cit., pp. 151-181. 16. In realtà Krieger sa benissimo di procedere ad un allargamento del campo semantico dell’ékphrasis che comprende adesso tutta la tradizione che va dalle Immagini di Filostrato alla poesia ecfrastica moderna: «Hagstrum, trying to be ethimologically faithful to the word ekphrasis, uses this word more narrowly than I do […]. To be true to the sense of “speaking out”, he restricts it “to that special quality of giving voice and language to the otherwise mute art object”. The other descriptions of spatial works of art, those that are not made to “speak out” he merely calls “iconic” even as he admits this is a narrower use of ekphrasis than that of his predecessors […]. Since I confess from the start that I intend to broaden poetry’s ekphrastic propensities, it would be expected that I also am using Il “fantasma” delle Immagini 133 ekphrasis here to include what Hagstrum calls “iconic” as well as what he calls “ekphrastic”» (ibidem, p. 7). 17. M. Krieger, Ekphrasis and the Still Movement of Poetry, or Laokoön Revisited, cit., p. 265. 18. J. Heffernan, Ekphrasis and Representation, cit., p. 299: «ekphrasis is the verbal representation of grapich representation». 19. Cfr. R. Webb, Ekphrasis Ancient and Modern: The Invention of a Genre, «Word & Image», 15 (1999), pp. 7-18 e sul versante della descrizione l’ormai classico Ph. Hamon, Du descriptif, Hachette, Paris 1993. 20. A dire il vero preceduta, già nel 1988, da W. Harms (a cura di), Text und Bild. Bild und Text. DFG-Symposion 1988, Metzler, Stuttgart 1990. 21. Per una distinzione tra queste forme di interazione tra verbale e visuale mi permetto di rimandare al mio Letteratura e arti figurative: un catalogo, «Contemporanea», 3 (2005), pp. 15-29. 22. J. Heffernan, Museum of Words, cit., p. 300. E ancora: «I have tried to distinguish ekphrasis from pictorialism and iconicity, but I see no reason to close its borders against any kind of writing that is explicity concerned with a work of art, and unless representation requires the absence of the thing represented, a picture title is a verbal representation of the picture» (ibidem, p. 303). La questione dei “titoli” delle opere d’arte visiva è questione particolarmente spinosa. In fin dei conti essa potrebbe rappresentare il “grado zero” dell’ékphrasis, una forma embrionale di descrizione che per altro, come vedremo più avanti, “integra” l’opera visiva e la rende partecipe di un orizzonte ermeneutico più ampio. Heffernan, con ragioni che vanno considerate, nella sua opera più tarda tende a sottolineare che l’ékphrasis è sempre un momento “secondo” rispetto alla creazione dell’opera d’arte visiva e che dunque i titoli apposti dagli stessi artisti vanno visti come parti integranti dell’opera e non costituisco un’ékphrasis secondaria (ibidem, p. 194, nota 23). Distinguere i due momenti appare però difficile se si considera – come ha insegnato Mitchell – ogni opere visiva fortemente condizionata da esperienze verbali e dunque, congenitamente, un “mixed medium”. 23. M. Krieger, Ekphrasis and the Still Movement of Poetry, or Laokoön Revisited, cit., passim. 24. Sul carattere “infinito” di questa tensione tra verbale e visuale mi sono soffermato a partire da Foucault in Modi dell’ékphrasis in Foucault, in M. Cometa, S. Vaccaro (a cura di), Lo sguardo di Foucault, Meltemi, Roma 2007, pp. 39-62. 25. M. Krieger, Ekphrasis. The Illusion of Natural Sign, cit., p. 22. Su questa “infinita relazione” si veda anche G. Shapiro, The Absent Image: Ekphrasis and the ‘Infinite Relation’ of Translation, «Journal of Visual Culture», 6 (2007), pp. 13-24. 26. W.J.T. Mitchell, Spatial Form in literature: Toward a General Theory, «Critical Inquiry», 6 (1980), pp. 539-567. Questo saggio sarà poi ripubblicato all’interno 134 Michele Cometa della raccolta curata dallo stesso Mitchell, The Languages of Images, University of Chicago Press, Chicago 1980. 27. W.J.T. Mitchell, Spatial Form in Literature: Toward a General Theory, cit., p. 545. 28. W.J.T. Mitchell, Picture Theory: Essays on Verbal and Visual Representation, cit., pp. 83 ss. 29. W.J.T. Mitchell, Spatial Form in literature: Toward a General Theory, cit., p. 566: «Instead of Lessing’s strict opposition between literature and the visual arts as pure expressions of temporality and spatiality, we should regard literature and language as the meeting grounds of those two modalities, the arena in which rhythm, shape, and articularity convert babbling into song and speech, doodling into writing and drawing». 30. W.J.T. Mitchell, Picture Theory: Essays on Verbal and Visual Representation, cit., p. 157. 31. Ibidem, p. 163. 32. M. Krieger, Ekphrasis. The Illusion of Natural Sign, cit., pp. 232 ss. dove parla di un “semiotic desire” represso in nome della natura! 33. J. Hollander, The Poetic of Ekphrasis, «Word & Image», 4 (1988), pp. 209-219. 34. W.J.T. Mitchell, Picture Theory: Essays on Verbal and Visual Representation, cit., p. 160. 35. Ibidem, p. 89. E ancora più esplicitamente «One will, above all, be constrained to take on the subject of the image/text, not as a kind of luxury “option” for the amateur, the generalist, or the aesthete, but as a literal, material necessity dictated by the concrete forms of actual representational practices […]. The image/text problem is not just something constructed “between” the arts, the media, or different forms of representation, but an avoidable issue within the individual arts and media. In short, all arts are “composite” arts (both text and image); all media are mixed media, combining different codes, discursive conventions, channels, sensory and cognitive modes» (ibidem, pp. 94-95). 36. Ibidem. È questo il presupposto da cui si muove tutta la ricerca filosofica di Gottfried Boehm, il teorico dell’«iconic turn», che sta studiando, una volta accertata la consistenza filosofica e gnoseologica delle immagini, una «Logik der Bilder». Si veda l’epocale dibattito tra Mitchell e Boehm stimolato da Hans Belting in H. Belting (a cura di), Bilderfragen: Die Bildwissenschaften im Aufbruch, Fink, München 2007, pp. 27 ss. Per una ricostruzione dell’itinerario teorico di Boehm si veda ora Wie Bilder Sinn erzeugen. Die Macht des Zeigens, Berlin University Press, Berlin 2007. 37. G. Boehm, H. Pfotenhauer (a cura di), Beschreibungskunst - Kunstbeschreibung. Ekphrasis von der Antike bis zur Gegenwart, Fink, München 1995. Molti degli esiti di questa ricerca tedesca sono adesso disponibili nella collana curata da G. Boehm, G. Brandstetter e K. Stierle presso l’editore Fink di Monaco di Baviera 38. Storia dell’arte che nel frattempo si dotava di importanti riconsiderazioni Il “fantasma” delle Immagini 135 della questione dell’ékphrasis intesa questa volta come questione precipua della cultura visuale delle diverse epoche. Su ciò si vedano almeno gli studi di Svetlana Alpers, Describe or Narrate? A Problem in Realistic Representation, «New Literary History», 8 (1976), pp. 15-41 e Id., Ekphrasis and Aesthetic Attitudes in Vasari’s Lives, «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 23 (1960), pp. 190-215 nonché quelli di Max Baxandall, Painting and Experience in Fifteenth Century Italy, Oxford University Press, Oxford 1972 (Pittura ed esprienze sociali nell’Italia del Quattrocento, Einaudi, Torino 1978); Id., Patterns of Intention, Yale University Press, Yale 1983 (Forme dell’intenzione. Sulla spiegazione storica delle opere d’arte, Einaudi, Torino 2000) e Id., The Language of Art History, «New Literary History», 10 (1979), pp. 453-465. 39. Nel quale vanno almeno ricordate due opere fondamentali sull’ékphrasis della Goethezeit come quelle di H. Pfotenhauer, Um 1800. Konfigurationen der Literatur, Kunstliteratur und Ästhetik, Niemeyer, Tübingen 1991 e di E. Osterkamp, Im Buchstabenbilde. Studien zum Verfahren goethischer Bildbeschreibungen, Metzger, Stuttgart 1991. Un precursore di questi studi sulla Kunstbeschreibung è Bernhard Dieterle, Erzählte Bilder. Zum narrativen Umgang mit Gemälden, Hitzeroth, Marburg 1988. Si cfr. inoltre: U. Fix, H. Wellmann (a cura di), Bild im Text-Text und Bild, Winter, Heidelberg 2000; K. Fiedl, I. Fiedl (a cura di), Kunst im Text, Stroemfeld, Frankfurt a.M. - Basel 2005, C. Meister, Legenden. Zur Sichtbarkeit der Bildbeschreibung, Diaphanes, Zürich-Berlin 2005. 40.Si cfr. L. Louvel, Texte/Image. Images à lire, textes à voir, Presses Universitaires des Rennes, Rennes 2002; J. Labarthe-Postel, Littérature et peinture dans le Roman Moderne. Une rhéthorique de la vision, L ’ Harmattan, Paris 2002; J. Morizot, Interfaces: texte et image. Pour prendre du recul vis-à-vis de la sémiotiques, Presse Universitaires de Rennes, Rennes 2004; B. Vouilloux, La Peinture dans le texte X V I I I e – X X e siécles, C N R S Editions, Paris 2005. 41. I capiscuola di questa rinnovata attenzione per la visualità vanno considerati Max Milner e Philippe Hamon. Del primo si vedano almeno La Fantasmagorie. Essai sur l’optique fantastique, P U F , Paris 1982 (La fantasmagoria. Saggio sull’ottica fantastica, il Mulino, Bologna 1989) e L’Envers du visible. Essai sur l’ombre, Seuil, Paris 2005. Di Hamon: Expositions, littérature et architecture au X I X e siècle, José Corti, Paris 1989 (Esposizioni: Letteratura e architettura nel X I X secolo, trad. it. di M. Giuffredi, prefazione di M. Di Puolo, Clueb, Bologna 1995); Imageries. Littérature et image au XIXe siècle, José Corti, Paris 2007 e La letteratura, la linea, il punto, il piano, in R. Coglitore (a cura di), Cultura visuale. Paradigmi a confronto, :duepunti edizioni, Palermo 2008, pp. 63-79. 42. U. Eco, Les sémaphores sous la pluie, in Id., Sulla letteratura, Bompiani, Milano 2002, pp. 191-214. 43. C. Segre, La pelle di San Bartolomeo. Discorso e tempo dell’arte, Einaudi, Torino 2003 e Id., Pittura, linguaggio e tempo, Monte Università, Parma 2006. 136 Michele Cometa 44.P.V. Mengaldo, Tra due linguaggi. Arti figurative e critica, Bollati Boringhieri, Torino 2005. 45. M. Praz, Mnemosine, parallelo tra la letteratura e le altre arti (1971), S E , Milano, 2008. Il testo rappresentò all’epoca della sua pubblicazione la tempestiva ed innovativa risposta italiana agli studi di Hagstrum e di Lee. 46. Sul piano della riflessione teorica si vedano in Italia anche gli studi di M. Carboni, L’occhio e la pagina. Tra immagine e parola, Jaca Book, Milano 2002. Ampie ricognizioni storiche sono quelle effettuate in A. D’Amelia, F. Di Giovanni, L. Perrone Capano (a cura di), Scritture dell’immagine. Percorsi figurativi della parola, Liguori, Napoli 2007; R.S. Crivelli, Lo sguardo narrato: Letteratura e arti visive, Carocci, Roma 2003; A. Valtolina (a cura di), L’immagine rubata. Seduzioni e astuzie dell’ékphrasis, Bruno Mondadori, Milano 2007. 47. Cfr. J. Hollander, The Poetics of Ekphrasis, «Word & Image», 4 (1988), p. 209. John Hollander è anche autore di una più recente opera dedicata all’ékphrasis, dal titolo The Gazer’s Spirit: Poems Speaking to Silent Works of Art, University of Chicago Press, Chicago 1995, dove riprende la distinzione tra “notional” e “actual”. 48. Sullo “scudo di Achille” si vedano i saggi di A.S. Becker che costituiscono ormai un punto di riferimento della ricerca sull’ékphrasis: Reading Poetry through Distant Lens: Ecphrasis, Ancient Greek Rhetoricians, and the Pseudo-Hesiodic “Shield of Heracles”, «The American Journal of Philology», 113 (1992), pp. 5-24; Sculpture and Language in Early Greek Ekphrasis: Lessing’s Laocoon, Burke’s Enquiry, and the Hesiodic Description of Pandora, «Arethusa», 26 (1993), pp. 277-293; The Shield of Achilles and the Poetics of Homeric Description, «The American Journal of Philology», 111 (1990), pp. 139-153. 49. O molto più semplicemente perché alcune opere d’arte vanno perdute e le loro descrizioni diventano l’unico modo per avvicinarci ad esse. Cfr. J. Hollander, The Gazer’s Spirit: Poems Speaking to Silent Works of Art, cit., pp. 34 ss.. 50. J. Hollander, The Poetics of Ekphrasis, cit., p. 209. 51. K. Lehmann-Hartleben, The Imagines of the Elder Philostratus, «The Art Bulletin», 23 (1941), pp. 16-44. 52. Philostratos, Die Bilder, cit., pp. 41 ss. 53. Se ne vedano alcuni esempi in Philostratos, Die Bilder, cit., nell’appendice iconografica. 54. Ibidem, pp. 51 ss. 55. Di solito più di uno tanto da indurre gli interpreti, a cominciare da Caylus, a deprecare la disorganicità delle pitture. Quasi replicando all’accusa che gli avrebbe mosso molti secoli dopo il Conte di Caylus – Filostrato stabilisce il principio che la «quantità degli oggetti non costituisce affatto un impedimento alla verità» (1.12) purché l’artista sappia armonizzare tante parti come se si trattasse di un «solo oggetto». Oggi per altro sappiamo che alcune di queste pitture avrebbero potuto essere composte da più scene sovrapposte o giustapposte – come nei Il “fantasma” delle Immagini 137 fumetti – e questo avrebbe autorizzato Filostrato a descrivere sequenze di azioni molto lunghe e complesse. Sullo “stile continuo” delle immagini di Filostrato si cfr. le considerazioni di Schönberger in Philostratos, Die Bilder, cit., pp. 37 ss. 56. A. Lesky, Bildwerk und Deutung bei Philostrat und Homer, «Hermes», 75 (1940), pp. 38-53. 57. Sulle Immagini come scena primaria della filosofia ha scritto pagine molto convincenti F. Fimiani, Forme informi. Studi di Poetiche del visuale, Il Melangolo, Genova 2006, pp. 33-75 al quale rimandiamo per una più ampia considerazione della “teoresi” di Filostrato. Di Fimiani si veda anche Lo sguardo parlato, in A. Somaini (a cura di), Il luogo dello spettatore. Forme dello sguardo nella cultura delle immagini, Vita e Pensiero, Milano 2005, pp. 27-52 che costituisce una variazione del saggio più sopra citato. 58. Sulle elencazioni cfr. U. Eco, Les Sémaphores sous la pluie I e II, «Golem. L ’ indispensabile», 7-8 (2002) «http://www.golemindispensabile.it/index.php?_idnodo=8702» e « http://www.golemindispensabile.it/index.php?_idnodo=7450». Eco ha sviluppato in questo saggio in formato digitale le considerazioni già svolte in Sulla letteratura, cit. 59. Le istruzioni per i pittori costituscono una forma di ékphrasis tra le più diffuse. Su ciò si cfr. innanzitutto J. Hollander, The Gazer’s Spirit: Poems Speaking to Silent Works of Art, cit., p. 23. 60.U. Eco, Les sémaphores sous la pluie I e II, cit., passim. 61. Va notato che Filostrato privilegia queste metamorfosi, perché sono la prova che anche un’immagine può vivere ed “agire” come un racconto. Cfr. Ch. Michel, Die ‘Weisheit’ der Maler und Dichter in den Bildern des älteren Philostrat, «Hermes», 102 (1974), pp. 457-466. 62. Un discorso a parte, che esula dai compiti di questa postfazione, sarebbe una discussione delle scene di morte del testo, assai numerose e culminanti nella considerazione – parecchio significativa dal punto di vista della storia dell’estetica – che la descrizione della morte e in fin dei conti la morte stessa non ha nulla di orroroso. Anzi i volti degli eroi, prima contratti nella sofferenza o nella lotta, subiscono una sorta di trasfigurazione di cui la pittura è complice. Si prenda il caso di Ippolito in cui il retore si rivolge agli astanti e all’eroe stesso esclamando: «Ma come sei bello, nonostante tutto. Non sapevamo ancora che la bellezza fosse invulnerabile: non solo non ha abbandonato il giovane, ma trae persino dalle ferite una certa grazia» (2.4). Nella descrizione immediatamente successiva – fatto che ci conferma nella convinzione di un’elaborazione per così dire trasversale dei singoli testi – Filostrato esordisce con una scena d’orrore, dove persino il sangue e i cadaveri producono piacere all’occhio (2.5). Più avanti Pantea quasi risplende trasfigurata nella morte (2.9). 63. Su ciò mi permetto di rimandare alla mia tipologia dell’ékphrasis romantica contenuta in Descrizione e desiderio. I quadri viventi di E.T.A. Hoffmann, Meltemi, Roma 2005. 138 Michele Cometa 64. Sulla Nacherzählung mi permetto di rimandare al mio Dipingere il mito, in M. Cometa, Parole che dipingono. Letteratura e cultura visuale tra Settecento e Novecento, Meltemi, Roma 2004, pp. 56 ss. 65. Ibidem, p. 50. 66. H. Belting, Per una iconologia dello sguardo, in R. Coglitore (a cura di), Cultura visuale. Paradigmi a confronto, cit., pp. 5-27. Sulla centralità del “gaze” nella riflessione della visual culture contemporanea si vedano almeno N. Bryson, Vision and Painting. The Logic of Gaze, Yale University Press, New Haven 1983 e K. Silvermann, The Threshold of the Visible World, Routledge, New York-London 1996. In Italia si vedano almeno F. Curi, La forza dello sguardo, Bollati Boringhieri, Torino 2004 e A. Somaini (a cura di), Il luogo dello spettatore. Forme dello sguardo nella cultura delle immagini, Vita & Pensiero, Milano 2005. 67. Ad esempio J. Hagstrum, The Sister Arts. The Tradition of Literary Pictorialism and English Poetry from Dryden to Gray, cit., p. 30: «Philostratus looks upon verbal expression as painterly, but he also considered paintings literary. Philostratus reads paintings as though they were dramas. He reconstructs their fables, myths, and even geographical details; he makes them speak and even act». Filostrato è perfettamente consapevole di questo procedimento se nella descrizione dedicata a Cassandra può scrivere: «Se consideriamo la scena, ragazzo mio, siamo nel bel mezzo di una tragedia; se invece osserviamo la pittura, mille dettagli ci colpiscono gli occhi» (2.10). Stephen Beall ha interpretato anche questo passaggio come una chiara indicazione del fatto che la descrizione è ermeneuticamente più ricca persino della scena teatrale (Word-Painting in the ‘Imagines’ of the Elder Philostratus, «Hermes», 121 (1993), pp. 350-363). 68. F. Fimiani, Forme informi. Studi di Poetiche del visuale, cit., p. 45. 69. Sull’ékphrasis di Diderot, oltre al sempre fondamentale August Langen, Die Technik der Bildbeschreibung in Diderots “Salons”, «Romanische Forschungen», 61 (1948), pp. 324-397, si veda K. Berri, Diderot’s Hieroglyphs, «SubStance», 92 (2000), pp. 68-93. 70. Se ne veda l’analitica ricostruzione in K. Lehmann-Hartleben, The Imagines of the Elder Philostratus, cit., passim. 71. Si vedano le osservazioni topologiche di F. Fimiani, Forme informi. Studi di Poetiche del visuale, cit., pp. 54 ss. 72. Nell’incipit dei Cacciatori il retore riporta quello che i cacciatori dicono sul cinghiale selvaggio: «Date la caccia a un cinghiale selvaggio, dite…» (1.28). Atlante delle immagini 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 1. Jean-Baptiste Deshays, Hector exposé sur les rives du Scamandre, Musée Fabre, Montpellier [Immagini 1.1]. 2. Lorenzo Costa, Il regno del dio Como (Studiolo di Isabella d’Este), Louvre, Parigi [1.2]. 3. Sir Roger L ’ Estrange, illustrazione da Fables of Æsop: and other eminent mythologists, with morals and reflexions, R. Sare, London 1694 [1.3]. 4. Francesco Albani, Venere (La primavera), Galleria Borghese, Roma [1.6]. 5. Nicolas Poussin, Bacchanale de putti, Galleria Nazionale d’Arte Antica, Roma [1.6]. 5. Guido Reni, Lotta di putti, Galleria Doria Pamphilj, Roma [1.6]. 7. Pieter Paul Rubens, Venere, Kunsthistorisches Museum, Vienna [1.6]. 8. Tiziano Vecellio, La festa di Venere, Prado, Madrid [1.6]. 9. Bernard Picart, Memnon, in Michel de Marolles, De Tempel der Zang-Godinen, Amsterdam, 1732 [1.7]. 10. Geremia Discanno, Nettuno e Amimone (Pompei, Casa della Regina Margherita), Deutsches Archäologisches Institut im Rom, Roma [1.8]. 11. Elisabeth LouiseVigée Le Brun, Anfione, collezione privata [1.8]. 12. Johann Liss, The Fall of Phæton, Denis Mahon Collection, Londra [1.11]. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 13. Pieter Paul Rubens, Caduta di Fetonte, National Gallery of Art, Washington D C [Immagini 1.11]. 14. Gustave Moreau, Jupiter et Sémélé, Musée Gustave Moreau, Parigi [1.14]. 15. Giulio Carpioni, Arianna abbandonata, Pinacoteca Civica di Castello Sforzesco, Milano [1.15]. 16. Antoine Coypel, Bacchus et Ariane, Ermitage, San Pietroburgo [1.15]. 17. Jacob Jordaens, Bacco e Arianna, Museum of fine arts, M. Theresa B. Hopkins Fund, Boston [1.15]. 18. Charles Le Brun, Thésée abandonnant Ariane, collezione privata [1.15]. 19. Jean Raoux, Bacchus et Ariane, Fondazione Ugo e Olga Levi, Venezia [1.15]. 20. Guido Reni, Bacco e Arianna, Los Angeles County Museum of Art, Los Angeles [1.15]. 21. Eustache Le Sueur, Bacchus et Ariane, Museum of Fine Arts, Boston [1.15]. 22. Tiziano Vecellio, Bacco e Arianna, Prado, Madrid [1.15]. 23. Alessandro Turchi, Bacco e Arianna, Ermitage, San Pietroburgo [1.15]. 24. Giulio Romano, Pasiphae, Palazzo T e, Mantova [1.16]. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31. 32. 33. 34. 35. 36. 25. Charles Gleyre, La Danse des bacchantes, Musée Cantonal des Beaux-Arts, Losanna [Immagini 1.18]. 26. Nicolas Poussin, Mida e Bacco, Schloß Nymphenburg, Monaco di Baviera [1.22]. 27. Caravaggio, Narciso, Galleria Nazionale d’Arte Antica, Roma [1.23]. 28. Jean Broc, La Mort de Hyacinthe, Musée Sainte-Croix, Poitiers [1.24]. 29. Jacopo Zanguidi Bertoja, Baccanale degli Andri, collezione privata [1.25]. 30. Pieter Paul Rubens, Gli Andri, Nationalmuseum, Stoccolma [1.25]. 31. Tiziano Vecellio, Baccanale degli Andri, Prado, Madrid [1.25]. 32. Piero di Cosimo, Perseo libera Andromeda, Museo degli Uffizi, Firenze [1.29]. 33. Charles-Antoine Coypel, Persée délivrant Andromède, Musée du Louvre, Parigi [1.29]. 34. François Le Moine, Persée et Andromède, Wallace collection, Londra [1.29]. 35. Pierre Mignard, La Délivrance d’Andromède, Musée du Louvre, Parigi [1.29]. 36. Rembrandt Harmenszoon van Rijn, Andromeda, Mauritshuis, L ’ Aia [1.29]. 37. 38. 39. 40. 41. 42. 43. 44. 45. 46. 47. 48. 37. Pieter Paul Rubens, Perseo e Andromeda, Ermitage, San Pietroburgo [Immagini 1.29]. 38. Anton van Dyck, Andromeda incatenata, Los Angeles County Museum of Art, Los Angeles [1.29]. 39. Carle Van Loo, Perseo e Andromeda, Ermitage, San Pietroburgo [1.29]. 40. Giorgio Vasari, Perseo libera Andromeda, Studiolo di Francesco I, Palazzo Vecchio, Firenze [1.29]. 41. Paolo Veronese, Perseo libera Andromeda, Musée des Beaux-Arts, Rennes [1.29]. 42. Giovanni Battista Cipriani, Chirone educa Achille al tiro con l’arco, Philadelphia Museum of Art, Philadelphia [2.2]. 43. Pieter Paul Rubens, La morte di Ippolito, Fitzwilliam Museum, Cambridge [2.4]. 44. Jacob Jordaens, Pan punito dalle ninfe, Mauritshuis, L ’ Aia [2.11]. 45. Pollaiolo, Ercole e Anteo, Museo degli Uffizi, Firenze [2.21]. 46. Lucas Cranch der Jüngere, Der erwachte Herkules vertreibt die Pygmäen, Staatliche Kunstsammlungen Dresden, Dresda [2.22]. 47. Gustave Moreau, Diomède dévoré par ses chevaux, Musée des Beaux-Arts, Rouen [2.25]. 48. Jean-Baptiste Marie Pierre, Diomède tué par Hercule est dévoré par ses propres chevaux, Musée Fabre, Montpellier [2.25]. Indice dei nomi Abdera 86, 87 Abradate 67, 68 Achei 30, 58, 64 Acheloo 46, 48 Achille 23, 58, 59, 64, 65 Acropoli 76, 88 Adrasto 50 Adriatico 74 Afareo 73 Afrodite 29, 40, 57, 58 Agamennone 58, 65, 69, 70 Agave 42 Aiace di Locri 65 Aiace Telamonio 65, 71, 72 Alcioni 73 Alfeo 41, 55, 63 Amazzoni 60, 62 Amimone 30, 31 Amori 27, 28, 29, 32, 40, 65, 91 Andro 48, 49 Andromeda 53, 54 Anfiarao 25, 50, 51 Anfione 33 Antedone 73 Anteo 82, 83, 84 Antigone 89, 90 Antiloco 64, 65 Apollo 33, 48, 50, 51, 80, 81 Araspe 67 Arcadia 41, 92 Archiloco 25 Argo (nave) 72 Argo (mostro) 84 Argo (città) 90 Arianna 38, 39 Arione di Tenaro 44 Aristodemo di Caria 22 Aristone 26 Armeni 61, 62 Armonia 42, 43, 57, 80 Arrichione 63, 64 Artemide 53, 61 Asia 23, 35 Assiria 38, 68 Astrape 38 Atena 88 Atene 39, 54, 76, 88, 91 Ateniesi 40, 67, 76, 88, 89 Atlante 81, 82 Atlantico 53 Atridi 65 Atteone 38 Attica 50 Aurora 29, 30 Axio 67 Babilonia 91 150 Filostrato Baccanti 38, 39, 42, 43, 46, 49, 77 Balio 59 Beozia 80 Borea 73 Bosforo 35, 36, 72 Bracci 26 Briseide 58 Bronte 38 Cadmea 50, 90 Cadmo 38, 42 Caistro 34 Capaneo 25, 50, 68, 89, 90, 91 Cassandra 69, 70 Cefiso 67, 80 Chirone 58, 59 Ciclopi 79 Cillene 44 Ciro 67, 68 Citerone 38, 42 Clitemnestra 69, 70 Cloto 55 Colco 73, 76 Como 24, 25, 49 Corinzi 74 Coroneo 86 Creonte 26 Creso 67, 68 Creta 39, 53 Criteide 65, 66 Daifanto 71 Danao 30 Davo 25 Dedalo 39, 40 Delfi 80 Dia 38 Diomede 41, 86 Dioniso 38, 39, 42, 43, 44, 46, 48, 49, 56, 76, 77 Dioscuri 73 Dodona 73, 93 Driadi 92 Eacidi 73 Ebe 82 Eco 42, 70, 77, 93 Edipo 25, 89 Efesto 23, 27, 88 Egeo 30, 55, 71, 74 Egisto 69 Egitto 27, 72 Egizi 26, 30, 72 Elea 64 Eliadi 34, 35 Elle 73 Encelado 76 Enio 90 Enipeo 65, 67 Enomao 41, 54 Eracle 73, 81, 82, 83, 84, 85, 86, 87 Eridano 34 Erinni 85, 90 Ermes 33, 49, 50, 83, 92 Eros 36, 54, 58, 69, 86 Esiodo 89 Esopo 25 Esperidi 76, 82 Eteocle 90 Etiopi 29, 30, 53, 54 Etiopia 27, 30, 53, 54 Ettore 50, 58, 65, 72 Eumelo 22 Euripide 84 Euristeo 81, 84 Europa 23, 35, 75 Evadne 90, 91 Fedra 60 Fenici 52 Fetonte 34, 35 Flegi 80 Focide 80 Forba 80 Frigia 35, 45 Frisso 73 Galatea 79, 80 Giacinto 47 Giasone 73 Giri 71, 72 Immagini Glauco 72, 73 Gorgone 54 Gran Re (Dario) 91 Greci 64 Grecia 63, 91 Gyros 74 Helli 93 Hello 93 Hieron 36 Iliade 23 Ilio (Troia) 23, 58, 71 Imbro 75 Imetto 71 Inaco 31 India 53 Ino 74 Ionia 65, 66, 67 Ippodamia 41, 55 Ippolito 60, 61 Ippomedonte 89, 90 Iris 88 Issione 60 Istmo 74 Istro 34, 37, 48 Itaca 65 Italia 22, 76 Lacedemoni 63 Laconia 53 Lecheo 74 Lemno 75 Lesbo 58, 75 Leucotea 74 Libia 82 Licambe 25 Lidi 41, 55 Lidia 38, 43, 45, 54, 67, 68, 69 Linceo 73 Lindo 85, 86 Locri 53, 65, 71 Maia 49, 50 Malta 79 Mar Rosso 53 Marone 43 151 Maronea 43 Marsia 44 Medi 91, 92 Media 52 Megara 84 Megera 38 Mele 65, 66 Melicerte 74 Memnone 29, 30, 64, 65 Meneceo 25, 26 Menelao 64, 65 Meotide 37 Mida 45, 46 Mirtilo 41 Muse 33, 38, 67, 80 Naiadi 60, 66, 70 Napoli 22 Narciso 46, 47 Neocle 91 Nereidi 66, 74, 75 Nilo 26, 27, 30, 48, 72 Ninfe 27, 29, 44, 46, 51, 61, 70, 71, 88 Nisa 62 Oceano 35, 52, 67 Olimpia 81, 92 Olimpo 44, 49, 50 Olmeio 67 Omero 23, 25, 30, 49, 58, 64, 65, 67, 89, 93 Ore 34, 45, 49, 93, 94 Orfeo 72, 73 Oropo 51 Pafo 58 Palemone 44, 74 Palestra 82, 92, 93 Pan 38, 39, 43, 70, 71 Pantea 67, 68, 69 Parche 67 Paride 58 Partenopeo 89 Pasifae 39, 40 Patroclo 23, 58, 64, 65 Pattolo 48 Peitho 41 152 Filostrato Peleo 30 Pelio 60 Pelope 41, 54, 55 Pelopidi 54 Peloponneso 41 Penelope 88, 89 Peneo 48, 67, 72 Penteo 38, 42 Perseo 53, 54 Persia 92 Persiani 61, 67 Pigmei 83, 84 Pindaro 70, 71, 86 Pito 93 Polifemo 79 Polinice 25, 50, 89, 90 Ponto 36, 37, 72 Poseidone 27, 30, 31, 41, 54, 55, 65, 71, 72, 74, 75, 79 Pramno 88 Priamo 58, 69 Prometeo 85 Proteo 78 Protesilao 68 Pudore 57 Rea 71 Riso 49, 81 Rodi 85, 88 Rodogune 61, 62 Saffo 57, 58 Salamina 91 Scamandro 23, 58, 70 Semele 38 Senofonte 67 Seri 89 Serse 92 Sicilia 76 Sileno 76, 77 Simplegadi 72 Sipilo 41 Sirene 79 Sisifo 74 Sogno 51 Sole 92 Sonno 84 Sparta 54 Taso 88 Tebe 25, 26, 33, 38, 42, 50, 90 Temistocle 91, 92 Tempe 48, 75 Teo 39 Teodamante 85, 86 Terra 82, 83 Teseo 38, 39, 60 Tessaglia 65, 72, 74, 75 Tessali 72 Tideo 65, 89, 90 Tifide 73 Tifone 76 Tiro 28, 50, 52, 65, 80, 86 Tirreni 43, 44 Tirreno 22 Titaresio 67 Titaresso 72 Tmolo 43 Tritoni 49, 80 Troia 29, 30, 69, 70 Troiani 58, 72 Ulisse 70 Urano 58 Verità 51 Xanto 59 Zefiro 32, 34, 44, 45, 48, 58, 74, 76, 80 Zeus 21, 30, 38, 50, 56, 59, 60, 66, 67, 68, 73, 75, 76, 85, 87, 88, 90, 91, 92, 93 Zeus Herkeios 85 INDICE Andrea L. Carbone La verità e il suo specchio IMMAGINI Prologo Libro I 1.1 Lo Scamandro 1.2 Como 1.3 Le Favole 1.4 Meneceo 1.5 I Bracci 1.6 Gli Amori 1.7 Memnone 1.8 Amimone 1.9 La palude 1.10 Anfione 1.11 Fetonte 1.12 Il Bosforo 1.13 Il Bosforo 1.14 Semele 1.15 Arianna 1.16 Pasifae 1.17 Ippodamia 1.18 Le Baccanti 1.19 I Tirreni 1.20 I Satiri 1.21 Olimpo 1.22 Mida 1.23 Narciso 1.24 Giacinto 1.25 Gli abitanti di Andro 1.26 La nascita di Ermes 1.27 Anfiarao 1.28 I cacciatori 1.29 Perseo 1.30 Pelope 1.31 I doni ospitali 5 19 21 23 23 24 25 25 26 27 29 30 31 33 34 35 36 38 38 39 41 42 43 44 44 45 46 47 48 49 50 51 53 54 55 156 Libro II 2.1 Coro di ragazze 2.2 L'educazione di Achille 2.3 Le donne centauro 2.4 Ippolito 2.5 Rodogune 2.6 Arrichione 2.7 Antiloco 2.8 Mele 2.9 Pantea 2.10 Cassandra 2.11 Pan 2.12 Pindaro 2.13 Giri 2.14 La Tessaglia 2.15 Glauco dio del mare 2.16 Palemone 2.17 Le isole 2.18 Il ciclope 2.19 Forba 2.20 Atlante 2.21 Anteo 2.22 Eracle tra i Pigmei 2.23 Eracle furioso 2.24 Teodamante 2.25 I funerali di Abdera 2.26 Doni ospitali 2.27 La nascita di Atena 2.28 Le tele 2.29 Antigone 2.30 Evadne 2.31 Temistocle 2.32 Palestra 2.33 Dodona 2.34 Le Ore Note al testo Filostrato 57 57 58 60 60 61 63 64 65 67 69 70 70 71 72 72 74 74 79 80 81 82 83 84 85 86 87 88 88 89 90 91 92 93 93 95 Michele Cometa Il “fantasma” delle Immagini 107 ATLANTE DELLE IMMAGINI 140 INDICE DEI NOMI 149 Finito di stampare nel mese di ottobre 2008 per i tipi della Legatoria Manna – Rende (C S ) per conto di :duepunti edizioni – Palermo