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Secondo i cinesi ch5 Gli anni Novanta

SECONDO I CINESI POLITICA INTERNA E INTERNAZIONALE NELLA STAMPA CINESE CONTEMPORANEA (2006-2009) A CuRA DI STEfANO CAMMELLI TRADuZIONI A CuRA DI ANNA ZANOLI POLONEwS PAPER - 2009 Edizioni Viaggi di Cultura Conway srl Bologna, 2009 ISBN 987-88-903818-0-5 2 SECONDO I CINESI POLITICA INTERNA E INTERNAZIONALE NELLA STAMPA CINESE CONTEMPORANEA a cura di Stefano Cammelli traduzioni a cura di Anna Zanoli Polonews Paper - 2009 3 4 Indice PREfAZIONE 8 PARTE PRIMA DALLA CADUTA DELLA BANDA DEI QUATTRO AL XVI CONGRESSO DEL PCC (1981-2002) INTORNO A TIENANMEN 12 VERSO TIENANMEN (1981-1989) 30 Le riforme di Deng e l’“amor patrio” SuL NAZIONALISMO CINESE Ambiguità di una deinizione I Boxer 39 Sun Yatsen 41 Giappone 44 Il nazionalismo come schermo Rivoluzione culturale e Vietnam 30 38 38 48 50 CRESCITA, SCONTRO E TIENANMEN Il sogno di una nazione potente 54 Primavera, 1989 59 Reazione occidentale alla repressione GLI ANNI NOVANTA 71 Dopo Tienanmen: il crollo dell’URSS Rinascita del nazionalismo? 79 Non ci si può idare dell’Occidente 83 La Cina può dire “No”! 88 Crisi internazionale: Taiwan 103 Il disagio degli altri 113 Bombe sull’ambasciata cinese a Belgrado VERSO IL PRESENTE 123 Al conine con il presente 123 5 54 65 71 115 PARTE SECONDA POLITICA INTERNA E INTERNAZIONALE NELLA STAMPA CINESE CONTEMPORANEA NOTA DEL TRADuTTORE 142 IL DIBATTITO INTERNO 143 Sulla campagna di rettiica di Yan’an 143 Vita di Du Runsheng 150 Il partito e l’amministrazione 162 Il campo da golf e l’umile amministratore 165 Il primo ministro è magnanimo, il generale intelligente 168 Olimpiadi e patriottismo 173 Come rafforzare il patriottismo? 175 Il dibattito sul boicottaggio al Carrefour 178 Giovani e patriottismo 182 La manodopera cinese non è inesauribile 186 Interventi sulla struttura della proprietà della terra 191 Proprietà della terra e riforma agraria 195 La nuova riforma agraria non è una “medicina troppo forte” Storie di rivoluzionari, purghe e brodi di carne 205 La storia e gli errori del partito 213 Disoccupazione, disperazione e ribellismo 251 Lavoratori migranti e disoccupazione 259 Disoccupazione e tensione sociale 264 200 CINA E ASIA ORIENTALE 268 Analisi sul nazionalismo 268 Dimostrazioni di migliaia di persone. Coprifuoco in Birmania Il nucleare: Corea, Iran e USA 277 Bush, Putin e la Russia 280 275 CINA E STATI uNITI 287 Il Rinascimento culturale cinese e la via dello sviluppo paciico Lo spazio non è territorio degli Stati Uniti 306 287 CINA E EuROPA 310 I disordini di Parigi sono per noi come uno specchio. La cultura dell’immigrazione in Europa e USA I disordini di Parigi e le dificoltà dell’Europa La lezione dei disordini di Parigi per la Cina 326 L'Europa e i rapporti con il resto del mondo 333 L’industria italiana 337 Timori a Milano 342 La bandiera rossa a cinque stelle sventola a Milano Nuove tensioni tra Russia e Georgia 348 Solidarietà alla Russia, piena ma non dichiarata 6 310 314 318 345 354 Disordini nella scena politica ucraina Russia, Georgia e Stati Uniti 363 CINA E CuLTuRA OCCIDENTALE 365 Sostenere lo spirito della rivoluzione Il poeta Qu Yuan e la birra 369 Dare spazio alle feste tradizionali cinesi Salvaguardare la diversità culturale Tumori e occidentalizzazione 383 359 365 372 375 TIBET E MINORANZE 384 Prima della pioggia 384 Gli incidenti di Lhasa e la mobilitazione del popolo tibetano Il Tibet e le nazioni occidentali 396 L’Occidente dietro ai disordini in Tibet 399 CINA E SCELTE DI VITA 404 Diario di un clandestino 404 Mi sposo o non mi sposo? Sono tutti tirchi gli stranieri? Condannata a morte a otto anni 418 420 423 BIBLIOGRAfIA 432 7 388 G LI ANNI NOVANTA Dopo Tienanmen: il crollo dell’URSS usa dire che con il massacro di Tienanmen e la repressione del movimento degli studenti ebbe inizio un periodo di rilessione in Cina, caratterizzato da silenzi ed approfondimenti che portarono alla frammentazione del composito schieramento che aveva sostenuto le manifestazioni della primavera. Là dove la libertà economica era stata giudicata prioritaria si sarebbe sviluppata un’intensa critica al radicalismo della rivolta (Wang H., 2003, p. 78 e seguenti) sfociata nell’impegno di promuovere una più stretta relazione tra intellettuali e potere e, contestualmente, limitare il ricorso alle masse. Come nella migliore tradizione del pensiero politico cinese, le folle vennero respinte in qualche modo alle loro dimore, la discussione politica venne ristretta ai circoli uficiali. Ciò che segue a Tienanmen, coi suoi silenzi e le sue affermazioni quasi solo sussurrate, sfugge, talora in modo inesorabile. O forse non fu solo il dibattito politico a sfuggire. La repressione di Tienanmen e la forza con cui l’Occidente aveva emesso un verdetto spalancarono una voragine tra l’Occidente e la Cina. una nuova incapacità di comunicare, di entrare in sintonia, di comprendere che si trascinò per anni ed è venuta a poco a poco complicandosi, senza soluzioni di continuità. Questa volta non era il tramite linguistico a fare difetto, anzi: molti dei nuovi lettori della realtà cinese avevano una conoscenza del cinese ottima – in ogni modo superiore a quella di tutte le generazioni precedenti. Quello che accadde fu proprio il diffondersi della convinzione che non ci fosse più niente né da leggere né da sapere. Da questa certezza, iglia del clima e della violenza delle giornate del giugno 71 1989, è nata un’intera generazione di osservatori di Cina, sicuri delle proprie certezze, saldamente ancorate a tre pilastri di ovvia evidenza: inquinamento, Tibet e diritti umani. In quel 1989 l’Occidente pensò veramente che fosse giunto il momento della spallata inale; che non ci fosse nulla più da dire né con quel governo e né con quel partito. Si vide delinearsi quella che sembrò - come si è veduto - una guerra civile. Non perché lo si desiderasse, ma perché non sembrava più possibile mediazione alcuna. L’immagine che venne trasmessa in Occidente, confermata da scene ormai leggendarie come quella dello studente che cerca di fermare un carro armato, fu quella di un’insanabile rovina collettiva: non c’erano vincitori in piazza Tienanmen il giorno successivo alla repressione. Regime e protesta studentesca dovevano ripartire da zero: il primo aveva ormai i giorni contati, i secondi dovevano imparare a fare politica. E il paese era ormai sull’orlo della guerra civile. Questa - anzi - era già cominciata. Non era la prima volta, a dire il vero, che l’Occidente sposava una tesi così estrema: anche sul colpo di stato in Cile l’Europa si era detta certa che tutto sarebbe inito in pochi mesi. E tuttavia il precedente avrebbe dovuto indurre a prudenza: perché fu certamente vero che la repressione operata da Pinochet in Cile fu terribile e i morti si contarono a migliaia, ma questo non fu prova della debolezza del colpo di stato o di una dittatura destinata a durare un niente. La dittatura di Pinochet durò sedici anni: molto di più di quanto il pessimista più pessimista avrebbe mai osato pensare. Ed è evidente a tutti che nessuna dittatura può reggere un paese per sedici anni senza un minimo di supporto popolare. L’Occidente, scegliendo una posizione così estrema, andò così a inilarsi in una situazione di stallo: non essendoci nessuna istruttoria aperta ma una condanna già emessa si attese di vedere franare il regime, o esplodere nuovamente la rivolta studentesca e popolare, o il partito incartarsi da solo, in una sempre più sterile lotta per la sopravvivenza. Non giunse nessun segnale di questa natura, anzi. Dopo mesi di silenzio e di paralisi politica si espressero invece tendenze incomprensibili: la Cina stava percorrendo strade antiche. Non v’era traccia di alcun dibattito libertario né di nuove richieste di democrazia. 72 Nel giugno del 1994 giunse la notizia, subito ripresa, più inspiegabile di tutte: la nuova fortuna del culto di Mao era già balzata agli onori della cronaca. Inchieste promosse dal China Youth Daily (giugno 1994) tra i giovani lettori confermarono il dirompente successo di Mao, il più amato davanti a Zhou Enlai e Deng Xiaoping (Barmé, 1996). Per molti fu l’ennesimo mistero di un paese inafferrabile. Sfuggì il nesso tra rivolta democratica e il simbolo stesso dell’oppressione totalitaria. Come potesse Mao essere in cima alle preferenze della gioventù democratica che aveva presidiato piazza Tienanmen, a nemmeno tre anni di distanza da quel massacro. Di fronte a questo mistero si cercò di negarne l’evidenza, incolpando il regime e le sue inafidabili astuzie. Altri pensarono alla crisi post-Vietnam. Come a una generazione combattiva ed impegnata politicamente - sia in Europa che in uSA - fosse succeduta una generazione assai meno pugnace e più cinica: così si pensò di assistere a qualcosa di analogo in Cina. Nella letteratura postTienanmen iorirono le descrizioni di una Cina disincantata, cinica, inacidita: il trionfo delle business school e la sconitta della ilosoia e del maoismo. Si credette veramente che, privata della politica e di una ragionevole possibilità di espressione democratica, la protesta cinese fosse diventata fuga nell’esilio, nell’intimismo o in una ricerca del successo personale ine a sé stessa. Si fosse trasformata da battaglia politica di una società in rivincita personale su di un mondo di cui non si voleva più parlare e con cui non si intendeva più comunicare. Il denaro venne presentato così come il simbolo di una Cina nuova, senza più alcun rapporto col passato, cinica, a modo suo spietata. I giornali occidentali si popolarono di modelle cinesi, di ricchi cinesi, di sesso cinese. Ogni pulsione ideologica, ogni battaglia ideale era dunque inita - venne detto a chiare lettere - la Cina non esiste più36. Privata del naturale sbocco democratico, la Cina è diventata più occidentale dell’Occidente: successo, sesso e denaro sono gli unici valori di una popolazione disincantata. Da parte sua il potere, persa ogni veste ideologica e 36 Secondo Lucian Pye il giornalismo occidentale di questi anni vuole vedere e documenta quelli che reputa essere “i perversi limiti raggiunti da una società che è ossessionata dall’idea di fare soldi ma manca del minimo senso di orientamento morale” (Pye, 1995). 73 ogni capacità di coesione ideale, è ormai degradato in una sorta di fascismo corporativo. Non solo oggi, ma anche allora questa lettura della Cina, così frequente sulla stampa di tutto il mondo, lasciò seriamente perplessi: c’erano in queste interpretazioni contraddizioni stridenti, un venire incontro più a ciò che l’Occidente desiderava sentirsi dire che non alla realtà cinese. Il salto dalla protesta di massa alla corsa all’arricchimento individuale poteva forse avere una sua logica: ma la rivalutazione di Mao? Non basta citare l’eliminazione isica di una parte dei dissidenti, il carcere, la fuga all’estero, il rifugiarsi nelle università dell’Inghilterra e degli uSA per spiegare il crollo del movimento democratico e il trionfo di Mao. fermo restando la complessità del simbolo “Mao”, nei confronti del quale si impone grande prudenza, ci sono alcuni eventi che inluenzarono molto la Cina. L’errore compiuto - suggestiva contraddizione della storia che trascina gli osservatori esterni della Cina nelle stesse contraddizioni più vive della Cina stessa! - fu il rinchiudersi nello stesso, claustrofobico egocentrismo cinese. Come se ogni discussione in quegli anni dovesse necessariamente ruotare intorno al dilemma delle riforme e della corruzione; come se la centralità cinese non ammettesse deroghe, o discussioni. Probabilmente mai nella storia cinese una simile convinzione si rivelò così errata. In un certo senso l’era di Deng, che nella storia della Cina aveva marcato un più forte impegno di apertura verso il mondo esterno, sembrò - in quegli anni - terminare in un silenzioso rinchiudersi in sé: evitando ogni forma di discussione, in attesa che tempi migliori schiudessero nuove possibilità di dibattito. Indicativo sembrò il segnale dato dal governo: nell’anniversario della rivolta di Tieanmen “venne deciso di promuovere il patriottismo attraverso altre due commemorazioni: il 4 maggio 1919 e il centocinquantesimo anniversario della guerra dell’Oppio”. Così il tentativo di commemorare quanto accaduto l’anno prima divenne di fatto “una scusa degli occidentali per continuare a offendere la Cina ed interferire negli affari interni del paese” (Xu, 2001). furono impressioni errate, profondamente errate. Inevitabilmente 74 aperta al mondo dal massiccio ingresso degli occidentali, la Cina si accorse - come nessuno poteva prevedere - che nemmeno poche settimane dopo Tienanmen il mondo guardava da un’altra parte. In poche settimane era precipitata in una zona di profonda ombra; completamente fuori di scena e dell’attenzione internazionale. Né per la comunità internazionale né per la Cina stessa ci fu il tempo necessario per metabolizzare il senso più profondo della tragedia consumatasi in Tienanmen. Anzi: il tempo mancò proprio. Di quello che avveniva in Cina non sembrava importare più niente, a nessuno. Non poteva essere diversamente. In un incalzare quasi cinematograico, in poco più di due anni si produssero cambiamenti epocali: la caduta del muro di Berlino, quella del blocco sovietico, la disgregazione dell’uRSS. Quindi in Medio Oriente la cosiddetta prima guerra del golfo, il trattato di Maastricht in Europa e la vittoria di Clinton negli Stati uniti. Il mondo che assistette alla repressione di Tienanmen era un mondo sorretto da una bipolarità relativamente conlittuale, con Giappone ed Europa come potenze emergenti ma segnate da sostanziale mutismo internazionale. In meno di tre mesi a partire dal giugno del 1989 aveva già preso forma lo scenario attuale, segnato dalla potenza egemone e incontrastata degli Stati uniti. Il mondo cui Tienanmen si era rivolta non esisteva più. Assai signiicativamente il periodo dei grandi sconvolgimenti, al cui confronto le rivoluzioni del 1848 sembrano poco cosa - venne chiuso da un evento altamente simbolico che esercitò un’inluenza fortissima su tutta la Cina, senza differenza di regioni e di classi sociali: la mancata assegnazione a Pechino delle Olimpiadi del 2000. In una situazione di equilibrio “bi-polare” sulla loro assegnazione avrebbe inluito in modo decisivo il peso politico dell’uRSS. Nel nuovo ordine mondiale la Cina venne bocciata da quella che i cinesi giudicarono essere una città di provincia, sperduta periferia dell’impero americano. Probabilmente mai, nella storia recente della Cina, l’orgoglio e la presunzione di centralità cinese era stata umiliata così profondamente. Quando, tuttavia, si compì il “misfatto” della mancata attribuzione delle Olimpiadi del 2000 a Pechino, erano già successe nel mondo molte altre cose che segnarono in modo profondo la sensibilità cinese e il suo complesso ed infantile rapporto di amore supericiale 75 per un occidente di cui, nel complesso, ignorava quasi tutto. Non sappiamo dove avrebbe portato la rilessione su Tienanmen, forse non sappiamo nemmeno quanto avrebbe potuto resistere ancora il partito: perché già poche settimane dopo la repressione di Tienanmen il mondo venne sconvolto da cambiamenti epocali. Si produssero eventi che ancora oggi, a distanza di anni, restano centrali nelle rilessioni dei think tank cinesi come della gente comune. Mentre gli intellettuali cinesi rilettevano sulle contraddizioni interne del movimento sociale di Tienanmen, l’attenzione della Cina - come del mondo intero - venne in pochi giorni indirizzata altrove: il dramma del vicino sovietico divenne decisivo. La Cina guardò all’uRSS, a quanto stava avvenendo a Mosca e al rapporto tra ciò che i paesi occidentali dicevano e facevano. Osservò sia prima che dopo Tienanmen il comportamento di Gorbaciov e dell’Occidente, i passi annunciati, le promesse fatte, il sostegno e gli aiuti ricevuti. Quello che vide fu al tempo stesso terribile e scontato: terribile perché la distruzione dell’uRSS venne attuata - secondo i cinesi - in men che non si dica senza dare in cambio nulla; scontato perché quello che si vide confermò un caposaldo di qualunque politica estera cinese da almeno duemila anni: il disordine interno (neiluan, 内乱 ) provoca calamità esterne (waihuan, 外患): senza uno stato forte all’interno le frontiere sono indifendibili. La lezione che i cinesi trassero dalla vicenda dell’uRSS e di come riuscì a scomparire in meno di due anni spostò indietro l’orologio delle relazioni internazionali di almeno venti anni. Interrogati, molti cinesi risposero che non fu la Cina a cambiare, ma l’Occidente a gettare la maschera: nelle vicende dell’uRSS i cinesi compresero quale valore dare alle bandiere ideologiche occidentali. La Cina non restò muta osservatrice della crisi sovietica: cercò anzi - compatibilmente con le sue forze - di inluire su quelle vicende. Stretta tra la necessità di ricucire rapporti decorosi con l’Occidente e di non interferire nelle questioni interne dell’uRSS, tentò quello che le era possibile per dare una mano a Gorbaciov, pur avendo piena consapevolezza di quanto fosse distante dalle posizioni ideologiche cinesi. Centrale per i cinesi era respingere 76 l’attacco di Eltsin da una parte e dell’Occidente dall’altra37. Ci fu in quelle giornate, da parte cinese, la consapevolezza che le sorti dell’uRSS avrebbero coinvolto molto da vicino anche il futuro della Cina, non solo internazionale, ma anche l’assetto interno. Il fallimento di Gorbaciov, la sua estromissione per mano di Eltsin, e la disgregazione dell’uRSS mutarono l’orizzonte ideologico dei cinesi, democratici e non: ogni prospettiva politica interna ed internazionale dovette essere profodamente rivista. Il crollo dell’uRSS, ovvero il vedere come l’Occidente si comportò davanti alle dificoltà sovietiche, anticipò a molti ragazzi cinesi cosa sarebbe successo se in Tienanmen avessero vinto. L’uRSS apparve a molta parte del paese come un gigante che aveva creduto alle offerte occidentali, ino a illudersi che democrazia e trasparenza fossero le strade da percorrere per giungere alla modernità. Lo smembramento dell’uRSS non era ancora terminato e già ne cominciò un secondo: quello della Jugoslavia. “I diritti umani - sosterrà un libretto famosissimo di cui si parlerà tra poco38 - sono l’arma dell’Occidente per distruggere i propri avversari. Ascoltare l’Occidente nella questione dei diritti umani è la premessa perché nessuno più al mondo abbia diritti umani.” Nacque in quei giorni, con il crollo di Gorbaciov e delle sue speranze, con l’inizio della guerra di Jugoslavia e con la contemporanea Guerra del Golfo39, con i suoi macroscopici errori politici, una delusione che non si è ancora rimarginata (come si vedrà dagli articoli pubblicati in questa selezione). una delusione verso l’Occidente maturata nel peggiore dei modi: nel sogno spezzato, nella prova dell’inganno perpetrato. L’uccisione dell’uRSS e poi il suo smembramento - che molti intellettuali 37 Si veda Garver John, The Chinese communist party and the collapse of Soviet Communism (Garver, 1993).. L’autore fa largo uso di fonti riservate e secretate per dimostrare lo sforzo di Jiang Zemin di fornire una collaborazione anche economica a Gorbaciov. 38 La Cina può dire no! (Song, Zhang, Qiao, Gu, & Tang, Zhongguo keyi shuobu, 中国可以说不, 1996); vedi più avanti. 39 La Prima Guerra del Golfo, proprio perché si ergeva a difesa dei diritti di una nazione (Kuwait) occupata da un’altra (Iraq), venne combattuta sotto la bandiera dell’Onu e la Cina non si avvalse del diritto di veto. 77 cinesi attribuiscono all’agire dell’Occidente - fu la riprova in Cina e per i cinesi che non esisteva alcuna contrapposizione tra libertà e autoritarismo, tra diritti umani e compito morale dello stato. Non esisteva Occidente libero e stati dittatoriali da riformare. Non c’era alcuno scontro ideologico, nessuna battaglia di principi. Non c’erano da una parte il futuro, la democrazia, il progresso economico e dall’altra un regime vecchio e chiuso in sé stesso. Quanto avvenuto all’uRSS confermò invece le analisi del partito: la vocazione all’omicidio delle democrazie occidentali nei confronti delle altre nazioni. Gli uSA avevano usato la democrazia e i diritti umani per dividere, spezzare un rivale che ne aveva limitato l’azione e imposto il confronto. I diritti umani e la democrazia erano stati il cavallo di Troia attraverso cui gli uSA avevano raggiunto l’obiettivo di distruggere l’uRSS. Non c’è nessuna novità, si afferma: è l’antica tecnica dell’imperialismo e prima ancora del colonialismo. Quella tentata in Cina, quando le potenze occidentali tentarono di spartirsi il paese. L’Occidente respinse queste accuse: tra l’azione degli stati coloniali negli anni venti e la ine del comunismo le differenze sono troppe perché si possano fare paragoni. Il fatto è che queste analogie, giuste o sbagliate che siano, le videro - e le vedono ancora oggi - i cinesi. È in questo contesto, davanti al crollo di Gorbaciov, che la popolarità di Mao crebbe in modo quasi irrefrenabile. I suoi errori furono molti, gravi e dolorosi. Hanno salvato, tuttavia, l’unità del paese: avrà anche perso novecentomila uomini contro i cinquantamila degli americani, ma ha resistito in Corea a nemmeno un anno dalla ine della rivoluzione40. Mao è l’anti-Gorbaciov per 40 Solo pochi anni dopo, nell’ambito del dibattito sulla politica estera americana in relazione a Taiwan, queste le opinioni espresse dal prof. Chu Shulong (ricercatore del China Institute of Contemporary International Relations - CICIR e docente presso il College of International Relations di Beijing): «I cinesi ancora considerano la guerra di Corea una vittoria, in quanto una repubblica nata da appena un anno ebbe abbastanza coraggio da combattere una super-potenza che aveva appena vinto la Seconda guerra mondiale e che possedeva armi nucleari. Le forze guidate dagli Stati Uniti si stavano spingendo al conine cinese e quindi vennero fermate dai cinesi su quella linea. un rapporto di perdite di 900.000 uomini a 50.000 fu il prezzo che dovette pagare una nazione debole per proteggere sé stessa contro la più grande potenza mondiale» (Chu, 1996). 78 eccellenza: i suoi sbagli furono terribili, ma comunque cinesi. Non consegnarono il paese all’Occidente. Mao si misurò col mondo intero - dall’ONu ad ogni altra organizzazione internazionale - e seppe cosa ci si poteva attendere. Mao non illuse né sé stesso né la nazione sulla bontà degli uSA e della loro politica: seppe stanare e contrastare, anzi sconiggere l’imperialismo. Lo sfascio dell’uRSS trasformò per contrapasso Mao nel garante dell’unità del paese, del suo riscatto internazionale. Non fu un ritorno al maoismo, ma al Qiangguo meng, 强国梦 ovvero al “Sogno di una nazione potente”: unica difesa contro l’aggressività spietata e determinata dell’Occidente. Lo scenario non è così mutato in questi ultimi quindici anni: per questo pare dificile che il culto di Mao possa esaurirsi, e rientrare nelle pagine della storia del passato. La grandezza della Cina, il sogno di una nazione potente è un pilastro della cultura cinese, non lo è di una generazione o di leader di un partito in dificoltà. La grandezza della Cina - nella cultura tradizionale - fu l’ambizione di un armonioso ordine interno che rende le frontiere baluardo insuperabile. È la pace celeste, l’armonia nel Tianxia (天 下), nell’universo: essa traccia un conine tra barbarie e civiltà, tra popoli barbari e popoli civilizzati. Non è un ideale di un popolo, ma di tutti i popoli: i cinesi non reputano di essere il centro del mondo, ma che il loro modo di risolvere i problemi del mondo possa ospitarli tutti. Mao è un nulla rispetto a questo ideale universale che è connaturato alla storia cinese e l’attraversa per quasi quattromila anni. Mao è il difensore di un ordine dall’invasione dei “barbari occidentali” così come lo fu il generale Guanyu (关羽) nei confronti dei barbari del nord. E come il generale Guanyu venne divinizzato divenendo Guandi (关帝) analogo destino attende Mao: anzi nei templi di campagna è già diventato Dio e la sua statua veglia, insieme a quella di Guandi e di altri celesti immortali, sull’integrità del Tianxia cinese. È un sogno di pace e di armonia, come quelli che concludono le grandi vedute escatologiche cristiane, ebraiche, islamiche. 79 Rinascita del nazionalismo? forse non fu il primo, ma non gli si può negare di essere stato tra i primi ad accorgersi che il quadro politico era cambiato in modo irreversibile e che Tienanmen era ormai lontana anni luce. È Tiziano Terzani a cominciare a parlare di rinascita del nazionalismo cinese. Parola che era quasi assente dalla stampa e dalle ricerche specialistiche ino all’inizio degli anni ’90. In modo inatteso e forse per qualcuno sorprendente la parola viene usata con parsimonia certosina anche nella gestione della crisi e nella soluzione del problema Hong Kong. Secondo Terzani, tuttavia, non c’è un nazionalismo cinese, sono i cinesi che sono allarmati dal rinascere del nazionalismo “degli altri”: «Il mondo, visto da Pechino, sembra pieno di indicazioni in quel senso; le frontiere dell’ Ovest sono minacciate dalla riscoperta del nazionalismo e dell’ Islam da parte delle minoranze etniche, a Sud c’è la crescita democratica nei paesi limitroi e la speciica “congiura” inglese per democratizzare Hong Kong, mentre Taiwan viene riarmata dagli F.16 americani, i Mirage francesi ed il neo eletto presidente Clinton dice che gli Stati Uniti non dovranno più essere tanto compiacenti con i dittatori.» (Terzani, Il risveglio del dragone unito, 1992) La nuova ondata democratica che Terzani reputa stia allarmando la Cina viene confermata la settimana successiva: «le elezioni di questi giorni, in due Paesi in particolare, Taiwan e Corea del Sud, sono l’indicazione di una tendenza che sta cambiando la faccia del continente: la democratizzazione» 41. Il tema del nazionalismo ricompare in una intervista del gennaio del 1993 allo storico cinese Xiao Gongqin, presentato come membro di una corrente che «vuol garantire stabilità e sviluppo modernizzando il sistema dittatoriale. A tal ine propone di sostituire l’ ideologia socialista con quella nazionalista, e di trasformare il Pcc da partito rivoluzionario in partito d’ordine forte, capace 41 «L’Asia sta imparando a votare. Di per sé il fatto che la gente sia chiamata alle urne non vuol necessariamente dire una maggiore partecipazione popolare negli affari del mondo, ma le elezioni di questi giorni, in due Paesi in particolare, Taiwan e la Corea del Sud, hanno questo signiicato e sono l’ indicazione di una tendenza che sta cambiando la faccia del continente: la democratizzazione.» (Terzani, 1992) 80 d’imporre la ristrutturazione economica e la disciplina»42. L’intervistatore chiede insistentemente se sia il nazionalismo la via d’uscita necessaria del comunismo, lo storico cinese nega che il suo sia nazionalismo. usando argomentazioni che giungono ino al cuore del problema insiste nel riiuto di un termine cui il giornalista non rinuncia. «Il termine [nazionalismo] è equivoco. In Occidente il nazionalismo è una ideologia nata in risposta a reali o presunte minacce esterne, mentre qui ha un contenuto più culturale. La Cina classica non era uno Stato nazione ma una civiltà in cui la forza coesiva era la cultura, non l’ apparato pubblico. Mao volle distruggere le nostre tradizioni, lasciando un vuoto che non può esser riempito in fretta dalla cultura moderna straniera. Per dare al Paese unità e principi etici dobbiamo dunque ristabilire la continuità storica, recuperando in maniera selettiva e reinterpretando il confucianesimo, che ha fornito un sottofondo ideologico al progresso del Giappone, della Corea, di Taiwan, Singapore»43. Signiicativamente, nonostante la risposta, il corrispondente del Corriere restò del proprio parere, che riassunse nel senso più complessivo dell’articolo: il nazionalismo sta tornando in Cina. Lo storico cinese lo nega: il recupero dei valori culturali di una storia millenaria sono una cosa diversa dal nazionalismo: la deinizione è errata. È dialogo illuminante sulla mentalità con cui in quegli anni si guardava alla Cina: le domande e i problemi cui dare risposta sono sorti altrove, i fatti cinesi vengono veduti attraverso la lente deformante delle vicende russe. Così in un gioco di specchi interni alla Cina ed esterni le deinizioni “nazionalismo degli altri popoli” e “democrazia degli altri popoli” vengono posti su uno stesso piano e intesi - nonostante le reiterate negazioni dello storico cinese - come parte di uno scenario che attenta all’unità della Cina. 42 ferraro, La Cina nel suo labirinto. Oltre la muraglia. A colloquio con lo storico Xiao Gongqin, ideologo della “linea dura”, per il bene della nazione (ferraro, 1993). 43 Ibidem 81 C’è un’evidente incongruenza: non è chiaro perché la democrazia dovrebbe essere vista come un attentato all’unità del paese, invece che - piuttosto - alla centralità del Partito Comunista. Le due cose non coincidono. È naturale che in una “unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche” la crisi del potere centrale possa coincidere con lo sfaldamento dell’unione e che dunque ognuna delle Repubbliche voglia andare per proprio conto. Ma la Cina è diversa dall’uRSS, non è un’unione di Repubbliche. Si potrà valutare anche in modo molto critico la posizione della Cina sul Tibet o sul Xinjiang, ma in nessun caso si potranno paragonare queste regioni dove la presenza cinese (sia come civiltà che come politica) si è continuamente espressa dal XIII secolo (Tibet) e dal II d.C. (Xinjiang) a stati come Kasakhstan e uzbekistan, entrati nell’orbita russa solo alla ine del XIX ed inseriti nello stato russo (divenuto nel frattempo uRSS) solo con i primi anni ’2044. 44 Si veda di Mini fabio Xinjiang o Turkestan Orientale? (Mini, 1999). Si tratta di un contributo prezioso con dati importanti. Risultano però infelici alcune rapide sintesi storiche che non spostano nella sostanza i termini del dibattito politico ma che contribuiscono ad alimentare una vasta area di teorie inopportune di «popoli senza stato». Così, ad esempio, l’affermazione «Il Turkestan orientale è stato occupato dai cinesi durante la dinastia mancese dei Qing, nel 1876» è inesatta. Se si intende sottolineare la novità dell’occupazione imperiale, allora sarà bene ricordare che l’elemento nuovo è l’occupazione per opera di eserciti mancesi, gli stessi che stavano in quegli anni occupando anche la Cina. La guerra che portò all’inserimento del Turkestan nell’impero mancese dei Qing avvenne sotto il regno dell’imperatore Qianlong e viene generalmente considerata conclusa nel 1759 (non nel 1876). Se invece si intende sottolineare l’occupazione, allora è fuorviante tacere che il Turkestan era già stato parte dell’impero cinese come minimo due volte: nel corso della lunga pagina Tang (618-907) e di quella Yuan (1271-1368). Senza considerare che in epoca Ming parte del Turkestan cinese era inserito nei conini dell’impero. Volendo dunque attenerci a dati prudenti e incontestabili, nel lasso di tempo che va dal 618 al 1949, l’amministrazione cinese ha controllato in modo totale il Turkestan per quasi seicento anni. Tuttavia anche i Turchi uiguri sono un recente arrivo nel Turkestan: la loro presenza è certa - in quantità importanti - a partire dal V, forse VI secolo dopo Cristo. Su una permanenza - dunque - di quasi mille e trecento anni, quasi seicento sarebbero avvenuti all’interno dell’Impero cinese. Anche un’altra affermazione importante («Il Turkestan orientale ha avuto identità politica solo in pochi attimi della storia, insuficienti a formare un quadro di rivendicazione certo e inoppugnabile») è molto imprecisa. In quanto identità politica il Turkestan non è mai esistito. Questo, naturalmente vuol dire ben poco: nessuna nazione è un dato oggettivo, biologico. La nazione nasce quando gli intellettuali di un luogo cominciano a parlare di nazione, non prima. La storia di due non- 82 Si svela così l’assunto chiave di questa impostazione interpretativa: poiché la Cina [come l’uRSS] è una repubblica che tiene insieme nazioni diverse, ne consegue che il nazionalismo delle altre nazioni o la loro facoltà di esprimersi [la democrazia] risulterà letale per il paese. La Cina così potrà difendersi in un solo modo: rispolverando il nazionalismo. Il ragionamento sembra funzionare: una volta confusa la storia della Cina con quella dell’uRSS il più è fatto. Il nazionalismo non compare come emergenza cinese, ma come “risposta probabile a un quesito possibile” sebbene per il momento esclusivamente teorico. Se, dunque, il nazionalismo non è ancora riconoscibile in Cina viene assicurato - è perché i nazionalisti riiutano di deinirsi tali, ma (in realtà) lo sono. La svolta nazionalista è solo una questione di tempo: se non c’è ancora arriverà, non ci sono dubbi. Occorre solo attendere. Non ci si può idare dell’Occidente Nella ripresa del dibattito politico interno alla Cina la tragedia russa, le colpe di Gorbaciov, l’azione dell’occidente e il disgregarsi dell’uRSS ebbero, dunque, un peso decisivo. Non solo il boicottaggio internazionale, ma gli stessi eventi russi confermarono - agli occhi dei cinesi - di quale abbraccio mortale erano capaci gli Stati uniti e le altre potenze occidentali. Venne individuata una necessità primaria: rinforzare la Cina. Nessuna potenza occidentale, nessuna battaglia sui diritti umani sarebbe mai riuscita a distruggere la Cina se il paese fosse stato più forte e più stabile al suo interno. La parola d’ordine divenne così rinforzare il centro sulle periferie, lo stato sulle amministrazioni locali, il potere del partito su ogni altra forma di rappresentanza. Come è stato felicemente sottolineato: “In questa epoca post-Tienanmen, la discussione non riguardò tanto la necessità delle riforme, ma come fronteggiarle, in che modo” (fewsmith, 1995). Tra le considerazioni emergenti in quegli anni, il dibattito si connazioni del XIX secolo (Cina e Italia) diventate saldamente nazioni è, da questo punto di vista, illuminante. 83 centrò su come intraprendere azioni politiche nuove senza ostacolare le riforme che avevano in qualche modo dato inizio alla crescita dell’economia cinese. La politica di delegare il potere e condividere i beneici (fangquan rangli, 放权让利) aveva messo in moto una forte tendenza centrifuga: l’esperienza russa dimostrava che questa tendenza unita all’agire ostile dell’Occidente avrebbe messo a repentaglio la sicurezza nazionale e la stessa unità del paese. Timori eccessivi? Diciamo, più che altro, timori cinesi. Le rivolte del Xinjiang - da non enfatizzare ma pur sempre rilevanti - non lasciavano ben sperare. Il comportamento dei governi occidentali nei confronti del Tibet era ispirato a grande cautela, ma non quello dell’opinione pubblica europea e americana che reclamava a gran voce mire indipendentiste così decise che nemmeno il Dalai Lama osò farle sue. Che non si trattasse di un’eccezione se ne ebbe la riprova nell’aflusso ininterrotto di un turismo individuale in Tibet con il suo corredo di comunicazione diretta con la gente locale ed il suo diffondere la solidarietà di cui il Tibet godeva in tutto il mondo45. Il carattere indipendentista di questa propaganda risultò ostile al partito e incomprensibile alla maggior parte dei cinesi. Le ragioni del Tibet sono molte e nobili ma la sintesi che ne viene fatta in Europa è spesso forzata e inaccettabile. Presentare il Tibet come paese sovrano ino al 1957 quando venne occupato dai cinesi signiica ignorare la complessità di un rapporto che unì la storia della Cina al Tibet dalla metà del XIII secolo ai giorni nostri. Non è nemmeno una forzatura, è semplicemente un falso. Per tutto il 1991, mentre lo smantellamento dell’uRSS procedeva a ritmo accelerato ino al colpo di mano di Eltsin che estromise Gorbaciov (estate del 1991), queste tendenze si espressero in un dibattito alla luce del sole sulle riviste di partito o sulle riviste di natura culturale. Muovendo dalla premessa che “le teorie marxisteleniniste avevano perso molta della loro capacità di interpretare la società contemporanea e di guidare le masse cinesi” “onde evitare una tragedia di tipo sovietico la Cina aveva bisogno di adottare un 45 Il comportamento del turismo individuale venne individuato come pericoloso per la stabilità della regione e successivamente, alla metà degli anni ’90, sostanzialmente reso impossibile prima di essere quasi uficialmente interdetto. 84 programma neo-conservatore (xin baoshouzhuyi,新保守主义) in grado di enfatizzare non tanto lo scontro di classe” ma un nuovo ordine, di armoniosa convivenza tra le classi sociali cinesi, ispirato al Confucianesimo e alla tradizione nazionale (Baum, 1996). Alla ine del 1991 venne pubblicato un documento che circolava da settimane con forti critiche sia a Zhao Ziyang ed ai cosiddetti “riformatori radicali” sia a coloro che non avevano compreso la sida dei tempi contemporanei e pensavano di potersi rifugiare in uno sterile mantenimento dello status quo. Nel documento si affermava, tra l’altro, la ine della vecchia ideologia legata alla rivoluzione e la necessità di rinvigorirla con elementi tratti dalla tradizione cinese. «Ancora più importante è il fatto che si debba accettare in modo realistico che, per lo meno in alcuni settori della masse popolari, il richiamo esercitato dall’ideologia del passato è declinato, e l’unico risultato che ottiene questa mobilitazione ideologica di vecchio stampo è sollevare la voglia di ribellarsi. Nel mentre, la speciicità della situazione nazionale del paese e del suo patriottismo riesce a penetrare con facilità nel senso comune. L’alta e nobile tradizione della cultura cinese - attualmente - è esattamente ciò che può fornire alle masse popolari il segno di valori di riferimento nel campo etico e spirituale.»46 Non molto tempo dopo, un caso letterario scosse il paese e richiamò l’attenzione degli ambienti politici cinesi. un autore ignoto di nome “Leninger”, presentato come “uno dei più inluenti sinologi europei” pubblicò un testo dalle tesi politiche decisamente forti in Guardando la Cina attraverso il terzo occhio (Disanzhi yanjing kan Zhongguo, 第三只眼睛看中国)47. Tesi e temi dell’argomentare resero chiaro che dietro una rilessione di tale spessore doveva esserci l’autorità di un importante esponente del partito. Si vociferò che il leader che aveva fatto uso dell’espediente - molto tradizionale nelle letteratura cinese 46 In Giornale della gioventù cinese (Zhongguo qingnian bao, 中国青年报, 1991). Citazione tratta da (fewsmith, 1995, p. 642). 47 Il testo venne ripubblicato diverse volte a Hong Kong (Mingbao Press, 3a edizione 1994) (Wang S. , 1994). 85 - di scrivere sotto falso nome fosse lo stesso Jiang Zimin o uno dei suoi più stretti collaboratori. Per sgombrare il campo da ogni discussione Wang Shan, che nella prima edizione igurava come traduttore, denunciò sé stesso come autore e, da allora, il libro gli viene attribuito. Il saggio muoveva dalla considerazione che aveva colpito gli stessi autori del saggio Risposte praticabili e scelte strategiche per la Cina dopo il sollevamento sovietico già precedentemente ricordato. Occorreva portare subito sotto controllo il movimento dei lavoratori disoccupati, divenuti una sorta di mina vagante per la stabilità del paese. Nella storia della Cina il proliferare degli emigranti senza lavoro (liumin, 流民) aveva condotto alla rovina numerose dinastie48. Tuttavia il controllo della popolazione rurale e delle sue dificoltà, attestate da episodi di ribellismo sia nel 1992 che nel 1993, non poteva prescindere da una discussione franca sulla nuova politica del governo. Occorreva dunque ristabilire l’ordine interno ed il potere centrale dello stato, ma questo non sarebbe mai potuto avvenire in modo convincente senza “l’adozione del sistema di valori culturali legati al pensiero di Mao Zedong come fede comune di tutto il corpo sociale” (Wang S., 1994, p. 166,178 e 221). Non si trattava di un ritorno al passato, ma di combattere con tutte le armi a disposizione contro l’avvelenamento del paese per opera di principi di utilità economica capitalistica. Contro la morale del denaro che uccide la società, la priva dei suoi valori fondanti, contro questo tumore che sta trasformando la società cinese. “una società senza valori - scrive l’autore di Guardando la Cina attraverso il terzo occhio - è in perenne pericolo (Wang S., 1994, p. 211-212). 48 In realtà - soprattutto nelle statistiche uficiali - la denominazione liumin, 流民 viene giudicata troppo generica e si preferisce “popolazione in movimento” (nei testi in lingua inglese loating population, in cinese liudong renkou, 流 动人口). Tuttavia nella cosiddetta loating population rientrano anche operai in cerca di lavoro, disoccupati e, genericamente, borderline. Quando i gruppi di “popolazione in movimento” riescono - nonostante lo stretto controllo della autorità - a conquistarsi una zona di residenza (baraccopoli), allora se ne parla come di “comunità esterne al sistema” (tizhiwai qunluo, 体制外群落) (Li C., 1996). Ricchissimo di dati il Zhongguo renkou nianjian, 中国人口年鉴 (Annuario statistico della popolazione cinese). 86 Gli fa eco l’economista Yang fan in un attacco violentissimo al potere corrosivo della logica di mercato, veleno che distrugge la società e la avvilisce uniformandola sui livelli più inimi (Yang f., 1993). È noto come nel corso di questo dibattito, a partire dal gennaio del 1992, Deng Xiaoping riprese l’azione politica, rilanciò le riforme e in un memorabile - per le molte e importanti conseguenze - viaggio nel sud della Cina fece ripartire un meccanismo economico e una strategia dello stato che sembrava irrimediabilmente inceppata. I successi di Deng e della crescita economica della Cina sono al tempo stesso evidenti e sotto gli occhi degli economisti. Sul piano politico quello che maggiormente interessa il presente studio è che ciò che venne chiamato neo-conservativismo, nazionalismo, destra, ecc. si presentò agli occhi della critica come un programma di conservazione dell’unità nazionale in risposta a un temuto o reale pericolo occidentale. Elementi di forte conservazione emergono di ianco a considerazioni così critiche dal punto di vista sociale che da questa costola del pensiero cinese si tende a fare risalire una componente della nuova sinistra. Tuttavia, nei testi precedentemente ricordati, in quello che pare essere un movimento conservatore di ciò che di più antico ha la Cina, c’è un elemento nuovo e planetario. Non è il nazionalismo inteso come frontiera di gloria contro il barbaro nemico, ma è l’accento posto sul degrado di una società che sta lentamente perdendo sé stessa di fronte all’offensiva del mercato, delle riforme, del capitalismo. Mentre la stampa occidentale indugiava in ritratti della Cina tra l’improbabile e il fantasioso (ricerca del denaro e cinismo, ideologia inita e unico valore il portafoglio pieno), mentre le riviste di moda scrutavano con occhio apparentemente saputo l’evolversi della femminilità cinese, il inire della moralità rivoluzionaria e il dilagare di civetteria, le notti brave di Pechino e Shanghai, mentre le rubriche settimanali si riempivano di piccanti notizie sulle disincantate ragazzine di Pechino e lo spettro ormai vicino di Pechino e Shanghai nuove Bangkok, la Cina stava preparando una svolta ideologica che avrebbe segnato il decennio successivo e le cui conseguenze - lungi dall’essersi manifestate pienamente 87 sono il grande interrogativo del futuro. Il crollo russo spianò la strada al compattarsi di correnti che già negli anni precedenti avevano acquisito una certa vitalità: la critica all’occidente divenne aggressiva, sembrò talora acquisire caratteri nazionalistici, ospitò al proprio interno un più complesso schieramento sociale che si coagulò intorno alla comune convinzione che l’ingresso della Cina nella modernità non sarebbe avvenuto a rimorchio dell’Occidente e delle sue idee: era giunto il momento per la Cina di dire “No!”. Ancora una volta, come era già accaduto in molte altre occasioni nel corso della storia - contrariamente alla convinzione diffusa che tutto quello che riguarda Cina sia solo cinese - la Cina precedette ed anticipò una rivolta culturale che solamente tre anni dopo sarebbe esplosa, sostanzialmente identica, da Seattle a tutto il mondo. Rivendicando il diritto di entrare nella modernità senza che questo volesse dire diventare “americani”, la Cina mosse un primo passo in una direzione verso cui stavano marciando molti altri schieramenti sociali e politici, di tutto il mondo. La Cina può dire “No”! In questo progressivo sfaldamento della popolarità occidentale in Cina probabilmente non è errato indicare un turning point: un momento in cui tutto, di colpo, cambiò. La storia regala con grande parsimonia momenti decisivi: nessun evento lo è mai, completamente. Eppure nella percezione dell’Europa e degli Stati uniti in Cina c’è una data - dolorosa - che nessun cinese dimenticherà mai. una notte del settembre del 1993. Il Comitato Olimpico Internazionale doveva deliberare quella notte a quale città sarebbero state assegnate le olimpiadi del 2000. Le strade di Pechino era imbandierate: quasi ovunque svettavano scritte bilingue “una Cina più aperta attende le Olimpiadi del 2000”, “una chance per la Cina, un onore per Pechino”. Negli alberghi il personale si avvicinava agli occidentali sorridendo e abbandonando una naturale riservatezza: “Questa è la grande notte!”, veniva ripetuto a ogni istante. Qualche occidentale si univa ai festeggiamenti, ma altri, più esperti, abbassavano lo 88 sguardo, evitavano di commentare. “Questa è la grande notte!” C’era nelle strade un eccesso di illuminazione che faceva presagire i preparativi di una grande festa. In piazza Tienanmen soldati scaricavano da camion delle transenne, come se da un momento all’altro una folla immensa fosse attesa. un'eccitazione elettrica, avvertita in tutta la città: dall’occidentale nell’hall dell’albergo all’anziano ciclista. «Questa è la grande notte!». Da dove traevano tanta sicurezza i cinesi? Come potevano essere sicuri di un evento così delicato e in bilico ino all’ultimo? C’era stato sulla stampa internazionale un susseguirsi di dichiarazioni volutamente ambigue: il conine tra la legittimità della richiesta cinese di ospitare i giochi olimpici e la certezza che sarebbero stati assegnati alla Cina non era affatto nitido, anzi. Solo gli osservatori occidentali residenti a Pechino si mostravano molto freddi: Tienanmen era troppo vicina, era impossibile fare inta di nulla. Ma, ai pochi che parlavano, i cinesi rispondevano: “Tienanmen è lontana, non quattro ma quattrocento anni”. Così, tra una montante euforia cinese e silenzi occidentali sempre più profondi, iniziò la serata decisiva, la “grande notte”. Poi di colpo senza che nessuno dicesse niente o bisbigliasse una parola - antica magia di Pechino, città dove nulla si vede ma tutto si sa in un baleno - scese un silenzio irreale. La voce delle annunciatrici alle televisioni cominciò a ripetere la parola “xīní” (悉尼, Sydney): nella calda notte settembrina di Pechino rimase il suono delle televisioni dalle inestre aperte. A poco a poco le luci in strada si spensero. Qualche cameriere si affrettò a portare via i iori rossi portati in precedenza sul tavolo a preparazione dei festeggiamenti. A mezzanotte Pechino giaceva sotto un silenzio irreale: alle prime luci dell’alba, prima che il trafico si mettesse in moto, scomparvero gli striscioni, se non altro quelli più esposti, sulla strada dell’aeroporto. Tre anni dopo quelle giornate due autori balzati d’improvviso agli onori della cronaca internazionale - Zhang Xiaobo e Song Qiang confessarono, in un’intervista al New York Times49, che quella sera di settembre aveva pesato moltissimo nella decisione di rompere gli 49 Beijing Journal. Rebels’ New Cause: A Book for Yankee Bashing (The New York Times, 1996). 89 indugi e scrivere quello che sarebbe diventato in poche settimane uno dei più popolari best seller dell’antioccidentalismo cinese La Cina può dire no (Zhongguo keyi shuobu, 中国可以说不) (Song, Zhang, Qiao, Gu, & Tang, 1996). Conviene soffermarsi un istante sull’ultima sezione del libro, quella dove gli autori raccontano come e perché nacque il testo. «Il moto del Cielo è costante; il gentiluomo [junzi, 君子- termine confuciano] lotta costantemente per il proprio perfezionamento. Dopo aver risposto alle sollecitazioni degli amici per la pubblicazione, ancora non avevo messo mano alla penna. Non mi sentivo rilassato. La scadenza per la consegna è ormai vicina: posso solo sedere alla luce della lampada e stendere i fogli. Questa è la prima volta che mi esprimo su una cosa che è estranea alla letteratura. Questi scritti in forma di note che oggi vengon fuori sono tuttavia il risultato della decisione del voto su chi avrebbe avuto il diritto di ospitare le Olimpiadi, effettuata dal Comitato Olimpico Internazionale nell’autunno del 1993.L’esito del voto non fu una buona notizia per i cinesi. Quella sera d’autunno, io così sentii acutamente il sapore dell’essere un cinese. L’aria sopra Pechino si era solidiicata. Vedevo una miriade di luci insonni, che come un tempo luccicavano alle inestre dello spirito nazionale. Ma vidi anche un’altra torcia sacra, ancor più luminosa. Che qualcuno fosse in grado di estinguerla era impossibile: una splendente civiltà di cinquemila anni sulle torri di avvistamento della Grande Muraglia mostrava un titolo ancora più solenne. I cinesi accettarono la decisione del Comitato Olimpico. Questo non era uguale all’accettare le deprecabili intenzioni di alcuni paesi occidentali, che hanno usato i mezzi dello sport per provare a indebolire il “caso Cina” in ambito politico ed economico. Lo spirito olimpico era stato tradito. L’occasione di un ampio scambio fra Pechino e il mondo era stata negata. Il trucco di politicizzare lo sport non era per niente un bello spettacolo. Alla ine, compresi le vere implicazioni delle sanzioni economiche contro la Cina da parte dell’Occidente, con gli USA come suoi rappresentanti. Essi sapevano cos’è il voto; ma non sapevano cos’è il rinculo. I cinesi, gli intellettuali cinesi di una generazione ancora più giovane - tra i quali ci sono gli intellettuali che avevano illusioni sulla democrazia occidentale - furono improvvisamente colpiti alle spalle. La replica fu legittima. La via dell’apertura alle riforme non può essere uniforme; la strada scelta 90 dai cinesi può essere soltanto percorsa da noi stessi, lottando per realizzarla. Non c’è mai stato nessun salvatore. Perse le illusioni, camminavo verso lo studio; tornando al mio studio, continuavo a rilettere: non si può sfuggire alla realtà, il passo della realtà giunge più veloce, è spesso così. Per ciò che mi riguarda, sono un cinese e sono orgoglioso di esserlo. Questo orgoglio non può essere modiicato dall’esito di un qualsiasi voto. La pazienza e la tolleranza dei cinesi, intese come tradizione nazionale dell’etichetta, nell’andare incontro a un trattamento irrispettoso possono mostrare un altro volto: “Xing Tian sta combattendo con scudo e ascia, la sua forza di volontà continua a esprimersi. La danza che imita il Cielo coinvolge i familiari, una determinazione coraggiosa sussiste in eterno”. Dalla Guerra dell’Oppio in poi, la forza della giustizia protegge la Cina. Ho imparato molte cose dal mio destino, dalle mie vicissitudini e sofferenze individuali. Le cose che ho imparato dalla storia della nazione cinese mi hanno incoraggiato ancora di più. Senza persone con autostima nazionale, cosa resta all’individuo? Come membro di una delle 56 nazionalità cinesi dal comune destino, lavoro e vivo a Pechino. Mi commuovono profondamente le risonanti foglie dei bianchi pioppi, dalla loro nascita ombrosa ino al loro ondeggiante cadere. Mi donano ricordi e anche speranze. “Il moto del Cielo è costante; il gentiluomo lotta costantemente per il proprio perfezionamento”. Questa frase dello Yijing è come la frase dell’antica Grecia “Conosci te stesso”. Ancora oggi, ci incita a dire tutto. Il fumo della Guerra Fredda non si è ancora disperso. Gli USA hanno lanciato il segnale di una nuova Guerra Fredda. Tranne gli USA e i loro seguaci, nessuno pensa che questo segnale possa illuminare il futuro del mondo. Il 23 aprile un altro piano rivolto contro la Cina è stato sconitto. La “Bozza di risoluzione sulla situazione dei diritti umani in Cina”, lanciata dagli USA e dall’Unione Europea, è abortita. Notizie giunte da Ginevra ancora una volta mostrano che giustizia e verità trionfano sui complotti della politica di potenza. Considerare i diritti umani come uno strumento politico è sempre stato ritenuto conveniente dagli USA: essi continueranno a farlo. Il metodo bigotto e arrogante degli USA potrà soltanto danneggiare i loro stessi interessi. Un buon modo per contrastare gli USA è: primo avvertirli cortesemente, secondo fargli compagnia. Essere silenti e ritirati non è di aiuto alla comprensione e al giudizio degli USA verso le grandi tendenze mondiali. Alla ine, desidero adottare 91 una metafora che amo per concludere il mio discorso: sappiamo che il leone è più forte del domatore, ma anche il domatore lo sa. Il problema è che il leone non lo sa affatto. Se il leone si risvegliasse mentre il domatore è ancora immerso nel proprio ruolo, quale sarebbe il risultato ?» una reazione spropositata? Probabilmente sì. In ogni caso una reazione in cui conluirono molti altri fattori che hanno poco a che vedere con problematiche olimpiche. Tuttavia è impossibile non notare che nell’occasione di quella scelta ci furono disattenzioni diplomatiche così evidenti da autorizzare ogni dubbio. fra tutte quella più grave fu il non avere considerato una secolare mancanza di abitudine della Cina alla competizione, intesa da sempre come vittoria che premia il vincitore e “perdita della faccia” che rovina - per sempre - il perdente. I dibattiti interni allo stesso PCC sono, da questo punto di vista, illuminanti. In tutta la sua vita Zhou Enlai ebbe modo più di una volta di appellarsi alla necessità di abolire questo “vizio feudale”: sidarsi per una nomina o discutere da due posizioni diverse non voleva dire “perdere la faccia” o farla perdere a qualcun altro, ma fare avanzare il dibattito50. La Cina dunque che entra nella rosa inale per la nomina olimpica dette per acquisito che le sarebbe stata risparmiata la sconitta “umiliante” davanti a tutti. Se non le era stato suggerito di ritirarsi onde evitare - di sua scelta - di perdere, fu perché si volle farle credere che avrebbe vinto in modo da poterla umiliare ancora più profondamente. In Cina la non assegnazione olimpica fu un dispiacere, ma il come giunse - quando tutti erano certi di averla ormai conseguita - divenne offesa alla nazione da parte del CIO. A poche settimane dalla sconitta di Pechino nell’assegnazione dei giochi olimpici, mentre Song Qiang e i suoi amici stanno scrivendo La Cina può dire No! un secondo evento contribuì ad alimentare la crescente ostilità antioccidentale. Curiosamente nemmeno della gravità di questo secondo episodio l’Occidente ha mai avuto percezione nitida. A nemmeno cinque anni dal boicottaggio politico ed economico introdotto come risposta politica alla strage di Tienanmen, il mondo occidentale assistette, senza interferire, al colpo di stato di Eltsin dell’ottobre del 1993. Le stime 50 una buona serie di episodi di questa natura sono narrati da Dick Wilson (Wilson, 1984). 92 uficiali parlarono di circa duecento morti e di quasi duemila feriti: come per Tienanmen, il bilancio uficiale non è mai stato reso noto, ma l’opposizione russa parlò di quasi duemila morti e circa diecimila feriti. Le differenze in termini di vittime (sempre ammesso che la contabilità dei morti muti il segno di un evento) furono, dunque, scarse: furono invece sostanziali quelle di natura istituzionale. Eltsin non usò i carri armati e i cannoni per reprimere una manifestazione di piazza che andava trascinandosi da quasi quattro mesi, ma contro i membri di un parlamento regolarmente eletto. Per le illusioni cinesi sulla democrazia, sull’Occidente, sull’uguaglianza di tutti i popoli davanti agli organismi internazionali fu un colpo durissimo: «Fu nell’ottobre del 1993 che il presidente russo Boris Eltsin ordinò a gruppi armati di attaccare e sopprimere il parlamento eletto legalmente. Questa violenta azione anticostituzionale presa in nome di una opposizione a membri comunisti del precedente governo non solo rivelò la natura della crisi russa - ed in particolare la “spontaneità di quel processo di privatizzazione” che era stato intrapreso con l’aiuto degli Stati Uniti e degli stati occidentali - ma rese anche esplicite le evidenti contraddizioni della politica americana riguardo alla democrazia e ai diritti umani, così come l’evidente emergere di uno spirito antidemocratico e di esclusivo calcolo dei propri interessi. Ci fu dunque un’evidente contraddizione tra il sostegno dato dall’America alla violenza di Eltsin e la condanna della Cina per le violenze del 1989… Tutto ciò diede agli eventi dell’ottobre del 1993 in Russia un signiicato particolarmente profondo, soprattutto per coloro che avevano un’idealistica visione dell’Occidente, per quelli che pensavano per davvero che la storia si fosse conclusa, e per quelli che consideravamo la Guerra Fredda un ricordo del passato.» (Wang H., 2003, p. 86) Il sorgere di un nazionalismo così forte, ovvero il palesarsi di una ostilità tanto decisa nei confronti dell’Occidente sia in ambito popolare che in quello accademico, colse di sorpresa molti importanti osservatori: unito alla contemporanea pubblicazione in cinese di importanti contributi internazionali contribuì a tracciare nuovi contorni ideologici e culturali51. Naturalmente nessuno di coloro che studiavano il paese da anni era caduto nella trappola che la Cina riservava ai corrispondenti appena giunti a Pechino. Costoro, circondati da amore 51 È di questi anni la traduzione in cinese del saggio di Samuel Huntington The clash of civilizations? (Huntington, 1997) e di quello di Edward W. Said, Orientalism. (Said, 1991). 93 supericiale e ostentato per l’Occidente, da anni ormai - come si è veduto - alimentavano una letteratura leggera e senza pretese di una Cina più Occidente dell’Occidente. Tenuta lontana dalla democrazia (cui sarebbe certamente approdata in poco tempo) dalla gerontocrazia comunista. Per molti altri, meno inclini alla velocità di certe analisi, forti di una tradizione anche accademica maturata nelle università americane e inglesi e nei think tank, la repentina comparsa - esplosione sarebbe forse la parola giusta - del nazionalismo cinese fu un problema: un nuovo orizzonte da inquadrare al più presto. Divenne importante capire quali fossero i contorni di questa opposizione all’Occidente che come si è avuto modo di ricordare - aveva una lunga tradizione nella storia cinese ma che era apparentemente scomparsa con il 1949. Non era stata riconosciuta eccessiva importanza a questa particolare componente della Rivoluzione culturale. Ne era stato evidenziato l’aspetto folclorico, in ogni caso ampiamente contraddittorio. Il ricomparire nel 1993 di una nazionalismo - sempre che fosse tale - allargò lo spettro della crisi: da una parte occorreva forse estendere l’analisi alle epoche pregresse, dall’altra comprendere cosa stava avvenendo nel presente. L’antioccidentalismo che emergeva con così chiara evidenza chiudeva in modo deinitivo l’esperienza del 1989? Ci si domandò se fosse spontaneo o gestito dal partito: restano negli archivi una serie di interviste che non aggiungono nulla su Song Qiang, ma che documentano in modo importante l’incredulità di un occidente che ino a quel momento si era sentito sicuro del risveglio democratico cinese e della sua natura ilo-occidentale. «“Se non c’è dietro il partito, che cosa vi ha spinto a scrivere questo libro?” “I giovani della mia generazione pensano che la Cina abbia detto di sì troppo a lungo alla cultura, all’ideologia, al sistema di valori americani. Ora noi vogliamo dire basta a questo genere di mentalità e di falsità.” “Dunque a cosa volete dire sì?” Devo chiederlo tre volte prima che lui interrompa la sua tiritera antioccidentale per dire: “Ai valori tradizionali” insegnati dal Confucianesimo e dal Taoismo. “E quali sarebbero questi valori?” “Sottomissione e obbedienza” mi ha risposto.» 52. 52 China’s Shaky Grip. A Nation of Contradictions Gropes for an Identity, 94 Non soltanto Steven Mufson, il corrispondente del Washington Post da Pechino, è disorientato: nonostante sia uno dei più acuti osservatori della Cina non riesce a nascondere la sorpresa: a spiegarsi come sia potuto succedere, in così poco tempo, di passare dalle manifestazioni in piazza Tienanmen intorno a una statua della libertà in polistirolo a un antiamericanismo così confuso, ma istintivo, duro. Pregiudiziale. «Quando eravamo all’università, tutti noi ammiravamo la cultura americana e tutto quanto proveniva dall’America. Ora che siamo più vecchi abbiamo compreso che non dobbiamo voltare le spalle alla nostra nazione. Gli Americani sono ingenui, loro pensano che tutta la gioventù cinese sia ilo-occidentale e li ammiri. Noi vogliamo che gli Americani, gli inglesi e gli altri occidentali capiscano che cosa i giovani della Cina pensano per davvero.»53 I contenuti de La Cina può dire no! sono contradditori, pasticciati, talora grossolani, sostanzialmente privi di una coerenza politica. Questo non toglie che siano molto seri e che non possano essere ignorati. Gli Stati uniti ora vengono accusati di intromissione continua negli affari interni degli altri paesi, ora di isolazionismo. La politica estera americana è immorale, si afferma: i due pesi e le due misure per Cina e Russia sono metafora di due pesi e due misure a seconda degli interessi uSA. In contrasto con l’immoralità americana, la politica estera cinese - si sostiene - dovrebbe ispirarsi alla superiorità dei principi morali. Poi, nel volgere di poche pagine, si afferma il contrario: dobbiamo fare come gli occidentali, rispondere con la guerra alla guerra; perché mai la politica estera cinese dovrebbe essere decisa dal bisogno di una nuova moralità? L’unica cosa che conta veramente è vendere prodotti cinesi e boicottare quelli prodotti all’estero, il resto non conta nulla. La violenza degli autori non si esaurisce negli attacchi agli Stati uniti: ancora peggio è trattato il Giappone. Celebrato l’omaggio a Sun Yatsen e alla sua deinizione del Giappone come fratello mi(The Washington Post, 1996). 53 Young China bashes US. “The Chinese race is at a most crucial moment and we should stand up and build a new Great Wall with our own lesh and blood” Chinese national anthem (The Guardian, 1996). 95 nore della Cina, gli autori negano ogni moralità storica all’intervento del Giappone nelle vicende del Paciico, ogni natura umana al loro comportamento: “Se vuoi trattare con gli uomini - si osserva parodiando un antico detto - guarda gli uomini, ma se devi trattare con le bestie devi essere bestiale”. Più che a una rilessione, le considerazioni espresse in La Cina può dire No! possono essere paragonate a un grido di rabbia: contro la sudditanza nei confronti degli uSA, contro un Occidente ostile e geloso del proprio essere avanguardia, contro l’arroganza di chi va in Cina e pontiica o ridicolizza la cultura cinese deinendola morta per sempre. A tutto questo la Cina deve imparare a rispondere, una volta per tutte, “No!”. Una rapida occhiata all’indice dà la misura delle rilessioni che il libro contiene. Scegliendo i capitoli più signiicativi si va dalla premessa Come ha potuto diffondersi la piaga della mentalità americana al capitolo Per noi è molto facile convertirci in schiavi, dopo di che ne siamo anche felici. Per non dimenticare, tra i tanti che è possibile citare, La diplomazia USA non è onesta e non ha senso di responsabilità, Bruciare Hollywood, Il risultato inale della lotta per i diritti umani è il consentire la perdita dei diritti umani, ecc. Non sorprende che la Cina - anche in aree molto vaste della popolazione urbana e (soprattutto?) rurale - abbia reagito con violenza all’invasione della modernizzazione che, come si è veduto, viene talora confusa e sovrapposta all’occidentalizzazione. Il disagio provocato dalla riduzione o sospensione di alcuni aspetti dello stato sociale (in particolare sanità e istruzione) si sommava in quegli anni alla protesta per molti importanti centri manifatturieri chiusi perché in passivo o obsoleti, e all’esasperazione contadina per un progresso accelerato che puntava tutto su un numero limitato di centri della costa orientale abbandonando la Cina centrale e le regioni più povere. Quando nel 1996 comparve il libro La Cina può dire no! la protesta era già diventata opposizione e talora xenofobia contro l’Occidente, contro la modernizzazione a tutti i costi, contro la distruzione degli spazi isici e culturali di una tradizione per lasciare posto a un progresso di cui si faticava a intuire i vantaggi mentre si misuravano - con immediatezza - i problemi54. 54 In un testo di non molto successivo, ma contemporaneo come stesura, l’autore racconta gli Stati uniti come sono veduti dagli studenti cinesi. Sebbene 96 In altri termini la Cina del 1996 - con la sua tiratura di milioni di copie de La Cina può dire no! - era già un paese in cui una componente di esasperazione e disagio sociale era conluita in un contenitore di antioccidentalismo e antiamericanismo. Qualche anno dopo, in un pur bel saggio, Zheng Yongnian parlerà di “xenofobia come carattere distintivo del nuovo nazionalismo” (Zheng, Yongnian, 1999, p. 47 e seguenti) compiendo lui stesso una sovrapposizione dei due termini non convincente e, comunque, mai così diretta. L’avversione cinese agli stranieri precede di gran lunga non solo la formazione della nazione cinese, ma anche qualunque idea di nazione e di nazionalismo. Sommare le due cose - xenofobia e nazionalismo - crea confusione e produce banalizzazioni che sarebbe meglio evitare. Tuttavia è vero che ne La Cina può dire No! la componente rabbiosa, schematica e antioccidentale è centrale. Le affermazioni politiche sono avventate e supericiali, denotano inoltre una scarsa conoscenza dello scenario internazionale: l’alleanza in funzione antioccidentale tra Iran, Russia e Cina lascia, in quel 1996, quasi divertiti. Recensendo il libro il China Journal, legato a uno dei più qualiicati centri studi sulla politica contemporanea cinese55, dirà qualche mese più tardi: “L’esperienza di leggere La Cina può dire No! lascia il lettore - per citare una frase di Lin Yutang -“tra le lacrime e il sorriso”. Sorriso per il tono del testo, lacrime per la sua sostanza” (Gries, 1997). Tuttavia quello che sorprende ieri - e richiede di essere maneggiato con estrema cura quest’oggi in termini politici - è l’esplosivo e irrazionale antioccidentalismo, un livore inatteso. l’autore sia stato giornalista del People’s Daily ed abbia un atteggiamento nel complesso costruttivo, dalla sua indagine emerge ugualmente il forte risentimento nei confronti di un paese segnato da un provincialismo che li induce a credere: “…che il modello di vita americano debba servire da modello a tutti gli altri popoli… Dopo il fallimento del Vietnam gli americani hanno avuto la possibilità di ripensare a queste loro convinzioni. Purtroppo, queste rilessioni non sono andate troppo in profondità” (Qian, 2002, p. 153). 55 Contemporary China Center, Australian National university. 97 «Come si possono permettere gli stranieri di prendere in giro come noi usiamo coltello e forchetta a tavola, quando loro non sono in grado di tenere in mano i bastoncini? Forse che il coltello e la forchetta occidentali sono meglio dei bastoncini cinesi? Andate a farvi fottere!»56. Alle richieste uSA e internazionali di dichiarare guerra alle copie abusive di CD, DVD e marchi di qualità del tessile la risposta degli autori de La China può dire No! non è priva di ambizioni: prima gli occidentali paghino i diritti sulla carta, sulla bussola e sulla polvere da sparo e poi ne riparliamo57. L’America sta dirigendo un complotto internazionale contro la Cina, è dietro il formarsi di una lobby anticinese di cui fanno parte il Giappone e il Vietnam58. Hollywood sta promuovendo un’invasione culturale che ha il compito di minare i valori delle altre culture e promuovere la pornograia, la violenza e l’individualismo: le tre armi che l’Occidente usa per piegare la forza interiore delle culture che non intendono sottomettersi (Asian Wall Street Journal, 1996). Alla domanda se il pubblico cinese sia d’accordo con le sue considerazioni, Song Qiang risponde: “Molti pensano che avrei dovuto intitolarlo in maniera diversa: non La Cina può dire No! ma La Cina deve dire No!” (The Guardian, 1996). La Cina può dire No! ebbe un clamoroso e inatteso successo commerciale, i dati delle vendite confermarono l’eccezionale gradimento del libro. Sul web comparvero sequel così numerosi che nel linguaggio politico il titolo China can say No diventò un genere: i libri China can say no . In una sorta di palestra creativa cui concorsero sia gli autori del primo testo che un’ininità di altri - generalmente studenti - le versioni di La Cina può dire No! divennero sempre più numerose e ricche: gli autori del testo originario ne produssero un secondo ugualmente fortunato La Cina può ancora dire No! (Song, Zhang, Qiao, Gu, & Tang, 1996). Si dice - e, certo, dietro ogni “si dice” il conine tra leggenda e realtà 56 Chinese Say “Yes” to “China Can Say No”. Hot-Selling Manifesto Demands Mainland’s Autonomy From the US (Asian Wall Street Journal, 1996). 57 Young China bashes… op.cit. (The Guardian, 1996). 58 Chinese Say “Yes” to “China Can Say No”… op.cit. (Asian Wall Street Journal, 1996). 98 è sempre troppo poco deinito - che del solo primo libro siano state stampate e vendute in poco tempo ottocentomila copie59, in particolare tra la popolazione studentesca delle università delle grandi città. I numeri sono tuttavia assai poco indicativi: dopo poche settimane il testo originale era disponibile per il download in rete: impossibile quantiicare quante persone lo scaricarono. Tra le molte considerazioni legate al successo di Song Qiang e del gruppo di collaboratori che produssero La Cina può dire No!, ce ne sono alcune di non secondaria importanza. Nell’ondata di nazionalismo che attraversò la Cina per tutti gli anni novanta, si registrò l’apporto decisivo di studenti o letterati che avevano studiato all’estero (America o Europa) e che al ritorno in Cina trasferirono in rilessione intellettuale quello che avevano sperimentato in prima persona nei campus universitari. Non sembri eccessivo sottolineare come il senso di alienazione ed estraneità provato nelle università, il rinchiudersi tra studenti cinesi ino al disimparare l’inglese in Inghilterra, ebbe un suo corrispettivo sul piano intellettuale. Il contributo più importante nella nuova corrente di nazionalismo cinese degli anni ’90 provenne da persone che, al di là del porprio percorso intellettuale, avevano sperimentato in prima persona la distanza esistente tra Occidente e Cina. Probabilmente i più famosi furono Hu Angang e Wang Shaoguang, con una lunga esperienza di studio e di insegnamento alla Yale university. Nel loro A Report on China’s State capacity (Hu & Wang, 1993) teorizzarono la necessità per i paesi in via di sviluppo di adottare una forte concentrazione del potere in mano allo stato in modo da esercitare un ferreo controllo soprattutto sul piano inanziario ed economico. Certamente gli autori avevano davanti agli occhi - se ne è accennato - la crisi di liquidità del centro cinese alla ine degli anni ’80 e il provincializzarsi delle scelte strategiche più importanti per lo sviluppo cinese. Altri sostennero - come si è veduto - questa necessità, ma nessuno 59 «Pubblicato nel 1996, questo saggio semplicistico fustiga l’egemonia politica, culturale e economica della superpotenza. Riiutando le lezioni morali sui diritti umani, il testo accarezza il nazionalismo ombroso dei igli di Deng: 800.000 copie vendute in pochi mesi. La grandezza della Cina, passata, presente o futura, resta la migliore ricetta del successo» (Le Nouvel Observateur, 1997). 99 seppe farlo meglio di Hu e Wang che a Yale avevano avuto modo di studiare le vie della nascita del capitalismo ed il ruolo che in esse non aveva avuto lo stato. una maggiore attenzione verso i media, maturata nell’esperienza di studi all’estero, portò molti intellettuali cinesi a sostenere che “il predominio della cultura occidentale negli scambi culturali internazionali stava danneggiando la cultura delle nazioni in via di sviluppo come la Cina” (Zhao S., 1997, p. 735). Questi intellettuali “utilizzarono gli strumenti critici di cui si erano impadroniti in Occidente come il post-colonialismo, il post-modernismo, il postmarxismo e l’orientalismo, per attaccare la cultura occidentale”60. Tuttavia ben poco fu così impressionante come il successo della rivista Zhanlüe yu guanli, 战略与管理 (Strategie e Management), fondata nel 1993 dalla Società di studi in strategie e management diventata il cuore dei cosiddetti neoconservatori e promotrice di due meeting di ampio respiro sul nazionalismo cinese tra il 1994 e il 1995. A questa ondata non rimasero estranei le riviste liberal Oriente (Dongfang, 东方) e Letture (Dushu, 读书). E fu sempre in ambito di intellettuali un tempo affascinati dall’Occidente e dalla sua cultura che si svilupparono le correnti di pensiero ieramente antioccidentali: “Critica del post-colonialismo” (Hou zhimin wenhua piping, 后殖民文化批评) e “Nuova sinistra” (Xin zuopai,新左派). Sebbene nessuna delle due raggiunse l’aggressività di quella inaugurata dall’economista Sheng Hong che nel 1994, sempre nelle pagine della rivista Zhanlüe yu guanli, lanciò un attacco durissimo alla cultura occidentale. Secondo Sheng la cultura occidentale ha ormai esaurito ogni funzione propulsiva e sta conducendo l’umanità verso una stasi che degenererà in catastrofe. Il morbo che infetta la cultura occidentale e la rende pericolosa per il mondo intero è l’esistenza di un doppio binario, tanto preciso quanto inconfessato. Da una parte si proclamano le virtù della democrazia, dei diritti umani, della libertà di espressione. Dall’altra si impongono a tutto il mondo le concezioni scientiiche e culturali legate al darwinismo che sono solo un tassello, nemmeno l’ultimo, della storia della cultura dell’umanità61. Rilettendo sul sorgere di un movimento antioccidentale di 60 Ibidem 61 Sheng, Shenme shi wenming, 什么是文明 (Sheng, 1995). 100 questa forza il letterato cinese Xiao Gongqin - che anche per queste posizioni acquistò una riconosciuta credibilità anche nella ristretto cerchia dei corrispondenti esteri da Pechino - sottolineò ancora una volta il lungo percorso di umiliazioni subite dagli studenti cinesi all’estero, il ruolo che aveva avuto nel sorgere di una simile animosità l’accorgersi dei forti risentimenti anticinesi presenti in Europa e negli Stati uniti, la teoria dei complotti orditi dal dipartimento di stato uSA contro la Cina (non tutti dei quali risultarono essere fantasiose “bufale”). L’idea del nazionalismo cinese come reazione a stimoli negativi (buliang ciji, 不良刺激) da un lato ne riduce la pericolosità, ma dall’altro enfatizza le pesanti responsabilità culturali e politiche di una società occidentale che non ha ancora imparato a gestire la presenza intellettuale cinese. Errori piccoli, errori anche modesti, talora, si convertono in ferite che diventa dificile rimarginare. L’assenza di un trattamento dignitoso per gli ospiti che vengono dall’estero, in primo luogo; la sostanziale mancanza di rispetto per i loro studi, che vengono ignorati tout-court o semplicemente non letti. Nulla, tuttavia, colpisce maggiormente delle pagine di Qian Ning (Qian, 2002), là dove l’autore spiega che il crescere del nazionalismo degli intellettuali cinesi fu direttamente proporzionale alla loro conoscenza dell’inglese: più furono in grado di leggere e avvicinare la cultura occidentale più si sono sentiti spinti verso una scelta di solidale e cinese nazionalismo. Sul piano internazionale gli eventi del 1993-1996, culminati nel boom letterario de La Cina può dire No! combinandosi con l’imminente scomparsa dalla scena politica del Grande riformatore, Deng Xiaoping, sollecitarono rilessioni molto importanti sulla natura del nazionalismo cinese, sulle sue costanti storiche e sulle principali contraddizioni interne. Ne emerse un forte salto in avanti nell’approfondimento e nella conoscenza delle ragioni interne della politica cinese che tuttavia non venne percepito in modo omogeneo dalla stampa internazionale. Probabilmente non è errato dire che le vie dell’accademia e quelle del giornalismo - ino ad allora così intrecciate da non potere essere distinte l’una dall’altra - si avviarono in questi anni su strade divergenti. Non poteva essere diversamente: proprio l’irrompere delle folle cinesi e degli intellettuali in Tienanmen e nel dibattito 101 degli anni successivi indicò che era inita la stagione di un certo giornalismo romantico e naïf, talora geniale, talora commosso, ma comunque succube degli interpreti di stato e delle veline in inglese predisposte per i corrispondenti esteri. Gli uomini che avevano dato vita alle grandi discussioni di piazza Tienanmen e che sull’altare di un cambiamento avevano sacriicato anche la propria vita meritavano di essere conosciuti per quello che dicevano e scrivevano. Così, mentre Geremie Barmé, Jonathan unger, Wang Gungwu e molti altri (unger, 1996) (fitzgerald, 1996) sottoponevano all’attenzione della ricerca mondiale rilessioni che hanno aperto nuove strade e gettato una luce sulle (preoccupanti) ragioni del nascente nazionalismo cinese, molta stampa internazionale rimase ferma al cliché post-1989. Inseguendo ormai una Cina democratica e libertaria che non esisteva più, non nei termini sperati e descritti, si ritrovò in una sorta di cul de sac. Il mancato successo dei liberali cinesi venne spiegato appellandosi alla repressione subita e alla natura sostanzialmente fascista e corporativa dello stato cinese. Negli anni che seguirono, segnati da una forte crisi internazionale (1996- 1999), tale interpretazione trasformò il Partito comunista in una sorta di deus ex-machina cui fare risalire tutto. In una sorta di meccanismo perfetto, autoreferenziato e inossidabile, si passò dal partito che muore alla repressione di stato, dalla repressione di stato alla mobilitazione nazionalistica di stato, dalla mobilitazione nazionalistica di stato alle sommosse antioccidentali organizzate dallo stato. una sistemazione concettuale ricca di scuse per il molto Occidente che ha ancora voglia di illudersi sull’amore della Cina verso Europa e America. Purtroppo non tutti condividono questo roseo quadro: le accuse che La Cina può dire No! mosse all’Occidente, alle organizzazioni internazionali, all’America e all’Europa furono spesso politicamente rozze. Tuttavia, dopo l’11 settembre 2001, non fanno più sorridere. Esse presentano assonanze signiicative con l’antioccidentalismo del mondo arabo, di parte dell’Europa e dell’America meridionale. Giudicate nel 1996 parte di un’indeinita speciicità cinese, sono conluite in un gigantesco iume sotterraneo che è emerso di colpo a Seattle e a Genova. 102 Non si tratta di difenderne la mancanza di spessore e di rilessione politica, ma di sottolineare il carattere più ampio, forse planetario, di un disagio che si esprime ormai negli stessi termini all’università di Pechino, come a quella di Damasco, di Bologna o di Lima San Marcos. Il problema dell’Occidente - certamente dell’Europa intera - è non soltanto quello che dicono i letterati di Damasco, Lima e Pechino ma anche che nessuno si sia ancora posto la domanda se sia opportuno continuare a muoversi e a dare lezioni di diritti democratici in un mondo di cui si ignora tutto. L’Occidente che non intende il cinese, che non sa quello che si dice nelle moschee di Damasco e di Medina, che ignora quello che si scrive sui giornali di Delhi e di Tehran, che trascura le opinioni della stampa pechinese e di Shanghai, di Bangkok e di Giakarta sembra non volere fare nulla, ma proprio nulla, per sfuggire al disastro che lo attende. Crisi internazionale: Taiwan È nel contesto post-Tienanmen che prese corpo la rischiosa avventura politica del leader taiwanese Lee Teng-hui. Molto discusso in patria e fuori, impresse una svolta democratica alla vita politica dell’isola e reclamando una maggiore autonomia dalla Cina e alzò il livello delle tensioni internazionali in Asia sud-orientale. La sua vicenda politica si intrecciò inevitabilmente con Pechino e con il comportamento delle folle cinesi, contribuendo a gettare nuova luce, ma non nuova chiarezza, sugli scenari interni del paese. Cosa abbia rappresentato in ambito internazionale la sua non brevissima parentesi politica è tuttora discussione aperta: le teorie più contrastanti si misurano a colpi di saggi entrati ormai a fare parte della discussione politica contemporanea. In sede storica si osserverà che nemmeno a più di dieci di anni di distanza il quadro si è chiarito: le tesi, generalmente ben costruite, poggiano tutte su dati plausibili, “credibili” e “ragionevoli”. La storia, tuttavia, pur nutrendo grande rispetto per tutto ciò che è “plausibile”, tende a privilegiare non tanto quello che avrebbe potuto succedere, quanto quello che avvenne, ovvero l’operare 103 (alla luce del sole e non solo) dei protagonisti di quelle vicende. D’altra parte è evidente come la partita di Taiwan continui ancora oggi a recitare una parte decisiva negli equilibri interni ed internazionali dell’Asia. Coloro che agirono nel decennio 1990-2000 sono, dunque, ancora al lavoro: le analisi non sono mai astratte rilessioni ma parte dello stesso dibattito politico62. fino a quando non saranno accessibili archivi oggi secretati, ino a quando non sapremo con maggiore precisione quale ruolo ebbero negli eventi alcuni protagonisti non minori (incluso il governo cinese e il dipartimento di stato americano) sarà bene astenersi dall’entrare in un’arena dove tutto e il contrario di tutto viene detto e sostenuto. In linea di massima è possibile dire che la crisi con Taiwan spianò la strada in quegli anni a nuove possibili interpretazioni che ruotarono intorno al dilemma centrale su chi ne avesse avuto la principale responsabilità. I molti che reputarono legittimo il desiderio di distacco di Taiwan dalla Cina accusarono Pechino di avere alzato la tensione internazionale e mobilitato le folle (il nazionalismo di stato di cui si è già accennato) per distogliere l’attenzione da gravi e profonde crisi interne. A margine di questa interpretazione iorirono teorie, oggi non molto di moda e sulla cui assennatezza saranno i decenni futuri a esprimersi, su un possibile e probabile conlitto nel Paciico tra USA e Cina per la conquista della supremazia regionale63. Tuttavia, proprio nei mesi di maggiore tensione su Taiwan, Richard Baum pubblicò un saggio che ebbe il merito di sottolineare l’alta probabilità - secondo indagini della CIA - che il frammentarsi della Cina in una molteplicità di poli regionali non avrebbe portato né alla frammentazione della Cina né alla sua decentralizzazione, ma solo a una nuova variante di uno scenario segnato da 62 Nel tentativo di fare chiarezza sulla crisi dello stretto di formosa il «The China Journal» chiese un parere ai più importanti esperti di politica internazionale e ne pubblicò le risposte in un numero unico di straordinaria importanza (n.36, 1996). A distanza di più di dieci anni i termini del dibattito non hanno progredito signiicativamente e restano, sostanzialmente, gli stessi. (Nathan, 1996, p. 87-93); (Jia, 1996, p. 93-97); (Chu, 1996, p. 98-102); (Chang P. H., 1996, p. 103-106); (Shih, 1996, p. 106-110); (Pollack, 1996, p. 111-116); (Willy, 1996, p. 116-118); (You, 1996, p. 119-125); (Van Ness, 1996, p. 125-128); (Stuart, 1996, p. 129-134). 63 Illuminante e controcorrente l’articolo di Taoka Shunji È largo lo stretto di Taiwan (Taoka, 1999). 104 un emergente e incontrollabile caos (Baum, 1996). Il rischio di frazionamento della Cina dovette essere del resto molto evidente se commentatori notoriamente ben informati64 ne parlarono alcuni anni dopo come di una possibilità reale che Pechino era riuscita, in qualche modo, a rimandare o risolvere. Coloro che reputarono provocatorio il comportamento dei leader taiwanesi individuarono le ragioni dell’instabilità nel tentativo di Lee di cogliere le opportunità offerte dalla crisi internazionale aperta da Tienanmen. In un momento di notevoli dificoltà cinesi, sarebbe stata tentata la partita di separare Taiwan dalla Cina, contando al tempo stesso sulla debolezza internazionale cinese, su un ricco e composito fronte alleato interno agli uSA e sulla mancanza di controparti in grado di ostacolare la politica americana. Lo spazio politico che si aprì allora (la “inestra”) era destinato a richiudersi in pochi anni con la ripresa della Russia e la crescita cinese: fu dunque una mossa d’azzardo che per qualche anno ebbe alcune possibilità di riuscita. Tuttavia il montare della tensione internazionale legato a Taiwan avvenne in un contesto non nuovo, ma in rapida evoluzione. La crisi dei mercati orientali rese per la prima volta manifesto anche in Cina quale saldo collegamento unisse la ripresa cinese all’economia globale. I problemi interni dello stato cinese (crescita economica, autonomia iscale delle province, riduzione del gettito iscale verso il centro a fronte di maggiore entrate locali) si misurarono con un contesto assai più vasto. Per la prima volta, in modo assai approfondito, gli intellettuali cinesi si resero conto dei limiti di sovranità esistenti: in un’epoca di mobilità di capitali la partita dello sviluppo (ovvero della sua equità) non si giocava più solo a Pechino, ma in Wall Street e più complessivamente sulle piazze inanziarie dell’Asia. 64 «Nemmeno cinque anni dopo questi allarmi, la Cina appare oggi più solida e unita che mai. Certo, permangono molte incognite sul futuro, che possono riaprire antiche ferite nell’immenso corpo dell’Impero di Mezzo. Ma Pechino sembra aver arrestato il processo di frammentazione del paese, invertendo le tensioni centrifughe e attivando anzi nei confronti dell’intero continente una forza centripeta che la pone oggi al centro dell’Asia e dei suoi 3 miliardi e mezzo di abitanti. Le conseguenze geopolitiche ed economiche per l’Asia e per il resto del mondo sono fondamentali» (Sisci, 1999). 105 Tutto questo contribuì alla formazione di scenari inattesi. L’emergere del problema della “globalizzazione” che caratterizza anche il dibattito intellettuale cinese a partire dal 1997 (Wang H., 2003, p. 91 e seguenti), inì con il saldarsi con un ilone antioccidentale che negli ultimi anni era stato in costante crescita e, probabilmente, non è mai mancato nella storia cinese. fortissimo disagio sociale, risentimenti nazionalistici, crescente opposizione all’iniltrazione culturale occidentale divennero costanti nella vita politica cinese e si saldarono in un fronte non unico ma sostanzialmente omogeneo in cui la resistenza intellettuale delle grandi città trovava appoggio, sostegno e nuovo slancio in quella delle campagne dimenticate dal progresso e in quella delle città, lacerate da tensioni spesso terribili e nuove. Quest’area di disagio e di protesta sociale non fu tutt’uno con il montare di un “nazionalismo di stato” i cui termini sono stati, sostanzialmente, fraintesi. Che una parte dell’opinione pubblica cinese si sia mobilitata, anche in modo molto attivo, per protestare contro un temuto attacco all’unità nazionale non trasforma necessariamente questa protesta “nazionalistica” in un succube strumento dello stato, anzi. Arricchisce piuttosto un quadro, già ricco di tensioni sociali enormi e di un accentuato antioccidentalismo, di componenti nazionalistiche nuove. D’altra parte, che si sia trattato di un attacco all’unità dello stato per come i cinesi lo intendono non ci sono, oggi, molti dubbi: il tentativo politico di Lee - comunque lo si voglia valutare - non andava nel senso di un ricongiungimento con la “madrepatria” ma in direzione esattamente opposta, sebbene con tempi e modalità da veriicare. I tempi di questa crisi, a loro volta, sembrarono dare priorità alle interpretazioni più pessimistiche: non sembrò casuale il coincidere della crisi taiwanese con la ine dell’epoca di Deng, coi timori che si concentravano sulla nuova dirigenza cinese, sulla sua capacità di essere all’altezza di un così complesso scenario internazionale Lo stesso dibattito internazionale che si è aperto sulla questione taiwanese si è limitato a valutare i diritti (storici, teorici, economici, anche etnici) all’indipendenza di Taiwan, non a negare che questi stessi diritti non venissero riconosciuti dalla popolazione 106 della Cina continentale. Indipendentemente dalla posizione assunta nei confronti del problema di Taiwan ci fu, insomma, larghissima convergenza internazionale sulla valutazione che toccare la questione taiwanese signiicasse andare a sollecitare la reattività della masse cinesi su temi di antico, iero nazionalismo. Attendersi che si creda che tutto sia avvenuto in modo leggero, senza avere consapevolezza di quanto avrebbe destato, è dunque oltre ogni ragionevolezza. Divenuto presidente della ROC65 a partire dall’inizio degli anni ’90, Lee rimosse gradualmente le leggi che dal 1949 sospendevano le garanzie democratiche e aprì la strada alla democratizzazione di Taiwan, favorendo un inserimento nella classe dirigente dell’isola dei nativi, ovvero di coloro che discendevano da famiglie nate nell’isola e che non provenivano dai discendenti dell’emigrazione post-194966. In un crescente nervosismo non solo cinese - con ricadute non lievi sulla stessa borsa - il presidente di Taiwan promosse una maggiore attenzione verso le istanze indipendentiste da Pechino. Già si è trattato in precedenza delle attese che il biennio 19891991 creò e di come si diffuse la convinzione che la rivoluzione democratica che aveva scosso la Cina e abbattuto l’uRSS fosse 65 Republic of China, ROC nella denominazione internazionale e nei documenti uficiali. In questo senso l’uso prevalente in Occidente della denominazione Taiwan incontra, ovviamente, una forte opposizione da parte cinese. È stato visto, infatti, come premessa di indipendenza, fattore questo impossibile ino a quando Taiwan si chiamerà, come si chiama oggi, Repubblica di Cina in contrapposizione a Repubblica popolare cinese. Per semplicità si continuerà ad utilizzare da denominazione corrente in Europa non senza avere avvertito il lettore delle tutt’altro che neutre implicazioni che provoca l’adozione di una denominazione come Taiwan in contrapposizione a Cina. 66 Il tema dell’appartenenza alla Cina degli abitanti di Taiwan è questione molto complessa su cui si concentrano evidenti tensioni politiche. Il tema deve essere inserito nella più vasta letteratura dei “cinesi d’oltremare” su cui può essere introduzione il capitolo 3 (Il mistero dell’identità) di Ombre cinesi di Stefano Cammelli (Cammelli S., 2006, p. 18-30). Sul tema, tuttavia, il riferimento fondamentale è certamente l’intera ricchissima opera di Wang Gungwu di cui qui si segnala China and the Chinese Overseas (Wang G., 1991). Sul tema di cosa si debba intendere o meno per “nativi”, argomento anche questo assai controverso, si veda l’illuminante saggio di Hsieh National Identity and Taiwan’s Mainland China Policy (Hsieh, 2004). 107 a un passo dall’affermarsi in modo deinitivo in tutto il mondo. Il comportamento di Lee andò incontro alle aspettative occidentali: era il segnale che molto Occidente attendeva. Come disse il già citato articolo di Terzani, le elezioni in Taiwan e Corea del Sud “hanno questo signiicato, sono l’indicazione di una tendenza che sta cambiando la faccia del continente: la democratizzazione” (Terzani, 1992). Quanto stava accadendo a Taiwan non era dunque sorprendente: confermava, piuttosto, la dimensione planetaria della rivoluzione del 1989. Oggi si rincorrono molte accuse sulla igura di Lee: la sua uscita ingloriosa dalla politica e l’avere in qualche modo accettato di essere un simbolo dell’indipendenza di Taiwan ha scatenato le critiche. In ogni gesto da lui compiuto in da quando ha iniziato a occuparsi di politica si è voluto vedere, ad ogni costo, la determinazione di giungere alla separazione dalla Cina. Ed è quasi impossibile seguire le centinaia di pubblicazioni e analisi sulla sua igura che hanno fatto parte dello scenario su cui molti osservatori si sono interrogati per un decennio. È tuttavia un fatto che i primi gesti politici di Lee raccolsero molta solidarietà internazionale: gli elogi per la democratizzazione che stava attuando nell’isola servirono al presidente taiwanese per prendere coraggio e dare maggiore visibilità a sussurrati ma tutt’altro che incerti desideri di autonomia da Pechino. La crisi divenne uficiale (ed internazionale) quando Lee accettò l’invito della Cornell university e il governo americano, che aveva già respinto un tentativo analogo nel 1994, si trovò ad a doverne accettare la presenza sul proprio territorio venendo così meno a ogni impegno precedente con Pechino. Nell’estate del 1995 la Cina rispose con esercitazioni militari nello stretto, ripetute nel 1996, alla vigilia delle elezioni presidenziali di Taiwan. In un pericoloso crescendo della tensione internazionale si passò allo spostamento di navi da guerra americane nell’area dello stretto e all’accelerazione del riarmo sia della Cina che di Taiwan. Ripensando a quegli eventi non è possibile dire che la tensione internazionale abbia in quei giorni oltrepassato i limiti di tolleranza. I quotidiani e le riviste di politica internazionale non si sono dedicate in ugual misura ad altri eventi che inluenzarono 108 profondamente il clima politico di quei giorni ma su cui, in deinitiva, c’era poco da dire. Così, a uno storico che tra un secolo volesse ricostruire le vicende del decennio 1990-2000, la crisi internazionale di Taiwan inirà col risultare, sulla base delle ricerche pubblicate e dei documenti disponibili, assai più grave di quanto non venne percepito in quei giorni. Essa fu infatti inserita in quel clima euforico di trepida attesa per il ritorno alla Cina di Hong Kong, che ridusse l’attenzione persino sul grande evento di quell’anno, il decesso di Deng Xiaoping e su quell’altro - europeo - di drammatica emergenza, la crisi che avrebbe portato alla guerra del Kossovo. La strategia politica di Lee si mosse dunque in un contesto di preoccupazione internazionale ma anche di relativa iducia ed esaltazione: da una parte la crisi taiwanese e il crollo dei mercati asiatici, dall’altra il ritorno di Hong Kong e la stabilità economica della Cina, cui molti riconobbero il merito di avere retto, contribuendo in modo signiicativo alla stabilità economica dell’Asia. Negli anni che separarono il 1997 dalle elezioni del 2000, Lee insistette in una politica di distacco dalla Cina vissuta da Pechino con grande nervosismo. Oggi, dopo la presidenza più indipendentista di tutte (2000-2008, Chen Shui-bian), la situazione ha ormai imboccato un sentiero nel complesso chiaro e che promette stabilità per i prossimi anni. Le elezioni di Taiwan hanno dato un chiaro segnale dell’esistenza di una maggioranza, non lontana dall’80%, che è forse ancora divisa politicamente ma che è unita da tre forti motivazioni: desiderio di pace con la Cina, rapporti distesi sul piano politico e intensi su quello economico. Il movimento autonomista che negli anni 1995-2002 sembrò in forte crescita è ormai in costante e progressiva diminuzione di importanza e di peso elettorale. La crisi sembra dunque essere sostanzialmente inita. Per lo meno ino alla prossima puntata (Ross, 2006). La crisi di Taiwan mise a dura prova il governo cinese. Chi conosce la sensibilità politica cinese sul tema di Taiwan, chi ha seguito le ricorrenti crisi che su questo tema si sono succedute in Oriente67 sa di quanta pazienza c’è stato bisogno per smorzare i toni 67 La crisi del 1995-1996 viene normalmente deinita Terza crisi. Le altre due sono quella del 1954-55 e quella del 1958. 109 e ricondurre il tutto alle dimensioni di un problema da risolvere con la trattativa. Le due precedenti crisi di Taiwan - entrambe veriicatesi in epoca di di pesantissimo pesantissimo ricatto ricatto nucleare nucleare -- erano erano andaandate molto più avanti, non si erano fermate alle parole. Ancora: chi ha assistito alle manifestazioni di massa avvenute in Hong Kong per un incidente di ben più modesta rilevanza riguardante le isole Diaoyu (in cinese) o Senkaku (in Giapponese) sa quanto può essere ancora alta la suscettibilità cinese (ferraro, 1997). Le folle che in quella circostanza invocarono l’intervento dell’esercito per otto scogli disabitati non erano attivisti comunisti “organizzati dallo stato”, ma cittadini anglocinesi dell’ultima colonia britannica. Il giornalista del Corriere riferì che in Pechino i dazebao studenteschi vennero rimossi in tutta fretta dalla polizia e le manifestazioni proibite. È ovviamente assai dificile trovare conferma di una manifestazione proibita, ma l’ipotesi non pare fantasiosa. Tuttavia, per tutta la terza crisi taiwanese, la stampa internazionale fece largo uso di schematizzazioni già utilizzate in precedenza per inquadrare i complessi problemi in atto in Cina. La tematica del nazionalismo venne risuscitata, ma con varianti signiicative. Quando si ebbe notizia di manovre militari cinesi nello stretto di Taiwan ogni calcolo parve quadrare, corrispondere. La crisi, venne detto, nasceva dalle istanze autonomiste presenti in Taiwan, dalla voglia di democrazia che aveva prevalso nell’isola e dalla conseguente crescita dei movimenti autonomisti di Taiwan. Ma tutto questo non avrebbe portato in alcuna direzione se la crisi non fosse stata anche utilizzata dal comunismo cinese per sopravvivere, ponendo un frrno alla disintegrazione nazionale in corso. Anzi, il governo cinese e il partito comunista cinese, impegnati nell’impossibile compito di cercare di sopravvivere, avevano cavalcato il nazionalismo interno68 e sfruttato una crisi alle frontiere 68 «Alcuni osservatori politici Americani dicono che Stati uniti e Taiwan possono fare inta di niente davanti alle minacce cinesi. Ma essi sottovalutano la serietà dei leader cinesi, specialmente quando si tratta di Taiwan, e il pericolo del risorgente nazionalismo in un’epoca di transizione… Il nazionalismo cinese impone una risposta forte a ciò che avverte come sida alla sovranità e alla dignità nazionale» (The Washington Post, 1995). 110 per ricompattare il proprio potere e risollevare il proprio prestigio ormai in declino69. La crisi era dunque strumentale alla sopravvivenza di un regime ormai morto: solo risollevando l’orgoglio nazionale e ingendolo ferito il partito poteva sperare di mantenere la Cina unita e salda sotto la sua dittatura. D’altra parte non c’era da meravigliarsi: «Il problema è che il comunismo evidentemente ha perso, è il nazionalismo ormai che tiene insieme l’impero cinese.» (Santevecchi, 1995) ovvero «Il nazionalismo è la nuova base ideologica del regime.» (ferraro, 1995). Non mancarono, a dire il vero, segnali di opposta tendenza: «Nella nostra opinione pubblica è forte il sospetto che gli Stati Uniti continuino a perseguire una geopolitica imperialistica, allineando contro di noi una variopinta congerie di ideologemi, dal Clash of civilizations alla globalizzazione come retorica utile a penetrare il mercato interno cinese e indebolire il nostro Stato, al sostegno al regime di Taipei» (Shen, 1997). Nonostante l’affannarsi dei cinesi ed anche la freddezza di molti europei residenti a Pechino, l’ipotesi di un crollo rimandato grazie all’appello al nazionalismo cinese prevalse in Italia e nel mondo. Oggi, a crisi momentaneamente rientrata, nessuno più sembra ricordare il clima di quelle giornate e quanto fosse forzata un’analisi che anticipava crolli epocali per rimandare i quali ci si sarebbe appellati al nazionalismo delle folle. Se il nazionalismo fosse stato la bandiera di un governo e di un partito alla ricerca del consenso interno nelle stesse pagine dei giornali si troverebbe traccia di manifestazioni di massa, di raduni oceanici, di slogan anti-imperialisti e nazionalisti davanti all’ambasciata americana, presso la sede delle principali istituzioni internazionali. O reportage di scritte bellicose negli alberghi e nelle strade in particolare là dove potevano essere vedute dagli stranieri. Di quei mesi il ricordo trattiene invece la determinazione con cui 69 «…il regime sfrutta ogni pretesto per inasprire la dittatura, disattendere le regole del commercio internazionale e anche suscitare crisi esterne, in modo da distrarre l’attenzione dai problemi domestici e coprire con il vessillo del nazionalismo un partito rimasto nudo dopo aver perso il manto socialista» (ferraro, 1996). 111 il paese cercava di riprendersi; la Cina come immenso cantiere; gli orologi con il conto alla rovescia dei minuti che mancavano alla liberazione di Hong Kong intesa come una compensazione, un gesto di rivincita e di compensazione storica70. L’incredibile festa, in tutte le città cinesi, alla riconsegna della città cancellò un lieve dispiacere (assai celato invero) per il fatto che il leader che tutto questo aveva reso possibile fosse scomparso sole poche settimane prima. Di Taiwan e del come venne risolta quella crisi molti analisti hanno evidenziato il sommarsi di comportamenti antichi e di cinica saggezza contemporanea. Il dispiego di forza nell’esercitazioni militari si inserì in un’augusta, grande tradizione cinese: nascondere la propria forza quando si attacca, mostrarla in tutta la sua potenza quando non si intende agire: “Questo metodo risultò eficace contro i barbari”71. Il nazionalismo delle folle cinesi venne certamente gratiicato da questa esibizione di forza che sembrava davvero fare suoi molti dei concetti espressi in La Cina può dire No!. Per risolvere la crisi il governo si limitò ad usare quegli stessi meccanismi di interazione inanziaria di cui aveva notato il potere di interferire sull’indipendenza “reale” di uno stato. La pressione militare, combinata con la paura di un intervento militare opportunamente denunciata dalla stampa (mai come in questa crisi così funzionale alla strategia di Pechino), portò a forti pressioni sulla borsa di Taiwan. Per sostenere la borsa vennero spese riserve importanti: il crollo degli ordini e degli investimenti fece il resto. Al di là delle pulsioni ideali e personali, la popolazione di Taiwan si rese conto direttamente, nella propria banca e nelle proprie aziende, a cosa avrebbe portato uno scontro, anche solo annunciato, con la Cina. uno schieramento che abbracciava quasi il 70 «Per i dirigenti cinesi la questione principale non è la democrazia, è la sovranità. Per loro il recupero di Hong Kong è una rivincita sulle guerre dell’oppio e sulle umiliazioni subite quando la Cina veniva smembrata dalle potenze occidentali. I cinesi non possono accettare misure «sovrane» unilaterali da parte dei britannici che modiicherebbero il regime politico di Hong Kong: sarebbe una ratiica della sconitta, della conquista, della colonizzazione di una parte del territorio cinese. Sarebbe un’ammissione della validità dei “trattati ineguali”» (Romano, 1995). 71 “Le operazioni militari richiedono lo stratagemma: se sei abile, mostrati inabile; se sei capace, mostrati incapace” (Sunzi, 1988, p. 49). 112 70% dei votanti sostenne, alle elezioni successive, una politica di conciliazione e di non conlitto con la Cina. Il consenso che il movimento autonomista taiwanese gode oggi presso la popolazione di Taiwan è, secondo gli osservatori internazionali, entrato in una fase di progressiva erosione. Il rischio di una nuova crisi è ritenuto, nei prossimi anni, quasi inesistente. Il disagio degli altri Negli anni che precedono la crisi di Taiwan e nei mesi che la seguono, nello stesso periodo in cui tanta stampa internazionale sembra faticare ad afferrare il problema, ci furono in Cina crisi di nazionalismo (Sonnenfeldt, 1997): ne furono protagoniste popolazioni non cinesi che diedero vita a scontri anche gravi nelle due regioni a maggiore tensione etnica: Tibet72 e Xinjiang, ovvero Turkestan cinese73. Sebbene sia arduo farsi strada tra i molti si dice e il poco veduto, sia in Tibet che in Xinjiang si ebbero diversi morti. In Tibet, onde ristabilire l’ordine, venne mandato Hu Jintao (1988-1992) a conferma che la responsabilità politica di Lhasa è passaggio importante nella crescita politica della classe dirigente cinese. Curiosamente né la stampa italiane né quella di lingua inglese usa la parola ‘nazionalismo’ per le sommosse di Kashgar74 e Lhasa75: 72 Gli scontri più rilevanti in Tibet sembrerebbero avvenuti nell’ottobre del 1987, nel marzo del 1989 e nel maggio del 1993. 73 Scontri a Kashgar o altre città uigure per proteste anticinesi sono attestati nell’aprile del 1990 e nel febbraio del 1997. Tuttavia - e la precisazione vale anche per il Tibet - è probabile che gli scontri che non si sono potuto tacere alla stampa siano solamente quelli delle grandi città (Lhasa e Kashgar). 74 francesco Sisci è di diverso avviso: “…nell’Impero di Mezzo vive una minoranza musulmana di notevoli dimensioni, concentrata nella regione occidentale dello Xinjiang. Si tratta di una popolazione di ascendenza turcofona, quella degli uiguri, da tempo in lotta con il potere centrale e che ha come obbiettivo inale la creazione di un proprio Stato, il Turkestan orientale, separandosi così dalla Cina” (Sisci, 2001). 75 Di diverso avviso (per quanto riguarda il Tibet) f.Sisci: «Questa è l’unica regione dove esiste compiutamente un movimento indipendentista, dove le spinte secessioniste sono palesi e determinate e dove esistono motivi nella storia recente per argomentare l’indipendenza o almeno una forte autonomia della re- 113 nei pochi reportage disponibili - una quindicina in tutto e tutti sono commento indiretto - le sommosse degli uiguri del Turkestan e quelle dei Tibetani del Tibet sono presentate come anticinesi. In esse si sarebbe espresso dunque non un seppur confuso desiderio di autonomia o indipendenza, ma una protesta contro il procedere della sinizzazione, ovvero la perdita di elementi culturali autoctoni e l’introduzione forzosa di elementi, invece, cinesi. Nel confuso uso della parola nazionalismo di quegli anni la distinzione suona al tempo stesso opportuna e di grande utilità: non è nazionalismo protestare per la difesa della propria religione, dei propri mercati, delle proprie scritture (Alles Adams, 1995). Il nazionalismo è, dunque, un’altra cosa. Nel marzo del 1996 esce sul Washington Post un articolo che sembra tornare sul tema del nazionalismo cinese. L’analisi di Steven Mufson è articolata, la qualità del ragionamento da saggio (Mufson, 1996). Nel contenitore che per semplicità continua a chiamare nazionalismo Mufson deve tuttavia inserire una molteplicità di componenti anche contraddittorie. C’è il recupero della gloria passata (anche l’epoca di Mao aveva avuto una sua gloria internazionale) rispetto alle umiliazioni del presente; la paura degli stati vicini che tutto questo porti al ristabilirsi di una leadership cinese in politica estera che potrebbe essere contrastata solo con l’aiuto degli uSA. C’è la possibilità che i militari si appellino al nazionalismo. Ma tutto questo, aggiunge, non porta a nulla: che nazionalismo potrebbe mai essere invocato da una nazione che ha “come minimo cinquantacinque gruppi etnici, dialetti che non comunicano con quelli dell’altra parte del paese, come minimo cinque religioni e un’ininità di storie diverse?”. Cosa accomuna questi popoli così diversi? un odio antico contro l’occidente. Che compare non appena si aprono le porte della conoscenza e si comunica con loro. Non c’è nazionalismo se non come odio verso lo straniero. E tanto più la Coca cola apre nuovi negozi e il MacDonald vende più hamburger tanto più questo sentimento cresce ino a diventare un rumore sordo, muto: ma assordante. Lo consola Xiao Gongqin (il “nazionalista” che negava di esserlo): quello che sta avvenendo, dice, è la ricerca e la salvaguardia di valori comuni di fronte a una società che si sta smembrando. gione» (Sisci, 1995). 114 La protesta degli intellettuali per “il senso di essere cinese” si sta smarrendo e non produrrà nessun Vladimir Zhirinovsky. Secoli di tradizione multietnica e multiculturale impediscono a chiunque di scegliere l’opzione del nazionalismo. Xiao Gongqin ritorna sul tema affrontato già due anni prima con il giornalista del Corriere, ma questa volta la conclusione è diversa, Mufson sembra fare sue le conclusioni di Xiao. “Se vuoi capire la Cina - dice nell’intervista Xiao Gongqin, e sono le ultime parole del saggio - devi seguire una sola strada, guarda alla storia”. Prima di seguire il consiglio di Xiao è inevitabile notare che il disagio cinese che Mufson descrive è articolato, contraddittorio, ricco di impossibili estensioni. C’è spazio anche per i governi, per i militari, forse anche per i monaci buddhisti tibetani. Perché quello che Mufson e Xiao dicono in questo bell’articolo è che il disagio cinese di cui tutto è espressione e di cui tutti fummo testimoni in quel 1996 può anche essere chiamato nazionalismo, se proprio ci si tiene. Ma richiama, piuttosto, processi più articolati e complessi. Riguarda l’impatto di un mondo contadino con la modernizzazione: contrasto dolorosissimo ma che non coinvolge il nazionalismo. Coinvolge l’impatto di un vecchio sistema educativo (il monaco, il bonzo, il mullah, l’intellettuale) che si trova di colpo scavalcato e tagliato fuori dalla televisione e più in generale dai media. Ma, e soprattutto, coinvolge cinquantacinque popoli diversi che non hanno una nazione di riferimento, non hanno una lingua comune, non hanno una storia comune: condividono solo un sentimento, l’odio per gli stranieri. Può esistere un nazionalismo senza nazione? Si può essere al tempo stesso vittime (in casa propria) e carneici (in Tibet e Xinjiang)? O l’odio anticinese sta al disagio sociale dei tibetani e degli uiguri come l’odio antioccidentale sta ai cinesi? Ha senso chiamare tutto questo nazionalismo? Bombe sull’ambasciata cinese a Belgrado È comunque in questo contesto che il bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado (maggio 1999) dà inizio a proteste antioccidentali che colgono di sorpresa la maggioranza degli 115 osservatori. Le cronache dei giornali di quei giorni non possono astenersi dal notare che il governo cinese è imbarazzato, e che quello che sta avvenendo porta con sé un superiore e non previsto scenario. Compaiono “folle ormai irate che gridano con un gioco di parole “renquan (人权, diritti umani) uguale baquan (霸权, egemonismo)”76. Quale rapporto colleghi slogan di questa natura col bombardamento per errore dell’ambasciata di Belgrado è ormai chiaro a chi ha seguito ino in fondo questa lunga introduzione. Ci sono le emozioni, c’è la rabbia, c’è un insieme di fattori non previsti e non prevedibili che delagrano quasi contemporaneamente. C’è quanto accade in Cina, non sempre noto: ma c’è anche quanto accade negli Stati uniti, ugualmente ignorato. Il bombardamento dell’ambasciata cinese di Belgrado è una pagina che muta in modo non deinitivo ma per molto tempo non tanto i rapporti politici tra i due paesi, ma il ‘sentimento’ che li unisce, il feeling. Gli americani, in primo luogo, non accettano quello che vedono, lo riiutano: «Questo nervosismo di Pechino è in parte una risposta al carattere sempre più sinuoso - e incomprensibile per i cinesi - della politica americana nei loro confronti. Durante gli anni ’80, la Cina era percepita da Washington come un paese importante, certo, ma che non poneva problemi urgenti e che non costituiva una minaccia immediata per gli interessi americani. La politica cinese della Casa Bianca era lasciata al Dipartimento di stato e non interessava che una manciata di multinazionali che avevano degli interessi in Cina- Boeing, Motorola, ecc. L’opinione pubblica americana allora era favorevole alla Cina. Quest’atmosfera distesa era in buona misura dovuta alla persona di Deng Xiaoping. Pragmatico, consapevole che la Cina aveva bisogno di un ambiente internazionale stabile per assicurare il proprio sviluppo, era riuscito nell’impresa di far credere che la Cina comunista fosse l’alleato naturale degli Stati Uniti. Oggi la cornice all’interno della quale si è deinita per anni la politica americana 76 Rabbia a Pechino, migliaia in piazza: gli studenti assediano le rappresentanza diplomatiche USA: consolato incendiato (Corriere della sera, 1999). 116 nei confronti della Cina è andata in frantumi. Le relazioni con Pechino sono diventate la posta in gioco della politica interna, soprattutto nelle mani di un Congresso dominato dai repubblicani. Alcune lobby industriali, nei settori in cui è forte la concorrenza dell’importazione cinese, lottano duramente contro ogni tipo di concessione a Pechino. Nell’opinione pubblica, l’immagine della Cina è ormai quella di un paese ostile. Evoca i gulag, la repressione del Tibet, gli attacchi contro Taiwan, le molteplici violazioni ai diritti umani. La visione, di quattro mesi fa, della folla che assaltava e lapidava l’ambasciata americana a Pechino in rappresaglia contro il bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado ha avuto un effetto disastroso» (Le Nouvel Observateur, 1999). C’è un problema di sospetti, in primo luogo, ed è ben lungi dall’essere chiarito anche a dieci anni di distanza. Così è vero che la Nato dichiarò essere stato un errore ed è vero che i cinesi non diedero a questa notizia la rilevanza necessaria per contenere la rabbia popolare. Ma il fatto è che nemmeno in Occidente, nemmeno in Europa, si crede più all’ipotesi dell’errore: per lo meno ino a quando non ci saranno risposte circostanziate all’accusa lanciata dall’Observer di Londra il 17 ottobre 199977. Le lettere scritte ai giornali in quei giorni sono state raccolte e studiate in un bel saggio78 la cui utilità va molto al di là degli ambienti accademici. Peter Hays Gries ha semplicemente raccolto le lettere di protesta inviate ai giornali in quella circostanza e le ha confrontate o afiancate con i biglietti appesi per strada ai pali della luce o sui muri delle università. un’opera semplice, di interesse notevole, più di tante analisi comparse sui giornali e altrove. Vi compare molta demagogia, naturalmente, molta giovanile demagogia. Ma compaiono anche i temi di una rivolta antiamericana ed antieuropea che, ormai lo si è compreso, non è più né nazionalismo, né antiamericanismo. «Cinesi! Questo sta succedendo: gli Americani ci vogliono umiliare! Il desiderio americano di umiliarci non è legato solamente 77 Nato bombed Chinese deliberately (Observer, 17 ottobre 1999). 78 Hays Gries, Chinese Nationalist reactions to the Belgrade Embassy bombing (Hays Gries, 2001). 117 a questo ultimo fatto. Bocciare la nostra candidatura ad ospitare i giochi olimpici è stata un’umiliazione. Intercettare la nave Milky Way e fermarla con la forza per veriicarne il cargo è stata un’umiliazione!79 La recente accusa che noi avremmo rubato i loro segreti militari (atomici) è un’umiliazione. La ragione per bombardare la nostra ambasciata è ancora quella di umiliarci»80. Ecco la spiegazione delle assurde scuse presentate, sostenere che si sia trattato di un errore: umiliarci, ancora di più! Lettere di rabbia ine a sé stessa (“Lavare il sangue col sangue!”, “Gli occidentali sono come lupi, assaltano in branco e scappano”). Lettere che reclamano giustizia, il ristabilimento della legalità internazionale unite a lettere di indignazione, di rammarico. Sullo sfondo, tuttavia, si delinea un diverso scenario. È la debolezza del fronte interno che rende le frontiere deboli, è la nostra debolezza che ha consentito agli americani questo insulto oltraggioso. Non è una debolezza militare, né di risposta. Non si tratta nemmeno di semplice boicottaggio: la debolezza cinese è un problema di coscienza. un antico problema di coscienza. «Quando noi si veste Pierre Cardin e Nike / Quando noi guidiamo Cadillac, Lincoln e andiamo al KFC e McDonald’s / abbiamo una coscienza limpida? No!!! // Quando i nostri battelli sono fermati e ispezionati senza ragione / quando i nostri compatrioti perdono le loro vite nell’Oceano proteggendo le isole Daoyu / Possiamo noi sedere davanti alla televisione Sony? No!!! // I Coreani sono orgogliosi di usare i loro prodotti nazionali / è possibili che noi si trovi ancora gloria nell’usare i prodotti stranieri? No!!! /// Produciamo e consumiamo prodotti nazionali»81. Sono temi che attraversano la protesta popolare - studentesca e non solo - da almeno quindici anni. Possono, se proprio si vuole, essere inseriti in una prospettiva di lotta nazionalistica ma, è evidente, ormai la parola nazionalismo ha tutt’altro signiicato, tutt’altro valore. Le folle in rivolta, i cortei, le manifestazioni: tutto passò in televisio79 La nave era diretta in Medio Oriente, l’episodio avvenne nel 1992. 80 Hays Gries, 2001, op. cit. p. 33. 81 Ibidem, p. 37. 118 ne e sui giornali e come d’incanto fantasmi che sembravano scomparsi si materializzano nuovamente. Se in Cina “non c’è libertà di stampa” non ci può essere “libertà di espressione” così - si deve avere pensato - in un paese dove i diritti umani non vengono riconosciuti non possono avvenire manifestazioni spontanee. Se l’italiano Corriere della Sera forse erra nell’interpretazione ma comunque riferisce quello che è stato veduto (“folle ormai irate che gridano con un gioco di parole “renquan (diritti umani) uguale baquan (egemonismo)”, il contributo del Washington Post è un capolavoro di mezze parole usate con grande maestria - per alludere senza dire, prospettare senza affermare: «Quando decine di migliaia di giovani studenti con in mano pietre, molotov e cartelli con scritto “Kill Americans” hanno attraversato le strade di Pechino questo week-end per protestare contro l’incidentale ma tuttavia mortale attacco della NATO all’ambasciata cinese a Belgrado, erano accompagnati dal fantasma di ben altre manifestazioni, dieci anni or sono» 82. Quale è la differenza che separa questa manifestazione da quelle del 1989? Il giornalista del Washington Post è informatissimo: «… le proteste di questo weekend sono state preparate meticolosamente. Autobus portavano decine di migliaia di studenti nelle strade vicine all’ambasciata americana qui a Pechino e nei pressi delle missioni consolari USA in altre quattro città»83. Il giornalista del Post ha davvero pochi argomenti in mano: tutti gli abitanti di Pechino si spostano in autobus. In quale altro modo avrebbero dovuto recarsi all’ambasciata uSA per non destare sospetti, forse in taxi? Tuttavia il nostro ha le idee chiarissime: «I leader studenteschi delle organizzazioni governative hanno ricevuto una lista degli slogan da gridare». Inutilmente si cercherà di capire se lo ha saputo, se gli è stato detto o se lo sospetta: le acrobazie di certo giornalismo fanno colpo il giorno dopo, ma a dieci anni di distanza 82 A Protest Beijing Can Endorse, 10 maggio 1999 (The Washington Post, 1999) 83 Ibidem 119 perdono ogni virtuosismo letterario e si rivelano, semplicemente, per quello che sono: improvvisazioni senza professionalità. La stampa occidentale - non tutta, certo, ma molta - è talmente sorpresa nelle sue convinzioni (“gli studenti sono liberal, la Cina urbana è liberal, solo la gerontocrazia del PCC opprime con una politica vecchia il naturale sviluppo della società cinese verso la democrazia”) che se una manifestazione anti-uSA sconvolge Pechino non può che essere colpa del partito. Tuttavia certe enormità le si può affermare in un momento di perplessità, ma tutta Pechino ha veduto come sono andate le cose e allora occorre aggiungere: «Ma sarebbe un errore dire che questi studenti siano stati forzati a protestare. Le dimostrazioni, sebbene dirette dalle autorità, esprimono in modo molto fedele i sentimenti delle folle»84. È «La Stampa» ad avvicinarsi con maggiore precisione a quanto sta accadendo. forse perché l’Italia non è stata oggetto di aggressione o per una lunga tradizione di maggiore attenzione da parte del quotidiano torinese, la cronaca contiene rilessioni interessanti, forse inquietanti? «Diversamente da Tiananmen però, quando i dimostranti vedevano gli stranieri come amici, questa folla è xenofoba e accusa gli stranieri caucasici di essere “americani”. Alcuni giornalisti e passanti sono stati spintonati e minacciati. Capipopolo improvvisati urlavano ai poliziotti che “i cinesi non devono difendere gli stranieri” o chiedevano il boicottaggio delle merci americane, da domani niente più Coca-Cola o McDonald’s»85. Dunque è in atto una crisi tra Cina e Occidente, centrata sull’attacco agli Stati uniti. Sembra irreale come un incubo di altri tempi. Gli attacchi all’America e all’Occidente erano eventi comuni negli anni Trenta, episodi da ilm86. Coloro che osservano le manifestazioni antiamericane del 1999 reputano - tuttavia - di sapere come pensano e come si comportano le folle di Pechino. Nessuno sembra ricordare 84 Ibidem 85 Assalto all’ambasciata Usa (La Stampa, 1999). 86 The Sand Pebbles (Quelli della San Pablo), con Steve McQueen e Candice Bergen, regia di Robert Wise, 1966. 120 la profonda avversione antioccidentale che percorre per tutta la sua durata la rivoluzione cinese. Nessuno ricorda le devastanti ondate xenofobe che attraversano la Rivoluzione culturale. Nessuno ricorda il trionfo editoriale del libro La Cina può dire no!. Così ci si culla nell’illusione di avere compreso tutto nel 1989: gli studenti in piazza, la democrazia, la richiesta di maggiore libertà, il regime cieco e brutale. Come accettare in una notte sola quello che non si è voluto vedere per anni? Come chiudere in poche ore di violenza di piazza il divario tra ciò che si credeva e ciò che si vede? Sì, c’erano state grandi proteste e grande delusione anche quando alla Cina erano state negate le Olimpiadi del 2000, ma la delusione non si era trasformata in movimento antioccidente, non era diventata xenofobia. Così, come succede sovente quando non si riesce a comprendere in modo convincente quello che avviene, si va alla ricerca del grande vecchio: il regista del complotto, il mestatore di segrete trame. Il malvagio nascosto dietro le quinte silenziose e ambigue - vecchi pregiudizi anticinesi - della “misteriosa” Pechino. Nessuna sorpresa che l’untore venga individuato nel governo, nel partito, nel potere che tutto fa e disfa. «Il nazionalismo è sempre più importante in Cina. Il comunismo infatti è stato messo in naftalina, se non del tutto sepolto. Pechino non l’ha rispolverato neppure durante la recente violenta campagna di propaganda contro la setta dei Falun Gong… (…) In questa Cina che sogna di diventare America c’è bisogno di una nuova ideologia che tenga uniti il suo miliardo e 300 milioni di cittadini. Questa si sta costruendo intorno a una nuova idea di nazione e nazionalismo…»87. È un gioco antico: quando non si sanno porre domande si trasferiscono risposte: ne consegue che il quadro offerto al lettore non è “sbagliato” ma è solamente “plausibile”. È segnale poco confortante che di questo profonda crisi88 dell’Occidente presso le folle cinesi, che è obbligatorio mettere in rela87 L’oriente non è più rosso, 30 settembre 1999 (La Stampa, 1999). 88 La Cina ci inganna. L’America ci tradisce, 14 giugno 1999 (Corriere della Sera, 1999). D’altra parte non si può certo dire che esperti con una propensione maggiore allo studio dei comportamenti delle masse popolari cinesi fossero riusciti a sviluppare un’analisi più approfondita. Si veda l’emblematico (Collotti Pischel, 1999). 121 zione con la vasta area di malcontento sociale che culmina con la destituzione di Jiang Zemin di due anni dopo e l’avvento del gruppo capitanato da Hu Jintao e Wen Jiabao, l’Occidente - e in particolare l’Europa - non abbiano avuto il minimo sentore. Né che le manifestazioni del 1999 contro il bombardamento dell’ambasciata cinese siano servite come campanello di allarme89. Nel momento in cui l’opinione pubblica cinese decretava il successo di un libro nazionalista, antioccidentale, xenofobo e aggressivo, mentre la “tradizionale” xenofobia cinese si manifestava a chiare lettere nella manifestazioni contro l’Occidente in seguito al bombardamento dell’ambasciata di Belgrado, sulla stampa occidentale persisteva la descrizione di una Cina improbabile, affarista, completamente dedita alla sola ricerca di denaro e del successo economico, più occidentale dell’Occidente. Pronta, proprio perché ormai matura, alla democrazia occidentale che un partito “sclerotico” composto da una vecchia dirigenza arroccata al potere negava, ricorrendo anche alla repressione isica dei dissidenti. Quanto è cambiato dalla ine degli anni ’90? Quanto si è approfondita la nostra conoscenza della Cina? Quanta strada è stata fatta nella direzione di conoscere la Cina reale e non quella di molte fantasie europee? 89 Nell’ottobre del 1999 il Corriere della Sera riporta un’interessante intervista a Lucian Pye, probabilmente uno dei più grandi sinologi del XX secolo, consigliere della Casa Bianca. La crisi cinese viene inserita in un contesto di ampiezza secolare in cui si stemperano, ino a scomparire, le preoccupazioni per l’ondata di xenofobia e si smentisce nel modo più totale l’uso del nazionalismo da parte del governo cinese. Ma il giornalista non ci sta e chiede: “Che sbocco potrà avere questa crisi d’ identità? un ritorno al marxismo-leninismo o un nazionalismo spinto?” “Secondo me, - risponde Pye - Pechino si trascinerà avanti come sta facendo adesso ancora per alcuni anni. C’ è però il pericolo che il regime degeneri in una sorta di semi-dittatura fascista. In crisi simili, è la via d’uscita più facile. Non credo che si giungerà a questo punto. Il regime lo eviterà se attingerà al substrato culturale del Paese, che è straordinariamente ricco…”. E ancora, più avanti: “Ci vuole più apertura. La Cina è un Paese logorato dall’occupazione giapponese, dal secondo conlitto mondiale, dalla guerra civile, i iaschi di Mao, la dislocazione di intere popolazioni, le guardie rosse. La sua psiche nazionale ne è rimasta traumatizzata. I cinesi sono alla ricerca disperata di qualcosa che riempia il loro vuoto spirituale. E i leader ne sono spaventati. A mio parere, la questione culturale è la più importante ma anche la più dificile da risolvere”. (Corriere della sera, 1999) 122