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Il “nuovo” De Sanctis
I capitolo
Stato dei “luoghi”.
Per una topologia del pensiero politico
1.Topica e topologia
La topica è pensata da Aristotele come metodo dell’argomentazione dialettica, cioè di quell’argomentazione che si configura come discorso nel quale, poste alcune cose, qualcosa di diverso da ciò che è posto necessariamente risulta attraverso ciò che è posto. L’argomentazione dialettica:
si effettua nel dia del logos, cioè nel discorso confrontato;
è attraversamento rischioso dello spazio che porta, attraverso convinzioni comuni, da un luogo acquisito e protetto verso lo spazio del meramente opinabile non ancora perimetrato in èndoxa
I topoi sono luoghi in cui l’opinare si arresta, luoghi in cui si conviene o consente in maniera universale o particolarmente qualificata, sono luoghi pregiudiziali e scontati di partenza per discorsi non apodittici che aprono uno spazio nuovo rispetto al luogo di partenza e portano verso altri luoghi non compresi, né previsti in quello di partenza. Mentre in Aristotele la topica assomiglia all’arte della navigazione da un porto sicuro verso una meta auspicata ed ignota, con Cicerone e Quintiliano topica è più un’arte della riconduzione ad una topologia in cui i “luoghi” sembrano già dati come giacimenti d’argomentazioni persuasive. Argomentare è per Cicerone, una attività di scavo – ratio – tra materiali accumulati, ma sempre riutilizzabili e per Quintiliano, un’abilità da agricoltore, cacciatore o pescatore nei confronti di territori o fondali da utilizzare per ricavarne prodotti o prede. Oltre ad una differenza inerente alla topica, per Cicerone e Quintiliano vi è una differenza tra due modalità dell’ “invenzione”: la prima è zetica: i luoghi sono tappe attraverso le quali si esporta discernimento (discendere = distinguere) per la conquista di nuovi luoghi nello spazio ancora non colonizzato dal logos. La seconda è estrattiva: ha una relazione attuativa con la tradizione che non è mai alle spalle. Nel Prologo alla tetralogia “Giuseppe e i suoi fratelli”, Thomas Mann usa due metafore riferite al passato del tempo dell’uomo: il pozzo dell’insondabile acqua sorgiva e le dune di sabbia che costeggiano il mare. Due acque diverse fanno, quindi, da sfondo e da cornice; la prima è insensibile allo scandaglio, la seconda disegna coste di sabbia ingannatrice. La prima metafora allude ad un passato verticalizzato dalla cronologia, mentre la seconda, permette un movimento più libero ed una più libera decisione dell’inizio. L’origine dell’uomo, però, forse non è né nel pozzo del fondo né dietro l’ ultima duna; ma in cielo. Mentre l’infernale verticalità del pozzo, ci porta lontano dal cielo, verso le tenebre che precedono Atlantide e Lemuria, dove il futuro uomo, non ancora bipede ed eretto, è impegnato a lottare con i mostri di fuori che coabitano lo spazio non ancora antropizzato; la distesa del litorale è lo spazio della domesticatio degli animali, delle piante e dell’uomo.
Stato in frantumi
Nell’ periodo dell’ Ancien Régime si sviluppa una nuova concezione del pensiero moderno. È possibile affermare che tra Hobbes e Kant si siano definiti topoi articolati in quel dispositivo teoretico che Bobbio denomina “modello giusnaturalistico”. Prima di passare a Kelsen e Hobbes è necessario specificare la funzione dei topoi: vengono usati per incrementare l’ argomentazione così da poter evitare l’ esame critico individuale. Con Kelsen tutti i luoghi comuni vengono resi inutilizzabili, essendo incapaci di cogliere la vera essenza dello Stato inteso come ordinamento giuridico di una società che si produce in una costruzione di norme sovra e subordinate. Lo Stato moderno, per Kelsen, si sviluppa nell’ ideologia; moderna può essere solo la moltiplicazione ed articolazione unitaria dei diversi gradi che costituiscono l’ordinamento normativo globale di cui il singolo settore che la dottrina tradizionale chiama Stato non è che autorizzazione di tutto. La visione monistica del diritto kelseniano è un’ ulteriore demolizione del principio della statualità moderna e della sua arroganza ordinativo/localizzatrice. Moderno, quindi, per Kelsen è solo il misticismo che rappresenta lo Stato come compensativo di entità supreme e di istanze metafisiche.
Topica gerarchica
Mentre Kelsen demolisce il palazzo del sovrano, mettendone in causa la sua modernità epistemologica, Hobbes, per costruirlo, aveva reciso con un taglio la tradizione, considerando il presente come il tempo utile per una corretta progettabilità e pensabilità del pensiero moderno. Il presente inteso come moderno è un taglio alla tradizione necessario per una corretta maturazione dello spazio politico. Nel 1603, Althusius pubblica un’ opera, “la Politica”, che si colloca in una posizione “intermedia” tra antico e moderno, avendo l’esigenza moderna dell’ impostazione metodica alla persuasività affidata agli exempla: la strada che il metodo traccia deve tenere insieme i luoghi della storia sacra e profana. La methodus si avvale di “inventio” e “dispositivo” che ne dialettizza la permanenza. La politica di Althisius potrebbe essere considerata come il tentativo di traghettare nel Moderno l’intera topica gerarchica del pensiero politico tradizionale attraverso un’ applicazione medioevale della lezione aristotelica. Il luogo più centrale che incontriamo ne “La Politica” è quello concernente la natura gregaria dell’uomo, cioè la considerazione che la vita sociale/politica/civile sia condizione nativa e costante dell’uomo sotto il binomio gubernatio/communio: la comunità è politica perché è governata ed il governo è sintesi di imperium e subjectio. Il munus giustifica le potestates di imperium, dal pater al princeps, è un privilegio finalizzato al servizio dei sovraordinati nei confronti dei subordinati. In questa topica comunitaria, l’interdipendenza reciproca e l’uguaglianza tra gli uomini non sono politicamente pensabili: esse per la politica sono un controsenso o una patologia. Un controsenso perché il cosmo si basa su ordine e subordinazione dato che un potere posto contro un potere uguale distruggerebbe ogni cosa in continue dispute. Una patologia perché se tutti fossero uguali ed ognuno vorrebbe governare gli altri secondo il proprio arbitrio e quest’ultimi si rifiutassero d’essere governati, facilmente sorgerebbe la discordia e con essa la dissoluzione della società. Non bisogna, però, dimenticare che Althusius è anche un contrattualista. Il patto althusiano conviene alla natura comunitaria che per il suo tramite si incrementa, si solennizza. All’origine dello Stato e di tutte le “associazioni pubbliche”, il patto non si stipula tra singoli individui, ma tra comunità in sé già perfette ed ordinate ( le città, le province, i feudi, i monasteri, ecc. ) e si perfeziona in due momenti distinti:
Il pactum unionis, attraverso il quale la pluralità di comunità politiche pubbliche si articola nel popolo e si identifica come unico proprietario della sovranità.
Il pactum subjectionis con cui il popolo conferisce mandato per l’esercizio della summa potestas che il popolo nella sua composita articolazione non può esercitare, ma nemmeno alienare senza dissolversi come popolo. I magistrati istituiti da questo patto – gli efori o il sommo magistrato – sono titolari di una concessio imperii. E ciò significa che il potere sovrano non è originario per chi lo esercita, ma è limitato dalla figura del mandato ed è resistibile allorché superi i limiti del mandato legittimando il diritto di resistenza.
Anche questo diritto non è esercitabile direttamente dal popolo o individualmente: è un diritto costituzionalmente garantito dal mandato ai rappresentanti del popolo che in forza del mandato che li istituisce stanno in vece del popolo. Quindi, in Althusius, l’esercizio della summa potestas è un diritto derivato dalla costituzione del popolo, che deriva dalla messa in comune e non da diritti delle associazioni costituenti il corpo del popolo. Il regnum, la res publica, la civica maxia è comunità di comunità che non si dissolvono nell’unio, ma restano collettività articolate dal consenso comune e non deprivate della loro intrinseca politicità, della loro forma di simbiosi. Dato ciò, se la sovranità viene meno, si dissolve il popolo, scompare, con l’anima sovrana, il corpo e le membra in cui si è articolato, ma non si dissolvono i soggetti collettivi che lo hanno costituito, che si riappropriano della loro originaria politicità.
Topica individualistica
Il pensiero di Hobbes vuol’ essere un taglio con le opinioni e gli esempi del passato. Così nella lettera dedicatoria al “De cive” troviamo una riduzione del metaforico albero della conoscenza a soli tre rami: la geometria, la fisica e la morale; manca il tronco metafisico, essendo questo sostituito dal metodo che si radica nella capacità razionale di calcolo e che resta identico nelle diverse materie. La morale, però, a differenza della geometria e della fisica, resta nell’incertezza che nuoce all’umanità condannandola ad una condizione di guerra perpetua. Il punto decisivo del taglio è determinato dal fatto che Hobbes si domanda perché l’individuo deve abbandonare la sua condiziona naturale. Ciò che nella concezione tradizionale del diritto appariva come il conflitto irreconciliabile di individui contrapposti, la guerra di tutti contro tutti generata dall’uguaglianza universale libera da ogni vincolo diventa la condizione umana naturale e la società civile diventa l’artificio correttivo di quella natura. L’uomo non solo non è più un animale sociale o politico, ma nel cristianesimo riformato e disincantato di Hobbes, non è una forma di vita incline al vivere comune. Secondo Hobbes, i c.d. “animali politici” sono così definiti perché si è fraintesa la natura della politica, che consiste nell’ abrogazione delle volontà individuali in vista del conseguimento di un’unica volontà. Gli animali gregarii possono costituire un coetus; ma mai una civica. Lo stato di natura diventa il luogo da cui il Moderno pensa alla politica ed in esso si delineano i connotati del sovrano al quale è permesso conseguire la vita. L’attrezzatura elementare dell’individuo in questo stato è costituita da eguaglianza e libertà dove eguaglianza significa azzeramento di ogni condizione o status o qualificazione che ecceda la semplice finitezza della vita umana; mentre libertà significa mancanza di vincoli al movimento del corpo spinto a conseguire tutti i possibili oggetti del desiderio, del bisogno e delle passioni. La relazione che l’eguaglianza sottende è una relazione uomo – uomo assolutamente riflessiva; cioè l’uomo non è più per natura in una relazione qualificata quale quella uomo – donna, marito – moglie, padre – figlio, padrone – servo, governante – governato, ma è solo nemico, e l’inimicizia è dovuta all’ assoluta somiglianza all’altro che ci fa uguali. Ecco, così, profilarsi l’altro grande “topos” della modernità che ascrive all’individuo l’endiadi naturale eguaglianza – libertà. Per Hobbes, il concetto di obbligazione è innaturale: le obbligazioni naturali sono luoghi comuni che non colgono l’essenza naturale dell’obbligarsi umano che è rinuncia alla propria volontà. Ed è proprio in questo contesto della critica alla tradizione giuridica romanistica e scolastica che Hobbes esautora un altro luogo eminente di quella stessa tradizione: la naturalità del potere paterno. Il padre nello stato di natura è un’ imputazione materna: allo stato naturale non si può conoscere il padre se non per indicazione materna e, quindi, padre è colui che la madre vuole. Circa la relazione che si stabilisce tra madre e figlio, Hobbes afferma che è chiaro che un bambino appena nato è al cospetto di sua madre la quale può decidere di allevarlo o di abbandonarlo. Se la madre decide dovesse decidere di allevarlo poiché lo stato naturale è uno stato di guerra, lo dovrà allevare in modo da non farsene un nemico quando sarà adulto, cioè in modo che le sia obbediente. Quindi, anche la relazione madre – figlio è il risultato di un calcolo di previsione che anticipa la condizione pattizia. Il sovrano, che in Althusius troviamo ancora impigliato nella fitta rete di comunità in cui si articola l’universitas del popolo e la sua rappresentanza, in Hobbes diventa “uomo artificiale”diventa persona giuridica dotata di volontà propria e di un’ identità che lo individua. Con Hobbes si costruisce un nuovo topos, cioè l’insularità dello Stato moderno e ciò avviene attraverso due tagli:
uno interno con la novazione dell’intero ordinamento giuridico sul presupposto dell’assolutezza e originarietà del sovrano potere legislativo;
l’altro esterno nella considerazione dell’altro Stato come nemico, sul presupposto della radicale eguaglianza che connota gli individui allo stato di natura.
Questa insularità è frutto di quel particolare tipo di patto attraverso il quale Hobbes pensa la differenza tra la tradizionale universitas e l’unio sovrana. Essenziale a questo proposito è, non solo l’unicità del patto, ma che ciascuno nei confronti degli altri pattuenti rinuncia al libero uso della propria volontà sottomettendosi alla volontà di un terzo, esterno al patto, che deciderà per tutti e per ciascuno: in pratica, nel vuoto del ritirarsi delle volontà singole s’accampa la volontà del sovrano nella forma della legge che perimetra un nuovo spazio di movimento regolato, sottratto alla guerra, che resta fuori dal perimetro, ed in cui si rende possibile la necessaria, ma artificiale disuguaglianza degli uomini. Questa procedura, però, non permette la costituzione di alcun corpo o popolo prima che il sovrano si costituisca, ma prima e dopo il sovrano c’è solo e sempre moltitudine atomizzata e guerra. Il popolo, quindi, è la rappresentazione sovrana dell’unità conseguita dalla volontà legislativa: il sovrano non sta in vece del popolo, ma non è altro che la canalizzazione della volontà di tutti. L’individuo nudo hobbesiano appare a Locke un protagonista incapace per debolezza giuridica di testimoniare quella padronanza di sé che Dio gli ha conferito. La teoria lockiana della proprietà privata e della sua origine naturale ha la funzione di sottrarre l’ uomo all’ insicurezza totale della guerra ed alla dipendenza dal sovrano. In Locke, l’insula Stato ha una sua radice nell’insularità che ogni individuo in quanto naturalmente proprietario può ritagliarsi. Con Locke topica contrattualista e tradizione istituzionale avevano considerato il lavoro come un’ attività servile e la specificazione come modalità molto debole d’acquisto originario della proprietà. La concezione della proprietà in Locke pone in luce in modo nuovo e problematico il rapporto in cui si determina l’emancipazione di sé dalle necessità della propria natura bisognosa attraverso l’uso di una proprietà considerata originaria: il proprio corpo e il lavoro e le opere di cui è capace. L’emancipazione dell’uomo è, quindi, resa possibile dal lavoro considerato come l’attività libera di un essere libero che di quella libertà può naturalmente disporre e ciò fino alla mercificazione. Il lavoro è per Locke l’essenza del valore: cioè il valore delle cose è il lavoro umano che le ha emancipate dalla loro naturalità. Mentre la tradizione pensava la proprietà come un diritto costitutivamente radicato nella socialità, Locke cerca di pensarla come determinazione antropologica dell’individuo/come potere originario di ciascuno nei confronti di sé stesso prim’ ancora che nei confronti degli altri uomini. Il riconoscimento del diritto avviene immediatamente attraverso la cosa stessa che porta in sé il diritto in quanto l’individuo padrone di sé e della natura, assumendola nella propria sfera di vita, l’ha individuata rispetto alle altre cose. Attraverso l’incontro dell’individuo con la cosa, questa subisce una trasformazione integrale ricevendo dall’individuo qualcosa che non le appartiene in essenza. La proprietà è, quindi, la mutazione radicale del mondo cosale dovuta dall’individuo mosso dai bisogni che lavora ed opera sulle cose naturali da padrone. È questa padronanza originaria di ciascuno della propria intima natura che si oggettiva sul mondo naturale dandogli senso e destinazione.
Utopica
L'utopica (o utòpia) è quell'atteggiamento filosofico attraverso il quale i pensatori moderni non utilizzano più i topoi come metodo di argomentazione nel tentativo di individuare i concetti ma cercano di costruire una teoria del diritto astratta, immutabile. L'utopia si raggiunge solo con il péiran, termine che indica l'esperienza.
Dispotica
A partire dalla Rivoluzione francese, inizia, nel pensiero politico europeo, la dissoluzione della topica moderna. Riabilitazione del pregiudizio e della tradizione sia a livello di religione che di politica, rifiuto del contrattualismo e dell’individualismo, nonché dell’assolutezza nichilistica della sovranità sono i luoghi della dissoluzione della topica moderna in cui s’incontrano, con finalità diverse, ma con una comune morfologia di punti di vista, tradizionalisti, liberali e socialisti. Un posto a sé occupa, invece, il pensiero di Hegel che, proprio a partire dalla Rivoluzione francese, considera il tempo maturo per una riappropriazione dell’intera sostanza dello spirito occidentale. Hegel, soprattutto ne “I Lineamenti di filosofia del diritto ( 1821 ) – Diritto naturale e Scienza dello Stato in compendio” – non vuole rinunciare a nulla di quanto lo spirito ha progettato, determinato ed oggettivato nella storia del pensiero europeo. Nella filosofia hegeliana del diritto si vuole celebrare l’incontro di antico e moderno, di tradizione e storia. L’ incontro delle due topiche definisce la “scienza dello Stato”, necessaria per non dissolvere lo Stato che, grazie alla distinzione tra le diverse classi sociali, fa emergere la forza dell’ armonia delle sue parti. Ciò esige un’ articolazione molto complessa della scienza della filosofia attraverso i luoghi che lo spirito stesso ha percorso ed in cui è sostato, ma soprattutto una raffinatissima tecnica di fluidificazione degli spazi connettivi, dei passaggi e degli usi che le tradizioni hanno fatto dei loro materiali di costruzione, obbedendo alla finalità ricostruttiva di conoscere la sostanza di ciò che è immanente e l’eterno che è presente. Queste idee di Hegel si riflettono nella considerazione del metodo inteso rigoroso riconoscimento del cammino reale dello spirito. Con Hegel, poi, si ha la riabilitazione di un topos fondamentale dei Moderno ormai screditato, cioè lo status naturae. Si vede, poi, l’ introduzione del contrattualismo come fonte di un ordinamento giuridico positivo, ma ordinamento ritagliato nell’orizzonte onnipresente della guerra. La guerra mantiene nella storia il vincolo della possibilità del diritto attraverso la transitorietà del suo assentarsi. Essa, però, è contemporaneamente strumento di un ordine diverso, metagiuridico e metapolitico, quello dello spirito del mondo che, tramite la sua storia, elegge il popolo dominante a titolare di un diritto assoluto, l’egemonia epocale. Un’ ulteriore riconciliazione con il giusnaturalismo moderno può essere considerata la prima parte della Filosofia del diritto – il diritto astratto – che occupa 70 paragrafi dove Hegel prende in considerazione come principi fondamentali della persona proprio i tre diritti naturali – vita, libertà e proprietà – che il liberalismo aveva imputato ai diritti innati dell’individuo, considerandoli fondamento della concezione contrattuale della società civile. Nella visione hegeliana, però, i diritti fondamentali dell’uomo diventano diritti fondamentali della persona intesa come la maschera che assicura l’omogeneità e l’uguaglianza dei singoli. Se si volesse, invece, considerare la critica al moderno nella filosofia dello Stato di Hegel si dovrebbe partire dal rifiuto di una relazione diretta tra Stato sovrano e individui privati. Gli individui diventano cittadini solo se mediati dalle entità etiche “particolari” che li emancipano dalla loro singolarità e privatezza. Lo Stato è unificazione di membrature che si avvalgono della Costituzione che nessuno può scrivere e può fare. Lo Stato, soggetto politico per eccellenza, si compie mediante il nesso tra le sue parti. Inoltre, i cittadini all’ interno dello Stato possono esprimere il proprio senso politico. Questo legame ci dice perché lo Stato è politico. Comunque, ciò che conta sottolineare è il tentativo di Hegel di realizzare una fusione di orizzonti tra tradizione antica e tradizione moderna.
II capitolo
Radici mediche della filosofia pratica del pensiero antico
Prologo
La crisi dei paradigmi epistemici del Moderno inizia con la critica degli ideali dell’Illuminismo, basati sul presupposto di voler fare a meno di ogni pregiudizio. Liberarsi dalle tradizioni, nell’ottica illuministico/rivoluzionaria basata sulla concezione errata che, mentre la storia la si fa, la tradizione si subisce: errata la concezione perché niente è più elettivo delle tradizioni che si scelgono e si inventano. Con questa crisi s’inverte la metafora dell’Illuminismo: non è il pensiero che illumina, ma ciò che il logos ha costruito nella sua storia fonica e grafica è uno spazio gerarchico di nascondimento e di gerarchica in cui tutti i luoghi si fondono in una autoreferenza attraverso cui è impensabile ogni alterità come autentico altrove. Si ha un ritorno della filosofia come nostalgia dell’aperto, esposizione al rischio di una visione sprovvista di teoria, nella convinzione gnoseologica che la Verità basata su un saldo fondamento abbia ceduto il posto a verità molteplici, parziali, provvisorie o strategiche. In questo contesto, la dialettica, la topica e la retorica riacquistano la loro dignità di discipline euristiche ed argomentative; si ha così la riabilitazione della filosofia pratica. Contemporaneamente la riattualizzazione della prudentia nel campo del sapere giuridico è servita a portare una critica seria al giuspositivismo ed al tipo di dommatica e sistematica da esso inaugurate, evitando ricadute nel vecchio giusnaturalismo. Altro topos della cultura giuspositivista che viene messo in discussione è quello dell’auctoritas che era ridotta a mera validità formale del comando o della prescrizione ed alla forza di far valere una decisione attraverso un apparato coercitivo, perdendo così la capacità di argomentare e motivare in maniera persuasiva, incrementando il peso di una decisione.
1 La problematica razionalità del bene
La crisi dei paradigmi epistemici che ha investito il mondo contemporaneo ha messo in dubbio lo statuto universale della conoscenza che la modernità aveva modellato sul metodo del sapere scientifico nelle sue diverse declinazioni. In pratica, nel Moderno, anche l’intero panorama delle scienze umane e sociali, per uscire dalla minorità ed attribuirsi il nome di scienza ha tentato d’affermarsi in un contesto epistemologico non più legato alla filosofia. La modernità è, quindi, dominata dalla convinzione che anche il sapere concernente l’agire umano debba assumere carattere neutrale e descrittivo e distinguersi dalla filosofia identificata con la metafisica. L’affermazione di quest’ idea nella cultura moderna ha avuto come conseguenza il venir meno della fiducia nella conoscenza offerta un tempo dal pensiero filosofico e contemporaneamente ha determinato l’indebolimento della pretesa filosofica d’affermare una propria competenza in ambiti come quello della politica, il diritto, l’etica. Con la crisi del moderno, quindi, si ha una generale ripresa di attenzione per la riflessione filosofica ed una rinascita d’interesse per il tipo di competenza che essa può offrire nei problemi inerenti alla sfera della prassi. Accanto al dibattito inerente la riabilitazione della filosofia pratica se ne è svolto un altro relativo al modello di razionalità pratica. Nel contesto di questo dibattito è emersa l’esigenza di rinvenire una pluralità di paradigmi conoscitivi corrispondenti alla complessità del reale. Queste tesi sono state alimentate dalla ripresa di alcune intuizioni della filosofia pratica antica, di cui ne è stata rivendicata l’attualità. Così, Aristotele, nel II libro della Metafisica afferma che, mentre la teoresi lascia le cose indagate come stanno ed aspira solo a contemplare perché stanno in un certo modo, la pratica cerca d’instaurare un nuovo stato di cose volendo conoscere il perché del loro modo di essere, lo fa solo al fine di poterlo determinare. Aristotele, quindi, parla di episteme pratica come scienza che ha per oggetto le manifestazioni di vita umana che si riassumono in azioni e discorsi che hanno il loro principio nella scelta, nella deliberazione nonché nella capacità di persuasione e convincimento della volontà dell’uomo come essere essenzialmente relazionale e dialogico. Orientare nella scelta tra le diverse possibilità è l’intento che distingue la forma di conoscenza pratica non solo dalla teoretica, ma anche dalla scienza nel senso moderno del termine. Dato ciò, in contrasto con l’idea di una razionalità meramente descrittiva o strategica, si è affermata l’esigenza di restituire, sulla base del modello del pensiero antico, la sfera dell’agire ad un sapere capace di far fronte ad una realtà sui generis dominata dal probabile e non necessario, dal contingente e non dall’eterno, dal dialogo e non monologica coattività. I caratteri di questo sapere connesso all’agire sono rinvenuti nel sapere prudenziale, cioè di un sapere concreto ma virtuoso perché capace d’orientare e guidare l’agire umano verso la scelta di vita migliore possibile nella situazione data, verso la realizzazione del bene considerato fragile, difficile da perseguire e conservare. Proprio la scelta e la decisione risultano riabilitate attraverso una riconciliazione tra ragione e decisione, tra il momento cognitivo – razionale e quello attuativo – decisionale.
2.Intermezzo. Il mondo della vita in Grecia: bios e zoe
2.1 Vita e vita buona
Scrive Karl Kerenyi in “Dioniso. Archetipo della vita indistruttibile” che la differenza tra vita intesa come vita infinita e vita intesa come vita limitata si esprime nella lingua greca con l’uso di due diversi vocaboli: zoe e bios. Zoe è il filo su cui ogni singolo bios viene infilato come una perla e che si può pensare solo come infinito. Bios, forma di vita, è declinabile in forme ulteriori che ne specificano la natura generale. Dunque, per quanto l’uomo è come tutti gli esseri umani uno zoon (essere animato, animale) determinato dalla semplice vita, il destino che lo caratterizza non è quello di vivere bene: eu zen. Rendere la vita buona per l’uomo significa darle una forma dovuta dentro una gerarchia di forme, alcune delle quali sono frutto della singola capacità – prestazione di vita che realizza la buona prassi, cioè la virtù fonte di eudaimonia. L’eudaimonia è una prestazione interiore – energeia – capace di rendere buono il proprio daimon, cioè di porci in armonia con la sua forza destinale.
2.2 Fisiologia corruzione e malattia
Le forme di vita possono essere alte o basse, buone o cattive, sane o corrotte: la buona prassi è ciò che rende possibile acquisire forme di vita superiore, scegliere le buone relativamente alla propria capacità ed al proprio daimon, immunizzarsi per quanto possibile dalla malattia che corrompe. Le forme di vita sono tutte corruttibili e mortali, hanno senso nella morte come ciò che va per quanto possibile conservato in salute. La malattia è ciò che infetta e corrompe ogni forma di vita mortale. La buona prassi è ciò che tende alla salute della forma di vita, è l’ineludibile dover essere della missione dei mortali di fronte all’altrettanto ineludibile necessità della morte.
2.3 Casistica, patologia e farmacologia
La prassi si pone il problema di capire qual è il tipo di sapere che rende possibile una decisione virtuosa e che cosa significa decisione. Per quanto riguarda il sapere non è adatto il sapere teoretico, essendo sostanzialmente contemplazione, che è tensione alla visione più corretta e fedele di ciò che è eterno, immutabile ed incorruttibile né tantomeno è adatto il sapere poietico. Il sapere necessario è phronesis (saggezza). Per phronesis:
s’intende la capacità di porsi all’interno della contingenza per selezionare da essa la possibilità più favorevole al successo dell’azione;
è una virtù che consiste nel sapersi orientare guidando il cammino proprio ed altrui nello spazio dominato dagli eventi che non rispondono ai requisiti della necessità ideale né a quelli dell’ assoluta prevedibilità operativa, eventi, cioè, di cui interessa l’ efficacia operativa.
Afferma Aristotele che la phronesis è la capacità virtuosa di saper stare saldo e retto nel fluire di ciò che è così.
Circa, poi, il significato di decidere, per i moderni significa letteralmente “tagliare”: la decisione è un’ amputazione del possibile, una potatura necessaria per selezionare ciò che è più degno di conservarsi o utile d’ incrementare. Per Hobbes, decidere è una riduzione di possibilità, è una delimitazione dello spazio di movimento. La buona decisione, intesa come prensione di possibilità, si fonda su:
anamnesi → cioè l’esperienza della storia;
diagnosi → ispezione del contingente in vista di una semiotica della situazione;
prognosi → la capacità d’individuare i possibili esiti del decorso scegliendo e perseguendo il migliore nell’ effettiva possibilità.
La phronesis ha una funzione terapeutica nelle patologie della praxis rispetto alle quali è chiamata ad utilizzare una complessa strategia (techne) terapeutica e farmologica. Pharmakon può essere, per la città malata, ciò che la guarisce o ciò che la distrugge. Pharmakos può essere l’ eroe – legislatore che opera contro il male, ma può essere anche il capro espiatorio inteso come martire del miasma che infetta la koinonia (società, comunità). Edipo è, per la città,un farmaco inteso sia come salvatore sia come avvelenatore. In questo contesto si parla di farmacologia intesa in senso soteriologico: il buon politico salva l’ anima avendone cura. La soteria consiste nella capacità di portare in essere un ergon epimeletikon; e la cura del politico ha la durata delle opere terrene: per questa ragione il regime del corpo e della polis dev’ essere in armonia con la costituzione fisica e politica.
3. L’esempio di Platone
3.1 Quale tecnica per la politica?
Secondo un luogo molto accreditato in letteratura, Platone è un critico della democrazia in vista di un ideale aristocratico di governo della polis. Ciò è vero, ma è necessario definire con precisione il significato di aristocrazia. Se, infatti, prendiamo in considerazione la critica alla democrazia di Platone c’è una idea dell’immutabilità, nel bene e nel male, delle diverse forme di governo che dipende essenzialmente dal loro principio. Ciò è espresso con particolare enfasi a proposito della possibilità di migliorare la democrazia, lì dove afferma che molto non è possibile modificare senza intaccare l’essenza stessa della democrazia. Afferma, poi, che i migliori sono i nemici della democrazia: perché nei migliori c’è il minimo di sfrenatezza e di ingiustizia ed il massimo di inclinazione al bene; nel popolo, invece, c’è il massimo di ignoranza, di disordine, di cattiveria: la povertà e la mancanza di educazione li spinge all’ignominia.
Propone una visione conflittuale tra i due principi: o si tiene il popolo in schiavitù e si ha un regime dei migliori che migliora per l’esclusione dei peggiori; o si ha il regime del popolo che preferirà affidare il governo a chi risulta essere più canaglia.
La forma di governo è buona o cattiva se si conserva il suo principio.
L’idea della naturale imperfezione e corruttibilità di tutte le forme di governo permette a Platone di considerare la democrazia come la migliore delle forme degenerate.
L’aristocrazia, per Platone, ha un significato che forza la genetica tradizionale dei “ben nati”: la gerarchia nella comunità dovrebbe radicarsi nel compimento della destinazione di ciascuno, nell’assecondare la peculiarità del daimon che governa verso la forma che realizza la eudaimonia della polis e di ogni singolo. L’aristocrazia dovrebbe, quindi, essere il frutto di una buona prassi di autogoverno che rende degni delle forme di vita superiori a cui lo zoon uomo è destinato. I saperi e le technai sono capacità acquisibili e differenziabili in funzione della gerarchia e tra le tecniche più gerarchizzabili c’è quella della politica. Platone considera questa tecnica monopolio di una èlite concessa ai ben riusciti. Aristocrazia legata ad un particolare tipo di vita che permette l’acquisizione dell’arche (potere,principio) che si dispiega nel dovere di governare.
Così come la politica, per Platone anche la medicina è una tecnica di blite particolarmente prestigiosa perché rivolta alla terapia dei mali connaturati al corpo dell’uomo, se carente dell’armonia, che deve sovrintendere alla relazione tra le sue parti e tra queste e l’ambiente che lo circonda. La buona relazione tra le parti di un organismo è il contrario della stasis che rappresenta il blocco della cinesi fisiologica dell’ armonia: la sedizione. Ma la statis è anche un pericolo per la salute della polis, legata all’armonia delle sue parti.
Ma il corpo è la dimora dell’anima, di cui ha cura la politica: la corrispondenza tra corpo ed anima autorizza, quindi, una corrispondenza analogica tra le due tecniche terapeutiche. Il buon medico ed il buon politico sono i detentori delle tecniche in grado d’assicurare un sano regime di vita al tutto costituito da anima e corpo, singolo e comunità.
3.2: I requisiti delle tecniche terapeutiche
Le technai sono competenze operative che conferiscono al loro detentore un potere inteso sia come possibilità di operare sia come determinazione dell’ azione mediante l’ obbedienza all’ arche. Il problema sorge circa la definizione dell’ arche che favorisca l’ individuo. I sofisti affermano che a livello del potere politico è impossibile operare con la distinzione morale buono – cattivo. Il potere degli uomini è necessariamente rivolto all’interesse di chi lo possiede: il potere è tale nella misura in cui riesce a servirsi degli altri ai propri scopi. L’unico bene che il potere persegue è il bene del detentore. A questa concezione, Socrate contrappone proprio il modello del medico affermando che nessun medico, nel mettere in opera la su--a tecnica, che consiste nel prendersi cura del corpo, producendo la salute e il bene degli altri. Il medico, facendosi pagare le sue prestazioni, esercita la medicina in vista del guadagno. Socrate afferma che il pagamento della prestazione medica non riguarda la tecnica medica – che esaurisce il suo fine nella guarigione del malato - ma è rivolta all’arte del guadagno che ha una finalità diversa, e non va confusa con quella medica. Al di là di quanto sia forte il contro argomento socratico, ciò che importa sottolineare è l’esemplarità della medicina come modello di sapere – potere buono che legittima la possibilità di ricercare per la terapia della città un potere che possa definirsi buono, cioè la politica. Platone poi individua i punti necessari per far sì che la tecnica raggiunga i suoi scopi. Egli ritiene che il tecnico buono per essere anche efficace non può lasciarsi condizionare nella sua attività né da regole precostituite alla sua competenza specifica né dal consenso dei destinatari. È chiaro che in questo modo si schiera contro la democrazia ateniese dove il voto della maggioranza decide tutto. Platone, per opporre a questa politica malata una politica retta, ritorna all’esempio del medico che non può essere vincolato nella prescrizione della terapia al consenso del malato, e deve essere libero di modificarla quando la situazione cambia. Allo stesso modo, la politica, quale tecnica terapeutica, deve seguire le stesse regole: un buon politico, quindi, dev’ essere in grado di decidere l’urgenza e l’eccezionalità delle circostanze, deve sentirsi libero dalle leggi. Tutto ciò, però, è valido solo se il fine – della salute e della effettività - è effettivamente conseguito altrimenti tutte quelle che sono le caratteristiche necessarie all’efficacia della tecnica si convertono nella degenerazione della stessa. La figura del tiranno – che campeggia nella Repubblica – presenta le stesse caratteristiche del politico retto, ma corrotte ( e lo stesso può dirsi del medico che invece che curare uccide l’ammalato agendo in vista di un fine diverso dalla terapia ).
1.3: Questioni di metodo
Il metodo ippocratico è assunto da Platone come modello metodologico della buona retorica: è una tecnica di buon governo dell’anima attraverso i discorsi. I discorsi sono gl’ agenti esterni che interagiscono con le parti dell’ anima e della città. Facendo perno su questa omologia, Platone, nel Fedro, chiama direttamente in causa Ippocrate, enunciando sinteticamente la struttura metodologica della lezione ippocratica. Questo metodo consiste in un momento olistico ed in uno analitico.
Il momento olistico vuole inserire nel tutto l’ oggetto della cura; ma quest’ oggetto dev’ essere riconosciuto nella sua natura. La medicina è un sapere/ potere in grado di comprendere di quali parti è fatto un corpo, comprenderle nella loro totalità e nella loro singolarità, ma soprattutto nelle relazioni che ciascuna intrattiene con il tutto e con le parti. Così come la medicina fa con il corpo, così l’anima va riconosciuta nella sua natura, nelle sue diverse parti: razionale, emotiva o aggressiva, e anche queste parti intrattengono relazioni tra loro e con l’esterno che bisogna imparare a stabilire per poterle governare verso il fine della felicità. In questo modo, il metodo ippocratico è esemplare per la costruzione di una buona retorica come arte della persuasione funzionale allo sviluppo ed al rafforzamento della sophrosyne (saggezza ), cardine di tutte le virtù necessarie al servizio della politica. Le caratteristiche che rendono la medicina modello per una retta azione di governo sulla base di un potere sono, quindi, le seguenti:
la capacità di conoscenza del singolo senza lasciarsi distrarre da astrazioni e generalizzazioni fuorvianti, ma studiandolo in stretta relazione con i rapporti che intrattiene con l’ambiente;
il saper fare tesoro dei sogni prognostici che il medico può sfruttare per comprendere la situazione del malato in vista della diagnosi, della prognosi e della terapia;
la scelta del momento propizio che occorre saper cogliere per poter decidere ed agire nel momento opportune.
Le stesse ragioni che rendono la medicina esemplare per la politica operano anche per il suo declassamento ontologico ed epistemologico rispetto ad altre tecniche più rigorose dato che sono meno legate all’esperienza sensibile, al contingentamento. Su questa linea di pensiero, Aristotele, se da un lato giudicherà la tecnica politica una “architettonica delle forme di vita e delle altre tecniche necessarie in vista dell’unione politica”, dall’altro, però la considererà - insieme con la medicina – così tipica dell’umano da porla in un campo epistemico problematico, nel senso che l’eupraxia, così come la salute, non può essere generata da nessuna medicina, ma solo ripristinata o conservata.
III capitolo
Oltre l’ipocrisia egalitaria. Il liberalismo ha radici antiche?
Il De Sanctis afferma che il liberalismo è una concezione politica in quanto è relativa a due fenomeni tipici della modernità: Stato e individuo. Il termine “individualismo” si afferma in contemporanea col “liberalismo”. Tocqueville, liberale, definisce il liberalismo come un’ attività di partecipazione e di controllo del potere, nonché di controllo del potere. De S. si riferisce ad un liberalismo anti-democratico: in questo senso, la democrazia dev’ essere dominata in vista di una equa divisione di oneri e responsabilità. L’eguaglianza viene intesa come il principio della competizione politica basato sul fatto che tutti sono uguali. L’ipocrisia egalitaria fa perdere all’uguaglianza stessa il valore che essa ha assunto nel periodo moderno: rappresentare il motore della vita comune, capace di smuovere la società, spingendo tutti dal basso verso l’alto e rimettere sempre in gioco tutti i partecipanti. La concezione che tutti siano uguali è data dalla secolarizzazione: acquisizione della maggiore età, ovvero della libertà, rispetto alla paternità di Dio. Nella modernità l’eguaglianza viene pensata come derivato della libertà: tutti sono liberi in quanto uomini. Secondo T., la democrazia considera l’uguaglianza più preziosa della libertà dato che, senza uguaglianza, la libertà di ciascuno tenderebbe a convertirsi in diseguaglianza. Siamo giunti al momento in cui bisogna far una riconsiderazione del problema che l’eguaglianza pone alla democrazia quale potere politico che la realizza. Infatti, l’eguaglianza ha imposto erga omnes i suoi diritti fondamentali, ma le disuguaglianze aumentano con l’ affermarsi che la democrazia sembra farsi destino globale. In questo contesto di ipocrisia egalitaria va ripensato il tema dell’aristocrazia come correttivo interno alla democrazia. L’ aristocrazia viene intesa come un di dispositivo di sicurezza che possa contrastarne le derive considerate eterogenee rispetto al principio che la informa. Una di queste derive è l’oligarchia il cui potere si costituisce in luoghi apparentemente estranei alla politica – industria, finanza, informazione – ma capaci di determinarla anche nella scelta dei capi. Il contrario dell’oligarchia è il populismo, termine con cui i democratici indicano le proprie delusioni nei confronti del loro modello di democrazia. Tocqueville, nel ricostruire la genesi del lemma “aristocrazia”, tiene molto alla distinzione tra nobiltà in senso stretto e aristocrazia. La prima (nobiltà in senso stretto) si presenta indisponibile allo svolgimento di qualsiasi attività sociale. L’aristocrazia, invece, rappresenta il compromesso tra una società nobiliare e una società in cui, per meriti acquisiti e non meramente storici, si può ascendere dalle classi basse della società a quelle alte. La crisi dell’aristocrazia, il suo declino verso la democrazia, inizia proprio con la possibilità d’acquisire posizioni aristocratiche. Questo discorso serviva a T. per opporsi a tutte le visioni del liberalismo che pretendevano dalla democrazia la produzione di una nuova aristocrazia. Nuova perché basata sulle capacità degli individui i quali mettevano a disposizione della società le loro abilità, assumendo la responsabilità di governare e rappresentare chi, meno dotato di capacità e meriti, non disponeva di tali capacità.
L’ulteriore capacità di questa aristocrazia è la sua acquistabilità che si rinnova ad ogni generazione ripartendo da zero. Di questa mobilità la democrazia dev’ essere un’effettiva eguaglianza sociale che può assicurare l’ascesa dei migliori agli oneri ed alle responsabilità della vita politica. In questa visione la ricchezza è solo una prova indiretta delle capacità degl’ individui in quanto la ricchezza di un cittadino determina la posizione che costui assume nel mondo politico. Tocqueville è contro questa visione storica tra due componenti (nobiltà in senso stretto e aristocrazia) che considera la storia come un ciclo che dall’uguaglianza originaria si passi all’uguaglianza della democrazia attraverso il lungo emiciclo dell’aristocrazia che è destinata ad estinguersi. Il pensiero di T. è dominato dalla preoccupazione di teorizzare l’inconciliabilità (l’ essere inconciliabile: che non può essere composto, sanato) tra aristocrazia e democrazia. Il fatto che nei suoi scritti troviamo che i giudici ed i giuristi americani costituiscano un’ aristocrazia, il fatto che egli, nella ricostruzione dell’antico regime, consideri nobiltà e borghesia le due aristocrazie francesi, separate tra loro ed alienate dalla politica e dal popolo, travolte entrambe dalla democratizzazione prima monarchica e poi rivoluzionaria: tutti questi fatti confermano come per Tocqueville la democrazia è pensabile nella sua contrapposizione all’aristocrazia. Altra spia del rifiuto di commistione tra i due generi di società è la critica radicale che T. fa ad ogni genere di governo misto: questo tipo di governo è per T. o una chimera o rappresenta una condizione in cui si passa da una condizione di transizione da una forma all’ altra di vita sociale e politica. Il Governo misto viene inteso come forma istituzionale misurabile sull’ elettività. L’ idea che il suffragio possa garantire un’ equa scelta politica appare come un’ idea illusoria: la democrazia necessita di correzioni al sistema istituzionale. Ciò che non può garantire l’ elezione è la scelta di soggetti che possano svolgere ruoli di governo tipici della democrazia. L’ idea di competenza è ciò che accomuna l’ idea classica della politica come tecnica di governo degl’ uomini, e quella di liberalismo. È nel pensiero di Platone, nemico della società aperta, che si potrebbero trovare i canoni del modello di pensiero aristocratico di cui anche il tipo di liberalismo inviso a T. voleva farsi promotore. E la scelta ricade su Platone e non su Aristotele perché quest’ultimo riduce le forme di governo a due solo, cioè oligarchia e democrazia. Platone, invece, nel suo realismo assoluto, considera pazzesco credere all’esistenza terrena di un governo perfetto dato che è tale solo quello in cui il potere di governare spetta solo ai migliori che avrebbero anche il dovere di assicurare che i governanti restino tali. Ciò che tiene insieme il pensiero di Platone sul problema del buon governo della polis è la ricerca di una techne (politica come competenza) capace di educare, orientare e gestire l’agire comune degli uomini secondo giustizia; il che significa portare a compimento sia la vita del singolo sia quella della comunità in maniera tale che tra ogni singolo e la comunità si stabilisca una relazione corretta in cui il fine della città sia il compimento della finalità di ciascun singolo secondo quanto è necessario che essi stessi siano per la loro stessa natura o destino. Quella che viene definita divisione del lavoro sociale è tanto severa da vietare a ciascuno di ricercare il proprio fine, perseguito in accordo con il proprio daimon (demone) che di ciascuno è il custode della forma di vita scelta. Custode che può essere buono ,eudaimon o cattivo, kakodaimon, con il custodito a seconda della riuscita o meno della vita che spetta a ciascuno. L’eudaimonia (ricchezza), quindi, rappresenta la capacità di governarsi e di essere governati dallo orthos logo la cui trasposizione fisica è la postura eretta dell’uomo che segna la differenza tra alto e basso. La postura eretta dell’uomo rappresenta la sovra e subordinazione delle parti che dà valore al cosmo. La democrazia sovvertirebbe (sovvertire = rovesciare, trasformare) questo concetto in quanto l’eleutheria – cioè la libertà- diventa un attributo politico legittimante tutti a tutto da cui deriva che ognuno pensa di poter fare tutto, trascurando la propria destinazione. Da qui, l’anarchia, frutto della polipragmosyne (studio), viene indotta dalla semplificazione delle qualità del cittadino alla sola libertà. Dato ciò, è chiaro che Platone resta il pensatore aristocratico per eccellenza. Circa il significato di aristocrazia in Platone, sicuramente essa non ha nulla a che vedere con l’ottica vetero – nobiliare di Alceo e Teognide o con quella politica del Vecchio Oligarca (Pseudo Senofonte). Il Vecchio Oligarca contrappone in maniera radicale l’aristocrazia e la democrazia, ma la sua critica alla democrazia è motivata dall’appartenenza ad una umanità che si reputa diversa da quella a cui appartengono coloro che formano il demos e, quindi, non presuppone un’idea universalistica della migliore forma di governo: semplicemente, per i “cattivi” la migliore forma di governo è la democrazia, mentre per i “buoni” è l’aristocrazia. Sono proprio i “cattivi” a dimostrare di saper governare. L’idea aristocratica di Platone, invece, parte dalla certezza che è possibile arrivare ad una concezione della costituzione e del governo della polis tale che possa essere la migliore per tutti gli uomini e che, anzi, proprio in vista di questo fine universale dev’ essere ricercata una tecnica che si ponga al servizio di questo fine. Ma questa competenza dev’ essere monopolio di pochi, migliori degli altri non perché “ben nati”, ma perché “ben riusciti”. “Ben riusciti” significa dedicarsi al potere di governare gl’ altri. Torniamo, ora, al tema della felicità, che i moderni considerano una condizione legata al benessere, inteso come disponibilità ottimale dei beni quali mezzi per la loro soddisfazione; condizione accessoria alla vita dell’individuo. Già l’antico pensiero greco riteneva che l’uomo necessita della società perché per l’uomo è importante vivere bene. Nel benessere dei moderni, poi, si concretizza questo vivere bene, ma il problema del liberalismo è se conviene affidare allo Stato il compito del benessere dei cittadini o se, invece, lo Stato deve solo garantire le condizioni di libertà che permettono a ciascuno di raggiungere la propria felicità senza intervenire nella loro sfera privata. Da questo punto di vista, lo Stato interventista è considerato dal liberalismo sospetto di dispositismo. Mentre le nostre lingue hanno uno stesso termine per designare la vita che è strettamente legato alla morte come sua estinzione, i greci, invece, possedevano due diversi lemmi che guardavano alla vita in due prospettive diverse, soprattutto in relazione alla morte: bios in cui la morte appare necessaria alla sua compiutezza, e nell’altra, zoe, in cui la morte non è inscrivibile nella semantica che espone. L’uomo, per i greci, è certamente un “vivente” – zoon – ma il suo compito non è solo vivere, ma vivere bene, eu zen, laddove l’avverbio “eu” indica la fedeltà del bios al proprio paradeigma. Ma eu zen significa anche vivere armonicamente in una comunità politica portando a compimento in maniera riuscita ciò che modella la propria forma di vita in relazione con tutte le altre. A questo proposito è essenziale la fedeltà al paradeigma che definisce la riuscita del bios che è fonte della eudaimonia, particolare tipo di misura e di equilibrio di vita che testimonia al singolo la riuscita del proprio bios. Questa concezione di eu zen determina la correttezza dell’ agire singolo come pienezza dell’ agire singolo: la siphrosyne indica una capacità compiuta di “agire bene” che si attua mediante “umori” e temperature”. Agire “bene” nell’ armonizzazione delle parti dell’ anima.
L’ armonia:
è una parola chiave perché capace di controllare il conflitto tra umori e temperature;
è ottenuta da en-ergia ed eu-praxia;
è il prodotto capace di rendere “buono” il custode della fedeltà di ciascuno al proprio bios alla parte che si deve assumere e performare.
La sintesi più perspicua di questa visione la ritroviamo in Platone ( Repubblica, mito di Er) dove l’eudaimonia si configura come il dovere per eccellenza (la risposta della prof.ssa che vuole sapere il senso riferito ad uno specifico argomento, in questo caso vorrebbe sapere cosa c’ entra l’ eudaimonia in riferimento al mito di Er). Ciò che il mito vuole trasmetterci è una visione panica della vita che con un sorriso di benevolenza accompagna la descrizione del momento cruciale della vita. La vera vita, quella psichica, ha a sua disposizione un’ infinità di tempo in cui può incarnare più bioi. Quando Kant scriverà “Principi metafisici della virtù”, che pone come fine della vita l’ eudaimonia e non la libertà che porterebbe all’ eutanasia della morale, si è perso completamente il significato classico del termine. Ma libertà – eleutheria – per i classici non ha il carattere sacrale della liberté, ma è un bene elementare del cittadino che spetta a tutti i non schiavi, e dal punto di vista metafisica, significa avere in sé la propria finalità di vita, che è, appunto, l’eudaimonia.
IV capitolo
Il sovrano all’opera: le ragioni del giudice
Giurisdizione sovrana
Creare diritto
L’ordine giuridico moderno si produce attraverso la semplificazione delle fonti del diritto che tendono ad unificarsi nella legislazione quale monopolio della produzione giuridica da parte del sovrano la cui prestazione fondamentale consiste nel creare diritto ex novo, ponendo con questa creazione anche l’unità dell’ordinamento giuridico definita da un popolo, da un territorio e da un plesso istituzionale di governo. Iurisdictio, quindi, non è più un’attività prudenziale – sintesi di scienza e di esperienza – finalizzata a ricavare il diritto dai fatti socialmente rilevanti o controversi, inquadrandoli e qualificandoli, in base alla potestas decidendi come casi da risolvere all’interno di una tradizione normativamente interpretata. In questa concezione, il soggetto implicito della iurisdictio è l’iudex e lo ius e la iustitia il patrimonio da gestire ed incrementare. Il soggetto moderno della produzione del diritto è esclusivamente il sovrano – legislatore che crea dal nulla giuridico l’ordine del diritto costruito – positum – attraverso le l. civili intese come comandi ai sudditi. Come Dio, di cui il sovrano è imitazione, essendo creatore di un ordine – quello delle leggi - non può essere sottoposto a quanto ha creato. Ciò, soprattutto perché se il sovrano fosse sottoposto alle l., significherebbe che deve esserci una potestà superiore a lui, ma un ordine duplice equivarrebbe a disordine contro cui il sovrano è, invece, stato istituito. Il legislatore, giurista, riassume nella sua funzione di positio il nuovo ordine legicentrico del diritto.
2 Hobbes
2.1 Legge e giustizia
Hobbes contrappone lo ius alla lex e corona il processo di legificazione e politicizzazione del diritto positivo come prestazione di sovranità la cui capacità di sostituire la pace alla guerra, l’ordine al disordine, la giustizia alla non giustizia, costituisce la sua sovranità. Per Hobbes, il diritto come ordinamento oggettivo di leggi civili espone una necessaria indifferenza alla tradizione e con la sua validità abroga ogni consuetudine che non riconosce, imponendole una novazione. La condizione naturale degli uomini, per Hobbes, una condizione di libertas. In essa il genere umano vive in uno stato in cui ogni relazione interindividuale è problematica perché incerta e/o violenta. L’uguaglianza che caratterizza questa condizione è uguaglianza di ius, cioè di libertà intesa come possibilità non predeterminata di muoversi nello spazio. L’individuo è una macchina capace di muoversi in tutte le direzioni verso cui lo spingono le pulsioni interne provocate dai bisogni e desideri. Ius in omnia è la definizione “giuridica” di questa dimensione dove il movimento non vincolato di ciascuno entra necessariamente in conflitto con quello di ogni altro dato dove all’uguaglianza dei bisogni e desideri corrisponde un’altrettanta uguale possibilità di conseguire i mezzi di soddisfazione; mezzi severamente limitati rispetto all’ illimitata sfrenatezza della natura umana incapace di arginare la propria eccedenza pulsionale sulla base delle leggi della ragione le quali per la loro funzione conservatrice della vita sono valide, ma inefficaci, data l’inestinguibile brama di potere che definisce l’essenza della natura relazionale dell’uomo. Valide perché inoppugnabili dinanzi al tribunale della “ragione naturale”. Inefficaci perché ciascuno preferirà la speranza di ottenere il massimo da risorse umane e naturali. Sovrano è l’entificazione personale dell’unica legittima fonte di comandi. Legittima perché generata dal patto di rinuncia di ciascuno con ciascun’ altro pattuente al proprio inutilizzabile ius in omnia per trasferirne la titolarità al sovrano. Ciò avviene nella forma della rinuncia al proprio diritto di resistenza, ad ogni comando che lo vincoli. Il patto, quindi, struttura la relazione pacifica come relazione reciproca, conseguente promessa d’obbedire ai comandi del sovrano in vista della produzione di uno spazio di vita in cui sia possibile muoversi senza pericolo per la vita stessa. Le leggi del sovrano sono i vincoli che, permettendo il movimento senza scontro di tutti gli associati dal patto, permettono a ciascuno di vivere nella sicurezza di quel tanto di ius che deve essere assicurato a ciascuno. Ciò che prende forma in questo spazio legificato è la società civile come prodotto del sovrano. In quest’ottica, il popolo è artificio di sovranità. La sovranità è la rappresentazione dell’ordine unitario creato dalla legge. Ciò, comunque, non significa che il sovrano perde l’antico potere di giudicare: costui resta il giudice supremo come realizzatore della giustizia; ma la giustizia a cui si riferisce in questa funzione non esiste indipendentemente dalla sua persona, per cui, prima della legge sovrana non c’è giustizia che possa vincolare un soggetto. A differenza dell’equità che governa la legge di natura, la giustizia risiede unicamente nel sovrano.
2.2 Sentenze ed equità
Bisogna specificare il ruolo, per Hobbes, del giudice ordinario che, anche se subordinato al giudice supremo non è un potere nullo, ma è un’ importante articolazione della sovranità perché titolare di un munus di estremo rilievo per la vita del diritto. Per quanto riguarda la funzione del giudice Hobbes nel Leviatano scrive che la legge di natura e la legge civile si contengono reciprocamente e sono di pari estensione. Infatti, le leggi di natura, consistenti nell’equità, nella giustizia, nella gratitudine e nelle altre virtù morali da queste dipendenti, nello stato di natura sono qualità che rendono gli uomini inclini alla pace ed all’obbedienza; diventano leggi solo quando viene istituito lo Stato che le rende delle leggi civili. Per definire equità, giustizia e virtù morali sono necessarie delle prescrizioni da parte del sovrano e delle punizioni per i violatori. Legge naturale e legge civile sono parti differenti della legge: la parte scritta è chiamata legge civile e quella non scritta naturale. La legge di natura interessa al giudice ordinario che deve giudicare sul presupposto che il legislatore abbia voluto, con le leggi civili, realizzare con la giustizia l’equità naturale. Per quanto, poi, riguarda il ruolo che in Hobbes ha l’interpretazione della legge in generale, egli ritiene che essa sia:
il momento finale della sua capacità di vincolare, della sua forza obbligante;
l’interpretazione determina l’effettività della legge.
Appena il destinatario della norma conosce il legislatore, procede all’ interpretazione della norma perché nell’ interpretazione vi è la funzione del ius. Il giudice è l’interprete naturale della volontà sovrana espressa nella legge sia perché destinatario della sua parte sanzionatoria sia perché custode della ragione del sovrano non sempre esposta dalla sua manifestazione di volontà. Quando l’assenza di manifestazione di volontà del sovrano riguarda una legge non scritta e non pubblicata, ma efficace e vincolante nei confronti della totalità dei sudditi, si ha a che fare con una legge di natura, quindi, vincolante per tutti. Quando, invece, l’assenza di manifestazione di volontà riguarda la parte non scritta di leggi scritte e pubblicate, il problema dell’interpretazione incontra la alternativa tra autorità e verità. Hobbes rifiuta di riconoscere che sia verità quella depositata negli scritti dei “dottori” dato che la capacità di produrre pace, ordine e benessere, cioè di vincolare le azioni degli uomini in vista di una convivenza civile. Quest’ autorizzazione scende dal sovrano verso i giudici concedendogli l’uso della ragione naturale nell’applicazione della legge. Quindi, l’interpretazione dei giudici, per Hobbes, è una prestazione razionale rivolta all’ esposizione dell’equità naturale che ciascuna legge civile reca in sé come parte non scritta, ma necessaria come suo presupposto necessario e tacito. Secondo il filosofo nell’atto di giudicatura il giudice considera se le richieste delle parti sono conformi alla ragione naturale ed all’equità. Poiché, poi, non c’è alcun giudice che non possa errare in un giudizio basato sull’equità, se, successivamente, in un altro caso analogo, egli trovasse più conforme all’equità pronunciare una sentenza opposta, è obbligato a farlo. L’errore, quindi, non diventa legge per chi lo commette né obbliga a persistere. Riassumendo, quindi, possiamo dire che mentre l’equità del legislatore è il presupposto dell’intero ordinamento e come tale costituisce la parte non scritta di tutte le leggi civili, il giudice di fronte ad ogni caso deve studiarlo alla luce dell’equità che deve farsi effettiva nella società civile attraverso l’interpretazione autorizzata delle leggi. Ciò che appare scritto nella legge è l’atto di volontà del legislatore. Questo ragionamento dev’ essere ripercorso e riprodotto dal giudice per poter fondare la sua sentenza. Mentre la legge del sovrano è fondata sulla volontà dello stesso, la sentenza del giudice è la ragione della volontà espressa dalla legge. L’equità, quindi, è cosa diversa dalla giustizia: la legge civile può essere iniqua ma mai ingiusta, dato che la giustizia è prodotto di volontà umana autorizzata dal patto. Se la legge è iniqua, al giudice non potrà mai spettare il compito di correggere la legge, ma il suo giudizio di equità può correggere solo indirettamente la legge attraverso l’interpretazione della sua parte non scritta applicata al caso concreto, che lascia, però, la legge immutata nella sua forma.
3 Locke
3.1 Il diritto di punire
Locke pensa lo stato di natura come una condizione di vita diversa dallo stato di guerra e, perciò, non confondibile con essa. Nello stato di natura sono possibili diritti e relazioni che presuppongono l’osservanza e, quindi, l’effettività della legge di natura. Questa legge permette l’opponibilità erga omnes del diritto fondamentale di proprietà. Ciò perché la proprietà è un diritto talmente legato alla conservazione del singolo e della specie da essere inerente alla stessa vita dell’uomo in quanto individuo. In sostanza, per Locke, l’uomo, nella condizione di natura nasce libero, padrone di sé per cui a “property in his own person”. Ciò significa che ha in sé la chiave per l’appropriazione del mondo cosale. Infatti, questa proprietà include il lavoro e l’opera che, mescolandosi con le cose, le incorporano alla persona. Nel duplice processo della cosa che si personalizza e della persona che si reifica si definisce la naturalità del diritto di proprietà e la sua opponibilità erga omnes.
Nella visione di Locke il diritto viene inteso come il diritto di giudicare e di punire le altrui inflazioni alla legge di natura. Questo diritto è il punto cardine dell’eguaglianza di natura dove nessuno può essere subordinato o sottomesso ad un altro né vantare differenze di rango o di specie proprio perché a nessuno è conferito il mandato di fare giustizia, ma tutto il potere e la giurisdizione è reciproco. In particolare, scrive Locke: dal momento che tutti sono trattenuti dal violare i diritti altrui e dal fare torto agl’ altri e sono tenuti ad osservare la legge di natura che vuole la pace di tutti gli uomini, l’esecuzione della legge di natura sta nelle mani di ciascun individuo il quale gode del potere di punire i trasgressori d i questa legge in misura tale che possa impedirne la violazione perché la legge di natura sarebbe inutile se non ci fosse nessuno che nello stato di natura avesse il potere di farla eseguire, e così da proteggere gl’ innocenti e reprimere gl’ offensori. Bisogna, però, capire cosa manca allo stato di natura affinché gli uomini vi permangano soddisfatti in quella condizione.
In primo luogo manca una legge stabilita che per comune consenso sia stata ammessa e riconosciuta come regola del diritto e del torto per decidere tutte le controversie. La legge di natura è inscritta nella capacità intellettiva di ogni individuo come imperativo razionale già pronto all’esecuzione. Ciascuno, perciò, la conosce, la interpreta e la applica senza alcun bisogno di consultare altri.
In secondo luogo nello stato di natura manca un giudice conosciuto ed imparziale, con autorità di decidere tutte le controversie in base alla legge stabilita. Qui, l’essere ognuno giudice ed esecutore insieme della legge di natura individua il modo di mettersi in relazione con l’altro individuo anch’esso titolare dello stesso diritto. In questo modo, però, l’uguaglianza naturale entra in contraddizione con sé stessa: infatti, se tutti sono giudici non può esserci giustizia. In vista della realizzazione della giustizia nella quale è contenuta anche la pace è necessario istituire un giudice sulla terra.
In terzo luogo nello stato di natura manca un potere che appoggi e sostenga la sentenza quando è giusta e le sia dovuta l’ esecuzione.
Conclusione. I primi due punti sono distinguibili sulla base della conoscenza e del giudizio che sono individuali. Circa, invece, i privilegi dello stato di natura ai quali bisogna rinunciare per entrare a far parte di una società civile e politica con lo scopo di conservare tutt’ insieme il diritto fondamentale della proprietà, Locke afferma che sono due i poteri a cui il singolo deve rinunciare individualmente per riacquistarli come partecipe di un tutto:
1)Rinunciare al potere che conferisce la libertà irrelata → cioè fare tutto ciò che ciascuno ritiene opportuno per la conservazione di sé e della specie;
2)Rinunciare al potere di punire che definisce l’uguaglianza nella relazione naturale.
La rinuncia a questi due poteri attraverso il patto costituente della società civile genera il potere politico che, al fine di governare la società istituita dal patto, li riarticola in potere legislativo e potere esecutivo.
3.2 Arginare il governo
Le leggi hanno due funzioni: la prima è quella di rendere pubbliche e positive le norme su cui si deve basare la convivenza; la seconda, invece, è quella di tracciare dei limiti quanto più precisi l’azione del sovrano nei confronti dei cittadini; azione affidata al governo che deve realizzare quella volontà sul presupposto di conservare la libertà degli individui. Di queste funzioni, la meno rilevante per Locke è quella rivolta ai cittadini: lo scopo delle leggi è quello di limitare l’azione di governo che non esiste per natura, ma è istituito dagli uomini per patto affinché i governati da un potere comune convenuto perché necessario alla convivenza di una società politica, entro i limiti della ragione umana. Il giudice ordinario viene identificato come “commonswealth” (nuovo individuo) solo quando è necessario avere un giudice anche in terra. Il giudice, quindi è l’ entificazione di una volontà comune e razionale per il giusto governo degli uomini, riuniti in società per rimanere liberi. Volontà che resta valida nella misura in cui la sua finalità terrena è di governare fino a quando il sovrano garantisce un’azione di governo conforme alle ragioni della rinuncia dello stato di natura. Dallo stato di natura – dove ognuno è giudice delle altrui violazioni del diritto di proprietà – si esce, solo per ottenere la salvaguardia effettiva dei diritti naturali. Tuttavia, proprio il passaggio dall’uguale potere di ciascuno di farsi giudicare dal potere politico esige una novazione legislativa vincolante per tutti: un potere che renda le leggi positive poste come limite invalicabile in particolare all’azione di governo. Il potere legislativo, così, acquista supremazia sul potere esecutivo.
I giudici sono subordinati al potere legislativo né costituiscono un potere autonomo da quello esecutivo, anche se sono lo snodo fondamentale per il cittadino dell’efficacia della legge positiva e la garanzia dell’uso legale della forza.
Si pone, poi, il problema di capire in che senso il potere legislativo diventa, nella società civile, il potere sovraordinato al giudice. La risposta a ciò è nella convinzione di Locke, secondo cui una società per essere libera dev’ essere necessariamente capace di pre – costituire con le proprie leggi lo spazio dell’azione di governo, orientandola al bene comune. Il potere legislativo legalizza l’azione di governo e dell’esecutivo, impedendo tirannia e dispositismo. Per dirla meglio: la società civile ha bisogno di potere legislativo per essere tutelata contro l’arbitrio o l’eccesso di potere di governo. Dunque, il potere legislativo dalla prospettiva dei consociati appare come il potere che manifesta la volontà sovrana della società, che vincola tutti alla sua esecuzione; ma il singolo sovrano – legislatore è il giudice supremo che, sulla base di questa legge, sentenzia le leggi positive. Rispetto a questo, i giudici ordinari sono semplici magistrati che hanno il potere di applicare le leggi civili che sono esecuzione della legge naturale. Principe, ministro, giudice, per Locke, sono tutti esecutori della sentenza del legislatore. Nel momento in cui gli uomini escono dallo stato di natura ed entrano in società ciascuno di essi, costituendo un solo corpo politico sotto un unico governo supremo, autorizza la società stessa a fare leggi per lui in vista del bene proprio in accordo con il pubblico bene .
4 Montesquieu
4.1 Giudici e forme di governo
Nell’ “Esprit des Lois” il potere di governare si articola in funzioni che, per assicurare la libertà politica, devono essere ripartite in poteri diversi: quello di deliberare ponendo le leggi; quello di agire in conformità ad esse per eseguirne il dettato, amministrando la società; quello di giudicare i casi concreti in cui si realizza la giustizia civile e penale. Le diverse forme di governo si caratterizzano per la quasi compiuta separazione tra questi tre poteri, da un massimo nella forma democratica di repubblica, ad un minimo nella monarchia.
Nello Stato dispotico il giudice stesso è la regola.
Nello Stato monarchico il giudice segue la legge dov’ è precisa, cerca lo spirito dove non lo è;
Nello Stato repubblicano i giudici devono attenersi alla lettura delle leggi, essendo i suoi destinatari uguali.
La monarchia è la forma più complessa delle costituzioni. Essa, infatti, per non diventare dispotismo, deve incanalare il potere di governo del principe in una serie di poteri intermedi senza i quali la monarchia si trasformerebbe in dispotismo; e questa canalizzazione del potere si realizza in una complessità dell’ordinamento giuridico, moltiplicandosi le formalità della giustizia. La società civile delle repubbliche democratiche impone una volontà politica da parte del giudice rispetto alla lettera della legge poiché il soggetto giuridico e politico è sempre lo stesso. Per Montesquieu la facoltà d’interpretare la legge è un modo subordinato di creare diritto, necessario solo dove la complessità sociale è tale da impedire l’univocità politica del dettato legislativo. In questi casi il giudice può comportarsi come arbitro: cioè trovare il raccordo tra la presunta generalità della legge e le molteplici prerogative che articolano la società.
4.2 Un potere pressoché nullo?
Ci sono luoghi in cui la legislazione è inesistente perché la legislazione s’identifica con l’arbitrio del despota, il giudice è la legge. Dove, invece, la legislazione è legata all’origine antica di una stirpe di re, il giudice è un arbitro: non fa la legge, ma le parole della sua sentenza non ripetono quelle delle leggi fondamentali, ne adeguano il senso ai diversi tempi e ai diversi luoghi del regno. Il potere del giudice diventa pressoché nullo nelle repubbliche dove la legge si configura come la volontà generale della società che detta la legge a sé. Qui, il potere del giudice non ha da arbitrare tra i diversi poteri che innervano la società perché gli individui che egli deve giudicare sono tutti titolari di libertà politica e, dunque, al tempo stesso autori e destinatari delle leggi che vanno applicate omogeneamente a ciascuno di essi. Qui, il giudice non può porsi in contrasto con la legge perché il suo compito prevede di dare voce al diritto che abita la legge.
5 Tocqueville
Diede un’ interpretazione politica della quasi nullità del potere del giudice con le sue considerazioni sul rapporto tra legge e potere del giudice nella democrazia americana. T. affronta il problema del potere del giudice della democrazia americana vedendo la cosa da due prospettive: divisione dei poteri e aristocrazia americana e divisione dei poteri
5.1 Divisione dei poteri
La convinzione di Tocqueville è che gli americani hanno costituito il potere giudiziario come contrappeso e barriera alla potenza del legislativo. I caratteri che definiscono il potere del giudice sono tre:
Il giudice deve fungere da arbitro. Il giudice può agire solo all’interno di un processo. Il termine “arbitro” si riferisce alla funzione che il giudice assume: ovvero essere lo intermediario tra potere legislativo e diritto del cittadino.
Il giudice deve pronunciarsi solo su casi particolari e non su principi generali.
Vi è la necessità di adire al potere giudiziario affinché si metta in moto.
Secondo Tocqueville, l’ordinamento giuridico americano ha realizzato questi caratteri della magistratura dei giudici i quali assicurano la corretta divisione dei poteri e uno spazio giuridico designato. Ma, gli americani, hanno anche conferito al potere giudiziario un’ulteriore prerogativa: la possibilità d’applicare direttamente le norme costituzionali, disapplicando le leggi che appaiono incostituzionali ad esse. Quest’ efficacia diretta della costituzione nella vita del diritto attraverso l’attività quotidiana dei giudici è la ragione dell’immenso potere politico del giudice americano. Tocqueville, però, ci tiene a dimostrare come questo potere politico conferma la natura della magistratura giudicante nella sua essenza. Il giudice deve continuare a comportarsi come operatore del diritto e non della politica: egli, in quanto giudice, deve attaccare il legislatore se contraddice la costituzione, ma solo all’intero del processo e solo relativamente al caso concreto da decidere.
5.2 Aristocrazia americana
Tocqueville ritiene che l’aristocrazia americana sia al banco degli avvocati e sul seggio dei giudici. Quest’ affermazione ci mostra che il giudice è un ostacolo all’ onnipotenza del potere legislativo ed alla tirannia della maggioranza. I giuristi, per la loro mentalità e per il loro attaccamento alla tradizione, all’ordine ed all’autorità costituiscono un corpo aristocratico. A differenza dei ricchi, che non hanno tra loro alcun legame sociale, essi sono uniti dalla loro formazione culturale e dalla pratica professionale che agisce loro un modo comune d’agire e di pensare. Aristocratici perché i giuristi incentrano le loro abitudini, le loro passioni perché le “legalizzano”, esercitando sull’ aristocratico un’ autorità di guida che definisce la funzione dell’ aristocrazia. È “aristocratico” perché il loro compito è quello di legalizzare le loro abitudini e le loro passioni. I giuristi finiscono per informare la mentalità, il linguaggio, le abitudini di tutto il popolo, finendo per occupare tutti i posti strategici.
V capitolo
Vita, diritto e proprietà: una contrapposizione tra antico e moderno
1 Bios eudaimonia oikonomia
1.1 Eterogenesi di un lemma
Il termine biologia appare nel lessico scientifico europeo nel 1802 contemporaneamente in Francia e in Germania per indicare la scienza della vita che ha come unica caratterizzazione il vivente e che controlla il mondo organico in quanto dotato di una morfologia e di una chimica diversa rispetto ad un mondo sprovvisto di vitalità. La domanda che ci poniamo è se il termine biologia così inteso, che sicuramente deriva dalla fusione di due lemmi greci – bios e logos – restituisca la semantica greca di bios o la trasforma in maniera tanto radicale da rendere impossibile il transito concettuale dall’antico al moderno. Scrive Karl Kerenyi in “Dioniso. Archetipo della vita indistruttibile” che la differenza tra vita intesa come vita infinita e vita intesa come vita limitata si esprime nella lingua greca con l’uso di due diversi vocaboli: zoe e bios. Zoe è il filo su cui ogni singolo bios viene infilato come una perla; mentre bios si può pensare solo come infinito.
1.2 Forma di vita e felicità
L’uomo per i greci è certamente un vivente e come tale definibile zoon, ma il suo compito non è solo vivere, ma vivere bene, eu zen, laddove l’avverbio “eu” indica la fedeltà del bios al proprio paradeigma. Ma eu zen significa anche vivere armonicamente in una comunità politica, portando a compimento in maniera riuscita ciò che modella la propria forma di vita in relazione con tutte le altre. A questo proposito è essenziale la fedeltà al paradeigma che definisce la riuscita del bios che è fonte della eudaimonia, particolare tipo di misura e di equilibrio di vita che testimonia al singolo la riuscita del proprio bios. In questo senso eu zen significa il prodotto di un’ attività che rende la prassi del singolo eupraxia. La sintesi più perspicua di questa interpretazione dell’eu la troviamo nel decimo libro di “Repubblica” dove Platone si sofferma sul mito di Er. Er, apparentemente morto in battaglia e ritenuto tale per dodici giorni, è, invece, nel ruolo di agellos (messaggero, angelo) messo a vedere cosa accade dopo la morte somatica. L’anima di Er, momentaneamente liberata dal corpo si trova a camminare insieme con molte altre nel prato dove si aprono le due vie che conducono anime dagli e negl’ inferi e sul quale si affacciano le due vie che conducono verso o dai superi. Questa radura è il passaggio necessario che le anime devono compiere. La folla di anime si dirige spontaneamente verso il luogo dove i bion paradeigmati saranno assegnati. Ed il luogo fatidico è annunciato da una colonna di luce che Er descrive come il legame che tiene unito il cielo e la terra. La colonna di luce inquadra la scena dell’assoluta egemonia femminile sul mondo rappresentata dalla metafora del fuso con cui Ananke tesse il movimento dell’universo in compagnia delle tre figlie e delle sirene. A differenza del Fedone dove l’ anima è quasi catturata dal demone che la sceglie, qui è l’ anima a scegliere il modello di vita alla cui custodia è preposto il demone. e i paradeigmata tra i quali scegliere non sono di numero superiore a quello delle anime. Qui, l’anima si trova spaesata nell’apertura ad ogni possibilità, sprovvista di ogni identità, ma costretta a scegliere per rideterminarsi nella necessità di un nuovo paradigma di vita. Solo chi come Platone ha praticato la morte in vita, avendo cura di sé come anima più che come corpo può scegliere con relativa celerità. Gli altri, se in vita non hanno avuto cura di rispondere con giustizia alla natura della propria anima, difficilmente si sapranno orientare. Platone così esorta ad essere in vita giusti verso sé, a conciliare l’immortale dell’anima, in modo che essa dopo la morte possa orientarsi verso il giusto quale medietà tra gl’ eccessi verso la felicità. Ciò che il mito ci comunica è la visione non rigoristica della felicità che obbedisce al principio fondamentale del to ta hautou prattein. Anzi, dal mito appare una percezione della vita percepita come ciò che apparenta e accomuna i viventi al di là di ogni gerarchia. La vera vita, quella psichica, ha a disposizione l’infinità del tempo in cui è lecito e necessario incarnare più bioi, errare con demoni diversi verso una meta di remota beatitudine. Quindi, già con Platone l’eudaimonia si configura come il dovere per eccellenza. Quando Kant scriverà ne “La metafisica dei costumi, Prefazione alla dottrina della virtù” che porre come fine della vita l’ eudaimonia porterebbe a l’eutanasia della morale, si è già perso completamente il significato classico del termine, riducendolo alla vita ferace che può essere solo un contorno auspicabile del compimento del dovere. Ma eleutheria – libertà – per i greci non ha il significato sacrale della Liberté, ma è un bene elementare che spetta a tutti i non schiavi e che dal punto di vista metafisico significa avere in sé la propria finalità di vita, appunto l’eudaimonia. Con “Ethica Eudemia”, Aristotele effettua una radicale umanizzazione della felicità che appare circoscritta a particolari tipi di vita che risultano da un’ indagine “topica” articolata in 3 punti: politico, filosofico ed edonistico. Ma la Makaria (beatitudine) è solo del filosofo in quanto si fa contemplatore di Dio.
1.3 Oikonomia: avere a governare la vita
Si pone, poi, il problema di capire quale sia il rapporto tra la eudaimonia - felicità come compimento della propria vita - e la proprietà di cose e uomini. È possibile a questo proposito utilizzare il racconto di Erodoto sull’incontro tra Creso e Solone. Solone è invitato da Creso a Sardi ed è ricevuto da lui solo dopo che per giorni i sudditi gli hanno mostrato le ricchezze di Creso. Il motivo dell’incontro consiste nel voler essere rassicurato che lui è il più felice del mondo. Creso collega la felicità non alle capacità individuali; ma alla ricchezza, al possesso. Per Solone uomini felici si possono avere solo in due casi:
Il primo è quello di un certo Tello che ha ottime capacità personali, una buona casa, una buona famiglia, con figli sani e capaci di generare, ha l’onere della comunità e la gloria che deriva dal sacrificio per la polis.
Il secondo caso è quello dei giovani Cleobi e Bitone che, pur conoscendo la fatica, non hanno esitato a trainare il carro della sacerdotessa loro madre per accompagnarla al tempio.
Questi sono esempi di felicità perché in entrambi i casi si ha la capacità di mettere alla prova la propria vita senza avere timore per la morte, ma nella consapevolezza di agire bene per qualcuno.
La felicità di Solone presuppone una relazione del singolo bios con tutti gli altri che rappresentano la comunità. Con tale esempio, però, Erodoto non vuole svalutare la ricchezza e l’opulenza; ma vuole solo dimostrare che se accumulate in eccesso, possono danneggiare la vita del bios, riducendola a qualcosa di inerte. Pertanto, esse, nel giusto modo, possono essere usate come strumento per una vita buona. Il segreto sta nel saper governare in modo diretto l’avere proprietà e le ricchezze in modo tale che si sappia governare bene se stessi e i sottoposti. L’economica è una tecnica che si nutre del saper decidere bene circa le cose che si posseggono. L’economica si divide in
Crematistica: che concerne l’uso della ricchezza. Questa è lecita e giusta per il bios quando dà la possibilità di scambiare l’esubero di un bene con quello mancante; è nociva quando è volta solo alla mera accumulazione di beni.
Zoonomica: che consiste nel generare saperi collegati alla nutrizione, alla salute. Importante in tale discorso è la posizione dello schiavo che risulta essere uno strumento perfetto perché nello svolgere il suo lavoro esclude il padrone in quanto lavora da solo; è dipendente dalle scelte del padrone perché per compiere la finalità della sua vita deve compiere le finalità del padrone.
Vita libertà industria
2.1 Il tema
Mentre nel mondo antico con il termine economica si fa riferimento alla casa e ai suoi bisogni legati alla necessità di addomesticare il bios, nel mondo moderno si fa riferimento al sintagma economia politica per indicare il complesso di relazioni e pratiche che hanno luogo nel mercato.
2.2 Comunità e politica: il nuovo orizzonte dell’economia
Esemplare nel passaggio da antico a moderno nella concezione della vita umana è il pensiero di Althusius che indugia sul crinale tra le due epoche con l’occhio rivolto all’antico per la vita politica, ed al moderno per quella economica. Egli radicalizza la nozione di uomo quale animale politico in modo da snaturare completamente la concezione di zoon politikon. La vita umana, infatti, può essere simbiotica, termine con cui si identifica la politica come arte della convivenza delle associazioni private, civili e pubbliche che vanno dalla famiglia alla corporazione, alla città alle province, alle repubbliche o ai regni. Al di fuori di queste associazioni non può esserci vita naturale. Il termine “politica” è così connesso alla convivenza organizzata in base ad un principio di governo capace di armonizzare le differenza. Simbiotica, quindi, è l’arte di governo di ogni consociatio. La comunità politica massima – repubblica o monarchia – non espropria la politicità delle singole consociationes che restano ognuna titolare del proprio status simbiotico. In quest’ottica la summa potestas rappresenta la sutura che mette in comunicazione un insieme di comunità dotate di un ordinamento non esautorato dalla summa potestas. L’armonicismo radicale che caratterizza la nozione althusiana di politica espunge il conflitto della comunità, considerandolo contro natura. E probabilmente è proprio ciò che induce Althusius a considerare l’ economia come il luogo della produzione di beni e servizi che ciascuno deve mettere in comune per garantire la loro giusta fruizione da parte di ciascuno. Questo perché la casa si tramuta nella comunità all’interno della quale la summa potestas non spetta più al padre; ma ai governanti. Althusius delinea le tre funzioni di produzione:
1)funzione rustica: addomestica la brutalità ponendola come il punto di partenza per dominare animali e piante;
2)funzione meccanica: fatta da agricoltura, pastorizia e caccia che operano senza badare al tipo di uomo che le pratica;
3)funzione commerciale: collega le due funzioni precedenti per arrecare un benessere universale che mette in collegamento diversi luogo. In quest’ottica, quindi, l’opulenza diviene segno di dio che mitiga la brutalità.
Quindi, la famiglia è presupposto della politica e l’economica riguarda le funzioni di produzione.
2.3 Vita civile e (in)felicità
Per Hobbes la società non rappresenta per l’uomo la finalità che gli garantisce il compimento della propria vita, ma ha una funzione strumentale per la vita di ogni singolo individuo. La differenza sta proprio nella diversa caratterizzazione dell’essere vivente che viene pensato da Hobbes come un ente autonomo il cui scopo principale è garantirsi la sopravvivenza mediante la fruizione di tutto quanto può garantirgli la vita. La finalità dell’individuo è raggiunta solo attraverso il movimento che spinge il singolo verso gli altri e verso i beni da cacciare. La forza del movimento è proporzionata alle appetizioni dei bisogni dell’uomo i quali si traducono nella brama di potere che misura il successo della vita. La vita risulta riuscita solo misurando il grado di soddisfazioni che ha ricevuto avvalendosi del corretto uso della ragione umana. Esistono dei limiti alla brama acquisitiva imposti dalla paura di non riuscire ad ottenere quanto la speranza desidera. La paura nasce quando l’uomo si trova di fronte ad altri individui desiderosi delle stesse cose. Questo accade nello stato di natura in cui è inevitabile lo scontro tra gl’ uomini. Hobbes considera il tema della felicità, ma le sottrae ogni possibilità di configurarsi come fine ultimo dell’individuo. Usa il termine “felicity” connotandolo come contemplazione della pratiche di virtù appropriate al singolo tipo di vita. Per Hobbes la vita è un movimento acquisitivo di beni; ed il suo fine consiste nel godere di tali beni. Pertanto la felicità si pone come il poter godere in un determinato tempo di tali beni. Per Hobbes la felicità consiste nel continuo successo nell’ottenere le cose che di volta in volta si desiderano: è un processo in continuo sviluppo che non ha mai termine.
2.4 Libertà di muoversi pagina
Hobbes definisce la libertà come la possibilità di muoversi nello spazio: libertà è un requisito della vita. La servitù, invece, può dipendere da un patto che riduce il movimento nello spazio del padrone.
Eleutheria nel pensiero hobbesiano perde ogni assiologia politica per impossessarsi della vita di ogni individuo in quanto vita semplice o nuda. Se non c’ è vita senza movimento e se la libertà e il movimento possibile, la vita e la libertà s’ identificano a prescindere dalla finalità che realizza tale movimento. Lo stato di natura è la condizione di massima possibilità della libertà che ha a disposizione tutto lo spazio in cui realizzarsi come movimento non vincolato; questo stato è anche la condizione di sua massima indigenza. Tutti nello stato di natura sono liberi, ma questa libertà non solo ottiene il turpe e il molestum per aver adottato mezzi inutili, ma viene quasi azzerata nella possibilità di realizzare il movimento che il singolo è portato a compiere. Lo stato di natura celebra la velleità della libertà naturale. E questa libertà viene definita da Hobbes col termine “ius”, diritto come potestà e facoltà di assecondare e realizzare la libertà nella misura della forza di ciascuno che è sempre inferiore a quella risultante dall’ alleanza di più individui che vogliono le stesse cose. Che significa libertà nel pensiero hobbesiano? La riposta a questo problema ha un valore teologico, religioso, etico – politico finalizzato a revocare ogni assolutezza alle nozioni di male e di bene.
2.5 Libertà di volere
Degl’ otto punti in cui Hobbes concentra la sua critica sulla concezione del libero arbitrio se ne deduce che la volontarietà si identifica con il suo accadere fisico. Il che implica l’ identificazione tra la spontaneità dell’ azione irriflessa e l’ azione deliberata poiché ogni azione implica la presunzione della deliberazione. Questa si manifesta nell’ azione e vi corrisponde realizzandosi come rinuncia alla libertà indeterminata. Il ruolo della volontà nella deliberazione è il nome che si da alle appetizioni; è il punto del vettore che origina l’ azione. La volontà libera risulta da un movimento deliberativo mosso dall’ esterno del suo corpo che rende necessario il movimento interno e quello esterno. Il movimento è responsabile delle azioni che un soggetto compie perché se vive e agisce è libero. Ragionamento di Hobbes. Se la volontà non è originaria, ma necessitata da un impulso esterno che la determina, ne risulta che tutte le azioni volontarie hanno cause necessarie. Inoltre, la causa necessaria da cui risultano le azioni, per Hobbes non si distingue dalla causa efficiente poiché se efficace relativamente alla produzione dell’ effetto tutte le cause sufficienti sono anche necessarie. Ciò detto, H. vuole affermare che qualunque cosa venga prodotta ha avuto una causa efficiente a produrla; anche le azioni volontarie sono necessitate con cui si può anche argomentare che in presenza di una causa efficiente all’ azione, questa ha una sua assoluta puntualità che manifesta la causa sufficiente come necessaria a produrre la volontà di quell’ azione piuttosto che di un’ altra. L’ azione conforme alla legge
è sempre volontaria in quanto segue l’ ultimo impulso;
è libera in quanto movimento che asseconda la natura dell’ agente.
L’ azione conforme alla legge civile è
un’ azione libera e volontaria al pari dell’ azione contra legem in cui il timore della sanzione non ha avuto la preminenza sulla speranza di un possibile.
2.6 movimento proprietà e industria
Gli uomini devo presentarsi sulla scena del patto senza nulla che li differenzi o li distingua, desiderosi di movimento, di vita, di potersi giovare della ragione progettando il proprio futuro e mettendo in valore la propria “industry”. Questi sono i desideri che la natura non riesce a soddisfare e che sono alla base della società civile. In Hobbes il proprium è l’ incerta padronanza di una vita corporea miserrima. La giustizia rende possibile uno spazio privato in cui è permessa la proprietà individuale e la sua ripartizione come ius è legittimato dalla lex. Il proprium naturale è il primo bene che viene assicurato a tutti a prescindere dalle “cose” ripartibili: vita rivestita di tempo in quanto sicura perché protetta nonché garantita nel movimento possibile e agiata in proporzione al valore di ciascuno nella società. Il valore, il pregio, di una persona coincide col suo prezzo in quanto si sarebbe disposti a dare l’ uso del suo potere. È un valore dipendente dal bisogno e dalla stima di altri. All’ occhio di Hobbes, la teoria bodoniana della proprietà e del potere paterno, appare una come teoria sediziosa. Il privato è uno spazio deciso dalla sovranità in cui la possibilità di movimento dipende dalle condizioni di sicurezza del sovrano. Dovere del sovrano perché con la sola sicurezza dovuta alla sospensione della guerra ha assicurato il benessere comune minimale. Dalla prospettiva dei beni, le leggi devono evitare due eccessi:
essere costrittive impedendo ogni movimento;
essere troppe permissive facendo tracimare il movimento dai giusti limiti.
I doveri del sovrano sono determinati da leggi coerenti alla propria funzione ordinamentale e qui la legge naturale che i sovrani devono osservare è quella di lasciare a ciascuno la libertà sufficiente a muoversi quel tanto che è più necessario al benessere proprio e di tutti.
2.7 le obbligazioni fondamentali
Per Hobbes l’ elemento sinallagmatico del contratto è basato sul presupposto del patto costitutivo della rappresentazione sovrana e come il delitto crea obbligazione dal vinto, essendo costui “libero” di scegliere tra la vita come servitù e la morte come sconfitta. Se il servo sceglie di vivere, si obbliga ad obbedire al vincitore come padrone della propria vita. L’ operazione per sottrarre l’ obbligazione ad ogni tentazione naturalistica, H. la compie a proposito della famiglia, erodendo nei limiti del possibile anche l’ aura di sentimentale naturalità che avvolge la madre. La figura della madre ha un fondamento naturalistico, il parto, che metterebbe il neonato nel potere immediato della madre. Ma il fatto di partorire il figlio costituisce un diritto di prelazione solo perché il dominio sul bambino appartiene alla madre che lo ha in suo potere.
VI capitolo
Individuo, proprietà e Stato: Locke, Hegel, Stein
Premessa Il giusnaturalismo moderno ha cercato di trovare una soluzione al problema relativo all’ origine della proprietà individuale volendola considerare come diritto privato di dominium sulle cose.
Locke Locke considera lo stato di natura come una condizione di vita dell’ uomo diversa dallo stato di guerra in cui sono possibili diritti, poteri. Il potere politico assume in Locke una funzione limitata al diritto di fare leggi e la loro violazione comporta la pena di morte o una pena inferiore. In base al potere legislativo, i membri di una società si uniscono in un’ assemblea che detiene il potere esecutivo il cui obiettivo è la conservazione della proprietà. Locke definisce la proprietà come una dimensione di vita dell’ individuo. Un individuo può entrar a far parte di una comunità senza rinunciare ai propri diritti. Il potere politico deve garantire all’ individuo la tutela dei suoi diritti in caso di una degenerazione dallo stato di natura allo stato di guerra. Oltre all’ incertezza del diritto di godimento della proprietà, è la natura imperfetta e deficitaria del singolo ad impedirgli di vivere una “vita conveniente”. In questo contesto, l’ appetitus societatis torna a porsi tra le precondizioni del patto di associarsi insieme reciprocamente ad entrare in un’ unica comunità e a formare uno Stato. Il tema della proprietà viene trattato nel V capitolo del “Secondo trattato” sull’ origine, la estensione e i fini di governo civile. Qui si evince una tesi: la proprietà è un diritto acquisibile dallo individuo nello stato di natura. La giuridicità del rapporto tra individuo e cosa scaturisce dalla disposizione dell’ individuo che deve soddisfare il suo bisogno di vita in cui inizia a formare la sua libertà. Da questo punto di vista, la proprietà comprende vita, libertà e averi. L’ essere libero e l’ essere bisognoso comportano che un soggetto ha il dominium sulle cose. L’ umanità si manifesta con gli aspetti tipici della sua natura che per soddisfarli si avvale di un rapporto con Dio il quale concede all’ uomo il dominium sulle res al fine di usarle per soddisfare i propri bisogni. Rimanendo nel “Secondo trattato”, Locke fa un richiamo alla Scrittura che attesta la donazione della terra da Dio agl’ uomini. Ma la donazione comprende la natura e la ragione dove la ragione viene intesa come un dono che si aggiunge alla natura per deciderne la sorte. L’ utilizzo del mondo naturale avvantaggia l’ uomo in quanto può migliorare la sua vita. Ma il miglioramento della propria vita può avvenire soltanto con l’ appropriazione di determinati strumenti e solo il proprietario della cosa può avvalersi di tali mezzi. Con quest’ affermazione, L. tende a risolvere lo ius in omnia in guerra di tutti contro tutti, mentre vuole considerare lo stato di natura come una condizione in cui sia superabile la comunanza originaria senza che ci sia la guerra. La società civile e il potere politico sono condizioni che permettono una maggiore efficacia ai diritti individuali della proprietà acquisibili prima della fondazione e istituzione dello Stato politico. L’ esclusione di un soggetto sull’ uso della res può avvenire soltanto se il proprietario rende la cosa <part of him>. Ciò significa che la res deve entrare nella sfera di vita del soggetto. A tal fine, è necessario l’ uso della forza: ma la forza che l’ individuo usa sulla natura per tale appropriazione è intesa come libertà/potere poiché si riferisce alla ragione naturale che impone tale corporazione come diritto che si identifica con il diritto di vita. L’ impiego della forza è legittimo perché renderebbe possibile l’ esclusione in rapporto allo ius omnium, consentendo a tutti di vedere nella cosa la titolarità del diritto, evitando il conflitto. Sempre nel “Secondo trattato”, Locke ci dice che ogni uomo, allo stato di natura, ha una personalità individuale: la propria persona alla quale si attribuisce un diritto. Ciò significa che il rapporto dell’ uomo con sé precede qualsiasi altro rapporto che assume la forma di un rapporto di compiuta padronanza in cui la “persona” è qualcosa che ciascuno ha. Questo “avere” è la proprietà che determina il destino, proprietario dell’ uomo. L’ origine della proprietà privata la si individua nel rapporto intersoggettivo tra la parte capace di padronanza e appropriazione e la parte speciale suscettibile di governo e reitificazione. La proprietà delle cose esterne si ottiene mediante l’ esteriorizzazione della persona avvalendosi del lavoro reitificato. Questo, oltre a tradurre la persona in cosa esterna, si oggettiva delle cose in comune con esse trasformandole in qualcosa che non appartiene loro. Nel momento in cui la persona diviene cosa, la stessa viene prodotta nella sfera personale dell’ individuo dalla quale esibisce la differenza rispetto all’ indifferenza della res nullius. Questa capacità rigeneratrice del lavoro si manifesta con la “cosa” raccolta o cacciata. La prima differenza tra le due sta nei rispettivi limiti dell’ appropriazione. Per quanto concerne il limite per le cose reperibili è dato dalla possibilità di consumarle prima che vadano perdute perché, se andassero perdute, si perderebbero le scritte riservate all’ umanità. L’ appropriazione è illegittima poiché si sottrae la possibilità ad altri consumatori il mezzo di soddisfazione dei bisogni. In relazione alla terra, il limite diventa la capacità del lavoro dello individuo e ciò perché il lavoro acquista una dimensione più complessa. Il lavoro non è solo movimento di reificazione della cosa, in rapporto alla terra esso si manifesta come il “distendersi” dell’ individuo su di essa. Con l’ appropriazione della terra, il lavoro viene definito come una configurazione dal corpo cui appartiene, estendendo la sua privacy fin dove giunge la capacità di recingere, sottraendola alla comunanza originaria. La terra
è un materiale donato da Dio, ma che spetta all’ uomo determinare.
È inadatta alla peculiare natura umana, produttrice e trasformativa, che la utilizza per trarne dei benefici.
Il lavoro sembra operare sotto il punto di vista dell’ intelletto perché sostituisce le sostanze del mondo naturale con il valore. La terra non ha valore per l’ uomo. Il lavoro, quindi, non solo redime la terra dalla sua inutilità e passività generativa, tende a porre il valore come l’ essenza delle cose destinate a soddisfare i bisogni. Il lavoro, quindi, è anche proprietà emancipatrice che agisce su due livelli:
emancipa l’ uomo dalla sua natura indigente;
emancipa la natura dalla condizione di abbandono.
Locke, soffermandosi sull’ agricoltura, ha evidenziato il carattere emancipativo del lavoro attraverso l’ enfatizzazione della sua capacità trasformativa, incrementale e rigenerativa del mondo delle cose naturali. Partendo da ciò, L. intende restringere il concetto di lavoro ad una specifica configurazione; ma, per far ciò, pone la sua attenzione su un altro problema: la legittimazione della diseguaglianza della proprietà come risultato dell’ “industria” umana. Per risolvere tale problema, ha dovuto rimuovere l’ immagine “robinsoniana” del lavoratore/proprietario. Ciò avviene affermando che, il semplice rifornirsi del singolo strappando le cose dalla natura, non sembra più sufficiente a realizzare il compito di trasformare e trasvalutare il mondo. Per raggiungere tale scopo è necessaria l’ industria la quale costruisce nell’ oggetto un’ abilità tale che lo modifica alla sua base. L’ industria libera, l’ umanità e i suoi prodotti dalla natura torpida e greggia, avvalendosi del lavoro del singolo lavoratore, obbedendo alla disciplina che essa impone. Quanto più l’ industria si sviluppa, tanto meno il lavoratore sarà in grado di liberarsi dai bisogni moltiplicati che essa impone come standard di vita. Il procedimento appena descritto ed il suo ritmo sono indipendenti dalla costituzione del potere politico e pensabili come connessi ad un diverso artificio destinato ad alterare il rapporto tra proprietà e lavoro. Per Locke, l’ uomo usa la moneta per bisogni e desideri che passano da una condizione di isolata autoregolamentazione in relazione ad un individuo ad una di commercio e comunicazione. La moneta
mette gli uomini in comunicazione spingendoli a spendere;
distrugge il desiderio poiché attraverso il suo uso, l’ umo aggira la non equità implicita in quello stesso desiderio che lo spinge a superare i limiti consentiti all’ appropriazione del diritto di natura;
È pensata come un mezzo di scambio tra gli uomini che permette loro di possedere ed appropriarsi più del necessario per l’ immediato sostentamento ed anche in quantità diverse. Per raggiungere tale scopo è importante che gl’ individui si accordino per dare un valore alla moneta;
rappresenta il confine tra natura e civiltà, tra isolamento e socialità;
serve ad abrogare i limiti naturali del diritto di proprietà; una volta che questi sono stati eliminati, l’ aumento della popolazione e la scarsità della terra produrranno una restrizione del diritto originario di ciascuno, i cui pericoli saranno evitati con l’ istituzione del potere politico.
Hegel Per Hegel il mondo di cose non ancora determinate è il risultato di un processo di liberazione dalla personalità. La nozione di libertà determina una divisione che isola la cosalità dalla personalità: nell’ emancipazione della personalità delle cose, queste vengono classificate come “ qualcosa privo di diritti”. E questa facoltà di determinare è il pensiero in quanto volontà libera. Quanto detto può essere definito come un processo di de-animazione del pensiero da cui emerge la personalità come determinazione universale della volontà libera. La personalità si afferma con l’ annichilimento di ogni contenuto del mondo naturale che viene ridotto a mera materia. Questa determinabilità diviene uno soggetto a sé da cui lo spirito si è ritratto, ma in cui lo spirito deve ritornare materia. Così facendo, la personalità diventa il prodotto di un mondo di cose in quanto posto nell’ esteriorità Dinanzi alla volontà libera la cosa non ha alcun valore in sé anche se nel processo rimane una esteriorità. L’ uso è ciò che modifica, distrugge la cosa. Nell’ annichilimento la cosa raggiunge le sue funzionalità grazie all’ uomo. Nella formulazione del diritto di appropriazione dell’ uomo sulle cose, Hegel fonda il diritto sulla concezione che alla cosa manchi uno scopo. Ed è proprio questa mancanza che legittima il diritto della persona a porre questa sua volontà in ogni cosa: la volontà, riempiendo la cosa, diviene il suo destino e la sua anima, facendola raggiungere il suo fine. Per Hegel, la concezione della proprietà viene distinta dal punto di vista della libertà in quanto è essenziale per l’ uomo; quindi, si vuole rifiutare qualsiasi condizionamento naturalistico. Questa concezione intende imporsi come proprietà privata. Altro punto su cui si sofferma H. è il lavoro correlato alla proprietà. L’ uomo non nasce padrone di sé, lo diventa soltanto con la “presa di possesso” di cui il filosofo ne enumera tre:
apprensione corporea;
il dar forma;
la mera designazione.
I tre punti elencati sono i modi coi quali la cosa compie e manifesta il proprio destino, rappresentando la realtà con la vita. Hegel, quindi, rileva i punti di un processo che lo spirito porta avanti da tempo. Per Hegel il lavoro si rivela di fondamentale importanza perché permette l’ appropriazione di sé. Non bisogna più far alcun discorso sui limiti dell’ appropriazione della natura: né per quanto concerne un limite naturale posto dall’ uomo né per quanto concerne un’ appropriazione intersoggettiva. Quanto al processo di reificazione, esso indica un punto in cui nulla può essere cosa. Ed è soltanto assicurando l’ invalicabilità del limite alla cosa che il lavoro assume un senso per l’ uomo. Altro punto su cui bisogna soffermarsi è la distinzione tra schiavo e salariato.
Il salariato è uomo libero;
Lo schiavo non è uomo libero.
Un nuovo problema lo si collega al necessario per vivere dove il termine necessario è correlato ai bisogni “naturali”. Nella società civile appare per la prima volta la “persona concreta” come totalità di bisogni e mescolanza di necessità naturale e di arbitrio quale principio dell’ eticità moderna in cui la produzione per i bisogni sociali è divenuta oggetto dell’ attenzione dello Stato e il sistema dei bisogni s’ è avvalso del soddisfacimento di essi. Nella società, però, c’ è stata anche una concentrazione di capitali e di povertà di mezzi di soddisfazione dei bisogni sociali che si “mostra” con lo sviluppo del principio economico, capitalismo. Questo ha comportato la nascita della “seconda” natura: il lusso che si mostra come fenomeno sociale che si scontra con la plebe e che non trova spazio nella divisione sociale di Hegel. Questa divisione sociale è determinata sia dalla ricchezza dell’ individuo sia dalle sue capacità. In questo contesto assume rilevanza il ceto “riflettente” (artigianato, industria, commercio) in quanto Hegel lo considera unico. Infine, per ciò che interessa il distacco dalla negatività dello Stato, esso è perseguito dalla tradizione.
Stein La scienza della società di Stein svolge l’ analisi delle cause della rivoluzione sociale e politica. Il proletariato è visto come una classe priva di cultura e proprietà. Ciò che distingue la scienza della società dalle teorie dalle teorie emancipative del proletariato (socialismo e comunismo) che prevedono l’ abolizione della proprietà privata, è la proprietà personale come necessaria in sé e per sé. Nella scienza si evidenza lo sviluppo storico dell’ economia nazionale svoltasi in tre fasi:
la prima è determinata dall’ assolutismo storico;
la seconda è determinata dalla ricchezza dello stato e del popolo;
la terza in cui l’ uomo è il risultato dei punti precedenti.
Per chiarire in che senso la scienza della società si inserisce nella scienza dello Stato, bisogna considerare il rapporto tra essa e la scienza economica. Scopo della prima è di fare dell’ elevazione e perfezionamento della società un compito autonomo dello Stato. La seconda deve combattere contro le teorie sociali, risolvendo il contenuto conflittuale caratterizzante il mondo occidentale nell’ epoca dello sviluppo della civilizzazione. La prima edizione dell’ opera “Sozialismus und Comunismus” si apre con la “Zivilisation” che si basa sulla capacità di acquisire beni materiali e spirituali e sulla nuova configurazione della convivenza socio – politica. L’ apparizione del proletariato e il contrasto tra l’ esigenza di una comunicazione tra gl’ individui e i loro prodotti rappresenta per il filosofo il possesso/ la proprietà quale fondamento della libertà individuale. Dal punto di vista del proletariato, il possesso appare come il vero nemico della civilizzazione; ma questa, in quanto sviluppatasi da tale elemento, non può farne a meno. La contraddizione è data da due fattori:
il proletariato è a conoscenza che la personalità umana è il principio assoluto della civilizzazione;
la proprietà dei beni è alla base del principio assoluto.
L’ unica soluzione per porre fine a questa contraddizione è istituire un nuovo tipo di forma di vita sociale in cui venga mantenuto il possesso.
Antitesi. Questa si concepisce su tre livelli: totalità, individualità, unità meta individuale che si pongono tra Dio e la materia. Il punto intermedio tra gl’ estremi è l’ attività del personale come sintesi di volontà e azione. La comunità organica (la società) è tale sia per rapporto all’ attività determinata sia per rapporto ai beni produttivi. Nel momento in cui nella comunità emerge la personalità individuale, il problema della destinazione o dominio sull’ esterno alla libertà è reimpostato dalla prospettiva del dominio del singolo. L’ unità personale della comunità è lo Stato dotato di volontà e azione. Dove la costituzione è alla base della politica, l’ amministrazione riguarda la vita dei beni che produce la ricchezza nazionale, ed il governo è l’ intermediario tra stato e popolo. La lotta tra stato e società appare a Stein come un connotato che definisce l’ epoca della società: tale lotta si svolge all’ interno della comunità. La comunità è anche sintesi dialettica tra elemento personale-Stato ed elemento impersonale - società. La società è per Stein l’ ordinamento della dipendenza degl’ uomini tra loro che si costituisce a partire dalla divisione dei beni in proprietà. Stein pone nel lavoro l’ originario titolo acquisivo di ogni proprietà. In Locke l’ origine della proprietà dal lavoro veniva descritta come un processo di oggettivazione delle qualità e proprietà personali dell’ individuo che specificava l’ oggetto naturale. Quest’ oggettivazione poteva trasformare l’ oggetto naturale in proprietà dell’ individuo che su di esso ha proiettato una parte del soggetto. Poi, prendiamo in considerazione la concezione di lavoro per Locke. Il lavoro veniva considerato proprietà incontestabile del lavoratore nel senso borghese: ovvero, in funzione della libera disposizione della cosa come proprietà, il lavoratore può trasferirla in proprietà di altri dietro pagamento: salario. L’ introduzione della moneta pone a livello di mercato allo stesso titolo delle altre merci. In un passo della scienza della società, Stein afferma <Ogni bene, elaborato dalla personalità, appartiene a lei e alla sua vita, si identifica con la stessa e diviene inviolabile al pari di essa. Questa inviolabilità è il diritto; il bene è la proprietà. Chi abolisce diritto e proprietà annulla la personalità>. In rapporto a quanto detto, la preoccupazione di Stein è quella di accreditare l’ istituto della proprietà quale già s’ è affermata negl’ ordinamenti borghesi contro il lavoro senza proprietà. Infatti, la questione che la scienza della società è chiamata a risolvere è sorta a livello di contraddizione tra il principio razionale secondo il quale la proprietà può esser frutto del lavoro ed un altro principio secondo cui la produzione si fonda su un certo tipo di lavoro che è incapace di acquisire qualsiasi tipo di proprietà. È proprio da questa contraddizione che si manifesta la lotta sociale causata dalla società industriale. Questa si mostra attraverso il proletariato che rappresenta l’ astrattezza del lavoro industriale, separato dalla produzione di mezzi di produzione, strutturato in classe sociale. La preoccupazione scientifica di Stein è duplice: consiste nel tentativo di salvare proprietà e lavoro. Ciò perché il principio razionale dell’ origine della proprietà è astratto dalla storia reale in cui Stein trova soltanto la divisione tra il materiale per la produzione dei beni già tutto in possesso e la forza-lavoro. Ogni singolo ha forza-lavoro; ma il materiale è limitato dal momento che il materiale è in proprietà. Coloro che posseggono il materiale del lavoro come proprietà, possono tutto ciò che non è loro; ne deriva che tutti i possessori di forza lavoro sono dipendenti degli imprenditori. Questo per Stein è il vero assioma che consiste nella dipendenza di coloro che si trovano esclusi dalla distribuzione dello staff der arbiteit. Possesso e lavoro sono alla base della società; tuttavia il fattore più rilevante è il possesso. Questo ambiente, a livello sociale, si caratterizza per la limitatezza e per la diversificazione
La limitatezza, posta tra i possidenti e i non-possidenti, all’ interno della classe sociale si ha un ulteriore stratificazione basata sulla prestazione lavorativa. Ogni classe sociale presenterà una stratificazione primaria ed una secondaria in base alla quantità di possesso e alla qualità di possesso. Ma, oltre a queste classi, vi è l’ affermazione di una nuova classe: IL CETO MEDIO caratterizzato dalla presenza di lavoro e possesso. In sua assenza ci sarebbero degli scontri tra le due classi poiché la scomparsa della classe media viene intesa da Stein come la fine dell’ equilibrio sociale. È formata da lavoratori-proprietari. Per quanto riguarda la diversificazione, Stein fa una distinzione: modi di produzione e movimenti dall’ una formazione all’ altra. In ognuna di queste formazioni economicamente-sociali si presenta il tema della stratificazione sociale: ad ogni tipo di società inerisce una maggiore o minore mobilità sociale, ma anche all’ interno della più libera forma sociale può verificarsi un progressivo irrigidimento dell’ esclusività di classe di possesso fino al totale bloccaggio di ogni mobilità. Stein distingue tre stadi all’ interno dello sviluppo economico europeo:
lo stadio europeo dell’ antica economica, caratteristico dell’ economia rurale;
lo stadio dell’ economia nazionale al cui interno la produzione di beni non rientra nei bisogni individuali del possessore del materiale e del lavoratore; definisce il sorgere della produzione imprenditoriale;
Lo stadio della produzione industriale in cui mediante il collegamento delle imprese ha favorito lo sviluppo del mercato e il prodotto industriale viene estraniato al producente (ceduto dal produttore), il cui lavoro è dato dalla soddisfazione dei suoi bisogni in funzione dei bisogni naturali prodotti e soddisfatti dall’ Industrie la quale rappresenta il tipo di possesso che domina su tutti.
Rispetto ai diversi tipi di vita dei beni, Stein descrive diversi tipi di ordinamento sociale in ognuno dei quali si pone un diverso rapporto di dominio della classe possidente, lo Staff caratterizzante il Guterleben (produzione dei beni) su quella non possidente. Lo stadio dell’ economia individua nella storica europea l’ ordinamento della società feudale che a sua volta inscrive due sottotipi: la società signorile e la società cetuale. L’ ordinamento della prima (società signorile) si basa sul possesso terriero che conferisce la signoria come dominio sul lavoro servile. In questo tipo di società lo Stato era incorporato in ogni libero possesso terriero e i signori riconoscevano solo il diritto uguale di signoria. La società cetuale/feudale esprime l’ entificazione in ceti dei tre tipi possibili di possesso: possesso terriero (nobiltà), possesso di beni spirituali (clero), possesso di capitale (borghesia). La caratteristica della società cetuale presenta un ordinamento che si struttura con l’ ordinamento giuridico. Affinché la capacità di dominio del possesso sul lavoro si possa esplicitarsi è necessaria la uguaglianza giuridica che rende gli uomini astrattamente uguali. Per Stein il tipo fondamentale di società è l’ esempio di una società non libera; ovvero una società che ancora non si è emancipata nella storia sul fondamento dell’ interesse. Da quanto detto fin’ ora risulta che nella società feudale manca la distinzione tra società e Stato Inoltre, quest’ ordinamento sociale è basato sul diritto ineguale. Infine, possesso e lavoro non sono i fattori dello stesso ordinamento. Quanto appena detto è importante nella tipologia storico-sociale di Stein perché rappresenta anche un modello di illibertà sociale che può prodursi nella storia in altre formazioni sociali; anzi, nella dottrina generale della società quando Stein descrive il movimento verso la illibertà, verso la libertà ed il movimento sociale. Il primo di questi è un movimento che riproduce un modello di comunità feudale che può presentarsi in ogni tipo di società laddove la classe dominante blocca la mobilità sociale, polverizza il ceto medio, s’ impadronisce dello Stato: questo rifeudalizzarsi del potere sociale Stein lo definisce società assoluta. L’ industrie, infine, è il modo di produzione che caratterizza la società industriale che è la formazione economico – sociale più avanzata storicamente; ma allo stesso tempo è il tipo di società che mette in crisi i fondamenti dalla società emancipata e della civilizzazione, ovvero i fondamenti della società sono minacciati sia dalla classe dominante sia da quella dipendente. È all’ interno dei tre movimenti citati che si definisce la capacità emancipativa della coppia possesso lavoro e il potere del possesso di strutturare autonomamente l’ ordinamento sociale e che si denuncia il pericolo per tutto l’ assetto sociale tanto della totale illibertà quanto della totale uguaglianza. L’ illibertà sociale si produce attraverso un movimento di irrigidimento della struttura sociale al cui interno la classe dei possidenti s’ è assicurata il dominio sui non possidenti e la loro esclusione dal tipo di possesso con cui il loro dominio si identifica. In questa situazione la conservazione o lo ampliamento del possesso non ha bisogno del lavoro diretto del possidente; mentre il ceto del lavoro può trovare spazio per la propria emancipazione economica, culturale, e sociale e soltanto attraverso un impossessamento che non ponga in crisi il dominio che risolva in un tipo di possesso oggettivo. Ciò perché, secondo Stein, il possesso di beni è la premessa di ogni elevazione della classe inferiore, di ogni contro l’ illibertà nello Stato e nella società. La prima forma di possesso accessibile alla classe inferiore è la cultura come possesso di beni spirituali, dominio su beni formati a partire dallo spirito. La cultura genera da un lato il principio dell’ uguaglianza tra le personalità individuali in funzione della sua accessibilità e dall’ altro lato lo affinamento ed il potenziamento tecnico, quindi acquisitivo del lavoro del ceto economicamente ancora dipendente, socialmente dominato, politicamente non libero. Bisogna tener presente che per Stein il lavoro, per essere una forza concretamente emancipatrice, deve tramutarsi in possesso. Ciò può avvenire mediante l’ impossessamento dei beni o il mutamento del modi di produzione con il conseguente emergere del dominio di un nuovo tipo di possesso. Il movimento verso la libertà consiste nell’ affermazione del capitale come possesso dominante attraverso l’ emancipazione dello Stand (stato, posizione, classe sociale) del lavoro: il lavoro capace di produrre profitto, capace di formare capitale su cui si fonderà l’ ordinamento della società economico nazionale. L’ emergere del lavoro capace di formare capitale dal lavoro servile. Il movimento della libertà è il movimento di emancipazione del terzo stato, ma contemporaneamente la libertà che si afferma con la sua egemonia è tipizzata come libertà tout court. Con il modo di produzione della borghesia imprenditoriale, per la prima volta si realizzano a livello industriale i punti che definiscono la personalità umana in generale. La borghesia è in grado di esprimere ed affermare attraverso il capitale la capacità emancipativa del lavoro. Il lavoro libero di acquisire capitale e capace di farlo è il lavoro che santifica il nuovo dominio sociale: la libertà borghese è la libertà che santifica la nuova illibertà sociale. Se la società è non – libera e se il problema della libertà è rilevante soltanto a livello giuridico e politico, realizzatasi tale libertà i problemi residui fanno parte della questione sociale. La capacità euristica della scienza sta tutta nel trovare il sistema per prospettare la soluzione di tale questione né quello del possesso nella forma che essi hanno assunto con l’ affermarsi della borghesia quale titolare dell’ unico lavoro che in sé racchiude l’ essenza della libertà. Se il movimento della libertà della libertà ci descrive quella del terzo stato, è conseguente che la libertà non si identifica anche nel quarto stato: il proletariato. È il movimento in cui il lavoro prende l’ avvio all’ interno dell’ egemonia del terzo stato che ha concluso lo sviluppo positivo e progressivo del lavoro nella storia; proprio perché la forza-lavoro che individua la classe proletaria è incapace di acquisire il movimento di questa classe non può essere che essere il contrario alla vera libertà. Secondo Stein, due malintesi sono alla base delle teorie e delle pratiche di emancipazione del proletariato: il primo è che la libertà affermatasi a livello giuridico e politico possa espandersi anche a livello sociale; il secondo è che l’ uguaglianza possa essere concreta e positiva. Da un punto di vista generale, la libertà è il grado di questa che differenzia l’ una dall’ altra le forme di società che Stein ci presenta sia come tipi ideali sia come tipi storici. Che la società sia il luogo della libertà significa anche che l’ illibertà concreta spetta solo a quelli che non posseggono alcuna proprietà. Il concetto di libertà è connesso con quello di proprietà che la stessa emancipazione deve cominciare dalla forma di proprietà spirituale. Cultura e coscienza di classe sono la prima manifestazione di libertà. Tuttavia la premessa di ogni libertà è l’ armonia di lavoro, guadagno e possesso; ma quest’ armonia finché resta solo speciale non produce libertà in senso pieno. Perciò, per S. soltanto la premessa della libertà è sociale poiché diventa effettiva solo se viene recepita a livello giuridico e politico. Il concetto di libertà è un concetto astratto che può realizzarsi soltanto a livello statale. Il movimento di libertà è la dimostrazione di ciò. E la lotta perenne che S. coglie nel rapporto tra società e Stato si basa sul fatto che la società è portatrice naturale di illibertà come dominio dei possidenti sui non possidenti, mentre lo Stato sarebbe depositario di libertà. Quanto alla classe possidente di cui s’ è parlato in precedenza, questa è spinta a frenare prima ed escludere poi qualsiasi mobilità sociale, impedendo l’ accesso a quei beni che caratterizzano il dominio non più soltanto sociale. Ed a questo punto che Stein parla di illibertà tout court, ovvero una illibertà diversa da quella che a livello sociale individua la posizione del non-proprietario. La illibertà sorge se il potere dello stato è costretto a servire un particolare interesse sociale. Ma il movimento verso quest’ illibertà è anche lo sviluppo positivo del dominio sociale come manifestazione indisturbata della libertà individuale di possedere i beni prodotti dalla comunità: per l’ individuo la base materiale dello sviluppo personale è il possesso il cui mantenimento ed ampliamento è comandato dall’ essenza stessa della personalità. Rispetto alla libertà, l’ uguaglianza in quanto scopo del movimento sociale e oggetto della questione sociale, è un fatto storico che mette le sue premesse nella rivoluzione politica che, per S., appare essa stessa una fonte di pericoli sociali. L’ unica uguaglianza conciliabile con l’ esistenza della società è l’ uguaglianza negativa perché soltanto questa libera la disuguaglianza senza di cui è impossibile l’ ordinamento sociale. L’ affermarsi istituzionale dell’ uguaglianza negativa, cioè lo affermarsi dell’ uguaglianza giuridica caratterizza la società moderna ordinata in base al possesso rispetto alla società feudale che definiva società giuridica. L’ uguaglianza giuridica sancisce a livello sociale la libertà che il terzo ha perseguito nel suo movimento. Il movimento di emancipazione del terzo stato si stabilizza soltanto con le codificazioni. E da ciò se ne deduce che le codificazioni sono l’ espressione del tentativo di soluzione di pressanti problemi sociali, rappresentando la conseguenza sul piano giuridico della lotta tra vecchi e nuovi rapporti di potere all’ interno della società. La possibilità di una codificazione ha come presupposto il riconoscimento della singola personalità liberata da ogni differenza di diritto sociale il quale diritto è la spia del dominio giuspolitico della classe possidente che è lo strumento per bloccare la mobilità sociale. Per contrapposizione tra diritto storico e diritto politico s’ intende contrapporre due gradi dello sviluppo sociale. Il disinteresse per gli studi storico – giuridici che Stein ha verificato nella Francia degl’ anni 40 è per lui dovuto alla forma di società che s’ è stabilizzata. Ciò perché il vecchio e il nuovo diritto rappresentano due formazioni contrapposte della società che si annullano a vicenda. La società cetuale dà luogo a tre diversi tipi di diritto privato. Il vero principio del diritto privato è la singola personalità legittimata. Soltanto la reale personalità, la quale è una personalità sociale del diritto privato, produce il diritto privato positivo. Affinché questa personalità sociale possa svilupparsi, sono necessari due presupposti che furono realizzati da Napoleone. Questi due presupposti erano la sicurezza giuridica del possesso come fondamento sociale, ed uno Stato forte e al tempo stesso separato dalla società. Le codificazioni napoleoniche risposero da un lato all’ esigenza di accentramento del potere per rafforzare lo Stato e dall’ altro eressero una barriera di diritto privato attorno all’ individuo ed alla sua posizione sociale; individuo che necessitava della massima libertà del suo sviluppo come richiedeva quella proprietà di tipo capitalistico che conferiva la reale posizione sociale in ordine alla ricchezza patrimoniale. È proprio a partire dal diffondersi di questo nuovo tipo di proprietà che si determinano le esigenze che Napoleone e i suoi codici possono soddisfare; ogni patrimonio è un piccolo mondo per sé: ha bisogno di sicurezza esterna, non vuol’ essere attaccato da nessuno, nemmeno dal potere dello Stato. Il potere dello Stato c’ è per difendere la proprietà. Ogni patrimonio esige l’ impiego delle forze migliori del suo padrone e ne punisce tale impiego mediante l’ indebolimento e la rovina. Quest’ ultima è l’ esigenza di separazione tra la sfera economico – sociale e la sfera statale che però, rappresenta il momento che coincide col processo di ordinamentazione del corpo sociale il quale altrimenti resterebbe una semplice comunità. Una volta solidificatosi l’ ordinamento attraverso le classi sociali, la separazione tra Stato e società diventa impossibile: l’ ordinamento sociale esige una costituzione che lo esprima a livello politico. Le costituzioni napoleoniche appaiono a Stein come ordinamenti statali al cui interno la volontà della comunità – persona si forma dall’ alto. Con il costituzionalismo che garantisce la partecipazione politica attraverso il principio censitario il borghese diventa cittadino, e la proprietà privata ha la sua espressione politica ed da ciò si sviluppa la società civile e politica. Da quanto detto sin’ ora emerge che il lavoro occupa una posizione centrale per lo sviluppo della personalità e dell’ individuo. L’ unico tipo di lavoro che realizza l’ uomo è il lavoro della borghesia capace di acquisire cultura e possesso. Questo tipo di lavoro è il tipo ideale di lavoro emancipativo a cui va educato il proletariato attraverso un’ attività di governo orientata dai disegni sociali e dalle pratiche rivoluzionarie. E ciò perché S. è convinto che l’ abolizione del capitale non è la volontà del proletariato. Il “riformismo” di Stein è il risultato di una precomposizione della realtà storica rappresentata dalla produzione di beni. A questo punto il lavoro del proletariato è reputato incapace di fondare autonomamente una nuova “vita dei beni” a partire dalla quale Stato, diritto e società si possano rinnovare. Dal punto di vista che orienta la scienza di Stein, il proletariato che si autoemancipa può corrompere o distruggere il principio della civilizzazione. Esso non va abbandonato a sé, ma aiutato ad inserirsi all’ interno di una storia che è tornata. La critica al capitalismo di Stein è una critica in cui i capitali sono nelle mani di pochi, il che determina la scomparsa della classe media e degl’ ostacoli giuridici e politici che oppongono alla redistribuzione dei beni. Il capitalismo rappresenta la corruzione della società industriale, il deperimento dei bisogni dell’ uomo, ma soltanto per l’ immobilità della vista sociale garantita dallo Stato che rievoca forme desuete di società. Lo spostamento della “questione sociale” al centro della scienza di Stein ha comportato analisi specifiche nei confronti di una realtà storica esplicitatasi attraverso l’ emergere della lotta di classe tra borghesia e proletariato. Tuttavia, l’ approccio “sociologico” al mondo borghese ha molti connotati hegeliani, anche se quest’ approccio implica un ulteriore differenza rispetto a quello politico di Hegel. Il rapporto tra società e Stato viene visto da Stein come un rapporto conflittuale rispetto al quale si ha la necessità che l’ obiettivo ottimale da raggiungere diventa la neutralità dello Stato nei confronti della stessa lotta di classe poter fare dell’ elevazione dei meritevoli il suo compito più qualificante senza intaccare quelle differenze su cui l’ ordinamento sociale si fonda. Anche nella fase più matura della scienza di Stein in cui egli rinuncia da un lato ad un altro una determinazione economica dell’ ordinamento sociale ed esclude dall’ altro la necessità della lotta di classe: in tale fase resta una distinzione tra livello sociale e livello statale che ha caratteristiche diverse dal rapporto determinato che Hegel aveva introdotto all’ interno dell’ eticità tra società civile e Stato. Il problema dell’ emancipazione della società dello Stato in Hegel appare a livello del sistema dei bisogni; mentre per Stein quell’ emancipazione s’ è fatta una realtà di prim’ ordine al punto da esautorare lo stesso concetto di Stato quale realtà dell’ idea etica. Anzi, la lotta per l’ interesse che caratterizza la società come il dominio dell’ uomo sull’ uomo, minaccia l’ esistenza stessa dello Stato; e questo è uno dei pericoli della scienza di Stein nella produzione sociologica della prima edizione di una sua opera. Qui lo Stato ha una dimensione diversa da quella che esso aveva nella filosofia giuspolitica di Hegel: viene realisticamente riconosciuto uno strumento suscettibile di più usi tra i quali deve operarsi una scelta perché determinato dalla forze sociali in lotta per la egemonia. La proprietà borghese acquista sfumature diverse passando dalla filosofia hegeliana alla sociologia di Stein. Da un lato è certo che per entrambi esso si collega alla personalità libera come frutto della civiltà cristiano-germanica, oltre che come acquisizione istituzionale del mondo occidentale e della libertà; ma dall’ altro lato proprio la proprietà privata rappresenta una fonte di questioni a cui si ascrive una portata più ampia e decisiva di quella considerata da Hegel. I problemi nascenti dalla divisione dei beni connessi alla proprietà dei mezzi di produzione sono, per Stein, problemi sociali, e la stessa codificazione s’ immette in questa logica. Il diritto in generale è relativizzato da Stein alle situazione sociali che lo determinano. Individuo e proprietà sono per Stein e Hegel il segno di una nuova libertà che si manifesta in un organismo etico come libertà di un tutto solidale o unitario poiché entrambi sanno che la libertà atomistica può essere solo di alcuni. Di conseguenza, per entrambi, in base al rapporto che caratterizza la società moderna, l’ uguaglianza è un’ astrazione valida solo come una possibilità che ribadisca le differenze sociali e individuali. Non è casuale che un ulteriore punto di contatto tra i due sia il riconoscimento alla sola borghesia avente un lavoro non soltanto libero, ma che libera poiché esso riesce a fondere la servitù con il dominio della proprietà. In entrambi vi è il sospetto nei confronti di ogni soluzione rivoluzionaria dei problemi che travagliano la società europea; ed è questa la ragione del sospetto che nutrono nei confronti della stessa libertà borghese gravida di conseguenze non controllabili rispetto alle quali ognuno a suo modo effettua delle correzioni atte a stabilizzarla, armonizzando lo Stato con l’ esigenza della disuguaglianza. Hegel è sensibile alla scomparsa della vita nobiliare separata dal mondo della necessità, dominata dall’ agire libero perché veramente libero dal lavoro. Il riconoscimento storico dell’ inessenzialità del signore è un’ espansione della ragione ottenuta con l’ astuzia del servo, strumento di quella ragione. L’ aristocrazia che troviamo in Stein è un ruolo sociale ineliminabile, connesso con le attività poietiche e non lavorative che dovrebbero caratterizzare la classe alta. Concludendo, in Stein manca:
il tentativo hegeliano di comprensione globale della cultura occidentale come una totalità compatta;
l’ acutezza dello sguardo notturno della civetta;
la voglia di comprendere.
FINE, END, FIN