Storia della
letteratura italiana
di Francesco De Sanctis
Letteratura italiana Einaudi
Edizione di riferimento:
Salani, Firenze 1965
Letteratura italiana Einaudi
Sommario
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
XV
XVI
XVII
XVIII
XIX
I Siciliani
I Toscani
La lirica di Dante
La prosa
I misteri e le visioni
Il Trecento
La Commedia
Il Canzoniere
Il Decamerone
L'ultimo trecentista
" Le Stanze"
Il Cinquecento
L’Orlando Furioso
Machiavelli
Pietro Aretino
Torquato Tasso
Marino
La nuova scienza
La nuova letteratura
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680
794
Letteratura italiana Einaudi
I
I SICILIANI
Il più antico documento della nostra letteratura è comunemente creduto la cantilena o canzone di Ciullo (diminutivo di Vincenzo) di Alcamo, e una canzone di Folcacchiero da Siena.
Quale delle due canzoni sia anteriore, è cosa puerile
disputare, essendo esse non principio, ma parte di tutta
un’epoca letteraria, cominciata assai prima, e giunta al
suo splendore sotto Federico secondo da cui prese il nome.
Federico secondo, imperatore d’Alemagna e re di Sicilia, chiamato da Dante «cherico grande», cioè uomo
dottissimo, fu, come leggesi nel novelissimo signore, nella cui corte a Palermo venia «la gente che avea bontade,
sonatori, trovatori e belli favellatori». E perciò i rimatori
di quel tempo, ancorchè parecchi sieno d’altra parte
d’Italia, furono detti siciliani.
Che cosa è la cantilena di Ciullo?
È una tenzone, o dialogo tra Amante e Madonna,
Amante che chiede, e Madonna che nega e nega, e in ultimo concede, tema frequentissimo nelle canzoni popolari di tutt’i tempi e luoghi, e che trovo anche oggi a Firenze nella Canzone tra il Frustino e la Crestaia.
Ciascuna domanda e risposta è in una strofa di otto
versi, sei settenari, di cui tre sdruccioli e tre rimati, chiusi da due endecasillabi rimati. La lingua è ancor rozza e
incerta nelle forme grammaticali e nelle desinenze, mescolata di voci siciliane, napolitane provenzali, francesi,
latine. Diamo ad esempio due strofe:
AMANTE
Molte sono le femine
c’hanno dura la testa,
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
e l’uomo con parabole
le dimina e ammonesta:
tanto intorno percacciale
sinchè l’ha in sua podesta.
Femina d’uomo non si può tenere.
Guàrdati, bella, pur di ripentere.
MADONNA
Che eo me ne pentesse?
Davanti foss’io auccisa,
ca nulla buona femina
per me fosse riprisa.
Er sera ci passasti
correnno alla distisa.
Acquistiti riposo, canzoneri:
le tue paraole a me non piaccion gueri.
La canzone è tirata giù tutta d’un fiato, piena di naturalezza e di brio e di movimenti drammatici, rapida, tutta
cose, senza ombra di artificio e di rettorica. Ci è una finezza e gentilezza di concetti in forma ancor greggia,
ineducata. E perciò il documento è più prezioso, perchè
se l’ingegno del poeta apparisce ne’ concetti e ne’ sentimenti e nell’andamento vivo e rapido del dialogo, la forma è quasi impersonale, ritratto immediato e genuino di
quel tempo.
E studiando in quella forma, è facile indurre che c’era
allora già la nuova lingua, non ancora formata e fissata,
ma tale che non solo si parlava, ma si scriveva; e c’era
pure una scuola poetica col suo repertorio di frasi e di
concetti, e con le sue forme tecniche e metriche già fissate.
Chi sa quanto tempo si richiede perchè una lingua
nuova acquisti una certa forma, che la renda atta ad essere scritta e cantata, può farsi capace che la lingua di
Ciullo, ancorachè in uno stato ancora di formazione, dovea già essere usata da parecchi secoli indietro.
Letteratura italiana Einaudi
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
E ci volle anche almeno un secolo, perchè fosse possibile una scuola poetica, giunta allora all’ultimo grado
della sua storia, quando i concetti, i sentimenti e le forme diventano immobili come un dizionario e sono in
tutti i medesimi.
Come e quando la lingua latina sia ita in decomposizione, quali erano i dialetti usati dalle varie plebi, come
e quando siensi formate le lingue nuove o moderne neolatine, quando e come siesi formato il nostro volgare, si
può congetturare con più o meno di verisimiglianza, ma
non si può affermare per la insufficienza de’ documenti.
Oltrechè, non è questo il luogo di esaminare e chiarire
quistioni filologiche di così alto interesse, materia non
ancora esausta di sottili e appassionate discussioni.
Si possono affermare alcuni fatti.
La lingua latina fu sempre in uso presso la parte colta
della nazione, parlata e scritta da’ chierici, da’ dottori,
da’ professori e da’ discepoli. Ricordano Malespini dice
che Federico secondo seppe «la lingua nostra latina e il
nostro volgare».
Ci erano dunque due lingue nostre nazionali, il latino
e il volgare. E che accanto al latino ci fosse il volgare,
parlato nell’uso comune della vita, si vede pure da’ contratti e istrumenti scritti in un latino che pare una traduzione dal volgare, e dove spesso accanto alla voce latina
trovi la voce in uso con un «vulgo dicitur», o «dicto.»
Questo volgare non era in fondo che lo stesso latino,
come erasi ito trasformando nel linguaggio comune, detto il «romano rustico». Nell’812 il concilio di Torsi raccomanda ai preti di affaticarsi a dichiarare le omelie in
«lingua romana rustica». Questa lingua romana o romanza, dice Erasmo, presso gli spagnuoli, gli africani, i
galli e le altre romane province era così nota alla plebe,
che gli ultimi artigiani intendevano chi la parlasse, «solo
che l’oratore si fosse accostato alla guisa del volgo». Il
volgo dunque parlava un dialetto molto simile al roma-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
no, e similissimo a questo dovea essere il nostro volgare,
anzi quasi non altro che questo, uno nelle sue forme sostanziali, vario ne’ diversi dialetti, quanto alle sue parti
accidentali, come desinenze, accenti, affissi, ecc. C’era
dunque un tipo unico, presente in tutte le lingue neolatine, e più prossimo, come nota Leibnizio, alla lingua italica, che ad alcun’altra.
Con lo scemare della coltura prevalsero i dialetti. Per
le chiese per le scuole, negli atti pubblici era usato un latino barbaro, molto simile alla lingua del volgo. Nell’uso
comune il volgare non era parlato in nessuna parte, ma
era dappertutto, come il tipo unico a cui s’informavano i
dialetti e che li certificava di una sola famiglia.
Questo tipo o carattere de’ nostri dialetti appare e
nella somiglianza de’ vocaboli e delle forme grammaticali, e ne’ mezzi musicali e analitici sostituiti alla prosodia e alle forme sintetiche della lingua latina. Il nome generico della nuova lingua, come segno di distinzione dal
latino, era il «volgare». Così Malespini dicea: «la nostra
lingua latina e il nostro volgare», cioè la nuova lingua
parlata in tutta Italia dal volgo ne’ suoi dialetti.
Con lo svegliarsi della coltura, se parecchi dialetti rimasero rozzi e barbari, come le genti che li parlavano,
altri si pulirono con tendenza visibile a svilupparsi dagli
elementi locali e plebei, e prendere un colore e una fisonomia civile, accostandosi a quel tipo o ideale comune
fra tante variazioni municipali, che non si era perduto
mai, che era come criterio a distinguere fra loro i dialetti
più o meno conformi a quello stampo, e che si diceva il
«volgare», così prossimo al romano rustico.
Proprio della coltura è suscitare nuove idee e bisogni
meno materiali, formare una classe di cittadini più educata e civile, metterla in comunicazione con la coltura
straniera, avvicinare e accomunare le lingue, sviluppando in esse non quello che è locale, ma quello che è comune.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
La coltura italiana produsse questo doppio fenomeno: la ristaurazione del latino e la formazione del volgare. Le classi più civili da una parte si studiarono di scrivere in un latino meno guasto e scorretto, dall’altra, ad
esprimere i sentimenti più intimi e familiari della nuova
vita, lasciando alla spregiata plebe i natii dialetti, cercarono forme di dire più gentili, un linguaggio comune,
dove appare ancora questo o quel dialetto, ma ci si sente
già uno sforzo ad allontanarsene e prendere quegli abiti
e quei modi più in uso fra la gente educata e che meglio
la distinguano dalla plebe.
Questo linguaggio comune si forma più facilmente
dove sia un gran centro di coltura, che avvicini le classi
colte e sia come il convegno degli uomini più illustri.
Questo fu a Palermo, nella corte di Federico secondo,
dove convenivano siciliani, pugliesi, toscani, romagnoli,
o per dirla col Novellino, «dove la gente che avea bontade venìa a lui da tutte le parti».
Il dialetto siciliano era già sopra agli altri, come confessa Dante. E in Sicilia troviamo appunto un volgare
cantato e scritto, che non è più dialetto siciliano e non è
ancora lingua italiana, ma è già, malgrado gli elementi
locali, un parlare comune a tutt’i rimatori italiani, e che
tende più e più a scostarsi dal particolare del dialetto, e
divenire il linguaggio delle persone civili.
La Sicilia avea avuto già due grandi epoche di coltura,
l’araba e la normanna. Il mondo fantastico e voluttuoso
orientale vi era penetrato con gli arabi, e il mondo cavalleresco germanico vi era penetrato co’ normanni, che
ebbero parte così splendida nelle Crociate. Ivi più che in
altre parti d’Italia erano vive le impressioni, le rimembranze e i sentimenti di quella grande epoca da Goffredo a Saladino; i canti de’ trovatori, le novelle orientali, la
Tavola rotonda, un contatto immediato con popoli così
diversi di vita e di coltura, avea colpito le immaginazioni
e svegliata la vita intellettuale e morale. La Sicilia diven-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ne il centro della coltura italiana. Fin dal 1166 nella corte del normanno Guglielmo II convenivano i trovatori
italiani. Sotto Federico secondo l’Italia colta avea la sua
capitale in Palermo. Tutti gli scrittori si chiamavano «siciliani». Cronache, trattati scrivevano in un latino già
meno rozzo, anzi ricercato e pretensioso, come si vede
nel Falcando. I sentimenti e le idee nuove avevano la loro espressione in quel romano rustico, fondo comune di
tutt’i dialetti e divenuto il parlare della gente colta, il
«volgare», di tutt’i volgari moderni il più simile al latino.
La lingua di Ciullo non è dialetto siciliano, ma già il
volgare, com’era usato in tutt’i trovatori italiani, ancora
barbaro, incerto e mescolato di elementi locali, materia
ancora greggia.
Vi si trova una forma poetica molto artificiosa e musicale, con un gioco assai bene inteso di rime, e grande
ricchezza e spontaneità di forme e di concetti. Per giungere fin qui è stato necessario un lungo periodo di elaborazione. Ciullo è l’eco ancora plebea di quella vita
nuova svegliatasi in Europa al tempo delle Crociate, e
che avea avuta la sua espressione anche in Italia, e massime nella normanna Sicilia. Di quella vita un’espressione
ancor semplice e immediata, ma più nobile, più diretta e
meno locale, è nella romanza attribuita al re di Gerusalemme e nel Lamento dell’amante del crociato, di Rinaldo d’Aquino. Sentimenti gentili e affettuosi sono qui
espressi in lingua schietta e di un pretto stampo italiano,
con semplicità e verità di stile, con melodia soave. Cantato e accompagnato da istrumenti musicali, questo «sonetto», come lo chiama l’innamorata, dovea fare la più
grande impressione. Comincia così:
Giammai non mi conforto
nè mi voglio allegrare.
Le navi sono al porto
e vogliono collare.
Vassene la più gente
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in terre d’oltremare.
Ed io, oimè lassa dolente!
Come degg’io fare?
Vassene in altea contrata,
e nol mi manda a dire:
ed io rimango ingannata.
Tanti son li sospire
che mi fanno gran guerra
la notte con la dia;
nè in cielo nè in terra
non mi pare ch’io sia.
Il seguito della canzone è una tenera e naturale mescolanza di preghiere e di lamenti, ora raccomandando a
Dio l’amato, ora dolendosi con la croce:
La croce mi fa dolente,
e non mi val Deo pregare.
Oimè, croce pellegrina,
perchè m’hai così distrutta?
Oinzè lassa tapina!
ch’io ardo e incendo tutta.
Finisce così
Però ti prego, Dolcetto,
che sai la pena mia,
che me ne facci un sonetto
e mandilo in Soria:
ch’io non posso abentare
notte, nè dia:
in terra d’oltremare
ita è la vita mia.
La lezione è scorretta; pure, questa è già lingua italiana,
e molto sviluppata ne’ suoi elementi musicali e ne’ suoi
lineamenti essenziali.
L’amante che prega e chiede amore, l’innamorata che
lamenta la lontananza dell’amato, o che teme di essere
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
abbandonata, le punture e le gioie dell’amore, sono i temi semplici de’ canti popolari, la prima effusione del
cuore messo in agitazione dall’amore. E queste poesie,
come le più semplici e spontanee, sono anche le più affettuose e le più sincere. Sono le prime impressioni, sentimenti giovani e nuovi, poetici per sè stessi, non ancora
analizzati e raffinati.
Di tal natura è il Lamento dell’innamorato per la partenza in Storia della sua amata, di Ruggerone da Palermo, e il canto di Odo delle Colonne, da Messina, dove
l’innamorata con dolci lamenti effonde la sua pena e la
sua gelosia. Eccone il principio:
Oi lassa innamorata,
contar vo’ la mia vita,
e dire ogni fiata,
come l’amor m’invita,
ch’io son, senza peccata,
d ‘assai pene guernita
per uno che amo e voglio,
e non aggio in mia baglia,
siccome avere io soglio;
però pato travaglia.
Ed or mi mena orgoglio,
lo cor mi fende e taglia.
Oi lassa tapinella,
come l’amor m’ha prisa!
Come lo cor m’infella
quello che m’ha conquisa!
La sua persona bella
tolto m’ha gioco e risa,
ed hammi messa in pene
ed in tormento forte:
mai non credo aver bene,
se non m’accorre morte,
e spero, là che vene,
traggami d’esta sorte.
Lassa che mi dicia,
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
quando m’avìa in celato:
– Di te, o vita mia,
mi tegno più pagato,
che s’io avessi in balìa
lo mondo a signorato.
Sono sentimenti elementari e irriflessi, che sbuccian
fuori nella loro natia integrità senza immagini e senza
concetti. Non ci è poeta di quel tempo, anche tra i meno
naturali, dove non trovi qualche esempio di questa forma primitiva, elementare, a suon di natura, come dice
un poeta popolare, e com’è una prima e subita impressione colta nella sua sincerità. Ed è allora che la lingua
esce così viva e propria e musicale che serba una immortale freschezza, e la diresti «pur mo’ nata», e fa contrasto
con altre parti ispide dello stesso canto. Rozza assai è
una canzone di Enzo re; ma chi ha pazienza di leggerla,
vi trova questa gemma:
Giorno non ho di posa,
come nel mare l’onda:
core, chè non ti smembri?
Esci di pene e dal corpo ti parte:
ch’assai val meglio un’ora
morir, che ognor penare.
Rozzissima è una canzone di Folco di Calabria, poeta assai antico; ma nella fine trovi lo stesso sentimento in una
forma certo lontana da questa perfezione, pur semplice
e sincera:
Perzò meglio varria
morir in tutto in tutto,
ch’usar la vita mia
in pena ed in corrutto,
come uomo languente.
Nella canzone a stampa di Folcacchiero da Siena, fredda
e stentata, è pure qua e colà una certa grazia nella nuda
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ingenuità di sentimenti che vengon fuori nella loro crudità elementare. Udite questi versi:
E par ch’eo viva in noia della gente:
ogni uono m’ è selvaggio:
non paiono li fiori
per me, com’ già soleano,
e gli augei per amori
dolci versi faceano — agli albori.
Questi fenomeni amorosi sono a lui cosa nuova, che lo
empiono di maraviglia e lo commuovono e lo interessano, senza ch’ei senta bisogno di svilupparli o di abbellirli. Narra, non rappresenta, e non descrive. Non è ancora
la storia, è la cronaca del suo cuore.
Però niente è in questi che per ingenuità e spontaneità di forma e di sentimento uguagli il canto di Rinaldo di Aquino o di Odo delle Colonne. Sono due esempli
notevoli di schietta e naturale poesia popolare.
Ma la coltura siciliana avea un peccato originale. Venuta dal di fuori, quella vita cavalleresca, mescolata di
colori e rimembranze orientali, non avea riscontro nella
vita nazionale. La gaia scienza, il codice d’amore, i romanzi della Tavola rotonda, i Reali di Francia, le novelle
arabe, Tristano, Isotta, Carlomagno e Saladino, il soldano, tutto questo era penetrato in Italia, e se colpiva l’immaginazione, rimaneva estraneo all’anima e alla vita reale. Nelle corti ce ne fu l’imitazione. Avemmo anche noi i
trovatori, i giullari e i novellatori. Vennero in voga traduzioni, imitazioni, contraffazioni di poemi, romanzi, rime cavalleresche. L’Intelligenzia, poema in nona rima
ultimamente scoperto, è una imitazione di simil genere.
L’amore divenne un’arte, col suo codice di leggi e costumi. Non ci fu più questa o quella donna, ma la donna
con forme e lineamenti fissati, così come era concepita
ne’ libri di cavalleria. Tutte le donne sono simili. E così
gli uomini: tutti sono il cavaliere con sentimenti fattizii e
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
attinti da’ libri. Ma il movimento si fermò negli strati superiori della società, e non penetrò molto addentro nel
popolo, e non durò. Forse, se la Casa sveva avesse avuto
il di sopra, questa vita cavalleresca e feudale sarebbe divenuta italiana. Ma la caduta di Casa sveva e la vittoria
de’ comuni nell’Italia centrale fecero della cavalleria un
mondo fantastico, simile a quel favoleggiare di Roma, di
Fiesole e di Troia.
Essendo idee, sentimenti e immagini una merce bella
e fatta, non trovate e non lavorate da noi, si trovano
messe lì, come tolte di peso, con manifesto contrasto tra
la forma ancor rozza e i concetti peregrini e raffinati. Sono concetti scompagnati dal sentimento che li produsse,
e che non generano alcuna impressione. Quando vengono sotto la penna, il cervello e il cuore sono tranquilli. Il
poeta dice che amore lo fa «trovare» lo rende un trovatore; ma è un amore come lo trova scritto nel codice e
ne’ testi, nè ti è dato sentire ne’ suoi versi una tragedia
sua, le sue agitazioni. Le reminiscenze, le idee in voga gli
tengono luogo d’ispirazione. Sono migliaia di poesie,
tutte di un contenuto e di un colore, così somiglianti che
spesso sei impacciato a dire il tempo e l’autore del canto, ove ne’ codici sia discordanza o silenzio: ciò che non
di rado accade. La poesia non è una prepotente effusione dell’anima, ma una distrazione, un sollazzo, un diporto, una moda, una galanteria. È un passatempo, come erano le corti d’amore, è la gaia scienza un modo di
passarsela allegramente, e acquistarsi facile riputazione
di spirito e di coltura, facendo sfoggio della dottrina
d’amore; e chi più mostrava saperne, era più ammirato.
Invano cerchi ne’ canti di Federico, di Enzo, di Manfredi, di Pier delle Vigne le preoccupazioni o le agitazioni
della loro vita: vi trovi il solito codice d’amore, con le
stesse generalità. L’arte diviene un mestiere, il poeta diviene un dilettante; tutto è convenzionale, concetti, frasi, forme, metri: un meccanismo che dovea destare gran-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
de ammirazione nel volgo, specialmente usato dalle
donne; la Nina Siciliana e la Compiuta Donzella fiorentina dovettero parere un miracolo.
Quello che avvenne si può indovinare. Migliori poeti
son quelli che scrivono senza guardare all’effetto e senza
pretensione, a diletto e a sfogo, e come viene. Anche
nelle poesie più rozze trovi bei movimenti di affetto e
d’immaginazione, con una gentilezza e leggiadria di forma, che viene dal di dentro. Sono più vicini al sentimento popolare e alla natura. Ma quando vai su, quando ti
accosti a quella poesia che Dante chiama aulica e cortigiana, ti trovi già lontano dal vero e dalla natura, ed hai
tutt’i difetti di una scuola poetica, nata e formata fuori
d’Italia, e già meccanizzata e raffinata. Hai tutt’i difetti
della decadenza, un seicentismo che infetta l’arte ancora
in culla. Ci è già un repertorio. Il poeta dotto non prende quei concetti, così crudi e nudi, come fanno i rozzi
nella loro semplicità, ma per fare effetto li assottiglia e li
esagera. Nei rozzi non ci è alcun lavoro: in questi un lavoro c’è, ma freddo e meccanico. Concetti, immagini,
sentimenti, frasi, metri, rime, tutto è sforzato, tormentato, oltrepassato, sì che il lettore ammiri la dottrina, lo
spirito e le difficoltà superate. Trovi insieme rozzezza e
affettazione. La lingua ancor giovane non è raffinata, come il concetto, e scopre l’artificio di un lavoro, a cui rimane estranea. E fosse almeno originale questo lavoro,
sì che rivelasse nei poeta una vera svegliatezza e attività
dello spirito! Ma è un seicentismo venuto anch’esso dal
di fuori. Eccone un esempio:
Umile sono ed orgoglioso,
prode e vile e coraggioso,
franco e sicuro e pauroso,
e sono folle e saggio.
Facciome prode e dannaggio,
e diraggio
– Vi’ como
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mal e bene aggio
più che null’omo. –
Così comincia una canzone Ruggieri Pugliese, tutta su
questo andare, dove la rozzezza e la negligenza della forma esclude ogni serietà di lavoro: è una litania di antitesi
racimolate qua e là e messe insieme a casaccio.
I poeti siciliani di questo genere più ammirati a quei
tempi sono Guido delle Colonne e il notaio Iacopo da
Lentino.
Guido, dottore o, come allora dicevasi, giudice, fu
uomo dottissimo. Scrisse cronache e storie in latino, e
voltò di greco in latino la Storia della caduta di Troia, di
Darete, una versione che fu poi recata parecchie volte in
volgare. Un uomo par suo sdegna di scrivere nel comune volgare, e tende ad alzarsi, ad accostarsi alla maestà e
gravità del latino: sì che meritò che Dante le sue canzoni
chiamasse tragiche, cioè del genere nobile e illustre. Ma
la natura non lo avea fatto poeta, e la sua dottrina e il
lungo uso di scrivere non valse che a fargli conseguire
una perfezione tecnica, della quale non era esempio
avanti. Hai un periodo ben formato, molta arte di nessi
e di passaggi, uno studio di armonia e di gravità: artificio
puramente letterario e a freddo. Manca il sentimento;
supplisce l’acutezza e la dottrina, studiandosi di fare effetto con la peregrinità d’immagini e concetti esagerati e
raffinati, che parrebbero ridicoli, se non fossero incastonati in una forma di grave e artificiosa apparenza. Ecco
un esempio:
Ancor che l’aigua per lo foco lasse
la sua grande freddura,
non cangerea natura,
se alcun vasello in mezzo non vi stasse:
anzi avverrea senza alcuna dimura
che lo foco stutasse,
o che l’aigua seccasse;
ma per lo mezzo l’uno e l’alto dura.
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Così, gentil criatura,
in me ha mostrato amore
l’ardente suo valore,
che senz’amore – era aigua fredda e ghiaccia.
Ma el m’ha sì allumato
di foco, che m’abbraccia,
ch’eo fòra consumato,
se voi, donna sovrana,
non foste voi mezzana
infra l’amore e meve,
che fa lo foco nascere di neve.
E non si ferma qui, e continua con l’acqua e il foco e la
neve, e poi dice che il suo spirito è ito via, e lo «spirito
ch’io aggio, credo lo vostro sia che nel mio petto stia», e
conchiude ch’ella lo tira a sè, ed ella sola può, come di
tutte le pietre la sola calamita ha balìa di trarre: paragone in cui spende tutta la strofa, spiegando come la calamita abbia questa virtù. Questi son concetti e freddure
dissimulate nell’artificio della forma; perchè se guardi
alla condotta del periodo, all’arte de’ passaggi, alla stretta concatenazione delle idee, alla felicità dell’espressione
in dir cose così sottili e difficili, hai poco a desiderare.
In Iacopo da Lentino questa maniera è condotta sino alla stravaganza, massime ne’ sonetti. Non mancano movimenti d’immaginazione ed una certa energia d’espressione, come:
Ben vorria che avvenisse
che lo meo core uscisse
come incarnato tutto,
e non dicesse mutto – a voi sdegnosa:
ch’Amore a tal n ’addusse,
che se vipera fusse,
naturia perderea:
ella mi vederea: – fòra pietosa.
Ma sono affogati fra paragoni, sottigliezze e freddure,
che nella rozza trascurata forma spiccano più, e sono re-
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miniscenze, sfoggio di sapere. Non sente amore, ma sottilizza d’amore, come:
Fino amor di fin cor vien di valenza,
e scende in alto core somigliante,
e fa di due voleri una voglienza,
la qual è forte più che lo diamante,
legandoli con amorosa lenza,
che non si rompe, nè scioglie l’amante.
Su questa via giunge sino alla più goffa espressione di
una maniera falsa e affettata, come è un sonetto, che comincia:
Lo viso, e son diviso dallo viso,
e per avviso credo ben visare,
però diviso viso dallo viso,
ch’altro è lo viso che lo divisare, ecc.
Nondimeno questi passatempi poetici, se rimasero
estranei alla serietà e intimità della vita, ebbero non piccola influenza nella formazione del volgare, sviluppando
le forme grammaticali e la sintassi e il periodo e gli elementi musicali: come si vede principalmente in Guido
delle Colonne. Ne’ più rozzi trovi de’ brani di un colore
e di una melodia che ti fa presentire il Petrarca. Valgano
a prova alcuni versi nella canzone attribuita a re Manfredi:
E vero certamente credo dire,
che fra le donne voi siete sovrana,
e d’ogni grazia e di virtù compita,
per cui morir d’amor mi saria vita.
L’Intelligenzia, poema allegorico, pieno d’imitazioni e di
contraffazioni, ha una perfezione di lingua e di stile, che
mostra nell’ignoto autore un’anima delicata, innamorata, aperta alle bellezze della natura, e fa presumere a
quale eccellenza di forma era giunto il volgare. C’è una
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
descrizione della primavera, non nuova di concetti, ma
piena di espressione e di soavità, come di chi ne ha il
sentimento. E continua così:
Ed io stando presso a una fiumana
in un verziere all’ombra di un bel pino,
d’acqua viva aveavi una fontana
intorneata di fior gelsomino.
Sentìa l’àire soave a tramontana:
udìa cantar gli augei in lor latino;
allor sentìo venir dal fino amore
un raggio che passò dentro dal core,
come la luce che appare al mattino.
E descrive così la sua donna:
Guardai le sue fattezze dilicate,
che nella fronte par la stella Diana,
tant’ è d’oltremirabile biltate,
e nell’aspetto sì dolce ed umana!
Bianca e vermiglia di maggior clartate
che color di cristallo o fior di grana:
la bocca picciolella ed aulorosa,
la gola fresca e bianca più che rosa,
la parlatura sua soave e piana.
Le bionde trecce e i begli occhi amorosi,
che stanno in sì salutevole loco,
quando li volge, son sì dilettosi,
che il cor mi strugge come cera foco.
Quando spande li sguardi gaudiosi
par che ’l mondo si allegri e faccia gioco.
Qui ci è un vero entusiasmo lirico, il sentimento della
natura e della bellezza: ond’è nata una mollezza e dolcezza di forma, che con poche correzioni potresti dir di
oggi; così è giovine e fresca.
E se il sonetto dello «sparviere» è della Nina, se è lavoro di quel tempo, come non pare inverisimile, è un altro esempio della eccellenza a cui era venuto il volgare,
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
maneggiato da un’anima piena di tenerezza e d’immaginazione:
Tapina me che amava uno sparviero,
amaval tanto ch’io me ne moria;
a lo richiamo ben m’era maniero,
ed unque troppo pascer nol dovia.
Or è montato e salito sì altero,
assai più altero che far non solia;
ed è assiso dentro a un verziero,
e un’altra donna l’averà in balìa.
Isparvier mio, ch’io t’avea nodrito;
sonaglio d’oro ti facea portare,
perchè nell’uccellar fossi più ardito.
Or sei salito siccome lo mare,
ed hai rotto li geti e sei fuggito,
quando eri fermo nel tuo uccellare.
Con la caduta degli Svevi questa vivace e fiorita coltura
siciliana stagnò, prima che acquistasse una coscienza più
chiara di sè e venisse a maturità. La rovina fu tale, che
quasi ogni memoria se ne spense, ed anche oggi, dopo
tante ricerche, non hai che congetture, oscurate da grandi lacune.
Nata feudale e cortigiana, questa coltura diffondevasi
già nelle classi inferiori, ed acquistava una impronta tutta meridionale. Il suo carattere non è la forza, nè l’elevatezza, ma una tenerezza raddolcita dall’immaginazione e
non so che molle e voluttuoso fra tanto riso di natura.
Anche nella lingua penetra questa mollezza, e le dà una
fisonomia abbandonata e musicale, come d’uomo che
canti e non parli, in uno stato di dolce riposo: qualità
spiccata de’ dialetti meridionali.
La parte ghibellina, sconfitta a Benevento, non si rilevò più. Lo nobile signore Federico e il bennato re
Manfredi dieron luogo ai papi e agli Angioini, loro fidi.
Letteratura italiana Einaudi
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
La parte popolana ebbe il disopra in Toscana, e la libertà de’ comuni fu assicurata. La vita italiana, mancata
nell’Italia meridionale in quella sua forma cavalleresca e
feudale, si concentrò in Toscana. E la lingua fu detta toscana, e toscani furon detti i poeti italiani. De’ siciliani
non rimase che questa epigrafe:
Che fur già primi: e quivi eran da sezzo.
Letteratura italiana Einaudi
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
II
I TOSCANI
Mentre la coltura siciliana si spiegava con tanto splendore e lusso d’immaginazione, e attirava a sè i più chiari ingegni d’Italia, ne’ comuni dell’Italia centrale oscuramente, ma con assiduo lavoro, si formava e puliva il volgare.
Centri principali erano Bologna e Firenze, intorno a’
quali trovi Lucca, Pistoia, Pisa, Arezzo, Siena, Faenza,
Ravenna, Todi, Sarzana, Pavia, Reggio.
Gittando uno sguardo su quelle antichissime rime,
non vi trovi la vivacità e la tenerezza meridionale; ma
uno stile sano e semplice, lontano da ogni gonfiezza e
pretensione, e un volgare già assai più fino, per la proprietà de’ vocaboli ed una grazia non scevra di eleganza.
Trovo una tenzone di Ciacco dall’Anguillara, fiorentino, sullo stesso tema trattato da Ciullo. Nella cantilena
di costui hai più varietà e più impeto, e concetti ingegnosi in forma rozza. Nella tenzone di Ciacco tutto è su
uno stampo, in andamento piano, uguale e tranquillo, e
in una lingua così propria e sicura, che non ne hai esempio ne’ più tersi e puliti siciliani. Comincia così:
AMANTE
O gemma leziosa,
adorna villanella,
che sei più virtudiosa
che non se ne favella;
per la virtude ch’hai,
per grazia del Signore,
aiutami, chè sai,
ch’io son tuo servo, Amore.
DONNA
Assai son gemme in terra
ed in fiume ed in mare,
ch’anno virtude in guerra,
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
e fanno altrui allegrare:
amico, io non son dessa
di quelle tre nessuna:
altrove va per essa,
e cerca altra persona.
Con questa precisione e sicurezza di vocabolo e di frase,
che ti annunzia un volgare già formato e parlato, si accompagna una misura e una grazia ignota alla nudità
molle e voluttuosa della vita meridionale. E vaglia per
prova la fine di questa tenzone, di una decenza amabile,
così lontana dal plebeo «allo letto ne gimo» di Ciullo:
DONNA
Tanto m’hai predicata,
e sì saputo dire,
ch’io mi sono accordata:
dimmi: che t’ è in piacere?
AMANTE
Madonna, a me non piace
castella, nè monete:
fatemi far la pace
con l’amor che sapete.
Questo addimando a vui,
e facciovi finita.
Donna, siete di lui,
ed egli è la mia vita.
Questi dialoghi sono una pretta imitazione della lingua
parlata, e sono i più acconci a mostrare a qual grado di
finezza e di grazia era giunto il volgare in Toscana, massime in Firenze. Ecco alcuni brani di un altro dialogo di
Ciacco:
Mentr’io mi cavalcava,
audivi una donzella;
forte si lamentava,
e diceva: – Oi madre bella,
lungo tempo è passato
che deggio aver marito,
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
e tu non lo m’hai dato.
La vita d’esto mondo nulla cosa mi pare...
– Figlia mia benedetta,
se l’amor ti confonde
de la dolce saetta,
ben te ne puoi sofferere...
– Per parole mi teni,
tuttor così dicendo;
questo patto non fina,
ed io tutta ardo e incendo;.
La voglia mi domanda
cosa che non suole,
una luce più chiara che il sole;
per ella vo languendo.
In queste rappresentazioni schiette dell’animo, e non
astratte e pensate, ma in casi ben determinati e circoscritti il poeta è sincero, vede con chiarezza istintiva
quello s’ha a fare e dire, come fa il popolo, e non esprime i suoi sentimenti, perchè non ne ha coscienza, tutto
dietro alle cose che gli si presentano, dette però in modo
che ti suscitano anche le impressioni provate dal poeta.
A lui basta dire il fatto e la sua immediata impressione,
senza dimorarvi sopra, parendogli che la cosa in se stessa dica tutto: semplicità rara ne’ meridionali, dov’è maggiore espansione, ma che è qualità principale del parlare
fiorentino. Uno stupendo esempio trovi in questo sonetto della Compiuta Donzella fiorentina, la divina Sibilla,
come la chiama maestro Torrigiano:
Alla stagion che il mondo foglia e fiora,
accresce gioia a tutt’i fini amanti:
vanno insieme alli giardini allora
che gli augelletti fanno nuovi canti.
La franca gente tutta s’innamora
ed in servir ciascun traggesi innanti,
ed ogni damigella in gioi’ dimora,
e a me ne abbondan smarrimenti e pianti.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Chè lo mio padre m’ha messa in errore,
e tienemi sovente in forte doglia:
donar mi vuole a mia forza signore.
Ed io di ciò non ho disio, nè voglia,
e in gran tormento vivo a tutte l’ore:
però non mi rallegra fior, nè foglia.
Un sonetto di Bondie Dietaiuti è similissimo a questo di
concetto e di condotta, con minor movimento e grazia e
freschezza, ma superiore d’assai per arte e perfezione di
forma:
Quando l’aria rischiara e rinserena,
il mondo torna in grande dilettanza,
e l’acqua surge chiara dalla vena,
e l’erba vien fiorita per sembianza,
e gli augelletti riprendon lor lena,
e fanno dolci versi in loro usanza,
ciascun amante gran gioi’ ne mena
per lo soave tempo che s’avanza.
Ed io languisco ed ho vita dogliosa:
come altro amante non posso gioire,
chè la mia donna m’ è tanto orgogliosa.
E non mi vale amar, nè ben servire:
però l’altrui allegrezza m’è noiosa,
e dogliomi ch’io veggio rinverdire.
In questi due sonetti è grande semplicità di pensiero e di
andamento, e una perfetta misura. Si ha aria di narrare
quello si vede o si sente, senza riflessioni ed emozioni,
ma con una vivacità ed un colorito, che suscita le più vive impressioni. Il secondo sonetto è cosa perfetta, se
guardi alla parte tecnica, ed accenna a maggior coltura;
non solo la nuova lingua è pienamente formata, ma è già
elegante, già la frase surroga i vocaboli propri: a me pia-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ce più la perfetta semplicità del sonetto femminile, con
movenza più vivace, più immediata e più naturale.
La proprietà, la grazia e la semplicità sono le tre veneri che si mostrano nel volgare, come si era ito formando
in Toscana; qualità che trovi ancora dove è più difficile a
serbarle, quando per una impazienza interna si rompe il
freno e si dicono i secreti più delicati dell’animo, con
tanta più audacia, quanto maggiore è stata la compressione, e con la sicurezza di chi sente che non ha torto,
ma ragione: è una violenza raddolcita da una grazia ineffabile, e che per una naturale misura rimane ipotetica
nel seguente madrigale di Alesso di Guido Donati:
In pena vivo qui sola soletta
giovin rinchiusa dalla madre mia,
la qual mi guarda con gran gelosia.
Ma io le giuro, alla croce di Dio,
s’ella mi terrà più sola serrata,
ch’i’ dirò: – Fa’ con Dio, vecchia arrabbiata. –
E gitterò la rocca, il fuso e l’ago,
amor, fuggendo a te, di cui m’appago.
Questa bella forma, in tanto spirito e vivacità così castigata, propria e semplice e piena di grazia, si andò sviluppando non perchè il suo contenuto voleva così, ma in
opposizione ad esso contenuto, vuoto ed astratto. Anzi
che qualità del contenuto, o di questo e quel poeta, sembra il progresso naturale dello spirito toscano, dotato di
un certo senso artistico, che lo tirava alla forma, nella
piena indifferenza del contenuto. Perciò queste qualità
spiccano più, dove il poeta non è impedito da un contenuto convenzionale, ma si abbandona a rappresentare i
fatti e i moti dell’animo, come gli si affacciano in situazioni ben determinate, e come sono nella realtà della vita. Allora contenuto e forma sono una cosa stessa, ed hai
ciò che di più perfetto ha prodotto a quel tempo lo spirito toscano: come è in parecchie poesie già citate. Po-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
tremmo desiderare che la lingua e la poesia italiana si
fosse ita formando per un movimento ingenito, naturale
e popolare, com’è stato presso altri popoli. Ma sono desidèri sterili. Il fatto è che mentre la lingua si formava, il
contenuto era già formato e meccanizzato e convenzionale: la lingua si moveva, il contenuto rimaneva stazionario, lo stesso ne’ più puliti scrittori, tutti del pari dimenticati, perchè quello solo sopravvive, che ha una
forma prodotta da un contenuto attivo e reale, vivente
della vita comune.
Tale non è il contenuto in tanta moltitudine di rimatori a quei tempi. In Toscana, come in Sicilia, ci era già
tutto un mondo poetico, non formato a poco a poco insieme col volgare, ma già fissato con lineamenti precisi e
costanti. C’era già una poetica, e c’era anche un vocabolario comune. Concetti e parole sono in tutt’i trovatori
gli stessi. Come più tardi avemmo le maschere, cioè caratteri comici con lineamenti tradizionali, che nessuno si
attentava di alterare, così ci era allora Madonna e Messere.
Madonna, l’«amanza» o la cosa amata, era un ideale
di tutta perfezione, non la tale e tale donna, ma la donna
in genere, amata con un sentimento che teneva di adorazione e di culto. Messere era l’amante, il «meo sere», che
avea qualche valore solo amando. Uomo senz’amore è
uomo senza valore. Amare è indizio di cor gentile. Chi
ama è cavaliere, ubbidiente alle leggi dell’onore, difensore della giustizia, protettore de’ deboli, umile servo o
servente d’amore, e soffre volentieri ove a sua Madonna
piaccia, e amato sta allegro, ma «senza vanitate», senza
menar vanto, e spregia le ricchezze, perchè chi è amato è
ricco. Amore è «di due voleri una voglienza», ed è senza
«fallimento» o «villania», senza peccato, e sta contento
al solo sguardo; nello stesso paradiso la gioia dell’amante è contemplare Madonna, e senza Madonna «non vi
vorria gire». Il codice d’amore descrive i concetti e i sen-
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timenti degli amanti «fini» e «cortesi». Il codice della
cavalleria descrive le leggi dell’onore, i doveri di cavaliere «leale» e «franco». Come si vede, amore era tutta la
vita ne’ suoi vari aspetti, era Dio, patria e legge; la donna
era la divinità di quei rozzi petti. Chi cerca nelle memorie della prima età, troverà questo ideale della donna
nella sua purezza e nella sua onnipotenza: l’universo è la
Donna. E tale fu negl’inizi della società moderna in Germania, in Francia, in Provenza, in Spagna, in Italia. La
storia fu fatta a quella immagine. Troiani e romani erano
concepiti come cavalieri erranti, e così arabi, saraceni,
turchi, lo soldano e Saladino. Paris e Elena, Piramo e Tisbe sono eroi da romanzo, come Lancillotto e Ginevra,
Tristano e Isaotta la bionda. In questa fraternità universale si trovano gli angioli, i santi, i miracoli, il paradiso in
istrana mescolanza col fantastico e il voluttuoso del
mondo orientale, tutto battezzato sotto nome di cavalleria. Le idee generali non sono ancora potenti di uscire
nella loro forma, e sono ancora allegorie. Le idee morali
sono motti e proverbi. La letteratura di questa età infantile sono romanzi e novelle e favole e motti, poemi allegorici e sonetti nel loro primo significato, cioè rime con
suoni, canti e balli, onde la canzone e la ballata.
La cavalleria poco attecchì in Italia. Castella e castellane col loro corteggio di giullari, trovatori, novellatori e
bei favellatori doveano aver poco prestigio presso un
popolo che avea disfatte le castella, e s’era ordinato a comune. Vinto Federico Barbarossa, e abbattuta poi Casa
sveva, quella vita di popolo fu assicurata, e le tradizioni
feudali e monarchiche perdettero ogni efficacia nella
realtà. Rimasero nella memoria, non come regola della
vita, ma come un puro gioco d’immaginazione. Nessuno
credeva a quel mondo cavalleresco, nessuno gli dava serietà e valore pratico: era un passatempo dello spirito,
non tutta la vita, ma un incidente, una distrazione. Ora
quando un contenuto non penetra nelle intime latebre
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
della società e rimane nel campo dell’immaginazione,
diviene subito frivolo e convenzionale, come la moda, e
perde ogni sincerità e ogni serietà. Ma la stessa immaginazione era inaridita innanzi a un contenuto dato e fissato, come si trovava in una letteratura non nata e formata
con la vita nazionale, ma venuta dal di fuori per via di
traduzioni. Perciò niente di nazionale e di originale, nessun moto di fantasia o di sentimento; nessuna varietà di
contenuto; una così noiosa uniformità, che mal sai distinguere un poeta dall’altro.
Questo contenuto non può aver vita, se non si move,
trasformato e lavorato dal genio nazionale. Quello stesso
senso artistico, che avea condotta già a tanta perfezione
la lingua, dovea altresì risuscitare quel contenuto e dargli moto e spirito.
L’Italia avea già una coltura propria e nazionale molto progredita: l’Europa andava già ad imparare nella
dotta Bologna. Teologia, filosofia, giurisprudenza,
scienze naturali, studi classici aveano già con vario indirizzo dato un vivo impulso allo spirito nazionale. Quel
contenuto cavalleresco dovea parer frivolo e superficiale
ad uomini educati con Virgilio ed Ovidio, che leggevan
san Tommaso e Aristotile, nutriti di Pandette e di dritto
canonico, ed aperti a tutte le maraviglie dell’astronomia
e delle scienze naturali. Le tenzoni d’amore doveano parer cosa puerile a quegli atleti delle scuole, così pronti e
così sottili nelle lotte universitarie. Quella forma di poetare dovea parer troppo rozza e povera a gente già iniziata in tutti gli artifici della rettorica. Nacque l’entusiasmo della scienza, una specie di nuova cavalleria che
detronizzava l’antica. Lo stesso impeto che portava l’Europa a Gerusalemme, la portava ora a Bologna. Gli storici descrivono co’ più vivi colori questo grande movimento di curiosità scientifica, il cui principal centro era
in Italia.
E la scienza fu madre della poesia italiana, e la prima
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ispirazione venne dalla scuola. Il primo poeta è chiamato il Saggio, e fu il padre della nostra letteratura, fu il
bolognese Guido Guinicelli, il nobile, il massimo, dice
Dante, il padre
mio e degli altri miei miglior, che mai
rime d’amor usàr dolci e leggiadre.
Guido nel 1270 insegnava lettere nell’università di Bologna. Il volgare era già formato, e si chiamava «lingua
materna»: l’uso moderno, in opposizione al latino. Egli
vi gittò dentro tutto l’entusiasmo di una mente educata
dalla filosofia alle più alte speculazioni, e commossa da’
miracoli dell’astronomia e dalle scienze naturali. È il
mondo nuovo della scienza, che si rivela con le sue fresche impressioni nella sua canzone sulla natura
dell’amore. In generale, le poesie de’ trovatori sono una
filza di concetti addossati gli uni agli altri, senza sviluppo. Qui non ci è che un solo concetto, ed è il luogo comune de’ trovatori, espresso nel celebre verso:
Amore e cor gentil sono una cosa.
Ma questo concetto diviene tutto un mondo innanzi a
Guido, e si mostra ne’ più nuovi aspetti. Risorge l’immaginazione, e attinge le sue immagini non da’ romanzi di
cavalleria, ma dalla fisica, dall’astronomia, da’ più bei fenomeni della natura, con la compiacenza, con la voluttà
e l’abbondanza di chi addita e spiega le sue scoperte. I
paragoni si accavallano, s’incalzano, ti par di essere in
un mondo incantato, e passi di maraviglia in maraviglia.
Citerò alcuni brani:
Al cor gentil ripara sempre amore,
siccome augello in selva alla verdura;
nè fe, amore anti che gentil core
nè gentil core anti che amor, Natura.
Che adesso com’ fu il Sole
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
sì tosto fue lo splendor lucente
nè fu davanti al Sole.
E prende Amore in gentilezza loco
così propiamente,
come il calore in chiarità di foco.
Foco d’Amore in gentil cor s’apprende
come virtute in pietra preziosa;
chè dalla stella valor non discende,
anzi che il Sol la faccia gentil cosa...
Amor per tal ragion sta in cor gentile,
per qual lo foco in cima del doppiero...
Amore in gentil cor prende rivera
com’ diamante dal ferro in la miniera.
èere lo Sol lo fango tutto il giorno:
vile riman: nè il Sol perde calore.
Dice uom altier: – Gentil per schiatta torno: –
lui sembra il fango; e il Sol gentil valore.
Chè non dee dare uom fè
che gentilezza sia fuor di coraggio
in dignità di re,
se da virtute non ha gentil core:
com’acqua ei porta raggio
e il ciel ritien la stella e lo splendore.
C’è qui una certa oscurità alcuna volta e un certo stento,
come di un pensiero in travaglio, e n’escono vivi guizzi
di luce che rivelano le profondità di una mente sdegnosa
di luoghi comuni e per lungo uso speculatrice. Il contenuto non è ancora trasformato internamente, non è ancora poesia, cioè vita e realtà; ma è già un fatto scientifico, scrutato, analizzato da una mente avida di sapere,
con la serietà e la profondità di chi si addentra ne’ problemi della scienza, e illuminato da una immaginazione,
eccitata non dall’ardore del sentimento, ma dalla stessa
profondità del pensiero. Guido non sente amore, non riceve e non esprime impressioni amorose, ma contempla
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
l’amore e la bellezza con uno sguardo filosofico; quello
che gli si affaccia non è persona idealizzata, ma è pura
idea, della quale è innamorato con quello stesso amore
che il filosofo porta alla verità intuita e contemplata dalla sua mente, quasi fosse persona viva. Così Platone
amava le sue idee; l’amore platonico non era altro che
amore d’intuizione e di contemplazione, una specie di
parentela tra il contemplante e il contemplato: io ti contemplo e ti fo mia. Guido ama la creatura della sua meditazione, e l’amore gli move l’immaginazione e gli fa
trovare i più ricchi colori, sì ch’ella par fuori pomposamente abbigliata. L’artista è un filosofo, non è ancora un
poeta. A quel contenuto cavalleresco, frivolo e convenzionale, così fecondo presso i popoli dove nacque, così
sterile presso noi dove fu importato, succede Platone, la
contemplazione filosofica. Non ci è ancora il poeta, ma
ci è l’artista. Il pensiero si move, l’immaginazione lavora.
La scienza genera l’arte.
La coltura cavalleresca, se giovò a formare il volgare,
impedì la libertà e spontaneità del sentimento popolare,
e creò un mondo artificiale e superficiale, fuori della vita, che rese insipidi gl’inizi della nostra letteratura, così
interessanti presso altri popoli. Quel contenuto stazionario comincia a moversi presso Guido, di un moto impresso non da sentimento di amore, ma da contemplazione scientifica dell’amore e della bellezza, che se non
riscalda il core, sveglia l’immaginazione. Questo dunque
si ricordi bene, che la nostra letteratura fu prima inaridita nel suo germe da un mondo poetico cavalleresco, non
potuto penetrare nella vita nazionale, e rimaso frivolo e
insignificante; e fu poi sviata dalla scienza, che l’allontanò sempre più dalla freschezza e ingenuità del sentimento popolare, e creò una nuova poetica, che non fu
senza grande influenza sul suo avvenire. L’arte italiana
nasceva non in mezzo al popolo, ma nelle scuole, fra san
Tommaso e Aristotele, tra san Bonaventura e Platone.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
La poesia di Guido ha il difetto della sua qualità: la
profondità diviene sottigliezza, e l’immaginazione diviene rettorica, quando vuole esprimere sentimenti che
non prova. Vuol esprimere il suo stato quando fu colpito dal dardo di amore, e dice che quel dardo
per gli occhi passa, come fa lo trono,
che fèr per la finestra della torre
e ciò che dentro trova, spezza e fende.
Rimagno come statua d’ottono,
ove spirto, nè vita non ricorre,
se non che la figura d ’uomo rende.
Queste non sono certo le insipide sottigliezze di Iacopo
da Lentino. Ci si vede l’uomo d’ingegno e la mente che
pensa. Ma non è linguaggio d’innamorato questo sottilizzare e fantasticare sul suo amore e sul suo stato.
Immensa fu l’impressione che produsse questa poesia
di Guido se vogliamo giudicarla da quella che n’ebbe
Dante, che lo imitò tante volte, che lo chiamò padre suo,
che la magnifica terza strofa scelse a materia della sua
canzone sulla nobiltà, che ebbe la stessa scuola poetica,
che nota la celebrità a cui venne l’uno e l’altro Guido e
aggiunge:
e forse è nato
chi l’uno e l’altro caccerà di nido.
Guido oscurò tutt’i trovatori e salì a gran fama presso
un pubblico avido di scienza e pieno d’immaginazione,
di cui Guido era il ritratto; un pubblico uscito dalle
scuole, per il quale poesia era sapienza e filosofia, verità
adorna, e che non pregiava i versi, se non come velame
della dottrina:
Mirate la dottrina che s’asconde
sotto il velame de li versi strani.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Tal poeta, tal pubblico. E si andò così formando una
scuola poetica, il cui codice è il Convito di Dante.
Se Bologna si gloriava del suo Guido, Arezzo avea il
suo Guittone, Todi il suo Iacopone e Firenze il suo Brunetto Latini.
Dante mette Guittone tra quelli che «sogliono sempre ne’ vocaboli e nelle locuzioni somigliare la plebe».
Alla qual sentenza contraddicono alcuni sonetti attribuiti a lui, e che per l’andamento e la maniera sembrano di
fattura molto posteriore. Se guardiamo alle sue canzoni
e alle sue prose, non sarà alcuno che non stimerà giusta
la sentenza di Dante. In Guittone è notabile questo, che
nel poeta senti l’uomo: quella forma aspra e rozza ha pure una fisonomia originale e caratteristica, una elevatezza morale, una certa energia d’espressione. L’uomo ci è,
non l’innamorato, ma l’uomo morale e credente, e dalla
sincerità della coscienza gli viene quella forza. E c’è anche l’uomo colto, una mente esercitata alla meditazione
e al ragionamento. I suoi versi sono non rappresentazione immediata della vita, ma sottili e ingegnosi discorsi,
che doveano parer maraviglia a quel pubblico scolastico. Venne perciò a tale celebrità che fu tenuto per qualche tempo il primo de’ poeti; ma nella sua vecchia età si
vide oscurato da’ nuovi astri, onde dice il Petrarca:
Guitton d’Arezzo,
che di non esser primo par ch’ira aggia.
Nondimeno gli rimasero ammiratori e seguaci, con
grande ira di Dante, che esclama: «Cessino i seguaci
dell’ignoranza, che estollono Guittone d’Arezzo».
Guittone non è poeta, ma un sottile ragionatore in
versi, senza quelle grazie e leggiadrie che con sì ricca vena d’immaginazione ornano i ragionamenti di Guinicelli. Non è poeta, e non è neppure artista: gli manca quella interna misura e melodia, che condusse poeti inferiori
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
a lui di coltura e d’ingegno a polire il volgare. È privo di
gusto e di grazia.
Degne di maggiore attenzione sono le poesie di Iacopone, come quelle che segnano un nuovo indirizzo nella
nostra letteratura. Sono le poesie di un santo, animato
dal divino amore. Non sa di provenzali, o di trovatori, o
di codici d’amore: questo mondo gli è ignoto. E non cura arte, e non cerca pregio di lingua e di stile, anzi affetta parlare di plebe con quello stesso piacere con che i
santi vestivano vesti di povero. Una cosa vuole, dare sfogo ad un’anima traboccante di affetto, esaltata dal sentimento religioso. Ignora anche teologia e filosofia, e non
ha niente di scolastico. Si capisce che un poeta così fuori di moda dovea in breve esser dimenticato dal colto
pubblico, sì che le sue poesie ci furono conservate come
un libro di divozione, anzi che come lavoro letterario. E
nondimeno c’è in Iacopone una vena di schietta e popolare e spontanea ispirazione, che non trovi ne’ poeti colti finora discorsi. Se i mille trovatori italiani avessero
sentito amore con la caldezza e l’efficacia, che desta tanto incendio nell’anima religiosa di Iacopone, avremmo
avuta una poesia meno dotta e meno artistica, ma più
popolare e sincera.
Iacopone riflette la vita italiana sotto uno de’ suoi
aspetti con assai più di sincerità e di verità che non trovi
in nessun trovatore. È il sentimento religioso nella sua
prima e natia espressione, come si rivela nelle classi inculte, senza nube di teologia e di scolasticismo, e portato sino al misticismo ed all’estasi. In comunione di spirito con Dio, la Vergine, i santi e gli angeli, parla loro con
tutta dimestichezza, e li dipinge con perfetta libertà
d’immaginazione, co’ particolari più pietosi e più affettuosi che sa trovare una fantasia commossa dall’amore.
Maria è soprattutto il suo idolo, e le parla con la familiarità e l’insistenza di chi è sicuro della sua fede e sa di
amarla:
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Di’, Maria dolce, con quanto disio
miravi ’l tuo figliuol Cristo mio Dio.
Quando tu il partoristi senza pena,
la prima cosa, credo, che facesti,
sì l’adorasti, o di grazia piena,
poi sopra il fien nel presepio il ponesti;
con pochi e pover’ panni l’involgesti,
maravigliando e godendo, cred’io.
O quanto gaudio avevi e quanto bene,
quando tu lo tenevi fra le braccia!
Dillo, Maria, chè forse si conviene
che un poco per pietà mi satisfaccia.
Baciavi tu allora nella faccia,
se ben credo, e dicevi: – O figliuol mio! –
Quando «figliuol», quando «padre» e «signore»,
quando «Dio», e quando «Gesù» lo chiamavi;
o quanto dolce amor sentivi al core,
quando in grembo il tenevi ed allattavi!
Quanti dolci atti e d’amore soavi
vedevi, essendo col tuo figliuol pio!
Quando un poco talora il dì dormiva,
e tu destar volendo il paradiso,
pian piano andavi che non ti sentiva,
e la tua bocca ponevi al suo viso,
e poi dicevi con materno riso:
– Non dormir più che ti sarebbe rio. –
Sotto l’impressione del sentimento religioso Iacopone
indovina tutte le gioie e le dolcezze dell’amor materno.
Iacopone non concepisce il divino nella sua purezza, come un teologo o un filosofo, ma vestito di tutte le apparenze e gli affetti umani. Questa è una scena di famiglia,
colta dal vero, con una franchezza di colorito e con una
grazia di movenze, tutta intuitiva. Preghiere, sdegni, follie d’amore, fantasie, estasi, visioni, tutto trovi in Iacopone al naturale e come gli viene di dentro; ciò che ci è
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
più semplice e commovente, e ciò che ci è più strano e
volgare. La forma è il sentimento esso medesimo; ed ora
è soave, efficace, quasi elegante, ora stravagante e plebea. Ha una facilità che gli nuoce, ed un impeto di
espressione che non dà luogo alla lima. Ma ne’ suoi impeti gli escono forme di dire così fresche e felici, che
non disdegnarono d’imitarle Dante e il Tasso. Nè è meno terribile che soave; e vagliano a prova alcuni tratti:
Andiam tutti a vedere
Iesù quando dormia.
La terra, l’aria e il cielo
fiorir, rider facia:
tanta dolcezza e grazia
dalla sua faccia uscia.
La faccia di Gesù bambino, il Natale, la Vergine, il volo
dell’anima al paradiso, gli angioli sono visioni piene di
grazia e di efficacia. Nascendo Gesù:
le gerarchie superne
eran dal ciel discese:
lucean come lucerne
d’ardente foco accese
le loro ale distese.
Gesù ha un corteggio di donne, che gli danzano intorno,
Verginità, Umiltà, Carità, Speranza, Povertà, Astinenza:
è qualche cosa di simile alle tre sorelle di Dante nella sua
celebre canzone. Ecco in che modo Iacopone descrive
l’Umiltà:
E questa era gioconda
onesta e mansueta,
e con la treccia bionda
e a cantar la più lieta;
d’ogni virtù repleta,
a me il capo chinava:
Letteratura italiana Einaudi
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
tanto m’assecurava
ch’io presi a favellare.
Quella stessa immaginazione, che dipinge con tanta grazia, rappresenta con evidenza terribile i terrori dell’anima peccatrice nel giudizio universale:
Chi è questo gran Sire,
rege di grande altura?
Sotterra i’ vorrei gire,
tal mi mette paura.
Ove potria fuggire
dalla sua faccia dura?
Terra, fa’ copritura,
ch’io nol veggia adirato.
... ... ... .
Non trovo loco dove mi nasconda,
monte, nè piano, nè grotta o foresta:
chè la veduta di Dio mi circonda,
e in ogni loco paura mi desta...
Tutti li monti saranno abbassati,
e l’aire stretto e i venti conturbati,
e il mare muggirà da tutt’i lati.
Con l’acque lor stara fermi adunati
i fiumi ad aspettare.
Allor udrai dal ciel tromba sonare,
e tutti i morti vedrai suscitare,
avanti al tribunal di Cristo andare,
e il foco ardente per l’aria volare
con gran velocitate.
Iacopone non è un’apparizione isolata; ma si collega a
tutta una letteratura latina popolare, animata dal sentimento religioso. Là trovi il Salve regina, e l’Ave maria
stella, e il Dies irae, e drammi e vite di santi scritte da
uomini eloquenti e appassionati. Anche in volgare comparivano già cantici e laudi: di Bonifazio papa c’è rimasto un breve e rozzo cantico alla Vergine. I fatti della
Bibbia, la passione e morte di Cristo, le visioni e i miracoli de’ santi, i lamenti e le preghiere delle anime pur-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ganti, le mistiche gioie del paradiso, i terrori dell’inferno, erano il tema comune de’ predicatori e rappresentazioni nelle chiese e su per le piazze, sotto il nome di «misteri», «feste», «moralità». È rimasta memoria di una
visione dell’inferno, con la quale Gregorio settimo
quando era predicatore atterriva l’immaginazione de’
suoi uditori: ed è visione di un fantastico e di una crudezza di colori che mette il brivido. In Morra, mio paese
nativo, ricordo che nella festa della Madonna, quando la
processione è giunta sulla piazza, comparisce l’angiolo,
che fa l’annunzio. Ed è ancora la vecchia tradizione
dell’angiolo, che allora apriva la rappresentazione, annunziando l’argomento. È nota la grande rappresentazione dell’altro mondo in Firenze, che, rottosi il ponte
di legno sull’Arno, costò la vita a molte persone.
Questa materia religiosa, che ispirò tanti capilavori di
pittura e di scultura e di architettura, era efficacissima
fonte di poesia, congiungendo in sè il fantastico e l’affetto, il divino e l’umano, e nelle sue gradazioni dall’inferno al paradiso facendo vibrar tutte le corde dello spirito.
La sua tendenza troppo ascetica e spirituale era vinta dal
grosso senso popolare, che paganizzava e umanizzava
tutto. In questa storia religiosa, il cui proprio teatro è
l’altra vita, a cui questa è preparazione, l’uomo mescolava le sue passioni terrene, le sue vendette, i suoi odii, le
sue opinioni, i suoi amori. Maria era l’anello che giungeva la terra al cielo, e il devoto le parla con tutta familiarità, e le ricorda che la è stata pur donna. Iacopone dice:
Ricevi, donna, nel tuo grembo bello
le mie lacrime amare.
Tu sai che ti son prossimo e fratello,
e tu nol puoi negare.
Lei implora il trovatore nel suo colpevole amore, a lei si
raccomanda anche oggi il brigante nelle sue scellerate
spedizioni. Maria, Gesù, i santi, gli angioli, Lucifero non
Letteratura italiana Einaudi
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
bastano: l’immaginazione popolare personifica le virtù,
e ne fa un corteggio di figure allegoriche alla divinità,
rappresentandole con ogni libertà, come fa Iacopone, e
come si vede ne’ bassirilievi e in tante opere di scultura e
di pittura. E come il paganesimo ne’ suoi ultimi tempi
era interpretato allegoricamente, anche le figure pagane
entrano in questo mondo, torte dal senso letterale e volte a significato generale, come Giove, Plutone, Amore,
Apollo, le Muse, Caronte. Come il papa aspirava a far
sua tutta la terra, la storia religiosa assorbiva in sè tutt’i
tempi e tutte le storie. In questa mescolanza universale,
opera di una immaginazione primitiva e ancor rozza,
non hai luce uguale e non fusione di tinte: domina un
fondo oscuro, il sentimento di un di là della vita, di un
infinito non rappresentabile, superiore alla forma, che
riempie lo spazio di grandi ombre; e quelle mescolanze
di divino e di terreno, di antico e di moderno, di serio e
di comico non sono ben fuse, anzi stannosi accanto crudamente, e in luogo di armonizzare producono un’impressione irresistibile di contrasto, di cose che cozzano.
Quel difetto di luce è il gotico, e quel difetto di armonia
è il grottesco: e però il gotico e il grottesco sono le prime
forme artistiche di quel mondo, com’è nella sua prima
ingenuità, non ancora vinto e domato dall’arte. Il sublime del gotico si sente nel Giudizio universale di Iacopone. Dove la veduta di Dio ti circonda, senza che tu lo veda, chiarissimo al sentimento, inaccessibile
all’immaginazione. Il peccatore vede sonar le trombe,
turbati i venti, l’aria immobile, e i fiumi fermarsi, e il
mare muggire, e il fuoco volare per l’aria; dappertutto si
sente inseguito dalla veduta di Dio, ma non lo guarda,
non gli dà forma: non è un’immagine, è un sentimento
senza forma, che riempie della sua ombra tutto lo spettacolo. Di qui il grande effetto di due versi stupendi, che
sono veri decasillabi sotto apparenza di endecasillabo,
pieni di movimento e di armonia:
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
chè la veduta di Dio mi circonda
e in ogni loco paura mi desta.
È il sentimento da cui sei preso innanzi alle grandi ombre di una cattedrale. Ma ciò che prevale in Iacopone è
il grottesco, una mescolanza delle cose più disparate,
senza nessun senso di convenienza e di armonia: il che,
se fatto con intenzione, è comico; fatto con rozza ingenuità, è grottesco. Trovi il plebeo, l’indecente, il disgustoso misto coi più gentili affetti: ciò che è pure il carattere del santo con le sue estasi e le sue stravaganze. E
questo in Iacopone non è già un contrasto che celi alte
intenzioni artistiche, ma rozza natura, così discorde e
mescolata come si trova nella realtà. Ecco il principio
del cantico 48:
O Signor, per cortesia,
mandami la malsania;
a me la febbre guartana,
la continua e la terzana:
a me venga mal di dente,
mal di capo e mal di ventre,
mal de occhi e doglia di fianco
la postema al lato manco.
La poesia di Iacopone è proprio il contrario di quella
de’ trovatori. In questi è poesia astratta e convenzionale
e uniforme, non penetrata di alcuna realtà. In Iacopone
è realtà ancora naturale, non ancora spiritualizzata
dall’arte; è materia greggia, tutta discorde, che ti dà alcuni tratti bellissimi, niente di finito e di armonico.
Accanto a questa vita religiosa ancora immediata e di
prima impressione spunta la vita morale, un certo modo
di condursi con regola e prudenza; e anch’essa è nella
sua forma immediata e primitiva. Non è ragione o filosofia, è pura esperienza e tradizione, nella forma di motto o proverbio, che riassume la sapienza degli avi. Il
Letteratura italiana Einaudi
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
motto rimato è la più antica forma di poesia nel nostro
volgare. Ecco alcuni motti antichissimi:
Ancella donnea,
se donna follea.
In terra di lite
non poner la vite.
Uomo che ode, vede e tace
sì vuol vivere in pace.
Chi parla rado
tenuto è a grado.
Di questa fatta sono una filza di motti ammassati da
Iacopone in un suo carme, una specie di catechismo a
uso della vita, illustrati brevemente da qualche immagine o paragone, ora goffo, ora egregio di concetto e di
forma. Sulla vanità della vita dice:
Lo fior la mane è nato,
la sera il vei seccato.
Ciò che nella sua semplicità ha più efficacia che la elegante traduzione dello stesso concetto fatta dal Poliziano, la quale ti pare una Venere intonacata e lisciata:
Fresca è la rosa di mattino: e a sera
ella ha perduta sua bellezza altera.
I motti di Iacopone sono pensieri morali espressi per
esempio e per immagini, come fa l’immaginazione popolare, e nella loro brevità e succo è il principale attrattivo.
Ove temi pericolo,
non fare spesso posa.
Sappi di polver tollere
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
la pietra preziosa,
e da uom senza grazia
parola graziosa;
dal folle sapienzia,
e dalla spina rosa.
Prende esempio da bestia
chi ha mente ingegnosa.
Vediamo bella immagine
fatta con vili deta;
vasello bello ed utile
tratto da sozza creta;
pigliam da laidi vermini
la preziosa seta,
vetro da laida cenere,
e da rame moneta.
Non dimandare agli uomini
che lor nega natura:...
e non pregar la scimia
di bella portatura,
nè il bue, nè l’asino
di dolce parladura...
Quel che non si conviene,
ti guarda di non fare:
nè messa ad uomo laico,
nè al prete saltare;
non dece spada a femmina,
nè ad uom lo filare...
Non piace se ’n suo loco
non ponesi la cosa:
innanzi che ti calzi,
guarda da qual piè è l’uosa.
Se leggi, non far punto
dove non è la posa;
dov’è piana la lettera,
non fare oscura glosa.
In ogni cosa al prossimo
ti mostra mansueto:...
Letteratura italiana Einaudi
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Da nimistate guàrdati,
se vuoi viver quieto...
A quel modo conformati
che trovi nel paese:
al Genovese, in Genova,
ed in Siena, alsSanese...
Uomo che spesso volgesi,
da tuo consiglio caccia.
Se vedi volpe correre,
non dimandar la traccia:
non ti sforzare a prendere
più che non puoi con braccia:
chè nulla porta a casa
chi la montagna abbraccia.
Quando puoi esser umile,
non ti dimostrar forte:
il muro tu non rompere,
se aperte son le porte...
Con signore non prendere,
se tu puoi, quistione;
ch’ei ti ruba ed ingiuria
per piccola cagione,
e tutti gli altri gridano:
– Messere ha la ragione... –
Uomo senz’amicizia
castello è senza mura...
Quella è buona amicizia,
che d’ogni termpo dura:
povertà non la parte,
nè nulla ria ventura.
Quel che tu dici in camera
non dire in ogni loco:
a piaga metti unguento,
non vi mettere il foco...
E così hai motto a motto, spesso senz’altro legame che il
caso, qual più, qual meno felice, in quella forma senten-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ziosa ed esemplata, che è propria dell’immaginazione
popolare, prima ancora che nasca la favola e il racconto.
E trovi certo più gusto in queste prime rozze formazioni
così piene della vita e del sentire comune, che ne’ sonetti e canzoni morali in forma più artificiosa, ma contorta
e scolastica di Onesto e Semprebene e altri trovatori.
Questi uomini con tanti proverbi in bocca e con tanta
divozione alla Madonna e a’ santi, con l’immaginazione
piena di leggende e avventure cavalleresche, avevano nel
piccolo spazio del comune una vita politica ancora più
vivace e concentrata, che non è oggi, allargata com’è e
diffusa in quegl’immensi spazi che si chiamano «regni».
Certo, i costumi si polivano, come la lingua; ma religione e cavalleria, misteri e romanzi, se colpivano le immaginazioni, poco bastavano a contenere e regolare le passioni suscitate con tanta veemenza dalle lotte
municipali. Questa vita era troppo reale, troppo appassionata e troppo presente, perchè potesse esser vista con
la serenità e la misura dell’arte. Si manifesta con la forma grossolana dell’ingiuria, appena talora rallegrata da
qualche lampo di spirito. Un esempio è il verso:
Quando l’asino raglia, un guelfo nasce.
Questa forma primitiva dell’odio politico, amara anche
nel motteggio e nell’epigramma, e così sventuratamente
feconda tra noi anche ne’ tempi più civili, non esce mai
dalle quattro mura del comune, con particolari e allusioni così personali, che manca con la chiarezza ogni interesse: prova ne sieno i sonetti di Rustico. Certo, in questo antico esempio di satira politica vedi il volgare
condotto a tutta la sua perfezione, e ci senti uno spirito e
una vivacità propria dell’acuto ingegno fiorentino. Ma
che interesse volete voi che prendiamo per donna Gemma e messer Fastello e messer Messerino e ser Cerbiolino, con quel suo parlare sotto figura per allusioni, che
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
non ne comprendiamo un’acca? Ciò che è meramente
personale muore con la persona. Il comune sembra un
castello incantato, dove l’uomo entrando ignori tutto ciò
che vive e si muove al di fuori. Nessun vestigio de’ grandi avvenimenti di cui l’Italia era stata ed era il teatro;
niente che accennasse ad alcuna partecipazione alle
grandi discussioni tra papato e impero, tra guelfi e ghibellini, o rivelasse un sentimento politico elevato e nazionale, al di sopra della cerchia del comune. Tutto è
piccolo, tutto va a finire là, nella piccola maldicenza sulla piazza del comune. Di ciò che si passava in Italia, appena un’ombra trovi in un sonetto di Orlandino Orafo,
eco delle preoccupazioni e ansietà pubbliche, quando
Carlo d’Angiò andava ad investire re Manfredi in Benevento. Ma ciò che preoccupa Orlandino non è il risultato politico e nazionale della lotta, ma la grande strage
che ne verrà:
Ed avverrà tra lor fera battaglia,
e fia sanfaglia – tal, che molta gente
sarà dolente – chi che ne abbia gioia.
E molti buon destrier coverti a maglia,
in quella taglia – saran per niente;
qual fia perdente – allor convien che muoia.
A lui è uguale chi vinca e chi perda. Ciò che gli fa impressione è la lotta in se stessa co’ suoi accidenti. Lo diresti uno spettatore posto fuori de’ pericoli e delle passioni de’ combattenti, che contempla avido di emozioni
i vari casi della pugna.
Questa rozzezza della vita italiana sotto i suoi vari
aspetti, religioso, morale, politico, spicca più, perchè in
evidente contrasto con la precoce coltura scientifica, divenuta il principale interesse di quel tempo. La scienza
era come un mondo nuovo, nel quale tutti si precipitavano a guardare. Ma la scienza era come il Vangelo, che
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
s’imparava e non si discuteva. A quel modo che troiani,
romani, franchi e saraceni, santi e cavalieri erano
nell’immaginazione un mondo solo; Aristotile e Platone,
Tommaso e Bonaventura erano una sola scienza. Il maggiore studio era sapere, e chi sapeva più era più ammirato; nessuno domandava quanta concordia e profondità
era in quel sapere. Perciò venne a grandissima fama ser
Brunetto Latini. Il suo Tesoro e il Tesoretto furono per
lungo tempo maraviglia delle genti, stupite che un uomo
potesse saper tanto, ed esporre in verso Aristotele e Tolomeo. Di che nessuno oggi saprebbe più nulla, se Dante non avesse eternato l’uomo e il suo libro in quei versi
celebri:
sieti raccomandato il mio Tesoro nel quale io vivo ancora.
La scienza in Brunetto è materia così rozza e greggia,
com’è la vita religiosa in Iacopone e la vita politica in
Rustico. Il suo studio è di cacciar fuori tutto quello che
sa, così crudamente come gli è venuto dalla scuola, e
senza farlo passare a traverso del suo pensiero. Ciò che
dice gli pare così importante, e pareva così importante a’
suoi contemporanei, ch’egli non chiede altro, e nessuno
chiedeva altro a lui. Quella sua enciclopedia non è che
prosa rimata.
Brunetto fu maestro di Guido Cavalcanti e di Dante,
che compirono i loro studi nell’Università di Bologna,
dalla quale uscì pure Cino da Pistoia. Si sente in tutti e
tre la scuola di Guido Guinicelli. Amore si scioglie dalle
tradizioni cavalleresche, e diviene materia di teologia e
di filosofia. Si discute sulla sua origine su’ suoi fenomeni
e sul suo significato. Nella sua apparenza volgare esso
adombra quella forza che move il sole e le stelle; il poeta
lascia al volgo il senso letterale e cerca un soprasenso, il
senso teologico e filosofico, di cui quello sia il velo. Il
lettore con le sue abitudini scientifiche disprezza il feno-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
meno amoroso, e cerca dietro di quello la scienza. L’esistente non è per lui che un velo del pensiero, una forma
dell’essere; Cino da Pistoia chiama Arrigo di Lussemburgo «forma del bene»; il corpo è un velo dello spirito;
la donna è la forma di ogni perfezione morale e intellettuale: spiritualismo religioso e idealismo platonico si
fondono e fanno una sola dottrina. L’allegoria, ch’era
già prima la forma naturale di una coltura poco avanzata, diviene una forma fissa del pensiero teologico e filosofico, disposizione dello spirito aiutata dall’uso invalso
di cercare il senso allegorico a spiegazione della mitologia e del senso letterale biblico. Ma il pensiero esercitato
nelle lotte scolastiche era già tanto vigoroso che poteva
anco bastare a se stesso ed avere la sua espressione diretta. Perciò nella poesia entra non solo l’allegoria, ma il
nudo concetto scientifico, sviluppato dal ragionamento
e da tutt’i procedimenti scolastici. Cino, Cavalcanti e
Dante erano tra’ più dotti e sottili disputatori che fossero mai usciti dalla scuola di Bologna. La loro mente robusta era stata educata a guardare in tutte le cose il generale e l’astratto, e a svilupparlo col sussidio della
logica e della rettorica. Prima di esser poeti sono scienziati. Anche verseggiando, ciò che ammirano i contemporanei è la loro scienza.
Cino, maestro di Francesco Petrarca e del sommo
Bartolo, fu dottissimo giureconsulto. Il suo comento sopra i primi nove libri del Codice fu la maraviglia di
quell’età. Ristoratore del diritto romano, aperse nuove
vie alla scienza, e non fu uomo, come dice Bartolo, che
più di lui desse luce alla civil giurisprudenza. L’amore di
Selvaggia lo fece poeta, ma non potè mutare la sua mente. In luogo di rappresentare i suoi sentimenti, come
poeta, egli li sottopone ad analisi, come critico, e ne ragiona sottilmente. Posto fuori della natura e nel campo
dell’astrazione, ogni limite del reale si perde, e quella
stessa sottigliezza che legava insieme i concetti più di-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
sparati e ne traeva argomentazioni e conclusioni fuori di
ogni realtà e di ogni senso comune, creava ora una scolastica poetica, o, per dirla col suo nome, una rettorica ad
uso dell’amore, piena di figure e di esagerazioni, dove
vedi comparire gli spiritelli d’amore che vanno in giro e i
sospiri che parlano. In luogo di persone vive, abbondano le personificazioni. In un suo sonetto de’ meglio condotti e di grande perfezione tecnica vuol dire che nella
sua donna è posta la salute: mèta sì alta, che avanza ogni
sforzo d’intelletto, e però non resta altro che morire.
Questo è rettorica, non solo per la strana esagerazione
del concetto, ma per il modo dell’esposizione scolastico
e dottrinale.
Questa donna che andar mi fa pensoso,
porta nel viso la virtù d’Amore:
la qual fa disvegliare altrui nel core
lo spirito gentil che vi è nascoso.
Ella m’ha fatto tanto pauroso,
poscia ch’io vidi quel dolce signore
negli occhi suoi con tutto ’l suo valore,
che io le vo presso e riguardar non l’oso.
E s’avvien poi che quei begli occhi miri,
io veggio in quella parte la salute,
ove lo mio intelletto non può gire.
Allor si strugge sì la mia vertute,
che l’anima, che move li sospiri,
s’acconcia per voler del cor fuggire.
Una così strana esagerazione non può essere scusata che
dall’impeto e dalla veemenza della passione. Ma qui non
ce n’è vestigio; ed hai invece una specie di tèma astratto,
che si fa sviluppare nelle scuole per esercizio di rettorica. La prima quartina è una maggiore di sillogismo; intelletto, animo, core, sospiri, virtù di onore e spirito gentile sono le sottili distinzioni e astrazioni delle scuole.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Esule ghibellino, si levò a grande speranza, quando seppe della venuta di Arrigo di Lussemburgo; e quando
seppe della sua morte, scrisse una canzone. Quale materia di poesia! Dove dovrebbero comparire le speranze, i
disinganni, le illusioni e i dolori dell’esule. Ma è invece
una esposizione a modo di scienza sulla potenza della
morte e l’immortalità della virtù. Ancora più astratta e
arida è la canzone sulla natura d’amore di Guido Cavalcanti, dottissimo di filosofia e di rettorica: la qual canzone fu tenuta miracolo da’ contemporanei.
Adunque, la vita religiosa, morale e politica era appena nella sua prima formazione, e la splendida vita che
raggiava da Bologna era anch’essa materia greggia, pretta vita scientifica, messa in versi.
Siamo alla seconda metà del Dugento. La Sicilia, malgrado la sua Nina, è già nell’ombra. I due centri della vita italiana sono Bologna e Firenze, l’una centro del movimento scientifico, l’altra centro dell’arte. Nell’una
prevaleva il latino, la lingua de’ dotti; nell’altra prevaleva
il volgare, la lingua dell’arte.
L’impulso scientifico partito da Bologna, traendosi
appresso anche la poesia, dava il bando alla superficiale
galanteria de’ trovatori: il pubblico domandava cose e
non parole. E si formò una coscienza scientifica ed una
scuola poetica conforme a quella. Il tempo de’ poeti
spontanei e popolari finisce per sempre.
Il nuovo poeta scrive con intenzione. Più che poeta,
egli è lume di scienza; si chiama Brunetto Latini, l’enciclopedico, Cino, il primo giureconsulto dell’età, Cavalcanti, filosofo prestantissimo, Dante, il primo dottore e
disputatore de’ tempi suoi. Scrivono versi per bandire la
verità, spiegare popolarmente i fenomeni più astrusi dello spirito e della natura. La poesia è per loro un ornamento, la bella veste della verità o della filosofia, uso
amoroso di sapienza, come dice Dante nel Convito. Ci è
dunque in loro una doppia intenzione. Ci è una inten-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
zione scientifica. Ma ci è pure una intenzione artistica,
di ornare e di abbellire. L’artista comparisce accanto allo scienziato. Questo doppio uomo è già visibile in Guido Guinicelli.
È in Toscana, massime in Firenze, che si forma questa
coscienza dell’arte. Il volgare, venuto già a grande perfezione, era parlato e scritto con una proprietà e una grazia, di cui non era esempio in nessuna parte d’Italia. Se i
poeti superficiali dispiacevano a Bologna, i poeti incolti
e rozzi non piacevano a Firenze. A lungo andare non vi
poterono essere tollerati Guittone e Brunetto, e sorgeva
la nuova scuola, la quale, se a Bologna significava scienza, a Firenze significava «arte».
Questo primo svegliarsi di una coscienza artistica è
già notato in Cino. Egli scrive con manifesta intenzione
di far rime polite e leggiadre, e cerca non solo la proprietà, ma anche la venustà del dire. Aveva animo gentile e affettuoso, e orecchio musicale. Se a lui manca l’evidenza e l’efficacia, virtù della forza, non gli fa difetto la
melodia e l’eleganza, con una certa vena di tenerezza. Fu
il precursore del grande suo discepolo, Francesco Petrarca.
Ecco un esempio della sua maniera:
Poichè saziar non posso gli occhi miei
di guardare a Madonna il suo bel viso,
mireròl tanto fiso
ch’io diverrò beato lei guardando.
A guisa di Angel che di sua natura
stando su in altura divien beato sol vedendo Iddio;
così, essendo umana creatura,
guardando la figura
di questa donna, che tiene il cor mio,
potrei beato divenir qui io.
Raccomando agli studiosi la canzone sugli occhi della
sua donna, che ispirò le tre sorelle del Petrarca, il quale
ne imitò anche la fine, che è piena di grazia:
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Or se prendete a noia
lo mio amor, occhi d’amor rubegli,
foste per comun ben stati men begli.
Agli occhi della forte mia nemica
fa’, canzon, che tu dica:
– Poi che veder voi stessi non possete,
vedete in altri almen quel che voi sète. –
E ci ha pure parecchi sonetti, dove Cino in luogo di filosofare e sottilizzare si contenta di rappresentare con
semplicità il suo stato, e sono teneri ed affettuosi. Meno
apparisce dotto, e più si rivela artista.
La coscienza artistica si mostra in Cino nelle qualità
tecniche ed esteriori della forma. La sua principale industria è di sviluppare gli elementi musicali della lingua
e del verso, nè fino a quel tempo la lingua sonò sì dolce
in nessun poeta, rendendo imagine di un bel marmo polito, da cui sia rimossa ogni asprezza e ineguaglianza Ma
qualità più serie e più profonde si rivelano in Guido Cavalcanti. Anche in lui la perfezion tecnica è somma, anzi
in lui è scienza. Innamorato della lingua natia, pose ogni
studio a dirozzarla, e fissarla, e scrisse una gramatica e
un’arte del dire. Egli, nota Filippo Villani, dilettandosi
degli studi rettorici, essa arte in composizioni di rime
volgari elegantemente e artificiosamente tradusse. Di
che si vede quanta impressione dovè fare su’ contemporanei di Guittone e Brunetto Latini tanto e sì nuovo artificio spiegato come scienza e applicato come arte. Così
Guido divenne il capo della nuova scuola, il creatore del
nuovo stile, e oscurò Guido Guinicelli:
Così ha tolto l’uno all’altro Guido
la gloria della lingua.
Ma la gloria della lingua non bastava a Guido, a cui lingua e poesia erano cose accessorie, semplici ornamenti:
sostanza era la filosofia. Perciò aveva a disdegno Virgi-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
lio, parendogli, dice il Boccaccio, «la filosofia, siccome
ella è, da molto più che la poesia». Sottilissimo dialettico, come lo chiama Lorenzo de’ Medici, introduce nella
poesia tutte le finezze rettoriche e scolastiche, e mira a
questo, non solo di dir bene, ma dir cose importanti. I
contemporanei studiarono la sua canzone dell’Amore,
come si fa un trattato filosofico, e ne fecero comenti, come si soleva di Aristotele e di san Tommaso: anche più
tardi il Ficino vi cercava le dottrine di Platone. Così
Guido era tenuto eccellente non solo come artificioso
ed elegante dicitore, ma come sommo filosofo.
Questo voleva Guido, e questo ottenne, questo gli bastò ad acquistare il primo posto fra’ contemporanei. Salutavano in lui lo scienziato e l’artista.
Ma Guido fu dotto più che scienziato. Fu benemerito
della scienza perchè la divulgò, non perchè vi lasciasse
alcuna sua orma propria. E fu artefice più che artista, inteso massimamente alla parte meccanica e tecnica della
forma: vanto non piccolo, ma che tocca la sola superficie
dell’arte.
La gloria di Guido fu là, dov’egli non cercò altro che
un sollievo e uno sfogo dell’animo. Fu là, ch’egli senza
volerlo e saperlo si rivelò artista e poeta. Vi sono uomini
che i contemporanei ed essi medesimi sono incapaci di
apprezzare. Guido era più grande ch’egli stesso e i suoi
contemporanei non sapevano.
Guido è il primo poeta italiano degno di questo nome, perchè è il primo che abbia il senso e l’affetto del
reale. Le vuote generalità de’ trovatori, divenute poi un
contenuto scientifico e rettorico, sono in lui cosa viva,
perchè, quando scrive a diletto e a sfogo, rendono le impressioni e i sentimenti dell’anima. La poesia, che prima
pensava e descriveva, ora narra e rappresenta, non al
modo semplice e rozzo di antichi poeti, ma con quella
grazia e finitezza a cui era già venuta la lingua, maneggiata da Guido con perfetta padronanza. Qui sono due
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forosette, egregiamente caratterizzate, che gli cavano di
bocca il suo segreto d’amore. Là è una pastorella che incontra nel boschetto, e ti abbozza una scena d’amore
colta dal vero. Sono gli stessi concetti de’ trovatori, ma
realizzati, non solo ornati e illeggiadriti al di fuori, ma
trasformati nella loro sostanza, divenuti caratteri, immagini, sentimenti, cioè a dire vita e azione. Senti là dentro
l’anima dello scrittore, ora lieta e serena che si esprime
con una grazia ineffabile, come nelle ballate delle forosette e della pastorella, ora penetrata di una malinconia
che si effonde con dolcezza negli amabili sogni dell’immaginazione e nella tenerezza dell’affetto, come nella
ballata, che scrisse esule a Sarzana, il canto del cigno, il
presentimento della morte. Qui lo scienziato sparisce e
la rettorica è dimenticata. Tutto nasce dal di dentro, naturale, semplice, sobrio, con perfetta misura tra il sentimento e l’espressione. Il poeta non pensa a gradire, a
cercare effetti, a fare impressione con le sottigliezze della dottrina e della rettorica: scrive se stesso, come si sente in un certo stato dell’animo, senz’altra pretensione
che di sfogarsi, di espandersi, segnando la via nella quale Dante fece tanto cammino. I posteri poterono applicare a lui quello che Dante disse di sè:
Io mi son un, che quando
Amor mi spire, noto, e a quel modo
ch’ei detta dentro, vo significando.
Il che non avvenne di Lentino, di Guittone, rimasti al di
qua del «dolce stil nuovo», perchè esagerarono i sentimenti, andarono al di là della natura, per «gradire», piacere a’ lettori.
E qual più a gradire oltre si mette,
non vede più dall’uno all’altro stilo.
Di questo dolce stil nuovo il precursore fu Guinicelli, il
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fabbro fu Cino, il poeta fu Cavalcanti. La nuova scuola
non era altro che una coscienza più chiara dell’arte. La
filosofia per sè sola fu stimata insufficiente, e si richiese
la forma. Guittone d’Arezzo non fu più apprezzato,
quantunque «di filosofia ornatissimo, grave e sentenzioso», come dice Lorenzo de’ Medici, perchè gli mancava
lo stile, «alquanto ruvido e severo, nè di alcun dolce lume di eloquenza acceso». Anche Benvenuto da Imola
chiama nude le sue parole e lo commenda per le gravi
sentenze, ma non per lo stile. Nasceva in Firenze un
nuovo senso, il senso della forma.
A quel tempo fra tante feroci gare politiche la letteratura era nel suo fiore in tutta Toscana e sotto i più diversi aspetti. Dante da Maiano era un’eco de’ trovatori, con
la sua Nina siciliana. Guittone, Brunetto, Orbiciani da
Lucca erano poeti dotti, ma rozzi, come i bolognesi
Onesto e Semprebene. Ma già il culto della forma,
l’amore del bello stile si sente in parecchi poeti. Dino
Frescobaldi, Rustico di Filippo, Guido Novello, Lapo
Gianni, Cecco d’Ascoli sono il corteggio, nel quale
emerge la figura di Guido Cavalcanti.
Ma ben presto al nome di Guido Cavalcanti si accompagnò quello di Dante Alighieri, legati insieme da
un’amicizia che non si ruppe se non per morte. Parvero
le «nuove rime», e fu tale l’impressione ch’ei salì subito
accanto a Cavalcanti. Sembrò che avesse risolto il problema di esprimere le profondità della scienza in bella
forma: ultimo segno a cui si mirava. Perciò ebbe molta
voga la sua canzone:
Donne, che avete intelletto d’amore;
e ancora più l’altra:
Voi che intendendo il terzo ciel movete.
Dante avea la stessa opinione. Il dotto discepolo di Bologna mira poetando a divulgare la scienza, usando mo-
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di piani e aperti alla intelligenza comune. Nella canzone,
dove esorta la donna a dispregiare uomo che «da sè
virtù fatta ha lontana», dice:
Ma perocchè il mio dire util vi sia,
discenderò del tutto
in parte ed in costrutto
più lieve, perchè men grave s’intenda;
chè rado sotto benda
parola oscura giugne allo ’ntelletto;
par che parlar con voi si vuole aperto.
E quando pure è costretto a celare sotto benda i suoi
concetti aggiunge un comento in prosa e dichiara egli
medesimo la sua dottrina. Tale è il comento che fa alla
canzone:
Voi che intendendo il terzo ciel movete;
e parendogli che senza quel comento la canzone presa in
se stessa rimanga fuori dell’intelligenza volgare, finisce
così:
Canzone, io credo che saranno radi
color che tua ragion intendan bene,
tanto lor parli faticosa e forte:
onde se per ventura egli addiviene
che tu dinanzi da persone vadi,
che non ti paian d’essa bene accorte;
allor ti priego che ti riconforte,
dicendo lor, diletta mia novella:
– Ponete mente almen com’io son bella. –
C’era dunque nell’intenzione di Dante di bandire i veri
della scienza ora nella forma diretta del ragionamento,
ora sotto il velo dell’allegoria, ma in modo che la poesia
quando anche non fosse compresa da’ più, avesse un valore in se stessa, fosse bella e dilettasse. Era la teoria della nuova scuola nella sua più alta espressione, una co-
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scienza artistica più chiara e più sviluppata. Il rispetto
della verità scientifica è tale, che Dante si domanda come, essendo Amore non sostanza, ma accidente, possa
egli farlo ridere e parlare, come fosse persona. E adduce
a sua difesa che i rimatori, che fanno versi in volgare,
hanno gli stessi privilegi de’ poeti, nome che dà a’ latini,
i quali, come Virgilio, Ovidio, Lucano, Orazio, diedero
moto e parole alle cose inanimate: il che egli chiama «rimare sotto vesta di figura o di colore rettorico», qualificando rimatori stolti quelli che domandati non sapessero «dinudare le loro parole da cotal vesta». Onde si vede
che Dante e Cavalcanti, ch’egli qui chiama il suo primo
amico, spregiavano e questi rimatori stolti che usavano
rettorica vuota di contenuto, e quelli che ti davano un
contenuto scientifico nudo, senza rettorica. Qui è tutta
la nuova scuola poetica, rimasa per molti secoli l’ultima
parola della critica italiana: ciò che il Tasso chiamò
«condire il vero in molli versi».
Con queste teorie, con queste abitudini della mente,
parecchie canzoni e sonetti sono ragionamenti con lume
di rettorica, concetti coloriti. Di tal natura è la canzone
sulla gentilezza o nobiltà:
Le dolci rime d’amor ch’i’ solìa
e l’altra:
Amor, tu vedi ben che questa donna,
dove sotto colore rettorico di donna amata rappresenta
gli effetti che sul suo animo produce lo studio della filosofia. I fenomeni dell’amore e della natura sono spiegati
scientificamente, più che rappresentati, com’è l’inverno
nella canzone:
Io son venuto al punto della rota,
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e come è l’amore nella canzone:
Amor che muovi tua virtù dal cielo,
e come è la bellezza nella canzone:
Amor ci è nella mente mi ragiona.
Delle canzoni allegoriche e scientifiche la più accessibile
e popolare è quella delle tre donne, Drittura, Larghezza,
Temperanza, germane d’amore, che cacciate dal mondo
vanno mendicando.
Ciascuna par dolente e sbigottita
come persona discacciata e stanca,
cui tutta gente manca,
e cui virtute e nobiltà non vale.
Tempo fu già, nel quale
secondo il lor parlar, furon dilette
Or sono a tutti in ira ed in non cale.
Qui il poeta non ragiona, ma narra e rappresenta. Il concetto scientifico è vinto dalla vivacità della rappresentazione e dalla elevatezza del sentimento. Il colore rettorico non è semplice colorito, ma è la sostanza.
In queste canzoni scientifiche Dante mostra ben altra
forza e vivacità e ricchezza di concetti e di colori che i
due Guidi. Egli fu il suo proprio comentatore, avendo
nella Vita nuova e nel Convito spiegata l’occasione, il
concetto, la forma delle sue poesie. E quanto alla parte
tecnica, all’uso della lingua, del verso e della rima, nel
suo libro De vulgari eloquio mostra che ne intendeva
tutt’i più riposti artifici. I contemporanei trovavano in
queste poesie il perfetto esempio della loro scuola poetica: la maggior dottrina sotto la più leggiadra veste rettorica.
Il mondo lirico di Dante è la stessa materia che s’era
ita finora elaborando, con maggior varietà e con più
chiara coscienza. Il dio di questo mondo è Amore, pri-
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ma con le ammirazioni, i tormenti e le immaginazioni
della giovanezza, poi con un misticismo ed un entusiasmo filosofico. Amore non può operare che ne’ cuori
gentili: perciò gli amanti sono chiamati fini e cortesi.
Gentilezza non nasce da nobiltà o da ricchezza, ma da
virtù. E però le virtù sono suore d’Amore e fanno star
lucente il suo dardo finchè sono onorate in terra. Ma la
virtù è in pochi, e l’amore è perciò «di pochi vivanda».
L’obbietto dell’amore è la bellezza, non il «bello di fuori», le parti nude, ma il «dolce pomo», concesso solo a
chi è amico di virtù. La bellezza non si mostra se non a
chi la intende: amore è chiamato dagli antichi «intendanza», e Dante non dice «sentire amore», ma «avere
intelletto d’amore». Ad appagare l’amore basta il vedere, la contemplazione. Vedere è amore, amore è intendere.
E chi la vede e non se n’innamora
d’amor non averà mai intelletto.
Le intelligenze celesti movono le stelle intendendo:
Voi che intendendo il terzo ciel movete.
Dio move l’universo pensando:
costei pensò chi mosse l’universo.
Nè altro è amore nell’uomo che «nova intelligenza che
lo tira su», lo avvicina alla prima intelligenza. La donna
esemplare della bellezza è «nobile intelletto»:
... O nobile intelletto
oggi fu l’anno che nel ciel partisti.
La donna è perciò il viso della conoscenza, la bella faccia della scienza, che invaghisce l’uomo e sveglia in lui
nova intelligenza lo fa intendere. La donna dunque è la
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scienza essa medesima, è la filosofia nella sua bella apparenza: e questo è la bellezza il dolce pomo consentito a
pochi. Intendere è amore, e amore è operare come s’intende; perciò filosofia è «uso amoroso di sapienza»,
scienza divenuta azione mediante l’amore. La virtù non
è altro che sapienza, vivere secondo i dettati della scienza. Perciò l’amante è chiamato saggio; e la donna è saggia prima di esser bella:
Beltade appare in saggia donna pui
che piace agli occhi...
La beltà non è altro che l’apparenza della saggezza, sì
che piaccia e innamori di sè.
Con questo misticismo filosofico si accordava il misticismo religioso, secondo il quale il corpo è il velo dello
spirito, e la bellezza è la luce della verità, la faccia di
Dio, somma intelligenza, contemplazione degli angioli e
dei santi. Dio, gli angioli, il paradiso rappresentano anche qui la loro parte. Teologia e filosofia si danno la mano.
È la prima volta che questo contenuto esce fuori nella
sua integrità e con così perfetta coscienza. È l’idealismo
di quel tempo, con la sua forma naturale, l’allegoria. Aggiungi l’opera della immaginazione, che dà alle figure
tanta vivacità di colorito ed hai l’ultimo segno di perfezione che si poteva allora desiderare.
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III
LA LIRICA DI DANTE
Fin qui giunge la coscienza di Dante. Se gli domandi più
in là, ti risponde come Raffaello: «Noto, quando Amor
mi spira», ubbidisco all’ispirazione. E appunto, se vogliamo trovar Dante, dobbiamo cercarlo qui, fuori della
sua coscienza, nella spontaneità della sua ispirazione.
Innanzi tutto, Dante ha la serietà e la sincerità dell’ispirazione. Chi legge la Vita nuova, non può mettere in
dubbio la sua sincerità. Ci si vede lo studente di Bologna, pieno il capo di astronomia e di cabala, di filosofia
e di rettorica, di Ovidio e di Virgilio, di poeti e di rimatori; ma tutto questo non è la sostanza del libro, ci entra
come colorito e ne forma il lato grottesco. Sotto l’abito
dello studente ci è un cuore puro e nuovo, tutto aperto
alle impressioni, facile alle adorazioni e alle disperazioni, ed una fervida immaginazione che lo tiene alto da
terra e vagabondo nel regno de’ fantasmi. L’amore per
la bella fanciulla involta di drappo sanguigno, ch’egli
chiama Beatrice, ha tutt’i caratteri di un primo amore
giovanile, nella sua purezza e verginità, più nell’immaginazione che nel cuore. Beatrice è più simile a sogno, a
fantasma, a ideale celeste, che a realtà distinta e che produca effetti propri. Uno sguardo, un saluto è tutta la storia di questo amore. Beatrice morì angiolo, prima che
fosse donna, e l’amore non ebbe tempo di divenire una
passione, come si direbbe oggi, rimase un sogno ed un
sospiro. Appunto perchè Beatrice ha così poca realtà e
personalità, esiste più nella mente di Dante che fuori di
quella, ed ivi coesiste e si confonde con l’ideale del trovatore, l’ideale del filosofo e del cristiano: mescolanza
fatta con perfetta buona fede, e perciò grottesca certo,
ma non falsa e non convenzionale. Queste che presso gli
altri sono astrattezze scolastiche e rettoriche, qui sono
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cacciate nel fondo del quadro, sono non il quadro, ma
contorni e accessorii. Il quadro è Beatrice, non così reale
che tiri e chiuda in sè l’amante, ma reale tanto che opera
con efficacia sul suo cuore e sulla sua immaginazione.
Non ci è proprio l’amante, ma ci è il poeta, che per questo o quello incidente anche minimo del suo amore si
sente mosso a scrivere se stesso in un sonetto o in una
canzone. Quando il suo animo è tranquillo, fa capolino
il dottore, il retore e il rimatore; ma quando il suo animo
è veracemente commosso, Dante gitta via il suo berretto
di dottore e le sue regole rettoriche e le sue reminiscenze
poetiche, e ubbidisce a l’ispirazione. Allora è Beatrice,
solo Beatrice, che occupa la sua mente, e le sue impressioni, appunto perchè immediate e sincere, sono quasi
pure di ogni mescolanza. Il suo amore si rivela schietto
come lo sente, più adorazione e ammirazione che appassionato amore di donna. Tale è il sonetto
Tanto gentile e tanto onesta pare.
E tale è la ballata, ove con la grazia e l’ingenuità di una
fanciulla scesa pur ora di cielo così parla Beatrice:
Io mi son pergoletta bella e nova,
e son venuta per mostrarmi a vui
dalle bellezze e loco, dond’io fui.
Io fui del cielo e tornerovvi ancora,
per dar della mia luce altrui diletto;
e chi mi vede e non se ne innamora,
d’amor non averà mai intelletto...
Ciascuna stella negli occhi mi piove
della sua luce e della sua virtute:
le mie bellezze sono al mondo nuove,
perocchè di lassù mi son venute.
Questo non è allegoria, e non è concetto scientifico; o
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per dir meglio, ci è l’allegoria e ci è il concetto scientifico, ma profondato ed obbliato in questa creatura, perfettamente realizzato, conforme a quel primo ideale della donna che apparisce all’immaginazione giovanile.
Se nell’espressione di questa ingenua ammirazione
trovi qualche reminiscenza di repertorio e qualche
preoccupazione scientifica, senti un accento di verità
puro ed autonomo nell’espressione del dolore, la vera
musa di questa lirica. Perchè infine questa breve storia
d’amore ha rari intervalli di gioia serena e contemplativa; la morte del padre di Beatrice, il suo dolore, il presentimento della sua morte e la sua morte sono la sostanza del quadro, il motivo tragico della poesia. Finchè
Beatrice vive, è un secreto del cuore che il poeta s’industria con ogni più sottile arte di custodire; la storia è poco interessante, intessuta di artificiose e fredde dissimulazioni: ma quando quell’ideale della giovanezza
minaccia di scomparire, quando scompare, al poeta
manca con quello il fondamento della sua vita, e si sente
solo e si sente morire insieme con quello. Ne nasce una
situazione nuova nella storia della nostra poesia: l’amore
appena nato, simile ancora a’ primi fuggevoli sogni della
giovanezza, che acquista la sua realtà presso alla tomba
ed oltre la tomba. L’amore si rivela nella morte. Là perde quell’aria fattizia e convenzionale, che gli veniva da’
trovatori e dalla scienza. Là non è più concetto, nè allegoria, ma è sentimento e fantasia. Quell’amore che in vita della donna non si è potuto ancora realizzare, eccolo
qui nella sua schietta e pura espressione, ora che Beatrice muore. A questa situazione si rannoda la parte più
eletta e poetica di questa lirica. Poi vengono sentimenti
più temperati: il poeta si consola cantando la loda della
morta; Beatrice, ita nel cielo, diviene la Verità, la cara
immagine sotto la quale il poeta inviluppa le sue speculazioni, la bella faccia della Sapienza. Non hai più la Vita
nuova, hai il Convito. L’amore non è più un sentimento
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individuale, ma è il principio della vita divina e umana.
Beatrice nella sua gloriosa trasfigurazione diviene un
simbolo, il dolce nome che il poeta dà al suo nuovo
amore, alla Filosofia.
Ma la filosofia non è in Dante astratta scienza: è Sapienza, cioè a dire pratica della vita. Con che orgoglio si professa amico della filosofia! e vuol dire amico di virtù,
che ti fa spregiare ricchezze e onori e gentilezza di sangue, e ti dà la vera nobiltà, che ti viene da te e non dagli
altri. Intendere è per lui il principio del fare; e la forza
che dà attività all’intelletto ed efficacia alla volontà è
l’amore. In questa triade è l’unità della vita: l’uno non
può star senza l’altro. Or tutto questo in Dante non è
mera speculazione, nè vanità scientifica; ma è vero amore, ma è un sentimento morale così profondo ed efficace, come è la fede ne’ credenti. La filosofia investe tutto
l’uomo, e si addentra in tutti gli aspetti della vita. Questa serietà e sincerità di sentimento fa penetrare fra tante
sottili e scolastiche speculazioni una elevatezza morale,
tanto più poetica, quanto meno espressa, ma che si sente
nel tono, nel colorito, nello stile. Tale è la sublime risposta di Amore alle sorelle esuli, e quel subito ritorno del
poeta in sè medesimo:
L’esilio che m’è dato onor mi tegno;
e questo sentimento rende tollerabile tanta pedanteria,
quanta è nella canzone sulla vera gentilezza. La quale
elevatezza morale non è disgiunta in lui da un certo orgoglio direi aristocratico del sentirsi solo con pochi privilegiato da Dio alla sapienza: così alto ha collocato
l’ideale della scienza e della virtù:
... elli son quasi dèi
que’ ch’han tal grazia fuor di tutt’i rei;
chè solo Iddio all’anima la dona.
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Sentimento di soddisfazione che si volge in tristezza e
talora in fieri accenti di sdegno contro la moltitudine degli uomini, «bestie che somigliano uomo. E dove non è
virtù, non è amore, e non dovrebbe esser bellezza: onde
esorta le donne a partirla da loro:
Chè la beltà ch’Amore in voi consente
a virtù solamente
formata fu dal suo decreto antico
contra lo qual fallate.
Io dico a voi che siete innamorate,
che se beltate a voi
fu data e virtù a noi,
ed a costui di due potere un fare,
voi non dovreste amare,
ma coprir quanto di beltà v’è dato
poichè non è virtù, ch’era suo segno.
Lasso! A che dicer vegno?
Dico che bel disdegno
sarebbe in donna di ragion lodato
partir da sè beltà per suo comiato.
Qui sviluppato in forma scolastica è il solito concetto
dell’amore, che fa uno di due, unisce bellezza e virtù.
Ma questo concetto è per Dante cosa vivente, è l’anima
del mondo, l’unità della vita. E poichè vede bellezza, e
non trova virtù, sente nella vita una scissura, una discordia, che lo move a sdegno. Indi quel movimento d’immaginazione così nuovo e originale, quel desiderare nella donna e sperar poco un atto di «bel disdegno», per il
quale dica: – Poichè nell’uomo non è virtù, cesso di esser bella, cesso di amare. – Dante si crede obbligato ad
argomentare, ad esporre il suo concetto in forma dottrinale, e qui è il suo torto, qui è la forma che lo certifica di
quel tempo; ma qui il concetto scientifico e la sua esposizione scolastica è un accessorio; la sostanza è il sentimento che sveglia nel poeta la contraddizione tra quel
concetto e la realtà: «Lasso! a che dicer vegno?». Il poe-
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ta sente la vanità de’ suoi desidèri e che il mondo andrà
sempre a quel modo.
Come l’amore si afferma nella morte, così la filosofia
si afferma nella sua morte, cioè nella sua contraddizione
con la vita. Qui trovi un sentimento chiaro e vivo
dell’unità della vita, fondata nella concordia dell’intendere e dell’atto o, come si direbbe oggi, dell’ideale e del
reale, e insieme il dolore della scissura, che mette il poeta in uno stato di ribellione contro l’uomo «caduto in
servo di signore», già signore di sè, ora servo delle sue
inclinazioni animali. Ma il sentimento di questa contraddizione non uccide l’entusiasmo e la fede, come ne’ poeti moderni: l’anima del poeta è ancora giovane, piena di
una fede robusta, che il disinganno nobilita e fortifica; e
però il dolore del disaccordo non lo conduce alla negazione della filosofia, anzi alla sua glorificazione, ad un
più ardente amore della derelitta, fiero di possederla e
amarla egli solo con pochi, e di sentirsi perciò quasi Dio
tra la gregge degli uomini.
Adunque, il primo carattere di questo mondo lirico è
la sua verità psicologica. Se c’è negli accessorii alcunche
di fattizio e di convenzionale, il fondo è vero, è la sincera espressione di quello che si passa nell’animo del poeta. Ti senti innanzi ad un uomo che considera la vita seriamente. La vita è la filosofia, la verità realizzata; e la
poesia è la voce e la faccia della verità. Amico della filosofia, con orgoglio non minore si chiama poeta, il banditore del vero. Filosofo e poeta, si sente come investito di
una missione, di una specie di apostolato laicale, e parla
dal tripode alla moltitudine, con l’autorità e la sicurezza
di chi possiede la verità.
Ma il sentimento che move questo mondo lirico così
serio e sincero non rimane puramente individuale o subiettivo; anzi la parte personale e contingente appena si
mostra: esso è l’accento lirico dell’umanità a quel tempo, la sua forma di essere, di credere, di sentire e di
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esprimersi. Quell’angeletta scesa dal cielo, che non
giunge ad esser donna, breve apparizione, che ritorna al
cielo in bianca nuvoletta, seguita dagli angioli che le
cantano «Osanna», ma rimasa in terra, come luce della
verità, della quale l’amante si fa apostolo, è tutto il romanzo religioso e filosofico di quell’età: è la vita che ha
la sua verità nell’altro mondo e che qui non è che Beatrice, fenomeno, apparenza, velo della eterna verità. Se la
terra è un luogo di passaggio e di prova, la poesia è al di
là della terra, nel regno della verità. Beatrice comincia a
vivere quando muore.
Un mondo così mistico e spiritualista nel concetto,
così dottrinale nella forma, se può essere allegoricamente rappresentato dalla scultura, se trova nella pittura e
nella musica le sue movenze, le sue sfumature, il suo indefinito, è difficilissimo a rappresentare con la parola.
Perchè la parola è analisi, distinzione, precisione, e non
può rappresentare che un contenuto ben determinato, e
ne’ suoi momenti successivi, più che nella sua unità.
Analizzate questo mondo, e vi svanisce dinanzi, come
realtà o vita: l’analisi vi porta irresistibilmente al discorso, al ragionamento, alla forma dottrinale, che è la negazione dell’arte. Non bisogna dimenticare che la vita interna di questo mondo è la scienza, come concetto e
come forma, la pura scienza, non penetrata ancora nella
vita e divenuta fatto. È vero che per Dante la scienza dee
essere non astratto pensiero, ma realtà. Se non che il male è appunto in questo «dee essere». Perchè, prendendo
a fondamento non quello che è, ma quello che dee essere, la sua poesia è ragionamento, esortazione, non rappresentazione, se non in forma allegorica, che aggiunge
una nuova difficoltà ad un contenuto così in se stesso
astruso e scientifico.
I contemporanei sentirono la difficoltà e credettero
vincerla con la rettorica, ornando quei concetti di vaghi
fiori. Anche Dante credeva rendere poetica la filosofia,
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dandole una bella faccia. Certo, questo era un progresso; ma siamo ancora al limitare dell’arte, nel regno
dell’immaginazione. Guinicelli, Cino, Cavalcanti non
possono attirare la nostra attenzione, e neppur Dante,
ancorchè dotato di una immaginazione così potente.
Anzi egli riesce meno di questi suoi predecessori nell’arte dell’ornare e del colorire, perchè quelli vi pongono il
massimo studio, non essendo il mondo da essi rappresentato che un gioco d’immaginazione, dove a Dante
quel mondo è lui stesso, parte del suo essere, e che ha la
sua importanza in se stesso: ond’egli è sobrio, severo,
schivo del «gradire», e spesso nudo sino alla rozzezza. E
non corre agli ornamenti, come mezzo rettorico e a fine
di ornare e di lisciare, ma per rendere palpabile ed evidente il suo concetto.
Ma Dante vince in gran parte la difficoltà appunto
per questo, che quel mondo è vita della sua vita e anima
della sua anima. Esso opera non pure sulla sua mente,
ma su tutto il suo essere. Questa sua fede assoluta in
quel mondo non è però sufficiente a farne un poeta. La
fede è la base, il sottinteso, la condizione preliminare e
necessaria della poesia, ma non è la poesia. Il poeta dee
essere un credente, ma non ogni credente è poeta; può
essere un santo, un apostolo, un filosofo. Dante non fu il
santo, nè il filosofo del suo mondo: fu il poeta. La fede
svegliò le mirabili facoltà poetiche che avea sortito da
natura.
Dante ha in supremo grado la principale facoltà di un
poeta, la fantasia, che non si vuol confondere con l’immaginazione, facoltà molto inferiore. L’immaginazione
ti dà l’ornato e il colore, liscia la superficie: il suo maggiore sforzo è di offrirti un simulacro di vita nell’allegoria e nella personificazione. La fantasia è facoltà creatrice, intuitiva e spontanea, è la vera musa, il «deus in
nobis», che possiede il secreto della vita, e te la coglie a
volo anche nelle sue più fuggevoli apparizioni, e te ne dà
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l’impressione e il sentimento. L’immaginazione è plastica; ti dà il disegno, ti dà la faccia: «pulcra species, sed cerebrum non habet»: l’immagine è il fine ultimo in cui si
adagia. La fantasia lavora al di dentro, e non ti coglie il
di fuori, se non come espressione e parola della vita interiore. L’immaginazione è analisi, e più si sforza di ornare, di disegnare, di colorire, più le fugge il sostanziale,
quel tutto insieme, in cui è la vita. La fantasia è sintesi:
mira all’essenziale, e di un tratto solo ti suscita le impressioni e i sentimenti di persona viva e te ne porge
l’immagine. La creatura dell’immaginazione è l’immagine finita in se stessa e opaca; la creatura della fantasia è il
«fantasma», figura abbozzata e trasparente, che si compie nel tuo spirito. L’immaginazione ha molto del meccanico, è comune alla poesia e alla prosa, a’ sommi e a’
mediocri; la fantasia è essenzialmente organica, ed è privilegio di pochissimi che son detti Poeti.
Il mondo lirico di Dante, o piuttosto del suo secolo,
così mistico e spirituale, resiste a tutti gli sforzi dell’immaginazione. In balìa di questa esso non è che un mondo rettorico e artificiale, di bella apparenza, ma freddo e
astratto nel fondo. Tale è il mondo di Guinicelli, di Cavalcanti e di Cino. L’organo naturale di questo mondo è
la fantasia, e la sua forma è il fantasma. Il suo primo e
solo poeta è Dante, perchè Dante ha l’istrumento atto a
generarlo, è la prima fantasia del mondo moderno.
Dante non accarezza l’immagine, non vi s’indugia sopra, se non quando essa è lume che come paragone dia
una faccia al suo concetto. Sia d’esempio la sua canzone
all’Amore:
Amor che movi tua virtù dal cielo
come ’l sol lo splendore,
chè là s’apprende più lo suo valore,
dove più nobiltà suo raggio trova...
Ed hammi in foco acceso,
come acqua per chiarezza foco accende...
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
È sua beltà del tuo valor conforto,
in quanto giudicar si puote effetto
sopra degno suggetto,
in guisa che al sol raggio di foco;
lo qual non dà a lui, nè to’ virtute;
ma fallo in alto loco
nell’effetto parer di più salute.
Queste immagini non sono il concetto esso medesimo,
ma paragoni atti a lumeggiarlo. È la maniera del Guinicelli. Costui se ne pavoneggia, e vi spiega un lusso e una
pompa che passa il segno e affoga il concetto nell’immagine. Dante è più severo, perchè il concetto non gli è indifferente e non te ne distrae, anzi per troppo amore a
quello spesso te lo porge nodo e irsuto com’è da natura.
Ma egli penetra in questo mondo di concetti e ne fa il
suo romanzo, la sua storia intima. Il concetto allora, non
che abbia bisogno di essere illuminato da una immagine
tolta dal di fuori, è trasformato, è esso medesimo l’immagine. In quest’opera di trasformazione si rivela la fantasia. Pigmalione non è più una statua di marmo; ma riscaldato dall’amorosa fantasia diviene persona. La
donna astratta e anonima del trovatore, divenuta innanzi alla filosofia un’idea platonica, l’esemplare di ogni
bellezza e di ogni virtù, eccola qui persona viva: è Beatrice, quell’angeletta scesa dal cielo, che annunzia alle
genti il suo arrivo e racconta la sua bellezza:
Ciascuna stella negli occhi mi piove
della sua luce e della sua virtute.
Ma questo lavoro di trasformazione non va così innanzi
che il concetto sia come seppellito e dimenticato
nell’immagine (miracolo dell’arte greca), nè questo avviene per manco di calore e di fantasia. Dante è così immedesimato con quel suo mondo intellettuale e mistico,
che la sua fantasia non può oltrepassarlo, non può materializzarlo. In questa dissonanza può capitare l’artista a
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
cui il contenuto sia indifferente e che intenda alla perfezione del modello, non il poeta che ha un culto per il
suo mondo, e vi si chiude, e ne fa la sua regola e il suo limite. Dante non può paganizzare quel mondo dello spirito, appunto perchè esso è il suo spirito, il suo mondo,
il suo modo di sentire e di concepire. La sua immagine è
ricordevole e trascendente, e appena abbozzata è già
scorporata, fatta impressione e sentimento. Non descrive: non può fissare e determinare l’immagine, come
quella a cui l’intelletto non giunge. Gli sta innanzi un
non so che, luce intellettuale, superiore all’espressione,
visibile non in se stessa ma nelle sue impressioni. Perciò
esprime non quello che ella è, ma quello che pare. Ciò
che è più chiaro innanzi alla sua immaginazione, non è il
corpo, ma lo spirito, non è l’immagine, ma il suo «parere», l’impressione:
Quel ch’ella par, quando un poco sorride,
non si può dicer, nè tenere a mente:
sì è novo miracolo e gentile.
... .....
Ed avea seco umiltà sì verace,
che parea che dicesse: – Io sono in pace. –
E par che dalla sua labbia si mova
... .....
uno spirto soave e pien d’amore,
che va dicendo all’anima: – Sospira. –
Questi ultimi tre versi sono la chiusa mirabile di un sonetto molto lodato, dove il poeta vuol descrivere Beatrice, e non fa che esprimere impressioni. Beatrice non la
vedi mai. Ella è come Dio, nel santuario. Non la vedi,
ma senti la sua presenza in quel mondo tutto pieno di
lei. Ella piange la morte del padre. Lo sguardo del poeta
non è là. Tu vedi lei nella faccia sfigurata del poeta e nel
pianto delle donne che gli sono intorno, che la udirono,
e non osarono di guardarla:
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che qual l’avesse voluta mirare,
saria dinanzi a lei caduta morta.
Beatrice saluta, e
... . ogni lingua divien tremando muta
e gli occhi non l’ardiscon di guardare.
Di questa giovinetta, inaccessibile allo sguardo, non descritta, non rappresentata, di cui non hai nessuna parola
e nessun atto, non restano che due immagini: del nascere e del morire, l’angeletta scesa di cielo, che torna al
cielo bianca nuvoletta. Dante non vede lei morire. La
vede in sogno, e già morta, e quando le donne la coprian
di un velo. Ma se della morte non ci è l’immagine, ce n’è
il vivo sentimento:
... Morte, assai dolce ti tegno:
tu dèi omai esser cosa gentile,
poi che tu se’ nella mia donna stata,
e dèi aver pietate e non disdegno.
Vedi, ch’ è sì desideroso vegno
d’esser de’ tuoi ch’io ti somiglio in fede.
Vieni, chè ’l cor ti chiede.
L’universo muore con Beatrice:
Ed esser mi parea non so in qual loco,
e veder donne andar per via disciolte,
qual lagrimando, e qual traendo guai,
che di tristizia saettavan foco.
Poi mi parve vedere appoco appoco
turbar lo sole ed apparir la stella,
e pianger egli ed ella;
cader gli augelli volando per l’äre,
e la terra tremare:
e uom m’apparve scolorito e fioco,
dicendomi: – Che fai? non sai novella?
Morta è la donna tua ch’era sì bella.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
«Sì bella! » Questa è l’immagine. Gli basta chiamarla
bella, chiamarla Beatrice. Incontra per via peregrini, essi
soli indifferenti in tanto dolore:
Chè non piangete, quando voi passate
per lo suo mezzo la città dolente?
Se voi restate per volere udire,
certo lo core de’ sospir mi dice
che lagrimando ne uscirete pui.
Ella ha perduta la sua Beatrice;
e le parole ch’uom di lei può dire,
hanno virtù di far piangere altrui.
La vita e la morte di Beatrice non è in lei, ma negli altri,
in quello che fa sentire. L’immagine è immediatamente
trasformata in sentimento. E questa immagine spiritualizzata è quella mezza realtà che si chiama il fantasma,
esistente più nella immaginazione del lettore che nella
espressione del poeta. Ciascuno si fa una Beatrice a sua
maniera e secondo le forze del suo spirito. Siamo nel regno musicale dell’indefinito. Beatrice è un rêve, un sogno, una visione. La stessa sua morte è un sogno, o, come dice Dante, una fantasia, accompagnata di
particolari patetici e drammatici, perchè il poeta è vittima de’ suoi fantasmi, e vive entro a quel mondo e ne
sente e riflette tutte le impressioni. Beatrice muore, perchè «esta vita noiosa»
non era degna di sì gentil cosa;
e tornata gloriosa nel cielo, diviene «spiritual bellezza
grande» che spande per lo cielo luce d’amore e fa la maraviglia degli angioli. Questa bellezza spirituale, o, come
dice Dante altrove, «luce intellettual, piena d’amore», è
il mondo lirico realizzato nell’altra vita, dove il fantasma
sparisce e la verità ti si porge nel suo splendore intellet-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
tuale, pura intelligenza, bellezza spirituale, scorporata.
Il fantasma, quella mezza realtà a contorni vaghi e indecisi, più visibile nelle impressioni e ne’ sentimenti che
nelle immagini, non era che il presentimento, il velo, la
forma preparatoria di questo regno del puro spirito; era
l’ombra dello spirito. Ora la luce intellettuale dissipa
ogni ombra: non hai niente più d’indeciso, niente più di
corporeo: sei nel regno della filosofia, dove tutto è precisione e dogmatismo, tutto è posto con chiarezza, e discorso a modo degli scolastici. E poichè la filosofia non
è potuta divenire virtù, poichè in terra essa è proscritta,
rimane una realtà puramente scientifica e dottrinale.
L’impressione ultima è che la terra è il regno delle ombre e de’ fantasmi, la selva dell’ignoranza e del vizio, la
tragedia che ha per sua inevitabile fine la morte e il dolore, e che la realtà, l’eterna e Divina Commedia, è
nell’altro mondo.
Nè prima, nè poi fu immaginato un mondo lirico così
vasto nel suo ordito, così profondo nella sua concezione,
così coerente nelle sue parti, così armonico nelle sue forme, così personale e a un tempo così umano. Esso è l’accento lirico del medio evo colto nelle sue astrazioni e
nelle sue visioni, la voce dell’umanità a quel tempo. Il
mistero di questo mondo religioso-filosofico è la Morte
«gentile», come passaggio dall’ombra alla luce, dal fantasma alla realtà, dalla tragedia alla commedia, o, come
dice Dante, alla pace. La morte è il principio della vita, è
la trasfigurazione. Perciò il vero centro di questa lirica,
la sua vera voce poetica è il sogno della morte di Beatrice, là dove sono in presenza questa vita e l’altra, e mentre il sole piange e la terra trema, gli angioli cantano
«Osanna», e Beatrice par che dica: – Io sono in pace –.
Ci è la terra co’ suoi dolori e il cielo con le sue estasi, il
mondo lirico nel momento misterioso della sua unità.
Non credo che la lirica del medio evo abbia prodotto
niente di simile a questo sogno di Dante, di una rara
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
perfezione per chiarezza d’intuizione, per fusione di tinte, per profondità di sentimento, per correzione di condotta e di disegno, per semplicità e verità di espressione.
Ma se questo mondo logicamente è uno e concorde,
esteticamente è scisso, perchè non è insieme terra e cielo, ma è ora l’uno, ora l’altro, imperfetti ambidue. Il fantasma è spesso simile più ad un’allegoria che ad una
realtà, ed è stazionario, senza successione e senza sviluppo, senza storia. La realtà è pura scienza, in forma scolastica. Si può dire che quando in questo mondo comincia
la realtà, allora appunto muore la poesia, s’inaridisce la
fantasia e il sentimento. È un difetto organico di questo
mondo, che resiste a tutti gli sforzi dell’arte, resiste a
Dante.
D’altra parte, Dante vi si mostra più poeta che artista.
Quel mondo è per lui cosa troppo seria, perchè possa
contemplarlo col sereno istinto dell’arte. Poco a lui importa che la superficie sia scabra, purchè ci sia sotto
qualche cosa che si mova. Perciò è sempre evidente,
spesso arido e rozzo. L’Italia ha già il suo poeta; non ha
ancora il suo artista.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
IV
LA PROSA
Se i rimatori o dicitori in rima aiutarono molto alla formazione del volgare, non minore opera vi diedero i bei
favellatori, o favoleggiatori. «Favella» viene da «fabella», favoletta, e perciò le lingue moderne furon dette
«favelle», lingue de’ favoleggiatori. Costoro nelle corti e
ne’ castelli raccontavano novelle, come i rimatori poetavano d’Amore. Così gl’inizi della nostra lingua furono
versi d’amore e prose da romanzo.
Come i versi, così le prose aveano già tutto un repertorio
venuto dal di fuori. I rimatori attingevano nel codice
d’Amore; i novellatori o favellatori attingevano ne’ romanzi della Tavola rotonda o di Carlomagno. Il cavaliere errante era il tipo convenzionale degli uni e degli altri.
Questa letteratura non produsse altro che traduzioni
come sono i Conti di antichi cavalieri, la Tavola rotonda
e i Reali di Francia: Tristano, Isotta, Lancillotto, il re
Meliadus, il profeta Merlino, Carlomagno, Orlando erano gli eroi dell’immaginazione popolare. Oggi ancora i
cantastorie napoletani raccontano ad una plebe avida di
fatti maravigliosi le geste di Orlando e di Rinaldo. Anche la storia romana prese questa forma. Un codice antico ha per titolo: Lucano tradotto in prosa, ed è la versione del Giulio Cesare, romanzo in versi rimati di Jacques
de Forest. La guerra tra Cesare e Pompeo è narrata con
colori e particolari tolti alla vita cavalleresca. Cicerone,
«mastro di rettorica» e «buono chierico», così comincia
una sua aringa a Pompeo: «Li re e conti e baroni e l’altro
popolo ti richieggono e pregano che tu non metta la cosa a indugio». E non è maraviglia che anche nelle cronache penetri questa vita cavalleresca. Si leggono non sen-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
za diletto i Diurnali, o come oggi si direbbe, giornali di
Matteo Spinelli, la più antica cronaca italiana, non solo
per la semplicità e naturalezza del racconto in un dialetto assai prossimo al volgare, ma per la vaghezza de’ fattarelli, che pare un favellatore e non uno storico. Di
maggior mole è la Storia di Firenze di Ricordano Malespini, che dagli inizi della città si stende sino al 1282.
Quando narra fatti contemporanei, è testimonio veridico ed esatto, nè la sua fede guelfa lo induce ad alterare i
fatti. Ma quando esce da’ suoi tempi, ti trovi nell’infanzia della coltura. Anacronismi ed errori geografici sono
accoppiati con la più grossolana credulità nelle favole
più assurde, improntate di tutto il maraviglioso de’ romanzi cavallereschi. Dice che la chiesa di san Pietro fu
fondata a’ tempi di Ottaviano, quando san Pietro e Cristo stesso non erano ancora nati; che la mattina di Pentecoste fu celebrata la messa nella chiesa della canonica
di Fiesole al tempo di Catilina; che il tempio di san Giovanni in Firenze fu fondato alla morte di Cristo; che Pisa
viene da «pisare» o «pesare», Lucca da «luce», e Pistoia
da «pistolenzia»; narra gli amori di Catilina con la regina Belisea, moglie del re Fiorino, e le avventure di Teverina, figlia di Belisea, e pare una pagina tolta a qualche
romanzo allora in voga.
In queste versioni e cronache la lingua è ancor rozza e
incerta, desinenze goffe o dure, sgrammaticature frequenti, nessun indizio di periodo, nessun colorito: non
ci è ancora l’«io», la personalità dello scrittore.
Come la poesia, così la prosa cavalleresca poco attecchì in Italia. Non solo non ci fu nessun romanzo originale, ma neppure alcuna imitazione. Tutto quel maraviglioso è riprodotto con quella stessa aridità e
indifferenza, che senti nel Malespini, anche quando narra fatti commoventissimi, come la morte di Manfredi, o
di Bondelmonte. Come l’uomo inculto parla assai meglio che non scrive, è a presumere che i novellatori rac-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
contassero le loro favolette con una vivacità d’immaginazione e di affetto, che non trovi ne’ racconti e nelle
cronache. Ci è una raccolta di novelle, detta il Novellino,
che sembrano schizzi e appunti, anzi che vere narrazioni, simili a quegli argomenti che si danno a’ giovinetti
per esercizio di scrivere. Il libro fu detto «fiore del parlar gentile»; e veramente vi è tanta grazia e proprietà di
dettato che stenti a crederlo di quel secolo, e sembrano
piuttosto racconti rozzi e in voga raccolti e ripuliti più
tardi. Ma se la lingua è assai più schietta e moderna che
non è ne’ Conti di antichi cavalieri e ne’ romanzi di quel
tempo, è in tutti la stessa aridità. Ci è il fatto ne’ suoi
punti essenziali, spogliato di tutte le circostanze e i particolari che gli danno colore, e senza le impressioni e i
sentimenti che gli danno interesse. Pure, quando il fatto
è semplice e breve, e non richiede arte, basta a conseguire l’effetto quella naturalezza e quel candore pieno di
verità che è nel racconto. Eccone un esempio:
«Leggesi del re Currado, padre di Corradino, che quando
era garzone, si avea in compagnia dodici garzoni di sua etade.
Quando lo re Currado fallava, li maestri che gli eran dati a
guardia, non batteano lui, ma batteano di questi garzoni suoi
compagni per lui. E quei dicea: – Perchè non battete me, chè
mia è la colpa? – Diceano li maestri: – Perchè tu sei nostro signore. Ma noi battiamo costoro per te: onde assai ti dee dolere,
se tu hai gentil cuore, che altri porti pena delle tue colpe. – E
perciò si dice che lo re Currado si guardava molto di fallire per
la pietà di coloro.»
Se il romanzo e la novella non giunse ad esser popolare tra noi, e non divenne un lavoro d’arte, la ragione è
che una materia tanto poetica si mostrò quando lingua e
arte erano ancora nell’infanzia, e rimasa fuori della vita e
dei costumi riuscì un frivolo passatempo, come fu della
poesia cavalleresca. Trattata da illetterati, questa materia
non potè svilupparsi e formarsi, sopravvenuto in breve
tempo il risorgimento de’ classici e il rifiorire delle
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
scienze, che trasse a sè l’animo delle classi colte. Quantunque «chierico» significasse ancora uomo dotto, e da’
pergami e dalle cattedre si parlasse ancora latino, ed in
latino si scrivessero le opere scientifiche, già il laicato
usciva dalle università vigoroso ed istrutto, con la giovanile confidenza nella sua dottrina e nella sua forza. Se il
chierico tendeva a restringere in pochi la dottrina e farne un privilegio della sua milizia, lo spirito laicale tendeva a diffonderla, a volgarizzarla, a farla patrimonio comune. La libertà municipale, aprendo la vita pubblica a
tutte le classi, costituiva in modo stabile un laicato colto
e operoso, a cui non bastava più il latino, e che, formato
nelle scuole, superbo della sua scienza, in quotidiana comunione con le altre classi, aveva già un complesso
d’idee comuni, che costituivano la base della coltura.
Erano nuove forze che entravano in azione e davano un
indirizzo proprio alla vita italiana. A quella gente quei
romanzi e quei racconti doveano sembrare trastullo di
oziosi, spasso di plebe. Le idee religiose, così come venivano bandite dal pergamo, non doveano aver molta grazia a’ loro occhi; quella semplicità e rozzezza di esposizione dovea poco gradire a quegli uomini, che tutto
codificavano e sillogizzavano. Certo non fu perciò estinta la razza de’ novellatori e de’ predicatori; ma lo spirito
della classe colta se ne allontanò, e i Conti de’ cavalieri e
le Vite de’ santi rimasero occupazione di uomini semplici e inculti, senza eco e senza sviluppo. La società mirava
a divulgare la scienza, a diffondere le utili cognizioni, a
far sua tutta la cultura passata, profana e sacra. I suoi
eroi furono Virgilio, Ovidio, Livio, Cicerone, Aristotile,
Platone, Galeno, Giustiniano, Boezio, santo Agostino e
san Tommaso. Il volgare divenne l’istrumento naturale
di questa coltura. I poeti bandivano la scienza in verso; i
prosatori traslatavano dal latino gli scrittori classici, i
moralisti e i filosofi. Era un movimento di erudizione e
di assimilazione dell’antichità, che durò parecchi secoli,
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
e che ebbe una grande azione sulla nostra letteratura. La
materia, a cui più volentieri si volgevano i traduttori, era
l’etica e la rettorica, l’arte del ben fare e l’arte del ben dire. Una delle più antiche versioni è il Libro di Cato o
Volgarizzamento del Libro de’ costumi, opera scritta in
distici latini e divisa in quattro libri. L’opera ebbe tanta
voga, che se ne fecero tre versioni, ed è spesso citata dagli scrittori. Nè è maraviglia, perchè ivi la morale è nella
sua forma più popolana, essendo ciascuna regola del
ben vivere chiusa in un distico, a guisa di motto o proverbio o sentenza, facile a tenere in memoria. Ecco un
esempio:
Virtutem primam esse puto, compescere linguam:
proximus ille Deo est Qui scit ratione tacere.
Ed è tradotto egregiamente così:
Costringere la lingua credo che sia la prima vertude:
quelli è prossimo di Dio, che sa tacere a ragione.
Esercizio utilissimo a’ giovani sarebbe il raffronto delle
tre versioni, che ti mostra la lingua ne’ diversi stati della
sua formazione. La terza versione, pubblicata dal Manni, ha per compagna l’Etica di Aristotile e la Rettorica di
Tullio. Questa Rettorica di Tullio è il Fiore di rettorica,
attribuito a frate Guidotto da Bologna, e da altri con più
verisimiglianza a Bono Giamboni, e che comincia così:
«Qui comincia la Rettorica nuova di Tullio, traslatata da
grammatica in volgare per frate Guidotto da Bologna».
Che importanza avesse la rettorica, e quali miracoli potea produrre, si vede da queste parole del traduttore:
«Fu uno nobile e vertudioso uomo, cittadino nato di Capova del regno di Puglia, il quale era fatto abitante della nobile
città di Roma, che avea nome Marco Tullio Cicerone, lo quale
fu maestro e trovatore della grande scienzia di rettorica, la quale avanza tutte le altre scienzie per la bisogna di tutto giorno
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
parlare nelle valenti cose, siccome in far leggi e piati civili e
cherminali, e nelle cose cittadine, siccome in fare battaglie, ed
ordinare schiere, e confortare cavalieri nelle vicende degl’imperii, regni e principati, e governare popoli e regni e cittadi e
ville, e strane e diverse genti, come conversano nel gran cerchio del mappamondo della terra.»
Il libro è dedicato a re Manfredi, il quale vi potrà avere «sufficiente e adorno ammaestramento a dire in piuvico e in privato». Accanto a Cicerone comparisce il
grande poeta Virgilio, «il quale Virgilio si trasse tutto il
costrutto dello intendimento della rettorica, e ne fece
chiara dimostranza». Il frate, cercando le «magne virtudi» di Cicerone, aggiunge: «Sì mi mosse talento di volere alquanti membri del Fiore di rettorica volgarizzare di
latino in nostra lingua, siccome appartiene allo mestiere
de’ laici, volgarmente». Onde pare che il tradurre volgarmente, in volgare, era mestiere dei laici, scrivendo i
chierici in latino. Queste citazioni sono il ritratto del
tempo. Ci si vede la grande impressione che facea su
quelle menti Virgilio e Cicerone, «d’arme maraviglioso
cavaliere, franco di coraggio, armato di grande senno,
fornito di scienzia e di discrezione, ritrovatore di tutte le
cose». E ci si vede pure la gran fede nei miracoli della
scienza, come se a vivere con buoni costumi e a ben dire
in pubblico e in privato bastasse imparare le regole
dell’etica e della rettorica. Nè si recavano in volgare le
opere solo dell’antichità, ma anche le contemporanee
scritte in latino. Cito fra gli altri il volgarizzamento fatto
da Soffredi del Grazia, notaio pistoiese, de’ Trattati di
morale, dottissima opera di Albertano da Brescia, scritta
in prigione. Il primo trattato, Della dilezione di Dio e del
prossimo e della forma della vita onesta, è composto l’anno 1238. L’opera levò tal grido, che fu tradotta in francese e in inglese, e veramente ci è lì dentro raccolta tutta
la dottrina del tempo intorno all’onesto vivere, sacra e
profana. L’impulso fu tale che gli uomini più chiari si
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volsero a tradurre o compendiare grammatiche, rettoriche, trattati di morale, di fisica, di medicina. Ristoro di
Arezzo scrivea sulla Composizione della terra; Cavalcanti
scrivea una grammatica e una rettorica; ser Brunetto traduceva il trattato De inventione di Cicerone e parecchie
orazioni di Sallustio e di Livio, e sotto nome di Fiore di
filosofi e di molti savi raccoglieva i detti e i fatti degli antichi filosofi, Pitagora, Democrito, Socrate, Epicuro,
Teofrasto, e di uomini illustri, come Papirio, Catone.
Ecco i «fiori» di Plato:
«Plato fue grandissimo savio e cortese, in parole, e disse
queste sentenzie:
In amistade, nè in fede non ricevere uomo folle: più leggermente si passa l’odio de’ folli e de’ malvagi, che la loro compagnia.
A neuno uomo ti fare troppo compagno. L’uomo è cosa
troppo singolare: non puote sofferire suo pare, de’ suoi maggiori hae invidia, de’ suoi minori hae disdegno, a’ suoi iguali
non leggeremente s’accorda.
Quelli sono pessimi e maliziosi nimici, che sono nella fronte
allegri e nel cuore tristi.»
Secondo la rettorica di quel tempo si diceva «fiore» quel
raccogliere il meglio degli antichi e offrirlo al pubblico
come un bel mazzetto. E si diceva anche «giardino», come spiegava Bono Giamboni nel suo Giardino di consolazione, versione del latino: «e chiamasi questo Giardino
di consolazione, imperò che siccome nel giardino altri si
consola e trova molti fiori e frutti, così in questa opera si
trovano molti e begli detti, li quali l’anima del divoto
leggitore indolcirà e consolerà». In effetti questo bel libro, dov’è molta semplicità e grazia di dettato, è una descrizione de’ vizi e delle virtù, con sopra ciascuna materia i detti de’ savi e de’ santi Padri, tanto che si può
veramente dire dell’autore: «il più bel fior ne colse». Ecco il capitolo Dell’Ebrietade:
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
«Ebrietade, secondo che dice santo Agostino, è vile sepoltura della ragione e furore della mente». Anche dice: «La ebrietà
è lusinghiere demonio, dolce veleno, soave peccato. Anche dice: la ebrietà molti ne ha guasti, toglie il senno, fa venire infermitadi, ingrossa lo ingegno, accende alla lussuria, mai non tiene segreto, induce a male parole.» Santo Basilio dice: «l’ebro,
quando pensa bere, sì è beuto: come lo pesce che con grande
desiderio inghiottisce l’esca nella sua gola e non sente l’amo;
così l’ebro, bevendo il vino, riceve in sè nemico senza ragione.»
E santo Paolo dice: «non t’inebriare di vino, imperò che di vino esce lussuria.»
Nè solo «fiore» o «giardino», ma si diceva pure «tesoro» o «convito», quasi mostra di ricche pietre preziose,
o di elettissime vivande. Brunetto, che scrisse il Fiore,
avea già scritto il Tesoro, «in romanzo o lingua francesca», come «più dilettevole e più comune che tutti gli altri linguaggi», e voltato poi in volgare da Bono Giamboni. Il Tesoro è il Cosmos di quel tempo, l’universalità
della scienza come s’insegnava nelle scuole, la somma o
il compendio del sapere, e per dirla con le parole di Brunetto, «un’arnia di mèle tratta di diversi fiori», un
«estratto di tutt’i membri di filosofia in una somma brevemente». Prende capo dalla filosofia, siccome «radice
di cui crescono tutte le scienze», ed è descrizione di Dio,
dell’uomo, della natura. Segue l’etica, o filosofia pratica,
e poi la rettorica, che ha come appendice la politica, o
l’arte di ben governare gli stati. È il disegno di una prima facoltà universitaria, che prepara con questi studi i
giovani alle scienze speciali. Questa vasta compilazione,
di cui non era esempio, parve una maraviglia. Ma più
importanti erano i trattati speciali, dove gli scrittori mostravano qualche originalità, come furono i tre trattati di
Albertano e il famoso trattato De regimine principum di
Egidio Colonna, dottissimo patrizio napolitano, volgarizzato da un toscano.
Il luogo che teneva la fede, venne occupato dalla filosofia. Non che la filosofia negasse la fede, anzi era pro-
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prio di quel tempo aver fede in tutto quello che era
scritto; ma sotto quella forma s’affermava la società colta, e si distingueva da’ semplici e dagl’ignoranti. Il luogo
comune di tutte le invenzioni era l’eterno Giobbe l’uomo colpito dall’avversità, che maledice prima alla vita e
trova poi rimedio e consolazione nella filosofia, ovvero
nello studio della scienza, nella visione delle opere divine e umane. Questo spiega la grande popolarità del libro di Boezio Della consolazione, fondato appunto su
questa base, dove la filosofia è rappresentata «in sembianza di donna, in tale abito e in sì maravigliosa potenzia, che cresceva quando le piaceva, tanto che il suo capo aggiungeva di sopra alle stelle e sopra al cielo, e
poggiava a monte e a valle». Tale è pure la visione di ser
Brunetto Latini nel Tesoretto, ch’è visione delle cose
umane «secondo il corso stabilito a ciascheduna»:
Io le vidi ubbidire,
finire e incominciare,
morire e ’ngenerare.
La stessa base ha il libro, Introduzione alle virtù, di Bono
Giamboni. È un giovine, «caduto di buono luogo in
malvagio stato», che narra di sè in questo modo:
«Seguitando il lamento che fece Giobbe, cominciai a maledire l’ora e il die che io nacqui e venn’in questa misera vita, e il
cibo che in questo mondo m’avea nutricato e governato. E pienamente luttando con guai e gran sospiri, i quali venieno della
profondità del mio petto, fra me medesimo dissi: – Dio onnipotente, perchè mi facesti tu vivere in questo misero mondo,
acciocch’io patissi cotanti dolori e portassi cotante fatiche e sostenessi cotante pene? Perchè non mi uccidesti nel ventre della
madre mia, o incontanente che nacqui non mi desti tu la morte? Facestilo tu per dare di me esempio alle genti, che neuna
miseria d’uomo potesse nel mondo più montare? – Lamentandomi duramente nella profondità di un’oscura notte nel modo
che avete udito di sopra, e dirottamente piangendo m’apparve
di sopra al capo una figura, che disse: – Figliuolo mio, forte mi
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maraviglio, che essendo tu uomo, fai reggimenti bestiali, perciocchè stai sempre col capo chinato, e guardi le oscure cose
della terra, laonde sei infermato e caduto in pericolosa malattia. Ma se tu dirizzassi il capo e guardassi il cielo e le dilettevoli
cose del cielo considerassi, come dee fare uomo naturalmente,
e di ogni tua malattia saresti purgato, e vedresti la malizia de’
tuoi reggimenti, e sarestine dolente. Or non ti ricorda di quello
che disse Boezio: che, conciossiacosachè tutti gli altri animali
guardino la terra, e seguitino le cose terrene per natura, solo
all’uomo è dato a guardare il cielo, e le celestiali cose contemplare e vedere? – Quando la boce ebbe parlato... , si riposò una
pezza, aspettando se alcuna cosa rispondessi o dicessi; e vedendo che stava mutolo, e di favellare neuno sembiante facea, si
rappressò verso me, e prese i ghironi del suo vestimento, e forbimmi gli occhi, i quali erano di molte lacrime gravati per duri
pianti ch’io avea fatto... Allora apersi gli occhi e guardaimi dintorno, e vidi appresso di me una figura bellissima e piacente,
quanto più innanzi fue possibile alla natura di fare. E della detta figura nascea una luce tanto grande e profonda, che abbagliava gli occhi di coloro che guardare la volieno: sicchè poche
persone la poteano fermamente mirare. E della detta luce nasceano sette grandi e maravigliosi splendori che alluminavano
tutto il mondo. E io vedendo la detta figura così bella e lucente, avvegna che avessi dallo incominciamento paura, m’assicurai tostamente, pensando che cosa rea non potea così chiara luce generare. Cominciai a guardar la figura tanto fermamente,
quanto la debolezza del mio viso poteva sofferire. E quando
l’ebbi assai mirata, conobbi certamente ch’era la Filosofia, nelle cui magioni avea lungamente dimorato. Allora incominciai a
favellare e dissi: – Maestra delle virtudi, che vai tu facendo in
tanta profondità di notte per le magioni de’ servi tuoi? – «
Seguono discorsi tra questo servo della Filosofia e la
Filosofia, il cui costrutto è questo: che la vita terrestre è
vita di prova; e la vera vita è in cielo, se però «porti in
pace le pene e le tribulazioni di questo mondo, chi vuole
essere verace figliuolo di Dio, e non bastardo, pensando,
che s’egli sarà compagno di Dio nelle passioni, sarà suo
compagno nelle consolazioni». La Filosofia finisce con
questo lamento:
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
«O umana generazione, quanto se’ piena di vanagloria, e hai
gli occhi della mente, e non vedi! Tu ti rallegri delle ricchezze e
della gloria del mondo, e di compiere i desidèri della carne,
che possono bastare quasi per uno momento di tempo, perchè
poco basta la vita dell’uomo: e queste sono veracemente la
morte tua, perchè meritano nell’altro mondo molte pene eternali. E della povertà e delle tribulazioni del mondo ti turbi e lamenti, che poco tempo possono durare: e queste sono veracemente la tua vita, perchè se si comportano in pace, meritano
nell’altro mondo molta gloria perpetuale... Disse uno savio: –
Quello che ne diletta nel mondo è cosa di momento, e quello
che ne tormenta nell’altro, durerae mai sempre.»
E segue, citando i detti dell’Apostolo, di san Pietro e
di Salomone.
Questo era il tèma comune delle prediche, salvo che qui
il predicatore è la Filosofia, che si fa interprete di Dio, e
cita Salomone e san Pietro e i santi Padri. Questo concetto è l’idea fondamentale della «leggenda», una storia
fantastica, la cui base è il peccatore condannato o redento. In queste leggende Dio e il demonio sono gli attori
principali: Dio che co’ suoi angioli e le sue virtù tira
l’anima alla rinunzia de’ beni terrestri e alla contemplazione delle cose celesti, e il demonio che la tiene stretta e
affezionata alla terra. L’uomo, mosso dalle naturali inclinazioni, vende l’anima al demonio pur d’essere felice in
terra, e lo spettacolo finisce nelle tenebre e nel fuoco
dell’inferno. Ma spesso la tragedia si solve nella commedia, cioè nel trionfo e nel gaudio dell’anima, quando,
aiutata dalla divina grazia, sa riscattarsi dal demonio e
acquistare il paradiso. Questa lotta tra Dio e il demonio
è la battaglia dei vizi e delle virtudi, che nella Introduzione alle virtù del Giamboni la Filosofia mostra al suo servo, perchè in quella immagine fortifichi la sua fede.
Questa è pure la base della leggenda del dottore Fausto
che vendè l’anima al diavolo, leggenda così popolare al
medio evo, e resa immortale da Goethe. E questo è anche il concetto del mondo lirico dantesco, dove Beatrice
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
diviene la Filosofia, e le gioie e i dolori dell’amore terrestre svaniscono nella contemplazione intellettuale della
Scienza.
Così il secolo decimoterzo si chiude con uno stesso
concetto, esposto in prosa e in poesia. Brunetto, Giamboni e Dante s’incontrano nella stessa idea, o per dir
meglio, era questa l’idea comune, elaborata in tutto il
medio evo, e che sullo scorcio di quel secolo ci si presenta netta e distinta, consapevole di sè. Ma in prosa
non trovò quell’adeguata espressione che seppe dare
Dante al suo mondo lirico. Mancò la leggenda, com’era
mancata la novella, e mancò il romanzo religioso o spirituale, com’era mancato il romanzo cavalleresco. Lo
scrittore è più intento a raccogliere che a produrre. Fra
tanti «Fiori» e «Giardini» e «Tesori» manca l’albero della vita, l’anima impressionata e fatta attiva che produca.
Ci è un lavoro di traduzione e di compilazione, non ci è
ancora un lavoro di assimilazione, e tanto meno di produzione. Le ricchezze son tante, che tutta l’attività dello
spirito è consumata a raccoglierle, anzi che a crearne di
nuove. Senti una stanchezza a leggere queste traduzioni
o compilazioni, dove niente è affermato senza un «ipse
dixit», o piuttosto «ipsi dixerunt», tante e così accumulate sono le citazioni. E non ci è tregua, non digressioni,
non varietà in questi «giardini», dove hai innanzi un cicerone insopportabile, sempre con la stessa voce e lo
stesso tuono. Nessun movimento d’immaginazione o di
affetto; nessun vestigio di narrazione o descrizione;
l’esposizione didattica, il trattato, riempie l’intelletto, e
t’uccide l’anima. L’espressione più chiara del secolo furono i dottissimi Brunetto Latini e Bono Giamboni, traduttori e compilatori infaticabili. Basti dire che il Giamboni, oltre le opere avanti accennate, ha tradotto pure le
Storie di Paolo Orosio, l’Arte della guerra di Flavio Vegezio e la Forma di onesta vita di Martino Dumense.
La gloria di questo secolo, cominciatore di civiltà, è di
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
aver preparato il secolo appresso, lasciandogli in eredità
una ricca messe di cognizioni fatte volgari, e la lingua e
la poesia formata nella sua parte tecnica. Quel tradurre
fu un esercizio utilissimo, che diede forma e stabilità alla
nuova lingua, e quella pieghevolezza ed evidenza che
viene dalla necessità di rendere con esattezza il pensiero
altrui. Principe de’ traduttori fu Bono Giamboni, così
terso e fresco che molte pagine con lievi correzioni si direbbero scritte oggi, soprattutto dove sono descrizioni
di animali o di virtù e di vizi.
In queste prose didattiche non ci è di arte neppure intenzione. Ai contemporanei di Cino, di Cavalcanti, di
Dante quelle nude e aride prose doveano sembrare assai
povera cosa. E si venne confermando l’opinione che il
volgare non fosse buono che a dire di amore, e che le
materie gravi si dovessero trattare in latino, come costumavano gli scrittori di polso.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
V
I MISTERI E LE VISIONI
Al punto a cui siamo giunti, ci si porge chiara l’immagine delsecolo decimoterzo. Due sono le fonti di quella
letteratura primitiva: la cavalleria e le sacre scritture.
L’eroe della cavalleria, il cavaliere, è l’uomo che si sforza
di realizzare in terra la verità e la giustizia, di cui è immagine la donna, suo culto e amore. La sua vita è attiva,
piena di avventure e di fatti maravigliosi. Senti la sua
presenza nella più antica lirica, nelle novelle, ne’ romanzi e nelle cronache. Ma la cavalleria, venutaci di fuori,
con gli stranieri che occupavano il nostro suolo, non
prese radice, non si sviluppò, non produsse alcuna opera originale, rimase stazionaria. Perdette il suo carattere
serio e quasi religioso e restò un puro gioco d’immaginazione, che si mescola come colorito e accessorio in tutte
le storie, sacre e profane. Di ben altra efficacia era l’idea
religiosa, penetrata ne’ sentimenti e ne’ costumi e nelle
istituzioni, compagna dell’uomo in tutti gli stati della vita. L’eroe cristiano è chiamato pure «cavaliere», il «cavaliere di Cristo»; ma è un eroe contemplativo, il cui tipo è il frate, il romito, il santo. Come il cavaliere errante,
anche lui rinunzia ed ha a vile i beni terrestri, ma la vita
dell’uno è militante, quella dell’altro è contemplante: ci
è in fondo la stessa idea, di cui l’uno è il soldato, l’altro è
il sacerdote. Certo, questi due tipi entrano spesso l’uno
nell’altro, e il frate diviene il templario o il cavaliere di
Malta, soldato della fede, e il cavaliere errante finisce romito e penitente. Ma il cavaliere, gittandosi nelle più
strane avventure, dimentica e fa dimenticare il cielo, attirata l’attenzione dal maraviglioso delle opere, sì che
destano uguale curiosità e interesse le geste de’ cristiani
e de’ saracini, e la rappresentazione rimane terrena.
L’altro al contrario passando la vita ne’ digiuni, nella
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
povertà, nella castità e nell’orazione, ci tien sempre viva
innanzi l’immagine dell’altro mondo; e perciò questa vita contemplativa è schiettamente religiosa; anzi è ivi la
perfezione, ivi il più alto ideale. La passione dell’anima è
l’esser legata al corpo, alla carne, e la sua beatitudine o
santificazione è sciogliersi da quella e star con Cristo: al
che è via la contemplazione e la preghiera. Nelle tre allegorie sull’anima pubblicate dal Palermo è detto: «Ogni
bene e virtù, qualunque vogli, e buono in sè medesimo,
ma la preghiera solamente trae a sè tutte le altre virtù».
In queste allegorie compariscono tre esseri, che sono i
tre gradi della santificazione: «Umano», «Spoglia» e
«Rinnova». Dapprima l’anima, impacciata dal terrestre,
dall’«Umano», non può scorgere il vero che sotto figura,
nel sensibile. Il secondo essere, «Spoglia», è la virtù che
monda e purga l’anima dagli affetti terrestri, insino a
che viene «Rinnova», luce mentale, che «rinnova l’anima in tutto e mostra la verità senz’ombra e senza figura». Questi tre gradi di santificazione comprendono tutta la vita del cavaliere cristiano. Inviluppato nel senso e
nella carne, non vede che un barlume del vero, e non
giunge all’ultima luce mentale, all’ultimo grado, se non
purificandosi e mondandosi della parte terrestre. Anch’egli ha le sue battaglie, ma col demonio e con la carne, ch’egli macera e mortifica d’ogni maniera, e le sue
armi sono la contemplazione e la preghiera. Il maraviglioso di questa vita non è solo ne’ miracoli, ma in quella
forza di volontà che trae l’uomo a vincere tutti gli affetti
e le inclinazioni naturali, com’è in santo Alessio, il tipo
più commovente di questi cavalieri di Cristo. La creazione del mondo, il peccato originale, le profezie, la venuta
di Cristo, la sua passione, morte e trasfigurazione, l’anticristo e il giudizio universale sono l’epopea, il fondo storico a cui si annodano tante vite di santi. E questa storia
dell’umanità era tutt’i giorni innanzi al popolo, nella
predica, nella confessione, nella messa, nelle feste. La
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
messa non è altro che una rappresentazione simbolica di
questa storia, un vero dramma senza che ce ne sia l’intenzione, rappresentato dal prete e da’ fedeli. Ogni atto
che fa il prete, è pieno di significato, è rappresentazione
mimica. La prima parte della messa è epica o narrativa; è
il Verbum Dei, l’esposizione che comprende le profezie
e il Vangelo, e finisce con la predica. La seconda parte è
drammatica, è l’azione, il Sacrificium, l’adempimento
delle profezie. La terza parte è lirica, come nelle risposte
de’ fedeli (il coro) al prete, o quando due cori si alternano nel canto, e negl’inni e nelle preghiere: ciò che ha
luogo principalmente nella messa cantata. Aggiungi le
immagini de’ santi e i fatti dell’antico e del nuovo Testamento in quelle cappelle, in quelle finestre variopinte, in
quelle cupole, e quelle grandi ombre, e quelle moli restringentisi sempre più e terminate da croci slanciate
verso il cielo, ed avrai l’immagine e l’effetto musicale di
questo stacco dalla terra, di questo volo dell’anima a
Dio. Dopo l’evangelo, il predicatore talora, per fare più
effetto sull’immaginazione, esponeva la sua storia sotto
forma di rappresentazione, come si fa in parte anche oggi ne’ quaresimali. I monaci e i preti rappresentavano il
fatto, e il predicatore aggiungeva le sue spiegazioni e
considerazioni. Era una rappresentazione liturgica, cioè
legata al culto, parte del culto, detta «divozione» o «mistero». Di tal natura sono due divozioni, che si rappresentavano il giovedì e il venerdì santo, e sono piuttosto
due atti di una sola rappresentazione che due rappresentazioni distinte. La prima comincia col banchetto che
Cristo ebbe in casa di Lazzaro sei giorni avanti Pasqua, e
che qui è il giovedì santo. Cristo viene da Gerusalemme,
Maria con Maddalena e Marta gli va incontro. Maria
prega il figlio di non tornare a Gerusalemme, perchè vogliono la sua morte. Cristo risponde dover ubbidire al
Padre: pur si conforti, che niente farà che non lo dica a
lei. Alla fine del banchetto Cristo scopre a Maddalena
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
che dee ire a Gerusalemme, dove patirà il supplizio della
croce, e le raccomanda la madre. Cristo esce. Sopraggiunge Maria, che ha visto il figlio turbato, e la prega a
svelarle quello che il figlio le ha detto. Maddalena tace.
E la madre va a Cristo tutta in lacrime, e dice:
Dimilo, figlio, dimilo a mi,
perchè stai tanto afannato?
Amara mi, piena de suspiri,
perchè a mi lo hai celato?
De gran dolore se spezzano le vene,
e de doglia, figlio, me esse il fiato,
chè t’amo, o figlio, con perfecto core,
dimilo a mi, o dolce Segnore.
Cristo dice che pel riscatto del mondo dee ire a morte, e
Maria sviene. Tornata in sè e lamentandosi, raccomanda
il figlio a Giuda, che risponde in modo equivoco: – So
quello che ho a fare. – Poi si volge a Pietro, che promette difendere il figlio contro tutto il mondo. Giunti a una
porta della città, Maria non vuol separarsi dal figlio; ma
quando non lo vede più e sa che per un’altra porta è entrato in Gerusalemme, fa pietosi lamenti innanzi al popolo:
O figlio mio, tanto amoroso,
o figlio mio, due se’ tu andato?
O figlio mio, tuto gracioso,
per quale porta se’ tu entrato?
O figlio mio, assai deletoso,
tu sei partito tanto sconsolato!
Ditime, donne, per amor de Dio,
dov’è andato lo figlio mio?
Segue il racconto secondo la Bibbia. Le parole di Cristo,
tolte al Vangelo, sono dette in latino. E la «divozione»
finisce con la prigionia di Cristo.
La «divozione» del venerdì santo racconta la passione
e la morte di Cristo. Il predicatore interrompe la rappre-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
sentazione con le sue spiegazioni, e fa cenno quando si
ha a continuare. Maria vi rappresenta una gran parte.
Mentre Cristo prega pe’ suoi nemici, ella dice alla croce:
Inclina li toi rami, o croce alta,
dona riposo a lo tuo Creatore;
lo corpo precioso ià se spianta;
lasa la tua forza e lo tuo vigore.
Cristo la raccomanda a Giovanni, che inginocchiandosi
e baciandole i piedi cerca racconsolarla. Ma essa abbraccia la croce e si lamenta:
O figlio mio, figlio amoroso,
come mi lasi sconsolata!
O figlio mio tanto precioso,
come rimango trista, adolorata!
Lo tuo capo è tutto spinoso,
e la tua faza di sangue bagnata!
altri che ti non voglio per figlio,
o dolce fiato e amoroso giglio.
Quando Cristo muore, Maddalena gli sta a’ piedi, al capo Giovanni, Maria nel mezzo. E bacia il corpo di Cristo, gli occhi, le guance, la bocca, i fianchi, le mani «con
le quali benediva il mondo», i piedi su’ quali «Maddalena sparse tante lacrime».
Queste rappresentazioni erano antichissime, e si scrivevano in latino, come il Ludus paschalis, rappresentazione di Pasqua, dove è messo in azione l’anticristo. Le
due «divozioni» avanti discorse non sono probabilmente che versioni o imitazioni di opere più antiche, rimase
nella tradizione. Tale era pure la rappresentazione del
Nostro Signore Gesù Cristo, che ebbe luogo a Padova nel
1243, e il Ludus Christi, una trilogia rappresentata dal
clero in Cividale negli ultimi due giorni di maggio il
1298. Nella Pentecoste e ne’ tre seguenti giorni il capitolo di questa città, in presenza del vescovo e del patriarca
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
di Aquileia, diede questa serie di rappresentazioni: la
creazione di Adamo ed Eva, la profezia o l’annunzio, la
nascita, morte e risurrezione di Cristo, la discesa dello
Spirito santo, l’Anticristo, e la venuta di Cristo nel giudizio universale. Era tutta l’epopea biblica, fatta evidente e sensibile dalla musica, dal canto, dalle scene, dalla
mimica e dalla parola. Tale era pure la Passione, rappresentata a Roma nel Coliseo il venerdì santo, dalla Compagnia del gonfalone nel 1264.
Queste rappresentazioni, di cui i preti erano attori e
attrici, aveano tutto il carattere di solennità o feste o cerimonie religiose. Il diavolo vi ha pure la sua parte di
tentatore, ma parla in modo serio e semplice, secondo la
sua natura, e non ha niente di grottesco e di ridicolo.
Chiuse nel recinto delle chiese, de’ conventi e delle curie
vescovili, rimangono tradizionali e immobili, senza sviluppo artistico, come anche oggi si vedon in parte nelle
feste del contado.
La moralità di queste rappresentazioni era che il fine
dell’uomo è nell’altra vita, o come si diceva, è la salvazione dell’anima; che per conseguire questo fine si ha a
imitare Cristo, soffrire in questo mondo per godere
nell’altro. Perciò l’ideale, l’eroico o, come si diceva, la
«perfezione della vita» era il dispregio de’ beni di questo
mondo, la resistenza a tutte le inclinazioni naturali e il
vivere in ispirito nell’altro mondo con la contemplazione e la preghiera. Questa è la vita de’ santi, della quale si
dava anche rappresentazione a’ fedeli. E tra le più antiche è una ancora inedita, che ha per titolo: D’uno monaco che andò a servizio di Dio, probabilmente recitata a
monaci da monaci in un convento. L’eroe è questo monaco, un giovinetto che resiste alle lacrime della madre,
alle querele del padre, alle tentazioni del compare, e si
rende frate nel deserto, dove è accolto come figlio da un
romito. Ma ivi prove più dure l’attendono. Mentre egli
va a raccogliere per il pasto radici, frutta, castagne e no-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ci, il romito prega, e mosso da curiosità chiede a Dio
qual luogo spetti al suo novizio in paradiso, e un angelo
risponde che sarà dannato. Non perciò della notizia si
turba il giovinetto, anzi risponde tranquillo che continuerà ad amare e servire Dio. Invano il demonio lo tenta, dicendogli che «ha guastato l’amor naturale», e che il
meglio sarà tornare in casa del padre, chè forse Dio gli
avrà misericordia. Il giovinetto con gli scongiuri fuga il
demonio, e rimane fermo nella sua risoluzione. Allora
l’angiolo annunzia al romito ch’egli è salvo. E il monaco
e il romito intuonano il Te Deum o una lauda. Nell’epilogo o commiato sono esortati gli spettatori a castigare
la carne e a pensare alla vita eterna. Anima della rappresentazione è l’ invitta fede del giovane monaco, che la
preghiera e la contemplazione è la più sicura guardia
contro il peccato e la tentazione della carne, e che si
giunge alla santificazione con rinunziare al mondo e vivere con lo spirito in Dio. Questo concetto è espresso in
una forma scolastica nel canto del monaco, di cui ecco
alcuni brani:
L’anima sensitiva che ss’inchina
nel mondo a tutto quel che lla diletta,
apprezza poco la legge divina...
L’alma piena di fede e semplicetta
spesso si leva pura a contemplare
quel ben che veramente la diletta.
e quando a quel più intenta esser le pare,
allor dal grave corpo è sì constretta,
che giuso afflitta le convien tornare,
e umile e isdegnosa piange e dice:
– Deh! Chi mi sturba il mio esser felice? –
Quell’anima gentile è sempre viva,
e vive Iddio in lei per unione... ,
e tutta sta nella contemplativa,
e gode tutta; e s’ella ha passione,
è per esser legata al corpo tristo,
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
dal qual desia disciòrsi e star con Cristo.
Ci è una rappresentazione, intitolata Commedia dell’anima, che è una storia ideale della vita de’ santi, una specie
di logica, dove sono le idee fondamentali della santificazione, l’ossatura e lo scheletro di tutte le vite de’ santi.
L’anima esce pura dalle mani di Dio e a sua immagine.
Dio la contempla con amore, dicendo:
Quando io risguardo quella creatura,
che all’immagine mia io ho formata,
e ch’io la veggo immaculata e pura
starmi dinanzi, la m’è accetta e grata:
ma l’ha bisogno d’una buona cura,
la quale a custodirla sia parata;
e perchè ha in sè l’immagine d’Iddio,
vo’ che la guardi un angel santo e pio.
Ma il demonio, invidioso che «sì vil cosa abbia a fruire
quel regno, del qual esso è privato», si apparecchia a
darle battaglia. L’angelo custode conforta l’anima, e le
presenta la Memoria, l’Intelletto e la Volontà: le sue
«potenzie». L’Intelletto parla dopo la Memoria e dice:
Io son di te la seconda potenzia
e il nome mio è detto Intelligenzia.
La mia quiete si sta nel Verbo eterno,
e quivi sempre debb’esser saziato:
però che in questo esilio io non discerno
com’io sarò in quel regno beato.
Allora io sarò sazio in sempiterno,
e quivi il mio obbietto arò trovato,
fermandomi in quel razzo rilucente,
che senza quello inquieta è la mia mente.
Lièvati sopra te tutta in fervore,
e guarda un po’ del ciel quell’ornamento:
vedra’lo circondato di splendore;
poi pensa, anima mia, quel che v’è drento.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Lascia un po’ star le cose esteriore,
se vuoi aver di quell’intendimento:
per questo i santi tutti innamorati
il mondo disprezzorno, pompe e stati.
E la Volontà dice:
Io son la Volontà che ho a fruire
quel ben c’ha dichiarato l’Intelletto,
e in quel fermando tutto il mio desire,
perchè creata sono a quest’effetto... ,
e perchè l’occhio corporal non vede,
credendo ho da seguir con pura fede.
L’Intelletto dice alla Volontà:
A te s’appartien sol deliberare
di far quel che ti è mostro fedelmente;
l’ufizio tuo è sempremai d’amare
ed unirti con Dio perfettamente.
E la Volontà risponde:
Nella tua spera i’ m’ho sempre a guardare,
benchè la mostri un po’ con pura mente;
quand’io sarò nella gloria beata,
ciascuna cosa mi fie dichiarata.
L’anima confortata alza la preghiera a Dio, e l’angelo
custode aggiunge:
Dàgli, Signore, un’ardente fiammella,
che la difenda da drago feroce:
tu sai che l’è nel corpo incarcerata,
e non può a te senza te esser grata.
Cioè a dire, non bastano le tre potenzie naturali, Memoria, Intelligenzia, Volontà, perchè l’anima piaccia al Signore; ci vuole anche la sua grazia, l’ardente fiammella
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
che dee cacciare il drago, il demonio. E Dio manda ad
assisterla le virtù teologiche, Fede vestita di colore celeste, con una croce nella mano destra e nella sinistra un
calice e suvvi la patena; Speranza vestita di verde, con gli
occhi fissi al cielo e le mani giunte, Carità vestita di rosso, con un parvolino per mano. Intanto il demonio chiama l’Eresia, la Disperazione, la Sensualità e tutte le sue
forze capitanate dall’Odio. Le tre virtù intorniano l’anima. La Fede dice dell’esser suo, e san Giovanni Crisostomo celebra la sua potenza. Ma l’Infedeltà con acri parole la rampogna:
È vien da levità chi crede presto.
Tu ne sei ita quasi che per terra,
e puossi dir che la fede è mancata;
uomini grandi e dotti ti fan guerra,
chi t’esaltò, or t’ha perseguitata...
Va’ nel Levante e in tutto l’Occidente,
e guarda di noi dua chi ha più gente.
Allora la Speranza viene in soccorso:
Leva su gli occhi alla città superna,
ch’è fabbricata senz’ingegno umano.
Ma l’anima teme, pensando la sua debolezza:
Come io digiuno un dì, i’ son sì bianca
che par che un curandaio m’abbi imbiancato
io mi stare’ a dormir sur una panca
e il corpo vuole un letto sprimacciato.
La Speranza le pone avanti l’esempio de’ santi, e soprattutto di santo Agostino:
Quando diceva orando: – Signor mio,
questo mio cor non si può consolare:
tu solo se’ quel che lo puoi quietare.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Allora l’assale la Disperazione e dice:
Pensa che la giustizia arà il suo loco
e tu hai fatt’assai ben di peccati:
– O tu dirai: – io non vo’ disperarmi
perchè Dio è parato a perdonarmi? –
Ma l’anima risponde allo scherno, cacciandola da sè:
E tu va via, bestiaccia maledetta.
Segue un’altra disputa tra la Carità, della quale san Paolo celebra le lodi, e l’Odio, in cui spunta l’ombra di un
carattere, qualche cosa di simile a un capitano millantatore:
Vòltati in qua, porgimi un po’ l’orecchio
e non guardar ch’io sie canuto e vecchio.
Guardami un po’ s’i’ sono un bel vecchiardo,
e per antichità tutto canuto,
nell’operar son giovane e gagliardo,
a ricordar l’ingiuria molto astuto,
nel mio discorrer non son pigro o tardo,
conosco tutte le persone al fiuto:
subito che tu pigli qualche sdegno,
in un momento io vi fo su disegno.
La Carità t’exorta a perdonare,
ed io ti dico: – Non lo voler fare. –
Il perdonar vien da poltroneria
e d’animo ch’ è pien di debolezza;
e chi t’ingiuria o dice villania,
quando che tu sopporti, e’ vi s’avvezza:
rendigli il cambio a ognun, sia chi si sia,
mettigli al collo una grossa cavezza,
non lasciar mai la vendetta a chi resta,
e a chi fosse, dàgli in su la testa.
Io venni qui con una spada in mano
per istar teco e messimi l’elmetto,
io son del Satanasso capitano,
attengo volentier quel ch’io prometto:
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
quand’io veggo per terra il sangue umano,
mi genera a vederlo un gran diletto,
e tengo sempre ’l mio caval sellato
per esser presto presto in ogni lato.
Oh quante brighe, oh quante occisioni
son per me fatte in città e in castella:
ho buon affar nelle religioni,
Vommene pe’ conventi in ogni cella,
metto l’un l’altro in gran divisioni
i’ facendo mormorar di chi favella,
poi mi metto in cammino e in poch’ore
mi trovo in corte di qualche signore.
L’ultima battaglia è tra il Senso o la Sensualità e la Ragione. L’anima pregando si sente sopraffatta dal corpo:
Io ti vorrei, Signor, sempre servire,
ma questo corpo m’ è molto molesto;
che s’io voglio vegliar, e’ vòl dormire,
ogni po’ di disagio lo fa mesto,
e comincia di fatto a impallidire.
la Sensualità che vede questo mi dice:
– Tu vorrai volar senz’ale,
e dare un buon guadagno allo spedale. –
E la Sensualità, così invocata, le dice beffando:
Tu vorresti ir al ciel così vestita:
io ti vo’ dire il ver senza rispetto:
a me pare che tu ti sie smarrita,
faresti meglio a picchiarti un po’ il petto:
non vorresti patir caldo, nè gielo,
e calzata e vestita andare in cielo.
Ma ecco la Ragione dire all’anima:
Deh dimmi, anima mia, ch’hai tu avuto,
io m’era appunto appunto addormentata.
E saputo il fatto, dice della sua nemica:
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Ella è una bestiaccia sì insolente,
bisogna non lasciar punto la briglia:
battila spesso senza discrezione,
e non gli mostrar mai compassione.
– Ma che dovevo fare? – dice l’anima:
Dovevi tutta aprirti nelle braccia,
a pigliare una mazza tanto grossa,
che rompessi la carne e tutte l’ossa.
La Sensualità non se ne spaventa, e dopo uno scambio
di villanie aggiunge:
Questa Ragione è sol ipocrisia,
e non sa appena dir l’ave Maria.
E m’incresce di te c’hai questo sprone,
bisognerà che tu te lo cavassi.
Deh! fa a mio modo, piglia un buon mattone,
dàgli nel capo che tu lo fracassi.
La sta ’l dì e la notte inginocchione
col collo torto e dice pissi passi... :
– Piglia qualche piacer, deh fa’ a mio modo,
che a dargli un po’ di spasso gli è dovuto.
La Ragione è vinta e l’anima cede. Ella desidera una
ghirlanda con un nodo,
come di quelle ch’io ho già veduto.
E il demonio aggiunge:
Fàtt’un bel tocco di velluto rosso
e una zimarra per tenere in dosso.
Così la Ragione è impotente senza la Grazia. Comparisce Dio stesso:
Vòltati a me, non mi far resistenza,
Letteratura italiana Einaudi
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ch’io t’ho aspettato e aspetto a penitenza.
L’anima pentita del mal pensiero risponde:
Non merito da te essere udita
pe’ miei gravi pensieri, iniqui e stolti.
Io ho la tua bontà tanto schernita,
ch’io non son degna che tu mi ti volti,
e senza te io son come smarrita,
nessun non trovo che il mio cor conforti.
Se tu, Signor, che hai per me il sangue sparso,
non mi soccorri, ogni rimedio è scarso.
Allora Dio le manda in soccorso le virtù cardinali, Prudenza, Temperanza, Fortezza, Giustizia, Misericordia,
Povertà, Pazienza, Umiltà. Ciascuna parla di sè, citando
talora questo o quel passo della Bibbia. Ecco alcuni brani:
PRUDENZA – Io ti conforto che tu sia prudente
in tutte l’opre tue come il serpente.
TEMPERANZA – Terrai la via del mezzo in ogni cosa,
e sarà la tua mente graziosa.
FORTEZZA – Tullio dice di me questa parola:
che ognun venga a imparare alla mia scuola.
Che la Fortezza ancor rapisce il cielo,
lo dice san Matteo nell’Evangelo.
GIUSTIZIA – Dice David con la sua voce amena:
«Di Giustizia è la destra d’Iddio piena.»
MISERICORDIA – Mercè, mercè, o Giustizia divina,
abbi pietà dell’alma pellegrina... ;
perdona volentieri a chiunche erra,
chè son rinchiusi in un vaso di terra.
E questo vaso è sì pericoloso,
nel quale sta rinchiusa questa gioia.
Mentre che l’alma resta in questa vita,
di lacci trova presi tutt’i passi:
però bisogna a lei il divin aiuto,
chè senza quello ogni cosa è perduto.
POVERTÀ – Io son la Povertà, o città mia,
Letteratura italiana Einaudi
99
Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
che non so chi mi voglia in compagnia.
E son quella virtù che da’ potenti
son rifiutata e mandata al profondo:
non è nessun che di me si contenti,
eziandio que’ ch’han lasciato il mondo.
Ognun va dreto a’ ricchi e bei presenti,
ma io di mendicar non mi vergogno,
perchè gli è di me scritto nel Vangelo:
«Quel che mi segue arà il regno del cielo.»
PAZIENZA – O popul mio, io son la Pazienzia;
che più non ho chi mi dia audienzia.
O degna Povertà, virtù perfetta,
che tanto fust’accetta al Verbo eterno... ,
felice è quella che ti sta suggetta,
nel ciel sarà felice in sempiterno;
che non si può godere in questa vita,
e il paradiso avere alla partita.
POVERTÀ –... M’affliggo e doglio
che la perfezione quasi è mancata,
non è più il tempo de’ padri passati,
ch’erano pover, vili e disprezzati.
PAZIENZA – Chi pensa andare al ciel per altra via,
che per patir, si troverà ingannato.
Giesù diletto figliuol di Maria
n’ha dato esempio e a tutti ha insegnato...
Per dimostrarci che s’avea a patire,
elesse su la croce di morire.
UMILTÀ – L’Umiltade son io, fratei diletti,
oggi non c’è nessun che mi raccetti...
Vestitevi di Cristo, o genti stolte,
non vi avvedete voi che il tempo vola?
Non entra in paradiso alcun difetto,
non v’entra quel ch’a Dio non è suggetto.
Andiam cercando, care mie sorelle,
per tutto il mondo un po’ nostra ventura:
se nel gregge di Cristo una di quelle
ci ricevessi con la mente pura,
perchè noi siam vestite poverelle,
non vorrei gli facessimo paura;
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ch’oggidì le virtù non son richieste,
ma fassi onore a chi ha le belle veste.
L’anima contrita e fortificata alza un canto a Dio:
A te mi do, Signor clemente e pio,
e voglio a te servir tutt’i miei anni,
altro che te non bramo e non desio.
Io ho fuggito il mondo pien d’affanni,
dove si trova sol doglia o mestizia,
ben è infelice chi veste suo’ panni.
Ei mostra nel principio la letizia,
e di dover donar pace e riposo:
di poi non dà se non pianto e tristizia.
O mondo cieco, falso e tenebroso,
che hai tant’amator in questa vita,
e non mostri il velen che hai drento ascoso,
per dolenti poi farli alla partita.
Colpita da grave infermità, dice:
O m’è venuto tanto male addosso,
che più star ritta niente non posso.
Che vuol dir questo? È mi manca la vita.
Giesù Giesù, dolce Signore, aita.
Intorno alla morente fanno l’ultima battaglia l’angiolo e
il demonio. Gli argomenti dell’angiolo si possono ridurre in questi tre versi:
Umana cosa è cascare in errore,
e angelica cosa è il rilevarsi... ,
sol diabolica cosa è star nel vizio.
Dio accoglie l’anima e pronunzia il suo giudizio:
E questa è la mia ultima sentenzia,
che la venghi a fruir la mia presenzia.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
E l’angiolo dice
Partite tutti: la sentenza è data:
sonate per dolcezza una calata.
E il coro accompagna l’anima al cielo con questo canto:
O felice alma, che dal corpo sciolta
e per amor congiunta col tuo Dio,
la vita t’è donata e non t’ è tolta... ,
sei fatta ricca di un prezzo sì pio,
e con veste sì bella e nupziale
al convito starai celestiale.
Così finisce questa rappresentazione, detta «commedia»
perchè si conchiude con la salvazione e non con la perdizione dell’anima. È detta anche «misterio», per la sua
natura allegorica. È uno degli antichissimi misteri liturgici, ritoccato, ripulito, rammodernato e fatto laico a’
tempi di Lorenzo de’ Medici e forse più in là, a giudicare dalla forma franca e spigliata, da certi tentativi di formazione artistica, come nelle figure del demonio,
dell’Odio, della Sensualità, della Povertà, e da un certo
non so che beffardo e grottesco, che svela poca serietà e
unzione nello scrittore e negli spettatori. Ma se la trama
è moderna, la stoffa è antica, e ricorda il duello del Senso e della Ragione, così comune negli scritti volgari che
apparvero prima, e la battaglia de’ vizi e delle virtù del
Giamboni, e le tre allegorie cristiane. Anzi questa Commedia dell’anima non è se non le tre allegorie messe in
rappresentazione. Là trovi tre gradi di santificazione,
Umano, Spoglia e Rinnova. E anche qui l’anima è prima
combattuta dal senso e cade ne’ suoi lacci, perchè «umana cosa è cascare in errore», poi fa la sua penitenza, si
spoglia e si monda della scoria del peccato, e così a Dio
si rimarita, come dice Dante, o, come dice il nostro autore, sta «al convito celestiale con veste bella e nuziale».
Questi tre gradi aveano la loro formazione liturgica
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
nell’inferno, purgatorio e paradiso, che erano appunto il
senso, l’Umano puro, abbandonato a se stesso, lo Spoglia o la penitenza, che purga o monda l’anima, e il Rinnovamento o la luce mentale, la beatitudine. Questo era
il concetto delle rappresentazioni che aveano a materia
l’altro mondo, come quella di cui fa menzione Giovanni
Villani, che ebbe luogo a Firenze. L’altro mondo era la
storia, o come si diceva la «Commedia dell’anima», la
quale non potea giungere a redimersi dall’umanità, dal
corpo, dalla carne, dall’inferno, se non con la penitenza,
purificandosi e purgandosi, e così contrita e confessa diveniva leggiera, saliva al cielo. Questa Commedia spirituale dell’anima, di cui ho voluto dare un sunto possibilmente esatto, è il codice di quel secolo, il contenuto
astratto e generale, particolarizzato nelle vite, nelle leggende, ne’ trattati e nella lirica Spiritus intus alit. Lo spirito che alita per entro a quelle prose e a quelle poesie è
la «Commedia dell’anima».
Ma in tante prose e in tante poesie non ci è ancora un
vero lavoro d’individuazione e di formazione. Il contenuto rimane nella sua astratta semplicità, innominato e
impersonale, l’anima. Essendo il suo fondamento la contemplazione e non l’azione, o un’azione negativa, la resistenza agl’istinti e agli affetti naturali, non penetra nella
vita, non ne assume tutte le forme, non diventa la società. Certo, quell’azione negativa è molto poetica, è il
sublime religioso, e tocca il cuore, quando è rappresentata con semplicità e unzione. Ma in questo contrasto
tra il sentimento religioso e la natura, ciò che move più è
il grido della natura, come ne’ lamenti della madre di
santo Alessio o di santa Eugenia, o nel dolore d’Isacco
nel Sacrifizio di Abraam, che all’annunzio della sua morte chiama la madre:
O santa Sara, madre di pietade,
se fussi in questo loco, io non morrei...
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Tutta è l’anima mia trista e dolente
per tal precetto, e sono in agonia.
Tu mi dicesti già che tanta gente
nascer doveva della carne mia.
Il gaudio volge in dolor sì cocente,
che di star ritto non ho più balìa.
S’egli è possibil far contento Dio
fa ch’io non mora, o dolce padre mio.
Quantunque questo non sia che uno de’ lati più angusti
e solitari della vita umana, così ricca e varia ne’ suoi
aspetti, pure offre contrasti e gradazioni, che lo rendono
capacissimo di un grande sviluppo artistico. Ma in quel
suo albore la letteratura ha lo stesso carattere che mostra nella decadenza, la naturalità o materialità del contenuto. Tante vite e storie e leggende e visioni stuzzicavano la curiosità con la varietà e novità degli accidenti, e
si attendeva più allo spettacoloso, a colpire l’immaginazione con apparizioni nuove e maravigliose, che a lavorarle e svilupparle. Mancava la virtù di mettersi gli oggetti a distanza e trasformarli: la realtà anche nuda era
per se stessa maravigliosa e bastava ad ottenere l’effetto,
operando in modo semplice e immediato sullo scrittore
e su’ lettori.
Oltrechè, siccome il contenuto riposava su di una
dottrina liturgica, stabilita e inalterabile, poco era accomodato ad una rappresentazione libera e artistica, anche
quando usciva dalla chiesa e dal convento ed era maneggiato da’ laici, come fu anche de’ misteri. Impadronirsi
di quel contenuto, cacciarlo dalla sua generalità, dargli
corpo e persona, sarebbe sembrata una profanazione.
Lo spirito mirava a rendere accessibile quella dottrina
per via di esempli, di sentenze e di allegorie, come si vedea nella Bibbia. Il reale, il concreto non avea valore se
non come figura della dottrina. Ecco ad esempio in che
modo è nella Commedia dell’anima figurato il paradiso:
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
In su quel monte dove sta il Signore,
v’è una fontana traboccante e bella,
che sempre getta un mirabil liquore.
D’oro e d’argento n’è la sua cannella,
le sponde di smeraldi e d ’oro fine,
e tutta la città circonda quella.
Salite al monte, o alme peregrine,
salite al monte, e lassù troverete
soprabbondanti le grazie divine.
Le ultime parole spiegano la figura. Quella è la fontana
della divina Grazia. Con questa tendenza lo scrittore sta
contento alla semplice personificazione e gli pare di aver
fatto assai a dare una immagine che renda chiaro e sensibile il suo concetto. Oltre a ciò, l’uomo colto, schivo
delle forme semplici e volgari dell’umile credente, mira
a trasformare quella dottrina in un contenuto scientifico, e la traduce nelle forme scolastiche, e di questa fede
ragionata e sillogizzata fa la filosofia, figliuola di Dio. Lo
studio del secolo è di allegorizzare e dimostrare, anzichè
di rappresentare; è di chiarire quel contenuto, lumeggiarlo, volgarizzarlo, ragionarlo, anzichè coglierlo in
azione e nell’atto della vita. Perciò l’opera letteraria tiene dell’allegoria e del trattato, e ciò che è mera rappresentazione rimane nell’infanzia. Mai non ti senti ben fermo in terra, in mezzo a uomini vivi, con tali caratteri,
passioni e costumi, anzi lo scrittore ti par quasi estraneo
alla società e alle sue lotte, e dimora nell’astratta e monotona generalità della sua contemplazione. E quando
pur scende a rappresentare la vita, ti senti d’un tratto
balzato nel regno de’ misteri, delle leggende e delle visioni, nell’altro mondo.
La visione è in effetti la forma naturale di questo contenuto, quando si vuol rappresentarlo. La vita e la realtà
è il senso, la carne, il peccato, e lo scrittore o guarda e
passa, o se pur vi si trattiene, è per maledirla, rappresen-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
tandola non quale appare in terra, ma quale è nell’altro
mondo. La rappresentazione è dunque la visione della
realtà, come sarà dopo la morte, e là si spazia e si diletta
l’immaginazione. E se il mistero è commedia, ed ha per
conclusione la santificazione e la beatitudine, la visione
è spesso pittura delle pene infernali, lasciate alla libera
immaginazione de’ predicatori, de’ vescovi, de’ frati, de’
santi Padri, che col terrore operavano sulle rozze immaginazioni. Laghi di zolfo, valli di fuoco o di ghiaccio,
botti d’acqua bollente, rettili, vermi, dragoni da’ denti
di fuoco, demòni armati di lance, di fruste, di martelli
infocati, cadaveri putridi e inverminiti, scheletri tremanti sotto una pioggia di ghiaccio, dannati inchiodati al
suolo con tanti chiodi che «non pare la carne», o sospesi
per le unghie in mezzo al zolfo, o menati e rapiti da velocissime ruote di fuoco simili a «cerchi rosseggianti», o
infissi a spiedi giganteschi che i demòni irrugiadano di
metalli fusi: ecco la realtà delle visioni, rappresentata co’
più vivi colori. I tre monaci che si mettono in viaggio per
iscoprire il paradiso terrestre, dopo quaranta giorni di
cammino attraversano l’inferno:
«E veggono un lago grandissimo pieno di serpenti che tutti
pareano che gittassero fuoco, e odono voci uscire di quel lago e
stridere, come di mirabili popoli che piagnessero e urlassero. E
pervenuti che sono fra due monti altissimi, appare loro un uomo di statura in lunghezza bene di cento cubiti incatenato con
quattro catene, e due delle quali eran confitte nell’un monte e
l’altre due nell’altro; e tutto intorno a lui era fuoco, e gridava sì
fortemente che si udiva bene quaranta miglia da lungi. E vengono in un luogo molto profondo e orribile e scoglioso e aspro,
nel quale vedono una femmina nuda, laidissima e scapigliata in
volto e compresa tutta da un dragone grandissimo, e quando
ella volea aprire la bocca per parlare o per gridare, quel dragone le mettea il capo in bocca, e mordeale crudelmente la lingua; e i capelli di quella femmina erano grandi infino a terra.»
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Nella Vita di Santa Margherita si trova questa pittura
del dragone:
«Vide uscire un dragone crudelissimo e orribile con isvariati colori, e la barba e i capelli pareano d’oro, e ’ denti suoi parevano di ferro, e gli occhi acuti e lucenti come fuoco acceso, e
colla bocca aperta menava la lingua, e parea che per le nari e
per la bocca gittasse fuoco, e puzzo gittava di zolfo.»
Tra le visioni è celebre il Purgatorio di San Patrizio di
frate Alberico, e quella d’Ildebrando, poi Gregorio settimo, che predicando innanzi a papa Niccolò secondo,
narra di un conte ricco, e insieme onesto, «ciò che è proprio un miracolo in questa gente», egli dice. Questo
conte, morto dieci anni innanzi, fu visto, da un santo uomo ratto in ispirito, starsi al sommo d’una scala lunghissima, che ergevasi illesa tra le fiamme e si perdeva giù
nell’inferno. Su ciascuno scalino stava uno degli antenati del conte, con quest’ordine, che quando alcuno moriva di quella famiglia, doveva occupare il primo gradino,
e colui che vi giaceva e tutti gli altri scendevano di un
grado verso l’abisso, dove tutti l’uno appresso l’altro si
sarebbero riuniti. E chiedendo il santo uomo come fosse
dannato il conte, che avea lasciata in terra buona fama
di sè, si udì una voce rispondere: – Uno degli antenati,
di cui il conte è l’erede in decimo grado, tolse al beato
Stefano un territorio nella chiesa di Metz; e per questo
delitto tutti costoro sono involti nella stessa dannazione.
– Questa pena, che colpisce un’intera generazione, è
molto poetica, mostrando l’inferno nel sublime d’un
lontano indeterminato, messo costantemente innanzi
all’immaginazione de’ condannati, che a grado a grado
vi si avvicinano insino a che non vi caggiano entro: come
quel tiranno che voleva che le sue vittime sentissero di
morire, il terribile prete vuole che ei sentano l’inferno.
Da queste visioni e misteri e prose e poesie si sviluppa
questo concetto: che attaccarsi a questa vita come cosa
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
sostanziale, è il peccato; che la virtù è negazione della vita terrena, e contemplazione dell’altra; che la vita non è
la realtà, ma ombra e apparenza di quella; che la vera
realtà non è quello che è, ma quello che dee essere, ed è
perciò la scienza, o la verità, come concetto, e come contenuto, è l’altro mondo, l’inferno, il purgatorio e il paradiso, il mondo conforme alla verità e alla giustizia.
Appunto perchè l’individuo è pulvis et umbra, e la
realtà è pura scienza ed un di là della vita, questo mondo
resiste ad ogni sforzo d’individuazione e di formazione.
Lo stesso amore, così possente, non ci può gittare un po’
di calore e non ci vive se non come figura e immagine
dell’amore divino. La donna, come donna, è peccato; essa diviene una specie di medium che lega l’uomo a Dio.
Il maggior grado di realtà, a cui questo mondo sia
pervenuto, è nella lirica di Dante. La donna di quel secolo acquista il suo nome e la sua forma, è Beatrice, la
fanciulla uscita pura dalle mani di Dio, come l’anima
nella commedia spirituale, breve apparizione, tornata
così presto in cielo tra’ canti degli angioli. La sua vita
terrena è quasi non altro che nascere e morire. La sua
vera vita comincia dopo la morte, nell’altro mondo. Ivi è
luce mentale o intellettuale, verità e scienza, filosofia.
Ma non è filosofia incarnata, mondo vivente, dove l’idea
di Dio o del vero sia perfettamente realizzata; è pura
scienza, incapace di rappresentazione nella sua forma
scolastica di trattato e di esposizione. È scienza non ancora realizzata, non ancora corpo; è idea, non è visione;
è didattica, non è commedia o rappresentazione. Hai
«misteri» e visioni; manca il Mistero e la Visione, cioè
un mondo vivente nel suo insieme e ne’ suoi aspetti, dove sia realizzato quel concetto teologico e filosofico
dell’umanità, comune al secolo e rimasto ancora nella
sua astrazione dottrinale.
Il secolo decimoterzo si chiudeva, lasciando una lingua già formata, molta varietà di forme metriche, una
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
poetica, una rettorica, una filosofia, ed un concetto della
vita ancora didattico e allegorico, con rozzi tentativi di
formazione e individuazione. Il suo primo individuo
poetico è Beatrice, il presentimento e l’accento lirico di
un mondo ancora involto nel grembo della scienza, ancora fuori della vita.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
VI
IL TRECENTO
Quello che il secolo precedente concepì e preparò, fu
realizzato in questo secolo detto aureo. I posteri compresero sotto questo nome tutto un periodo letterario,
dove si trovano mescolati dugentisti e quattrocentisti. E
in verità le notizie cronologiche sono sì scarse e incerte,
che non è facile assegnare di ciascuno scrittore l’età, seguire strettamente l’ordine del tempo. Al nostro scopo è
più utile seguire il cammino del pensiero e della forma
nel suo sviluppo, senza violare le grandi divisioni cronologiche, ma senza cercare una precisione di date, che ci
farebbe sciupare il tempo in conietture e supposizioni di
poco interesse.
Questo secolo s’apre con un grande atto, il Giubileo,
pontefice Bonifazio ottavo. Tutta la cristianità concorse
a Roma, d’ogni età, d’ogni sesso, di ogni ordine e condizione, per ottenere il perdono de’ peccati e guadagnarsi
la salute eterna. Tutti animava lo stesso concetto espresso così variamente in tante prose e poesie: la maledizione del mondo e della carne, la vanità de’ beni e delle cure terrestri e la vita cercata al di là della vita. Il nuovo
secolo cominciava, consacrando in modo tanto solenne
il pensiero comune nella varietà della cultura. I preti e i
frati soprastavano nella riverenza pubblica, non solo pel
carattere religioso, ma per la dottrina, tenuta loro privilegio, tanto che il Villani loda di scienza Dante, aggiungendo: «benchè laico», e i dotti uomini, benchè laici,
erano detti chierici. Tutta la società italiana, raccolta
colà dallo stesso fine, rendeva una viva immagine di quel
pensiero comune e di quella varia cultura. Vedevi i contemplanti, i remiti, i solitari del deserto e della cella col
corpo macero da’ digiuni, da’ cilizii e dalle vigilie, ritratti viventi de’ misteri e delle leggende. C’erano gli umili
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
di spirito, animati da schietto sentimento religioso e che
tenevano la scienza come cosa profana, e ci erano i dotti,
i predicatori e i confessori, il cui testo era la Bibbia e i
santi Padri. Vedevi gli scolastici e gli eruditi, teologi e filosofi, che univano in una comune ammirazione i classici e i santi Padri, disputatori sottili di tutte le cose e anche delle cose di fede, parlanti un latino d’uso e di
scuola, vibrato, rapido, vivace, dove sentivi il volgare destinato a succedergli, amici della filosofia con quello
stesso ardore di fede che gli altri si professavano servi
del Signore, ma di una filosofia non ripugnante alla fede, anzi sostegno, illustrazione e ragione di quella,
confortata da sillogismi e da sentenze e da citazioni, dove trovi spesso Tullio accanto a san Paolo. Alteri della
loro scienza e del loro latino, spregiatori del volgare, da
costoro uscivano que’ trattati, que’ comenti, quelle
«somme», quelle storie, che empivano di maraviglia il
mondo. Accanto a questi veggenti della fede e della filosofia, a questa vita dello spirito, trovi la vita attiva e temporale, affratellati dallo stesso pensiero i signori e i tirannetti feudali e i priori e gli anziani delle repubbliche,
il cavaliere de’ romanzi e il mercatante delle cronache.
Là, appiè del Coliseo, un ardito negoziante, Giovanni
Villani, pensò che la sua Fiorenza, figliuola di Roma, era
non meno degna di avere una storia, e la scrisse. Fra tanto splendore e potenza del chiericato, lo spregiato laico
cominciava a levare la testa e pensava all’antica Roma e a
Firenze, figliuola di Roma. Là molte amicizie si strinsero, molte paci si fecero, come avviene in certi grandi
momenti della storia umana; sparirono guelfi e ghibellini, ottimati e popolari, baroni e vassalli, stretti tutti ad
una sola bandiera: uno Dio, uno papa, uno imperatore.
Là il papato ebbe l’ultimo suo gran giorno, l’ultimo sogno di monarchia universale, rotto per sempre dallo
schiaffo di Anagni.
Il giubileo ci dà una immagine di quello che dovea es-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
sere la letteratura nel secolo decimoquarto. Ebbe dal secolo antecedente la sua materia, i suoi istrumenti e il suo
concetto, del quale il giubileo fu una così splendida manifestazione. Ma quel concetto, rimaso nella sua astrazione intellettuale e allegorica, con così scarsi inizi di
rappresentazione ne’ misteri e nelle visioni, ancora senza
nome altro che di Beatrice, breve apparizione, svaporata
subito nelle astrattezze della scienza, ebbe nel Trecento
la sua vita, e venne a perfetta individuazione e formazione: questo fu il carattere e la gloria di quel secolo.
L’uomo, che dovea dare il suo nome al secolo, avea
già trentatrè anni, avea creato Beatrice e volgea nella
mente non so che più ardito, che dovesse abbracciare
tutta l’umanità. Tenzonava nel suo capo il filosofo e il
poeta: ci era il Convito e ci era la Commedia. Ma, per apprezzare più degnamente quella vasta sintesi che ne uscì,
è bene preceda l’analisi, studiando la fisonomia del secolo negl’ingegni più modesti che non conobbero, di
tutto quel mondo, se non questa o quella parte.
E c’incontriamo dapprima nella letteratura claustrale,
ascetica, mistica, religiosa, continuazione in prosa di fra
Iacopone, ma in una prosa piena di poesia. Domenico
Cavalca, l’autore de’ Fioretti, Guido da Pisa, Bartolomeo da San Concordio, Iacopo Passavanti, Giovanni
dalle Celle non sono scrittori astratti e impersonali, come quelli del secolo innanzi, ma, anche volgarizzando,
senti che quegli uomini prendono viva partecipazione a
quello che scrivono, e vivono là dentro, e ci lasciano
l’impronta del loro carattere e della loro fisonomia intellettuale e morale. Usciamo dalle astrattezze de’ trattati e
delle raccolte sotto nome di «fiori», «giardini» e «tesori», ed entriamo nella realtà della vita, nel vero giardino
dell’arte. Perchè questi uomini non ragionano, non disputano, e di rado citano: la loro dottrina va poco al di
là della Bibbia e de’ santi Padri: ma narrano quel medesimo che si rappresentava ne’ misteri, vite, leggende e vi-
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sioni, e sono narrazioni più vive e schiette, che non i misteri del Quattrocento, raffazzonamenti degli antichi,
con più liscio, ma dove desideri la purità e semplicità
delle prime ispirazioni.
Gli scrittori son tutti frati, ed hanno le qualità degli
uomini solitari, il candore, l’evidenza, e l’affetto. Hanno
l’ingenuità di un fanciullo che sta con gli occhi aperti a
sentire, e più i fatti sono straordinari e maravigliosi, più
tende l’orecchio e tutto si beve: qualità spiccatissima ne’
Fioretti di san Francesco, il più amabile e caro di questi
libri fanciulleschi. L’immaginazione concitata dalla solitudine presenta gli oggetti così vivi e propri, che vengon
fuori di un getto, non solo figurati, ma animati e coloriti
caldi ancora dell’impressione fatta sullo scrittore. Nel
quale l’affetto è tanto più vivace e impetuoso e lirico,
quanto la sua vita è più astinente e compressa: quasi
vendetta della natura, che grida più alto, dove ha più
contrasto. Non ci è in queste prose alcuna intenzione artistica, nessun vestigio di studio, o di sforzo, o di esitazione, o di scelta; manca soprattutto il nesso, la distribuzione, la gradazione. Ma si conseguono tutti gli effetti
dell’arte che nascono da movimenti sinceri e gagliardi
dell’immaginazione e dell’affetto, e n’escon pagine animate, e potenti assai più sul tuo spirito che non tanti romanzi moderni. Cito fra l’altro la storia di Abraam romito, che prende veste e costume di cavaliere mondano, e
mangia pane e beve vino ed usa nelle taverne per convertire la sua nipote Maria. Il suo incontro con Maria
nella taverna, gli allettamenti lascivi di costei, la sua sorpresa e vergogna quando nel bel cavaliere scopre il suo
zio, e i rimproveri affettuosi di lui e le grida strazianti e
disperate della bella pentita sono una vera scena drammatica, alla quale non trovi niente comparabile nel teatro italiano. In queste Vite del Cavalca, che sono traduzioni, ma per la freschezza e spontaneità del dettato e
per la commossa partecipazione del frate sono cosa ori-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ginale, il concetto del secolo, uscito dalle astrattezze teologiche e scolastiche, prende carne, acquista una esistenza morale e materiale. Il santo è esso medesimo il concetto divenuto persona, e la sua rappresentazione ti
offre il nuovo mondo morale aperto al cristiano, fatto attivo e divenuto storia, la storia del santo. Cardine di
questo mondo morale è la realtà della vita nell’altro
mondo e la guerra a tutti gl’istinti e affetti terreni, l’astinenza e la pazienza, il «sustine et abstine»; e però le sue
virtù non esprimono altro che la vittoria dell’uomo sopra se stesso, sulla sua natura: indi l’umiltà, il perdono
delle offese, la povertà, la castità, l’ubbidienza. Se la vittoria fosse preceduta dalla lotta, lo spettacolo sarebbe
sublime; ma il più sovente il santo entra in iscena ch’è
già santo e nell’esercizio quieto delle sue cristiane virtù,
interrotto a volte dalle tentazioni del demonio cacciato
via da scongiuri e segni di croce: ciò che è grottesco più
che sublime. Il santo è troppo santo perchè la sua vita
possa offrirti una vera contraddizione e battaglia tra il
cielo e la natura, ciò che rende così drammatica la vita di
Agostino e di Paolo. Qui hai racconti uniformi, infinite
ripetizioni, rarissimi contrasti, e spesso provi noia e
stanchezza. La musa di queste cristiane virtù non è la
forza, e non è l’azione, ma è un certo languir d’amore,
una effusione di teneri e dolci sentimenti, liriche aspirazioni ed estasi e orazioni, un impetuoso prorompere degli affetti naturali tosto sedato e riconciliato, il sacrificio
ignorato e oscuro che ha la sua glorificazione anche terrena dopo la morte. Una delle vite più interessanti e popolari è quella di santo Alessio, che abbandona la nobile
casa paterna e la sposa il dì delle nozze, e va peregrinando e limosinando, e dopo molti anni tornato in patria,
serve non conosciuto in casa del padre, e non si scopre
alla madre e alla sposa, e i servi gli danno le guanciate, e
lui umile e paziente. Questa vittoria sulla natura non fa
effetto, perchè in Alessio non ci è l’«homo sum», non ci
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
è lotta, non la coscienza del sacrifizio, parendo a lui naturale e facile esercizio di virtù quello che a noi uomini
pare cosa maravigliosa e quasi incredibile. L’innaturale
è in lui natura: perfezione ascetica, ma non artistica.
L’interesse comincia, quando la natura fa sentire il suo
grido, e col suo contrasto sublima il santo; quando, saputo il fatto, il pontefice con infinita moltitudine traendo a venerare il servo spregiato, si odono tra la folla queste grida: «Prestatemi la via, datemi loco, fate che io
vegga il figliuol mio, quello che ha succiato le mammelle
mie». E ragionando col cuore di madre, la donna accusa
il figlio e lo chiama «senza cuore», e poi nel suo dolore
lo glorifica e ricorda che i servi gli davano le guanciate.
Scene simili non sono scarse in queste Vite: ricorderò la
madre di Eugenia e Maria Maddalena, eloquentissima
nelle sue lacrime.
Una vera intenzione artistica si scorge nello Specchio
di penitenza di Iacopo Passavanti, una raccolta di prediche ridotte in forma di trattati morali, accompagnati con
leggende e visioni dell’altro mondo. Il frate mira a fare
effetto, inducendo a penitenza i fedeli con la viva rappresentazione de’ vizi e delle pene. La musa del Cavalca
è l’amore, e la sua materia è il paradiso, che tu pregusti
in quello spirito di carità e di mansuetudine, che comunica alla prosa tanta soavità e morbidezza di colorito. La
musa del Passavanti è il terrore, e la sua materia è il vizio
e l’inferno, rappresentato meno nel suo grottesco e nella
sua mitologia, che nel suo carattere umano, come il rimorso è il grido della coscienza. Intralciato e monotono
nel discorso, il suo stile è rapido, liquido pittoresco nel
racconto. Diresti che provi voluttà a spaventare e tormentare l’anima: cerca immagini, accessorii, colori, come istrumenti della tortura, e ti lascia sgomento e assediato da fantasmi. Il periodo spesso ben congegnato,
svelto e libero, la cura de’ nessi e de’ passaggi, la distribuzione degli accessorii e de’ colori, l’intelligenza delle
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
gradazioni, un sentimento di armonia cupo che accompagna lo spettacolo, fanno del Passavanti l’artista di
questo mondo ascetico.
Ma ecco fra tante vite di santi il santo in persona,
scrittore e pittore di sè medesimo, Caterina da Siena.
Abbandonata la madre e i fratelli, resasi monaca, macerato il corpo co’ cilizii e digiuni, vive una vita di estasi e
di visioni, e scrive in astrazione anzi dètta con una lucidità di spirito maravigliosa. Scrive a papi a principi, a re
e regine, come alla madre, a’ fratelli, a frati e suore,
dall’altezza della sua santità, con lo stesso tono di amorevole superiorità. Nelle più intricate faccende prende il
suo partito risolutamente, consigliando e quasi comandando quella condotta che le pare conforme alla dottrina di Cristo. Ho detto «pare», e dovrei dire «è»: perchè
nessun dubbio o esitazione è nel suo spirito, e le dottrine più astruse e mentali le sono così chiare e sicure come
le cose che vede e tocca. Ha la visione dell’astratto, e lo
rende come corpo, anzi fa del corpo la luce e la faccia di
quello. Indi un linguaggio figurato e metaforico, spesso
sazievole, talora continuato sino all’assurdo. È un po’ il
fare biblico; un po’ vezzo de’ tempi; ma è pure forma
naturale della sua mente. Vivendo in ispirito, le cose dello spirito le si affacciano palpabili e visibili come materia, e così come vede Cristo e angioli, vede le idee e i
pensieri. È una regione spirituale, divenutale per lungo
uso così familiare, che ne ha fatto il suo mondo e il suo
corpo. Questa chiarezza d’intuizione, accompagnata
con la squisita sensibilità e la perfetta sincerità della fede
le fanno trovare forme delicate e peregrine, degne di un
artista. Ma le spesse ripetizioni, l’esposizione didattica,
quell’incalzare di consigli, di esortazioni e di precetti
senza tregua o riposo rendono il libro sazievole e monotono.
In queste lettere di Caterina quel mondo morale, rappresentato nelle vite, nelle estasi, nelle visioni de’ santi, è
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
sviluppato come dottrina in tutta la sua rigidità ascetica.
È il codice d’amore della cristianità. La perfezione è
«morire a se stesso» secondo la sua frase energica, morire alla volontà, alle inclinazioni, agli affetti umani, sino
all’amore de’ figli, e tutto riferire a Dio, di tutto fare olocausto a Dio. Il suo amore verso Cristo ha tutte le tenerezze di un amore di donna, che si sfoga a quel modo, lei
inconscia. L’ultima frase di ogni sua lettera è: «Annegatevi, bagnatevi nel sangue di Cristo». Ardente è la sua
carità pel prossimo: «Amatevi, amatevi», grida la santa,
e predica pace, concordia, umiltà, perdono, voce inascoltata. La regina Giovanna rispondea alla santa con riverenza, e continuava la vita immonda. Lo scisma giungeva al sangue nelle vie di Roma. Più alto e puro era
l’ideale della santa, meno era efficace sugli uomini. La
sua vita si può compendiare in due parole: amore e morte. Celebre è la sua lettera sul condannato a morte, da lei
assistito negli ultimi momenti: «Teneva il capo suo sul
petto mio. Io allora sentivo un giubilo e un odore del
sangue suo; e non era senza l’odore del mio, il quale io
desidero di spandere per lo dolce sposo Gesù». Il sangue di Cristo la esalta, la inebbria di voluttà. Ad una serva di Dio scrive: «Inebriatevi del sangue, saziatevi del
sangue, vestitevi del sangue». «Sudare sangue», «trasformarsi nel sangue», «bere l’affetto e l’amore nel sangue», sono immagini di questo lirismo. Della cella «si fa
un cielo», e vi gusta «il bene degl’immortali, obumbrandola Dio di un gran fuoco d’amore». Nella estasi o visione o esaltazione di mente, è gittata giù, e le pare come se
l’anima sia partita dal corpo. Il corpo pareva quasi venuto meno. Le membra del corpo, dice Caterina, si sentivano dissolvere e disfare come la cera nel fuoco. E altrove: «Nel corpo a me non pareva essere, ma vedevo il
corpo mio come se fosse stato un altro». Questi ardori
d’anima, queste illuminazioni di mente, questi martìri
d’amore sono espressi con una semplicità ed evidenza,
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che testimoniano la sua sincerità. L’anima «innamorata
e ansietata d’amore, affocata» dal desiderio «crociato» o
della croce, «annegata la propria volontà» nell’amore
del «dolce e innamorato Verbo», vive nel corpo come
fosse fuori di quello. Posto il suo amore al di là della vita, vive morendo, dimorando con la mente al di là della
vita. Ma questa morte spirituale non l’appaga: «muoio e
non posso morire», dice la santa. Gli ultimi giorni furono battaglie con le dimonia e colloquii con Cristo, e a
trentatrè anni finì la vita, consumata dal desiderio.
La «Commedia dell’anima» è ora pienamente realizzata nel suo aspetto religioso, come espressione letteraria.
Quell’anima ora ha un nome, è una persona, Alessio,
Eugenia, Caterina. Il demonio e la carne sono un mondo
pieno di vita ne’ racconti del Passavanti. Quelle virtù allegoriche che escono in processione sulla scena sono le
opere, le volontà, le passioni e i pensieri de’ santi. E la
Divina Commedia, la trasfigurazione e la glorificazione
dell’anima, la Beatrice che torna bianca nuvoletta in cielo tra i canti degli angioli, qui sono estasi, rapimenti
dell’anima, colloquii con Dio, mistica unione con Cristo, e dopo la morte la santificazione e la contemplazione nell’eterna luce. Quel concetto è uscito dall’astrattezza della scienza e dell’allegoria, dalla sua vuota
generalità, e si è incarnato, è divenuto uomo.
La prosa italiana in questa letteratura acquista evidenza, colorito, caldezza di affetto, in un andar semplice
e naturale, specialmente quando vi si esprimono sentimenti dolci e ingenui. È perfetto esemplare di stile cristiano, guasto di poi. Alla sua perfezione manca un più
sicuro nesso logico, maggiore sobrietà e scelta di accessorii, ed una formazione grammaticale e meccanica più
corretta. Con lievi correzioni molti brani possono paragonarsi a ciò che di più perfetto è nella prosa moderna.
L’Imitazione di Cristo è certo prosa superiore, scritta in
tempo di maggior coltura. Ci è una maggiore virilità in-
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tellettuale, una logica più stretta, e pura di quella pedanteria scolastica che inseguiva i frati fino nel convento.
Ma non è superiore, quanto a quelle qualità organiche,
dove è il segreto della vita, la schiettezza dell’ispirazione
e il calore dell’affetto; e spesso in quella prosa, mirabile
di precisione e di proprietà, desideri l’energia e l’intuizione di Caterina.
Nè questa prosa era già fattura di un solo, o di pochi,
perchè la trovi anche ne’ minori che scrivevano delle cose dello spirito. Citerò una lettera di un discepolo di Caterina, che annunzia la sua morte:
«Credo che tu sappi come la nostra reverendissima e carissima mamma se ne andò in paradiso domenica, addì 29 di aprile
(1380); lodato ne sia il Salvatore nostro, Gesù Cristo crocifisso
benedetto. A me ne pare essere rimaso orfano, però che di lei
avevo ogni consolazione, e non mi posso tenere di piangere. E
non piango lei, piango me, che ho perduto tanto bene. Non
potevo fare maggiore perdita, e tu ’l sai... .Della mamma si vuol
fare allegrezza e festa, quanto che è per lei; ma di quelli suoi e
di quelle che sono rimasi in questa misera vita, ène da piangere
e da avere compassione grandissima. Con veruna persona mi
so dare dolore, quanto che con teco, che mi fusti cagione di acquistare tanto bene. Prendo alcuno conforto, perchè nel mio
cuore ène rimasa e incarnata la mamma nostra assai più che
non era in prima; e ora me la pare bene conoscere. Chè noi miseri ne avevamo tanta copia, che non la conoscevamo e non savamo degni della sua presenzia... . Carissimo fratello, io sono
fatto tanto smemoriato del bene che ho perduto, ch’io ti scrivo
anfanando. E però di ciò non ti scrivo più.»
Lo stesso stile è in Giovanni dalle Celle, Stefano Maconi e altri frati. Ecco in che modo commovente e semplice sono raccontati alcuni particolari della fine di Caterina:
«Nella domenica di sessaggesima svenne, e perdè il vigore
di sanità, mantenutole dalla forza dello spirito, e che non pareva scemarsi per inedia. Il dì poi, un altro svenimento la lasciò
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
lungamente come morta: se non che, risentitasi, stette in piede
come se nulla fosse. Cominciò la quaresima colle solite pratiche, esercizio a lei di consolazioni angosciose. Ogni mattina,
dopo la comunione le è forza rimettersi, sfinita, a letto. Di lì a
due ore usciva a San Pietro un buon miglio di strada, e lì stava
orando infino a vespro. Così fino alla terza domenica di quaresima, quando il male la spossò. E per otto settimane giacque
senza potere alzare il capo, tutta dolori. A ogni nuovo spasimo
alzando il capo, ne ringraziava Iddio lieta. Alla domenica innanzi l’Ascensione, Il corpo non era omai più che uno scheletro, nel mezzo in giù senza moto, ma nel volto raggiante la vita.
Debole; un alito di respiro; pareva in fine; e le fu data l’estrema
unzione.»
Questa eccellenza di dettato trovi pure ne’ volgarizzamenti de’ classici o di romanzi e storie allora in voga, come sono i volgarizzamenti di Livio e di Sallustio, i Fatti
di Enea, gli Ammaestramenti degli antichi, voltati da
Bartolomeo da San Concordio con un nerbo ed una vigoria degna del traduttore di Sallustio. È una prosa
adulta, spedita, calda, immaginosa, spesso colorita, con
tutto l’andare di lingua viva e parlata, già nel suo fiore.
I romanzi operavano sul popolo non meno vivamente
che la letteratura spirituale. Nella sua immaginazione si
confondea il cavaliere di Cristo e il cavaliere di Carlomagno, e con la stessa avidità leggea la vita di Alessio e i
fatti di Enea, e gli amori di Lancillotto e Ginevra. Caterina trae dalla cavalleria molte sue immagini. Chiama
Cristo un «dolce cavaliere», «cavaliere dolcemente armato»; chiama la Redenzione un «torneo della morte
colla vita». Ma la letteratura cavalleresca rimase stazionaria e non produsse alcun lavoro originale. Le traduzioni sono fatte senza intenzione seria, in prosa scarna e
trascurata, posto il diletto nel maraviglioso de’ fatti. Agli
stessi traduttori è materia frivola, buona per passare il
tempo, e non vi partecipano, non sentono colà dentro il
loro mondo e la loro vita.
Accanto a questo mondo dello spirito e dell’immagi-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
nazione c’era il mondo reale, il mondo della carne o della vita terrena, come si dicea, che si potea maledire, ma
non uccidere. Era la cronaca, memoria dì per dì de’ fatti
che succedevano, inanime come il dizionario, o come la
lista delle spese. Quelli che ne scrivevano con qualche
intenzione artistica, la dettavano in latino e la chiamavano storia. Latini erano anche i trattati scientifici e i lavori propriamente d’arte. Quella letteratura spirituale e cavalleresca rimanea circoscritta al popolo ed era tenuta in
poco conto da’ dotti. Costoro spregiavano il volgare, come buono solo a dir d’amore e di cose frivole, e le gravi
faccende della vita le trattavano in latino. Di questi illustre per ingegno, per coltura e per patriottismo fu Albertino Mussato, coronato poeta in Padova, sua patria.
Abbiamo di lui molte opere, alcune ancora inedite.
Scrisse in quattordici libri De gestis Henrici septimi Caesaris, e anche De gestis italicorum post mortem Henrici
septimi, in dodici libri, de’ quali alcuni sono in versi esametri. Fece epistole, egloghe, elegie e due tragedie,
l’Achilleis e l’Eccerinis. Quest’ultima rappresenta la tirannide di Ezzelino, creduto per la sua ferocia figlio del
demonio, e la vittoria de’ comuni collegati contro di lui.
È narrazione più che azione, come ne’ misteri, un narrare serrato e nervoso, le cui impressioni patetiche e morali sono espresse dal coro. Sotto a quel latino ossuto e
asciutto palpita l’anima del medio evo. Senti una società
ancor rozza, selvaggia negli odii e nelle vendette, senza
misura nelle passioni, poco riflessiva, di proporzioni
epiche anche in forma drammatica. Il carattere di Ezzelino non è sviluppato in modo che n’esca fuori un personaggio drammatico. Egli rimane ravvolto nel suo manto
epico, come Farinata. È figlio de demonio, e lo sa e se ne
gloria, e opera come genio del male, con piena coscienza: ciò che gli dà proporzioni colossali. Invoca il padre e
dice:
Nullis tremiscet sceleribus fidens manus;
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
annue, Satan, et filium talem proba.
E quest’uomo rimane così intero e tutto di un pezzo:
manca l’analisi, senza di cui non è dramma. Il concetto
della tragedia è più morale che politico, quantunque il
fatto sia altamente politico, rappresentando la lotta tra i
comuni liberi e i tirannetti feudali. Certo, in Mussato c’è
il guelfo e ci è il padovano, che l’ispira e l’appassiona.
Ma il motivo tragico è affatto morale. Ezzelino è punito
non perchè offende la libertà, ma perchè opera scelleratamente, e «qui gladio ferit, gladio perit»: ciò che è in
bocca al coro la conclusione del fatto:
Consors operum
meritum sequitur quisque suorum.
È il concetto ascetico dell’inferno applicato anche alla
vita terrestre. Questa nella sua prima apparizione letteraria è ancora nella sua generalità morale, non è sviluppata nei suoi interessi, ne’ suoi fini, nelle sue passioni e
nelle sue idee politiche: di che solo può nascere il dramma. Il senso del reale era ancora troppo scarso, perchè il
dramma fosse possibile. Non ci è il sentimento collettivo
non il partito e non la società: ci è l’individuo appena
analizzato, rappresentato buono o cattivo e retribuito
secondo le opere, forma elementare della vita reale. Il
feroce e il grottesco delle pene infernali hanno qui un riscontro nelle immani crudeltà di Ezzelino e nella immane punizione.
Questo concetto morale, ancorchè non ancora penetrato e sviluppato in tutti gli aspetti della vita, pure non
è più un motto, un proverbio, un ammaestramento, un
«fabula docet», una esposizione didattica in prosa o in
verso, come nel secolo scorso, ma la vita in atto, con
tutt’i caratteri della personalità, così nella vita contemplativa come nella vita attiva, così nel carbonaio del Passavanti come nell’Ezzelino del Mussato.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Onori straordinari furono conferiti al Mussato, tenuto pari a’ classici, quando i classici erano ancora così poco noti. Anche Venezia ebbe i suoi latinisti, che scrissero
la sua storia, Andrea Dandolo e Martin Sanuto. Nell’Italia settentrionale abbondano le cronache latine. Il volgare vi si era poco sviluppato. E dappertutto teologia, filosofia, giurisprudenza, medicina era insegnata e trattata
in latino. Scrissero le loro opere in questa lingua Marsilio da Padova, Cino da Pistoia, Bartolo e Baldo.
Ma in Toscana il Malespini avea già dato l’esempio di
scrivere la cronaca in volgare. E Dino Compagni seguì
l’esempio, scrivendo in volgare i fatti di Firenze dal
1270 al 1312. Attore e spettatore, prende una viva partecipazione a quello che narra, e schizza con mano sicura
immortali ritratti. Non è questa una cronaca, una semplice memoria di fatti: tutto si move, tutto è rappresentato e disegnato, costumi, passioni, luoghi, caratteri, intenzioni, e a tutto lo scrittore è presente, si mescola in
tutto, esprime altamente le sue impressioni e i suoi giudizi. Così è uscita di sotto alla sua penna una storia indimenticabile.
Questa storia è una immane catastrofe. Da lui preveduta
e non potuta impedire. E non si accorge che di quella
catastrofe cagione non ultima fu lui. O piuttosto ne ha
un’oscura coscienza, quando con quel tale «senno di
poi» dice: – Oh se avessi saputo! Ma chi poteva pensare? – Ma Dino peccò per soverchia bontà d’animo; gli
altri peccarono per malizia, e Dino li flagella a sangue.
Era Bianco; ma più che Bianco, era onesto uomo e patriota. Gli pareva che que’ Neri e que’ Bianchi, quei Donati e quei Cerchi, non fossero divisi da altro che da gara d’uffici, e gli parea che, partendo ugualmente gli
uffici, quelle discordie avessero a cessare. Gli parea pure
che tutti amassero la città, come facea lui, e fossero
pronti per la sua libertà e il suo decoro a fare il sacrificio
de’ loro odii e delle loro cupidigie. E gli parea che uomo
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
di sangue regio non potesse mentire nè spergiurare, e
che nessuno potesse mancare alle promesse, quando
fossero messe in carta. E anche questo gli parea, che gli
amici stessero saldi intorno a lui e che ad un suo cenno
tutti gli avessero ad ubbidire. Che cosa non parea al
buon Dino? E con queste opinioni si mise al governo
della repubblica. È la prima volta che si trova in presenza la morale com’era in Albertano giudice e come fu poi
in Caterina, la morale de’ libri e la morale del mondo. E
la contraddizione balza fuori con tutta l’energia di una
prima impressione. Il brav’uomo al contatto del mondo
reale cade di disinganno in disinganno, e ciascuna volta
rivela la sua ingenuità con un accento di maraviglia e
d’indignazione. Immaginatevelo alle prese con Bonifazio ottavo, Carlo di Valois e Corso Donati, ciò che di
più astuto e violento era a quel tempo. L’energia del
sentimento morale offeso è il secreto della sua eloquenza. Qui non ci è nessuna intenzione letteraria: la narrazione procede rapida, naturale, sino alla rozzezza. Vi è
un materiale crudo e accumulato e mescolato, senza ordine o scelta o distribuzione; ignota è l’arte del subordinare e del graduare; mancano i passaggi e le giunture; il
fatto è spesso strozzato; spesso il colorito è un po’ risentito e teso difetti di composizione gravi. Pure le qualità
essenziali che rendono un libro immortale stanno qui
dentro, la sincerità dell’ispirazione, l’energia e la purità
del sentimento morale, la compiuta personalità dello
scrittore e del tempo, la maraviglia, l’indignazione, il dolore, la passione del cronista, che comunica a tutto moto
e vita. In tempi meno torbidi, Giovanni Villani scrisse la
sua Cronaca di Firenze sino al 1348, continuata dal fratello Matteo e dal nipote Filippo. Mira a dar memoria
de’ fatti, pigliandoli dove li trova, e spesso copiando o
compendiando i cronisti che lo precessero. Sono nudi
fatti, raccolti con scrupolosa diligenza, anche i più minuti e familiari, della vita fiorentina, come le derrate, i
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
drappi, le monete, i prestiti: materiale prezioso per la
storia. Ma questa cruda realtà, scompagnata dalla vita
interiore che la produce, è priva di colorito e di fisonomia e riesce monotona e sazievole.
La Cronaca di Dino e le tre Cronache de’ Villani comprendono il secolo. La prima narra la caduta de’ Bianchi, le altre raccontano il regno de’ Neri. Tra, vinti erano
Dino e Dante. Tra, vincitori erano i Villani. Questi raccontano con quieta indifferenza, come facessero un inventario. Quelli scrivono la storia col pugnale. Chi si appaga della superficie, legga i Villani. Ma chi vuol
conoscere le passioni, i costumi, i caratteri, la vita interiore da cui escono i fatti, legga Dino.
Finora non abbiamo creduto necessario di entrare nel
vivo della storia, perchè gli scrittori, o ascetici o cavallereschi o didattici, scrivono come segregati dal mondo.
Ma Dino vive nel mondo e col mondo; i fatti che racconta sono i fatti suoi, parte della sua vita, e la sua Cronaca è
lo specchio del tempo, non nelle regioni astratte della
scienza o nel fantastico della cavalleria e dell’ascetica,
ma nella realtà della vita pubblica.
I partiti che straziavano Firenze con nomi venuti da
Pistoia erano detti i Neri e i Bianchi, gli uni capitanati
da’ Donati e gli altri da’ Cerchi, famiglie potentissime di
ricchezza e di aderenze. Dante sperò di poter pacificare
la città, mandando in esilio i due più potenti e irrequieti
capi delle due fazioni, Corso Donati e Guido Cavalcanti. Venuto malato, il Cavalcanti fu richiamato, ma non
Corso Donati: di che si menò molto scalpore, massime
che Dante era Bianco e amico del Cavalcanti.
I Neri erano guelfi puri, e si appoggiavano sui popolani e sul papa, vicino, influente, e centro di tutti gl’intrighi e le cospirazioni guelfe. Bonifazio ottavo, venuto dopo il giubileo in maggior superbia, avea chiamato a sè
con molte promesse Carlo di Valois, detto per dispregio
«senza terra», e mandatolo a Firenze sotto colore di pa-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
cificare la città, ma col proposito di ristorarvi la parte
nera. Qui comincia il dramma, esposto con sì vivi colori
dal nostro Dino nel libro secondo.
Dante si lasciò persuadere di andare legato a Roma.
Si dice abbia detto: – Se io vado, chi resta? – Restò il povero Dino. Certo, l’opera di Dante sarebbe stata più utile a Firenze, dove lasciò il campo libero agli avversari. A
Roma fu tenuto con belle parole da Bonifazio e non
concluse nulla.
Dino comincia il racconto con stile concitato. Sembra
un profeta o un predicatore che tuoni sopra Gomorra o
Gerosolima:
«Levatevi, o malvagi cittadini, pieni di scandali, e pigliate il
ferro e il fuoco con le vostre mani e distendete le vostre malizie. Non penate più: andate e mettete in ruina le bellezze della
vostra città. Spandete il sangue de’ vostri fratelli, spogliatevi
della fede e dell’amore; nieghi l’uno all’altro aiuto e servigio.
Credete voi che la giustizia di Dio sia venuta meno? Pur quella
del mondo rende una per una... Non v’indugiate, o miseri: chè
più si consuma un dì nella guerra, che molti anni non si guadagna in pace, e piccola è quella favilla che a distruzione mena un
gran regno.»
Qui non ci è l’uomo politico. Ci è la realtà vista da un
aspetto puramente morale e religioso, come gli ascetici;
il concetto è lo stesso; la materia è diversa. Considerata
così, la realtà riesce al buon Dino altra che non pensava,
e in luogo di riconoscere il suo errore, se la prende con
la realtà e la maledice. I suoi errori nascono dal concetto
falso che avea degli uomini e delle cose, sì che divenne il
trastullo degli uni e degli altri, perdette lo stato e fu calunniato, come avviene a’ vinti. Allora prende la penna,
e li maledice tutti, Neri e Bianchi, raccontando i fatti
con tale ingenuità che se le male passioni degli altri son
manifeste, non è men chiara la sua soverchia bontà.
Mentre gli ambasciatori armeggiano con Bonifazio,
largo promettitore purchè «sia ubbidita la sua volontà»,
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
furono in Firenze eletti i nuovi signori, e Dino fu di
quelli. Piacque la scelta, perchè «uomini non sospetti e
buoni, e senza baldanza, e avevano volontà d’accomunare gli uffici, dicendo: – Questo è l’ultimo rimedio».
Questo è il giudizio che porta Dino di sè e de’ suoi colleghi. Ma i loro avversari «n’ebbono speranza», perchè li
conosceano «uomini deboli e pacifici, i quali sotto spezie di pace credeano leggiermente di poterli ingannare».
Che buon Dino! Egli stesso pronunzia la sua sentenza.
I Neri «a quattro e a sei insieme, preso accordo fra loro», li andavano a visitare e diceano: «Voi siete buoni
uomini e di tali avea bisogno la nostra città. Voi vedete
la discordia de’ cittadini vostri: a voi la conviene pacificare, o la città perirà. Voi siete quelli che avete la balìa, e
noi a ciò fare vi profferiamo l’avere e le persone di buono e leale animo». E benchè «di così false profferte dubitassero, credendo che la loro malizia coprissero con
falso parlare», pure Dino per commessione de’ suoi
compagni rispose: «Cari e fedeli cittadini, le vostre profferte noi riceviamo volentieri, e cominciar vogliamo a
usarle: e richieggiamvi che voi ci consigliate, e pogniate
l’animo a guisa che la nostra città debba posare». Che
scellerati! E che buoni uomini! Non si può meglio rappresentare la malizia degli uni e l’innocenza degli altri.
Scrivendo dopo i fatti, Dino si picchia il petto e dice il
mea culpa: «E così perdemmo il primo tempo, perchè
non ardimmo a chiudere le porte, nè a cessare l’udienza
ai cittadini. Demmo loro intendimento di trattar pace,
quando si convenia arrotare i ferri».
Poichè si trattava la pace, i Bianchi smessero dalle offese e i Neri presero baldanza. E Dino confessa questo
primo effetto della sua bontà: «La gente, che tenea co’
Cerchi, ne prese viltà, dicendo: – Non è da darsi fatica,
chè pace sarà. – E i loro avversari pensavano pur di
compiere le loro malizie».
La voce che Bonifazio ottavo si fosse chiarito contra-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
rio a’ Cerchi e che Carlo di Valois veniva in Firenze, dovea aver tanto imbaldanzito i Neri, che a costoro pareva
un atto di debolezza e di paura quello che in Dino era
ispirato da sincero amore di concordia. E quelle pratiche di pace spacciavano covare sotto un tradimento. La
forza materiale era ancora in mano di Dino; ma la forza
morale passava agli avversari, più audaci, e confidenti in
vicina vittoria. Già ci era un’altra aria in città. Non pur
gl’indifferenti, ma anche noti seguaci de’ Cerchi mutavano lingua. Sicchè l’oratore di Carlo riferì che «la parte
de’ Donati era assai innalzata e la parte de’ Cerchi era
assai abbassata», veggendo come dopo le sue parole
«molti dicitori si levarono in piè affocati per dire e magnificare messer Carlo».
Dino, volendo negare l’ingresso a Carlo e non osando
prendere su di sè la cosa, «essendo la novità grande», si
rimise al suffragio de’ suoi concittadini. Fu un plebiscito
fatto dal debole e che riuscì in favore de’ forti: solito costume de’ popoli, e il buon Dino nol sapea. I soli fornai
si mostrarono uomini, dicendo che «nè ricevuto, nè
onorato fusse, perchè venìa per distruggere la città».
Dino credette trovare il rimedio, chiedendo a Carlo
«lettere bollate, che non acquisterebbe ... niuna giurisdizione, nè occuperebbe niuno onore della città nè per titolo d’imperio, nè per altra cagione, nè le leggi della
città muterebbe, nè l’uso». Dino pensava che Carlo non
farebbe la lettera, e provvide che il passo gli fosse negato
e «vietata la vivanda». Ma la lettera venne, e «io la vidi e
fecila copiare, e quando fu venuto, io lo domandai se di
sua volontà era scritta. Rispose: – Sì, certamente –». Ora
che Dino ha la lettera in tasca, può viver sicuro.
E gli viene «un santo e onesto pensiero, immaginando: Questo signore verrà, e tutt’i cittadini troverà divisi,
di che grande scandalo ne seguirà». Onde li rauna nella
chiesa di San Giovanni, e loro fa un fervorino, perchè
«sopra quel sacrato fonte onde trassero il santo battesi-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
mo», giurino buona e perfetta pace. Le parole di Dino
sono di quella eloquenza semplice e commovente che
viene dal cuore. In quei tempi di lotte così accese il sentimento della concordia era tanto più vivo negli animi
buoni e onesti, da Albertano a Caterina. E non so che in
Caterina si trovino parole nella loro semplicità così affettuose come queste di Dino: «Signori, perchè volete
voi confondere e disfare una così buona città? Contro a
chi volete pugnare? Contro a’ vostri fratelli? Che vittoria avrete? Non altro che pianto».
Tutti giurarono; e Dino aggiunge con amarezza: «I malvagi cittadini, che di tenerezza mostravano lacrime, e
baciavano il libro, ... furono i principali alla distruzione
della città». Povero Dino! E si affligge il brav’uomo e si
pente, e «di quel sacramento molte lacrime sparsi, pensando quante anime ne sono dannate per la loro malizia».
Carlo quintoenne, e diètrogli, dicendo che venìano a
onorare il signore, lucchesi, perugini, e Cante d’Agobbio e molti altri, a sei e dieci per volta, tutti avversari de’
Cerchi: e «ciascuno si mostrava amico». Dino fece il
ponte d’oro al nemico che entra, contro il proverbio. E
Carlo ebbe in Firenze milledugento cavalli.
Che fa Dino? Sceglie quaranta cittadini di amendue le
parti, perchè provveggano alla salvezza della terra. Ciò
che ci era negli animi è qui scolpito in pochi tratti:
«Quelli che avevano reo proponimento, non parlavano;
gli altri aveano perduto il vigore. Baldino Falconieri,
uom vile, dicea: – Signori, io sto bene, perchè io non
dormia sicuro». Lapo Saltarelli, per riamicarsi il papa,
ingiuria la Signoria, e tiene in casa nascosto un confinato. Albertano del Giudice monta in ringhiera, e biasima
i signori. Pare coraggio civile, ed è viltà e diserzione. I
nemici tacciono. Gli amici ingiuriano, per farsi grazia.
Cominciano i tradimenti. «I priori scrissero al papa se-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
gretamente; ma tutto seppe la parte nera, perocchè
quelli che giurarono credenza non la tennono».
Alfine Dino si risolve ad accomunare gli uffici, parlando «umilmente e con gran tenerezza» dello scampo
della città. Ma era troppo tardi. I Neri non volevano
parte, ma tutto.
«E Noffo Guidi parlò e disse: – Io dirò cosa che tu mi terrai
crudele cittadino. – E io li dissi che tacesse: e pur parlò, e fu di
tanta arroganza, che mi domandò che mi piacesse far la loro
parte nell’ufficio, maggiore che l’altra; che tanto fu a dire,
quanto: – Disfa’ l’altra parte – e me porre nel luogo di Giuda.
E io li risposi che innanzi io facessi tanto tradimento, darei i
miei figliuoli a mangiare a’ cani.»
Carlo quintoolea in mano i Signori, e li facea spesso
invitare a mangiare. E quelli si ricusavano, adducendo
che la legge li costringea che fare non lo potevano; ma
era «perchè stimavano che contro a loro volontà li
avrebbe ritenuti». Un giorno disse che in Santa Maria
Novella fuori della terra volea parlamentare, e che piacesse alla Signoria esservi. Dino vi mandò tre soli de’
compagni: «a’ quali niente disse, come colui che non volea parole, ma sì uccidere».
«Molti cittadini si dolsono con noi di quella andata, parendo loro che andassono al martirio. E quando furono tornati,
lodavano Dio, che da morte gli avea scampati.»
Volevano, se la Signoria vi fosse ita tutta, «ucciderli
fuori della porta e correre la terra per loro». E Dino che
facea?
C’è un brano stupendo, che è una pittura. Vedi come
Dino passava i giorni; la sua incapacità e i suoi affanni:
«I Signori erano stimolati da ogni parte. I buoni diceano che
guardassero ben loro, e la loro città. I rei li contendeano con
quistioni. E tra le domande e le risposte il dì se ne andava. I ba-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
roni di messer Carlo gli occupavano con lunghe parole. E così
viveano con affanno.»
Un rimedio gli è suggerito da frate Benedetto: – Fate
fare processione, e del pericolo cesserà gran parte –. E
Dino fece la processione, e molti lo schernirono, dicendo che «meglio era arrotare i ferri». E Dino conchiude,
parlando di sè e de’ colleghi: «Niente giovò, perchè usarono modi pacifici, e voleano essere repenti e forti.
Niente vale l’umiltà contro alla grande malizia».
Tutto ti è messo sott’occhio, come in una rappresentazione drammatica. Vedi i Neri in istrada, corrompere,
far gente, mostrare la loro potenza. Diceano:
«– Noi abbiamo un signore in casa; il papa è nostro protettore; gli avversari nostri non sono guerniti nè da guerra, nè da
pace; danari non hanno; i soldati non sono pagati. –»
E misero in ordine «tutto ciò che a guerra bisognava,
... invitati molti villani d’attorno e tutti gli sbanditi». I
Neri si armavano; i Bianchi no, perchè era contro la legge, e Dino minacciava di punirli. E ora che scrive, a scolparsi nota che fu per avarizia, perchè fece dire a’ Cerchi:
«– Fornitevi, e ditelo agli amici vostri –».
I Neri, «conoscendo i nemici loro vili e che aveano
perduto il vigore», vengono a’ ferri. I Medici lasciano
per morto Orlandi, un valoroso popolano. Si grida a’
priori: – Voi siete traditi, armatevi –.
Ecco finalmente sventolare sulle finestre il gonfalone
di giustizia. Molti vanno nascosamente ... dal lato di parte nera. Ma traggono alla Signoria i soldati che non erano corrotti, e altre genti, e amici a piè e a cavallo. Era il
momento di operare con vigore. Ma «i Signori non usi a
guerra erano occupati da molti che voleano essere uditi;
e in poco stante si fe’ notte». Il podestà non si fe’ vivo. Il
capitano non si mosse, come «uomo più atto a riposo e a
pace che a guerra.» «La raunata gente non consigliò». Il
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
giorno finì: e non si concluse nulla, e la gente stanca se
ne andò, e ciascuno pensò a se stesso. E Dino cosa facea? Dava udienza.
I Neri lusingavano e indugiavano i Bianchi con buone
parole.
Li Spini diceano alli Scali:
«– Deh! Perchè facciamo noi così? Noi siamo pure amici e
parenti e tutti guelfi; noi non abbiamo altra intenzione che di
levarci la catena di collo, che tiene il popolo a voi e a noi. E saremo maggiori che noi non siamo. Mercè per Dio, siamo una
cosa, come noi dovemo essere. – ... Quelli che riceveano tali
parole, s’ammollavano nel cuore, e i loro seguaci invilirono».
I ghibellini, credendosi abbandonati, si smarrirono, e gli
sbanditi si avvicinavano alla città. Come farli entrare?
Carlo primonstava presso la Signoria, perchè si desse a
lui la guardia della città e delle porte: che farebbe de’
malfattori aspra giustizia. E sotto questo nascondea la
sua malizia, nota l’arguto Dino. Ma l’arguto Dino gli dà
la guardia delle porte d’Oltrarno! Bisogna proprio sentir lui:
«Le chiavi gli furono negate, e le porte di Oltrarno gli furono raccomandate, e levati ne furono i fiorentini, e furonvi messi i franciosi. E il cancelliere e il manescalco di messer Carlo
giurarono nelle mani a me Dino ricevente per lo comune.... E
mai credetti che un tanto signore e della casa reale di Francia
rompesse la sua fede: perchè passò piccola parte della seguente
notte che per la porta che noi gli demmo in guardia, die’ l’entrata a ... molti ... sbanditi.»
Fatta la breccia, entrano gli altri. E i signori, venuta
meno tutta la loro speranza, «deliberarono, quando i villani fossero venuti in loro soccorso, prendere la difesa.»
Che erà quel prender tempo e non risolversi degli animi
deboli. Furono vinti senza combattere. Tutti si gettarono là dov’era la forza:
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
«I malvagi villani gli abbandonarono... e i ... famigli li tradirono.... Molti soldati si volsono a servire i loro avversari. Il podestà ... andava procurando in aiuto di messer Carlo.»
Carlo manda i suoi a’ priori, «per occupare il giorno e
il loro proponimento con lunghe parole». Giuravano
che il loro signore si tenea tradito», e che farebbe la vendetta grande. – Tenete per fermo che se il nostro signore
non ha cuore di vendicare il misfatto a vostro modo, fateci levare la testa. – E ora che scrive, Dino aggiunge: «E
non giurò messer Carlo primol vero, perchè [Corso Donati] di sua saputa venne».
Carlo è pronto ad armare i suoi cavalieri e vendicare il
comune, ma ad un patto, che si dieno a lui in custodia i
più potenti uomini delle due parti. E Dino consente.
«I Neri vi andarono con fidanza, i Bianchi con temenza.
Messer Carlo li fece guardare; i Neri lasciò partire, ma i Bianchi ritenne presi quella notte senza paglia e senza materasse,
come uomini micidiali.»
Qui Dino non ne può più e prorompe:
«O buono re Luigi, che tanto temesti Iddio, ov’è la fede della real casa di Francia, caduta per mal consiglio, non temendo
vergogna? O malvagi consiglieri, che avete il sangue di così alta
corona fatto non soldato, ma assassino, imprigionando i cittadini a torto, e mancando della sua fede, e falsando il nome della real casa di Francia!»
L’indignazione è uguale alla maraviglia del buon uomo. Come pensare che il sangue di san Luigi, un Reale
di Francia, fosse spergiuro e assassino?
Quando non ci era più il rimedio, si corse al rimedio.
Dino fa sonare la campana grossa, che era un chiamare
alle armi. Ma nessuno uscì: «La gente sbigottita non
trasse di casa i Cerchi. Non uscì uomo a cavallo, nè a pie
armato».
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Anche il cielo vi si mescola. Apparisce una croce vermiglia sopra il palagio de’ priori:
«Onde la gente che la vide, e io che chiaramente la vidi, potemmo comprendere che Dio era fortemente contro alla nostra
città crucciato.»
La città per sei giorni fu messa a ruba. In pochi tocchi
ti sta innanzi il quadro:
«Gli uomini che temeano i loro avversari si nascondeano
per le case de’ loro amici. L’uno nimico offendea l’altro; le case
si cominciavano ad ardere; le ruberie si faceano, e fuggivansi
gli arnesi alle case degl’impotenti. I Neri potenti domandavano
danaro a’ Bianchi; maritavansi le fanciulle a forza; uccideansi
uomini; e quando una casa ardea forte, messer Carlo domandava: – Che fuoco è quello? – Eragli risposto che era una capanna, quando era un ricco palazzo.»
I priori, multiplicando il mal fare, e non avendo rimedio, lasciarono il priorato. E venne al governo la parte
nera.
Dino fu il Pier Soderini di quel tempo, e fu a se stesso
il suo Machiavelli. Nessuno può dipingerlo meglio che
non fa egli medesimo.
In questa maravigliosa cronaca non ci è una parola di
più. Tutto è azione, che corre senza posa sino allo scioglimento. Ma è azione, dove paion fuori caratteri e passioni. Un motto, un tratto è un carattere. Carlo, dopo di
aver tratto da’ fiorentini molti danari, va a Roma e chiede danari a Bonifazio. – Ma io ti ho mandato alla fonte
dell’oro, – risponde il papa. È una risposta, che è un ritratto dell’uno e dell’altro. I discorsi sono sostanziosi,
incisivi, non meno pittoreschi: vedi personaggi vivi, con
la loro natura e i loro intendimenti, e fanno più effetto
che non le studiate e classiche orazioni venute poi. Uomo d’impressione più che di pensiero, Dino intuisce uo-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
mini e cose a prima vista, e ne rende la fisonomia che
non la puoi dimenticare. Di Bonifazio ottavo dice:
«Fu di grande ardire e alto ingegno, e guidava la Chiesa a
suo modo, e abbassava chi non li consentia.»
Di Corso Donati fa questo magnifico ritratto:
«Un cavaliere della somiglianza di Catilina romano, ma più
crudele di lui, gentile di sangue, bello del corpo, piacevole parlatore; adorno di belli costumi, sottile d’ingegno, coll’animo
sempre intento a mal fare (col quale molti masnadieri si raunavano, e gran sèguito avea) molte arsioni e molte ruberie fece fare;... molto avere guadagnò e in grande altezza salì. Costui fu
messer Corso Donati che per sua superbia fu chiamato il barone, che, quando passava per la terra, molti gridavano: – Viva il
barone. – E parea la terra sua. La vanagloria il guidava e molti
servigi facea.»
La stessa sicurezza è nella rappresentazione delle cose. Rapido, arido, tutto fatti, che balzan fuori coloriti
dalle sue vivaci impressioni, dalla sua maraviglia, dalla
sua indignazione. Una cosa soprattutto lo colpisce, che
«molte lingue si cambiarono in pochi giorni». Non vi si
sa rassegnare, e li chiama ad uno ad uno, e ricorda loro
quello che diceano e quello che erano. Il mutarsi
dell’animo secondo gli eventi non gli potea entrare:
«Donato Alberti, ... dove sono le tue arroganze, che ti nascondesti in una vile cucina? O messer Lapo Salterelli, minacciatore e battitore de’ rettori che non ti serviano nelle tue quistioni, ove t’armasti? In casa i Pulci, stando nascoso, ... O
messer Manetto Scali, che volevi esser tenuto sì grande e temuto, ove prendesti le armi? ... O voi popolani, che desideravate
gli ufici e succiavate gli onori, e occupavate i palagi de’ rettori,
ove fu la vostra difesa? Nelle menzogne, simulando e dissimulando, biasimando gli amici e lodando i nemici, solamente per
campare. Adunque piangete sopra voi e la vostra città.»
I soliti fenomeni delle rivoluzioni brutali e ingenerose
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
sono da lui rappresentati con lo stesso accento di maraviglia, come di cose non viste mai, e svegliano nel suo
animo onesto una indignazione eloquente. Ed è da quei
sentimenti che è uscito questo capolavoro di descrizione:
«Molti nelle pie opere divennero grandi, i quali avanti nominati non erano, e nelle crudeli opere regnando, cacciarono
molti cittadini e feciongli rubelli, e sbandeggiarono nell’avere e
nella persona. Molte magioni guastarono, e molti ne puniano,
secondo che tra loro era ordinato e scritto. Niuno ne campò
che non fosse punito. Non valse parentado nè amistà; nè pena
si potea minuire, nè cambiare a coloro a cui determinate erano.
Nuovi matrimoni niente valsero, ciascuno amico divenne nimico; i fratelli abbandonavano l’un l’altro, il figliuolo il padre,
ogni amore, ogni umanità si spense. ... Patto, pietà nè mercè in
niuno mai si trovò. Chi più dicea: – Muoiano, muoiano i traditori –, colui era il maggiore.»
Tra’ proscritti fu Dante. Condannato in contumacia,
non rivide più la sua patria. Ira, vendetta, dolore, disdegno, ansietà pubbliche e private, tutte le passioni che
possono covare nel petto di un uomo, lo accompagnarono nell’esilio. Chi ha visto l’indignazione di Dino, può
misurare quella di Dante.
Il priorato fu il principio della sua rovina, com’egli dice,
ma fu anche il principio della sua gloria. Non era uomo
politico; mancavagli flessibilità e arte di vita; era tutto
un pezzo, come Dino. Priore, volle procurare una concordia impossibile, e non riuscì che a farsi ingannare da’
Neri in Firenze e da Bonifazio in Roma. Esule, non valse
a mantenere quella preminenza che era debita al suo ingegno e alla sua virtù, si lasciò soverchiare da’ più audaci e arrischiati, e non potendo impedire e non volendo
accettare molti disegni, si segregò e si fece parte per se
stesso. Toltosi alle faccende pubbliche, ripiegatosi in sè,
sviluppò tutte le sue forze intellettive e poetiche.
Dopo la morte di Beatrice erasi dato con tale ardore
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
allo studio che la vista ne fu debilitata. Finisce la Vita
Nuova con la speranza «di dire di lei quello che non fu
mai detto di alcuna». E fece di questo suo primo e solo
amore «la bellissima e onestissima figlia dell’Imperatore
dell’universo, alla quale Pitagora pose nome Filosofia».
Frutto di questi nuovi studi furono le sue canzoni allegoriche e scientifiche.
Tra questi studi nacque la seconda Beatrice, luce spirituale, unità ideale, l’amore che congiunge insieme intelletto e atto, scienza e vita. Intelletto, amore, atto, era
questa la trinità, che fu il suo secondo amore, la sua filosofia. Beatrice divenne un simbolo, e la poesia vanì nella
scienza.
Quel mondo lirico, che a noi pare troppo astratto,
parve poco spirituale ai contemporanei, che chiamavano
«sensuale» quel primo amore di Dante, e poco intendevano questo suo secondo amore. E Dante, per cessare
da sè l’infamia e per mostrare la dottrina «nascosa sotto
figura di allegoria», volle illustrare e comentare le sue
canzoni egli medesimo.
Era dottissimo. Teologia, filosofia, storia, mitologia,
giurisprudenza, astronomia, fisica, matematica, rettorica, poetica, di tutto lo scibile avea notizia e non superficiale: perchè di tutto parlò con chiarezza e con padronanza della materia. Il disegno gli si allargò: al poeta
tenne dietro lo scienziato; e pensò di chiudere in quattordici trattati, quante erano le canzoni, tutta la scienza
nella sua applicazione alla vita morale. Un lavoro simile,
che Brunetto chiamò Tesoro, e altri chiamavano Fiore o
Giardino, egli chiamò Convito, quasi mensa dov’è imbandito «il pane degli angeli», il cibo della sapienza.
Brunetto avea scritto il Tesoro in francese, gli altri trattavano la scienza in latino. La prosa volgare era tenuta poco acconcia a questa materia, massime dopo l’infelice
versione dell’Etica di Aristotile, fatta da un tal Taddeo,
celebre medico, nominato «l’ippocratista». Bisogna ve-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
dere quante sottili ragioni adduce Dante per scusarsi di
scrivere in volgare. Celebra il latino come «perpetuo e
non corruttibile», e perchè «molte cose manifesta concepute nella mente, che il volgare non può», e perchè «il
... volgare seguita uso e il latino arte»; onde il latino è
«più bello, più virtuoso e più nobile». Ma appunto per
questo il comento latino non sarebbe stato «suggetto alle canzoni» scritte in volgare, ma «sovrano», e il comento per sua natura è servo e non signore, e dee ubbidire e
non comandare. Ora il latino non può ubbidire, perchè
«comandatore» e sovrano del volgare. Oltrechè, come
può il latino comentare il volgare, non conoscendo il
volgare? E che il latino non è conoscente del volgare, si
vede: «chè uno abituato di latino non distingue, s’egli è
d’Italia, lo volgare provenzale dal tedesco nè il tedesco
lo volgare italico o provenzale ». Ecco le opinioni, le forme e le sottigliezze della scuola. Questa novità di scrivere di scienza in volgare, che è come dare a’ convitati
«pane di biado e non di formento», gli pare così grande
che a difendersene spende otto capitoli, modello di barbarie scolastica. Lasciando stare le sottigliezze, la sostanza è questa, ch’egli usa «il volgare di sì», perchè loquela
propria e «delli suoi generanti», e suo «introducitore»
nello studio del latino, e perciò «nella via di scienza,
ch’è ultima perfezione». Scrisse in volgare le rime, il volgare usò «deliberando, interpretando e quistionando»;
dal principio della vita ebbe con esso «benivolenza e
conversazione»; il volgare è l’amico suo, dal quale non si
sa dividere. Coloro «fanno vile lo parlare italico e prezioso quello di Provenza», che per «iscusarsi del non dire o dire male accusano e incolpano la materia, cioè lo
volgare proprio». La plebe, o come dice egli, le «popolari persone» cadono «nella fossa» di questa falsa opinione per poca discrezione: «per che incontra che molte
volte gridano: – Viva la loro morte – e: – Muoia la loro
vita –, purchè alcuno cominci», e sono da chiamare «pe-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
core, e non uomini». Gli altri vi caggiono per vanità o
per vanagloria, o per invidia o per pusillanimità. Questo
disamare lo volgare proprio e pregiare l’altrui, gli pare
un adulterio, conchiudendo con queste sdegnose parole: «E tutti questi cotali sono gli abbominevoli cattivi
d’Italia, che hanno a vile questo prezioso volgare, lo
quale, se è vile in alcuna cosa, non è se non in quanto
egli suona nella bocca meretrice di questi adulteri». E
però egli scrive questo comento in volgare, per fargli
avere «in atto e palese quella bontade che ha in potere e
occulto», mostrando che la sua virtù si manifesta anche
in prosa, senza le accidentali adornezze della rima e del
ritmo, come donna «bella per natural bellezza e non per
gli adornamenti dell’azzimare e delle vestimenta», e che
altissimi e novissimi concetti convenientemente, sufficientemente e acconciamente, «quasi come per esso latino», vi si esprimono. E finisce con queste profetiche parole: «Questo sarà luce nuova, sole nuovo, il quale
surgerà, ove l’usato tramonterà».
Tanta veemenza nell’accusare, tanto ardore nel magnificare può fare intendere quanto radicata e sparsa era
l’opinione degl’infiniti «ciechi», com’egli li chiama, che
tenevano il volgare inetto alla prosa. E non ottenne l’intento. Il latino continuò a prevalere: egli medesimo, lasciato a mezza via il Convito, trattò in latino la rettorica
e la politica, che insieme con l’etica era la materia ordinaria dei trattati scientifici.
Il libro De vulgari eloquio non è un fior di rettorica,
quale si costumava allora, un accozzamento di regole
astratte cavate dagli antichi, ma è vera critica applicata
ai tempi suoi, con giudizi nuovi e sensati. La base di tutto l’edifizio è la lingua nobile, aulica, cortigiana, illustre,
che è dappertutto e non è in alcuna parte, di cui ha voluto dare esempio nel Convito. Questo ideale parlare italico è illustre, in quanto si scosta dagli elementi locali, ove
prendono forma i dialetti e si accosta alla maestà e gra-
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vità del latino, la lingua modello. Voleva egli far del volgare quello che era il latino, non la lingua delle persone
popolari, ma la lingua perpetua e incorruttibile degli uomini colti. Sogno assai simile a quello di una lingua universale, fondata con procedimenti artificiali della scienza. Scegliere il meglio di qua e di là e far cosa una e
perfetta, sembra cosa facile e assai conforme alla logica,
ma è contro natura. Le lingue, come le nazioni, vanno
all’unità per processi lenti e storici; e non per fusioni
preconcette, ma per graduale assorbimento e conquista
degli elementi inferiori. Il ghibellino che dispregiava i
dialetti comunali e voleva un parlare comune italico, di
cui abbozzava l’immagine, ti rivelava già lo scrittore della Monarchia.
Il trattato, De Monarchia, è diviso in tre libri. Nel primo dimostra la perfetta forma di governo essere la monarchia; nel secondo prova questa perfezione essere incarnata nell’impero romano, sospeso, non cessato,
perchè preordinato da Dio; nel terzo stabilisce le relazioni tra l’impero e il sacerdozio, l’unico imperatore e
l’unico papa.
L’eccellenza della monarchia è fondata sull’unità di
Dio. Uno Dio, uno imperatore. Le oligarchie e le democrazie sono «polizie oblique», governi «per accidente»,
reggimenti difettivi. Fin qui tutti erano d’accordo, guelfi
e ghibellini. Non ci erano due filosofie: le premesse erano comuni ai due partiti.
E tutti e due ammettevano la distinzione tra lo spirito
e il corpo, e la preminenza di quello, base della filosofia
cristiana. E ne inferivano che nella società sono due poteri, lo spirituale e il temporale, il papa e l’imperatore. Il
contrasto era tutto nelle conseguenze.
Se lo spirito è superiore al corpo, dunque, conchiudeva Bonifazio ottavo, il papa è superiore all’imperatore.
«Il potere spirituale – dic’egli – ha il diritto d’instituire il
potere temporale e di giudicarlo, se non è buono. E chi
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
resiste, resiste all’ordine stesso di Dio, a meno ch’egli
non immagini, come i manichei, due princìpi, Ciò che
sentenziamo errore ed eresia. Adunque ogni uomo dee
essere sottoposto al pontefice romano, e noi dichiariamo
che questa sottomissione è necessaria per la salute
dell’anima».
Filosofia chiara, semplice, popolare, irresistibile per il
carattere indiscusso delle premesse consentite da tutti e
per l’evidenza delle conseguenze. Quando lo spirito era
il sostanziale e il corpo in se stesso era il peccato, e non
valea se non come apparenza o organo dello spirito,
cos’altro potevano essere i re e gl’imperatori, che erano
il potere temporale, se non gl’investiti dal papa, gli esecutori della sua volontà? I guelfi, che, salve le franchigie
comunali, ammettevano premesse e conseguenze, erano
detti «la parte di santa Chiesa».
Dante ammetteva le premesse, e per fuggire alla conseguenza suppone che spirito e materia fossero ciascuno
con sua vita propria, senza ingerenza nell’altro, e da
questa ipotesi deduce l’indipendenza de’ due poteri,
amendue «organi di Dio» sulla terra, di diritto divino,
con gli stessi privilegi, «due soli», che indirizzano l’uomo, l’uno per la via di Dio, l’altro per la via del mondo,
l’uno per la celeste, l’altro per la terrena felicità. Perciò
il papa non può unire i due reggimenti in sè, congiungere il pastorale e la spada; anzi, come vero servo di Dio e
immagine di Cristo, dee dispregiare i beni e le cure di
questo mondo, e lasciare a Cesare ciò che è di Cesare.
L’imperatore dal suo canto dee usar riverenza al papa,
appunto per la preminenza dello spirito sul corpo; e
poichè il popolo è corrotto e usurpatore, e la società è
viziosa e anarchica, il suo uffizio è di ridurre il mondo a
giustizia e concordia, ristaurando l’impero della legge.
Nè è a temere che sia tiranno, perchè nella stessa sua onnipotenza troverà il freno a se stesso: perciò rispetterà le
franchigie de’ comuni e l’indipendenza delle nazioni.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Questa era l’utopia dantesca o piuttosto ghibellina.
Dante ne ha fatto un sistema e ne è stato il filosofo.
Scendendo alle applicazioni, Dante mostra nel secondo libro che la monarchia romana fu di tutte perfettissima. La sua storia risponde alle tre età dell’uomo.
Nell’infanzia ebbe i re: adulta, e rettasi a popolo, con geste maravigliose, una serie di miracoli che attestano la
sua missione provvidenziale, si apparecchiò alla età virile, ordinandosi a monarchia sotto Augusto, che san
Tommaso chiama vicario di Cristo, e che Dante, seguendo la tradizione virgiliana, dice discendente da Enea
fondatore dell’impero, per disegno divino. E fu a quel
tempo che nacque Cristo, e «fu suddito dell’impero», e
compì l’opera della redenzione delle anime, mentre Augusto componeva il mondo in perfetta pace.
Da queste premesse storiche Dante conchiude che
Roma per dritto divino dee essere la capitale del mondo,
e che giustizia e pace non può venire in terra se non con
la ristaurazione dell’impero romano, «la monarchia predestinata» di cui la più bella parte il giardino, era l’Italia.
In apparenza, questo era un ritorno al passato, ma ci
era in germe tutto l’avvenire: ci era l’affrancamento del
laicato e l’avviamento a più larghe unità. I guelfi si tenevano chiusi nel loro comune; ma qui al di là del comune
vedi la nazione, e al di là della nazione l’umanità, la confederazione delle nazioni. Era un’utopia che segnava la
via della storia.
Guelfi e ghibellini aveano comune la persuasione che
la società era corrotta e disordinata, e chiedevano il paciere. La selva, immagine della corruzione, è un punto
di partenza comune a Brunetto guelfo e a Dante ghibellino. I guelfi chiamavano paciere nelle loro discordie un
legato del papa, come Carlo di Valois, «che giostrò con
la lancia di Giuda», come dice Dante. I ghibellini invocavano l’imperatore. E credesi che Dante abbia scritto
questo trattato per agevolare la via all’imperatore Arrigo
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
settimo di Lucemburgo, sceso a pacificare l’Italia e morto al principio dell’impresa, glorificato da Dante, celebrato da Mussato, lacrimato da Cino. Non avevano ancora imparato, e guelfi e ghibellini, che chiamar pacieri
è mettersi a discrezione altrui, e che metter l’ordine e
salvar la società dalle fazioni è antico pretesto di tutt’i
conquistatori.
Dante scrisse lettere anche in latino. Una ne scrisse appunto ad Arrigo nella sua venuta. Raccogliendo insieme
le sue opere latine, di cui la più originale è quella De vulgari eloquio, e unendovi il Convito, si può avere un giusto concetto del suo lavoro intellettuale.
Era uomo dottissimo, ma non era un filosofo. Nè la
filosofia fu la sua vocazione, lo scopo a cui volgesse tutte
le forze dello spirito. Fu per lui un dato, un punto di
partenza. L’accettò come gli veniva dalla scuola, e ne acquistò una piena notizia. Seppe tutto, ma in nessuna cosa lasciò un’orma del suo pensiero, posto il suo studio
meno in esaminare che in imparare. Accoglie qualsiasi
opinione anche più assurda, e gran parte degli errori e
de’ pregiudizi di quel tempo. Cita con uguale riverenza
Cicerone e Boezio, Livio e Paolo Orosio, scrittori pagani
e cristiani. La citazione è un argomento. Il suo filosofare
ha i difetti dell’età. Dimostra tutto, anche quello che
non è controverso; dà pari importanza a tutte le quistioni. Ammassa argomenti di ogni qualità, anche i più puerili; spesso non vede la sostanza della quistione, e si perde in minuterie e sottigliezze. Aggiungi il gergo
scolastico e le infinite distinzioni. Pure, se fra tanti viottoli ti regge ire sino alla fine, troverai nella sua Monarchia un’ampiezza ed unità di disegno ed una concordanza di parti, che ti fa indovinare il grande architetto
dell’altro mondo.
I difetti delle opere latine sono comuni al Convito, e
gl’intralciano lo stile, e gl’impediscono quell’andamento
naturale e piano del discorso, che potea renderlo acces-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
sibile agl’illetterati, a’ quali era destinato. La sua teoria
della lingua illustre lo allontana da quell’andare soave e
semplice della prosa volgare, e quando gli altri volgarizzano il latino, egli latinizza il volgare, cercando nobiltà e
maestà nelle perifrasi, ne’ contorcimenti e nelle inversioni. Usa una lingua ibrida, non italiana e non latina, spogliata di tutte le movenze e attitudini vivaci del dialetto,
e lontana da quella dignità e misura, che ammira nel latino e a cui tende con visibile e infelice sforzo. Se la natura gli avesse concesso un più squisito senso artistico,
avrebbe forse potuto essere fondatore della prosa. Ma
gli manca la grazia, e senti la rozzezza nello sforzo della
eleganza. Salvo qualche raro intervallo, che la passione
lo scalda e lo fa eloquente, la sua prosa, come la sua lirica, fa desiderare l’artista.
Vocazione di Dante non fu la filosofia e non fu la prosa. Quello ch’egli cercava, non potè realizzarlo come
scienza e come prosa.
– Che cerchi? – Gli domandò un frate. Rispose: – Pace. – E questo cercavano tutt’i contemporanei. Pace era
concordia del regno terrestre col regno celeste, dell’anima con Dio, il regno di Dio sulla terra. «Adveniat regnum tuum.» Pace vera quaggiù non può essere; vera
pace è in Dio, nel mondo celeste; Beatrice morendo parea che dicesse: «Io sono in pace». La vita è una prova,
un tirocinio, per accostarsi quanto si può all’ideale celeste e meritarsi l’eterna pace.
Lo scopo della vita è la salvazione dell’anima, la pace
dell’anima nel mondo celeste. Vivere è morire alla terra
per vivere in cielo. La vita è la storia dell’anima, è un
«mistero». Uscita pura dalle mani di Dio «che la vagheggia», è sottoposta quaggiù al male e al dolore, e non
può tornare nella patria che purificata di ogni macula
terrestre. Per giungere a pace bisogna passare per tre
gradi, personificati ne’ tre esseri, Umano, Spoglia e Rinnova, e a’ quali rispondono i tre mondi, inferno, purga-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
torio e paradiso. Il «mistero» o la storia finisce al primo
grado, quando l’anima sopraffatta dall, Umano e vinta
nella sua battaglia col demonio viene in potere di questo: è la tragedia dell’anima, la tragedia di Fausto, prima
che Goethe, ispirato da Dante, lo avesse riscattato. Ma
quando l’anima vince le tentazioni del demonio, e si
spoglia e si purga dell’Umano, hai la sua glorificazione
nell’eterna pace: hai la «commedia» dell’anima. Questo
è il mistero, ora tragedia, ora commedia, secondo che
prevale l’umano o il divino, il terrestre o il celeste, che
giace in fondo a tutte le rappresentazioni e a tutte le leggende di quell’età. Messo in iscena, era detto «rappresentazione»: narrato. Era «leggenda» o «vita», esposto
in figura era «allegoria», rappresentato in modo diretto
e immediato, era «visione»; anzi le due forme si compenetravano, e spesso l’allegoria era una visione, e la visione era allegorica. Allegorie, visioni, leggende, rappresentazioni erano diverse forme di questo mistero
dell’anima, del quale i teologi erano i filosofi, e i predicatori erano gli oratori, che aggiungevano spesso alla
dottrina l’esempio, qualche leggenda o visione, com’è
nello Specchio di vera penitenza. Il mistero dell’anima era
in fondo tutta una metafisica religiosa, che comprendeva i più delicati e sostanziali problemi della vita, e produceva una civiltà a sè conforme. Ci entrava l’individuo
e la società, la filosofia e la letteratura.
La letteratura volgare in senso prettamente religioso
si stende per due secoli da Francesco di Assisi e Iacopone sino a Caterina. L’Allegoria dell’anima, la rappresentazione del Giovane monaco, l’Introduzione alle virtù, la
Commedia dell’anima sono in forma letteraria la teoria
di questo mistero, che nelle lettere di Caterina raggiunge
la sua perfezione dottrinale, ed acquista la sua individuazione o realtà storica ne’ Fioretti, nelle leggende e
nelle visioni del Cavalca e del Passavanti.
Ma questa letteratura era senza eco nella classe colta
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
da cui esce l’impulso della vita intellettuale. Dante spregiava il latino della Bibbia, come privo di dolcezza e di
armonia. Quello scrivere così alla buona e come si parla
era tenuto barbarie e rozzezza. Vagheggiavano una forma di dire illustre e nobile, prossima alla maestà del latino, della quale Dante die’ nel Convito un saggio poco felice. Nè potea piacere quella semplicità di ragionamento
con tanta scarsezza di dottrina ad uomini che uscivano
dalle scuole con tanta filosofia in capo, con tanta erudizione sacra e profana. Ma se aveano in poco conto quella letteratura, giudicata povera e rozza, non era diverso
il concetto che essi avevano della vita. I teologi filosofavano e i filosofi teologizzavano. La rivelazione rimaneva
integra nelle sue basi essenziali, ammesse come assiomi
indiscutibili. Tali erano l’unità e personalità di Dio, l’immortalità dello spirito e lo scopo della vita oltre terreno.
Ma se il concetto era lo stesso, la materia era più ampia, abbracciando la coltura, oltre la Bibbia e i santi Padri, quanto del mondo antico era noto, e la forma era
più libera, paganizzando sotto lo scudo dell’allegoria e
voltando il linguaggio cristiano nelle formole di Aristotile e Platone.
Il regno di Dio chiamavano regno della filosofia. E
realizzare il regno di Dio era conformare il mondo a’
dettati della filosofia unificare intelletto e atto. Il mediatore era l’Amore, principio delle cose divine e umane, e
non l’amore sensuale, ch’era peccato, ma un amore intellettuale, l’amore della filosofia. Il frutto dell’amore è
la sapienza, che non è puro intelletto, ma intelletto e atto congiunti, la virtù. Il regno di Dio in terra era dunque
il regno della virtù, o come dicevano, della giustizia e
della pace. A realizzare questo regno erano istrumenti i
due Soli, i due organi di Dio, il papa e l’imperatore. La
politica era l’arte di realizzare questo regno della giustizia e della pace, rendendo gli uomini virtuosi e felici. Il
criterio politico era puramente etico, come s’è visto in
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Albertano giudice, in Egidio Colonna, in Mussato, in
Dino Compagni. All’effettuazione di questo regno etico
concorreva la tradizione virgiliana; perchè Virgilio era
un testo non meno rispettabile che la Bibbia. E si attendeva la monarchia predestinata da Dio, la ristorazione
dell’impero romano.
In questi due secoli abbiamo due letterature quasi parallele, e persistenti l’una accanto all’altra: una schiettamente religiosa, chiusa nella vita contemplativa, circoscritta alla Bibbia e a’ santi Padri, e che ha per risultato
inni e cantici e laude, rappresentazioni, leggende, visioni, e l’altra che vi tira entro tutto lo scibile e lo riduce a
sistema filosofico, e abbraccia i vari aspetti della vita, e
dà per risultato somme, enciclopedie, trattati, cronache
e storie, sonetti e canzoni. Tra queste due letterature erra la novella e il romanzo, eco della cavalleria, rimasti
senza seguito e senza sviluppo, quasi cosa profana e frivola.
Gli uomini istrutti si studiavano di render popolare la
cultura, specialmente nella sua parte più accessibile e
pratica, l’etica e la morale. Indi le tante versioni e raccolte di precetti etici sotto nome di Fiori, Giardini, Tesori,
Ammaestramenti. Un tentativo di questo genere fu il Tesoretto.
Nella prima parte della lirica dantesca hai la storia
ideale della santa, nella sua purezza soppresso il demonio e le tentazioni della carne. È il mistero dell’anima
così come è rappresentato nella Commedia dell’anima.
L’anima, che uscita pura dalle mani di Dio, dopo breve
pellegrinaggio ritorna in cielo bellezza spirituale, o luce
intellettuale, è Beatrice; e Beatrice è la santa della gente
colta, è la donna platonica e innominata de’ poeti, battezzata e santificata.
Nella seconda parte Beatrice è la filosofia, che riceve
la sua esplicazione dottrinale nelle Canzoni e nel Convito. La poesia va a metter capo nella pura scienza,
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
nell’esposizione scolastica di un mondo morale, dell’etica.
La letteratura popolare va a finire nelle lettere dottrinali e monotone di Caterina: il suo difetto ingenito è
l’astrazione dell’ascetismo. La letteratura dotta va a finire nelle sottigliezze scolastiche del Convito: il suo difetto
intrinseco è l’astrazione della scienza. Tutte e due hanno
una malattia comune, l’astrazione, e la sua conseguenza
letteraria, l’allegoria.
Ma il mondo di Dante non potea rimaner chiuso in
questi limiti, o piuttosto non era questo il suo mondo
naturale e geniale, conforme alle qualità del suo spirito e
del suo genio, e ci sta a disagio. La sua forza non è l’ardore della ricerca e della investigazione, che è il genio
degli spiriti speculativi. La scienza è per lui un dogma: il
cervello rimane passivo in quelle scolastiche esposizioni.
Avea troppa immaginazione, perchè potesse rimaner
nell’astratto, e studia più a figurarlo e colorirlo che a discuterlo e interrogarlo. La fantasia creatrice, il vivo sentimento della realtà, le passioni ardenti del patriota disingannato e offeso, le ansietà della vita pubblica e
privata, non poteano avere appagamento in quella regione astratta della scienza, che pur gli era tanto cara. Sentiva il bisogno meno di esporre che di realizzare. E volle
realizzare questo regno della scienza o regno di Dio che
tutti cercavano, farne un mondo vivente.
Il mondo è una selva oscura, corrotto dal vizio e
dall’ignoranza. Rimedio è la scienza, secondo i cui
princìpi dovrebb’esser conformato. La scienza è il mondo ideale, non qual è, ma quale dee essere. Questo ideale si trova realizzato nell’altra vita, nel regno di Dio,
conforme alla verità e alla giustizia. Perciò ad uscir dalla
selva non ci è che una via, la contemplazione e la visione
dell’altra vita. Per questa via l’anima, superate le battaglie del senso e purificatasi, ha la sua pace, la sua eterna
commedia, la beatitudine.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Da questo concetto semplice e popolare uscì la contemplazione o visione, detta la Commedia, rappresentazione allegorica del regno di Dio, il «mistero dell’anima» o la «Commedia dell’anima.»
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
VII
LA COMMEDIA
Chi mi ha seguito vede che la «Divina Commedia» non è
un concetto nuovo, nè originale, nè straordinario, sorto
nel cervello di Dante e lanciato in mezzo a un mondo
maravigliato. Anzi il suo pregio è di essere il concetto di
tutti, il pensiero che giaceva in fondo a tutte le forme
letterarie, rappresentazioni, leggende, visioni, trattati,
tesori, giardini, sonetti e canzoni. L’Allegoria dell’anima
e la Commedia dell’anima sono gli schemi, le categorie, i
lineamenti generali di questo concetto.
Nel Convito la sostanza è l’etica, che Dante cerca di
rendere accessibile agl’illetterati, esponendola in prosa
volgare. Qui il problema è rovesciato. La sostanza sono
le tradizioni e le forme popolari rannodate intorno al
mistero dell’anima, il concetto di tutt’i misteri e di tutte
le leggende, ed è in questo quadro che Dante gitta tutta
la coltura di quel tempo. Con questa felice ispirazione,
pigliando a base della coltura le tradizioni e le forme popolari, riunisce le due letterature, che si contendevano il
campo, intorno al comune concetto che le ispirava, il
mistero dell’anima. La rappresentazione e la leggenda
esce dalla sua rozza volgarità e si alza a’ più alti concepimenti della scienza; la scienza esce dal santuario e si fa
popolo, si fa mistero e leggenda. Indi l’immensa popolarità di questo libro, che gl’illetterati accettavano nel senso letterale e i dotti comentavano come un libro di
scienza, come la Somma di san Tommaso. Il popolo vedeva in quei versi quel medesimo che sentiva nelle prediche, nelle divozioni e rappresentazioni, nè è maraviglia che qualcuno guardando Dante con quella faccia
pensosa e come alienata, dicesse: – Costui par veramente uscito ora dall’inferno. – Gli eruditi si affannavano a
cercare il senso de’ versi strani, e il Boccaccio iniziava
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
quella serie di comenti che spesso in luogo di squarciare
il velo lo fanno più denso.
In effetti la Divina Commedia è una visione dell’altro
mondo allegorica. Cristianamente, la visione e la contemplazione dell’altra vita è il dovere del credente, la
perfezione. Il santo vive in ispirito nell’altro mondo; le
sue estasi, le sue visioni si riferiscono alla seconda vita, a
cui sospira. Dante accetta questa base ascetica, popolarissima: contemplare e vedere l’altro mondo è la via della salvazione. Per campare dalla selva del vizio e
dell’ignoranza, egli si getta alla vita contemplativa, vede
in ispirito l’altro mondo e narra quello che vede. Questo
è il motivo ordinario di tutte le visioni, è la storia di tutt’i
santi, è il tema di tutt’i predicatori, è la lettera della
Commedia, visione dell’altro mondo, come via a salute.
Ma la visione è allegoria. L’altro mondo è allegoria e immagine di questo mondo, è in fondo la storia o il mistero
dell’anima ne’ suoi tre stati, detti nell’Allegoria dell’anima Umano, Spoglia, Rinnova, che rispondono a’ tre
mondi, Inferno, Purgatorio e Paradiso. È l’anima intenebrata dal senso, nello stato puramente umano, che spogliandosi e mondandosi della carne si rinnova, ritorna
pura e divina. Questa allegoria era popolare e comune
non meno che la lettera. Ciascuno vedeva un po’ l’altro
mondo con l’occhio di questo mondo, con le sue passioni e interessi. I predicatori, soprattutto nella descrizione
delle pene infernali, cercavano immagini delle passioni
terrene. Il mistero dell’anima era la base di tutte le invenzioni, la leggenda delle leggende. L’uomo, caduto
nell’errore e nella miseria, che finisce o vendendo l’anima al demonio o purgandosi e salvandosi, era il fondamento di tutte le storie popolari, come s’è visto nell’Introduzione alle virtù e nella Commedia dell’anima.
La Commedia dell’anima è l’anima uscita dalle mani di
Dio pura, che in terra combatte le sue battaglie con la
carne e col demonio, e vince assistita dalla grazia di Dio.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Vizi e virtù combattono, come gli dei di Omero, intorno
all’anima; le virtù vincono e l’anima è salva. Nell’Introduzione alle virtù è un giovane caduto in miseria, a cui
apparisce confortatrice la Filosofia, sua maestra e signora, e gli mostra la battaglia de’ Vizi e delle Virtù; e il giovane, spregiando i beni terrestri, si leva al cielo. La filosofia è anche la divina consolatrice di Boezio, così
popolare, e di Dante, a cui dopo la morte di Beatrice apparve questa «nobilissima figlia dell’Imperatore
dell’universo», facendolo suo amico e servo. Il vizio e
l’ignoranza, la conversione per opera di Dio o della filosofia, la redenzione e beatificazione, visione di Dio e
della scienza, era il luogo comune delle due letterature,
de’ semplici e degli uomini colti. E Dante fonde insieme
le due forme, e tira nella sua allegoria filosofia e teologia, ragione e grazia, Dio e scienza, e fa un mondo armonico, assegnando a ciascuno il suo luogo. L’anima
nell’inferno e nel purgatorio, non essendo uscita ancora
dal terreno ha a guida il lume naturale, la ragione o la filosofia; ma la ragione è insufficiente senza la grazia di
Dio: fatta libera e monda e leggiera, ha nel paradiso
maestra la grazia o la teologia, luce intellettuale, che le
mostra la scienza senza velo, o Dio nella sua essenza.
Perchè l’altro mondo è allegorico, figura dell’anima
nella sua storia, il poeta è sciolto da’ vincoli liturgici e
religiosi e spazia nel mondo libero dell’immaginazione.
Prendendo a base le tradizioni e le forme cristiane, adopera alla sua costruzione tutt’i materiali della scienza, sacra e profana, e le tradizioni e favole del mondo pagano,
mescolando insieme Enea e san Paolo, Caronte e Lucifero, figure classiche e cristiane. Così ha realizzato quel
mondo universale della coltura, tanto desiderato dalle
classi colte e fino allora tentato invano, cristiano nel suo
spirito e nella sua lettera, ma dove già penetra da tutte le
parti il mondo antico. Mescolanza che in molti contemporanei pare strana e grottesca, legittimata qui dall’alle-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
goria, che concede al poeta libertà di forme ch’egli creda più acconce a significare i suoi concetti. Il mondo pagano e la scienza profana sono qui materiali di costruzione, usati a edificare un tempio cristiano, a quel modo
che colonne egizie e greche si veggono talora nelle costruzioni moderne divenire simbolo e figure de’ nuovi
tempi e delle nuove idee. Così a questa costruzione gigantesca prendon parte tutte le età e tutte le forme, fuse
insieme e battezzate, penetrate da un solo concetto, il
concetto cristiano.
L’ordito è semplicissimo: è la storia o mistero
dell’anima nella sua espressione elementare, come si trova nella rappresentazione della Commedia dell’anima; e
l’hai già tutta e chiara innanzi, fin dal primo canto. Dante nel giorno del Giubileo, quando Bonifazio facea mostra di tutta la sua possanza e il mondo cristiano si raccoglieva intorno a lui, si trova smarrito in una selva
oscura, e sta per soggiacere all’assalto delle passioni, figurate nella lonza, il leone e la lupa, quando a camparlo
dal luogo selvaggio esce Virgilio, e lo mena seco a contemplare l’inferno e il purgatorio, ove, confessati i suoi
falli, guidato da Beatrice, sale in paradiso e di luce in luce giunge alla faccia di Dio. Allegoricamente, Dante è
l’anima, Virgilio è la ragione, Beatrice è la grazia, e l’altro mondo è questo mondo stesso nel suo aspetto etico e
morale, è l’etica realizzata, questo mondo quale dee essere secondo i dettati della filosofia e della morale, il
mondo della giustizia e della pace, il regno di Dio.
Dante è l’anima non solo come individuo, ma come
essere collettivo, come società umana, o umanità. Come
l’individuo, così la società è corrotta e discorde, e non
può aver pace se non instaurando il regno della giustizia
o della legge, riducendosi dall’arbitrio de’ molti sotto
unico moderatore. E qui entra la tradizione virgiliana: la
monarchia prestabilita da Dio, fondata da Augusto, discendente di Enea, e Roma per diritto divino capo del
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
mondo. Questo concetto politico non è intruso e soprapposto, ma è, come si vede, lo stesso concetto etico,
applicato all’individuo e alla società. È tale la medesimezza, che la stessa allegoria si può interpretare in un
senso puramente etico, per rispetto all’individuo, e in un
senso politico, per rispetto alla società. E non è perciò
maraviglia che la stessa materia si presti con tanta docilità alle più diverse interpretazioni.
Se l’allegoria ha reso possibile a Dante una illimitata
libertà di forme, gli rende d’altra parte impossibile la loro formazione artistica. Dovendo la figura rappresentare
il figurato, non può essere persona libera e indipendente, come richiede l’arte, ma semplice personificazione o
segno d’idea, sicchè non contenga se non i tratti soli che
hanno relazione all’idea, a quel modo che il vero paragone non esprime di se stesso se non quello solo che sia
immagine della cosa paragonata. L’allegoria dunque allarga il mondo dantesco, e insieme lo uccide, gli toglie la
vita propria e personale, ne fa il segno o la cifra di un
concetto a sè estrinseco. Hai due realtà distinte, l’una
fuori dell’altra, l’una figura e adombramento dell’altra,
perciò amendue incompiute e astratte. La figura, dovendo significare non se stessa, ma un altro, non ha niente
d’organico e diviene un accozzamento meccanico mostruoso, il cui significato è fuori di sè, com’è il grifone
del Purgatorio, l’aquila del Paradiso, e il Lucifero, e Dante con le sette «P» incise sulla fronte.
La poesia non s’era ancora potuta sciogliere dall’allegoria. Il cristianesimo in nome del Dio spirituale facea
guerra non solo agl’idoli, ma anche alla poesia, tenuta
lenocinio e artifizio: voleva la nuda verità. E verità era filosofia o storia: la verità poetica non era compresa. La
poesia era stimata un tessuto di menzogne, e «poeta» e
«mentitore», come dice il Boccaccio, era la stessa cosa; i
versi erano chiamati, come dice san Girolamo, «cibo del
diavolo». La poesia perciò non fu accettata se non come
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
simbolo e veste del vero: l’allegoria fu una specie di salvacondotto, pel quale potè riapparire fra gli uomini.
Erano detti «poeti solenni», a distinzione de’ «popolari», i dotti che esprimevano in poesia la dottrina sotto figura, o in forma diretta. Dante definisce la poesia «banditrice del vero», sotto «il velame della favola ascoso»,
di modo che il lettore «sotto alla dura corteccia, sotto favoloso e ornato parlare, trovi salutari e dolcissimi ammaestramenti». La poesia è in sè una «bella menzogna»,
che non ha alcun valore, se non come figura del vero.
Con questa falsa poetica, di cui abbiamo visto l’influenza ne’ nostri lirici, Dante lavora sopra idee astratte:
trova una serie di concetti, e poi ti forma una serie corrispondente di oggetti. Le menti erano assuefatte a questo
processo, a correre al generale. Il campo ordinario della
filosofia scolastica era l’Ente con tutte le altre generalità,
e la pratica del sillogismo avea avvezzi tutti, anche i poeti, a cercare in ogni cosa la maggiore, la proposizione generale. Ora quel mondo di concetti è la maggiore dell’altro mondo.
Quali sieno questi concetti, io dirò quasi con le stesse
parole di Dante.
La patria dell’anima è il cielo, e come dice Dante, discende in noi da altissimo abitacolo. Essa partecipa della
natura divina.
L’anima, uscendo dalle mani di Dio, è «semplicetta»,
«sa nulla»; ma ha due facoltà innate, la ragione e l’appetito, «la virtù che consiglia», e l’esser «mobile ad ogni
cosa che piace», l’esser «presta ad amare».
L’appetito (affetto, amore) la tira verso il bene. Ma
nella sua ignoranza non sa discernere il bene, segue la
sua falsa immagine e s’inganna. L’ignoranza genera l’errore, e l’errore genera il male.
Il male o il peccato è posto nella materia, nel piacere
sensuale.
Il bene è posto nello spirito: il sommo Bene è Dio, puro
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
spirito. L’uomo dunque, per esser felice, dee contrastare
alla carne e accostarsi al sommo Bene, a Dio. A questo
fine gli è stata data la ragione come consigliera: indi nasce il suo libero arbitrio e la moralità delle sue azioni.
La ragione per mezzo della filosofia ci dà la conoscenza del bene e del male. Lo studio della filosofia è perciò
un dovere, è via al bene, alla moralità. La moralità è la
«bellezza della filosofia»: è l’etica, «regina delle scienze», «il primo cielo cristallino».
A filosofare è necessario amore. L’Amore (appetito)
può esser sementa di bene e di male, secondo l’oggetto a
cui si volge. Il falso amore è «appetito non cavalcato dalla ragione». Il vero amore è studio della filosofia, «unimento spirituale dell’anima con la cosa amata».
Filosofia è «amistanza a sapienza», amicizia dell’anima con la sapienza. Nelle nature inferiori l’amore è
«sensibile dilettazione». Solo l’uomo, come «natura razionale, ha amore alla verità e alla virtù» (alla filosofia).
Ciò è vera felicità, che per contemplazione della verità si
acquista.
In questi concetti si trova il succo della morale antica.
Già i filosofi pagani aveano mostrato la filosofia come
unico porto fra le tempeste della vita: esser filosofo significava e significa anche oggi resistere alle passioni ed
a’ piaceri, vincer se stesso, serbare l’eguaglianza dell’animo nelle umane vicissitudini.
Ma ecco ora sopraggiungere il cristianesimo.
L’umanità per il peccato d’origine cadde in servitù
dei sensi (del male o del peccato), e la ragione e l’amore
non furono più sufficienti a salvarla. La ragione andava
a tentoni e menava all’errore; «i filosofi andavan e non
sapevan dove»; l’amore rimaso senza «rettore» divenne
appetito sensuale. Era necessaria una redenzione soprannaturale. Dio si fece uomo e redense l’umanità, offrendosi vittima espiatoria per lei.
Mediante questo sacrificio, la ragione è stata avvalo-
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rata dalla fede, l’amore avvalorato dalla grazia, la filosofia è stata compiuta dalla teologia, la rivelazione.
Redenta l’umanità, ciascun uomo ha acquistato la
virtù di salvarsi con l’aiuto di Dio. Guidato dalla ragione
e dalla fede, fortificato dall’amore e dalla grazia, può affrancarsi da’ sensi e levarsi di mano in mano sino a Dio,
al sommo Bene.
Questo cammino dalla materia o dal peccato sino allo
spirito o al bene comprende tutto il circolo della morale
o etica. La conoscenza della morale (naturale e rivelata,
filosofia e teologia) è perciò necessaria a salute.
La morale è il «Nosce te ipsum», la conoscenza di se
stesso. L’uomo si trova in questa vita in uno de’ tre stati
di cui tratta la morale, stato di peccato, stato di pentimento, stato di grazia.
L’altro mondo è figura della morale. L’inferno è figura del male o del vizio; il paradiso è figura del bene o
della virtù; il purgatorio è il passaggio dall’uno all’altro
stato mediante il pentimento e la penitenza. L’altro
mondo è perciò figura de’ diversi stati ne’ quali l’uomo
si trova in questa vita.
La rappresentazione dell’altro mondo è dunque
un’etica applicata, una storia morale dell’uomo,
com’egli la trova nella sua coscienza. Ciascuno ha dentro di sè il suo inferno e il suo paradiso.
Il viaggio nell’altro mondo è figura dell’anima nel suo
cammino a redenzione. Ed è Dante stesso che fa questo
viaggio.
Si trova in una selva oscura (stato d’ignoranza e di errore, la selva erronea del Convito), vede il dilettoso colle, principio e cagione di tutta gioia (la beatitudine), illuminato dal sole che mena dritto altrui per ogni calle (la
scienza), ma tre fiere (la carne, gli appetiti sensuali) gli
tengono il passo. L’uomo da sè non può salire il calle,
non può giungere a salute: viene dunque il deus ex machina, l’aiuto soprannaturale. Si richiede non solo ragio-
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ne, ma fede, non solo amore, ma grazia. Virgilio (ragione e amore) lo guida, insino a che, confesso e pentito e
purgato d’ogni macula terrena, succede Beatrice (ragione sublimata a fede, amore sublimato a grazia). Con
questo aiuto esce dallo stato d’ignoranza e di errore (la
selva), e prende il cammino della scienza (l’altro mondo,
il mondo etico e morale). Gli si affaccia prima l’inferno
(l’anima nello stato del male) e conosce il male nella sua
natura, nelle sue specie, ne’ suoi effetti (vedi canto XI).
Entra allora in purgatorio (pentimento ed espiazione),
dove ancor vive la memoria e l’istinto del male, e conosciuto il suo stato, pentito e mondo, diventa libero (dalla
carne o dal peccato). Si trova allora ricondotto allo stato
d’innocenza, nel quale era l’uomo avanti il peccato
d’origine, e vede il paradiso terrestre e vede Beatrice (fede e grazia) Con la sua guida sale in paradiso (l’anima
nello stato di beatitudine), di grado in grado si leva sino
alla conoscenza e amore (contemplazione beatifica) di
Dio, del sommo Bene, e in questa mistica congiunzione
dell’umano e del divino si riposa (è beato).
La redenzione della società ha luogo nello stesso modo che degl’individui. La società serva della materia è
anarchia, discordia sviata dall’ignoranza e dall’errore. E
come l’uomo non può ire a pace, se non vinca la carne
ed ubbidisca alla ragione, così la società non può ridursi
a concordia, se non presti ubbidienza ad un supremo
moderatore (l’imperatore) che faccia regnare la legge (la
ragione), guida e freno dell’appetito.
Con questo fondo generale si lega tutto lo scibile di
quel tempo, metafisica, morale, politica, storia, fisica,
astronomia, ecc
Il centro intorno a cui gira questa vasta enciclopedia è
il problema dell’umana destinazione che si trova in fondo a tutte le religioni e a tutte le filosofie, il mistero
dell’anima, pensiero della letteratura volgare sotto tutte
le sue forme. Il problema è posto ed è sciolto cristiana-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
mente. L’umanità ha perduto ed ha racquistato il paradiso; questa storia epica di Milton è l’antecedente del
problema. L’umanità ha racquistato il paradiso, cioè ciascun uomo ha acquistato la forza di salvarsi. Ma in che
modo? Qual è la via di salvazione? La Commedia è la risposta a questa domanda, la soluzione del problema.
Il cristianesimo ne’ primi tempi di fervore rispondea:
– L’uomo si salva, imitando Cristo che ha salvato l’umanità, si salva con l’amore. Bisogna volger le spalle alla vita terrena e seguire Dio, lui amare, lui contemplare. – Di
qui la preminenza della vita contemplativa, che Dante
chiama eccellentissima e simile alla vita divina. Il che
dovea menar dritto alla visione estatica, alla comunione
tra l’anima e Dio, al misticismo, tanta parte della letteratura volgare. Gli uomini stanchi del mondo cercavano
pace e obblio nei monasteri, e nutrivano l’anima del
pensiero della morte, della meditazione dell’altra vita; i
santi Padri esortano spesso i fedeli a volger la mente
all’altro mondo; anche oggi le prediche, i libri ascetici, i
libri di preghiera non sono che un continuo «Memento
mori»; è famoso il «Pensa, anima mia», frase formidabile, a cui il lettore vede già in aria venir dietro il giudizio
universale e le fiamme dell’inferno. Se le cose di quaggiù
sono caduche e «nulla promission rendono intera», se il
significato serio della vita è nell’altro mondo, se là è il
vero, è la realtà: l’Iliade, il poema della vita è la Commedia, la storia dell’altro mondo.
In quei primi tempi la scienza non è necessaria a salute, anzi i cristiani menavano vanto della loro ignoranza:
«Beati pauperes spiritu». Avendo per avversari gli uomini più dotti del paganesimo, rispondevano ex abundantia cordis, con la sicurezza e l’eloquenza della fede, la loro lingua di fuoco. Ma questo amore di cuori semplici,
che spesso umiliava l’orgoglio di una scienza vòta e arida, non bastò più appresso. Aristotele dominava nelle
scuole; la scienza si era introdotta nella teologia e ne
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
avea fatto un cumulo di sottigliezze: lo stesso misticismo
avea preso forme scientifiche, divenuto ascetismo, scienza della santificazione, in Agostino, Bernardo e Bonaventura. L’Amore dunque prende un contenuto, diviene
scienza, e la loro unità è la filosofia, uso amoroso di sapienza.
La scienza però non contraddice, non annulla, anzi
fortifica e dimostra lo stesso concetto della vita. Anche
per Dante la santificazione è posta nella contemplazione; l’oggetto della contemplazione è Dio; la beatitudine
è la visione di Dio; al sommo della scala de’ beati mette i
contemplanti, non gli operanti; ma per giungere
all’unione con Dio non basta volere, bisogna sapere, ci
vuole la sapienza che è amore e scienza, unità del pensiero e della vita. Perciò Virgilio non può esser ragione,
che non sia anche amore, e Beatrice non può esser fede,
che non sia anche grazia; Dante stesso conosce e vuole a
un tempo; ogni suo atto del conoscere mena a un suo atto del volere. L’intelletto è in cima della scala: l’amore
dee essere inteso, se ne dee avere intelletto.
Tale è la soluzione dantesca. A quattro secoli di distanza il problema si ripresenta, ma i termini sono mutati. Il punto di partenza non è più l’ignoranza, la selva
oscura, ma la sazietà e vacuità della scienza, l’insufficienza della contemplazione, il bisogno della vita attiva.
La sapiente Beatrice si trasforma nell’ignorante e ingenua Margherita; e Fausto non contempla ma opera; anzi
il suo male è stato appunto la contemplazione, lo studio
della scienza, e il rimedio che cerca è ribattezzarsi nelle
fresche onde della vita. Ma al tempo di san Tommaso la
ragione entrava appena nella sua giovinezza; sorgea da
lungo ozio, curiosa, credula, acuta, tanto più confidente,
quanto meno esperta della misura di sè e delle cose; le si
domandava tutto e prometteva tutto. Dovea ella darci la
pietra filosofale del mondo morale, la felicità. Lo scopo
della scienza non era speculativo solamente, ma pratico.
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Nell’ordine speculativo era già conseguito il suo scopo,
divenuta per Dante un libro chiuso, di cui tutte le pagine sono scritte. Ma la scienza dee operare anche sulla
volontà, menare a virtù e felicità. E se questo miracolo
non era ancora avvenuto, se la realtà era tanto disforme
alla scienza, doveasene recare la cagione, secondo Dante
e i contemporanei, all’ignoranza. Bisognava dunque volgarizzare la scienza, darle uno scopo morale, drizzarla
all’opera. Indi l’importanza che ebbe l’etica e la rettorica, la scienza de’ costumi e l’arte della persuasione.
I tentativi fatti, compreso il Convito, furono infelici.
Trattandosi di verità da esporre e non da cercare, manca
lo spirito e l’ardore scientifico, manca in tutti, anche in
Dante. La stessa esposizione non è libera, predeterminata da forme scolastiche. Da queste condizioni non potea
uscire una letteratura filosofica, quella forma, propria
degli uomini meditativi, che ti rivela non solo l’idea, ma
come in te nasce, come la si presenta, con esso i sentimenti che l’accompagnano, pregna di altre idee, le quali
per la potenza comprensiva della parola intravvedi, ancora senza contorni, mobili, nasciture. Qui sta la vita superiore della forma filosofica, generata immediatamente
dal travaglio del pensiero, che mette in moto tutte le altre facoltà, compresa l’immaginazione. In quei tentativi
il contenuto scientifico ci sta, non nel punto che tu lo
trovi e vi metti sopra la mano, ma già trovato, divenuto
nello spirito un antecedente non esaminato, tolto pesolo
e grezzo dalla scuola. La terra si manifesta meglio al coltivatore che al proprietario. Dante sa di avere i tali fondi, ma non ci va, non entra in comunione con quelli, non
vive della vita de’ campi, non li lavora, li conosce sulla
carta. Rimane una proprietà astratta, senza effettiva possessione, senza assimilazione, un mio che non è me, non
è fatto parte dell’anima mia. Non ci è investigazione e
non ci è passione, dico la passione che è generata da un
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
amoroso lavoro intellettuale. Il filosofo fora la superficie
e si seppellisce nel mondo sotterraneo, dove, come dice
Mefistofele, stanno le profonde radici della scienza. Ma
qui la scienza è salita sulla superficie, e se ne coglie i
frutti senza fatica. Tutto è dato, la scienza con esso le
sue prove e il suo linguaggio; sì che, ferme e intangibili
le parti superiori della scienza, non riman libera che l’ultima e più bassa operazione dell’intelletto, distinguere e
sottilizzare.
Essendo la scienza base di tutto l’edificio, ne seguitò
quella falsa poetica di cui è detto. La letteratura solenne
e dotta divenne un istrumento della scienza, un modo di
volgarizzarla. E tenne due vie, l’esposizione diretta o
l’allegorica. Nè altro fu l’intendimento di Dante nella
rappresentazione dell’altro mondo. Come que’ filosofi
che sotto nome di utopia costruiscono un mondo dove
sia realizzato il loro sistema, Dante costruisce il mondo
allegorico della scienza, dove pur trova modo di esporla
in forma diretta nelle sue parti sostanziali.
Egli ha aria di dire: – Volete salvarvi l’anima? Venite
appresso a me nell’altro mondo; ivi impareremo dalla
bocca de’ morti la filosofia morale, la scienza della salvazione. – E i morti parlano ed espongono la scienza, soprattutto in paradiso, i cui stalli sembrano convertiti in
vere cattedre o pulpiti. Nè la scienza è solo nelle parole
de’ morti, ma anche nella costruzione e rappresentazione dell’altro mondo, dove essa è sposta sotto figura, in
forma allegorica. Il sistema insegue il poeta in mezzo a’
suoi fantasmi, e dice: – Bada che tu non passeggi per curiosità, per osservare e dipingere: il tuo scopo è l’insegnamento della scienza per la salute dell’anima; non ti
dimenticare della scienza. – E la poetica gli soggiunge: –
Pensa che tutte le tue invenzioni, belle che sieno e maravigliose, sono nè più nè meno che sciocche bugie, quando non rendano odore di scienza: la poesia è un velo sotto il quale si dee nascondere la dottrina. – Ond’è che il
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poeta costringe la stessa realtà a produrre un contenuto
scientifico: dietro la realtà ci è la scienza, come dietro
l’ombra ci è il corpo; qui la scienza è il corpo, e la realtà
è l’ombra, «ombrifero prefazio del vero», anzi è meno
che ombra, perchè nell’ombra ci è pure l’immagine del
corpo. È l’alfabeto della scienza, come la parola è del
pensiero, un alfabeto composto non di lettere, ma di oggetti, ciascuno segno della tale e tale idea.
Questi erano i concetti, e queste le forme, a cui lo spirito era giunto. Perciò quel concetto fondamentale
dell’età, il mistero dell’anima o dell’umana destinazione,
non era ancora realizzato come arte; perchè l’arte è
realtà vivente, che abbia il suo valore e il suo senso in se
stessa, e qui la scienza, in luogo di calare nel reale ed obbliarvisi, lo tira e lo scioglie in sè.
Il mistero dell’anima era dunque o rozza e greggia
realtà nella letteratura popolare, o trattato e allegoria
nella letteratura dotta e solenne.
Dante s’impadronì di questo concetto e tentò realizzarlo come arte. Ma ci si mise con le stesse intenzioni e
con le stesse forme. Prese quella rozza realtà degli ascetici, e volle farne l’ombrifero prefazio del vero, l’allegoria della scienza. Da questa intenzione non potea uscir
l’arte.
Neppure l’esposizione della scienza in forma diretta è
arte. Il poeta che vuole esporre la scienza, e vuol pur fare una poesia, si propone un problema assurdo, voler
dare corpo a ciò che per sua natura è fuori del corpo. La
poesia si riduce dunque a un puro abbigliamento esteriore, non penetra l’idea, non se l’incorpora; l’idea rimane invitta nella sua astrazione. Dante spiega in questo
assunto tutte le forze della sua immaginazione; nessuno
più di lui ha saputo con tanta potenza assalire la scienza
nel proprio campo e farle forza; ma questo connubio
della poesia e della scienza, ch’egli chiama nel Convito
un «eterno matrimonio», non è uno di due, è un eterno
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due. La poesia può farle preziosi doni, può vestirla sontuosamente, ingemmarla, girarle attorno carezzevole,
può abbigliarla, non possederla. E la possiede allora solamente, quando non la vede più fuori di sè, perchè è divenuta la sua vita e anima, la realtà.
L’allegoria è una prima forma provvisoria dell’arte. È
già la realtà, che però non ha valore in se stessa, ma come figura, il cui senso e il cui interesse è fuori di sè, nel
figurato, oggetto o concetto che sia. E poichè nel figurato ci è qualche cosa che non è nella figura, e nella figura
ci è qualche cosa che non è nel figurato, la realtà divenuta allegorica vi è necessariamente guasta e mutilata. O il
poeta le attribuisce qualità non sue, ma del figurato come il veltro che si ciba di sapienza e di virtude, o esprime di lei solo alcune parti, e non perchè sue, ma perchè
si riferiscono al figurato, come il grifone del Purgatorio.
In tutti e due i casi la realtà non ha vita propria, o per
dir meglio non ha vita alcuna: l’interesse è tutto nel figurato, nel pensiero. Ora, o il pensiero è oscuro, e cessa
ogni interesse; o è dubbio, di maniera che ti si affaccino
più sensi, e tu rimani sospeso e raffreddato; o è chiaro, e
lo hai innanzi nella sua generalità, senza carattere poetico. La selva è figura della vita terrena. E la vita terrena,
appunto perchè figurato, ti si porge spoglia di ogni particolare, per cui e in cui è vita, generale e immobile come un concetto. Questo povero figurato è condannato,
come Pier delle Vigne, a guardarsi il suo corpo penzolare innanzi senza che mai sen rivesta; e non propriamente
suo, perchè quel corpo singolare, che chiamasi figura,
serve a due padroni, è sè ed un altro, è insieme lettera e
figura, un corpo a due anime, rappresentato in guisa,
che prima paia se stesso, la selva, e considerato attentamente mostri in sè le orme di un altro. Talora la figura fa
dimenticare il figurato; talora il figurato strozza la figura. Per lo più nel senso letterale penetrano particolari
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estranei che lo turbano e lo guastano, e per volerci procurare un doppio cibo ci si fa stare digiuni.
Adunque in queste forme non ci è ancora arte. La
realtà ci sta o come immagine del pensiero astratto ed
estrinseco, o come figura di un figurato parimente
astratto ed estrinseco. Non ci è compenetrazione dei
due termini. Il pensiero non è calato nell’immagine; il figurato non è calato nella figura. Hai forme iniziali
dell’arte non hai ancora l’arte.
Dante si è messo all’opera con queste forme e con
queste intenzioni. Se l’allegoria gli ha dato abilità a ingrandire il suo quadro e a fondere nel mondo cristiano
tutta la coltura antica, mitologia, scienza e storia, ha
d’altra parte viziato nell’origine questo vasto mondo, togliendogli la libertà e spontaneità della vita, divenuto un
pensiero e una figura, una costruzione a priori, intellettuale nella sostanza, allegorica nella forma.
E se la Commedia fosse assolutamente in questi termini, sarebbe quello che fu il Tesoretto prima e il Quadriregio poi, grottesca figura d’idee astratte.
Ma dirimpetto a quel mondo della ragione astratta viveva un mondo concreto e reale, la cui base era la storia
del vecchio e nuovo Testamento nella sua esposizione
letterale e allegorica, e che nelle allegorie, nei misteri,
nei cantici, nelle laude, nelle visioni, nelle leggende avea
avuta già tutta una letteratura. Era la letteratura degli
uomini semplici, poveri di spirito. A costoro la via a salute era la contemplazione non di esseri allegorici, figurativi della scienza ma reali; Dio, la Vergine, Cristo, gli
angioli, i santi, l’inferno, il purgatorio, il paradiso; ciò
che essi chiamavano l’altra vita, non figura di questa, anzi la sola che essi chiamavano realtà e verità. Il contemplante o il veggente era il santo, il profeta, l’apostolo,
banditore della parola di Dio; Dante, l’amico della filosofia, contemplando il regno divino, se ne fa non solo il
filosofo, ma il profeta e l’apostolo, rivelandolo e predi-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
candolo agli uomini; diviene il missionario dell’altro
mondo, ed è san Pietro che gli apre la bocca e lo investe
della sacra missione:
Apri la bocca,
e non asconder quel ch’io non ascondo.
Ora questo mondo cristiano, di cui si faceva il profeta,
era per lui una cosa così seria, come per tutt’i credenti,
seria nel suo spirito e nella sua lettera. Ne parla col linguaggio della scienza, lo intravvede attraverso la scienza,
ma la scienza non lo dissolveva, anzi lo illustrava e lo
confermava. Supporre che esso fosse una figura, una
forma trovata per adombrarvi i suoi concetti scientifici,
è un anacronismo, è un correre sino a Goethe. La scienza penetra in questo mondo come ragionamento o come
allegoria, e spiega la sua costruzione e il suo pensiero, a
quel modo che il filosofo spiega la natura. E come la natura, così l’altro mondo è per Dante più che figura, è vivace e seria realtà, che ha in se stessa il suo valore e il suo
significato.
Nè quel mondo cristiano rimane nella sua generalità
religiosa, com’è nei cantici, nelle prediche e ne’ misteri e
leggende. Dalla vita contemplativa cala nella vita attiva e
si concreta nella vita reale. Essendo la perfezione religiosa nel dispregio de’ beni terreni, i credenti, da Francesco d’Assisi a Caterina, non poteano vedere con animo
quieto i costumi licenziosi de’ chierici e de’ frati, la corruzione della città santa, dove Cristo si mercava ogni
giorno, il papa divenuto sovrano temporale e dominato
da fini e interessi terreni, in tresca adultera co’ re. Su
questo punto i santi sono così severi, come Dante; più
avean fede, e maggiore era l’indignazione. Venendo più
al particolare, abbiam visto Bonifazio legarsi con Filippo
il Bello contro l’imperatore, ciò che Dante chiama un
adulterio, inviare Carlo di Valois a Firenze, cacciarne i
Bianchi, instaurarvi i guelfi. Il guelfismo era allora la
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Chiesa, fatta meretrice del re di Francia, che la trasse
poco poi in Avignone, divenuta pietra di scandalo e aizzatrice di tutte le discordie civili. Come potere e interesse temporale, era essa non solo radice e causa della corruzione del secolo, ma impedimento alla costituzione
stabile delle nazioni, e massime d’Italia, in quella unità
civile o imperiale, che rendea immagine dell’unità del
regno di Dio. A questo mondo guasto contrapponevano
la purezza de’ tempi evangelici e primitivi e il vivere riposato e modesto delle città, prima che vi entrasse la
corruzione e la licenza de’ costumi, di cui la Chiesa dava
il mal esempio.
Come si vede, il mondo politico entrava per questa
via nel mondo cristiano, e ne facea parte sostanziale. La
politica non era ancora una scienza con fini e mezzi suoi:
era un’appendice dell’etica e della rettorica. E come vita
reale il suo modello era il mondo cristiano, di cui si ricordava un’immagine pura in tempi più antichi, una
specie di età dell, oro della vita cristiana.
Questo mondo cristiano-politico non era già per
Dante una contemplazione astratta e filosofica. Mescolato nella vita attiva, egli era giudice e parte. Offeso da
Bonifazio, sbandito da Firenze, errante per il mondo tra
speranze e timori, fra gli affetti più contrari, odio e amore, vendetta e tenerezza, indignazione e ammirazione,
con l’occhio sempre volto alla patria che non dovea più
vedere, in quella catastrofe italiana c’era la sua catastrofe, le sue opinioni contraddette, la sua vita infranta nel
fiore dell’età e offesi i suoi sentimenti di uomo e di cittadino. Le sue meditazioni, le sue fantasie mandano sangue. Non è Omero, contemplante sereno e impersonale;
è lui in tutta la sua personalità, vero microcosmo, centro
vivente di tutto quel mondo, di cui era insieme l’apostolo e la vittima.
Se dunque, come filosofo e letterato, involto nelle forme e ne’ concetti dell’età, volea costruire un mondo eti-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
co o scientifico in forma allegorica, come entra in quel
mondo, non vi trova più la figura. Simile a quel pittore
che s’inginocchia innanzi al suo san Girolamo, trasformatasi nell’immaginazione la figura nella persona del
santo, egli cerca la figura e trova una realtà piena di vita,
trova se stesso.
Oltre a ciò, Dante era poeta. Invano afferma che
«poeta» vuol dire «profeta», banditore del vero. Sublime
ignorante, non sapea dov’era la sua grandezza. Era poeta e si ribella all’allegoria. La favola, ciò ch’egli chiama
«bella menzogna», lo scalda, lo soverchia, e vi si lascia ir
dietro come innamorato, nè sa creare a metà, arrestarsi a
mezza via. Nel caldo dell’ispirazione non gli è possibile
starsi col secondo senso innanzi e formar figure mozze,
che vi rispondano appuntino, particolare con particolare, accessorio con accessorio, come riesce a’ mediocri.
La realtà straripa, oltrepassa l’allegoria, diviene se stessa; il figurato scompare, in tanta pienezza di vita, fra tanti particolari. Indi la disperazione de’ comentatori: egli
fece il suo mondo, e lo abbandonò alle dispute degli uomini.
Per metter d’accordo la sua poetica con la sua poesia,
Dante sostiene nel Convito che il senso letterale dee essere indipendente dall’allegorico, di modo che sia intelligibile per se stesso. Con questa scappatoia si è salvato
dalle strette dell’allegoria, ed ha conquistato la sua libertà d’ispirazione, la libertà e indipendenza delle sue
creature. Sia pure l’altro mondo figura della scienza; ma
è prima e innanzi tutto l’altro mondo, e Virgilio è Virgilio, e Beatrice è Beatrice, e Dante è Dante, e se di alcuna
cosa ci dogliamo, è quando il secondo senso vi si ficca
dentro e sconcia l’immagine e guasta l’illusione.
Sicchè nella Commedia, come in tutt’i lavori d’arte, si
ha a distinguere il mondo intenzionale e il mondo effettivo, ciò che il poeta ha voluto e ciò che ha fatto. L’uomo non fa quello che vuole, ma quello che può. Il poeta
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si mette all’opera con la poetica, le forme, le idee e le
preoccupazioni del tempo; e meno è artista, più il suo
mondo intenzionale è reso con esattezza. Vedete Brunetto e Frezzi. Ivi tutto è chiaro, logico e concorde: la
realtà è una mera figura. Ma se il poeta è artista, scoppia
la contraddizione vien fuori non il mondo della sua intenzione, ma il mondo dell’arte.
Come l’argomento siasi affacciato a Dante non è chiaro. Le memorie secrete del genio non sono scritte ancora e mal si può indovinare da quello che è espresso quello che è preceduto nello spirito d’un autore. È difficile
far la geologia di un lavoro d’arte, trovare nel definitivo
le tracce del provvisorio. È probabile che la Commedia
sia stata vagamente concepita fin dalla giovinezza, ad
imitazione di quelle «commedie dell’anima», di quelle
visioni dell’altra vita, così in voga; e che dapprima il
poeta pensasse solo alla glorificazione di Beatrice e alla
rappresentazione pura e semplice dell’altro mondo; e
forse de’ frammenti e anche de’ canti furono scritti prima che un disegno ben chiaro e concorde gli entrasse in
mente. Questo è il tempo oscuro alla critica e altamente
drammatico, il tempo de’ tentennamenti, del silenzioso
contendere con se stesso, degli abbozzi, del va e vieni,
storia intima del poeta. Il quale, quando gli si mostra
l’argomento, vede per prima cosa dissolversi quella parte di realtà che vi risponde, fluttuante come in una massa di vapori guardata da alto, dove gli alberi, i campanili,
i palazzi, tutte le figure si decompongono e si offrono a
frammenti. Chi non ha la forza di uccidere la realtà, non
ha la forza di crearla. Ma sono frammenti già penetrati
di virtù attrattiva, amorosi, che si cercano, si congregano, con desiderio, con oscuro presentimento della nuova vita a cui sono destinati. La creazione comincia veramente, quando quel mondo tumultuario e frammentario
trovi un centro intorno a cui stringersi. Allora esce
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dall’illimitato che lo rende fluttuante, e prende una forma stabile; allora nasce e vive, cioè si sviluppa gradatamente secondo la sua essenza. Ora il mondo dantesco
trovò la sua base nella idea morale.
La idea morale non è concetto arbitrario ed estrinseco all’argomento, è insito nell’altro mondo, è il suo concetto; perchè senza di quella l’altro mondo non ha ragion d’essere. La base dunque è vera, è nell’argomento;
e se difetto c’è, il difetto è nella natura dell’argomento.
Ma Dante meditandovi sopra, e non come poeta ma come filosofo, valicò l’argomento. Non è contento che la ci
sia, ma la mostra e la spiega. E non si contenta neppure
di questo. Quella idea diviene la filosofia, tutto un sistema di concetti ben coordinato, e non è più la base, il
senso interiore dell’altro mondo a quel modo che lo spirito è nella natura, ma è essa il contenuto, essa l’argomento, essa lo scopo. Così quella vivace realtà si va ad
evaporare in una generalità filosofica, e il lavoro diviene
un insegnamento morale-politico sotto il velo dell’altro
mondo. Il poeta spontaneo e popolare si volta nel poeta
dotto e solenne. Descrivere l’altro mondo così alla semplice e nel suo senso immediato gli pare un frivolo passatempo, la maniera de’ narratori volgari. La lettera ci è,
ma è per i profani, per gli uomini semplici, che non vedono di là dell’apparenza. Ma egli scrive per gl’iniziati,
per gl’intelletti sani, e loro raccomanda di non fermarsi
alla corteccia, di guardare di là! E tutti si son messi a
guardare di là.
Così sono nati due mondi danteschi, uno letterale e
apparente, l’altro occulto, la figura e il figurato. E poichè l’interesse è in questo senso occulto, in questo di là,
i dotti si son messi a cercarlo. L’hanno cercato, e non
l’hanno trovato, e dopo tante dispute e vane congetture,
esce infine il buon senso, esce Voltaire e dice: «Gl’italiani lo chiamano divino ma è una divinità occulta; pochi
intendono i suoi oracoli; la sua fama si manterrà sempre,
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perchè nessuno lo legge». E Voltaire vuol dire: – Abbiamo sudato parecchi secoli per capirti; e poichè non ti
vuoi far capire, statti con Dio –. E vuol dire ancora: –
Ne val poi la pena? È una falsa divinità quella che rimane nascosta –. Pure nè il veto del Voltaire valse ad arrestare le ricerche, nè il suo disprezzo ad intiepidire l’ammirazione. Con nuovo ardore italiani e stranieri si
misero a interpretare questo Giano a due facce o piuttosto a due mondi, l’uno visibile e l’altro invisibile; ciascuno si provò ad alzare un lembo del velo di cui si è ravvolto il dio. Ma nè acutezza d’ingegno, nè copia di
dottrina, nè profonda conoscenza di quei tempi, nè studio paziente delle altre sue opere hanno potuto trarci
fuori delle ipotesi e delle congetture. Gli antichi interpreti dissentivano ne’ particolari; il dissenso de’ moderni è più profondo: hai interi sistemi che si confutano a
vicenda. Oggi ancora non si pubblica un Dante in Germania, che non ci si appicchino nuove spiegazioni; non
puoi leggere una critica della Commedia, che non ti trovi
ingolfato in un pelago di quistioni. Dante è divenuto un
nome che spaventa, irto di sillogismi e soprasensi, e
spesso sei ridotto a domandarti: – Qual è il vero Dante?
– Poichè ciascun comentatore ha il suo, ciascuno gli appicca le opinioni e passioni sue, e lo fa cantare a suo modo, e chi ne fa un apostolo di libertà, di umanità, di nazionalità, chi un precursore di Lutero, chi un santo
Padre. Cercano Dante dove non è, cercano i suoi pregi
dove sono i suoi difetti, e qual maraviglia che il Lamartine alla sua volta cercandolo colà e non vel trovando, si
sia affrettato a conchiudere: «Dunque Dante non esiste»? Io ne conchiudo: – Poichè non è là, cerchiamolo
altrove. – La grandezza del dio non è nel santuario, ma
là dove si mostra con tanta pompa al di fuori. A forza di
cercar maraviglie in un mondo ipotetico, non vediamo
quelle che ci si affacciano innanzi. Parlando a coro della
dignità della Commedia e de’ veri e del senso arcano, si è
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data una importanza fattizia a questo mondo intellettuale-allegorico, se non fosse per altro, per la fatica che ci si
è spesa. Se Dante tornasse in vita, sentendo a dire che
Beatrice è l’eresia o la sua anima, che le arpie sono i monaci domenicani, che Lucifero è il papa, che il suo vocabolario è un gergo settario, e vedendo quanti sensi occulti gli sono affibbiati, potrebbe a più d’uno tirargli le
orecchie e dire: – Cotesto «arri» non ci misi io –. Ma gli
si potrebbe rispondere: – Vostra colpa: perchè non siete
stato più chiaro? Ci avete promessa un’allegoria: perchè
non ci avete data un’allegoria? La vostra figura non risponde appuntino al figurato: perchè l’avete fatta sì bella? Perchè le avete data tanta realtà? In tanta ricchezza
di particolari dove o come trovare l’allegoria? E qual
maraviglia che la stessa figura significhi una per me e
una per voi? Qual maraviglia che nella stessa figura si
trovi di che provare la verità di tre o quattro interpretazioni? E ci fosse solo un senso! Ma ci fate sapere che, oltre all’allegorico, ci è il senso morale e l’anagogico: dove
trovare il bandolo? I vostri ascetici gridano che il corpo
è un velo dello spirito: ma il peccatore fa di cappello allo
spirito e adora la carne. E anche voi gridate che i versi
sono un velo della dottrina; e, come il peccatore, piantate lì il figurato, e correte appresso alla figura, e la fate così impolpata, così corpulenta, che è un velo denso e fitto, di là dal quale non si vede nulla, e perciò si vede
tutto, quello che intendete voi e quello che intendiamo
noi. Se dunque la vostra allegoria è come l’ombra di
Banco, messa tra voi e noi, che ci toglie la vostra vista, se
il vostro poema è divenuto un immenso geroglifico, un
mondo ignoto, alla cui scoperta si son messi infruttuosamente molti Colombi; di chi è la colpa? Non è forse della vostra poca logica, che altro intendete e altro fate? –
Rimproveri che sono un elogio.
Così è. Dante è stato illogico; ha fatto altra cosa che
non intendeva. Ciascuno è quello che è, anche a suo di-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
spetto, anche volendo essere un altro. Dante è poeta, e
avviluppato in combinazioni astratte, trova mille aperture per farvi penetrare l’aria e la luce. Tratto ad una falsa
concezione dal vezzo de’ tempi, valica l’argomento e si
trova in un mondo di puri concetti, e fa di questi la sua
intenzione e si tira appresso tutta la realtà e ne vuol fare
la figura de’ suoi concetti. Ma, come attinge il reale, ivi
sente se stesso, ivi genera, ivi l’ingegno trova la sua materia; quelle figure prendono corpo, acquistano una vita
propria; e le diresti creature libere e indipendenti, se
quella benedetta intenzione non vi fosse rimasa attaccata come una palla di piombo, impacciando a volta a volta i loro movimenti. Così quel mondo intenzionale, tanto caro al poeta, si è ito come nebbia dissipando innanzi
alla luce del mondo reale, solo rimasto vivo. Tutto l’altro
è l’astratto di quel mondo, è il lavoro oltrepassato: non è
la Commedia, è il suo di là, la sua nebbia, che pur penetra qua e là e lascia delle grandi ombre, che gl’interpreti
dilatano e trasformano in una sola e vasta ombra. A quel
modo che i geologi scoprono i vestigi di forme imperfette, che attestano la lenta e progressiva formazione della
materia, qui si discernono i frammenti di un mondo
prosaico, intellettuale, allegorico, scissi, isolati, sterili,
più o meno tollerabili, secondo la maggiore o minore
abilità dell’esposizione, inviluppati in una forma più alta, alla quale il genio sospinge il poeta attraverso gli errori della sua poetica. I quali frammenti sono i fossili
della Commedia, morti già da gran tempo, vivi solo agli
eruditi, i geologi della letteratura; e se la loro morte non
ha potuto seco involgere il rimanente, gli è che il vero lavoro è in questo rimanente, dotato di una vita così fresca
e tenace, che distende un po’ di sua luce anche sulle parti morte. Quel contenuto astratto vive in grazia del mondo in cui si trova entrato: spiccatenelo, isolatelo, e non
se ne parlerebbe più.
Che cosa è dunque la Commedia? È il medio evo rea-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
lizzato come arte, malgrado l’autore e malgrado i contemporanei. E guardate che gran cosa è questa! Il medio
evo non era un mondo artistico, anzi era il contrario
dell’arte. La religione era misticismo la filosofia scolasticismo. L’una scomunicava l’arte, abbruciava le immagini, avvezzava gli spiriti a staccarsi dal reale. L’altra viveva di astrazioni e di formole e di citazioni, drizzando
l’intelletto a sottilizzare intorno a’ nomi e alle vacue generalità che si chiamavano «essenze». Gli spiriti erano
tirati verso il generale, più disposti a idealizzare che a
realizzare: ciò che è proprio il contrario dell’arte. Ne’
poeti semplici trovi il reale rozzo, senza formazione, come ne’ misteri, nelle visioni, nelle leggende. Ne’ poeti
solenni trovi una forma o crudamente didascalica, o figurativa e allegorica. L’arte non era nata ancora. C’era la
figura; non c’era la realtà nella sua libertà e personalità.
Dante raccoglie da’ misteri la Commedia dell’anima, e
fa di questa storia il centro di una sua visione dell’altro
mondo. Tutta questa rappresentazione non è che senso
letterale; la visione è allegorica, i personaggi sono figure
e non persone; ma ciò che è attivo nel suo spirito, lo
porta verso la figura e non verso il figurato. La sua natura poetica, tirata per forza nelle astrattezze teologiche e
scolastiche, ricalcitra e popola il suo cervello di fantasmi
e lo costringe a concretare, a materializzare, a formare
anche ciò che è più spirituale e impalpabile, anche Dio.
Quel mondo letterale lo ammalia, lo perseguita, lo assedia e non posa che non abbia ricevuta la sua forma definitiva; e non è più lettera, ma è spirito, non è più figura,
ma è realtà, è un mondo in sè compiuto e intelligibile,
perfettamente realizzato. Visione e allegoria, trattato e
leggenda, cronache, storie, laude, inni, misticismo e scolasticismo, tutte le forme, in questo gran mistero
dell’anima o dell’umanità, poema universale, dove si riflettono tutt’i popoli e tutti i secoli che si chiamano il
«medio evo».
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Ma questo mondo artistico, uscito da una contraddizione tra l’intenzione del poeta e la sua opera, non è
compiutamente armonico, non è schietta poesia. La falsa coscienza poetica disturba l’opera di quella geniale
spontaneità, e vi gitta dentro un tentennare, un non so
che di mal sicuro e di non compiuto, una mescolanza e
crudezza di colori. Il pensiero, ora nella sua crudità scolastica, ora abbellito d’immagini che pur non bastano a
vincere la sua astrattezza, vi ha troppo gran parte. Le
sue figure allegoriche ricordano talora più i mostri
orientali che la schietta bellezza greca, personificazioni
astratte, anzi che persone conscie e libere. Preoccupato
del secondo senso che ha in mente, spesso gli escono
particolari estranei alla figura, che turbano e distraggono il lettore e gli rompono l’illusione. La presenza perenne di un altro senso, che aleggia al di sopra della rappresentazione ed introducevisi a quando a quando, ne
turba la chiarezza e l’armonia. Anche lo stile, inviluppato alcuna volta in rapporti lontani e sottili, perde la sua
lucidità e riesce intralciato e torbido. Non è un tempio
greco: è un tempio gotico, pieno di grandi ombre, dove
contrari elementi pugnano, non bene armonizzati. Or
rozzo, or delicato. Ora poeta solenne, or popolare. Ora
perde di vista il vero e si abbandona a sottigliezze, ora lo
intuisce rapidamente e lo esprime con semplicità. Ora
rozzo cronista, ora pittore finito. Ora si perde nelle
astrattezze, ora di mezzo a quelle fa germogliare la vita.
Qui cade in puerilità, là spicca il volo a sopraumane altezze. Mentre tien dietro a un sillogismo, brilla la luce
dell’immagine. E mentre teologizza, scoppia la fiamma
del sentimento. Talora ti trovi innanzi ad una fredda allegoria, quando tutto ad un tratto vi senti dentro tremare la carne. Talora la sua credulità ti fa sorridere, talora
la sua audacia ti fa stupire. Fu un piccolo mondo, dove
si rifletteva tutta l’esistenza, com’era allora. I contrari
elementi, che fermentavano in una società ancora nello
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
stato di formazione, contendevano in lui. E senza che ne
avesse coscienza. Se guardi alle sue aspirazioni, tutto è
armonia. Filosofo, pensa il regno della scienza e della
virtù. Cristiano, contempla il regno di Dio. Patriota, sospira al regno della giustizia e della pace. Poeta, vagheggia una forma tutta luce e proporzione e armonia, lo bello stile: il suo autore è Virgilio. Maggiore era la barbarie
e la rozzezza, e più si vagheggiava un mondo armonico e
concorde. Ma il poeta è inviluppato egli medesimo in
quella rozza realtà e in quelle forme discordi; e ne sente
la puntura, e gli manca la serenità dell’artista. E gli esce
dalla fantasia un mondo dell’arte in gran parte realizzato, ma dove pur trovi gli angoli e le scabrosità di una
materia non perfettamente doma.
Entriamo in questo mondo, e guardiamolo in se stesso e interroghiamolo. Perchè un argomento non è tabula
rasa, dove si può scrivere a genio, ma è marmo già incavato e lineato, che ha in sè il suo concetto e le leggi del
suo sviluppo. La più grande qualità del genio è d’intendere il suo argomento, e diventare esso, risecando da sè
tutto ciò che non è quello. Bisogna innamorarsene, vivere ivi dentro, essere la sua anima o la sua coscienza E parimente il critico, in luogo di porsi innanzi regole astratte; e giudicare con lo stesso criterio la Commedia e
l’Iliade e la Gerusalemme e il Furioso, dee studiare il
mondo formato dal poeta, interrogarlo, indagare la sua
natura che contiene in sè virtualmente la sua poetica,
cioè le leggi organiche della sua formazione, il suo concetto, la sua forma, la sua genesi, il suo stile. Che cosa è
l’altro mondo?
È il problema dell’umana destinazione sciolto, è il mistero dell’anima spiegato, è la fine della storia umana, il
mondo perfetto l’eterno presente, l’immutabile necessità. Nella natura non ci è più accidente, nell’uomo non
ci è più libertà. La natura è predeterminata e fissata secondo una logica preconcetta, secondo l’idea morale.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Reale e ideale diventano identici, apparenza e sostanza è
tutt’uno. L’uomo non ha più libero arbitrio: è lì, fissato
e immobilizzato, come natura. Ogni azione è cessata;
ogni vincolo che lega gli uomini in terra, è sciolto: patria, famiglia, ricchezze, dignità, costumi. Non c’è più
successione, nè sviluppo, non principio e non fine: manca il racconto e manca il dramma. L’individuo scompare
nel genere. Il carattere, la personalità, non ha modo di
manifestarsi. Eterno dolore, eterna gioia, senza eco, senza varietà, senza contrasto nè gradazione. Non ci è epopea, perchè manca l’azione; non ci è dramma, perchè
manca la libertà; la lirica è l’immutabile e monotona
espressione di una sola aria; rimane l’esistenza nella sua
immobile estrinsechezza, descrizione della natura e
dell’uomo.
Che cosa è dunque l’altro mondo per rispetto all’arte? È visione, contemplazione, descrizione, una storia
naturale.
Ma in questa visione penetra la leggenda o il mistero,
perchè ivi dentro è rappresentata la commedia o redenzione dell’anima nel suo pellegrinaggio dall’umano al divino, «di Fiorenza in popol giusto e sano». Ci hai dunque l’apparenza di un dramma, che si svolge nell’altro
mondo, i cui attori sono Dante, Virgilio, Catone, Stazio,
il demonio, Matilde, Beatrice, san Pietro, san Bernardo,
la Vergine, Dio, dramma allegorico, come allegorica è la
Commedia dell’anima. Dico apparenza di un dramma,
perchè la santificazione nasce non dall’operare, ma dal
contemplare, e Dante contempla, non opera, e gli altri
mostrano, insegnano. Il dramma dunque svanisce nella
contemplazione.
Questo mondo così concepito era il mondo de’ misteri e delle leggende, divenuto mondo teologico-scolastico
in mano a’ dotti. Dante lo ha realizzato, gli ha dato l’esistenza dell’arte, ha creato quella natura e quell’uomo. E
se il suo mondo non è perfettamente artistico, il difetto
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
non è in lui, ma in quel mondo, dove l’uomo è natura e
la natura è scienza, e da cui è sbandito l’accidente e la libertà, i due grandi fattori della vita reale e dell’arte.
Se Dante fosse frate o filosofo, lontano dalla vita reale, vi si sarebbe chiuso entro e non sarebbe uscito da
quelle forme e da quell’allegoria. Ma Dante, entrando
nel regno de’ morti, vi porta seco tutte le passioni de’ vivi, si trae appresso tutta la terra. Dimentica di essere un
simbolo o una figura allegorica, ed è Dante, la più potente individualità di quel tempo, nella quale è compendiata tutta l’esistenza, com’era allora, con le sue astrattezze, con le sue estasi, con le sue passioni impetuose,
con la sua civiltà e la sua barbarie. Alla vista e alle parole
di un uomo vivo, le anime rinascono per un istante, risentono l’antica vita, ritornano uomini; nell’eterno ricomparisce il tempo; in seno dell’avvenire vive e si muove l’Italia, anzi l’Europa di quel secolo. Così la poesia
abbraccia tutta la vita, cielo e terra, tempo ed eternità,
umano e divino; ed il poema soprannaturale diviene
umano e terreno, con la propria impronta dell’uomo e
del tempo. Riapparisce la natura terrestre, come opposizione, o paragone, o rimembranza. Riapparisce l’accidente e il tempo, la storia e la società nella sua vita esterna ed interiore; spunta la tradizione virgiliana, con
Roma capitale del mondo e la monarchia prestabilita, ed
entro a questa magnifica cornice hai come quadro la storia del tempo, Bonifazio ottavo, Roberto, Filippo il Bello, Carlo di Valois, i Cerchi e i Donati, la nuova e l’antica Firenze, la storia d’Italia e la sua storia, le sue ire, i
suoi odii, le sue vendette, i suoi amori, le sue predilezioni.
Così la vita s’integra, l’altro mondo esce dalla sua
astrazione dottrinale e mistica, cielo e terra si mescolano, sintesi vivente di questa immensa comprensione
Dante, spettatore, attore e giudice. La vita guardata
dall’altro mondo acquista nuove attitudini, sensazioni e
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
impressioni. L’altro mondo guardato dalla terra veste le
sue passioni e i suoi interessi. E n’è uscita una concezione originalissima, una natura nuova e un uomo nuovo.
Sono due mondi onnipresenti, in reciprocanza d’azione,
che si succedono, si avvicendano, s’incrociano, si compenetrano, si spiegano e s’illuminano a vicenda, in perpetuo ritorno l’uno nell’altro. La loro unità non è in un
protagonista, nè in un’azione, nè in un fine astratto ed
estraneo alla materia, ma è nella stessa materia; unità interiore e impersonale, vivente indivisibile unità organica, i cui momenti si succedono nello spirito del poeta,
non come meccanico aggregato di parti separabili, ma
penetranti gli uni negli altri e immedesimantisi, com’è la
vita. Questa energica e armoniosa unità è nella natura
stessa de’ due mondi, materialmente distinti ma una cosa nell’unità della coscienza. Cielo e terra sono termini
correlativi, l’uno non è senza l’altro; il puro reale ed il
puro ideale sono due astrazioni; ogni reale porta seco il
suo ideale; ogni uomo porta seco il suo inferno e il suo
paradiso; ogni uomo chiude nel suo petto tutti gli dei
d’Olimpo: lo scettico può abolire l’inferno, non può
abolir la coscienza. Appunto perchè i due mondi sono la
vita stessa nelle sue due facce, in seno a questa unità si
sviluppa il più vivace dualismo, anzi antagonismo: l’altro
mondo rende i corpi ombre, ombre gli affetti e le grandezze e le pompe, ma in quelle ombre freme ancora la
carne, trema il desiderio, suonano d’imprecazioni terrene fino le tranquille vòlte del cielo. Gli uomini, con esso
le loro passioni e vizi e virtù rimangono eterni, come statue, in quell’attitudine, in quella espressione di odio, di
sdegno, di amore, che sono stati colti dall’artista; ma
mentre l’altro mondo eterna la terra, trasportandola nel
suo seno e ponendole dirimpetto l’immagine dell’infinito, ne scopre il vano e il nulla: gli uomini sono gli stessi
in un diverso teatro, che è la loro ironia. Questa unità e
dualità uscente dall’imo stesso della situazione balena al
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
di fuori nelle più varie forme, ora in un’apostrofe, ora in
un discorso, ora in un gesto, ora in un’azione, ora nella
natura, ora nell’uomo. In questa unità penetra la più
grande varietà, nè è facile trovare un lavoro artistico, in
cui il limite sia così preciso e così largo. Niente è nell’argomento che costringa il poeta a preferire il tal personaggio, il tal tempo, la tale azione: tutta la storia, tutti gli
aspetti sotto a’ quali si è mostrata l’umanità, sono a sua
scelta; e può abbandonarsi a suo talento alle sue ire e alle sue opinioni, e può intramettere nello scopo generale
fini particolari, senza che ne scapiti l’unità. Il che dà al
suo universo compiuta realità poetica, veggendosi nella
permanente unità tutto ciò che sorge e dalla libertà
dell’umana persona e dall’accidente, e moversi con vario
gioco tutt’i contrasti, e il necessario congiunto col libero
arbitrio, e il fato col caso.
Adunque, che poesia è codesta? Ci è materia epica, e
non è epopea; ci è una situazione lirica, e non è lirica; ci
è un ordito drammatico, e non è dramma. È una di quelle costruzioni gigantesche e primitive, vere enciclopedie,
bibbie nazionali, non questo o quel genere, ma il tutto,
che contiene nel suo grembo ancora involute tutta la
materia e tutte le forme poetiche, il germe di ogni sviluppo ulteriore. Perciò nessun genere di poesia vi è distinto ed esplicato: l’uno entra nell’altro, l’uno si compie
nell’altro. Come i due mondi sono in modo immedesimati, che non puoi dire: – Qui è l’uno, e qui è l’altro –;
così i diversi generi sono fusi di maniera, che nessuno
può segnare i confini che li dividono, nè dire: – Questo
è assolutamente epico, e questo è drammatico. –
È il contenuto universale, di cui tutte le poesie non
sono che frammenti, il «poema sacro», l’eterna geometria e l’eterna logica della creazione incarnata ne’ tre
mondi cristiani: la città di Dio, dove si riflette la città
dell’uomo in tutta la sua realtà del tal luogo e del tal
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tempo; la sfera immobile del mondo teologico, entro di
cui si movono tempestosamente tutte le passioni umane.
L’idea che anima la vasta mole e genera la sua vita e il
suo sviluppo, è il concetto di salvazione, la via che conduce l’anima dal male al bene, dall’errore al vero,
dall’anarchia alla legge, dal molteplice all’uno. È il concetto cristiano e moderno dell’unità di Dio sostituita alla
pluralità pagana. Questo concetto, se fosse solo un di
fuori, spiegato nella sua astrattezza dottrinale come pensiero, o rappresentato in forma allegorica come figurato,
non basterebbe a generare un’opera d’arte. Ma qui è
non solo il di fuori, ma il di dentro, non solo il significato e la scienza di quel mondo opera di filosofo e di critico, ma principio attivo, com’è nell’uomo e nella natura,
che costruisce e forma quel mondo, e gli dà una storia e
uno sviluppo. Questo principio attivo, se nella sua
astrattezza si può chiamare il vero o il bene, o la virtù o
la legge, come realtà viva e operosa è lo spirito, che ha
per suo contrario la materia o la carne, dove sta come in
una prigione o in un «vasello», da cui si sforza di uscire.
La vita è perciò un antagonismo, una battaglia tra lo spirito e la carne, tra Dio e il demonio. E la sua storia è la
progressiva vittoria dello spirito, la costui consapevolezza e libertà sotto le forme in cui vive, il suo successivo
assottigliarsi e scorporarsi e idealizzarsi sino a Dio, assoluto spirito, la Verità, la Bontà, l’Unità, l’ultimo Ideale.
Il concetto dantesco, lo spirito che alita per entro al suo
mondo, è dunque la progressiva dissoluzione delle forme, un costante salire di carne a spirito, l’emancipazione
della materia e del senso mediante l’espiazione e il dolore, la collisione tra il satanico e il divino, l’inferno e il paradiso, posta e sciolta. Omero trasporta gli dèi in terra e
li materializza; Dante trasporta gli uomini nell’altro
mondo e li spiritualizza. La materia vi è parvenza; lo spirito solo è; gli uomini sono ombre; i fatti umani si riproducono come fantasmi innanzi alla memoria; la terra
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
stessa è una rimembranza che ti fluttua avanti come una
visione; il reale, il presente è l’infinito spirito; tutto l’altro è «vanità che par persona». Questo assottigliamento
è progressivo: il velo si fa sempre più trasparente. L’Inferno è la sede della materia, il dominio della carne e del
peccato; il terreno vi è non solo in rimembranza, ma in
presenza; la pena non modifica i caratteri e le passioni; il
peccato, il terrestre si continua nell’altro mondo e s’immobilizza in quelle anime incapaci di pentimento: peccato eterno, pena eterna. Nel Purgatorio cessano le tenebre e ricomparisce il sole, la luce dell’intelletto, lo
spirito; il terreno è rimembranza penosa che il penitente
si studia di cacciar via, e lo spirito sciogliendosi dal corporeo si avvia al compiuto possesso di sè, alla salvazione. Nel Paradiso l’umana persona scomparisce, e tutte le
forme si sciolgono ed alzano nella luce; più si va su, e
più questa gloriosa trasfigurazione s’idealizza, insino a
che al cospetto di Dio, dell’assoluto spirito, la forma vanisce e non rimane che il sentimento:
... ... tutta cessa
mia visione e ancor mi distilla
nel cor lo dolce che nacque da essa.
Così la neve al sol si disigilla;
così al vento nelle foglie lievi
si perdea la sentenzia di Sibilla.
Questo concetto comprende tutto lo scibile e tutta la
storia; non solo costruisce e sviluppa il mondo dantesco,
ma lo incontrate sempre vivo nel cammino intellettuale
e storico della vita, sotto tutte le forme, in tutte le quistioni che si affacciano al poeta, in religione, in filosofia,
in politica, in morale, e così si concreta e compie in tutti
gl’indirizzi della vita. In religione è il cammino dalla lettera allo spirito, dal simbolo all’idea, dal vecchio al nuovo Testamento; nella scienza dall’ignoranza e dall’errore
alla ragione e dalla ragione alla rivelazione; in morale dal
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male al bene, dall’odio all’amore, mediante l’espiazione;
in politica dall’anarchia all’unità. Sottoposto alle condizioni di spazio e di tempo, diventa storia: il tale uomo, il
tale popolo, il tale secolo. In religione vi sta innanzi la
Chiesa romana, il papato, che il poeta vuole emancipare
dalle cure e passioni terrene e ricondurre al suo fine spirituale; in filosofia avete la scienza volgare e la scienza
della verità in paradiso; in morale vi stanno innanzi le
passioni, le discordie, le colpe e i vizi della barbara età,
dalle quali vi sentite a poco a poco allontanare nel vostro cammino verso il sommo bene; in politica è l’Italia
anarchica e sanguinosa che il poeta aspira a comporre a
pace e concordia nell’unità dell’impero. Così un solo
concetto penetra il tutto, come forma, come pensiero e
come storia. Mai più vasta e concorde comprensione
non era uscita da mente di uomo. Alcuni ci vedono dentro l’altro mondo, e il resto è una intrusione e quasi una
profanazione; Edgardo Quinet rimane choqué veggendo
come le passioni del poeta lo inseguono fino in paradiso;
altri ci veggono un mondo politico, di cui quello sia la
rappresentazione sotto figura. Chiamano questo poema
o «religioso», o «politico», o «didascalico», o «morale»,
lo riducono a querele di cattolici e protestanti, a dispute
di guelfi e ghibellini. Guardano non dall’alto del monte,
dalla pianura, e prendono per il tutto quello che incontrano nella diritta linea del loro cammino. Ciascuno si
fabbrica un piccolo mondo e dice: – Questo è il mondo
di Dante. – E il mondo di Dante contiene tutti quei
mondi in sè. È il mondo universale del medio evo realizzato dall’arte.
Questa immensa materia si forma e si sviluppa secondo il concetto in tre mondi, de’ quali l’inferno e il paradiso sono le due forze in antagonismo, carne e spirito,
odio e amore, e il purgatorio è il termine medio o di passaggio: tre mondi, de’ quali la letteratura non offriva che
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povere e rozze indicazioni, e che escono dalla fantasia
dantesca vivi e compiuti.
L’inferno è il regno del male, la morte dell’anima e il
dominio della carne, il caos: esteticamente è il brutto.
Dicesi che il brutto non sia materia d’arte, e che l’arte
sia rappresentazione del bello. Ma è arte tutto ciò che vive, e niente è nella natura che non possa esser nell’arte.
Non è arte quello solo che ha forma difettiva o in sè contraddittoria, cioè l’informe o il deforme o il difforme: e
perciò non è arte il confuso, l’incoerente, il dissonante, il
manierato, il concettoso, l’allegorico, l’astratto, il generale, il particolare: tutto questo non è vivo, è abbozzo o
aborto di artisti impotenti. L’altro, bello o brutto che si
chiami in natura, esteticamente è sempre bello.
In natura il brutto è la materia abbandonata a’ suoi
istinti, senza freno di ragione: e ne nasce una vita che ripugna alla coscienza morale e al senso estetico. Alla sua
vista il poeta vede negata la sua coscienza, negato se
stesso, e perciò lo concepisce come brutto e gli dice: –
Tu sei brutto. – Più il suo senso morale ed estetico è sviluppato, e più la sua impressione è gagliarda, più lo vede
vivo e vero innanzi alla immaginazione. Perciò non pensa a palliarlo, e tanto meno ad abbellirlo, anzi lo pone in
evidenza e lo ritrae co’ suoi propri colori.
Il brutto è elemento necessario così nella natura, come nell’arte; perchè la vita è generata appunto da questa
contraddizione tra il vero e il falso, il bene e il male, il
bello e il brutto. Togliete la contraddizione, e la vita si
cristallizza. Verità così palpabile che le immaginazioni
primitive posero della vita due princìpi attivi, il bene e il
male, l’amore e l’odio, Dio e il demonio; antagonismo
che si sente in tutte le grandi concezioni poetiche. Perciò il brutto, così nella natura, come nell’arte, ci sta con
lo stesso dritto che il bello, e spesso con maggiori effetti,
per la contraddizione che scoppia nell’anima del poeta.
Il bello non è che se stesso; il brutto è se stesso e il suo
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contrario, ha nel suo grembo la contraddizione, perciò
ha vita più ricca, più feconda di situazioni drammatiche.
Non è dunque maraviglia che il brutto riesca spesso
nell’arte più interessante e più poetico. Mefistofele è più
interessante di Fausto, e l’inferno è più poetico del paradiso.
Dante concepisce l’inferno come la depravazione
dell’anima, abbandonata alle sue forze naturali, passioni, voglie, istinti, desidèri, non governati dalla ragione o
dall’intelletto; contraddizione ch’egli esprime con
l’energia di uomo offeso nel suo senso morale:
... ... le genti dolorose,
che hanno perduto il ben dell’intelletto...
Che libito fe’ licito in sua legge...
Che la ragion sommettono al talento...
L’anima è dannata in eterno per la sua eterna impenitenza; peccatrice in vita, peccatrice ancor nell’inferno,
salvo che qui il peccato è non in fatto, ma in desiderio.
Onde nell’inferno la vita terrena è riprodotta tal quale,
essendo il peccato ancor vivo e la terra ancora presente
al dannato. Il che dà all’inferno una vita piena e corpulenta, la quale spiritualizzandosi negli altri due mondi
diviene povera e monotona. Gli è come un andare
dall’individuo alla specie e dalla specie al genere. Più ci
avanziamo, e più l’individuo si scarna e si generalizza.
Questa è certo perfezione cristiana e morale, ma non è
perfezione artistica. L’arte come la natura è generatrice,
e le sue creature sono individui, non specie o generi,
non tipi o esemplari; sono res, non species rerum, Perciò
l’inferno ha una vita più ricca e piena, ed è de’ tre mondi il più popolare. Aggiungi che la vita terrena o infernale è colta dal poeta nel vivo stesso della realtà in mezzo a
cui si trova, essendo essa la rappresentazione epica della
barbarie, nella quale il rigoglio della passione e la sovrabbondanza della vita trabocca al di fuori. Dante stes-
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so è un barbaro, un eroico barbaro, sdegnoso, vendicativo, appassionatissimo, libera ed energica natura. Al contrario la vita negli altri due mondi non ha riscontro nella
realtà, ed è di pura fantasia, cavata dall’astratto del dovere e del concetto, e ispirata dagli ardori estatici della
vita ascetica e contemplativa.
Essendo l’inferno il regno del male o della materia in
se stessa e ribelle allo spirito, la legge che regola la sua
storia o il suo sviluppo è un successivo oscurarsi dello
spirito, insino alla sua estinzione, alla materia assoluta.
Il suo punto di partenza è l’indifferente, l’anima priva
di personalità e di volontà, il negligente. Il carattere qui
è il non averne alcuno. In questo ventre del genere umano non è peccato, nè virtù, perchè non è forza operante:
qui non è ancora inferno, ma il preinferno, il preludio di
esso. Ma se, moralmente considerati, i negligenti tengono il più basso grado nella scala de’ dannati e paiono a
Dante «sciaurati» più che peccatori, il concetto morale
rimane estrinseco alla poesia e non serve che a classificare i dannati. Altri sono i criteri del poeta. La morale pone i negligenti sul limitare dell’inferno, la poesia li pone
più giù dell’ultimo scellerato, che Dante stima più di
questi mezzi uomini. E la poesia è d’accordo con la tempra energica del gran poeta e de’ suoi contemporanei. A
quegli uomini vestiti di ferro anima e corpo questi esseri
passivi e insignificanti doveano ispirare il più alto dispregio. E il dispregio fa trovare a Dante frasi roventi.
Sono uomini che vissero senza infamia e senza lode»,
anzi «non fur mai vivi». La loro pena è di essere stimolati continuamente, essi che non sentirono stimolo alcuno
nel mondo. La pena è minima, eppure tale è la loro fiacchezza morale, sono così vinti nel «duolo», che lacrimano e gettano le alte strida, che fanno tumultuare l’aria
come la rena quando il turbo spira.
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A’ loro piedi è la loro immagine, il verme. Turba infinita, senza nome: appena accenna ad un solo, e senza nominarlo,
colui che fece per viltate il gran rifiuto
Il loro supplizio è la coscienza della loro viltà, il sentirsi
dispregiati, cacciati dal cielo e dall’inferno. Ritratto immortale e popolarissimo, di cui alcuni tratti sono rimasti
proverbiali. Esseri poetici, appunto perchè assolutamente prosaici, la negazione della poesia e della vita: onde nasce il sublime negativo degli ultimi tre versi:
Fama di loro il mondo esser non lassa:
Misericordia e Giustizia gli sdegna.
Non ragioniam di lor; ma guarda e passa.
Se i negligenti non sono nell’inferno, perchè mancò loro
la forza del bene e del male, gl’innocenti e i virtuosi non
battezzati non sono in paradiso, perchè mancò loro la
fede, sono nel Limbo. E anche qui il concetto teologico
ci sta per memoria, per semplice classificazione. La poesia nasce da altre impressioni e da altri criteri. Il valore
poetico dell’uomo non è nella sua moralità e nella sua
fede, ma nella sua energia vitale; non è una idea, ma una
forza, il personaggio poetico. Perciò il negligente, considerato esteticamente, è un sublime negativo, la negazione della forza, il non esser vivo. E perciò qui nel Limbo
la mancanza di fede è un semplice accessorio, e l’interesse è tutto nel valore intrinseco dell’uomo, come essere
vivo, come forza. Dio ha lo stesso criterio poetico e dà
ad alcuni un luogo distinto non per la loro maggiore
bontà, ma per la fama che loro acquistò in terra la grandezza dell’ingegno e delle opere:
... ... L’onrata nominanza
che di lor suona su nel vostro mondo,
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grazia acquista nel ciel che sì gli avanza.
Concetto poco ascetico e poco ortodosso; ma Dio si fa
poeta con Dante e gli fabbrica un Eliso pagano, un
pantheon di uomini illustri. E chi vuol trovare le impressioni di Dante, quando alzava questo magnifico tempio
della storia e della coltura antica, e le impressioni che ne
dovettero ricevere i contemporanei, ricordi le sue impressioni quando giovinetto su’ banchi della scuola gli si
affacciavano le maraviglie di questo mondo greco-latino.
Aristotile, Omero, Virgilio, Cesare, Bruto, ciascuno di
questi nomi, quante memorie, quante fantasie suscitava!
Nudo è qui un elenco di nomi tra alcuni tratti caratteristici che segnano i protagonisti, il «signore dell’altissimo
canto» e il «maestro di color che sanno». E colui, che a
quella vista si sente «esaltare» in se stesso e s’incorona
poeta con le sue mani e si proclama il primo poeta de’
tempi nuovi, «sesto tra cotanto senno», è non il Dante
dell’altro mondo, ma Dante Alighieri. Ecco ciò che rende il Limbo così interessante, come il mondo de’ negligenti, due concezioni originalissime, uscite da un
profondo sentimento della vita reale e rimaste freschissime ne’ secoli. Molti tratti sono ancora oggi in bocca del
popolo.
Come l’inferno è concepito e ordinato, lo spiega nel
canto undecimo il poeta stesso, architetto e filosofo delle sue costruzioni. Quel regno del male è partito in tre
mondi, rispondenti alle tre grandi categorie del delitto:
la incontinenza e violenza, la malizia, e la fredda premeditazione. Ciascuna di queste categorie si divide in generi e specie, in cerchi e gironi. Il concetto etico di questa
scala de’ delitti è che dove è più ingiuria è più colpa, e
l’ingiuria non è tanto nel fatto, quanto nell’intenzione.
Perciò la malizia e la frode è più colpevole della incontinenza e violenza, e la fredda premeditazione de’ traditori è più colpevole della malizia. Indi la storica evoluzio-
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ne dell’inferno, dove da’ meno colpevoli, gl’incontinenti, si passa alla città di Dite, sede de’ violenti, e poi si
scende in Malebolge, e di là nel pozzo de’ traditori.
Questo è l’inferno scientifico o etico. Ma non è ancora
l’inferno poetico.
La poesia dee voltare questo mondo intellettuale in
natura vivente. L’ordine scientifico presenta una serie di
concetti astratti, il poetico una serie di figure, di fatti e
d’individui: il primo una serie di delitti, il secondo una
serie non solo d’individui colpevoli, ma di tali e tali individui. Dividere in categorie significa considerare in un
gruppo d’individui non quello che ciascuno ha di proprio, ma quello che ha di comune col gruppo a cui appartiene. Così una classificazione è possibile, una esatta
riduzione a generi e specie. Ma la poesia ritorna l’individuo nella sua libera personalità, e lo considera non come essere morale, ma come forza viva e operante. E più
in lui è vita, più è poesia. Perciò, se l’inferno, come
mondo etico, è il successivo incattivirsi dello spirito, sì
che alla violenza, comune all’uomo e all’animale, succede la malizia, «male proprio dell’uomo», e alla malizia la
fredda premeditazione, questo concetto poeticamente
rimane ozioso e non serve che alla sola classificazione.
Come natura vivente o come forma, l’inferno è la morte
progressiva della natura, la vita e il moto che manca a
poco a poco sino alla compiuta immobilità, alla materia
come materia, dove insieme con la vita muore la poesia.
Indi la storia dell’inferno.
Dapprima la situazione è tragica: il motivo è la passione, dove la vita si manifesta in tutta la sua violenza; perchè la passione raccoglie tutte le forze interiori, distratte
e sparpagliate nell’uso quotidiano della vita, intorno a
un punto solo, di modo che lo spirito acquista la coscienza della sua libertà infinita. Preso per se stesso lo
spirito ed isolato dal fatto, la sua forza è infinita e non
può esser vinta neppure da Dio, non potendo Dio fare
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ch’esso non creda, non senta e non voglia quello che
crede, sente e vuole. Non vi è donnicciuola, così vile,
che non si senta forza infinita, quando è stretta dalla
passione. – Io ti amo e ti amerò sempre, e se dopo morte
si ama, ed io ti amerò, e piuttosto con te in inferno che
senza te in paradiso. – Queste sono le eloquenti bestemmie che traboccano da un cuore appassionato, e che
rendono eroiche la timida Giulietta e la gentile Francesca.
Ma quando la passione vuole realizzarsi, s’intoppa in
un altro infinito, nell’ordine generale delle cose, di cui si
sente parte e innanzi a cui è un fragile individuo. E
n’esce la tragica collisione tra la passione e il fato, l’uomo e Dio, il peccato. Nella vita nè la passione, nè il fato
sono nella loro purezza: la passione ha le sue fiacchezze
e oscillazioni; il fato talora è il caso, o l’espressione collettiva di tutti gli ostacoli naturali e umani in cui intoppa
il protagonista. Ma nell’inferno l’anima è isolata dal fatto ed è pura passione e puro carattere, perciò inviolabile
e onnipotente, e il fato è Dio, come eterna giustizia e
legge morale: onde la prima parte dell’inferno, ove incontinenti e violenti, esseri tragici e appassionati, mantengono la loro passione di rincontro a Dio, è la tragedia
delle tragedie, l’eterna collisione nelle sue epiche proporzioni.
Tutto questo mondo tragico è penetrato dello stesso
concetto. La natura infernale non è ancora laida e brutta; anzi balzan fuori tutt’i caratteri che la rendono un sublime negativo, l’eternità, la disperazione, le tenebre.
L’eterno è sublime, perchè ti mostra un di là sempre allo
stesso punto, per quanto tu ti ci avvicini; la disperazione
è sublime, perchè ti mostra un fine non possibile a raggiungere, per quanto tu operi; la tenebra è sublime, come annullamento della forma e morte della fantasia, per
quella stessa ragione che è sublime la morte, il male, il
nulla. Leggete la scritta sulla porta dell’inferno. Ne’ pri-
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mi tre versi è l’eterno immobile che ripete se stesso, dolore, dolore e dolore, quel luogo, quel luogo e quel luogo, per me, per me e per me, insino a che in ultimo
l’eterno risuona nella coscienza del colpevole come disperazione:
Lasciate ogni speranza voi che entrate.
La luce, il «dolce lome», rende sublimi le tenebre, morte
del sole e delle stelle e dell’occhio, come è «l’aer senza
stelle», e il «loco d’ogni luce muto», e quel «ficcar lo viso al fondo» e «non discernere alcuna cosa». Certo,
l’eternità, le tenebre e la disperazione sono caratteri comuni a tutto l’inferno; ma solo qui sono poesia, quando
l’inferno si affaccia per la prima volta alla immaginazione nella gagliardia e freschezza delle prime impressioni.
Appresso, diventano spettacolo ordinario, come è il sole, visto ogni giorno.
E Dante, che parte da princìpi preconcetti nelle sue
costruzioni scientifiche, quando è tutto nel realizzare e
formare i suoi mondi, opera con piena spontaneità, abbandonato alle sue impressioni. Il canto terzo è il primo
apparire dell’inferno, e come ci si sente la prima impressione, come si vede il poeta esaltato, turbato dalla sua visione, assediato di forme, di fantasmi, impazienti di venire alla luce! In quel «diverse voci, orribili favelle» ecc.,
non ci è solo il grido de’ negligenti: ci è lì tutto l’inferno,
che manda il suo primo grido. Quel canto del sublime è
una sola nota musicale variamente graduata, è l’eterno,
il tenebroso, il terribile, l’infinito dell’inferno, che invade e ispira il poeta e vien fuori co’ vivi colori della prima
impressione, è il vero canto del regno de’ morti, della
«morta gente», è l’albero della vita, che il poeta sfronda
a foglia a foglia ad ogni passo che fa, e ne toglie la speranza:
Lasciate ogni speranza voi che entrate.
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E ne toglie le stelle:
risonavan per l’aer senza stelle.
E ne toglie il tempo:
facevano un tumulto il qual s’aggira
sempre in quell’aria senza tempo tinta.
E ne toglie il cielo:
non isperate mai veder lo cielo.
E ne toglie Dio:
ch’hanno perduto il ben dello intelletto.
Questa natura sublime dapprima è indeterminata, senza
contorni, cerchio, loco, null’altro: la diresti natura vuota, se non la riempissero l’eternità e le tenebre e la morte
e la disperazione. Nel regno de’ violenti prende una forma. Si esce dal sublime: si entra nel bello negativo. Incontri tutto ciò che è figura, ordine, regolarità, proporzione in terra; anzi con vocabolo umano è chiamata
città, la città di Dite. Vedi selve, laghi, sepolcri; e l’effetto poetico nasce dal trovare la stessa figura, ma spogliata
di tutti gli accessorii che la rendono bella in terra.
Non frondi verdi, ma di color fosco:
non rami schietti, ma nodosi e involti
non pomi v’eran, ma stecchi con tosco.
La natura spogliata della sua vita, del suo cielo, della sua
luce, delle sue speranze, è un sublime che ti gitta
nell’animo il terrore; la natura spogliata della sua bellezza è un bello negativo pieno di strazio e di malinconia. È
la natura snaturata, depravata, a immagine del peccato:
con la virtù se n’è ita la bellezza, sua faccia.
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Questa natura snaturata vien fuori con maggior vita
nelle pene. Perchè il concetto nella natura sta immobile
come nell’architettura e nella scultura; dove nelle pene
acquista ogni varietà di attitudini e di movenze. Le pene
sono la coscienza fatta materia, e qui esprimono la violenza della passione. In quella natura eterna e tenebrosa
odi un mugghio, «come fa mar per tempesta», e il rovescio della grandine, e il cozzo delle moltitudini: moti disordinati, violenti, come i moti dell’animo. Vedi tombe
ardenti, laghi di sangue, alberi che piangono e parlano,
la natura sforzata e snaturata dal peccatore. Gli strani
accozzamenti producono l’effetto del maraviglioso e del
fantastico, ma il fantastico è presto vinto e ti piglia il raccapriccio e l’orrore. Il poeta prende in troppa serietà il
suo mondo per darsi uno spasso di artista e sorprenderti
con colpi di scena: tocca e passa; e non vuol fare effetto
sulla tua immaginazione, vuol colpire la tua coscienza.
Dove il fantastico è più sviluppato, è nella selva de’ suicidi; ma anche lì vien subito la spiegazione, e la maraviglia dà luogo a una profonda tristezza.
Ma il concetto non ha ancora la sua subiettività, non è
ancora anima. Un primo grado di questa forma è nel demonio. Cielo e inferno sono stati sempre popolati di legioni angeliche e sataniche, che riempiono l’intervallo
tra l’uomo e Dio, tra l’uomo e Satana. È la storia del bene e del male che si sviluppa nella nostra anima, un progressivo indiarsi o indemoniarsi. Diversi di nomi e di
forme secondo le religioni e le civiltà, i demòni hanno
per base i diversi gradi del male, e per forma il gigantesco e il mostruoso, il puro terrestre, il bestiale giunto
all’umano, e spesso preponderante, come nella sfinge,
nella chimera, in Cerbero. Il demonio di Dante non ha
più la sua storia, come in terra, spirito tentatore accanto
all’uomo e ribelle e rivale di Dio. Qui è immobilizzato
come l’uomo; la sua storia è finita; cosa gli resta? Soffrire e far soffrire, vittima e carnefice a un tempo, simbolo
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esso stesso e immagine del peccato che flagella nell’uomo. Il Satana di Milton e Mefistofele, che combattono
contro Dio e contro l’uomo, erano compiute persone
poetiche. Altra è qui la situazione, e altro è il demonio.
Esso è il vinto di Dio, e meno che uomo, perchè non è
dell’uomo che una sua parte sola, il peccato. È piuttosto
tipo, specie, simbolo, che persona. È il più basso gradino nella scala degli esseri spirituali, lo spirito tra l’umano e il bestiale, in cui l’intelletto è ancora istinto e la volontà è ancora appetito. Figure vive e mobili della colpa,
ma figure, semplice esteriorità: non carattere, non passione, non intelligenza, non volontà. Fra gl’incontinenti
e i violenti il demonio è tragico e serio: è azione mimica
e tutta esterna, passione tradotta in moti e gesti, senza la
parola, salvo brevi imprecazioni. La natura ti dà figura e
colore: qui la figura si muove e il colore si anima, è la figura in azione. Il poeta ha scossa la polvere dalle antiche
forme pagane, e le ha rifatte e rinnovate. Come a costruire il suo inferno toglie alla terra le sue forme, e
strappandole dal circolo loro assegnato, le compone diversamente e ti crea una nuova natura; così ad esprimere
lo spirito toglie dalla mitologia tutte le forme demoniache, Minos Caronte, Cerbero, Pluto, Gerione, le arpie,
le furie, e le trasporta nel suo inferno: le trova vuote e libere, spogliate di concetto, di vita e di religione, e le ricrea, le battezza, impressovi sopra il suo pensiero e la
sua religione. Il demonio meno lontano dall’uomo è Caronte, in cui vien fuori l’apparenza di un carattere: impaziente rissoso, manesco, che grida e batte. Il poeta si è
ben guardato di sviluppare il comico che è in questo carattere: la figura di Caronte rimane severa e grave, e non
fa dissonanza con la solennità della natura infernale, dove si trova collocata. Minos è il giudizio rappresentato in
modo affatto esteriore e plastico, e rapido come saetta:
dicono e odono e poi son giù vòlte.
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Le altre figure sono schizzi, appena disegnati; ingegnoso
è il ritratto di Gerione, che ha ispirato una delle più belle ottave dell’Ariosto.
Noi concepiamo oramai la costruzione de’ singoli
canti. Il poeta comincia col porci innanzi la natura del
luogo e la qualità della pena; il demonio ora precede,
ora vien subito dopo; poi vedi peccatori presi insieme e
misti, non ancora l’individuo, ma l’uomo collettivo,
gruppi di mezzo a’ quali spesso si stacca l’individuo e tira la tua attenzione.
I gruppi sono l’espressione generale del sentimento
che riempie i peccatori nella società infernale; sono la
parentela del delitto, dove trovi nello stesso lago di sangue i tiranni Ezzelino e Attila e gli assassini di strada Rinier da Corneto e Rinier Pazzo.
Come nella natura e nel demonio, così ne’ gruppi
l’aspetto è dapprima severo e tragico. Essi esprimono il
sublime dello spirito la disperazione. L’uomo ha bisogno di avere innanzi a sè qualche cosa a cui tenda; al
pensiero succede pensiero; il cuore vive quando da sentimento germoglia sentimento; l’uomo vive quando è in
un’onda assidua di pensieri e di sentimenti; la disperazione è l’annullamento della vita morale, la stagnazione
del pensiero e del sentimento, la morte, il nulla, il caos,
le tenebre dello spirito, un sublime negativo. Come il sublime delle tenebre è nella luce che muore, il sublime
della disperazione è nella morte della speranza:
nulla speranza gli conforta mai
non che di posa, ma di minor pena.
L’espressione estetica della disperazione è la bestemmia,
violenta reazione dell’anima, innanzi a cui tutto muore,
e che nel suo annichilamento involge l’universo:
Bestemmiavano Iddio e i lor parenti,
l’umana specie e il luogo e il tempo e ’l seme
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di lor semenza e di lor nascimenti.
La passione trasforma la faccia dell’uomo, abitualmente
tranquilla, il peccato gli siede sulla fronte e fiammeggia
negli occhi: momento fuggevole che Dante coglie e rende eterno ne’ suoi gruppi. Gli avari stanno col pugno
chiuso, gl’irosi si lacerano le membra: violenza di moti
appassionati, niente che sia basso o vile: puoi abborrirli,
non puoi disprezzarli.
Immaginate una piramide. Nella larghissima base vedete la natura infernale. Più su è il demonio, figura bestiale in faccia umana, bestia talora in tutto, mai in tutto
uomo. Alzate ancora l’occhio, e vedete gruppi nella violenza della passione. È la stessa idea che si sviluppa e si
spiritualizza, insino a che da questo triplice fondo si eleva sulla cima la statua, l’individuo libero, l’idea nella sua
individuale realtà, e più che l’idea, se stesso nella sua libertà. È di mezzo a quella folla confusa, a quei gruppi,
che escono i grandi uomini dell’inferno o piuttosto della
terra; è da questa triplice base dell’eternità che esce fuori il tempo e la storia e l’Italia e più che altri Dante come
uomo e come cittadino.
L’inferno degl’incontinenti e de’ violenti è il regno
delle grandi figure poetiche. Qui trovi come in una galleria di personaggi eroici Francesca, Farinata, Cavalcanti, Pier delle Vigne, Brunetto Latini, Capaneo, Dante, il
Fato, Dio e la Fortuna. Sono in presenza forze colossali,
la energia della passione e la serenità del fato. Qui è
Francesca eternamente unita al suo Paolo, là è la Fortuna che non ode le imprecazioni degli uomini e beata si
gode. Ora ti percote il suono della divina giustizia che in
eterno rimbomba; ora ti stupisce Capaneo che tra le
fiamme oppone sè a tutte le folgori di Giove. Su questo
fondo tragico s’innalza la libera persona umana e vi si
spiega in tutta la ricchezza delle sue facoltà. Qui uscia-
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mo dalle astrattezze mistiche e scolastiche, e prendiamo
possesso della realtà. La donna non è più Beatrice, il tipo realizzato de’ trovatori, fluttuante ancora tra l’idea e
la realtà; qui acquista carattere, storia, passioni, una ricca e vivace personalità, è Francesca da Rimini, la prima
donna del mondo moderno. L’uomo non è più il santo
con le sue estasi e le sue visioni; qui ha la sua patria, il
suo uffizio, il suo partito, la sua famiglia, le sue passioni
e il suo carattere; è Farinata, è Cavalcanti, è Brunetto, è
Pier delle Vigne, è Dante Alighieri, alla cui fiera natura
Virgilio applaude:
... ... Alma sdegnosa,
benedetta colei che in te s’incinse!
L’inferno dà loro una realtà più energica, creando nuove immagini e nuovi colori. Pier delle Vigne giura «per
le nuove radici del suo legno». Farinata dice:
ciò mi tormenta più che questo letto.
All’annunzio della morte del figlio, Cavalcanti
supin ricadde e più non parve fuora.
Brunetto raccomanda il suo Tesoro, nel quale si sente vivere ancora. Capaneo può dire: «Qual i’ fui vivo, tal son
morto». E Francesca ricorda il tempo felice nella miseria. L’inferno è il loro piedistallo, sul quale si ergono col
petto e con la fronte, affermando la loro umanità. Nascono situazioni e forme novissime, che danno rilievo alle figure e a’ sentimenti.
Questo mondo tragico, dove l’impeto della passione e
la violenza del carattere mette in gioco tutte le forze della vita, ha la sua perfetta espressione in questi grandi individui, rimasti così vivi e giovani e popolari, come
Achille ed Ettore. È il mondo della grande poesia, della
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epopea e della tragedia. E ora quale contrasto! Lasciamo appena le falde dilatate di foco e la rena che s’infiamma come esca sotto fucile, e ci troviamo in una pozzanghera che fa zuffa con gli occhi e col naso. Lasciamo
i tragici demòni dell’antichità, i centauri e le arpie, e incontriamo diavoli con le corna e armati di frusta, e vilissimi uomini che alle prime percosse scappano
senz’aspettar le seconde nè le terze. In luogo di Capaneo
con la fronte levata, il primo che vediamo ha gli occhi
bassi, vergognoso di mostrarsi; e Dante, così riverente e
pietoso finora e anche sdegnoso, diviene maligno e sarcastico, e compone per la prima volta il labbro ad un
sorriso sardonico. Chiama «salse pungenti» quel letamaio,
che dagli uman privati parea mosso
. Un altro lo sgrida:
... ... «Perchè se’ tu sì ingordo
di riguardar più me che gli altri brutti?»
E Dante, che lo vede col capo lordo tanto che non parea
«s’era laico o cherco», gli ricorda crudelmente di averlo
veduto in terra co’ capelli asciutti. E quegli esprime il
suo dolore, «battendosi la zucca». Tutto è mutato: natura, demonio e uomo, immagini e stile. Cadiamo in pieno
plebeo. Chi sono questi uomini? Sono adulatori e meretrici dannati alla stessa pena: gli uni vendono l’anima, le
altre vendono il corpo. Sentite che noi passiamo in un
altro mondo, nel mondo de’ fraudolenti.
Esteticamente, il mondo de’ fraudolenti è la prosa
della vita; precipitata dal suo piedistallo ideale, e divenuta volgarità. È la passione che si muta in vizio, il carattere che diviene abitudine, la forza che diviene malizia.
La passione è poetica, perchè ha virtù di concitare tutte
le forze dell’anima, sì ch’elle prorompano di fuori libe-
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ramente: il vizio è la passione fatta abitudine, ripetizione
degli stessi atti, un fare perchè si è fatto; è l’artista divenuto artefice, l’arte divenuta mestiere. L’uomo appassionato spiritualizza la sua azione, ci mette dentro se stesso,
ma nel vizioso l’anima è sonnolenta, la sua azione è stupida materia, atto meccanico a cui lo spirito rimane
estraneo. La passione produce il carattere, la forte volontà, che è la stessa passione in continuazione; il vizio
ha compagna la fiacchezza e bassezza dell’anima, non
essendo altro la bassezza che l’abdicazione e l’apostasia
della propria anima. I grandi caratteri sicuri di sè hanno
a loro istrumento la forza, impetuosi fino all’imprudenza, semplici fino alla credulità; gli animi fiacchi hanno a
loro istrumento la malizia, coscienza della loro impotenza, e, pipistrelli notturni, assaltano alle spalle e non osano guardare in viso.
In questo mondo il di fuori è mutato, perchè mutato è
il di dentro, ove non trovi più caratteri e passioni, ma vizio, bassezza e malizia, lo spirito oscurato e materializzato, la dissoluzione della vita. A quei cerchi indeterminati, a quella città rosseggiante di Dite, nomi e figure
terrene, succede un non so che, una cosa senza nome,
che il poeta chiama bizzarramente «Malebolge», una natura sformata e in dissoluzione, ripe scoscese, scogli mobili che fanno da ponticelli, e giù valloni paludosi, dove
le acque finora impetuose e correnti stagnano e si putrefanno, valloni angusti, bolge, valigie, borse, che stringendosi più e più vanno a finire in un pozzo: natura piccola, in rovina e in putrefazione. Al demonio mitologico
iroso e appassionato succede il diavolo cornuto, essere
grottesco, o piuttosto i diavoli che vanno in frotte, e si
mescolano in ignobili parlari con la gente più abbietta, e
canzonano e sono canzonati, maliziosi, bugiardi, plebei,
osceni. Al vivo movimento delle bufere e delle grandini
e delle fiamme succede la materia in decomposizione,
quanti strazi di carne umana ti offrono i campi di batta-
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glia e quante malattie ti offre lo spedale. Tali la natura, il
demonio, le pene. Vedi ora l’uomo. La faccia umana è
rimasta finora inviolata: innanzi all’immaginazione la
passione invermiglia la faccia di Francesca, e la grandezza dell’anima pare nella faccia dell’uomo che si leva dritto dalla cintola in su. Qui la faccia umana sparisce: hai
caricature e sconciature di corpi. Uomini cacciati in una
buca, capo in giù, piedi in su; vólti travolti in su le spalle, sì che il pianto scende giù per le reni; visi, occhi e
corpi imbacuccati e incappucciati; musi umani fuor della pegola a modo di ranocchi; corpi, altri smozzicati, accismati, altri marciti e imputriditi, scabbiosi, tisici, idropici. Di questa figura umana deturpata e contraffatta
l’immagine più viva è Bertram dal Bormio, il cui busto si
fa lanterna del suo capo che porta pesol per le chiome.
In questo mondo prosaico e plebeo, che comincia con
Taide e finisce con mastro Adamo, la materia ovvero la
parte bestiale prevale tanto, che spesso siamo in sul domandarci: – Costoro sono uomini o bestie? – Non sono
ancora bestie, e l’uomo già muore in loro:
che non è nero ancora e il bianco muore.
Sono figure miste in una faccia tra bestiale e umana; e la
più profonda concezione di Malebolge è questa trasformazione dell’uomo in bestia e della bestia in uomo: hanno l’appetito e l’istinto della bestia, hanno la coscienza
dell’uomo. Si sanno uomini e sono bestie; e qui è la pena, nella coscienza umana che loro è rimasta.
La forma estetica di questo mondo è la commedia,
rappresentazione de’ difetti e de’ vizi. Fra tanta fiacchezza della personalità il grande uomo, l’individuo, è
gittato nell’ombra, e vien su il descrittivo, l’esteriorità.
Nell’inferno tragico le descrizioni sono sobrie e rapide,
l’interesse principale è negli attori che prendono la parola: qui è un gregge muto, visto da lontano. Virgilio di-
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ce a Dante: – Vedi là Mirra, vedi Giasone, vedi Manto. –
Appena è se qualche epiteto ti segna in fronte alcuno de’
più grandi personaggi, come si fa di Giasone:
e per dolor non par lacrima spanda.
Prima dite: «Il canto di Francesca, di Farinata, di ser
Brunetto Latini» ; ora dite: «Il canto de’ ladri, de’ falsari, de’ truffatori»: vi sono gruppi, non individui; vi è il
descrittivo, manca il drammatico. Manca la grandezza
negli attori, e manca la pietà negli spettatori. La figura
umana così torta, che il pianto degli occhi bagnava le natiche, cava a Dante lacrime; l’«homo sum» si sente colpito in lui; ma Virgilio lo sgrida:
Ancor sei tu degli altri sciocchi?
Qui vive la pietà, quand’è ben morta.
Abbonda il descrittivo; l’immaginazione di Dante è così
robusta, che avendo a fare con oggetti così fuori della
natura, non che sentirsi impacciata, pare che scherzi:
con tanta facilità e spontaneità esprime le più varie e
strane attitudini: la fiamma parla come lingua d’uomo,
le zanche piangono e fremono. Il più grande sforzo
dell’immaginazione umana è la trasformazione di uomini in bestie, nel canto ventesimoquinto, quantunque la
soverchia minutezza generi sazietà.
Fra tanti gruppi sorge qua e là alcuno individuo in cui
si sviluppa con più chiara coscienza il concetto di Malebolge. Un lato serio di questo concetto è lo spirito che
varca il limite assegnatogli. Se la ragione potesse veder
tutto,
mestier non era partorir Maria.
L’esperienza avea le sue colonne d’Ercole; la ragione
avea pure le sue colonne. Questo concetto qui è serio,
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non è sublime, nè tragico; perchè l’uomo, che con la temerità oraziana sforza la natura, è qui non dirimpetto a
Dio come Prometeo e Capaneo, ma colpito e soggiogato, senza che in lui paia vestigio di ribellione, di orgoglio
e di violenza:
... ... Dove rui,
Anfiarao? perchè lasci la guerra?
E non restò di rovinare a valle,
fino a Minòs che ciascheduno afferra.
L’uomo di Orazio è sublime, perchè lo vedi nell’opera,
senti in lui la voluttà del frutto proibito, malgrado Dio e
la natura. Anfiarao è un puro nome; sublime di terrore è
quel suo precipitare a valle, mostrandocelo successivamente inabissarsi, ma il grottesco vien subito dopo:
Mira che ha fatto petto delle spalle:
perchè volle veder troppo davante,
di rietro guarda e fa ritroso calle.
Ulisse, che ha varcato i segni di Ercole, è travolto nelle
acque per giudizio di Dio, «come a lui piacque». Pure
un po’ dell’audacia di Ulisse è ancora in Dante, che gli
mette in bocca nobili parole, e ti fa sentire quell’ardente
curiosità del sapere che invadeva i contemporanei. Ti
par di assistere al viaggio di Colombo. Il peccato diviene
virtù. Se la logica ghibellina pone in inferno l’autore
dell’agguato contro Troia, radice dell’impero sacro romano, la poesia alza una statua a questo precursore di
Colombo, che indica col braccio nuovi mari e nuovi
mondi, e dice a’ compagni:
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza.
Ulisse è il grand’uomo solitario di Malebolge. È una pi-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ramide piantata in mezzo al fango. Il comico penetra da
tutt’i lati, traendosi appresso il lordo, l’osceno, il disgustoso: lo spirito, divenuto malizia, è qui decaduto, degradato; e con lui si oscura la nobile faccia umana. Ulisse stesso per la sua malizia ha la sua figura coperta e
fasciata dalle fiamme. Siamo in un mondo comico.
La regina delle forme comiche è la caricatura, il difetto colto come immagine e idealizzato. Al che si richiede
che il personaggio operi ingenuamente e brutalmente,
come non avesse coscienza del suo difetto, a quel modo
che si vede in Sancio Panza e in don Abbondio, eccellenti caratteri comici. I dannati di Malebolge sono così
fatti: essi sono cinici e perciò ridicoli, come i diavoli nel
canto ventesimosecondo, rissosi, abietti, vanitosi, bassamente feroci ne’ loro atti. Così sono i ladri, i truffatori, i
barattieri, plebe in cui il vizio è così connaturato, che
non se ne accorge più. Tale è Nicolò terzo vano del suo
papale ammanto, che crede Dante venuto nell’inferno
apposta per veder lui. Tali sono pure Sinone e maestro
Adamo. Essi si mostrano nella loro naturalezza, e possono essere rappresentati nella forma diretta e immediata,
isolando il difetto dagli accessorii e idealizzandolo, divenuto un contromodello, l’immagine opposta a quel tipo,
a quel modello di perfezione che ciascuno ha in mente:
qui è la caricatura. Le concezioni di Dante sono di un
comico plebeo della più bassa lega: sia esempio la rissa
tra Sinone e maestro Adamo. Si rimane nel buffonesco,
l’infimo grado del comico. Quest’uomo, così possente
creatore d’immagini nell’inferno tragico, qui si sente arido, freddo, in un mondo non suo. Le situazioni sono comiche, ma il comico è rozzamente formato, e non è artistico, non ha la sua immagine che è la caricatura, nè la
sua impressione che è il riso. Due persone in rissa cadono in un lago d’acqua bollente che li divide. Situazione
comica, se mai ce ne fu. Il poeta dice:
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Lo caldo sghermidor subito fue.
Espressione vivace, ma che non sveglia nessuna immagine e ti lascia freddo. Non ha saputo cogliere quel movimento, quella smorfia che fanno quando si sentono scottare e si sciolgono. La pancia di mastro Adamo, che
sotto il pugno di Sinone «sonò come fosse un tamburo»,
è una felice caricatura; ma è una freddura il dire:
e mastro Adamo gli percosse ’l volto
col pugno suo che non parve men duro.
Manca spesso a Dante la caricatura, e i suoi versi più comici non fanno ridere. Perchè a fare la caricatura bisogna fermare l’immaginazione nell’oggetto comico, spassarcisi, obbliarsi in quello, alzarlo a contromodello.
Dante non ha questo sublime obblio comico, non ha indulgenza, nè amabilità. Teme di sporcarsi tra quella
gente, e se ode, se ne fa rimproverare da Virgilio, e se ci
sta, se ne scusa:
Ahi fera compagnia! Ma in chiesa
coi santi e in taverna coi ghiottoni.
Il suo riso è amaro; di sotto alla facezia spunta il disdegno; e spesso nella mano la sferza gli si muta in pugnale.
Il riso muore, quando il personaggio comico ha coscienza del suo vizio, e non che sentirne vergogna vi si
pone al di sopra e ne fa il suo piedistallo. Allora non sei
tu che gli fai la caricatura; ma è lui stesso il suo proprio
artista, che si orna del suo difetto come di un manto reale, e se ne incorona e se ne fa un’aureola, atteggiandosi e
situandosi nel modo più acconcio a dire: – Miratemi –;
più acconcio a dare spicco al suo vizio. La bestia non cela il suo vizio e non arrossisce; il rossore è proprio della
faccia umana. L’uomo consapevole del suo difetto, che
vi si pone al di sopra, rinuncia alla faccia umana e dicesi
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
«sfacciato» o «sfrontato». Qui la caricatura uccide se
stessa, il comico giunto alla sua ultima punta si scioglie;
e n’esce un sentimento di supremo disgusto e ribrezzo,
che è il sublime del comico: la propria abbiezione predicata e portata in trionfo aggiunge al disgusto un sentimento che tocca quasi l’orrore. Qui Dante è nel suo
campo. Il suo eroe è Vanni Fucci. Mastro Adamo è come animale, senza coscienza della sua bassezza, Vanni
Fucci ha avuto la coscienza e l’ha soffocata; sono i due
estremi nella scala del vizio; l’uno non è mai salito fino
all’uomo; l’altro è passato per l’uomo ed è ricaduto nella
bestia. Si sente bestia, e si pone come tipo bestiale, e
sceglie le circostanze più acconce a darvi risalto:
Vita bestial mi piacque e non umana,
siccome a mul ch’io fui. Son Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana.
Ecco l’uomo che fa le fiche a Dio, il Capaneo di Malebolge, l’umano divenuto bestiale e idealizzato come tale.
Ma l’umano non muore mai in tutto. L’uomo diviene
bestia, ma la bestia torna uomo. E con senso profondo
Dante anche sulla faccia sfrontata di Vanni Fucci scoperto ladro gitta il rossore della vergogna:
e di trista vergogna si dipinse.
L’uomo che ha coscienza del suo vizio e se ne vergogna,
in luogo di mostrarlo al naturale (ciò che produce la caricatura) cerca occultarlo sotto contraria apparenza: il
poltrone fa il bravo. Nasce il contrasto tra l’essere e il
parere: la situazione divien comica, e la sua forma è
l’ironia. Lo spettatore indulgente e che vuole spassarsi a
sue spese finge di crederlo e di secondarlo; accetta come
seria l’apparenza che si dà, anzi la carica ancora di più;
fa il bravo, ed egli lo chiama un «Orlando», ma accompagnando le parole di un cotale ammiccar d’occhi che
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
esprima scambievole intelligenza, di un tuono di voce in
falsetto, di un riso equivoco, che vuol dire: – Io ti conosco. – Perciò l’essenziale dell’ironia non è nell’immagine, ma nel sottinteso: è il riflesso che succede allo spontaneo; immagine sottilizzata nel sentimento. Forma
delicata, perchè lo spettatore, alla vista del difetto che
altri cerca di mascherare, non sente collera, non gli
strappa la maschera dal viso, anzi se la mette egli stesso
e serba una compostezza e una pulitezza, equivoca ne’
movimenti e ne’ gesti. Forma di tempi civili, assai rara
nelle età barbare e nelle poesie primitive. Dante, accigliato, brusco, tutto di un pezzo, com’è ne’ suoi ritratti,
ha troppa bile e collera, e non è buono nè alla caricatura, nè all’ironia. Ma dalla sua fantasia d’artista è uscita
una di quelle creazioni, che sono le grandi scoperte nella
storia dell’arte, un mondo nuovo: il «nero cherubino»,
che strappa a san Francesco l’anima di Guido da Montefeltro, è il padre di Mefistofele. Egli crea il diavolo, gli
dà il suo concetto e la sua funzione. Il diavolo è l’ironia
incarnata: non ci è uomo tanto briccone che il diavolo
non sia più briccone di lui, e capite che non è disposto a
guastarsi la bile per le bricconerie degli uomini. L’uomo
può ingannare un altro uomo, ma non può ficcarla al
diavolo, perchè il diavolo nel suo senso poetico è lui
stesso, la sua coscienza che risponde con un’alta risata a’
suoi sofismi, e gli fa il controsillogismo, e gli dice beffandolo:
... ... Forse
tu non sapevi ch’io loico fossi!
Il brutto come il bello muore nel sublime. E il brutto è
sublime quando offende il nostro senso morale ed estetico e ci gitta in violenta reazione. Scoppia la collera, l’indignazione, l’orrore: il comico è immediatamente soffocato. Quando veggo un difetto rivelarsi all’improvviso,
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
uso la caricatura. Quando veggo un difetto che cerca
mascherarsi, prendo la maschera anch’io e uso l’ironia.
Ma quando quel difetto mi offende, mi sfida, mi provoca, si mette dirimpetto a me come contraddizione al mio
intimo senso, la mia coscienza così audacemente negata
e contraddetta reagisce: io strappo al vizio la maschera e
lo mostro qual è, nella sua laida nudità. La caricatura e
l’ironia si risolvono in una forma superiore, il sarcasmo,
la porta per la quale volgiamo le spalle al comico e rientriamo nella grande poesia.
Nel sarcasmo caricatura e ironia riappariscono, ma
per morire: nasce la caricatura, ed è guastata; spunta la
maschera, ed è strappata. E la morte viene da questo,
che nella forma sarcastica del brutto ci è l’idea che l’uccide, il suo contrario. Nel canto de’ simoniaci il sarcasmo fa la sua splendida apparizione. Il comico muore
sotto l’ira di Dante. L’antitesi tra quello che è di fuori e
quello che è nella sua anima scoppia in ravvicinamenti
innaturali, come «calcando i buoni e sollevando i pravi»,
«Dio d’oro e d’argento»; e spesso in parole a doppio
contenuto, che è l’immagine del sarcasmo. Tale è la parola rimasa proverbiale, con che è qualificata la servilità
della Chiesa. Parimente chiama «adulterio» la simonia e
«idolatria» l’avarizia, parole, nelle quali entrano come
elementi la santità del matrimonio e il vero Dio: in una
sola immagine c’è il brutto e ci è l’idea che lo condanna.
Ma il sarcasmo dee purificare e consumare se stesso.
Finchè rimane nel particolare e nel personale, il linguaggio è acre, bilioso: hai Giovenale e Menzini. Il poeta,
non che rimanere imprigionato in quello spettacolo, dee
spiccarsene, porcisi al di sopra, allargare l’orizzonte, essere eloquente, voce di verità, espressione impersonale
della coscienza. Certo, in quel canto de’ simoniaci vive
immortale la vendetta dell’uomo ingannato che anticipa
a Bonifazio l’inferno, e del ghibellino e del cristiano che
vede nel papato temporale una pietra d’inciampo e di
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
scandalo. Ma i sentimenti e le passioni personali, se hanno ispirato il poeta e resa terribilmente ingegnosa la sua
fantasia, non penetrano nella rappresentazione. Bisogna
sapere la storia per indovinare i terribili incentivi dell’alta creazione. Ciò che qui senti è la convinzione, la buona
fede del poeta, la sincerità e l’impersonalità della sua
collera: onde sgorga dal suo labbro eloquente tanta magnificenza d’immagini e di concetti. Prima Dante è in
collera con Nicolò, pinto in pochi tratti vano, piccolo,
col cervello e co’ sensi nel piede. E comincia col «tu», e
l’assale corpo a corpo, con ironia amara che si trasforma
nel pugnale del sarcasmo:
e guarda ben la mal tolta moneta,
ch’esser ti fece contra Carlo ardito.
Ma nel pendìo dell’ingiuria si contiene d’un tratto, passaggio meritamente ammirato: la piccola persona di Nicolò scomparisce; sottentra il «voi», i papi, il papato; le
idee guadagnano di ampiezza senza perdere di energia,
e da ultimo la collera svanisce in una certa tristezza pura
di ogni stizza; è un deplorare, non è più un inveire:
Ahi Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!
Tale è Malebolge: miniera inesausta di caratteri comici,
concezione delle più originali, dove il comico è posto ed
è sciolto. Poco felice nel maneggio delle forme comiche,
il poeta è insuperabile quando se ne sviluppa, mutato il
riso in collera, come nella sua invettiva, nella pena di
Bertram dal Bormio, nella rappresentazione di Vanni
Fucci. Rimane un fondo comico che aspetta ancora il
suo artista. Pure in quella materia appena formata vive
immortale il suo nero cherubino.
Nel pozzo de’ traditori la vita scende di un grado più
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
giù: l’uomo bestia diviene l’uomo ghiaccio, l’essere petrificato, il fossile. In questo regresso dell’inferno, in
questo cammino a ritroso dell’umanità siamo giunti a
quei formidabili inizi del genere umano, regno della materia stupida, vuota di spirito, il puro terrestre, rappresentato ne’ giganti, figli della terra, nella loro lotta contro Giove, natura celeste e spirituale, inferiore di forza
fisica, ma armato del fulmine:
... ... con minaccia
Giove dal cielo ancora, quando tuona
Con questo mito concorda la storia biblica degli angeli
ribelli. Qui all’ingresso trovi i giganti; alla fine Lucifero:
mitologia e Bibbia si mescolano, espressioni della stessa
idea. La lotta è finita: i giganti sono incatenati; Lucifero
è immenso e stupido carname, il gradino infimo nella
scala de’ demòni. Il gigantesco è la poesia della materia;
ma qui, vuoto e inerte, è prosa. Tra’ giganti e Lucifero
stanno i dannati fitti nel ghiaccio. Le acque putride di
Malebolge, ventate dalle enormi ali di Lucifero, si agghiacciano, s’indurano, diventano mare di vetro, di dentro a cui traspariscono come festuche i traditori contro i
congiunti nella Caina, contro la patria nell’Antenora,
contro gli amici nella Tolomea, e contro i benefattori
nella Giudecca. La pena è una, ma graduata secondo il
delitto. Il movimento si estingue a poco a poco, la vita si
va petrificando, finchè cessa in tutto la lacrima, la parola
e il moto. L’immagine più schietta di questo mondo cristallizzato è il teschio dell’arcivescovo Ruggieri, inanimato e immobile sotto i denti di Ugolino.
L’Ugolino è una delle più straordinarie e interessanti
fantasie. E per lui che la vita e la poesia entra in questo
mare morto, dove la natura e il demonio e l’uomo è materia stupida e senza interesse. Come concetto morale, il
tradimento è la colpa più grave; ma qui manca l’organo
della colpa: il grido della coscienza sembra agghiacciato
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
insieme col colpevole. Questo grido può uscire dal petto
concitato di Dante spettatore, come è già avvenuto in
Malebolge, dove l’invettiva di Dante risolve il comico.
Qui ci è di meglio. Tra questi esseri petrificati Dante gitta il suo Ugolino, ghiacciato con gli altri, come traditore
egli pure, ma col capo sul capo di Ruggieri, perchè insieme egli è il suo tradito e il suo carnefice. È la vittima che
qui alza il grido contro il traditore, e gli sta eternamente
co’ denti sul capo, saziando in quello il suo odio, istrumento inconscio della vendetta di Dio. Così è nato
l’Ugolino, il personaggio più ricco, più moderno, più
popolare di Dante dove l’analisi è più profonda e più
sviluppata, nelle sue straordinarie proporzioni così umano e vero.
Prendete ora una carta topografica dell’inferno, e
guardate questa piramide capovolta, a forma d’imbuto.
Vedete l’immensa base alla cima, senza figura altra che
di cerchi, fra le tenebre eterne; e poi quei cerchi prendon figura di città rosseggiante di fiamme, e la città di
bolgia putrida e puzzolenta, e la bolgia di pozzo entro il
quale è petrificata la natura; in cima l’infinito, alla fine il
tristo buco
sopra ’l qual pontan tutte le altre rocce;
e voi avete così l’immagine visibile di questo inferno
estetico. Gli è come nelle rivoluzioni. Nel primo entusiasmo tutto è grande; poi vien fuori il sanguinario, il feroce, l’orribile, finchè da’ più bassi fondi della società sale
su il laido, l’abietto e il plebeo. Questa decomposizione
e depravazione successiva della vita è l’Inferno.
L’Inferno è l’uomo compiutamente realizzato come
individuo, nella pienezza e libertà delle sue forze. E può
misurare la grandezza dell’opera, chi vede gli abbozzi di
Dino Compagni, o lo scarno Ezzelino, o le rozze formazioni de’ misteri e delle leggende. L’individuo era anco-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ra astratto e impigliato nelle formole, nelle allegorie e
nell’ascetismo. In quelle vuote generalità ci è la donna e
l’uomo, come genere, come simbolo, come l’anima;
manca l’individuo. E manca tanto, che spesso non ha un
nome, ed è la «mia donna», o «un giovine», «un santo
uomo». Non un nome solo era rimasto vivo nel mondo
dell’arte, fra tante liriche e leggende. Dante volea scrivere il mistero dell’anima; si cacciò tra allegorie e formole,
ed ecco uscirgli dalla fantasia l’individuo, volente e possente, nel rigoglio e nella gioventù della forza, spezzato
il nocciolo dove lo avea chiuso il medio evo. I pittori disegnavano santi e cupole, i filosofi fantasticavano
sull’ente; i lirici platonizzavano, gli ascetici contemplavano e pregavano: Dante pensava l’inferno; e là, tra’ furori della carne e l’infuriar delle passioni, trovava la stoffa di Adamo, l’uomo com’è impastato, con la sua
grandezza e con la sua miseria, e non descritto, ma rappresentato e in azione, e non solo ne’ suoi atti, ma ne’
suoi motivi più intimi. Così apparvero sull’orizzonte
poetico Francesca, Farinata, Cavalcanti, la Fortuna, Pier
delle Vigne, Brunetto, Capaneo, Ulisse, Vanni Fucci, il
«nero cherubino», Nicolò terzo e Ugolino. Tutte le corde del cuore umano vibrano. Vedi attorno a questa
schiera d’immortali, turba infinita di popolo nella maggior varietà di attitudini, di forme, di sentimenti, di caratteri, che ti passano avanti, alcuni appena sbozzati, altri numero e nome, altri segnati in fronte di qualche
frase indimenticabile, che li eterna, come Taide, Mosca,
Giasone, Omero, Aristotile, papa Celestino, Bonifazio,
Clemente, Bruto, Bocca degli Abati, Bertram dal Bormio. Nel regno de’ morti si sente per la prima volta la vita nel mondo moderno. Come è bella la luce, il «dolce
lome», a Cavalcanti! Quanta malinconia è in quella selva de’ suicidi, spogliata del verde! Come è commovente
Brunetto, che raccomanda a Dante il suo Tesoro, e Pier
delle Vigne che gli raccomanda la sua memoria! Come
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ride quel giardino del peccato innanzi a Francesca! Col
vivo sentimento della dolce vita, della bella natura, è accompagnato il sentimento della famiglia. Quel padre
che cade supino, udendo la morte del figlio, e Ugolino
che dannato a morire di fame guarda nel viso a’ figliuoli,
e Anselmuccio che gli domanda: – Che hai? – E Gaddo
che gli dice: – Perchè non mi aiuti? – Sono scene solitarie della poesia italiana. Ciascuno è in una situazione appassionata. I sentimenti spinti alla punta idealizzano e
ingrandiscono gli oggetti. Tutto è colossale, e tutto è naturale E in mezzo torreggia Dante, il più infernale, il più
vivente di tutti, pietoso, sdegnoso, gentile, crudele, sarcastico, vendicativo, feroce, col suo elevato sentimento
morale col suo culto della grandezza e della scienza anche nella colpa, coi suo dispregio del vile e dell’ignobile,
alto sopra tanta plebe, così ingegnoso nelle sue vendette,
così eloquente nelle sue invettive.
Queste grandi figure, là sul loro piedistallo rigide ed
epiche come statue, attendono l’artista che le prenda
per mano e le gitti nel tumulto della vita e le faccia esseri drammatici. E l’artista non fu un italiano: fu Shakespeare.
Chi vuole ora concepire il Purgatorio, si metta in quella età della vita che le passioni si scoloriscono, e l’esperienza e il disinganno tolgono le illusioni, e scemata la
parte attiva e personale, l’uomo si sente generalizzare, si
sente più come genere che come individuo. Spettatore
più che attore, la vita si manifesta in lui non come azione, ma come contemplazione artistica, filosofica, religiosa. In quella calma delle passioni e de’ sensi era posto
l’ideale antico del savio, l’ideale nuovo del santo, fuso
insieme in quel Catone, che Dante chiama nel Convito
anima nobilissima e la più perfetta immagine di Dio in
terra. Catone è il savio antico, pinto come i filosofi, con
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
quella sua lunga barba, in quella calma e gravità della
sua decorosa vecchiezza:
degno di tanta riverenza in vista,
che più non dee a padre alcun figliuolo.
Ma è qualcosa di più; è il savio battezzato e santificato,
con la fronte radiante, illuminata dalla grazia, sì che pare
un sole. Virgilio non comprende questo savio cristianizzato, e parla al Catone di sua conoscenza, ricordando la
sua virtù, la sua morte per la libertà, la sua Marzia. E il
nuovo Catone risponde: – Marzia, che piacque tanto
agli occhi miei, non mi move più; ma se Donna del cielo
ti guida, non ci è mestier lusinga:
basta ben che per lei mi richegge.
Che cosa è il Purgatorio? È il mondo dove questo doppio ideale è realizzato: il mondo di Catone o della libertà, dove lo spirito si sviluppa dalla carne e cerca la
sua libertà:
Libertà va cercando ch’è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.
Altro concetto, altra natura, altro uomo, altra forma, altro stile. Non è più l’Iliade, è l’Odissea, è un nuovo poema. Paragonare Inferno e Purgatorio e maravigliarsi che
qui non sieno le bellezze ammirate colà, gli è come maravigliarsi che il purgatorio sia purgatorio e non inferno.
O, se pur vogliamo maravigliarci di qualche cosa, maravigliamoci che il poeta abbia potuto così compiutamente dimenticare l’antico se stesso, le sue abitudini di concepire, di disporre, di colorire, e seppellito in questo
nuovo mondo ricrearsi l’ingegno e la fantasia a quella
immagine, e con tanta spontaneità che pare non se ne
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
accorga: obblio dell’anima nella cosa, il secreto della vita, dell’amore e del genio.
L’inferno e il regno della carne, che scende con costante regresso sino a Lucifero. Il purgatorio e il regno
dello spirito, che sale di grado in grado sino al paradiso.
È là che si sviluppa il mistero, la Commedia dell’anima,
la quale dall’estremo del male si riscote e si sente e mediante l’espiazione e il dolore si purifica e si salva. Onde
con senso profondo il purgatorio esce dall’ultima bolgia
infernale, e Lucifero, principe delle tenebre, e quello
stesso per le spalle del quale Dante salendo esce a riveder le stelle.
Ci è un avanti-purgatorio, dove la carne fa la sua ultima apparizione. Il suo potere non è più al di dentro:
l’anima è già libera; della carne non resta che la mala
abitudine. Gradazione finissima e altamente comica,
dalla quale è uscito l’immortale ritratto di Belacqua, caricatura felicissima nella figura, ne’ movimenti, nelle parole, e tanto più comica quanto più Belacqua si sforza di
rimaner serio, usando un’ironia che si volge contro di
lui.
Questo avanti-purgatorio è quasi una transizione tra
l’inferno e il purgatorio: il peccato vi è e non v’è; e ancora nell’abitudine non è più nell’anima; il demonio ci sta
sotto la forma del serpente d’Eva, involto tra l’erbe e i
fiori, cacciato via da due angioli dalle vesti e dalle ali di
color verde, simbolo della speranza. Comparisce per
scomparire, quasi per far testimonianza che se ne va dalla scena per sempre. Innanzi alla porta del purgatorio
scompare il diavolo e muore la carne, e con la carne
gran parte di poesia se ne va.
L’anima non appartiene più alla carne, ma l’ha avuta
una volta sua padrona e se ne ricorda. La carne non è
più una realtà, come nell’inferno, ma una ricordanza.
Ne’ sette gironi, rispondenti a’ sette peccati mortali, le
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
anime ricordano le colpe per condannarle; ricordano le
virtù per compiacersene.
Quel ricordare le colpe non è se non l’inferno che ricomparisce in purgatorio per esservi giudicato e condannato; quel ricordare le virtù non è se non il paradiso
che preluce in purgatorio per esservi desiderato e vagheggiato: l’inferno ci sta in rimembranza; il paradiso ci
sta in desiderio. Carne e spirito non sono una realtà: la
tirannia della carne è una rimembranza; la libertà dello
spirito è un desiderio.
Poichè la realtà non è più in presenza, ma in immaginazione, essa vi sta non come azione rappresentata e
drammatica, ma come immagine dello spirito, a quel
modo che noi riproduciamo dentro di noi la figura delle
cose non presenti, e pingiamo al di fuori quello spettro
della mente. Questa realtà dipinta vien fuori nelle pareti
e ne’ bassirilievi del purgatorio. Nell’inferno e nel paradiso non sono pitture, perchè ivi la realtà è natura vivente, è l’originale, di cui nel purgatorio hai il ritratto. Inferno e paradiso sono in purgatorio, ma in pittura, come
il passato e l’avvenire delle anime, non presenti agli occhi, ma all’immaginativa. Quelle pitture sono il loro
«memento», lo spettacolo di quello che furono, di quello
che saranno, che le stimola, mette in attività la loro mente, si che ricordano altri esempli e si affinano, si purgano.
Siamo dunque fuori della vita. Le passioni tornano innanzi alle anime, ma non sono più le loro passioni, sono
fuori di esse, contemplate in sè o in altri con l’occhio
dell’uomo pentito. Anche le virtù sono estrinseche alle
anime, contemplate al di fuori come esempli e ammaestramenti. Le anime sono spettatrici, contemplanti, non
attrici. Passioni buone o cattive non sono in presenza e
in azione, ma sono una visione dello spirito, figurata in
intagli e pitture.
Questa concezione così semplice e vera nella sua
Letteratura italiana Einaudi
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
profondità è la pittura e la scoltura, l’arte dello spazio,
idealizzata nella parola e fatta poesia. Perchè il poeta
non dipinge, ma descrive il dipinto. La parola non può
riprodurre lo spazio che successivamente, e perciò è
inefficace a darti la figura, come fa il pennello e lo scarpello. Nè Dante si sforza di dipingere, entrando in una
gara assurda col pittore. Ma compie e idealizza il dipinto, mostrando non la figura, ma la sua espressione e impressione: dinanzi all’immaginazione la figura diviene
mobile, acquista sentimento e parola.
Le aguglie di Traiano in vista si movono al vento; la vedovella è atteggiata di lagrime e di dolore; nell’attitudine
di Maria si legge: «Ecce ancilla Dei»; l’angiolo intagliato
in atto soave non sembrava immagine che tace:
Giurato si saria ch’ei dicesse Ave.
Davide ballando sembra più e meno che re; e gli sta di
contro Micol, che ammirava,
siccome donna dispettosa e trista.
Erano i tempi di Giotto, e parevano maravigliosi quei
primi tentativi dell’arte. Quest’alto ideale pittorico di
Dante fa presentire i miracoli del pennello italiano. Il
poeta avea innanzi all’immaginazione figure animate,
parlanti, dipinte da
Colui, che mai non vide cosa nuova,
ben più vivaci che non gliele potevano offrire i suoi contemporanei.
Più in la il dipinto sparisce: senza aiuto di senso, per sua
sola virtù, lo spirito intuisce il bene e il male, ricorda i
buoni e i cattivi esempli, vede da se stesso e in se stesso.
La realtà non solo non ha la sua esistenza, come cosa
sensata, il sensibile; ma neppure come figurativa, in pittura; diviene una visione diretta dello spirito, che opera
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
già libero e astratto dal senso. Nasce un’altra forma
dell’arte, la visione estatica. L’anima vede farsi dentro di
sè una luce improvvisa, nella quale pullulano immagini
sopra immagini come bolle d’acqua che gonfiano e
sgonfiano, e l’universo visibile si dilegua innanzi a questa luce interiore, di modo che il «suono di mille tube»
non basterebbe a rompere la contemplazione. Dante
trova forme nuove ed energiche ad esprimere questo fenomeno. Le immagini «piovono» nell’alta fantasia; la
mente è
... ... sì ristretta
dentro di se’, che di fuor non venia
cosa che fosse allor da lei ricetta.
L’immaginativa ne «ruba» di fuori, sì
che uom non s’accorge
perchè d’intorno suonin mille tube.
L’anima vòlta in estasi ficca gli occhi nell’immagine con
ardente affetto:
come dicesse a Dio: – D’altro non calme –.
Tra queste visioni bellissima è quella del martirio di santo Stefano: un quadro a contrasto, dove tra la folla inferocita che grida: – Martira, martira –, è la figura del santo, la persona già aggravata dalla morte e china verso
terra, ma gli occhi al cielo preganti pace e perdono: è il
soprastare dell’anima nell’abbandono del corpo.
Siamo dunque in piena vita contemplativa. Il processo della santificazione si sviluppa. Nell’inferno i tumulti
e le tempeste della vita reale appassionata dal furore de’
sensi: qui entriamo in quel mondo di romiti e di santi, in
quel mondo de’ misteri e delle estasi, così popolare, nel
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
mondo di Girolamo, di Francesco d’Assisi e di Bonaventura, dove la pittura attingea le sue ispirazioni.
Nella visione estatica lo spirito ha già un primo grado
di santificazione, ha conquistato la sua libertà dal senso,
ha già il suo paradiso; ma è un paradiso interiore, immagine e desiderio, e non sarà realtà, paradiso reale, se non
quando quella luce e quelle immagini, vedute dallo spirito entro di sè, sieno fuori di sè, sieno cose e non immagini. Il purgatorio è il regno delle immagini, uno spettro
dell’inferno, un simulacro del paradiso.
Nella visione estatica lo spirito è attivo e conscio; nel
sogno è passivo e inconscio: è una forma di visione superiore, non solo senza opera del senso, ma senza opera
dello spirito; è visione divina, prodotta da Dio. Perciò il
sogno
anzi che ’l fatto sia, sa le novelle;
e l’anima
alle sue vision quasi è divina.
Nel sogno si rivela il significato delle visioni e delle apparenze del purgatorio. Che cosa significano quelle pitture e quelle estasi? che cosa è il purgatorio? È il regno
dell’intelletto e del vero, dove il senso è spogliato delle
sue belle e piacevoli apparenze, e mostrato qual’è, brutto e puzzolento. L’apparenza è una sirena:
Io son – cantava – io son dolce Sirena,
che i marinari in mezzo al mar dismago,
tanto son di piacere a sentir piena.
Ma una donna santa, la Verità, fende i drappi; e la mostra qual femmina balba e scialba, e mostra il ventre:
quel mi svegliò col puzzo che ne usciva.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Vinto il senso e l’apparenza, si presenta a Dante in sogno l’immagine della vita, non quale pare, ma qual è, la
vera vita a cui sospira e che cerca nel suo pellegrinaggio.
E vede la vita nella prima delle due sue forme, la vita attiva, lo affaticarsi nelle buone opere per giungere alla
beatitudine della vita contemplativa. La sirena è rozzamente abbozzata: manca a Dante il senso della voluttà;
senti nel verso stesso non so che intralciato e stanco. Lia
è una delle sue più fresche creazioni, personaggio tipico
così perfetto nel suo genere, come la Fortuna. La sua felicità non è ancora beatitudine, come è della suora che
vive guardando Dio, il suo miraglio; ma appunto perciò
è più interessante e poetica, più umana, più vicina a noi
questa bella fanciulla, che va tutta lieta pel prato, e coglie fiori e se ne fa ghirlanda e si mira allo specchio. Tale
è la prima immagine che il giovine incontra sovente ne’
suoi sogni!
L’ultima forma sotto la quale si presenta la realtà è la
visione simbolica, dove la forma non significa più se
stessa, ma un’altra cosa. Il purgatorio finisce tra’ simboli: è il paradiso che si offre all’anima sotto figura. Cristo
è un grifone, e il carro su cui sta è la Chiesa, e Dante ha
una serie di strane visioni, che rappresentano simbolicamente la storia della Chiesa.
Così la realtà corpulenta e tempestosa dell’inferno si
va diradando e sottilizzando per trasformarsi nella vera
realtà, lo spirito o il paradiso. Questo processo di carne
a spirito è il purgatorio, dove la forma diviene pittura,
estasi, sogno, simbolo. Il simbolo già non è più forma,
ma puro spirito, lavoro intellettuale. Sotto la figura ci è
la nuova e vera realtà, pronta a svilupparsene e comparire essa direttamente.
L’uomo del purgatorio ha i sentimenti conformi a
questo stato dell’anima. Il suo carattere è la calma interiore, assai simile alla tranquilla gioia dell’uomo virtuoso, che nella miseria terrena sulle ali della fede e della
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
speranza alza lo spirito al paradiso. Le ombre sono contente nel fuoco, gli affetti hanno dolci e temperati, il desiderio puro d’inquietudine e d’impazienza. Ne nasce
un mondo idillico, che ricorda l’età dell’oro, dove tutto
è pace e affetto, e dove si manifestano con effusione le
pure gioie dell’arte, i dolci sentimenti dell’amicizia. In
questo mondo di pitture e scolture Dante si è coronato
di artisti: Casella, Sordello, Guido Guinicelli, Buonagiunta da Lucca, Arnaldo Daniello, Oderisi, Stazio, e ne
ha cavato episodi commoventi, che fanno vibrare le fibre più delicate del cuore umano. Ricorderò il suo incontro con Casella, e il ritratto di Sordello, e i cari ragionamenti dell’arte con Guinicelli e Buonagiunta, e
l’incontro di Stazio e Virgilio. È un lato della vita nuovo,
pur così vero in tempi che la vita intima della famiglia,
dell’arte e dell’amicizia era un rifugio e quasi un asilo fra
le tempeste della vita pubblica. Come tocca il core l’amicizia di Dante e di Forese, fratello di Corso Donati, il
principale nemico di Dante, e quel domandar ch’egli fa
di Piccarda! I movimenti improvvisi dell’affetto e della
maraviglia sono colti con tanta felicità, che rimangono
anche oggi vivi nel popolo, come è l’«o» lungo e roco
delle anime che veggon l’ombra di Dante, o il paragone
delle pecorelle, e la calma di Sordello,
a guisa di leon quando si posa,
mutata subito in un sì vivace impeto di affetti, e Stazio
che corre incontro a Virgilio per abbracciarlo, obliando
di essere un’ombra, e il cerchio dell’anime intorno a
Dante,
quasi obliando d’ire a farsi belle,
e Casella che se ne spicca e si gitta tra le braccia di Dante:
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Oh ombre vane, fuor che nell’aspetto!
tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
e tante mi tornai con esse al petto.
Questa intimità, questo tenere nel cuore un cantuccio
chiuso al mondo, riservato alla famiglia, agli amici,
all’arte, alla natura, quasi tempio domestico, impenetrabile a’ profani, è il mondo rappresentato nel Purgatorio.
Le ricordanze de’ casi anche più tristi sono pure di amarezza, raddolcite dalle speranze dell’ultimo giorno.
Manfredi non ha una ingiuria per i suoi nemici, chiede
perdono, ed ha già perdonato.
Io mi rendei
piangendo a quei che volentier perdona.
Buonconte di Montefeltro racconta le circostanze più
strazianti della sua morte con una calma e una serenità,
che diresti indifferenza, se non te ne rivelasse il secreto il
sentimento espresso in questi versi:
Qui vi perdei la vista
nel nome di Maria finio, e quivi
caddi, e rimase la mia carne sola.
Ciascuno ha conservato in quel cantuccio del cuore il
suo tempio domestico. Ciascuno vuol essere ricordato a’
suoi diletti. Come è caro quel Forese con quel «Nella
mia»,
la vedovella mia che tanto amai!
E Buonconte ricorda la sua Giovanna e gli altri che si
sono dimenticati di lui, e Manfredi vuol essere ricordato
a Costanza, e Iacopo a’ suoi fanesi, che pregassero per
lui: la sola Pia non ha alcun nome nel suo santuario domestico, e non ha che Dante che possa ricordarsi di lei:
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ricordati di me, che son la Pia.
Questo mondo così affettuoso è penetrato di malinconia: sentimento nuovo, che avrà tanta parte nella poesia
moderna, e generato qui, nel Purgatorio. Questo sentimento ti prende a udir la Pia, così delicata nella solitudine del suo cuore; eppure non era sola, e ricorda la gemma, pegno d’amore. La tenerezza e delicatezza de’
sentimenti dispone l’animo alla malinconia: perchè malinconia non è se non dolce dolore, dolore raddolcito da
immagini care e tenere. Richiede perciò anime raccolte
che vivano in fantasia, sieno «pensose», non distratte dal
mondo, chiuse nella loro intimità La malinconia è il
frutto più delicato di questo mondo intimo. Come ti va
al core quell’ora che incomincia i tristi lai la rondinella,
presso alla mattina, e quella squilla di lontano,
che pare il giorno pianger che si more,
e quell’ora della sera che i naviganti partono e s’inteneriscono pensando
lo dì c’han detto a’ dolci amici: addio!
Qui Dante gitta via l’astronomia, che rende spesso così
aride le sue albe e le sue primavere, e rende tutte le dolcezze di una natura malinconica. Tra le scene più intime, più penetrate di malinconia, è il suo incontro con
Casella. Cominciano espansioni di affetto. Nel primo
impeto corrono ad abbracciarsi. Casella dice:
Così com’io t’amai
nel mortal corpo, così t’amo sciolta.
Dante risponde: – Casella mio! – e lo prega a voler cantare, come faceva in vita, che col canto gli acquietava
l’anima, e ora l’anima sua è così affannata. E Casella
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
canta una poesia di Dante, e Dante e Virgilio e le anime
fanno cerchio, rapite, dimentiche del purgatorio, sgridate da Catone. Ma se Catone non perdona, perdonano le
muse. Quest’oblio del purgatorio, questa musica che ci
riconduce alle care memorie della vita, la terra che scende nell’altro mondo e si impossessa delle anime, sì che
obliano di essere ombre e vogliono abbracciare gli amici
e pendono dalla bocca di Casella, questo è poesia. Ci si
sente qua dentro la malinconia dell’esilio, l’uomo che
giovine ancora desiderava con la sua Bice e i suoi amici e
le loro donne ritrarsi in un’isola e farne il santuario dei
suoi affetti e obliarvi il mondo.
E c’è la malinconia propria del purgatorio, quel vedere di là con mutati occhi le grandezze e gli affetti terreni,
quel disabbellirsi della vita, quel cadere di tutte le illusioni:
Non è il mondan rumore altro ch’un fiato
di vento, ch’or vien quinci ed or vien quindi,
e muta nome perchè muta lato.
Una delle figure più interessanti è Adriano. All’ultimo
della grandezza dice:
Vidi che lì non si quetava il core,
ne più salir poteasi in quella vita;
per che di questa in me s’accese amore.
Questo papa disilluso ha lunga e mala parentela, e sono
tutti morti per lui, eccetto la buona Alagia:
E questa sola m’è di la rimasa.
Quest’ultimo verso è pregno di malinconia.
Questa calma filosofica, che fa guardare dall’alto del
purgatorio la vita e ne scopre il vano e il nulla, restringe
il circolo della personalità e della realtà terrena. Gli indi-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
vidui appariscono e spariscono, appena disegnati; hanno la bellezza, ma anche la monotonia e l’immobilità
della calma. Sono uomini che discutono e conversano in
una sala, più che uomini agitati e appassionati. I grandi
individui storici, le grandi creature della fantasia scompariscono.
Più che negli individui la vita si manifesta nei gruppi:
la vita qui è meno individuo che genere. La comune anima ha la sua espressione nel canto. Nell’inferno non ci
son cori; perchè non vi è l’unità dell’amore. L’odio è solitario; l’amore è simpatia e armonia; la musica e il canto
conseguono i loro effetti nella misurata varietà delle voci
e degl’istrumenti. Qui le anime sono esseri musicali, che
escono dalla loro coscienza individuale, assorte in uno
stesso spirito di carità:
Una parola era in tutto e un modo,
sì che parea tra esse ogni concordia.
Le anime compariscono a gruppi e cantano salmi e inni,
espressione varia di dolore, di speranza, di preghiera, di
letizia, di lodi al Signore. Quando giungono al purgatorio, le odi cantare: «In exitu Israel de Aegypto». Giungono nella valle, ed ecco intonare il Salve Regina. La sera
odi l’inno: «Te lucis ante terminum Rerum creator poscimus». Entrando nel purgatorio, risuona il Te Deum. Sono i salmi e gl’inni della Chiesa, cantati secondo le varie
occasioni, e di cui il poeta dice le prime parole. Ti par
d’essere in chiesa e udir cantare i fedeli. Quei canti latini
erano allora nella bocca di tutti, erano cantati da tutti in
chiesa; il primo verso bastava a ricordarli. Il poeta ha
creduto bastar questo ad accendere ne’ petti l’entusiasmo religioso. E forse bastava allora, quando quei versi
suscitavano tante rimembranze e immagini della vita religiosa. La poesia qui non è nella rappresentazione, ma
in quei lettori e in quei tempi. Un nome, una parola ba-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
sta in certi tempi a produrre tutto l’effetto: con quei
tempi se ne va la loro poesia, e restano cosa morta. Molte parti del poema dantesco, aride liste di nomi e di fatti,
soprattutto le allusioni politiche, allora così vive, oggi
son morte. E tutta questa lirica del purgatorio è cosa
morta. Perchè Dante non crea dal suo seno quei sentimenti, ma li trova belli e scritti ne’ canti latini, e si contenta di dirne le prime parole. Pure, la situazione delle
anime purganti è altamente lirica; la loro personalità
non è individuale, ma collettiva, e l’espressione di quella
comune anima svegliatasi in loro è l’onda canora de’
sentimenti. Qui mancò la vena e la forza al gran poeta, e
si rimise a Davide di quello ch’era suo compito. Più che
visioni e simboli e dipinti, la vita del purgatorio era questa effusione lirica di dolore, di speranza, di amore, di
quell’incendio interiore che rende le anime affettuose,
concordi in uno stesso spirito di carità. Ha saputo così
ben dipingerle queste anime ardenti, che s’incontrano,
si baciano e vanno innanzi, tirate su verso il cielo!
Li veggio d’ogni parte farsi presta
ciascun’ombra, e baciarsi una con una,
senza restar, contente a breve feste.
Così per entro loro schiera bruna
s’ammusa l’una con l’altra formica,
forse a spiar lor via e lor fortuna.
E che poteva e sapeva con pari felicità esprimere i loro
sentimenti, non solo il vago e l’indeterminato, ma anche
il proprio e il successivo, ed essere il Davide del suo purgatorio, lo mostra il suo «paternostro», rimaso canto solitario.
Le fuggitive apparizioni degli angeli sono quasi immagine anticipata del paradiso nel luogo della speranza.
In essi non e alcuna subbiettività: sono forme eteree vestite di luce, fluttuanti come le mistiche visioni dell’esta-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
si, e nondimeno ciascuna con propria apparenza e attitudine.
Tal che parea beato per iscritto...
Verdi come fogliette pur mo’ nate
erano in veste, che da verdi penne
percosse traean dietro e ventilate...
Ben discernea in lor la testa bionda,
ma nelle facce l’occhio si smarria,
come virtù ch’a troppo si confonda...
A noi venìa la creatura bella,
bianco vestita, e nella faccia quale
par tremolando mattutina stella.
Molto per la pittura, poco per la poesia. Manca la parola, manca la personalità. Ci è il corpo dell’angiolo; non
ci è l’angiolo. Nelle dolci note, tra quelle forme d’angioli, l’anima s’infutura, «gusta le primizie del piacere eterno». Di che prende qualità la natura del purgatorio, una
montagna, scala al paradiso, in principio faticosa a salire:
E quanto uom più va su, e men fa male.
Però quando ella ti parrà soave
tanto che il su andar ti sia leggiero,
com’a seconda in giuso l’andar con nave,
allor sarai al fin d’esto sentiero.
Il luogo è rallegrato da luce non propria, ma riflessa dal
sole e dalle stelle, che sono il paradiso dantesco. La prima impressione della luce, uscendo dall’inferno, cava a
Dante questa bella immagine:
Dolce color d’oriental zaffiro
che s’accoglieva nel sereno aspetto
dell’aer puro infino al primo giro,
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
agli occhi miei ricomincio diletto.
La natura è l’accordo musicale e la voce di quel di dentro: qui natura, angeli e anime sono un solo canto, un
solo universo lirico. Scena stupenda è nel canto settimo,
maravigliosa consonanza tra le ombre sedute, quete, che
cantano «Salve Regina», e la vista allegra del seno erboso e fiorito dove stanno:
Non avea pur natura ivi dipinto,
ma di soavità di mille odori
vi faceva un incognito indistinto.
«Salve Regina» in sul verde e in su’ fiori
quindi seder, cantando, anime vidi.
Le anime piangono e cantano, e il luogo alpestre è lieto
di apriche valli e di campi odorati: il quale contrasto ha
termine, quando l’anima si leva con libera volontà a miglior soglia, tolte le «schiume della coscienza», con pura
letizia. Così come nell’inferno si scende sino al pozzo
ghiacciato della morte, nel purgatorio si sale sino al paradiso terrestre, immagine terrena del paradiso, dove
l’anima è monda del peccato o della carne, e rifatta bella
e innocente. Tutto è qui che alletti lo sguardo e lusinghi
l’immaginazione: riso di cielo, canti di uccelli, vaghezza
di fiori, e tremolar di fronde e mormorare di acque, descritto con dolcezza e melodia, ma insieme con tale austera misura, che non dà luogo a mollezza ed ebbrezza
di sensi, nè il diletto turba la calma.
Il purgatorio è il centro di questo mistero o commedia dell’anima; è qua che il nodo si scioglie. Dante, più
che spettatore è attore. Uscito dall’inferno, appena
all’ingresso del purgatorio l’angiolo incide sulla sua
fronte sette «P», che sono i sette peccati mortali, che si
purgano ne’ sette gironi. Da un girone all’altro una «P»
scomparisce dalla fronte, finchè van via tutte, e puro e
rinnovellato giunge al paradiso terrestre. Passa da uno
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
stato nell’altro in sonno, cioè a dire per virtù della grazia, senza sua coscienza. È Lucia, «nemica di ciascun
crudele», che lo piglia dormente e sognante, e lo conduce in purgatorio. Così la storia intima dell’anima, i suoi
errori, le passioni, i traviamenti, i pentimenti, sono storia esterna e simbolica: il dramma è strozzato nella sua
culla. La crisi del dramma, il punto in cui il nodo si scioglie, e il pentimento, l’anima che si riconosce, e caccia
via da sè il peccato, e si pente e si vergogna e ne fa confessione. A questo punto il dramma si fa umano, e ciò
che avrebbe potuto far Dante, si vede da quello che ha
fatto qui; ma una storia intima, personale, drammatica
dell’anima, com’è il Faust, non era possibile in tempi ancora epici, simbolici, mistici e scolastici.
Qui tutt’i personaggi del dramma si trovano a fronte.
Di qua Dante, Virgilio, Stazio; di là Beatrice con gli angeli; in mezzo e il rio che li divide, bipartito in due fiumi, Lete, l’obblio, ed Eunoè, la forza. Nell’uno l’anima
si spoglia della scoria del passato; nell’altra attinge virtù
di salire alle stelle.
L’alto fato di Dio sarebbe rotto,
se Lete si passasse, e tal vivanda
fosse gustata senza alcuno scotto
di pentimento che lagrime spanda.
Di là è Matilde, che tuffa le anime, pagato lo scotto del
pentimento, e le passa all’altra riva, rifatte nell’antico
stato d’innocenza. E lo specchio dell’anima rinnovellata
è Matilde, che danza e sceglie fiori, in sembianza ancora
umana, celeste creatura, con l’ingenua giocondità di fanciulla, con la leggerezza di una silfide, col pudico sguardo di vergine, il viso radiante di luce. Tale era Lia, affacciatasi al poeta in sogno, il presentimento di Matilde, il
nunzio del paradiso terrestre.
La scena dove questo mistero dell’anima si scioglie ha
le sacre e venerabili apparenze di un mistero liturgico,
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
una di quelle sacre rappresentazioni che si facevano durante le processioni. Vedi una Chiesa animata e ambulante in processione: sette candelabri, che a distanza parevano sette alberi d’oro, e dietro gente vestita di bianco
che canta «Osanna», e le fiammelle lasciano dietro di sè
lunghe liste lucenti, e sotto questo cielo di luce sfila la
processione. Ecco a due a due i profeti e i patriarchi
dell’antico Testamento, sono ventiquattro seniori coronati di giglio:
Tutti cantavan: – Benedetta tue
nelle figlie di Adamo, e benedette
sieno in eterno le bellezze tue. –
Segue la Chiesa in figura di carro trionfale, a due ruote
(i due testamenti), tra quattro animali (i quattro vangeli), tirato da un grifone, simbolo di Cristo; a destra Fede,
Speranza e Carità; a sinistra Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza, vestite di porpora; dietro due vecchi, san Luca e san Paolo, e dietro a loro, quattro in
umile paruta, forse gli scrittori dell’Epistole, e solo e
dormente san Giovanni dall’Apocalisse:
E diretro da tutti un veglio solo
venir dormendo con la faccia arguta.
Si ode un tuono. La processione si ferma. Comincia la
rappresentazione. Virgilio guarda attonito, non meno
che Dante. Il senso di quella processione allegorica gli
sfugge. La missione del savio pagano è finita. Hai innanzi la dottrina nuova, la Chiesa di Cristo co’ suoi profeti e
patriarchi, co’ suoi evangelisti e apostoli, co’ suoi libri
santi.
Fermata la processione, uno canta e gli altri ripetono:
«Veni sponsa, de Libano», e sul carro si leva moltitudine
di angioli che cantano e gittano fiori.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Tutti dicean: – Benedictus qui venis
e fior gittando di sopra e dintorno
manibus o date lilia plenis. –
Tra questa nuvola di fiori appare donna sovra candido
velo, cinta d’oliva, sotto verde manto, vestita di colore di
fiamma; appare come la Madonna nelle processioni, sotto i fiori che le gittano dalle finestre i fedeli. Dante non
la vede, ma la sente: è Beatrice.
Quest’apoteosi di Beatrice, questo primo apparire
della sua donna ancora velata fra tanta gloria, scioglie
l’immaginazione dalla rigidità de’ simboli e de’ riti, e le
dà le libere ali dell’arte. Il dramma si fa umano; spuntano le immagini e i sentimenti:
Io vidi già nel cominciar del giorno
le parte oriental tutta rosata,
e l’altro ciel di bel sereno adorno
e la faccia del sol nascere ombrata
sì chè per temperanza di vapori
l’occhio la sostenea lunga fiata.
Così dentro una nuvola di fiori,
che dalle mani angeliche saliva
e ricadeva giù dentro e di fuori,
sovra candido vel, cinta di oliva
donna m’apparve sotto il verde manto
vestita di color di fiamma viva.
L’apparire di Beatrice è lo sparire di Virgilio. Qui
l’astrattezza del simbolo è superata. Ti senti innanzi ad
un’anima d’uomo. Quella donna è la sua Beatrice,
l’amore della sua prima giovinezza; e Virgilio e il dolcissimo padre che sparisce, quando più ne aveva bisogno,
quando era proprio come un fantolino in paura che si
volge alla mamma; e si volge, e non lo vede più, e lo
chiama tre volte per nome nella mente sbigottita. Il mistero liturgico si trasforma in un dramma moderno:
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
E lo spirito mio che già cotanto
tempo era stato ch’alla sua presenza
non era di stupor tremando affranto,
senza dagli occhi aver più conoscenza,
per occulta virtù che da lei mosse,
d’antico amor sentì la gran potenza.
Tosto che nella vista mi percosse
l’alta virtù che già m’avea trafitto
prima ch’io fuor di puerizia fosse,
volsimi alla sinistra, col respitto
col quale il fantolin corre alla mamma,
quando ha paura o quando egli è afflitto,
per dicer a Virgilio: – Men che dramma
di sangue m’è rimaso, che non tremi;
conosco i segni dell’antica fiamma –.
Ma Virgilio ne avea lasciati scemi
di sè; Virgilio dolcissimo padre,
Virgilio, a cui per mia salute dièmi.
Dal pianto di Dante esce un felicissimo passaggio per introdurre in iscena Beatrice:
Dante, perchè Virgilio se ne vada,
non pianger anco, non piangere ancora,
che pianger ti convien per altra spada.
Gli occhi di Dante sono là verso la donna, che lo chiama
per nome:
Guardami ben: ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d’accedere al monte?
Non sapei tu che qui l’uomo è felice?
E gli occhi cadono nella fontana, e non sostenendo la
propria vista, cadono sull’erba:
Gli occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;
ma veggendomi in esso, io trassi all’erba:
tanta vergogna mi gravò la fronte.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Qui è la prima volta e sola che un’azione è rappresentata nel suo cammino e nel suo svolgimento, come in un
mistero, e Dante vi rivela un ingegno drammatico superiore. I più intimi e rapidi movimenti dell’animo scappan fuori; i due attori, Dante e Beatrice, vi sono perfettamente disegnati; gli angioli fanno coro e intervengono.
La scena è rapida, calda, piena di movimenti e di gradazioni fini e profonde. La vergogna di Dante senza lacrime e sospiri giunge a poco a poco sino al pianto dirotto.
Dapprima sta li più attonito che compunto, ma quando
gli angioli nel loro canto hanno aria di compatirgli, come se dicessero: «Donna, perchè sì lo stempre?» scoppia il pianto. Quello che non potè il rimprovero, ottiene
il compatimento. Gradazione vera e profonda e rappresentata con rara evidenza d’immagine. Instando Beatrice: – Di’ di’, se questo è vero –, tra confusione e vergogna, esitando e incalzato gli esce un tale «sì» dalla
bocca, che si poteva vedere, ma non udire:
al quale intender fur mestier le viste.
I sentimenti dell’animo scoppiano con tanta ingenuità e
naturalezza, che rasentano il grottesco; quando Beatrice
dice: «Alza la barba», il nostro dottore con linguaggio
della scuola riflette:
e quando per la «barba» il «viso» chiese,
ben conobbi ’l velen dell’argomento.
Il berretto dottorale spunta tutto ad un tratto sul capo
di Dante fra le lacrime e i sospiri, e dà a questa magnifica storia del cuore un colorito locale.
Queste gradazioni corrispondono alle parole di Beatrice. Qui non ci è dialogo: è lei che parla: le risposte di
Dante sono le sue emozioni. Pure non ci è monotonia,
ne declamazione: tutto esce da una situazione vera e finamente analizzata. «Regalmente proterva», la sua seve-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
rità è raddolcita poi dal canto degli angioli. Beatrice non
parla più a Dante: parla agli angioli, e narra loro la storia
di Dante. La situazione diviene meno appassionata, ma
più elevata: mai la poesia non s’era alzata a un linguaggio sì nobile; lo spiritualismo cristiano trovava la sua
musa:
Quando di carne a spirto era salita
e bellezza e virtù cresciuta m’era,
fu’ io a lui men cara e men gradita:
e torse i passi suoi per via non vera,
immagini di ben seguendo false,
che nulla promission rendono intera.
Poi si volta a Dante, e il discorso diviene personale,
stringente, implacabile nella sua logica. E una sola idea
sotto varie forme, ostinata, insistente, che vuole da Dante una risposta. – Sei uomo, hai la barba: come potesti
preferire a me le cose fallaci della terra,
o pargoletta,
o altra vanità per sì breve uso?
– E quando Dante potè formare la voce, viene la risposta:
... ... Le presenti cose
col falso lor piacer volser miei passi,
tosto che ’l vostro viso si nascose.
Come si vede, è l’antica lotta tra il senso e la ragione che
qui ha il suo termine; è la vita tragica dell’anima fra gli
errori e le battaglie del senso, che qui si scioglie in commedia, cioè in lieto fine, con la vittoria dello spirito.
L’idea è più che trasparente, è manifestata direttamente
nel suo linguaggio teologico. Ma l’idea e calata nella
realtà della vita e produce una vera scena drammatica,
con tale fusione di terreno e di celeste, di passione e di
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ragione, di concreto e di astratto, che vi trovi la stoffa da
cui dovea sorgere più tardi il dramma spagnuolo.
Dante, pentito, tuffato nel fiume Lete, e menato a
Beatrice dalle virtù, sue ancelle:
Noi sem qui ninfe; e nel ciel semo stelle.
Pria che Beatrice discendesse al mondo,
fummo ordinate a lei per sue ancelle.
Menrenti agli occhi suoi...
E Beatrice gli svela la sua faccia. Non è poesia che possa
rendere quello che Dante vede, quello che sente:
O isplendor di viva luce eterna,
chi pallido si fece sotto l’ombra
sì di Parnasso, e bevve in sua cisterna,
che non paresse aver la mente ingombra,
tentando a render te, qual tu paresti,
là, dove armonizzando il ciel ti adombra,
quando nell’aere aperto ti solvesti?
Compiuta la rappresentazione, ricomincia la processione sino all’albero della vita, dove, antitesi a questa Chiesa gloriosa di Cristo, apparisce in visione allegorica la
Chiesa terrena, trafitta dall’impero, travagliata dall’eresia, corrotta dal dono di Costantino, smembrata da
Maometto, e in ultimo meretrice fra le braccia del re di
Francia. Concetto stupendo, questo apparire della vita
terrena nell’ultimo del purgatorio, germogliata dall’albero infausto del peccato di Adamo. Il terreno apparisce quando ci si dilegua per sempre dinanzi, non solo in
realtà, ma in ricordanza. Siamo già alla soglia del paradiso.
Così finisce questa processione dantesca, una delle
concezioni più grandiose del poema, anzi in sè sola tutto
un poema, dove ci vediamo sfilare davanti tutt’i grandi
personaggi della Chiesa celeste, immagine anticipata del
regno di Dio, un’apoteosi del cristianesimo, entro di cui
Letteratura italiana Einaudi
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
si rappresenta il più alto mistero liturgico, la Commedia
dell’anima.
Questa processione dove far molta impressione in
quei tempi delle processioni, de’ misteri e delle allegorie, quando gli angeli, le virtù e i vizi, e Cristo e Dio stesso entravano in iscena. Ma è appunto questo carattere liturgico e simbolico, che qui scema in gran parte la
bellezza della poesia. Questo difetto nuoce soprattutto
nella rappresentazione della Chiesa terrena, dove l’aquila, la volpe, e il drago e il gigante e la meretrice rimpiccoliscono un concetto così magnifico, una storia così interessante.
Lo stesso contrasto si affaccia a Dante, quando il
mantovano Sordello, sentendo Virgilio esser di Mantova, esce dalla sua calma di leone:
O mantovano, io son Sordello.
della tua terra. – E l’un l’altro abbracciava.
E Dante pensa alla sua Firenze, dove
... ... l’un l’altro si rode
di quei che un muro e una fossa serra.
Qui non è impigliato nelle allegorie. Scoppia il contrasto
impetuoso, eloquente, e n’esce una poesia tutta cose,
dove si riflettono i più diversi movimenti dell’animo, il
dolore, lo sdegno, la pietà, l’ironia, una calma tristezza.
Il Purgatorio è il dolce rifugio della vecchiezza. Quando la vita si disabbella a’ nostri sguardi, quando le volgiamo le spalle e ci chiudiamo nella santità degli affetti
domestici tra la famiglia e gli amici, nelle opere dell’arte
e del pensiero, il Purgatorio ci s’illumina di viva luce e
diviene il nostro libro, e ci scopriamo molte delicate bellezze, una gran parte di noi. Fu il libro di Lamennais, di
Balbo, di Schlosser.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Viene il Paradiso. Altro concetto, altra vita, altre forme.
Il paradiso e il regno dello spirito, venuto a libertà,
emancipato dalla carne o dal senso, perciò il soprasensibile, o come dice Dante, il trasumanare, il di la dall’umano. È quel regno della filosofia che Dante volea realizzare in terra, il regno della pace, dove intelletto, amore e
atto sono una cosa. Amore conduce lo spirito al supremo intelletto, e il supremo intelletto è insieme supremo
atto. La triade è insieme unità. Quando l’uomo è alzato
dall’amore fino a Dio, hai la congiunzione dell’umano e
del divino, il sommo bene, il paradiso.
Questo ascetismo o misticismo non è dottrina astratta, è
una forma della vita umana. Ci è nel nostro spirito un di
là, ciò che dicesi il sentimento dell’infinito, la cui esistenza si rivela più chiaramente alle nature elevate.
L’arte antica avea materializzato questo di là, umanando il cielo, e la filosofia partendo dalle più diverse
direzioni era giunta a questa conclusione pratica, che
l’ideale della saggezza, e perciò della felicità, è posto nella eguaglianza dell’animo, ciò che dicevasi «apatia», affrancamento dalle passioni e dalla carne: pagana tranquillità, che vedi nelle figure quiete e serene e semplici
dell’arte greca.
Questa calma filosofica trovi nelle figure eroiche del
limbo:
Sembianza avevan ne’ trista ne’ lieta...
Parlavan rado, con passi soavi
Virgilio n’è il tipo più puro, le cui impressioni vanno di
rado al di là di un sospiro, o di un movimento tosto represso. Questa calma è la fisonomia del purgatorio, il
carattere più spiccato di quelle anime, dove l’aspirazione al cielo è senza inquietudine, sicure di salirvi quandochessia. Ma già in quelle anime penetra un elemento
nuovo, l’estasi, il rapimento, la contemplazione; ci sta
Catone, ma irradiato di luce.
Letteratura italiana Einaudi
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Col cristianesimo s’era restaurato nello spirito questo
inquieto di là, e divenne in breve molta parte della vita,
anzi la principale occupazione della vita. E si sviluppò
un’arte e una letteratura conforme. Chi vede gli ammirabili mosaici del paradiso sotto le cupole di San Marco e
di San Giovanni Laterano, o le facce estatiche de’ santi
consumate dal fervore divino ha innanzi stampato il tipo
di questo uomo nuovo. Quel di là, il celeste, il divino,
appare su quelle facce, come appare nella Città di Dio di
santo Agostino e nella Dieta salutis di san Bonaventura.
A questa immagine avea composta la sua Gerusalemme
celeste frate Giacomino da Verona nel secolo decimoterzo.
Questo di là, intravveduto nelle estasi, ne’ sogni, nelle
visioni nelle allegorie del purgatorio, eccolo qui nella
sua sostanza, è il paradiso. Il quale intravveduto nella vita ha una forma, e può essere arte; ma non si concepisce
come, veduto ora nella sua purezza, come regno dello
spirito, possa avere una rappresentazione. Il paradiso
può essere un canto lirico, che contenga. non la descrizione di cosa che è al di sopra della forma, ma la vaga
aspirazione dell’anima a «non so che divino», ed anche
allora l’obietto del desiderio, pur rimanendo «un incognito indistinto», riceve la sua bellezza da immagini terrene, come nell’Aspirazione e nel Pellegrino di Schiller, e
in questi bei versi del Purgatorio, imitati dal Tasso:
Chiamavi il cielo e intorno vi si gira,
mostrandovi le sue bellezze eterne.
Per rendere artistico il paradiso, Dante ha immaginato
un paradiso umano, accessibile al senso e all’immaginazione. In paradiso non c’è canto, e non luce e non riso;
ma essendo Dante spettatore terreno del paradiso, lo vede sotto forme terrene:
Per questo la Scrittura condescende
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
a vostra facultade, e mani e piedi
attribuisce a Dio ed altro intende.
Così Dante ha potuto conciliare la teologia e l’arte. Il
paradiso teologico è spirito, fuori del senso e dell’immaginazione, e dell’intelletto; Dante gli dà parvenza umana
e lo rende sensibile ed intelligibile. Le anime ridono,
cantano, ragionano come uomini. Questo rende il paradiso accessibile all’arte.
Siamo all’ultima dissoluzione della forma. Corpulenta
e materiale nell’Inferno, pittorica e fantastica nel Purgatorio, qui è lirica e musicale, immediata parvenza dello
spirito, assoluta luce senza contenuto, fascia e cerchio
dello spirito, non esso spirito. Il purgatorio, come la terra, riceve la luce dal sole e dalle stelle, e queste l’hanno
immediatamente da Dio, sicchè le anime purganti, come
gli uomini, veggono il sole, e nel sole intravvedono Dio,
offertosi già alla fantasia popolare come emanazione di
luce; ma i beati intuiscono Dio direttamente per la luce
che move da lui senza mezzo:
lume che a lui veder ne condiziona.
Adunque il paradiso e la più spirituale manifestazione di
Dio; e perciò di tutte le forme non rimane altro che luce,
di tutti gli affetti non altro che amore, di tutt’i sentimenti non altro che beatitudine, di tutti gli atti non altro che
contemplazione. Amore, beatitudine, contemplazione
prendono anche forma di luce; gli spiriti si scaldano ai
raggi d’amore; la beatitudine o letizia sfavilla negli occhi
e fiammeggia nel riso; e la verità è siccome in uno specchio dipinta nel cospetto eterno:
Luce intellettual piena d’amore,
amor di vero ben pien di letizia,
letizia che trascende ogni dolzore.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Gli affetti e i pensieri delle anime si manifestano con la
luce; l’ira di san Pietro fa trascolorare tutto il paradiso.
Il paradiso ha ancora la sua storia e il suo progresso,
come l’inferno e il purgatorio. È una progressiva manifestazione dello spirito o di Dio in una forma sempre
più sottile sino al suo compiuto sparire, manifestazione
ascendente di Dio che risponde a’ diversi ordini o gradi
di virtù. Sali di stella in stella, come di virtù in virtù, sino
al cielo empireo, soggiorno di Dio.
Ad esprimere queste gradazioni, unica forma è la luce. Perciò non hai qui, come nell’inferno o nel purgatorio, differenze qualitative, ma unicamente quantitative,
un più e un meno. Prima la luce non è così viva che celi
la faccia umana; più si sale e più la luce occulta le forme
come in un santuario. Come è la luce, così è il riso di
Beatrice, un «crescendo» superiore ad ogni determinazione; la fantasia, formando, non può seguire l’intelletto,
che distingue. Bene il poeta vi adopera l’estremo del suo
ingegno, conscio della grandezza e difficoltà dell’impresa:
L’acqua ch’io prendo giammai non si corse.
Minerva spira e conducemi Apollo,
e nove Muse mi dimostran l’Orse.
Dapprima caldo di questo mondo, sua fattura, allettato
dalla novità o dal maraviglioso de’ fenomeni che gli si affacciano, le immagini gli escono vivaci, peregrine; poi
quasi stanco diviene arido e dà in sottigliezze; ma lo vedi
rilevarsi e poggiare più e più a inarrivabile altezza, sereno, estatico: diresti che la difficoltà lo alletti, la novità lo
rinfranchi, l’infinito lo esalti.
Il paradiso propriamente detto è il cielo empireo, immobile e che tutto move, centro dell’universo. Ivi sono
gli spiriti, ma secondo i gradi de’ loro meriti e della loro
beatitudine appariscono ne’ nove cieli che girano intorno alla terra, la luna, Mercurio, Venere, il sole, Marte,
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Giove, Saturno, le stelle fisse e il primo mobile. Ne’ primi sette cieli, che sono i sette pianeti, ti sta avanti tutta la
vita terrena. La luna è una specie di avanti-paradiso. I
negligenti aprono l’inferno e il purgatorio, e aprono anche il paradiso. E i negligenti del paradiso sono i manchevoli non per volontà propria, ma per violenza altrui.
Il loro merito non è pieno, perchè mancò loro quella
forza di volontà che tenne Lorenzo sulla grata e fe’ Muzio severo alla sua mano. Perciò in loro rimane ancora
un vestigio della terra: la faccia umana. In Mercurio, Venere, il sole, Marte, Giove hai le glorie della vita attiva, i
legislatori, gli amanti, i dottori, i martiri, i giusti. In Saturno hai la corona e la perfezione della vita, i contemplanti. Percorsi i diversi gradi di virtù, comincia il tripudio, o come dice il poeta, il trionfo della beatitudine. Ed
hai nelle stelle fisse il trionfo di Cristo, nel primo mobile
il trionfo degli angioli, e nell’empireo la visione di Dio,
la congiunzione dell’umano e del divino, dove s’acqueta
il desiderio. Questa storia del paradiso secondo i diversi
gradi di beatitudine ha la sua forma ne’ diversi gradi di
luce.
La luce, veste e fascia delle anime, è la sola superstite
di tutte le forme terrene, e non è vera forma, ma semplice parvenza e illusione dell’occhio mortale. Essa è la
stessa beatitudine, la letizia delle anime, che prende
quell’aspetto agli occhi di Dante:
La mia letizia mi ti tien celato
che mi raggia d’intorno e mi nasconde
quasi animal di sua seta fasciato.
Queste parvenze dell’interna letizia si atteggiano, si determinano, si configurano ne’ più diversi modi, e non
sono altro che i sentimenti o i pensieri delle anime che
paion fuori in quelle forme. E n’esce la natura del paradiso, luce diversamente atteggiata e configurata, che ha
aspetto or di aquila, or di croci, or di cerchio, or di co-
Letteratura italiana Einaudi
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
stellazione, ora di scala, con viste nuove e maravigliose.
Queste combinazioni di luce non sono altro che gruppi
d’anime, che esprimono i loro pensieri co’ loro moti e
atteggiamenti. A rendere intelligibili le parvenze di questo mondo di luce, il poeta si tira appresso la natura terrestre e ne coglie i fenomeni più fuggevoli, più delicati, e
ne fa lo specchio della natura celeste. Così rientra la terra in paradiso, non come sostanziale, ma come immagine, parvenza delle parvenze celesti. È la terra che rende
amabile questo paradiso di Dante; è il sentimento della
natura che diffonde la vita tra queste combinazioni ingegnose e simboliche. La terra ha pure la sua parte di paradiso, ed è in quei fenomeni che inebbriano, innalzano
l’animo e lo dispongono alla tenerezza e all’amore: trovi
qui tutto che in terra è di più etereo, di più sfumato, di
più soave. E come l’impressione estetica nasce appunto
da questo profondo sentimento della natura terrestre,
avviene che il lettore ricorda il paragone, senza quasi più
sapere a che cosa si riferisca. Questi paragoni di Dante
sono le vere gemme del Paradiso:
Come a raggio di sol che puro mèi
per fratta nube, già prato di fiori
vider coverti d’ombra gli occhi miei;
vid’io così più turbe di splendori
fulgorati di su da’ raggi ardenti,
senza veder principio di fulgori.
Sì come ’l Sol che si cela egli stessi
per troppa luce, quando il caldo ha rose
le temperanze de’ vapori spessi,
per più letizia sì mi si nascose
dentro al suo raggio la figura santa,
e così chiusa chiusa mi rispose...
Come l’augello, intra l’amate fronde,
posato al nido de’ suoi dolci nati,
la notte che le cose ci nasconde,
che per veder gli aspetti desiati
Letteratura italiana Einaudi
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
e per trovar lo cibo onde gli pasca,
in che i gravi labori gli sono grati,
previene ’l tempo in su l’aperta frasca,
e con ardente affetto il sole aspetta,
fiso guardando pur se l’alba nasca...
... come orologio che ne chiami
nell’ora che la sposa di Dio surge
a mattinar lo sposo perchè l’ami;
che l’una parte e l’altra tira ed urge,
«tin tin» sonando con si dolce nota,
che il ben disposto spirto d’amor turge...
... e cantando vanio
come per acqua cupa cosa grave.
Qual lodoletta che in aere si spazia,
prima cantando e poi tace contenta
dell’ultima dolcezza che la sazia...
Pareva a me che nube ne coprisse
lucida, spessa, solida e pulita,
quasi adamante che lo sol ferisse.
Per entro sè l’eterna margherita
ne ricevette, com’acqua recepe
raggio di luce, rimanendo unita.
Siccome schiera d’api che s’infiora
una fiata, ed una si ritorna
là dove suo lavoro s’insapora...
E vidi lume in forma di riviera,
fulvido di fulgore, intra duo rive,
dipinte di mirabil primavera.
Di tal fiumana uscian faville vive,
e d’ogni parte si mettean ne’ fiori
quasi rubin che oro circoscrive.
Poi come inebriate dagli odori
riprofondavan sè nel miro gurge;
e s’una entrava, un’altra usciane fuori.
Queste tre ultime terzine sono mirabili di spontaneità e
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
di evidenza. Il poeta ha circonfuso le celesti sustanze di
tutto ciò che in terra è più ridente e smagliante. Siamo
nell’empireo. La virtù visiva è stanca, ma si raccende alle
parole di Beatrice, sì che gli appare la riviera di luce, e
fortificata la vista in quella riviera, in quei fiori inebbrianti, in quell’oro, in quei rubini, in quelle vive faville,
Dante discerne ambo le corti del cielo nel santo delirio
del loro tripudio. Ma in verità gli scanni de’ beati sono
meno poetici di queste due rive dipinte di mirabil primavera.
Ma la forma, come parvenza dello spirito, è un press’a
poco, un quasi, un come, «fioca e corta» al concetto.
Questa impotenza della forma produce un sublime negativo, che Dante esprime con l’energia intellettuale di
chi ha vivo il sentimento dell’infinito:
... appressando sè al suo desire
nostro intelletto si profonda tanto
che la memoria retro non può ire.
... ogni minor natura
è corto recettacolo a quel bene,
che non ha fine e sè con sè misura.
... nella giustizia sempiterna
la vista che riceve il vostro mondo,
com’occhio per lo mare, entro s’interna;
chè, benchè dalla proda veggia il fondo,
in pelago nol vede; e nondimeno
egli è, ma ’l cela lui l’esser profondo.
La letizia che move le anime e «trascende ogni dolzore»,
non è se non beatitudine. E rende beate le anime l’entusiasmo dell’amore e la chiarezza intellettiva, o come dice
Dante, «luce intellettual piena d’amore». Esse hanno allegro il cuore e allegra la mente. Nel cuore è perenne desiderio e perenne appagamento. Nella mente la verità
sta come «dipinta».
La luce è forma inadeguata della beatitudine. Ti dà la
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
parvenza, ma non il sentimento e non il pensiero. Spuntano perciò due altre forme, il canto e la visione intellettuale.
Quello che nel purgatorio è amicizia, nel paradiso è
amore, ardore di desiderio placato sempre non saziato
mai, infinito come lo spirito. Stato lirico e musicale, che
ha la sua espressione nella melodia e nel canto. La medesimezza del sentimento spinto sino all’entusiasmo genera la comunione delle anime; la persona non è l’individuo, ma il gruppo, come è delle moltitudini nei grandi
giorni della vita pubblica. I gruppi qui non sono cori,
che accompagnino e compiano l’azione individuale, ma
sono la stessa individualità diffusa in tutte le anime, o se
vogliamo chiamarli cori, sono il coro di personaggi invisibili e muti, di Cristo, di Maria e d’Iddio. Ecco il coro
di Maria:
Per entro ’l cielo scese una facella,
formata in cerchio a guisa di corona,
e cinsela e girossi intorno ad ella.
Qualunque melodia più dolce suona
quaggiù e più a sè l’anima tira,
parrebbe nube che squarciata tuona,
comparata al suonar di quella lira,
onde si coronava il bel zaffiro,
del quale il ciel più chiaro s’inzaffira.
– Io sono amore angelico che giro
l’alta letizia che spira dal ventre
che fu albergo del nostro desiro;
e girerommi, Donna del ciel, mentre
che seguirai tuo Figlio e farai dia
più la spera superna, perchè lì entre –.
Così la circulata melodia
si sigillava, e tutti gli altri lumi
facèn sonar lo nome di Maria...
E come fantolin che inver’ la mamma
tende le braccia, poi che ’l latte prese,
per l’animo che infin di fuor s’infiamma;
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ciascun di quei candori in su si stese
con la sua cima sì che l’alto affetto
ch’egli aveano a Maria, mi fu palese.
Indi rimaser lì nel mio cospetto,
«Regina coeli» cantando sì dolce
che mai da me non si partì il diletto.
Quella facella è l’angiolo Gabriele, e il coro è angelico.
Angioli e beati sono penetrati dello stesso spirito, hanno
vita comune, se non che negli angioli la virtù è innocenza e la letizia è irriflessa: plenitudine volante tra’ beati e
Dio, che il poeta ha rappresentato in alcuni bei tratti; è
un andare e venire nel modo abbandonato e allegro della prima età, tripudianti e folleggianti con una espansione che il poeta chiama «arte» e «gioco»:
Qual è quell’angel che con tanto gioco
guarda negli occhi la nostra Regina,
innamorato sì che par di fuoco?
L’amicizia o comunione delle anime è detta dal poeta
«sodalizio». I loro moti sono danze, le loro voci sono
canti; ma, in quell’accordo di voci, in quel turbine di
movimenti la personalità scompare: è una musica in cui i
diversi suoni si confondono e si perdono in una sola melode. Non ci è differenza di aspetto, ma per dir così una
faccia sola. Questa comunanza di vita è il fondo lirico
del Paradiso, ma è la sua parte fiacca, perchè il poeta,
contento a citare le prime parole di canti ecclesiastici,
non ha avuta tanta libertà e attività di spirito da creare la
lirica del paradiso, rappresentando nel canto i sentimenti e gli affetti del celeste sodalizio. E dove potea giungere, lo mostra la preghiera di san Bernardo, che è un vero
inno alla Vergine, e l’inno a san Francesco d’Assisi e
l’inno a san Domenico, nella loro semplicità anche un
po’ rozza tutto cose e più schietti che i magniloquenti
inni moderni.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
I canti delle anime sono vuoti di contenuto, voci e
non parole, musica e non poesia: è tutto una sola onda
di luce, di melodia e di voce, che ti porta seco:
– Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo –
cominciò – gloria – tutto il paradiso,
tal che m’inebbriava il dolce canto.
Ciò ch’io vedeva, mi sembrava un riso
dell’universo, perochè mia ebbrezza
entrava per l’udire e per lo viso.
Oh gioia! Oh ineffabile allegrezza!
Oh vita intera d’amore e di pace!
Oh senza brama sicura ricchezza!
È l’armonia universale, l’inno della creazione. La luce,
vincendo la corporale impenetrabilità e frammischiando
i suoi raggi, esprime anche al di fuori questa compenetrazione delle anime, l’individualità sparita nel mare
dell’essere. Il poeta, signore anzi tiranno della lingua,
forma ardite parole a significare questa medesimezza
amorosa degli esseri nell’essere: «inciela», «imparadisa»,
«india», «intuassi», «immei», «inlei», «s’infutura», «s’illuia», delle quali voci alcune dopo lungo obblio rivivono. La redenzione dell’anima è la sua progressiva emancipazione dall’egoismo della coscienza; la sua
individualità non le basta; si sente incompiuta, parziale,
disarmonica, e sospira alla idealità nella vita universale.
Questo è il carattere della vita in paradiso. Non solo
sparisce la faccia umana, ma in gran parte anche la personalità. Vivono gli uni negli altri e tutti in Dio.
Questo vanire delle forme e della stessa personalità riduce il paradiso a una corda sola, a lungo andare monotona, se non vi penetrasse la terra e con la terra altre forme ed altre passioni. La terra penetra come
contrapposto a questa vita d’amore e di pace. È vita
d’odio e di vana scienza, e provoca le collere e i sarcasmi
de’ celesti.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Il contrapposto è colto in alcuni momenti altamente
poetici. Accolto nel sole gloriosamente allato a Beatrice,
si affaccia al poeta tutta la vanità delle cure terrestri:
O insensata cura de’ mortali
quanto son difettivi sillogismi
quei che ti fanno in basso batter l’ali!
Chi dietro a iura, e chi ad aforismi
sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
e chi regnar per forza o per sofismi,
e chi in rubare, e chi in civil negozio;
chi nel diletto della carne involto
s’affaticava e chi si dava all’ozio.
Un altro momento di alta poesia è quando il poeta
dall’alto delle stelle fisse guarda alla terra:
... e vidi questo globo
tal ch’io sorrisi del suo vil sembiante.
La terra «che ci fa tanto feroci», veduta dal cielo, gli pare un’aiuola. Il concetto, abbellito e allargato dal Tasso,
ha qui una severità di esecuzione quasi ieratica. Il poeta
si sente già cittadino del cielo, e guarda così di passata e
con appena un sorriso a tanta viltà di sembiante volgendone immediatamente l’occhio e mirando in Beatrice:
L’aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendomi io con gli eterni gemelli,
tutta m’apparve da’ colli alle foci:
poscia rivolsi gli occhi agli occhi belli.
Pure è quest’aiuola che desta nel seno de’ beati varietà
di sentimenti e di passioni, facendo vibrar nuove corde.
Accanto all’inno spunta la satira in tutte le sue gradazioni, il frizzo, la caricatura, l’ironia, il sarcasmo. Qual frizzo, che l’allusione di Carlo Martello, così pungente nella
sua generalità:
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
e fanno re di tal, che è da sermone!
Beatrice, dottissima in teologia, si mostra non meno dotta nel maneggio della caricatura e dell’ironia, frustando i
predicatori plebei di quel tempo:
Or si va con motti e con iscede
a predicare, e pur che ben si rida,
gonfia ’l cappuccio e più non si richiede.
Giustiniano conchiude il suo nobilissimo racconto dei
casi e della gloria dell’antica Roma con fiere minacce ai
guelfi, nemici dell’aquila imperiale. Papa e monaci sono
i più assaliti. San Tommaso, dette le lodi di san Francesco, riprende i francescani, e san Benedetto i benedettini, e san Pietro il papa. Tutt’i re di quel tempo mandano
sangue sotto il flagello di Dante. Non si può attendere
da’ santi alcuna indulgenza alle umane fralezze. La satira
è acerba; la sua musa è l’indignazione, e la sua forma ordinaria è l’invettiva. Le forme comiche sono uccise in
sul nascere e si sciolgono nel sarcasmo. Il sarcasmo non
è qui nè un pensiero, nè un tratto di spirito, ma pittura
viva del vizio, con parole anche grossolane, come «cloaca», che mettano in vista il laido e il disgustoso. Il vizio è
colto non in una forma generale e declamatoria, ma là,
in quegli uomini, in quel tempo, sotto quelli aspetti, con
pienezza di particolari ed esattezza di colorito. Capilavori di questo genere sono la pittura de’ benedettini e
l’invettiva di san Pietro.
Questo contrapposto tra il cielo e la terra non è altro
se non l’antitesi che è in terra tra i buoni e i cattivi, e per
scendere al particolare, tra l’età dell’oro del cristianesimo e i tempi degeneri del poeta; è il presente condannato dal passato, è il passato messo in risalto dal suo contrasto con la corruzione presente. Ci erano i benedettini,
ma ci era stato san Benedetto; ci era Bonifazio e Clemente, ma ci era stato san Pietro e Lino e Cleto e Sisto e
Pio e Calisto e Urbano. Gli uomini di quell’aurea età più
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
illustri per santità e per scienza sono qui raccolti, come
in un pantheon; è il mondo eroico cristiano, succeduto a
quel mondo eroico pagano stato descritto nel Limbo, e
di cui Giustiniano fa il panegirico in paradiso.
Questa età dell’oro collocata nel passato e messa a
confronto con la tristizia di quei tempi ha ispirato a
Dante una delle scene più interessanti, ed è la pittura
dell’antica e della nuova Firenze, fatta dal Cacciaguida,
uno de’ suoi antenati. Ivi inno e satira sono fusi insieme:
vedi l’ideale dell’età dell’oro e della domestica felicità
con tanta semplicità di costumi, con tanta modestia di
vita, e di rincontro vedi il villano di Aguglione e le sfacciate donne fiorentine. La conclusione di questa scena
di famiglia prende proporzioni epiche: Dante si fa egli
medesimo il suo piedistallo. Nella predizione che Cacciaguida gli fa del suo esilio è tanta malinconia e tanto
affetto, che ben si pare la profonda tristezza del vecchio
e stanco poeta. L’esilio non è rappresentato ne’ patimenti materiali: Dio riserba dolori più acuti ai magnanimi, lasciare ogni cosa diletta più caramente e domandare il pane all’insolente pietà degli estranei: questo strazio
di tanti miseri vive qui immortale ne’ versi divenuti proverbiali del più misero e del più grande. Ma è un dolore
virile: tosto rileva la fronte, e dall’alto del suo ingegno e
della sua missione poetica vede a’ suoi piedi tutt’i potenti della terra.
La letizia delle anime non è solo amore, ma visione intellettuale. La luce, il riso non sono altro che manifestazione del loro perfetto vedere: perciò la luce e detta «intellettuale». Beatrice spiega così il suo riso a Dante:
S’io ti fiameggio nel caldo d’amore
di là dal modo che in terra si vede,
sì che degli occhi tuoi vinco il valore,
non ti maravigliar; chè ciò procede
da perfetto veder, che, come apprende,
così nel bene appreso move il piede.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
La beatitudine e la contemplazione, e la contemplazione
è appunto questa perfetta visione intellettuale. Perciò le
anime non investigano, non discutono e non dimostrano, ma veggono e descrivono la verità, non come idea,
ma come natura vivente. In terra ci è l’apparenza del vero, e perciò diversità di sistemi filosofici, come spiega
Beatrice:
Voi non andate giù per un sentiero
filosofando: tanto vi trasporta
l’amor dell’apparenza e ’l suo pensiero.
In paradiso la verità è tutta dipinta nel cospetto eterno;
in Dio è legato con amore in un volume ciò che per
l’universo si squaderna; vedere Dio è vedere la verità. E
non è visione solo di cose, ma di pensieri e di desidèri. I
beati vedono il pensiero di Dante senza ch’egli lo esprima.
La scienza com’era concepita a’ tempi di Dante, sposata alla teologia, avea una forma concreta e individuale,
materia contemplabile e altamente poetica. Un Dio personale, che, immobile motore, produce amando l’idea
esemplare dell’universo, pura intelligenza e pura luce,
che penetra e risplende in una parte più e meno in un’altra sino alle ultime contingenze; gli astri, dove si affacciano i beati, influenti sulle umane sorti e governati da
intelligenze da cui spira il moto e le virtù de’ loro giri; il
cielo empireo, centro di tutt’i cerchi cosmici e soggiorno
della pura luce; l’universo, splendore della divinità, dove appare squadernato ciò che in Dio è un volume; l’ordine e l’accordo di tutto il creato dalle infime incarnazioni fino alle nove gerarchie degli angioli; la caduta
dell’uomo per il primo peccato e il suo riscatto per l’incarnazione e la passione del Verbo; la verità rivelata,
oscura all’intelletto, visibile al cuore, avvalorata dalla fede, confortata dalla speranza, infiammata dalla carità: in
questa scienza della creazione il pensiero è talmente
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
concretato e incorporato, che il poeta può contemplarlo
come cosa vivente, come natura. Perciò la forma scientifica è qui meno un ragionamento che una descrizione,
come di cosa che si vede e non si dimostra. Il perfetto
vedere de’ beati è privilegio di Dante; nessuno gli sta del
pari nella forza e chiarezza della visione. Spirito dommatico, credente e poetico, predica dal paradiso la verità
assoluta, e non la pensa, la scolpisce. Diresti che pensi
con l’immaginazione, aguzzata dalla grandezza e verità
dello spettacolo. Nascono ardite metafore e maravigliose comparazioni. L’accordo della prescienza col libero
arbitrio è una delle concezioni più difficili e astruse; ma
qui non è una concezione, è una visione, uno spettacolo:
così potente è questa immaginazione dantesca:
La contingenza che fuor del quaderno
della vostra materia non si stende,
tutta è dipinta nel cospetto eterno.
Necessità però quindi non prende,
se non come dal viso in che si specchia
nave che per corrente giù discende.
Da indi, sì come viene ad orecchia
dolce armonia da organo, mi viene
a vista il tempo che ti si apparecchia.
Il poeta procede per deduzione, guardando le cose
dall’alto del paradiso, da cui dechina via via fino alle ultime conseguenze: forma contemplativa e dommatica,
anzi che discorsiva e dimostrativa, e propria della poesia, presentando all’immaginazione vasti orizzonti in
una sola comprensione:
Guardando nel suo Figlio con l’Amore
che l’uno e l’altro eternalmente spira
lo primo e ineffabile valore
quanto per mente e per occhio si gira
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
con tant’ordine fe’ ch’esser non puote
senza gustar di lui chi ciò rimira.
Questa forma poetica della scienza, questa visione intellettuale, abbozzata nel Tesoretto, è condotta qui a molta
perfezione. È un certo modo di situare l’oggetto e metterlo in vista, sì che l’occhio dell’immaginazione lo comprenda tutto. Se ci è cosa che ripugna a questa forma, è
lo scolasticismo con la barbarie delle sue formole e le
sue astrazioni; ma l’immaginazione vi fa penetrare l’aria
e la luce: miracolo prodotto dalle due grandi potenze
della mente dantesca, la virtù sintetica e la virtù formativa. Veggasi la stupenda descrizione che fa Beatrice del
moto degli astri, di poco inferiore alla storia del processo creativo, il capolavoro di questo genere. Qui la scienza della creazione è abbracciata in un solo girar d’occhio, con sì stretta e rapida concatenazione che tutto il
creato ti sta innanzi come una sola idea semplice. Ci sono concetti difficilissimi ad esprimersi, come l’unità della luce nella sua diversità, e l’imperfezione della natura,
che non ti dà mai realizzato l’ideale. I concetti qui non
sono astrazioni, ma forze vive, gli attori della creazione,
la luce, il cielo, la natura, e non hai un ragionamento, hai
una storia animata, con una chiarezza e vigore di rappresentazione che fa di Dio e della natura vere persone
poetiche:
Ciò che non muore e ciò che può morire
non è se non splendor di quell’idea,
che partorisce amando il nostro Sire.
Chè quella viva luce che si mea
dal suo Lucente, che non si disuna
da lui, nè dall’amor che in lor s’intrea;
per sua bontate il suo raggiare aduna
quasi specchiato in nuove sussistenze,
eternalmente rimanendosi una.
Queste tre terzine sono una maraviglia di chiarezza e di
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
energia in dir cosa difficilissima. Nè minor potenza d’intuizione trovi nella fine, quando, paragonando l’ideale
alla cera del suggello, aggiunge:
ma la natura la dà sempre scema,
similemente operando all’artista,
che ha l’abito dell’arte e man che trema.
Ed anche la mano di Dante trema, che fra tante bellezze
ci è non poca scoria. Non di rado vedi non il poeta, ma il
dottore che esce dall’università di Parigi, pieno il capo
di tesi e di sillogismi. Molte quistioni sono troppo speciali, altre sono infarcite di barbarie scolastica: definizioni, distinzioni, citazioni, argomentazioni. E questo è non
per difetto di virtù poetica, ma per falso giudizio. A lui
pare che questo lusso di scienza sia la cima della poesia,
e se ne vanta, e si beffa di quelli che lo hanno sin qui seguito in piccola barca. – Tornate indietro – egli dice –
che il mio libro e per soli quei pochi che possono gustare il pan degli angioli; – e sono i filosofi e i dottori suoi
pari. Perciò il Paradiso e poco letto e poco gustato. Stanca soprattutto la sua monotonia, che par quasi una serie
di dimande e di risposte fra maestro e discente.
La visione intellettuale è la beatitudine. L’esposizione
della scienza riesce in cantici e inni, le ultime parole del
veggente si confondono con gli osanna del cielo:
Finito questo, l’alta corte santa
risuona per le spere un Dio lodiamo,
nella melode che lassù si canta.
Siccome io tacqui, un dolcissimo canto
risono per lo cielo, e la mia donna
dicea con gli altri: «Santo, santo, santo !»
Così è sciolto questo mistero dell’anima. Adombrato ne’
simboli e allegorie del Purgatorio, qui il mistero è svelato, è la Divina Commedia dell’anima, il suo indiarsi
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
nell’eterna letizia. La forza che tira Dante a Dio, si che
sale come rivo,
se di alto monte scende giuso ad imo,
è l’amore, è Beatrice, che all’alto volo gli veste le piume
Beatrice è in sè il compendio del paradiso, lo specchio
dove quello si riflette ne’ suoi mutamenti. Puoi dipingerla quando prega Virgilio o quando «regalmente proterva» rimprovera l’amante; ma qui è spiritualizzata tanto, che è indarno opera di pennello. La stessa parola non
è possente di descrivere quel riso e quella bellezza trasmutabile, se non ne’ suoi effetti su Dante e su’ celesti.
Ecco uno de’ più bei luoghi:
Quivi la donna mia vid’io sì lieta,
come nel lume di quel ciel si mise,
che più lucente se ne fe’ il pianeta;
e se la stella si cambiò e rise,
qual mi fec’io, che pur di mia natura
trasmutabile son per tutte guise!
Come in peschiera che è tranquilla e pura
traggono i pesci a ciò che vien di fuori,
per modo che lo stimin lor pastura;
sì vid’io ben più di mille splendori
trarsi ver’ noi, ed in ciascun s’udia:
Ecco chi crescerà li nostri amori. –
Spiritualizzato il corpo, spiritualizzata l’anima. L’amore
è purificato: nulla resta più di sensuale. Dante che nel
purgatorio sentì il tremore dell’antica fiamma, qui ode
Beatrice con un sentimento assai vicino alla riverenza.
Quando ella si allontana, ei non manda un lamento:
ogni parte terrestre è in lui arsa e consumata. Le sue parole sono affettuose; ma è affetto di riverente gratitudine, siccome, nel piccolo cenno che gli fa Beatrice, l’amore dell’uomo come ombra si dilegua nell’amore di Dio,
ella lo ama in Dio:
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Così orai, e quella si lontana,
come parea, sorrise e riguardommi:
poi si tornò alla eterna fontana.
Come Dante non potè entrare nel paradiso terrestre a
vedere il simbolo del trionfo di Cristo senza lo «scotto»
del pentimento, così non può ne’ «gemelli» o stelle fisse
contemplare il trionfo di Cristo che non dichiari la sua
fede. Allora san Pietro lo incorona poeta, e poeta vuol
dire banditore della verità. San Pietro gli dice:
e non asconder quel ch’io non ascondo.
Così la Commedia ha la sua consacrazione e la sua missione. È la verità bandita dal cielo, della quale Dante si
fa l’apostolo e il profeta: è il «poema sacro». Con quella
stessa coscienza della sua grandezza che si fe’ «sesto fra
cotanto senno», qui si pone accanto a san Pietro e se ne
fa l’interprete, congiungendo in sè le due corone, il savio
e il santo, l’antica e la nuova civiltà, il filosofo e il teologo. Dichiarata la sua fede, consacrato e incoronato,
Dante si sente oramai vicino a Dio. Avea già contemplata la divinità nella sua umanità, il Dio-uomo. Il trionfo
di Cristo, la festa dell’Incarnazione, sembra reminiscenza di funzioni ecclesiastiche, co’ suoi principali attori,
Cristo, la Vergine, Gabriello. Cristo e la Vergine sono
come nel santuario, invisibili; la festa è tutta fuori di loro
e intorno a loro. Succede il trionfo degli angioli, e poi
nell’empireo il trionfo di Dio.
L’empireo è la città di Dio, il convento de’ beati, il
proprio e vero paradiso. Beatrice raggia sì, che il poeta si
concede vinto più che tragedo o comico superato dal
suo tema, e desiste dal seguir
più dietro a sua bellezza poetando,
come all’ultimo suo ciascun artista.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Ivi è la luce intellettuale, che fa visibile
lo Creatore a quella creatura
che solo in lui vedere ha la sua pace.
La luce ha figura circolare, come il giallo di una rosa, le
cui bianche foglie si distendono per l’infinito spazio, e
sono gli scanni de’ beati. San Bernardo spiega e descrive
il maraviglioso giardino. Il punto che più splende è là
dove sono
gli occhi da Dio diletti e venerati,
dove è la Vergine e gli angioli. Quel punto è la pacifica
orifiamma del paradiso, la bandiera della pace. Il giardino, la rosa, l’orifiamma sono immagini graziose, ma inadeguate. Queste metafore non valgono la stupenda terzina, dove san Bernardo è rappresentato in forma
umana e intelligibile:
Diffuso era per gli occhi e per le gene
di benigna letizia, in atto pio,
quale a tenero padre si conviene.
Il paradiso, appunto perchè paradiso, non puoi determinarlo troppo e descriverlo, senza impiccolirlo. La sua
forma adeguata è il sentimento, l’eterno tripudio: ciò
che è ben colto in quella plenitudine volante di angeli,
che diffondono un po’ di vita tra quella calma. Il vero significato lirico del paradiso è nell’inno di Dante a Beatrice e nell’inno di san Bernardo alla Vergine, ne’ quali è
il paradiso guardato dalla terra con sentimenti e impressioni di uomo. I beati stessi diventano interessanti,
quando tra quella luce vedi spuntare
visi a carità suadi,
ed atti ornati di tutte onestadi
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
o quando «chiudon le mani» implorando la Vergine.
Anche Dio ha voluto descrivere Dante, e vede in lui
l’universo, e poi la Trinità, e poi l’Incarnazione, congiunzione dell’umano e del divino, in cui si acqueta il
desiderio, il «disiro» e il «velle»,
sì come ruota ch’egualmente e mossa.
Dante vede, ma è visione, di cui hai le parole e non la
forma; ci è l’intelletto, non ci è più l’immaginazione, divenuta un semplice lume, un barlume. La forma sparisce; la visione cessa quasi tutta; sopravvive il sentimento:
... quasi tutta cessa
mia visione, ed ancor mi distilla
nel cor lo dolce che nacque da essa.
Così la neve al sol si disigilla;
così al vento nelle foglie lievi
si perdea la sentenzia di sibilla.
L’immaginazione morendo manda in questi bei versi
l’ultimo raggio. All’«alta fantasia» manca la possa; e insieme con la fantasia muore la poesia.
Così finisce la storia dell’anima. Di forma in forma, di
apparenza in apparenza, ritrova e riconosce se stessa in
Dio, pura intelligenza, puro amore e puro atto. Ed è in
questa concordia che l’anima acqueta il suo desiderio,
trova la pace. Nell’Inferno signoreggia la materia anarchica: le sue forme ricevono d’ogni sorte differenze,
spiccate, distinte, corpulente e personali. Nel Purgatorio
la materia non è più la sostanza, ma un momento: lo spirito acquista coscienza di sua forza, e contrastando e
soffrendo conquista la sua libertà: la realtà vi è in immaginazione, rimembranza del passato da cui si sprigiona,
aspirazione all’avvenire a cui si avvicina; onde le sue forme sono fantasmi e rappresentazioni dell’immaginativa
anzi che obbietti reali: pitture, sogni, visioni estatiche,
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
simboli e canti. Nel Paradiso lo spirito già libero di grado in grado s’india; le differenze qualitative si risolvono,
e tutte le forme svaporano nella semplicità della luce,
nella incolorata melodia musicale, nel puro pensiero.
Quel regno della pace che tutti cercavano, quel regno di
Dio, quel regno della filosofia, quel «di là», tormento e
amore di tanti spiriti, è qui realizzato. Il concetto della
nuova civiltà, di cui avevi qua e là oscuri e sparsi vestigi,
è qui compreso in una immensa unità, che rinchiude nel
suo seno tutto lo scibile, tutta la coltura e tutta la storia.
E chi costruisce così vasta mole, ci mette la serietà
dell’artista, del poeta del filosofo e del cristiano. Consapevole della sua elevatezza morale e della sua potenza
intellettuale, gli stanno innanzi, acuti stimoli all’opera, la
patria, la posterità, l’adempimento di quella sacra missione che Dio affida all’ingegno, acuti stimoli, ne’ quali
sono purificati altri motivi meno nobili, l’amor della
parte, la vendetta, le passioni dell’esule: ci è là dentro
nella sua sincerità tutto l’uomo, ci è quel d’Adamo e ci è
quel di Dio. A poco a poco quel mondo della fantasia
diviene parte del suo essere, il suo compagno fino agli
ultimi giorni, e vi gitta, come nel libro della memoria,
l’eco de’ suoi dolori, delle sue speranze e delle sue maledizioni. Nato a immagine del mondo che gli era intorno,
simbolico, mistico e scolastico, quel mondo si trasforma
e si colora e s’impolpa della sua sostanza, e diviene il suo
figlio, il suo ritratto. La sua mente sdegna la superficie,
guarda nell’intimo midollo, e la sua fantasia ripugna
all’astratto, a tutto dà forma. Onde nasce quella intuizione chiara e profonda che è il carattere del suo genio.
E non solo l’oggetto gli si presenta con la sua forma, ma
con le sue impressioni e i suoi sentimenti. E n’esce una
forma, che è insieme immagine e sentimento, immagine
calda e viva, sotto alla quale vedi il colore del sangue, il
movere della passione. E con l’immagine tutto è detto, e
non vi s’indugia e non la sviluppa, e corre lievemente di
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
cosa in cosa, e sdegna gli accessorii. A conseguire l’effetto spesso gli basta una sola parola comprensiva, che ti
offre un gruppo d’immagini e di sentimenti, e spesso,
mentre la parola dipinge, non fosse altro, con la sua giacitura, l’armonia del verso ne esprime il sentimento.
Tutto è succo, tutto è cose, cose intere nella loro vivente
unità, non decomposte dalla riflessione e dall’analisi.
Per dirla con Dante, il suo mondo è un volume non
squadernato. È un mondo pensoso, ritirato in sè, poco
comunicativo, come fronte annuvolata da pensiero in
travaglio. In quelle profondità scavano i secoli, e vi trovano sempre nuove ispirazioni e nuovi pensieri. Là vive
involto ancora e nodoso e pregno di misteri quel mondo, che sottoposto all’analisi, umanizzato e realizzato, si
chiama oggi letteratura moderna.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
VIII
IL CANZONIERE
Dante morì nel 1321. La sua Commedia riempie di sè
tutto il secolo. I contemporanei la chiamarono «divina»,
quasi la parola sacra, il libro dell’altra vita, o come diceano, il «libro dell’anima». Un tal Trombetta, quattrocentista, la mette fra le opere sacre e i libri dell’anima
«da studiarsi in quaresima», come le Vite de’ santi Padri
la Vita di san Girolamo. Il popolo cantava i suoi versi anche in contado, e pigliava alla semplice la sua fantasia. I
dotti ammiravano la scienza sotto il velo delle favole,
quantunque alcuni austeri, come Cecco d’Ascoli, quel
velo non ce l’avrebbero voluto. E Fazio degli Uberti crede di far cosa più degna, rimovendo ogni velo ed esponendoci arida scienza nel suo Dittamondo, «dicta
mundi».
L’impressione non fu puramente letteraria. Ammiravano la forma squisita, ma tenevano il libro più che poesia. Vedevano là entro il libro della vita o della verità, e
ben presto fu spiegato e comentato come la Bibbia e come Aristotile, accolto con la stessa serietà con la quale
era stato concepito.
Oscurissimo in molti particolari, e per le allusioni politiche e storiche e pel senso allegorico, il libro nel suo
insieme è così chiaro e semplice, che si abbraccia tutto
di un solo sguardo. La scienza della vita o della creazione è colta ne’ suoi tratti essenziali e rappresentata con
perfetta chiarezza e coesione. L’armonia intellettuale diviene cosa viva nell’architettura, così coerente e significativa nelle grandi linee, così accurata ne’ minini particolari. L’immaginazione anche più pigra concepisce di
un tratto inferno, purgatorio e paradiso. Il pensiero
nuovo, mistico e spiritualista, lunga elaborazione dei secoli, compariva qui perfettamente armonizzato e pieno
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
di vita. In questo mondo intellettuale e dommatico, così
ben rispondente alla coscienza universale, si sviluppava
la storia o il mistero dell’anima nella più grande varietà
delle forme, sì che vi si rifletteva tutta la vita morale nel
suo senso più serio e più elevato. Il sentimento della famiglia, la viva impressione della natura, l’amor della patria, un certo senso d’ordine, di unità, di pace interiore
che fa contrasto al disordine e alla licenza di quei costumi pubblici e privati, la virtù dell’indignazione, il disprezzo di ogni viltà e volgarità, la virilità e la fierezza
della tempra, l’aspirazione ad un ordine di cose ideale e
superiore, il vivere in ispirito e in contemplazione, come
staccato dalla terra, il sentimento della giustizia e del dovere, la professione della verità, piaccia o non piaccia,
con l’occhio volto a’ posteri, e quella fede congiunta con
tanto amore, quell’accento di convinzione, quella coscienza che ha il poeta della sua personalità, della sua
grandezza e della sua missione; tutto questo appartiene
a ciò che di più nobile ed elevato e nella natura umana.
Anche quel non so che scabro e rozzo e quasi selvaggio,
ch’è nella superficie, rendeva l’immagine di quella eroica e ancor barbara giovinezza del mondo moderno.
Ma l’impressione prodotta dalla Commedia rimaneva
circoscritta nell’Italia centrale. La scuola del nuovo stile
non avea fatto ancora sentire la sua azione nelle rimanenti parti d’Italia, dove la lingua dominante era sempre
il latino scolastico ed ecclesiastico. Malgrado l’esempio
di Dante, non era ancora stabilito che in rima si potesse
scrivere d’altro che di cose d’amore. E in questa sentenza era anche Cino da Pistoia, solo superstite di quella
scuola immortale, dalla quale era uscita la Commedia.
Compariva sulla scena la nuova generazione.
Lo studio de’ classici, la scoperta di nuovi capilavori,
una maggior pulitezza nella superficie della vita, la fine
delle lotte politiche col trionfo de’ guelfi, la maggior diffusione della coltura sono i tratti caratteristici di questa
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
nuova situazione. La superficie si fa più levigata, il gusto
più corretto, sorge la coscienza puramente letteraria, il
culto della forma per se stessa. Gli scrittori non pensarono più a render le loro idee in quella forma più viva e rapida che si offrisse loro innanzi; ma cercarono la bellezza e l’eleganza della forma. Dimesticatisi con Livio,
Cicerone, Virgilio parve loro barbaro il latino di Dante;
ebbero in dispregio quei trattati e quelle storie che erano state l’ammirazione della forte generazione scomparsa, e non poterono tollerare il latino degli scolastici e
della Bibbia. Intenti più alla forma che al contenuto, poco loro importava la materia, pur che lo stile ritraesse
della classica eleganza. Così sorsero i primi puristi e letterati in Italia, e capi furono Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio.
Nel Petrarca si manifesta energicamente questo carattere della nuova generazione. Fece lunghi e faticosi viaggi per iscoprire le opere di Varrone, le storie di Plinio, la
seconda deca di Livio; trovò le epistole di Cicerone e
due sue orazioni. Dobbiamo a’ suoi conforti e alla sua liberalità la prima versione di Omero e di parecchi scritti
di Platone. Scopritore instancabile di codici emendava,
postillava, copiava: copiò tutto Terenzio. In questa intima familiarità co’ più grandi scrittori dell’antichità greco-latina, tutto quel tempo di poi, che fu detto «il medio
evo», gli apparve una lunga barbarie; di Dante stesso
ebbe assai poca stima; gli stranieri chiamava «barbari»;
gl’italiani chiamava «latin sangue gentile»; voleva una ristaurazione dell’antichità, e che non fosse ancora fattibile, ne accagiona la corruttela de’ costumi. Era Petracco e
si fece chiamare Petrarca; sbattezzò i suoi amici e li
chiamò Socrati e Lelii, ed essi sbattezzarono lui e lo
chiamarono Cicerone. Conchiuse la sua vita scrivendo
epistole a Cicerone, a Seneca, a Quintiliano, a Tito Livio, ad Orazio, a Virgilio, ad Omero, co’ quali viveva in
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ispirito, e poco innanzi di morire, scrisse una lettera alla
posterità, alla quale raccomanda la sua memoria.
Così appariva l’aurora del Rinnovamento. L’Italia
volgeva le spalle al medio evo, e dopo tante vicissitudini
ritrovava se stessa e si affermava popolo romano e latino. Questo proclamava Cola da Rienzo dall’alto del
Campidoglio. Guelfi e ghibellini divennero nomi vieti;
gli scolastici cessero il campo agli eruditi e a’ letterati; la
teologia fu segregata dagli studi di coltura generale e divenne scienza de’ chierici; la filosofia conquistò il primato in tutto lo scibile; le allegorie, le visioni, le estasi, le
leggende, i miti, i misteri, separati dal tronco in cui vivevano, divennero forme puramente letterarie e d’imitazione; tutto quel mondo teologico, mistico nel concetto,
scolastico e allegorico nelle forme, fu tenuto barbarie da
uomini che erano già in grado di gustare Virgilio e Omero.
Questa nuova Italia, che ripiglia le sue tradizioni e si
sente romana e latina e si pone nella sua personalità di
rincontro agli altri popoli, tutti stranieri e barbari, ispira
al giovine Petrarca la sua prima canzone. Qui non ci è
più il guelfo o il ghibellino, non il romano o il fiorentino:
c’è l’Italia che si sente ancora regina delle nazioni; ci è
l’italiano che parla con l’orgoglio di una razza superiore,
e ricorda Mario come se fosse vivuto l’altro ieri e quella
storia fosse la sua storia; ci è la viva impressione di quel
mondo classico sul giovine poeta, che ivi trova i suoi antenati e cerca di nuovo quell’Italia potente e gloriosa,
l’Italia di Mario. L’orgoglio nazionale e l’odio de’ barbari è il motivo della canzone, lo spirito che vi alita per entro. Vi compariscono già tutte le qualità di un grande artista. La chiarezza e lo splendore dello stile, la fusione
delle tinte, l’arte de’ chiaroscuri, la perfetta levigatezza e
armonia della dizione, la sobrietà nel ragionamento, la
misura ne’ sentimenti, un dolce calore che penetra dappertutto senza turbare l’equilibrio e la serenità e l’ele-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ganza della forma, fanno di questa canzone uno de’ lavori più finiti dell’arte. L’Italia ha avuto il suo poeta; ora
ha il suo artista.
In questa risurrezione dell’antica Italia è naturale che
la lingua latina fosse stimata non solo lingua de’ dotti,
ma lingua nazionale, e che la storia di Roma dovesse
sembrare agl’italiani la loro propria storia. Da queste
opinioni uscì l’Africa, che al Petrarca dove parere la vera
Eneide, la grande epopea nazionale, rappresentata in
quella lotta ultima, nella quale Roma, vincendo Cartagine, si apriva la via alla dominazione universale. Questo
poema rispondeva così bene alla coscienza pubblica,
che Petrarca fu incoronato principe de’ poeti, ed ebbe
tal grido e tali onori che nessun uomo ha avuto mai.
Nuovo Virgilio, volle emulare anche a Cicerone, accettando volentieri legazioni che gli dessero occasione di
recitare pubbliche orazioni. Scrisse egloghe, trattati, dialoghi, epistole, sempre in latino: lavori molto apprezzati
da’ contemporanei, ma tosto dimenticati, quando cresciuta la coltura e raffinato il gusto, parve il suo latino
così barbaro, come barbaro era parso a lui il latino di
Dante e de’ Mussati, de’ Lovati e de’ Bonati tenuti a’
tempi loro quasi redivivi Orazii e Virgilii.
Ma la lingua latina potea così poco rivivere come
l’Italia latina. Il latino scolastico avea pure alcuna vita,
perchè lo scrittore sforzava la lingua e l’ammodernava e
ci mettea se stesso. Ma il latino classico non potea produrre che un puro lavoro d’imitazione. Lo scrittore pieno di riverenza verso l’alto modello non pensa ad appropriarselo e trasformarlo, ma ad avvicinarvisi
possibilmente. Tutta la sua attività è volta alla frase classica, che gli sta innanzi nella sua generalità, spoglia di
tutte le idee accessorie che suscitava ne’ contemporanei,
e dove è il più fino e il più intimo dello stile. Perciò schiva il particolare e il proprio, corre volentieri appresso le
perifrasi e le circonlocuzioni, e arido nelle immagini, po-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
vero di colori, scarso di movimenti interni, e dice non
quanto o come gli sgorga dal di dentro, ma ciò che può
rendersi in quella forma e secondo quel modello: difetti
visibili nell’Africa. Così si formo una coscienza puramente letteraria, lo studio della forma in se stessa con
tutti gli artifici e i lenocini della rettorica: ciò che fu detto «eleganza», «forma scelta e nobile»; maniera di scrivere artificiosa, che pare anche nelle sue canzoni politiche, come quella a Cola di Rienzo, opera più di letterato
che di poeta, e perciò pregiata molto, finchè in Italia
durò questa coscienza artificiale.
In verità il Petrarca era tutt’altro che romano o latino,
come pur voleva parere: potè latinizzare il suo nome, ma
non la sua anima. Lo scrittore latino è tutto al di fuori,
ne’ fatti e nelle cose, è tutto vita attiva e virile, diresti
non abbia il tempo di piegarsi in sè e interrogarsi. Al Petrarca sta male l’abito di Cicerone; anche i contemporanei a sentirlo battevano le mani e ridevano. Non sentivano l’uomo in tutto quel rimbombo ciceroniano. L’uomo
c’era, ma più simile all’anacoreta e al santo che a Livio e
a Cicerone, più inclinato alle fantasie e alle estasi che
all’azione. Natura contemplativa e solitaria, la vita esterna fu a lui non occupazione, ma diversione; la sua vera
vita fu tutta al di dentro di sè: il solitario di Valchiusa fu
il poeta di se stesso. Dante alzo Beatrice nell’universo,
del quale si fece la coscienza e la voce; egli calò tutto
l’universo in Laura, e fece di lei e di sè il suo mondo.
Qui fu la sua vita, e qui fu la sua gloria.
Pare un regresso: pure è un progresso. Questo mondo è più piccolo, è appena un frammento della vasta sintesi dantesca, ma è un frammento divenuto una compiuta e ricca totalità, un mondo pieno, concreto,
sviluppato, analizzato, ricerco ne’ più intimi recessi.
Beatrice sviluppata dal simbolo e dalla scolastica, qui è
Laura nella sua chiarezza e personalità di donna; l’amore, scioltosi dalle universe cose entro le quali giaceva in-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
viluppato, qui non è concetto nè simbolo, ma sentimento; e l’amante, che occupa sempre la scena, ti dà la storia
della sua anima, instancabile esploratore di se stesso. In
questo lavoro analitico-psicologico la realtà pare
sull’orizzonte chiara e schietta, sgombra di tutte le nebbie, tra le quali era stata ravvolta. Usciamo infine da’ miti, da’ simboli, dalle astrattezze teologiche e scolastiche,
e siamo in piena luce, nel tempio dell’umana coscienza.
Nessuna cosa oramai si pone di mezzo tra l’uomo e noi.
La sfinge è scoperta: l’uomo è trovato.
Gli è vero che la teoria rimane la stessa. La donna è
«scala al Fattore», l’amore è il «principio delle universe
cose». Ma tutto questo è accessorio, è il convenuto; la
sostanza del libro è la vicenda assidua de’ fenomeni più
delicati del cuore umano. Cresciuto in Avignone fra le
tradizioni provenzali e le corti d’amore, quando Francesco da Barberino avea già pubblicato i Documenti
d’amore e i Reggimenti delle donne, raccolta di tutte le
leggi e costumanze galanti, egli attinge nello stesso arsenale e spaccia la stessa rettorica, allegorie, concetti, sottigliezze, spiritose galanterie. Soprattutto tiene molto a
questo, che tutto il mondo sappia non essere, il suo,
amore sensuale, ma amicizia spirituale, fonte di virtù.
Dante chiama infamia l’accusa di avere espresso il suo
amore troppo sensualmente, e a cessare da sè l’infamia
trasformò Beatrice nella filosofia e scrisse canzoni filosofiche. Ma le continue proteste e dichiarazioni del Petrarca non convincono nessuno; perchè e il corpo di Laura,
non come la bella faccia della sapienza, ma come corpo,
che gli scalda l’immaginazione. Laura è modesta, casta,
gentile, ornata di ogni virtù; ma sono qualità astratte,
non è qui la sua poesia. Ciò che move l’amante e ispira il
poeta, è Laura da’ capei biondi, dal collo di latte, dalle
guance infocate, da’ sereni occhi, dal dolce viso, la quale
egli situa e atteggia in mille maniere e ne cava sempre un
nuovo ritratto, che spicca in mezzo ad un bel paesaggio,
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
il verde del campo, la pioggia de’ fiori, l’acqua che mormora, fatta la natura eco di Laura.
Questo sentimento delle belle forme, della bella donna e della bella natura, puro di ogni turbamento, è la
musa di Petrarca. Diresti Laura un modello, del quale il
pittore sia innamorato, non come uomo, ma come pittore, intento meno a possederlo che a rappresentarlo. E
Laura è poco più che un modello, una bella forma serena, posta lì per essere contemplata e dipinta, creatura
pittorica, non interamente poetica: non è la tale donna
nel tale e tale stato dell’animo, ma è la Donna, non velo
o simbolo di qualcos’altro, ma la donna come bella. Non
ci è ancora l’individuo: ci è il genere. In quella quietudine dell’aspetto, in quella serenità della forma ci è l’ideale
femminile ancora divino, sopra le passioni, fuori degli
avvenimenti, non tocco da miseria terrena, che il poeta
crederebbe profanare calandolo in terra e facendolo
creatura umana. La chiama una dea, ed è una dea; non è
ancor donna. Sta ancora sul piedistallo di statua; non è
scesa in mezzo agli uomini, non si è umanata. Coloro i
quali vogliono leggere nell’anima di questo essere muto
e senza espansione, e cercarvi il suo segreto, fanno il
contrario di quello che volle il poeta, cercano la donna
dov’egli vedeva la dea. Certo a’ nostri occhi Laura dee
parere una forma monotona, e anche talora insipida; ma
chi si mette in quei tempi mitici e allegorici, troverà in
Laura la creatura più reale che il medio evo poteva produrre.
La vita di Laura diviene umana appunto allora che è
morta ed è fatta creatura celeste. Qui l’amore non può
aver niente più di sensuale: è l’amore di una morta, viva
in cielo, e può liberamente spandersi. Non vedi più i
«capei d’oro» e le «rosee dita» e il «bel piede», dal quale l’«erbetta verde» e i «fiori di color mille» desiderano
d’esser tocchi. Pure questa Laura non dipinta e più bella, e soprattutto più viva, perchè «meno altera», meno
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
dea e più donna, quando apparisce all’amante, e siede
sulla sponda del suo letto, e gli asciuga gli occhi con
quella mano tanto desiata; e salendo al cielo fra gli angioli si volge indietro, come aspetti qualcuno; e nella suprema beatitudine desidera il bel corpo e l’amante ed
entra con lui in dolci colloqui. Così il mistero di Laura si
scioglie nell’altro mondo, com’è nella Commedia: tutte
le contraddizioni finiscono. Sciolta dalle condizioni del
reale, tolta di mezzo la carne, divenuta creatura libera
dell’immaginazione, Laura par fuori con chiarezza, acquista un carattere, dove ci è la santa, e ci è soprattutto
la donna. Esseri taciturni e indefiniti, mentre vivono,
Beatrice e Laura cominciano a vivere, appunto quando
muoiono.
E il mistero si scioglie anche nel Petrarca. In vita di
Laura, sorge l’opposizione tra il senso e la ragione, tra la
carne e lo spirito. Questo concetto fondamentale del
medio evo, se nel Petrarca è purificato della sua forma
simbolica e scolastica, rimane pur sempre il suo «credo»
cristiano e filosofico. L’opposizione era sciolta teoricamente con l’amicizia platonica o spirituale, legame
d’anime, puro di ogni concupiscenza; dalla quale astrazione non potea uscire che una lirica dottrinale e sbiadita, senza sangue, dove non trovi nè l’amante, nè l’amata,
nè l’amore. Vi sono momenti nella vita del Petrarca abbastanza tranquilli e prosaici, perchè egli si possa dare a
questo spasso. Allora riproduce la scuola de’ trovatori
con tutt’i suoi difetti, in una forma eletta e vezzosa, che
li pallia. E vi trovi il convenzionale, il manierato, le regole e le sottigliezze del codice d’amore, soprattutto il concettoso, dotato com’era di uno spirito acuto. Non coglie
se stesso nel momento dell’impressione; l’impressione è
passata, e se la mette dinanzi e la spiega, come critico o
filosofo: hai un di là dell’impressione, l’impressione generalizzata e spiegata, come è nella più parte de’ suoi sonetti in vita di Laura; antitesi, freddure, sottigliezze, ra-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
gionamenti in forma pretensiosa e civettuola. Allora tutto è chiaro; tutto e spiegato con Platone e col codice
d’amore; hai il solito contenuto lirico allora in voga sulla
donna, sull’amore, pomposamente abbigliato. Trovi un
maraviglioso artefice di verso, un ingegno colto, ornato,
acuto, elegante: non trovi ancora il poeta e non l’artista.
Ma nel momento delle impressioni, tra le sue irrequietezze e agitazioni, circuito di fantasmi, par fuori la sua
personalità: trovi il poeta e l’artista. Quello che sente è
in opposizione con quello che crede. Crede che la carne
è peccato; che il suo amore è spirituale; che Laura gli
mostra la via «che al ciel conduce»; che il corpo è un velo dello spirito. E se in questo «credo» trovasse ogni suo
appagamento, avremmo Dante e Beatrice. Ma non vi si
appaga: l’educazione classica e l’istinto dell’artista si ribella contro queste astrazioni di uno spiritualismo esagerato; si rivela in lui uno spirito nuovo, il senso del reale e del concreto, così sviluppato ne’ pagani. Non vi si
appaga l’artista, e non vi si appaga l’uomo; perchè si
sente inquieto, non ben sicuro di quello che crede e vuol
far credere, e sente il morso del senso e tutte le ansietà
di un amore di donna. Scoppia fuori la contraddizione,
o il mistero. Il suo amore non e così possente che lo metta in istato di ribellione verso le sue credenze, nè la sua
fede è così possente che uccida la sensualità del suo
amore. Nasce un fluttuar continuo di riflessioni contraddittorie, un sì ed un no, un voglio e non voglio:
Io medesmo non so quel che mi voglio.
Nasce il mistero dell’amore, che ti offre le più diverse
apparenze, senza che il poeta giunga ad averne chiara
coscienza:
Se amor non è, che dunque è quel che i’ sento?
a s’egli è amor, per Dio che cosa e quale?
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Manca al Petrarca la forza di sciogliersi da questa contraddizione, e più vi si dimena, più vi s’impiglia. Il canzoniere in vita di Laura è la storia delle sue contraddizioni. Ora gli pare che contraddizione non ci sia, e
unisce in pace provvisoria cielo e terra, ragione e senso,
gli occhi che mostrano la via del cielo e gli occhi alfin
dolci tremanti,
ultima speme de’ cortesi amanti.
Sono i suoi momenti di sanità e di forza, di entusiasmo
più artistico che amoroso, dal quale escono le vivaci descrizioni del bel corpo e le tre «canzoni sorelle». Ora si
sente inquieto, e si lascia ir dietro alla corrente delle impressioni e delle immagini, e vede il meglio e al peggior
s’appiglia, come conchiude nella canzone
I’ vo pensando e nel pensier m’assale,
dove è rappresentata la lotta interna tra la ragione e il
senso, la ragione che parla e il senso che morde. E ci sono pure momenti che la ragione piglia il di sopra, e si
volge a Dio, e si confessa, e fa proposito di svellere dal
suo cuore il «falso dolce fuggitivo»,
che il mondo traditor può dare altrui.
Non c’è dunque nel Canzoniere una storia, un andar
graduato da un punto all’altro; ma è un vagar continuo
tra le più contrarie impressioni, secondo le occasioni e
lo stato dell’animo in questo o quel momento della vita.
Non ci è storia, perchè nell’anima non ci è una forte volontà, ne uno scopo ben chiaro; perciò è tutta in balìa
d’impressioni momentanee, tirata in opposte direzioni.
Di che nasce un difetto d’equilibrio, la discordia o la
scissura interiore. Il reale comparisce la prima volta
nell’arte, condannato, maledetto, chiamato il «falso dol-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ce fuggitivo»: pur desiderato, di un desiderio vago che si
appaga solo in immaginazione, debolmente contraddetto e debolmente secondato. Minore è la speranza, più
vivo è il desiderio, il quale, mancatagli la realtà, si appaga in immaginazione. Nasce una vita di sogni, di estasi,
di fantasie, di quello che l’animo desidera, non con la
speranza di conseguirlo, anzi con la coscienza di non
conseguirlo mai. Il poeta sogna, e sa che sogna, e gli piace sognare,
e più certezza averne fora il peggio.
Perchè se per averne più certezza, rompe il corso
dell’immaginazione, sopraggiunge il disinganno. Così
vive in fantasia, fabbricandosi godimenti interrotti spesso dalla riflessione con un «ahi lasso!», in un flutto perenne d’illusioni e disillusioni. Il disaccordo interno è
appunto in questo, nella immaginazione che costruisce e
nella riflessione che distrugge: malattia dello spirito, nata appunto dall’esagerazione dello spiritualismo. Lo spirito non è sano, perchè a forza di segregarsi dalla natura
e dal senso si trova al fine di rincontro e ribelle l’immaginazione, e l’immaginazione non è sana, perchè ha di
rincontro a sè e ribelle la riflessione, che in un attimo le
dissipa i suoi castelli incantati. Lo spirito rimane pura riflessione o ragione astratta, e non ha forza di sottoporsi
la volontà, per il contrasto che trova nell’immaginazione. L’immaginazione rimane pura immaginazione, e non
ha forza sulla volontà, non lavora a realizzare i suoi dolci
fantasmi per il contrasto che trova nella riflessione. Se
una delle due forze potesse soggiogar l’altra, nascerebbe
l’equilibrio e la salute; ma le due forze lottano senza alcun risultato, non si giunge mai a un virile «io voglio», ci
è al di dentro il sì e il no in eterna tenzone: perciò la vita
non esce mai al di fuori in un risultato, in un’azione, ri-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
mane pregna di pensieri e immaginazioni tutta al di dentro:
... ... In questi pensier,
lasso, tienmi dì e notte il signor nostro, Amore.
Lo spirito consuma se stesso in un fantasticare inutile e
in una inutile riflessione. È punito là dove ha peccato.
Ha voluto assorbir tutto in sé; e ora si trova solo, e si ciba di se stesso ed è egli medesimo il suo avoltoio. Stanco, svogliato, disgustato di una realtà a cui si sente estraneo, il poeta, come un romito, volge le spalle al mondo e
si riduce nella solitudine di Valchiusa, e ne fa il suo eremo, e rimane solo con se stesso a fantasticare, «solo e
pensoso», incalzato dal suo interno avoltoio:
Solo e pensoso i più deserti campi
vo misurando a passi tardi e lenti.
Da questa situazione sono uscite le due più profonde
canzoni del medio evo, l’una poco nota, l’altra assai popolare, amendue poco studiate, l’una che incomincia:
Di pensiero in pensier, di monte in monte;
l’altra che incomincia:
Chiare, fresche e dolci acque.
Se il Petrarca avesse avuto piena e chiara coscienza della
sua malattia, di questa attività interna inutile e oziosa,
una specie di lenta consunzione dello spirito, impotente
ad uscir da sè e attingere il reale, avremmo la tragedia
dell’anima, come Dante ne concepì la commedia (una
tragedia, nella quale il medio evo avrebbe riconosciuto
la sua impotenza e la sua condanna) tra’ dolori della
contraddizione vedremmo il misticismo morire, spunta-
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re l’alba della realtà, il senso o il corpo, proscritto e dichiarato il peccato, ripigliare la parte che gli tocca nella
vita. Ma nel Petrarca la lotta è senza virilità. Gli manca
la forza che abbondò a Dante d’idealizzarsi nell’universo; e rimanendo chiuso nella sua individualità, gli manca
pure ogni forza di resistenza: sì che la tragedia si risolve
in una flebile elegia. Il poeta si abbandona facilmente, e
prorompe in lacrime e in lamenti. Acuto più che profondo, non guarda negli abissi del suo male e si contenta
descriverne i fenomeni condensati in immagini e in sentenze rimaste proverbiali. Tenero e impressionabile, capace più di emozioni che di passioni, non dimora lungamente nel suo dolore, che vien presto l’alleviamento, lo
scoppio delle lagrime e de’ lamenti. Artista più che poeta, e disposto a consolarsi facilmente, quando l’immaginazione abbia virtù di offrirgli un simulacro di quella
realtà di cui sente la privazione:
in tante parti e sì bella la veggio,
che se l’error durasse, altro non chieggio.
La famiglia, la patria, la natura, l’amore sono per il
poeta, com’era Dante, cose reali, che riempiono la vita e
le danno uno scopo. Per il Petrarca sono principalmente
materia di rappresentazione: l’immagine per lui vale la
cosa. Ma come ci è insieme in lui la coscienza che è l’immagine e non la cosa, la sua soddisfazione non è intera,
ci è in fondo un sentimento della propria impotenza, ci
e questo: – Non potendo avere la realtà, mi appago del
suo simulacro. – Onde nasce un sentimento elegiaco
«dolce-amaro», la malinconia, sentimento di tutte le anime tenere, che non reggono lungamente allo strazio e
non osano guardare in viso il loro male, e si creano amabili fantasmi e dolci illusioni. Manca al suo strazio l’elevata coscienza della sua natura e la profondità del sentimento. Ci è anzi in lui la tendenza a dissimularselo,
cercando scampo nella benefica immaginazione. La fiso-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
nomia di questo stato del suo spirito è scolpita nella canzone:
Chiare, fresche e dolci acque,
cielo fosco e funebre che a poco a poco si rasserena ne’
più cari diletti dell’immaginazione, insino a che da ultimo divien luce di paradiso:
Costei per fermo nacque in paradiso.
Il poeta è così attirato in questo mondo fabbricatogli
dall’immaginazione, che quando si riscuote, domanda:
Qui come venn’io, o quando?
Il suo obblio, il suo sogno era stato così tenace, così simile alla realtà, che gli parea essere in cielo, non là
dov’era. Questa dolce malinconia è la verità della sua
ispirazione, è il suo genio. Quando si sforza di uscirne,
spunta spesso il retore: le sue collere, le sue ammirazioni
non sono senza una esagerazione e ricercatezza, che rivelano lo sforzo. Ma quando vi s’immerge e vi si annega,
la sua forma acquista il carattere della verità congiunta
con la grandezza, è un modello di semplicità e naturalezza.
Gli è che natura, negandogli le grandi convinzioni e le
grandi passioni e lo sguardo profondo di Dante, ne aveva fatto un artista finito. L’immagine appaga in lui non
solo l’artista, ma tutto l’uomo. Senza patria, senza famiglia, senza un centro sociale in mezzo a cui viva altro che
letterario, ritirato nella solitudine dello studio e nell’intimo commercio degli antichi, la verità e la serietà della
sua vita e tutta in queste espansioni estetiche, come la vita del santo e nelle sue estasi e contemplazioni. Dante è
sbandito da Firenze, ma la sua anima è sempre colà. Il
Petrarca è costretto a dimostrare la sua italianità:
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Non è questo ’l terren ch’io toccai pria?
A Dante non fa bisogno di rettorica. Si sente italiano e
ne ha tutte le passioni, e ne senti il fremito e il tumulto
nella sua poesia. Ciò che al contrario ti colpisce nel
mondo personale e solitario del Petrarca è la privazione
della realtà, e un desiderio di essa scemo di forza, che si
appaga ne’ docili sogni dell’immaginazione. Tutto converge nell’immaginazione; tutto gli si offre come un sensibile: il pensiero e il sentimento sono in lui contemplazione estetica, bella forma. Ciò che l’interessa non è
entusiasmo intellettuale, nè sentimento morale o patriottico, ma la contemplazione per se stessa, in quanto è
bella, un sentimento puramente estetico. Laura piange;
egli dice: – Quanto son belle quelle lacrime! – Laura
muore; egli dice:
Morte bella parrea nel suo bel viso.
Fantastica sulla sua morte. Ed ecco Laura che prega sulla sua fossa,
asciugandosi gli occhi col bel velo.
La bellezza per Dante è apparenza simbolica, la bella
faccia della sapienza: dietro a quella ci sta la vita nella
sua serietà, vita intellettuale e morale. Qui la bellezza,
emancipata dal simbolo si pone per se stessa, sostanziale, libera, indipendente, quale si sia il suo contenuto, sia
pure indifferente, o frivolo o repugnante. Il contenuto,
già così astratto e scientifico, anzi scolastico, qui pare
per la prima volta essenzialmente come bellezza schietta, realtà artistica. Al Petrarca non basta che l’immagine
sia viva, come bastava a Dante; vuole che sia bella. Ciò
che move il suo cervello a sviluppare e formare l’immagine, non è l’idea, come storia o filosofia o etica, ma è il
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piacere estetico, che in lui s’ingenera della sua contemplazione.
Questo sentimento della bella forma è così in lui connaturato, che penetra ne’ minimi particolari dell’elocuzione, della lingua e del verso. Dante anche nei più minuti particolari di esecuzione guarda il di dentro, e non
lo perde mai di vista, perchè è il di dentro che l’appassiona; il Petrarca rimane volentieri al di fuori, e non resta che non l’abbia condotto all’ultima perfezion tecnica. Nelle immagini, ne’ paragoni, nelle idee non cerca
novità e originalità, anzi attinge volentieri ne’ classici e
ne’ trovatori, intento non a cercare o trovare, ma a dir
meglio ciò che è stato detto da altri. L’obbiettivo della
sua poesia non è la cosa, ma l’immagine, il modo di rappresentarla. E reca a tanta finezza l’espressione che la
lingua, l’elocuzione, il verso finora in uno stato di continua e progressiva formazione, acquistano una forma fissa e definitiva, divenuta il modello de’ secoli posteriori.
La lingua poetica è anche oggi quale il Petrarca ce la lasciò, nè alcuno gli è entrato innanzi negli artifici del verso e dell’elocuzione. Quel tipo di una lingua illustre che
Dante vagheggiava nella prosa, il Petrarca lo ha realizzato nella poesia, dalla quale è sbandito il rozzo, il disarmonico, il volgare, il grottesco e il gotico, elementi che
pur compariscono nella Commedia. È una forma bella
non solo per rispetto all’idea, ma per se stessa, aulica,
aristocratica, elegante, melodiosa. La parola vale non solo come segno, ma come parola. Il verso non è solo armonia, o rispondenza con quel di dentro, ma melodia,
elemento musicale in se stesso.
Ma questa bella forma non è un puro artificio tecnico
o meccanico, una vuota sonorità, anzi vien fuori da una
immaginazione appassionata e innamorata, che ha il suo
riposo, il suo ultimo fine in se stessa. È una immaginazione chiusa in sè, non trascendente, che di rado si alza a
fantasia o a sentimento, anzi rifugge dal fantasma, e ten-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
de spesso a produrre immagini finite, ben contornate,
chiare e fisse. E se vi si appagasse, sarebbe poesia assolutamente pagana e plastica. Ma il grande artista ne’ momenti anche più geniali della produzione sente come un
vuoto, qualche cosa che gli manchi, e non è soddisfatto,
ed è malinconico. Che gli manca?
Gli manca, com’è detto, il possesso e il godimento e
la serietà e la forza della vita reale. Come artista si sente
incompiuto; come immaginazione si sente isolato: vivere
in immaginazione gli piace; pur sente che là non è la vita, e vi trova sollievo, non appagamento. Questo sentimento del vuoto che penetra ne’ più cari diletti dell’immaginazione, e li tronca bruscamente, questa
immaginazione che, appunto perchè si sente immaginazione e non realtà, produce le sue creature con la lacrima del desiderio negli occhi, questo desiderio inestinguibile che pullula dal seno stesso dell’arte e la chiarisce
ombra e simulacro, e non cosa viva, sono il fondo originale e moderno della poesia petrarchesca. L’immagine
nasce trista, perchè nasce con la coscienza di essere immagine e non cosa, e lo strazio di questa coscienza è raddolcito, perchè, non ci essendo la cosa, ci è l’immagine,
e così bella, così attraente. Situazione piena di misteri, di
contraddizioni e di chiaroscuri, che genera quel non so
che «dolce amaro», detto malinconia, un sentirsi consumare e struggere dolcemente:
che dolcemente mi consuma e strugge.
La malinconia è la musa cristiana, e il male di Dante e
de’ più eletti spiriti di quel tempo. Ma la malinconia del
Petrarca e della nuova generazione che gli stava attorno
e già di un’altra natura e accenna a tempi nuovi.
La malinconia di Dante ha radice nello spirito stesso
del medio evo, che poneva il fine della vita in un di là
della vita, nella congiunzione dell’umano e del divino,
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che è la base della Divina Commedia. Le anime del purgatorio sono malinconiche, perchè sospirano appresso
ad un bene, di cui hanno innanzi la sola immagine nelle
pitture, ne’ simboli, nelle visioni estatiche. Quei godimenti dell’immaginativa aguzzano più il desiderio. Non
basta loro l’immagine: vogliono la realtà; e questo volere, raddolcito alla presenza del simulacro, genera la loro
malinconia. Sono prive del paradiso, ma lo veggono in
immaginazione, e sperano di salirvi quando che sia: perciò sono contente nel fuoco. La condizione delle anime
purganti è molto simile a quella degli uomini nella vita
terrena: è lo stesso tarlo che li rode. La vita corporale è
un velo, un simulacro di quel di là che la fede e la scienza offriva chiarissimo all’intelletto e all’immaginazione;
perciò la vita corporale era in se stessa il peccato o la
carne, l’inferno, il vasello o la prigione, dove l’anima vive malinconica: il giorno della morte è per l’anima il
giorno della vita e della libertà. Non che profondarsi nel
reale, e cercare di assimilarselo, l’anima tende a separarsene, e vivere in ispirito o in immaginazione, fabbricandosi un simulacro di quel di là a cui spera di giungere:
indi la tendenza all’ascetismo, alla solitudine, all’estasi e
al misticismo. Questa era la malinconia di Caterina,
quando dicea: «Muoio e non posso morire».
La stessa tendenza e la stessa malinconia è nel Petrarca. Anch’egli cerca fabbricarsi ombre e simulacri di
Laura, anch’egli cerca l’obblio e il riposo ne’ sogni
dell’immaginazione. Quando la santa e il poeta s’incontrarono in Avignone, dovettero sentirsi sotto un aspetto
parenti di spirito. Il poeta aveva la stessa inclinazione alla solitudine, alla contemplazione, al raccoglimento,
all’estasi, alla malinconia. E se guardiamo all’apparenza,
c’era in tutti e due le stesse credenze e le stesse aspirazioni. Quel «muoio e non posso morire» corrisponde
bene a questo grido del poeta:
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aprasi la prigione ov’io son chiuso,
e che ’l cammino a tal vista mi serra.
Ma qui fiutate la rettorica, e là avete l’espressione nuda
ed energica di un sentimento che investe tutta l’anima e
consuma la santa a trentatrè anni. Questa concentrazione ed unità delle forze intorno ad un punto solo, in che
è la serietà della vita, mancò al Petrarca. Il suo mondo è
pur quello di Caterina e di Dante, mondato della sua
scorza scolastica e simbolica, ridotto in forma più chiara
e artistica, ma pur quello. Se non che questo mondo mistico non lo possiede tutto e, sovrano e indiscusso nella
mente non tira a sè tutte le forze della vita. È in lui visibile una dispersione e distrazione di forze, come di uomo tirato in qua e in là da contrarie correnti, che vorrebbe pigliar la sua via e non se ne sente la forza, e vaga in
balìa dei flutti scontento e riluttante. La bella unità di
Dante, che vedeva la vita nell’armonia dell’intelletto e
dell’atto mediante l’amore, è rotta. Qui ci è scompiglio
interiore ribellione, contraddizione:
e veggio il meglio ed al peggior m’appiglio.
La malinconia di Caterina è l’impazienza del morire, di
unirsi con Cristo; la malinconia di Dante è la dissonanza
fra il mondo divino e la selva oscura, la vita terrena, malinconia piena di forza e di speranza, che si scioglie
nell’azione. La malinconia del Petrarca è la coscienza
della sua interna dissonanza e della sua impotenza a
conciliarla, malinconia insanabile, perchè il male non è
nell’intelletto, è nella volontà non certo ribelle, ma debole e contraddittoria. Per palliare la dissonanza, esce in
mezzo la sofistica e la rettorica, con le più smaglianti frasi, con le più sottili distinzioni: intervalli di tregua, che
fanno risorgere più acuta la coscienza del male. Gli è
che il medio evo è già nel suo petto in fermentazione,
penetrato di altri elementi, senza che egli abbia una di-
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stinta coscienza di questo nuovo stato: accanto al cristiano ascetico ci è l’erudito, il letterato, l’artista, il pagano,
l’uomo di mondo con tutti gl’istinti e le tendenze naturali, che vogliono farsi valere. Si forma in lui un essere
contraddittorio, come ne’ tempi di transizione, che non
è ancora l’uomo nuovo, e non è più l’uomo antico.
La malinconia del Petrarca non è dunque più la malinconia del medio evo, di un mondo formato e trascendente, che rende quaggiù malinconico lo spirito per il
suo legame a quel corpo, ma è la malinconia di un mondo nuovo che, oscuro ancora alla coscienza, si sviluppa
in seno al medio evo e ci sta a disagio, e tende a sprigionarsene, e non ne ha la forza per la resistenza che trova
nell’intelletto. L’intelletto appartiene al medio evo, alle
cui dottrine ha tolta la ruvida scorza, non la sostanza.
Quel mondo nuovo, plastico, pagano, reazione della natura contro il misticismo, è ancora così debole, così poco lineato, che l’intelletto può condannarlo e maledirlo,
o assimilarselo con una sofistica apparenza di conciliazione, e se cacciato dalla vita reale riapparisce nell’immaginazione, può penetrare anche colà e dirgli: – Tu
non sei che un fantasma.
Se in vita di Laura questo sentimento nuovo che sorge, più vicino all’uomo e alla natura, e dissimulato co’
più ingegnosi sofismi, quasi peccato che si cerchi di palliare, dopo la morte di Laura purificato e trasformato si
manifesta con più energia. Beatrice morta diviene per
Dante la scienza, la voce di quel mondo di là, ov’era lo
scopo della vita. La storia di Beatrice è sviluppo di idee
e di dottrine nella lirica e nella Commedia. Il suo riso è
luce intellettuale, raggio dell’intelletto. La storia di Laura è profondamente umana e reale, eco de’ più delicati
sentimenti, delle più tenere emozioni, delle più vivaci
impressioni che colpiscono l’uomo in terra.
La poesia in vita di Laura è dominata dall’intelletto,
da una riflessione sofistica e rettorica, che altera la pu-
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rità de’ sentimenti, e sottilizza le immagini, e raffredda
le impressioni, e con vani sforzi di conciliazione mette
più in vista quel sì e quel no che battagliavano nella debole volontà del poeta. In morte di Laura ogni battaglia
cessa, e non ci è più vestigio di sofismi e di rettorica,
perchè la conciliazione cercata finora così ingegnosamente e non conseguita e già avvenuta per la natura delle cose. Laura morta diviene libera creatura dell’immaginazione, non più persona autonoma e resistente, ma
docile fantasma. Il poeta ne fa la sua creatura, può darle
affetti e pensieri, quali gli piaccia: può piangerla, vederla, parLare seco, vivere seco in ispirito. La situazione è
semplice e umana. È la donna amata, sparita dalla terra,
che ti apparisce in sogno e ti asciuga gli occhi e ti prende
per mano e ti parla: consolazioni malinconiche, interrotte da una lacrima, quando ti svegli. Dante si asciuga presto la lacrima, e si gitta fra le onde agitate dell’esistenza,
e si rifà un ideale e lo chiama Beatrice. A lui manca il
tempo di piangere, perchè tiene nel suo petto due secoli,
ed ha la forza di comprenderli e realizzarli. Il Petrarca
giunge qui, che è già stanco e disgustato dell’esistenza,
vi giunge con l’anima di solitario e di romito, e non ha
altra forza che di piangere:
Ed io son un di quei che il pianger giova.
Piange la fine delle illusioni, il vacuo dell’esistenza, il perire di tutte le cose:
Veramente siam noi polvere ed ombra.
Così, dopo vane speranze e vani timori, quest’anima tenera e impressionabile rinunzia alla lotta, e si abbandona, e si separa da un mondo, dove invano erasi sforzata
di penetrare, e si ritira nella solitudine della sua immaginazione con Laura, chiamando partecipi de’ suoi lamenti l’usignolo, e il vago augelletto, e la valle e il bosco e
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
l’aura e l’onda. La scissura interna dà luogo ad una calma elegiaca; il cuore stanco si riconcilia con l’intelletto.
Il passato, cagione di gioie e di affanni, gli pare un sogno; la vita gli pare insipida; vivere è un breve sonno;
morire è svegliarsi tra gli spiriti eletti; quando gli occhi si
chiudono, allora si aprono nell’eterno lume; il mondo
cristiano, non contraddetto mai dal suo intelletto, ora
penetra nel suo cuore, gli appare come un mondo nuovo, che dipinge con accenti di maraviglia:
Come va il mondo! Or mi diletta e piace
quel che più mi dispiacque; or veggio e sento
che per aver salute ebbi tormento
e breve guerra per eterna pace.
Ecco in che modo rappresenta questo nuovo stato nel
suo inno alla Vergine:
Da poi ch’i’ nacqui in su la riva d’Arno,
cercando or questa, ora quell’altra parte,
non è stata mia vita altro che affanno.
Mortal bellezza, atti e parole m’hanno
tutta ingombrata l’alma.
Vergine sacra ed alma,
non tardar: ch’i’ son forse all’ultim’anno.
I dì miei più correnti che saetta
fra miserie e peccati
sonsen andati; e sol Morte ne aspetta.
Quest’uomo, che gitta sul passato lo sguardo del disinganno, che chiama la sua vita miseria e peccato, che vede gli anni fuggiti con tanta rapidità senza alcun frutto,
ben si promette di fare un altro canzoniere alla Vergine,
ma e troppo tardi. – Omai son stanco! – Grida. E se ne’
Trionfi cerca ingrandire il suo orizzonte e uscire da sè e
contemplare l’umanità, ciò che ne’ suoi versi ha ancora
qualche interesse è il suo passato, che i vecchi hanno il
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
privilegio di evocare, rifarne qualche frammento; e soprattutto il sogno di Laura, tanto imitato da poi.
Chi legge il Canzoniere, non può non ricevere questa
impressione, di un mondo astratto, rettorico, sofistico,
quale fu foggiato da’ trovatori, dove appariscono sentimenti più umani e reali e forme più chiare e rilevate, o se
vogliamo guardare più alto, di un mondo mistico-scolastico, oltreumano, ammesso ancora dall’intelletto, ma
repulso dal cuore e condannato dall’immaginazione. Se
guardiamo alla forma, quel mondo ha perduto il suo
aspetto simbolico-dottrinale, che lo teneva al di là della
vita e dell’arte, e si è umanizzato, è divenuto immagine e
sentimento; il tempio gotico si è trasformato in un bel
tempietto greco, nobilmente decorato, elegante, con luce uguale, con perfetta simMetria, ispirato da Venere,
dea della bellezza e della grazia. Il grottesco, il gotico, gli
angoli, le punte, le ombre, l’indefinito, il dissonante, il
prolisso, il superfluo, il volgare, il difforme, tutto è cacciato via da questo tempio dell’armonia, maraviglia d’arte, che chiude un secolo e ne annunzia un altro. L’artista
gode; l’uomo è scontento. Perchè sotto a questa bella
forma così levigata e pulita vive un povero core d’uomo,
nutrito di desidèri e d’immagini, a cui lo tira la natura,
da cui lo allontana la ragione, senza la forza di uscire
dalla contraddizione e senza la ferma volontà di realizzarle. L’uomo è minore dell’artista. L’artista non posa,
che non abbia data l’ultima finitezza al suo idolo; l’uomo non osa di guardarsi, e abbozza i moti del proprio
cuore, e salta nelle più opposte direzioni, quasi tema di
fermarsi troppo, di esser costretto a volere e a risolversi.
Perciò quella bella superficie riman fredda; non ha al di
sotto profondità di esplorazione, o energia di volontà e
di convinzione. La situazione poteva esser tragica, rimane elegiaca; poesia di un’anima debole e tenera, che si
effonde malinconicamente in dolci lamenti, assai contenta, quando possa vivere in immaginazione e fantasti-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
care: l’uomo svanisce nell’artista. Gli è che a quest’uomo mancava quella fede seria e profonda nel proprio
mondo, che fece di Caterina una santa e di Dante un
poeta. Quel mondo giace nel suo cervello già decomposto e in fermentazione, mescolato con altre divinità. Ciò
che di più serio si move nel suo spirito è il sentimento
dell’arte congiunto con l’amore dell’antichità e dell’erudizione. È in abbozzo l’immagine anticipata de’ secoli
seguenti, di cui fu l’idolo. L’arte si afferma come arte e
prende possesso della vita.
Così il medio evo, quando appena cominciava a svilupparsi negli altri popoli, presso di noi per una precoce
cultura si dissolveva prima che avesse potuto esplicarsi
in tutti gli aspetti dell’arte e produrre la forma drammatica. Dante, che dovea essere il principio di tutta una letteratura, ne fu la fine. Quel mondo così perfetto al di
fuori è al di dentro scisso e fiacco: è contemplazione
d’artista, non più fede e sentimento. Questa dissonanza
tra una forma così finita e armonica e un contenuto così
debole e contraddittorio ha la sua espressione ne’ sentimenti che prevalgono a’ tempi di transizione, la malinconia, la tenerezza, la delicatezza, il molle e voluttuoso
fantasticare. E l’illustre malato, abbandonato a’ flutti di
questo doppio mondo, di un mondo che se ne va e di un
mondo che se ne viene, e che con tanta dolcezza e grazia
rappresenta una contraddizione a scioglier la quale gli
manca la coscienza e la forza, è Francesco Petrarca.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
IX
IL DECAMERONE
Se ora apri il Decamerone, letta appena la prima novella,
gli è come un cascar dalle nuvole e un domandarti col
Petrarca: «Qui come venn’io o quando?». Non è una
evoluzione, ma è una catastrofe, o una rivoluzione, che
da un dì all’altro ti presenta il mondo mutato. Qui trovi
il medio evo non solo negato, ma canzonato.
Ser Ciapperello è un Tartufo anticipato di parecchi
secoli, con questa differenza, che il Molière te ne fa venire disgusto e ribrezzo, con l’intenzione di concitare gli
uditori contro la sua ipocrisia, dove il Boccaccio ci si
spassa con l’intenzione meno d’irritarti contro l’ipocrita
che di farti ridere a spese del suo buon confessore e de’
creduli frati e della credula plebe. Perciò l’arma del Molière è l’ironia sarcastica; l’arma del Boccaccio è l’allegra
caricatura. Per giungere a queste forme e a queste intenzioni bisogna andare fino al Voltaire. Giovanni Boccaccio sotto un certo aspetto fu il Voltaire del secolo decimoquarto.
Molti se la pigliano col Boccaccio e dicono ch’egli
guastò e corruppe lo spirito italiano. Egli medesimo in
vecchiezza fu preso dal rimorso e finì chierico, condannando il suo libro. Ma quel libro non era possibile, se
nello spirito italiano non fosse già entrato il guasto, se
«guasto» s’ha a dire. Ove le cose, di cui ride il Boccaccio, fossero state venerabili, poniamo pure ch’egli avesse
potuto riderne, i contemporanei ne avrebbero sentita indignazione. Ma fu il contrario. Il libro parve rispondere
a qualche cosa che volea da lungo tempo uscir fuori dalle anime, parve dire a voce alta ciò che tutti dicevano nel
loro segreto, e fu applauditissimo, con tanto successo
che il buon Passavanti se ne spaventò e vi oppose come
antidoto lo Specchio di penitenza. Il Boccaccio fu dun-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
que la voce letteraria di un mondo, quale era già confusamente avvertito nella coscienza. C’era un segreto: egli
lo indovinò, e tutti batterono le mani. Questo fatto, in
luogo d’essere maledetto, merita di essere studiato.
Il carattere del medio evo è la trascendenza, un dì là oltreumano ed oltrenaturale, fuori della natura e dell’uomo, il genere e la specie fuori dell’individuo, la materia e
la forma fuori della loro unità, l’intelletto fuori dell’anima, la perfezione e la virtù fuori della vita, la legge fuori
della coscienza, lo spirito fuori del corpo, e lo scopo della vita fuori del mondo. La base di questa teologia filosofica è l’esistenza degli universali. Il mondo fu popolato di esseri o intelligenze, sulla cui natura molto si
disputò: sono esse idee divine? Sono generi e specie reali? Sono specie intelligibili? Questo edificio gemeva già
sotto i colpi dei nominalisti, cioè di quelli che negavano
l’esistenza de’ generi e delle specie, e li chiamavano puri
nomi, e dicevano esistere solo il singolo, l’individuo.
Sulla loro bandiera era scritto un motto divenuto così
popolare: «Non bisogna moltiplicare enti senza necessità».
L’ascetismo era il frutto naturale di un mondo teocratico spinto all’esagerazione. La vita quaggiù perdeva la
sua serietà e il suo valore. L’uomo dimorava con lo spirito nell’altra vita. E la cima della perfezione fu posta
nell’estasi, nella preghiera e nella contemplazione.
Così nacque la letteratura teocratica, così nacquero le
leggende, i misteri, le visioni, le allegorie: così nacque la
Commedia, il poema dell’altra vita. Il pensiero non aveva intimità, non calava nell’uomo e nella natura, ma se
ne teneva fuori, tutto intorno alla natura e alle qualità
degli enti, che erano le stesse forze umane e naturali
sciolte dall’individuo ed esistenti per sè stesse. Le astrazioni dello spirito divennero esseri viventi. E perchè le
astrazioni, frutto dell’intelletto inesauribile nelle sue distinzioni e suddistinzioni, sono infinite, questi esseri
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
moltiplicarono nell’acuto intelletto degli scolastici. Come il mondo scolastico fu popolato di esseri astratti, così il mondo poetico fu popolato di esseri allegorici, l’uomo, l’anima, la donna, l’amore, le virtù, i vizi. Non erano
persone, come le pagane divinità: erano semplici personificazioni.
Il sentimento, come frutto di inclinazioni umane e naturali, era peccato. Le passioni erano scomunicate. La
poesia era madre di menzogne. Il teatro cibo del diavolo. La novella e il romanzo generi di letteratura profani.
Tutto questo si chiamava il senso, e il luogo comune di
questo mondo ascetico era la lotta del senso con la ragione, da fra Guittone a Francesco Petrarca. Il sentimento, reietto come senso e costretto ad esser ragione,
strappato dal cuore umano, divenne anch’esso un universale, un fatto esteriore, ora simbolico, ora scolastico,
o, come si diceva, «platonico». Il padre de’ sentimenti,
l’amore, divenne un fatto filosofico, forza unitiva, unità
dell’intelletto e dell’atto. Così nacque la lirica platonica,
dal Guinicelli al Petrarca. Il senso e l’immaginazione si
ribellavano contro questo platonismo. Ed è in questa ribellione, ancorachè poco scrutata e poco accentuata,
che è la grandezza della lirica petrarchesca. Rappresentare i moti del cuore e della immaginazione nella loro
naturalezza e intimità era vietato. E colui che più gustò
di questo frutto proibito, fu il Petrarca.
L’immaginazione era un istrumento dell’intelletto,
destinata a creare forme e simboli di concetti astratti. Lo
sa il povero Dante. Nessuno ebbe mai l’immaginazione
così torturata. E nacquero forme simboliche e intellettuali, nella cui generalità scomparve l’individuo con la
sua personalità. Erano forme tipiche, generi e specie,
anzichè l’individuo. La regina delle forme, la donna,
non potè sottrarsi a questa invasione degli universali, e
rimase un ideale più divino che umano, bella faccia, ma
faccia della sapienza, più amata che amante, e amata me-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
no come donna che come scala alle cose celesti. Così
nacquero Beatrice e Laura.
Certo, a nessuno è lecito parlare con poca riverenza
di questo mondo dell’autorità che segna un momento
interessantissimo nella storia dello spirito umano, e che
ha pure il suo fondamento nella vita. L’illuminismo o il
misticismo, la visione estatica, è un portato naturale dello spirito nella sua alienazione dal corpo, ciò che dicevasi a «vivere in astrazione»: momento di concitazione e di
entusiasmo, che l’uomo pare più che uomo e sembra in
lui parli un dio o un demonio. Perciò quell’entusiasmo
fu detto «furore divino» o «estro», qualità de’ profeti e
de’ poeti, che sono tutt’uno per Dante. Questa elevazione dell’anima in se stessa, e al di sopra de’ limiti ordinari
della vita reale, è il lato eroico dell’umanità, il privilegio
della giovinezza, la condizione di tutte le società primitive, quando, cessati i bisogni materiali, vi si sveglia lo spirito. Tutto ciò che ci fa disprezzare la vita e le ricchezze
e i piaceri, è degno di stima.
Ma è uno stato di tensione e di disquilibrio che non
può aver durata. L’arte, la coltura, la conoscenza e
l’esperienza della vita lo modificano e lo trasformano.
L’arte, impossessandosi di questo mondo, lo umanizza, lo accosta all’uomo e alla natura, lo mescola di altri
elementi, vi fa penetrare le passioni e i furori del senso.
Non ci hai ancora equilibrio; non ci hai qualche cosa
che sia la vita nella sua intimità, insieme paradiso e inferno; ma già di rincontro al paradiso hai l’inferno, di
rincontro a Beatrice hai Francesca da Rimini, e di rincontro a Dante, simbolo dell’umanità, hai Dante Alighieri, l’individuo in tutta la sua personalità. Nel Canzoniere quel mondo si spoglia pure le sue forme natie,
teologiche, scolastiche, allegoriche, e prende aspetto più
umano e naturale.
E se fosse durato ancora un pezzo nella coscienza,
non è dubbio che l’arte vi si sarebbe compiutamente svi-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
luppata, e come la visione e la leggenda divenne la Commedia, come Selvaggia divenne Beatrice, e Beatrice Laura, dal seno de’ misteri sarebbe uscito il dramma, e molti generi di letteratura ancora iniziali e abbozzati già
nella Commedia sarebbero venuti a maturità, come l’inno e la satira. Ma già quel mondo nel Canzoniere non ha
più il calore dell’entusiasmo e della fede, e in quelle forme così eleganti lascia una parte della sua sostanza. Il
sentimento religioso, morale, politico vive fiaccamente
nella coscienza del poeta; e il posto rimasto vuoto è occupato dall’arte.
Questo infiacchirsi della coscienza, questo culto della
bella forma fra tanta invasione di antichità greco-romana sono i due fatti caratteristici della nuova generazione,
che succede all’età virile e credente e appassionata di
Dante. Quegli uomini non si appassionano più per le
dottrine, e non cercano il vero sotto i «versi strani»; la
«bella veste» li appaga. I loro studi non hanno più a guida l’investigazione della verità, ma l’erudizione: c’è il sapere per il sapere, come l’arte per l’arte. I Fiori, I Giardini, I Conviti, I Tesori, dove la sapienza sacra e profana
era usata a scopo morale, danno luogo a raccolte semplicemente storiche ed erudite. Ci sono ancora gli scolastici, che chiamano il Petrarca un insipiente, ma le loro
querele si sperdono nel plauso universale, che pone il
Petrarca accanto a Virgilio. E codesto Virgilio non è più
il mago, precursore del cristianesimo, e neppure il savio
«che tutto seppe», ma è il dolce ed elegante poeta. Dante s’incorona da sè in paradiso poeta, profeta e apostolo:
i contemporanei incoronano nel Petrarca l’autore
dell’Africa, della nuova Eneide. La coltura e l’arte sono i
nuovi idoli dello spirito italiano.
Ma la coltura e l’arte non è il naturale fiorire di un
mondo interiore, anzi è accompagnata con l’infiacchirsi
della coscienza, e si pone già per se stessa, come un fatto
estrinseco che abbia il suo valore in sè e sia a un tempo
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
mezzo e scopo. È una coltura e un’arte «formale», non
riscaldata abbastanza dal contenuto. Ci è lì dentro lo
stesso mondo di Dante, ma c’è come ragione in lotta col
sentimento e con l’immaginazione; lotta fiacca e inconcludente: scemato è il vigore della fede e della volontà.
Gli è che quel mondo mistico, fuori della natura e
dell’uomo, appunto per la sua esagerazione, non poteva
avere alcun riscontro con la realtà. Ebbe la sua età
dell’oro, evocata da Dante con tanta malinconia; ma a
lungo andare dovea rimanere pura teoria, ammessa per
tradizione e per abitudine e contraddetta nella vita pratica. Più alto era il modello, più visibile era la contraddizione e più scandalosa. Nel secolo di Dante e di Caterina grandi sono i lamenti e le invettive per la corruttela
de’ costumi, specialmente ne’ papi e ne’ chierici, che
con l’esempio contraddicevano alle loro dottrine. Queste invettive divennero il luogo comune della letteratura,
e ne odi l’eco un po’ rettorica ne’ versi eleganti del Petrarca contro l’avara Babilonia. Ma lo spettacolo, divenuto abituale e generale, non moveva più indignazione;
e mentre Caterina ammoniva e il Petrarca satireggiava, il
mondo continuava sua via. Allato al misticismo vedevi il
cinismo. Dirimpetto a Caterina vedevi Giovanna di Napoli.
La corruttela de’ costumi non era negazione ardita
delle dottrine cristiane, anzi tutti si tenevano buoni cristiani, ed erano zelantissimi contro gli eretici, e molti facevano all’ultimo penitenza. Ma era qualche cosa di peggio: era indifferenza, un oscurarsi del senso morale.
Quel mondo viveva ancora nell’intelletto, non creduto e
non combattuto, ozioso, senza alcuna efficacia su’ sentimenti e sulle azioni.
In questa condizione degli spiriti, la coltura dovea
avere un effetto deleterio. La parte leggendaria, fantastica, miracolosa di quel mondo dovea parere a quegl’ingegni così svegliati cosa così poco seria, come le prediche
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de’ frati contraddette dalla vita. Sparisce quel candore
infantile di fede anche nelle cose più assurde, che tanto
ci alletta negli scrittori antecedenti. Le classi colte cominciano a separarsi dalla plebe e a prendersi spasso
della sua credulità. Esser credente era prima un titolo di
gloria de’ più forti ingegni. Essere incredulo diviene ora
indizio di animo colto.
D’altra parte la maggiore coltura, generando un più
vivo sentimento della natura e dell’uomo, dovea affrettare la rovina di un mondo così astratto e così estrinseco
alla vita. Il reale disconosciuto dovea prender la sua rivincita; la natura troppo compressa dovea reagire a sua
volta. Così di rincontro a quello spiritualismo esagerato
sorgeva una reazione inevitabile, il naturalismo e il realismo nella vita pratica.
Indi è che la coltura, in luogo di calare in quel mondo
e modificarlo e trasformarlo e riabilitarlo nella coscienza, come fu più tardi in Germania, si collocò addirittura
fuori di esso, e lasciata la coscienza vuota, impiegò la sua
attività ne’ piaceri dell’erudizione e dell’arte.
Così quel mondo si trovò fuori della coscienza, senza
lotta intellettuale, anzi rimanendo ozioso padrone
dell’intelletto. Ci erano anche allora i liberi pensatori,
soprattutto ne’ conventi, ma erano sforzi isolati, scuciti.
Una lotta più seria era stata iniziata da’ ghibellini; ma la
rotta di Benevento e il trionfo durevole de’ guelfi avea
posto fine alla discussione e all’esame. Gli uomini amavano meglio scoprire e postillare manoscritti, e nelle cose di fede lasciar dire il papa, e vivere a modo loro.
Questo fu il naturale effetto della vittoria guelfa. Finirono le lotte e le discussioni; successe l’indifferenza religiosa e politica, fra tanto fiorire di coltura, di erudizione, di arte, di commerci e d’industrie. Ci erano tutti i
segni di un grande progresso: una più esatta conoscenza
dell’antichità, un gusto più fine e un sentimento artistico
più sviluppato, una disposizione meno alla fede che alla
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
critica e all’investigazione, minor violenza di passioni,
maggiore eleganza di forme: l’idolo di questa società dovea essere il Petrarca, nel quale riconosceva e incoronava se stessa. Ma sotto a quel progresso v’era il germe di
una incurabile decadenza, l’infiacchimento della coscienza.
Il Canzoniere, posto tra quei due mondi, senza esser
nè l’uno, nè l’altro, così elegante al di fuori, così fiacco e
discorde al di dentro, è l’ultima voce letteraria, rettorica
ed elegiaca, di un mondo che si oscurava nella coscienza. I contemporanei applaudivano alla bella forma, e
non cercavano e non si appassionavano pel contenuto,
come avveniva con la Commedia.
Quel mondo, divenuto letterario e artistico, anche un
po’ rettorico e convenzionale, non rispondeva più alle
condizioni reali della vita italiana. Quel misticismo,
quell’estasi dello spirito, che si rivela un’ultima volta
con tanta malinconia e tenerezza nel Petrarca, era in
aperta rottura con le tendenze e le abitudini di una società colta, erudita, artistica, dedita a’ godimenti e alle
cure materiali, ancora nell’intelletto cristiana, non scettica e non materialista ma nella vita già indifferente e incuriosa degli alti problemi dell’umanità. Il linguaggio
era lo stesso, ma dietro alla parola non ci era più la cosa.
Questo era il segreto di tutti, quel qualche cosa non avvertito e non definito, ma che pur si manifestava con
tanta chiarezza nella vita pratica. E colui che dovea svelare il segreto e dargli una voce letteraria, non usciva già
dalle scuole: usciva dal seno stesso di una società che
dovea così bene rappresentare.
Tutti i grandi scrittori erano usciti dall’università di
Bologna, Guinicelli, Cino, Cavalcanti, Dante, Petrarca.
Giovanni Boccaccio, nato il 1313, nove anni dopo il
Petrarca e otto prima della morte di Dante, «non pienamente avendo imparato grammatica», come scrive Filippo Villani, «volendo e costringendolo il padre per cagio-
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ne di guadagno, fu costretto ad attendere all’abbaco, e
per la medesima cagione a peregrinare». Il padre era un
mercante fiorentino, e alla mercatura indirizzò il figlio.
Quando i giovani appena cominciavano i loro studi nella università, il nostro Giovanni faceva, come si direbbe
oggi, il commesso viaggiatore in servigio del padre, e il
suo libro era la pratica e la conoscenza del mondo. Girando di città in città, si mostrava più dedito alle piacevoli letture e a’ passatempi che all’esercizio della mercatura, e più uomo di spirito e d’immaginazione che uomo
d’affari. Era chiamato «il poeta». Venuto in Napoli a
ventitrè anni, menava vita signorile, bazzicava in corte,
usava co’ gentiluomini, spendeva largamente, amoreggiava, scribacchiava, leggicchiava. Dicesi che alla vista
della tomba di Virgilio rimase pensoso e sentì la sua vocazione poetica. Fatto è che il buon padre, visto che non
se ne potea cavare un mercante, pensò farne un giureconsulto, e lo mise a studiare i canoni, con gran rincrescimento del giovane, che chiama sciupato il tempo
messo a fare il mercante e ad imparare i canoni. Finalmente, libero di sè, si gittò agli studi letterari, e come
portava il tempo, si die’ al latino e al greco, e si empì il
capo di mitologia e di storia greca e romana. Ei menava
la vita, mezzo tra gli studi e i piaceri, spesso viaggiando,
non più a mercatare, ma a cercar manoscritti. Narrasi
che al 7 aprile del 1341 siAsi nella chiesa di San Lorenzo
invaghito di Maria, figlia naturale di re Roberto: certo,
nella corte spensierata e licenziosa della regina Giovanna non potè prender lezione di buon costume, nè di
amori platonici. E volse lo studio e l’ingegno a rallegrare
col suo spirito la corte e la sua non ingrata Maria, che
con nome poetico chiamò Fiammetta. Il Petrarca non
era ancora comparso sull’orizzonte: tutto era pieno di
Dante, e tra’ suoi più appassionati era il nostro poeta.
Frutto della sua ammirazione fu la Vita di Dante, uno
de’ suoi lavori giovanili. Ma egli poteva ammirarlo, non
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comprenderlo, perchè lo spirito di Dante non era in lui.
Formatosi fuori della scuola, alieno da ogni seria coltura
scolastica e ascetica, profano anzichè mistico ne’ sentimenti e nella vita, si foggiò un Dante a sua immagine.
Chi vuol conoscere le opinioni e i sentimenti del nostro
giovane, legga quel libro e vi troverà già la stoffa, da cui
uscì il Decamerone. Nessuna originalità e profondità di
pensiero, nessuna sottigliezza di argomentazione; tutto
vi è dimostrato, anche le più comuni verità, ma il fondamento della dimostrazione non è nell’intelletto, è nella
memoria; non hai innanzi un pensatore, nè un disputatore, ma un erudito. Vuol mostrare l’ingratitudine di Firenze verso Dante, ed ecco uscir fuori Solone, «il cui
petto uno umano tempio di divina sapienza fu reputato», e la Siria, la Macedonia, la greca e la romana repubblica, e Atene, e Argo, e Smirne, e Pilos, e Chios, e Colofon, e Mantova, e Sulmona, e Venosa, e Aquino. «Tu
sola, » conchiude il poeta «quasi i Cammilli, i Publicoli,
i Torquati, Fabrizi, Catoni, Fabi, Scipioni ... in te fossero, ... avendoti lasciato il tuo antico cittadino Claudiano
cader dalle mani, non hai avuto del presente poeta cura,
ma l’hai da te scacciato, sbandito e privatolo, se tu avessi potuto, del tuo soprannome». Volendo parlar di Dante, comincia ab ovo, dalla prima fondazione di Firenze.
Spesso lascia lì Dante ed esce in lunghe digressioni, tra
le quali è notabile quella sulla natura della poesia. Secondo lui, il linguaggio poetico fu trovato per porgere
«sacrate lusinghe» alla divinità, con parole lontane «da
ogni altro plebeo e pubblico stile di parlare» e «sotto
legge di certi numeri composte, per li quali alcuna dolcezza si sentisse e cacciassesi il rincrescimento e la noia».
I poeti imitarono «dello Spirito santo le vestigie», perchè come nella divina Scrittura, «la quale teologia appelliamo, quando con figura di alcuna storia, quando col
senso di alcuna visione», si mostra l’«alto mistero della
Incarnazione del Verbo divino, la vita di quello, le cose
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occorse nella sua morte, e la resurrezione vittoriosa ...
così i poeti, ... quando con finzioni di vari iddii, quando
con trasmutazioni di uomini in varie forme, quando con
leggiadre persuasioni ne dimostrano le cagioni delle cose e gli effetti delle virtù e de’ vizi». Poi spiega ciò che lo
Spirito santo volle mostrare nel rogo di Mosè, nella visione di Nabuccodonosor, nelle lamentazioni di Geremia; e ciò che i poeti vollero mostrare in Saturno, Giove,
Giunone, Nettuno e Plutone e nelle trasformazioni di
Ercole in dio e di Licaone in lupo, e nella bellezza degli
Elisi e nell’oscurità di Dite. E ribattendo quelli che chiamano i poeti antichi «uomini insensati», inventori di favole «a niuna verità convenienti», conclude che «la teologia e la poesia quasi una cosa si posson dire», anzi che
la «teologia niun’altra cosa è che una poesia d’Iddio» e
«poetica finzione». L’erudito poeta non si arresta qui, e
ci regala la favola di Dafne, amata da Febo e in lauro
convertita, per darci spiegazione perchè i poeti avevano
la corona d’alloro. Di quello che fu il mondo interiore di
Dante, qui non è alcun vestigio; invece il mondo esterno
vi è sviluppato fino all’aneddoto, fino al pettegolezzo. Ci
si vede uno spirito curioso e profano che cerca il maraviglioso e lo straordinario negli accidenti umani, disposto
a spiegarli con la superficialità di un erudito e di un uomo di mondo, o «del secolo», come si diceva allora.
Spende le ultime pagine ad almanaccare sopra un sogno
attribuito alla madre di Dante e vi fa pompa di tutta la
sua erudizione. Sotto il suo sguardo profano Beatrice
perde tutta la sua idealità, e l’amore di Dante, scacciato
dalle sue regioni ascetiche e platoniche e scolastiche, acquista una tinta romanzesca. Il nostro Giovanni non si
fa capace come Dante a nove anni abbia potuto amare
Beatrice. Il caso gli pare strano, e ne cerca diverse spiegazioni. Forse fu «conformità di complessioni o di costumi»; forse anche «influenza da cielo». Ma queste
spiegazioni non lo appagano, e si ferma in quest’altra,
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che cava dall’esperienza. Dante, secondo lui, vide Beatrice in una festa il primo di maggio, quando la «dolcezza del cielo riveste dei suoi ornamenti la terra, e tutta
per la varietà de’ fiori mescolati tra le verdi fronde la fa
ridente, e per esperienza veggiamo nelle feste, per la
dolcezza de’ suoni, per la generale allegrezza, per la delicatezza de’ cibi e de’ vini, gli animi eziandio degli uomini maturi non che de’ giovanetti ampliarsi e divenire atti
a poter leggermente esser presi da qualunque cosa che
piace».
Dante dunque amò fanciullo per la stessa ragione che
può amare un uomo maturo; i cibi e i vini delicati e l’allegrezza generale, ecco ciò che dispose il suo animo
all’amore. Beatrice era per Dante «angeletta bella e nova», senza contorni e senza determinazioni scesa di cielo
a mostrare le bellezze e le virtù che le piovono dalle stelle. Tutto questo non entra al Boccaccio, il quale vuol
pure spiegarsi come la potè parere un’angioletta, e si
foggia nella profana immaginazione una bella immagine
di fanciulla, e la descrive così:
«Assai leggiadretta secondo la sua fanciullezza, e ne’ suoi atti gentilesca e piacevole molto, con costumi e con parole assai
più gravi e modeste che ’l suo picciolo tempo non richiedeva;
ed oltre a questo, aveva le fattezze del volto dilicate molto e ottimamente disposte, e piene, oltre alla bellezza, di tanta onesta
vaghezza, che quasi un’angioletta era reputata da molti.»
Ecco un’angioletta di carne; eccoci dalle mistiche altezze di Dante caduti in piena fisiologia e notomia. Dante
amò, perchè tra vivande e sollazzi l’animo è disposto ad
amare; e Beatrice parea quasi un’angioletta, perchè era
fatta così e così. Beatrice muore a ventiquattro anni. Il
nostro biografo non se ne maraviglia, perchè «un poco
di soperchio di freddo o di caldo che noi abbiamo, ... ci
conduce» alla morte. I parenti e gli amici per consolare
Dante gli diedero moglie:
Letteratura italiana Einaudi
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
«Oh menti cieche, oh tenebrosi intelletti! », esclama il
nostro scapolo e nemico dell’amore regolato. «Qual medico» egli aggiunge
«s’ingegnerà di cacciare l’acuta febbre col fuoco, o ’l freddo
delle midolla delle ossa col ghiaccio o colla neve? Certo niun
altro se non colui, il quale con nuova moglie crederà le amorose tribolazioni mitigare».
E qui da uomo esperto della materia parla della natura e
de’ fenomeni dell’amore e dell’indole delle donne, e delle noie e degli affanni de’ mariti, e compiange il povero
Dante. Dipinge con tocchi sicuri, e in certi punti è eloquente, perchè qui è in casa sua. Udite questo periodo:
«Possiamo pensare quanti dolori nascondono le camere,
li quali da fuori, da chi non ha occhi la cui perspicacia
trapassa le mura, sono riputati diletti». Ma Dante, secondo ch’egli narra, dimenticò presto moglie e Beatrice,
e si die’ all’amore delle donne: ciò che l’indusse al gran
viaggio nell’altro mondo, ove se ne fece così aspramente
rimproverare da Beatrice. Il quale amore non pare poi
un così gran peccato al nostro scapolo: «Chi sarà tra’
mortali giusto giudice a condannarlo? Non io». Ed ecco
venire innanzi l’erudito, e citare parecchi casi di uomini
illustri vinti dalle donne, Giove, Ercole, Paride, Adamo,
Davide, Salomone, Erode. Ti par di assistere a una parodia. Eppure niente è più serio. Il giovane è pieno di ammirazione verso Dante che chiama un «iddio fra gli uomini», e crede con questa Vita riparare alla ingratitudine
di Firenze e alzargli un monumento.
La Vita di Dante è una rivelazione. Qui dentro si manifesta l’autore in tutta la sua ingenuità e spontaneità: vi
trovi il nuovo uomo che si andava formando in Italia.
Mette in un fascio mondo sacro e profano, Bibbia e mitologia, teologia e poesia: la teologia è una «poesia di
Dio», una «finzione poetica». Questa strana mescolanza
era già comune al secolo; Dante stesso ne dava esempio.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Ma dove Dante tirava il mondo antico nel circolo del
suo universo e lo battezzava, lo spiritualizzava, il Boccaccio sbattezza tutto l’universo e lo materializza. In teoria ammette la religione, e parla con riverenza della teologia, che ci fa conoscere «la divina essenza e le altre
separate intelligenze». Ma in pratica questo mondo dello spirito rimane perfettamente estraneo alla sua intelligenza e al suo cuore. Misticismo, platonicismo, scolasticismo, tutto il mondo dantesco, non ha alcun senso per
lui. Non solo questo mondo gli rimane estraneo come
coltura, ma ancora più come sentimento. E gli manca
non solo il sentimento religioso, ma fino quella certa elevatezza morale che talora ne fa le veci. Spento è in lui il
cristiano, e anche il cittadino. Non gli è mai venuto in
mente che servire la patria e dare a lei l’ingegno e le sostanze e la vita è un dovere così stretto, come è il provvedere al proprio sostentamento. Dietro al cittadino comincia a comparire il buon borghese, che ama la sua
patria, ma a patto non gli dia molto fastidio, e lo lasci attendere alla sua industria, e non lo tiri per forza di casa o
di bottega. De’ guelfi e ghibellini è perduta la memoria,
tanto che il Boccaccio crede doverne spiegare il significato. E non si persuade come Dante siesi potuto mescolare nelle pubbliche faccende, e ne reca la cagione alla
sua vanità, ed ha quasi l’aria di dirgli: – Ben ti sta. – Non
voglio dire con questo che il Boccaccio fosse uomo dispregiatore della religione o della virtù o della patria.
Sciolto era di costumi, pure tutti i doveri comuni della
vita li adempiva con la stessa puntualità e diligenza degli
altri, e molte legazioni gli furono commesse da’ suoi
concittadini. Ma l’età eroica era passata; la nuova generazione non comprendeva più le lotte e le passioni de’
padri; il carattere era caduto in quella mezzanità che
non è ancora volgarità, e non è più grandezza; della religione, della libertà, dell’uomo antico c’erano ancora le
forme, ma lo spirito era ito. Di vita pubblica qualche ap-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
parenza era ancora in Toscana, sede della coltura; nelle
altre parti era vita di corte. L’erudizione, l’arte, gli affari,
i piaceri costituivano il fondo di questa nuova società
borghese e mezzana, della quale ritratto era il Boccaccio, gioviale, cortigiano, erudito, artista. Se la malinconia dell’estatico Petrarca ti presentava un simulacro
dell’uomo antico, la spensierata giovialità del Boccaccio
è l’ingresso nel mondo, a voce alta e beffarda, della materia o della carne, la maledetta, il peccato; è il primo riso di una società più colta e più intelligente, disposta a
burlarsi dell’antica; è la natura e l’uomo, che, pure ammettendo l’esistenza di separate intelligenze, non ne tien
conto, e fa di sè il suo mezzo e il suo scopo.
Questo tempo fu detto di transizione. Vivevano insieme nel seno degli uomini due mondi, il passato nelle sue
forme se non nel suo spirito, ed un mondo nuovo che si
affermava come reazione a quello, fondato sulla realtà
presa in se stessa e vuota di elementi ideali. Erano in
presenza il misticismo, con le sue forme ricordevoli del
mondo soprannaturale, e il puro naturalismo. Ma il misticismo, indebolito già nella coscienza, era divenuto
abituale e tradizionale, applaudito nel Petrarca non come il mondo sacro, ma come un mondo artistico e letterario. Il naturalismo al contrario sorgeva allora in piena
concordia con la vita pratica e co’ sentimenti, con tutti
gli allettamenti della novità. Questo mutamento nello
spirito dovea capovolgere la base della letteratura. Il romanzo e la novella, rimasti generi di scrivere volgari e
scomunicati, presero il sopravvento. Al mondo lirico,
con le sue estasi, le sue visioni e le sue leggende, il suo
entusiasmo, succede il mondo epico o narrativo, con le
sue avventure, le sue feste, le sue descrizioni, i suoi piaceri e le sue malizie. La vita contemplativa si fa attiva;
l’altro mondo sparisce dalla letteratura; l’uomo non vive
più in ispirito fuori del mondo, ma vi si tuffa e sente la
vita e gode la vita. Il celeste e il divino sono proscritti
Letteratura italiana Einaudi
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
dalla coscienza, vi entra l’umano e il naturale. La base
della vita non è più quello che dee essere, ma quello che
è: Dante chiude un mondo; il Boccaccio ne apre un altro.
Mettiamo ora il piè in questo mondo del Boccaccio.
Che vi troviamo? Opere latine di gran mole: una specie
di dizionario storico, ove hai tutte le antiche forme mitologiche usate da’ poeti, e con le loro spiegazioni allegoriche, e i fatti degli uomini illustri e delle celebri donne, libri tradotti in francese, in tedesco, in inglese, in
ispagnuolo, in italiano, di cui si fecero moltissime edizioni, accolti con infinito favore da’ contemporanei, come una nuova rivelazione dell’antichità. Prima ci erano
le enciclopedie e i «fiori» e i «giardini», ove si raccoglieva ciò che gli antichi pensarono in filosofia, in etica, in
rettorica; il Boccaccio raccoglie quello che gli antichi
immaginarono, quello che operarono. Al mondo del puro pensiero succede il mondo dell’immaginazione e
dell’azione. Vediamolo ora all’opera. Quest’uomo, che
ha pieno il capo di tanta erudizione greca e latina, che
ammira Dante perchè ha saputo molto bene imitare Virgilio, Ovidio, Stazio e Lucano, e a cui di fiorentino è rimasto l’amore del bello idioma e il sentimento dell’arte,
è insieme il trovatore e il giullare della corte, rallegrata
dalle sue facezie e dai suoi racconti, è l’erede della gaia
scienza, sa a menadito romanzi francesi, italiani e provenzali, e scrive per sollazzarsi e per sollazzare. Ci erano
in lui parecchi uomini non ben fusi, l’erudito, l’artista, il
trovatore, il letterato e l’uomo di mondo.
Ecco uscirgli dall’immaginazione il Filocolo. Il titolo è
greco, come più tardi è il Filostrato e come sarà il Decamerone. La materia è tratta da un romanzo spagnuolo,
ed è gli amori di Florio e Biancofiore. Ma si tratta della
Spagna pagana, al tempo di Roma pagana, quando già vi
penetrava il cristianesimo. La materia è tale, che il giovane autore vi può sviluppare tutte le sue tendenze. Ai gio-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
vani innamorati e alle amorose donzelle consacra i
«nuovi versi, i quali – egli dice loro – non vi porgeranno
i crudeli incendimenti dell’antica Troia, nè le sanguinose battaglie di Farsaglia, ma udirete i pietosi avvenimenti dell’innamorato Florio e della sua Biancofiore, i quali
vi fiano graziosi molto». Probabilmente i giovani vaghi e
le donne innamorate avrebbero desiderato una storia di
amore più breve e meno dotta. Ma come resistere alla
tentazione? Il giovane ci ficca dentro tutta la mitologia,
e ad ogni menoma occasione esce fuori con la storia greca e romana. Giulia, uccisole il marito, nell’ultima disperazione, parlando all’uccisore, cita Ecuba e Cornelia. Nè
la mitologia ci sta a pigione, come semplice colorito, ma
è la vera macchina del racconto, come in Omero e Virgilio. E se Giove, Pluto, Venere, Pallade e Cupido fossero
personaggi vivi, avremmo un grottesco non dispiacevole; ma sono personificazioni ampollose e rettoriche, formate dalla memoria, non dall’immaginazione. Ancora,
visto che teologia e poesia sono una stessa cosa, la teologia è paganizzata, e Dio diviene Giove, e Lucifero diviene Pluto; sì che pagani e cristiani, inimicandosi a morte,
usano le stesse forme e adorano gli stessi iddii. Macchinismo vuoto che s’intramette dappertutto, e guasta il
linguaggio naturale del sentimento, introducendo ne’
fatti e nelle passioni un’espressione artificiale e metaforica. Volendo dire giovani innamorati si dice: «i quali
avete la vela della barca della vaga mente dirizzato a’
venti che muovono dalle dorate penne ventilanti del giovane figliuolo di Citerea». L’avvicinarsi della sera è
espresso così: «I disiosi cavalli del sole caldi per lo diurno affanno si bagnavano nelle marine acque d’occidente». Altrove è detto: «L’Aurora aveva rimossi i notturni
fuochi, e Febo avea già rasciutte le brinose erbe». Nasce
uno stile pomposo e freddo, che invano l’autore cerca
incalorire con le figure rettoriche, in cui è maestro.
Spesseggiano le interrogazioni, le esclamazioni, le perso-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
nificazioni, le apostrofi; il sentimento si sviluppa dalle
cose e si pone per se stesso in una forma ampollosa e
pretensiosa. Il prode Lelio è ucciso sul campo di battaglia, e il poeta vi recita su questa magnifica tirata rettorica:
«Oh misera Fortuna, quanto sono i tuoi movimenti vani e
fallaci nelle mondane cose! Ove sono i molti tesori che tu con
ampia mano gli avevi dati? Ove i molti amici? Ove la gran famiglia? Tu gli hai con subito giramento tolte tutte queste cose,
e il suo corpo senza sepoltura morto giace negli strani campi.
Almeno gli avessi tu concedute le romane lacrime, e le tremanti dita del vecchio padre gli avessero chiusi i morienti occhi, e
l’ultimo onore della sepoltura gli avesse potuto fare!»
Giulia sviene: «gli spiriti ... vagabondi pare che vadano
per lo vicino aere»; e il poeta fa una lunga apostrofe a
Lelio, che al suo pericol correndo lei semiviva abbandona, e dice di Amore:
«Deh! Quanto Amore si portò villanamente tra voi, avendovi tenuti insieme con la sua virtù tanto tempo caramente congiunti; e ora, nell’ultimo partimento, non consentì che voi vi
avessi insieme baciati o almeno salutati.»
I personaggi fanno spesso lunghe orazioni con tutti gli
artifici della rettorica, com’è la parlata di Pluto a’ ministri infernali, imitata dal Tasso. Spesso la sensualità si
scopre tra le lacrime. Giulia si straccia i capelli e si
squarcia le vesti; il giovane deplora quello «sconcio tirare» che traeva «i biondi capelli» «dell’usato modo e ordine», e aggiunge: «I vestimenti squarciati mostravano
le colorite membra, che in prima soleano nascondere».
Non mancano qua e colà tratti affettuosi, e anche modi
e forme di dire semplici ed efficaci; ma rimane il più
spesso fuori dell’uomo e della natura, inviluppato in perifrasi, circonlocuzioni, aggettivi, orazioni, descrizioni e
citazioni: ci si sente una viva tendenza al reale guastata
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
dalla rettorica e dall’erudizione. Accampandosi nel
mondo antico, e portandovi pretensioni erudite e rettoriche, la letteratura, se da una parte si emancipava da
quel mondo teologico-scolastico che sorgeva come barriera tra l’arte e la natura, s’intoppava dall’altra in una
nuova barriera, un mondo mitologico-rettorico.
Il successo del Filocolo alzò l’animo del giovane a più
alto volo. Pensò qualche cosa come l’Eneide, e scrisse la
Teseide. Ma niente era più alieno dalla sua natura che il
genere eroico, niente più lontano dal secolo che il suono
della tromba. Qui hai assedii, battaglie, congiure di dei e
di uomini, pompose descrizioni, artificiosi discorsi, tutto lo scheletro e l’apparenza di un poema eroico; ma nel
suo spirito borghese non entra alcun sentimento di vera
grandezza, e Teseo e Arcita e Palemone e Ippolito ed
Emilia non hanno di epico che il manto. Il suo spirito è
disposto a veder le cose nella loro minutezza, ma più
scende ne’ particolari, più l’oggetto gli si sminuzza e
scioglie, sì che ne perde il sentimento e l’armonia. Le armi, i modi del combattere, i sacrifizii, le feste, tutta
l’esteriorità è rappresentata con la diligenza e la dottrina
di un erudito; ma dov’è l’uomo? E dov’è la natura? De’
suoi personaggi carichi di emblemi e di medaglie antiche si è perduta la memoria. Ecco un campo di battaglia. Egli vede con molta chiarezza i fenomeni che ti presenta, ma è la chiarezza di un naturalista, scompagnata
da ogni movimento d’immaginazione; ci è l’immagine,
manca il fantasma, que’ sottintesi e que’ chiaroscuri, che
ti danno il sentimento e la musica delle cose:
Dopo il crudele e dispietato assalto
orribile per suoni e per fedite,
li fatto prima sopra il rosso smalto,
si dileguaron le polveri trite;
non tutte, ma tal parte, che da alto
ed ancora da basso eran sentite
parimente e vedute di costoro
Letteratura italiana Einaudi
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
le opere e ’l marziale aspro lavoro.
È un’ottava prosaica, dove un fenomeno comunissimo è
sminuzzato con la precisione e distinzione di un anatomico, non di un poeta. Il Tasso tutto condensa in un
verso solo, che ti presenta in unica immagine il campo di
battaglia:
la polve ingombra ciò ch’al sangue avanza.
La stessa prosaica maniera trovi nell’ottava seguente:
Il sangue quivi de’ corpi versato,
e de’ cavalli ancor similemente,
aveva tutto quel campo innaffiato,
onde attutata s’era veramente
e la polvere e ’l fumo: imbragacciato
di sangue era ciascun destrier corrente,
o qualunque uomo vi fosse caduto,
benchè a caval poi fosse rivenuto.
Qui il sangue è talmente analizzato negli oggetti e congiunto con particolari così vuoti e insignificanti, che se
ne perde l’impressione. Alla grande maniera, sobria, rapida, densa, di Dante, del Petrarca, succede il prolisso,
il diluito e il volgare. Chi ricorda descrizioni simili
nell’Ariosto e nel Tasso, vi troverà le stesse cose, ma vive
e mobili, piene di sentimento e di significato. Nel canto
duodecimo descrive la bellezza di Emilia da’ capelli fino
alle anche, anzi fino a’ piedi, e non si contenta di passare
a rassegna tutte le parti del corpo, chè di ciascuna fa minuta descrizione, e non solo nel quale, ma nel quanto, sì
che pare un geometra misuratore. Delle ciglia dice:
... più che altra cosa
nerissime e sottil, nelle qua’ lata
bianchezza si vedea lor dividendo,
nè il debito passavan se’ estendendo..
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Ecco un’ottava similmente prosaica su’ capelli:
Dico che li suoi crini parean d’oro,
non per treccia ristretti, ma soluti
e pettinati sì che infra loro
non n’era un torto, e cadean sostenuti
sopra li candidi omeri, nè fòro
prima nè poi sì be’ giammai veduti:
nè altro sopra quelli ella portava
ch’una corona che assai si stimava.
Ottave e versi soffrono malattia di languore: così procede il suono fiacco e sordo.
La Teseide è indirizzata a Fiammetta, e copertamente
e sotto nomi greci espone una vera storia d’amore. Ma la
gravità del soggetto, e le intenzioni letterarie soperchiarono l’autore e lo tirarono in un mondo epico, pel quale
non era nato. Meglio riuscì nel Filostrato, dove lo scheletro greco e troiano esattamente riprodotto nella sua superficie è penetrato di una vita tutta moderna. L’allusione non è in questo o quel fatto, come nella Teseide, ma è
nello spirito stesso del racconto. I languori di Troilo, gli
artifici di Pandaro, che è il mezzano, le resistenze sempre più deboli di Griseida, le gradazioni voluttuose di
un amore fortunato, le arti e le lusinghe di Diomede
presso Griseida, la sua vittoria e le disperazioni di Troilo, questo non è epico e non è cavalleresco, se non solo
ne’ nomi de’ personaggi: è una pagina tolta alla storia secreta della corte napoletana, è il ritratto della vita borghese, collocata di mezzo fra la rozza ingenuità popolana e l’ideale vita feudale o cavalleresca. Qui per la prima
volta l’amore, squarciato il velo platonico, si manifesta
nella sua realtà ed autonomia, separato da’ suoi antichi
compagni, l’onore e il sentimento religioso; e non è già
amore popolano, ma borghese, cioè a dire raffinato, pieno di tenerezze e di languori, educato dalla coltura e
dall’arte. Mancati tutti gli alti sentimenti della vita pub-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
blica e religiosa, non rimane altra poesia che della vita
privata. La quale è vil prosa, quando il fine del vivere
non è che il guadagno, ed è nobilitata dall’amore. Vivere
tra’ godimenti di amore, con l’animo lontano da ogni
cupidigia di onori e di ricchezze, questo è l’ideale della
vita privata, nella quale la parte seria e prosaica è rappresentata dal mercante. È un ideale che il Boccaccio
trova nella sua propria vita, quando volse le spalle alla
mercatura e si diè a’ piacevoli studi e all’amore. Descritti in morbidissime ottave i voluttuosi ardori di Troilo e
Griseida, il poeta, calda ancora l’immaginazione, così
prorompe:
Deh! Pensin qui gli dolorosi avari,
che biasiman chi è innamorato,
e chi, come fan essi, a far denari
in alcun modo non si è tutto dato,
e guardin se, tenendoli ben cari
tanto piacer fu mai a lor prestato,
quanto ne presta amore in un sol punto
a cui egli è con ventura congiunto.
Ei diranno di sì, ma mentiranno;
e questo amor «dolorosa pazzia»
con risa e con ischerni chiameranno;
senza veder che sola un’ora fia
quella che sè e’ danari perderanno,
senza aver gioia saputo che sia
nella lor vita: Iddio gli faccia tristi,
ed agli amanti doni i loro acquisti.
Ottave sconnesse e saltellanti, assai inferiori alle bellissime che precedono; il poeta sa meglio descrivere che ragionare: pure ci senti per entro un po’ di calore, e la
conclusione è felicissima: è un moto subito e vivace di
immaginazione, come di rado gl’incontra.
Sotto aspetto epico questo racconto è una vera novella con tutte le situazioni divenute il luogo comune delle
storie d’amore, i primi ardenti desiri, l’intramessa di un
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
amico pietoso e le ritrosie della donna, le raffinate voluttà del godimento, la separazione degli amanti, le promesse e i giuramenti e gli svenimenti della donna, la sua
fragilità e i lamenti e i furori del tradito amante. Sotto
vernice antica spunta il mondo interiore del Boccaccio,
una mollezza sensuale dell’immaginazione congiunta
con una disposizione al comico e al satirico. L’infedeltà
di Griseida lo fa uscire in questo ritratto della donna:
Giovine donna è mobile, e vogliosa
è negli amanti molti, e sua bellezza
estima più ch’allo specchio, e pomposa
ha vanagloria di sua giovinezza;
la qual quanto piacevole e vezzosa
è più, cotanto più seco l’apprezza:
virtù non sente, nè conoscimento,
volubil sempre come foglia al vento.
A Beatrice e Laura succede Griseida; all’amore platonico l’amore sensuale; al volo dell’anima verso la sua patria, il cielo, succede il tripudio del corpo. La reazione è
compiuta. A Dante succede il Boccaccio.
La contraddizione prende quasi aria di parodia inconscia nell’Amorosa visione. La Commedia è imitata nel
suo disegno e nel suo meccanismo. Anche il Boccaccio
ha la sua visione. Anch’egli incontra la bella donna, che
dee guidarlo all’altura, che è «principio e cagion di tutta
gioia», via a salute e pace. Ma dove nella Commedia si va
di carne a spirito, sino al sommo Bene, in cui l’umano è
compiutamente divinizzato o spiritualizzato, dove nella
Commedia il sommo Bene è scienza e contemplazione:
qui il fine della vita è l’umano e la scienza è il principio,
e l’ultimo termine è l’amore, e la fine del sogno è in questi versi:
Tutto stordito mi riscossi allora,
e strinsi a me le braccia, e mi credea
infra esse madonna averci ancora.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Il paradiso del Boccaccio è un tempio dell’umanità, un
nobile castello, che ricorda il Limbo dantesco, ricco di
sale splendide e storiate, come sono le pareti del purgatorio. Ed è tutta la storia umana, che ti viene innanzi in
quelle pitture. Dante invoca le muse, l’alto ingegno; il
Boccaccio invoca Venere:
O somma e graziosa intelligenza
che movi il terzo cielo, o santa dea,
metti nel petto mio la tua potenza.
Una scala assai stretta mena al castello, e sulla piccola
porta è questa scritta:
... ... questa piccola porta mena a via di vita,
posta che paia nel salir molesta:
riposo eterno dà cotal salita.
Dunque salite su senza esser lenti:
l’animo vinca la carne impigrita.
Eccoci nella prima sala. E vi son pinte le sette scienze, e
via via schiere di filosofi e poi di poeti, a quel modo che
fa Dante nel limbo. Tutto il canto quinto è consacrato a
Virgilio e a Dante, del quale dice:
Costui è Dante Alighieri fiorentino,
il qual con eccellente stil vi scrisse
il sommo ben, le pene e la gran morte:
gloria fu delle muse mentre visse,
ne qui rifiutan d’esser sue consorte.
Dalla sala delle Muse si passa nella sala della Gloria. E ti
sfilano innanzi moltitudine di uomini venuti in fama,
quasi un quadro della storia del mondo. Da Saturno e
Giove scendi all’età de’ giganti e degli eroi; poi giungi
agli uomini e alle donne illustri di Grecia e di Roma, in
ultimo viene la cavalleria ne’ suoi due circoli di Arturo e
Carlomagno, sino all’ultimo cavaliere, Federico secon-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
do, e l’occhio si stende a Carlo di Puglia, Corradino,
Ruggieri di Loria e Manfredi. Il poeta dà libero corso alla sua vasta erudizione, intento più a raccogliere esempli
che a lumeggiarli: sicchè nessuno de’ suoi personaggi è
giunto a noi così vivo, come è l’Omero e l’Aristotile del
limbo dantesco, o l’Omero del Petrarca.
Siamo infine nella sala di Amore e Venere. E come innanzi la storia, qui vien fuori la mitologia, e senti le prodezze amorose di Giove, Marte, Bacco e Pluto ed Ercole. Poi vengono gli amori di Giasone, Teseo, Orfeo,
Achille, Paride, Enea, Lancillotto.
Scienza, gloria, amore, ecco la vita quando non vi
s’intrometta la Fortuna e colpisca Cesare o Pompeo nel
sommo della felicità. Percorsi i circoli della vita, comincia il tripudio, o la beatitudine; e non sono già le danze
delle luci sante nel trionfo di Cristo o degli angeli, ma le
voluttuose danze di un paradiso maomettano, o le danze
delle ninfe napolitane a Baia. Il poeta s’innamora, e
mentre in sogno si tuffa negli amorosi diletti e tiene fra
le braccia la donna, si sveglia, e la sua guida gli dice:
Ciò che porse
il tuo dormire alla tua fantasia
tutto averai.
E mentre la visione si dilegua, ella lo raccomanda al «sir
di tutta pace», all’Amore.
Con le stesse forme e con lo stesso disegno di Dante il
Boccaccio riesce a un concetto della vita affatto opposto, alla glorificazione della carne, nella quale è il riposo
e la pace. La «Divina Commedia» qui è cavata fuori del
soprannaturale, in cui Dante aveva inviluppata l’umanità e se stesso e il suo tempo, ed è umanizzata, trasformata in un real castello, sede della coltura e dell’amore.
Se non che il Boccaccio non vide che quelle forme contemplative e allegoriche, naturale involucro di un mondo mistico e soprannaturale, mal si attagliavano a quella
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
vita tutta attiva e terrena, ed erano disformi al suo genio,
superficiale ed esterno, privo di ogni profondità ed idealità: perciò riesce monotono, prolisso e volgare. Oggi, a
tanta distanza, c’è difficile a concepire come non abbia
trovato subito il suo genere, che è la rappresentazione
della vita nel suo immediato, sciolta da ogni involucro
non solo teologico e scolastico, ma anche mitologico e
cavalleresco. Ma lento è il processo dell’umanità anche
nell’individuo, che passa per molte prove e tentennamenti prima di trovare se stesso. Il Boccaccio, amico
delle muse, stima co’ suoi contemporanei che «le cose
volgari non possono fare un uomo letterato» e che si richiedono «più alti studi». E gli alti studi sono il latino e
il greco, la conoscenza dell’antichità. Il suo maggior titolo di gloria era l’ampia erudizione, che lo rendeva superiore a Dante ed anche al suo «Silvano», il Petrarca.
Trova innanzi a sè forme consacrate e ammirate, le forme epiche di Virgilio e Stazio, le forme liriche di Dante
e di Silvano, e in quelle forme vuol realizzare un mondo
prosaico che gli si moveva dentro. Nei suoi primi lavori
salta fuori tutto il suo mondo greco-romano, mitologico
e storico, con grande ammirazione de’ contemporanei.
Gli amori di Troilo e Griseida, d’Arcita e Palemone passarono le Alpi e fecondarono l’immaginazione di Chaucer; i quadri storici e mitologici della sua Visione ispirarono molti Saggi e molti Tempi dell’umanità. Chi legge i
Reali di Francia e tante scarne traduzioni di romanzi
francesi allora in voga, può concepire che gran miracolo
dovè parere la Teseide, il Filostrato e il Filocolo. Anche
nelle sue Rime si vede l’uomo nuovo alle prese con forme vecchie. Vi trovi il solito repertorio, l’innamoramento, i sospiri, i desiri, i pentimenti, il volgersi a Dio e alla
Madonna, ma la bella unità lirica del mondo di Dante e
del Petrarca è rotta, ed ogni idealità è scomparsa. Dietro
alle stesse forme è un diverso contenuto che mal vi si
adagia. La donna in nome è ancora un’angioletta, ma
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
che angiolo! Ella sta non raccolta e modesta nella sua ingenuità infantile, come Bice; o nella sua casta dignità,
come Laura; ma
all’ombra di mille arbori fronzuti,
in abito leggiadro e gentilesco
tende lacci
con gli occhi vaghi e col cianciar donnesco.
Hai la donna vezzosa e civettuola della vita comune, ed
un amante distratto, che ora esala sospiri profani in forme platoniche e tradizionali, ora pianta lì la sua angioletta, e si sfoga contro i suoi avversari, e ragiona della morte e della fortuna, o inveisce contro le donne:
Elle donne non son, ma doglia altrui,
senza pietà, senza fè, senz’amore,
liete del mal di chi più lor credette.
Perchè meglio si comprenda questa disarmonia tra forme convenzionali e un contenuto nuovo, guardiamo
questo sonetto:
Sulla poppa sedea d’una barchetta,
che ’l mar segando presta era tirata,
la donna mia con altre accompagnata,
cantando or una, or altra canzonetta.
Or questo lito ed or quell’isoletta,
ed ora questa ed or quella brigata
di donne visitando, era mirata
qual discesa dal ciel nuova angioletta.
Io che seguendo lei vedeva farsi
da tutte parti incontro a rimirarla
gente, vedea come miracol novo:
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ogni spirito mio in me destarsi
sentiva, e con Amor di commendarla
vago non vedea mai il ben ch’io provo.
Il sonetto comincia bene, in forma disinvolta e fresca,
ancorachè per la parte tecnica un po’ trascurata. In
quelle giovanette, che cantano a mare e vanno a visitare
le amiche e sono ammirate dalla gente, vedi una scena
tutta napolitana, e ti corre innanzi Baia, sede di secrete
delizie che destano le furie gelose del poeta. Ma questa
bella scena alla fine si guasta, col solito «spirito» e col
solito «Amore vago di commendare», e riesce in una
freddura. Chi vuol vedere un sonetto affatto moderno,
dove l’autore si è sciolto da ogni involucro artificiale, e ti
coglie in atto la vita di Baia con le sue soavità e le sue licenze, senta questo:
Intorno ad una fonte, in un pratello
di verdi erbette pieno e di bei fiori,
sedeano tre angiolette, i loro amori
forse narrando; ed a ciascuna il bello
viso adombrava un verde ramoscello
che i capei d’or cingea, al qual di fuori
e dentro insieme due vaghi colori
avvolgeva un soave venticello.
E dopo alquanto l’una alle due disse
com’io udii: – Deh! Se per avventura
di ciascuna l’amante or qui venisse,
fuggiremo noi quinci per paura? –
– A cui le due risposer: – Chi fuggisse,
poco savia saria con tal ventura. –
Qui senti il Boccaccio in quella sua mescolanza di sensuale e malizioso. Gli scherzi del venticello sono abbozzati con l’anima di un satiro che divora con gli occhi la
preda, e la chiusa cinica così inaspettata ti toglie a ogni
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
idealità e ti gitta nel comico. Qui il Boccaccio trova se
stesso. Fu chiamato «Giovanni della tranquillità» per
quella sua spensierata giovialità, che lo tenea lontano da
ogni esagerazione delle passioni, e tiravalo nel godimento e nel gusto della vita reale. E quantunque si doglia
dell’epiteto come d’una ingiuria e lo rifiuti sdegnosamente, pure è là il suo genio e la sua gloria, e non dove
sfoggia in forme rettoriche sentimento ed erudizione. Fu
chiamato anche «uomo di vetro», per una cotal sua mobilità d’impressioni e di risoluzioni, di cui sono esempio
le Rime, dove invano cerchi l’unità organica del Canzoniere, e un disegno qualunque, avvolto il poeta dalle onde delle impressioni e della vita reale e de’ suoi studi e
reminiscenze classiche. Pure tra molte volgarità trovi un
elevato sentimento dell’arte, o, come egli dice, «l’amor
delle muse, che lo trae d’inferno», come chiama la terra
deserta dalle muse. «Vidi», egli canta,
... una ninfa uscire
d ’un lieto bosco, e verso me venire
co’ crin ristretti da verde corona.
A me venuta disse: – Io son colei,
che fo di chi mi segue il nome eterno,
e qui venuta sono ad amar presta;
lieva su, vieni. – Ed io già di costei
acceso, mi levai; ond’io d’inferno
uscendo, entrai nell’amorosa festa.
Da questo elevato sentimento dell’arte è uscito il sonetto
sopra Dante, scritto con una gravità e vigore di stile così
insueto, che farebbe quasi dubitare sia cosa sua:
Dante Alighieri son, Minerva oscura
d’intelligenza e d’arte, nel cui ingegno
l’eleganza materna aggiunse al segno,
che si tien gran miracol di natura.
L’alta mia fantasia pronta e sicura
passò il tartareo e poi il celeste regno,
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
e il nobil mio volume feci degno
di temporale e spirital lettura.
Fiorenza gloriosa ebbi per madre,
anzi matrigna a me pietoso figlio,
colpa di lingue scellerate e ladre.
Ravenna fummi albergo del mio esiglio;
ed ella ha il corpo, e l’alma il sommo Padre,
presso cui invidia non vince consiglio.
La stessa disparità tra le forme e il contenuto troviamo
nella Fiammetta e nel Corbaccio o Laberinto d’amore. Sono due generi nuovi e pel contenuto affatto moderni. La
Fiammetta e un romanzo intimo e psicologico, dove una
giovane amata e abbandonata narra ella medesima la sua
storia, rivelando con la più fina analisi le sue impressioni. Il Corbaccio è la satira del sesso femminile fatta dal
vendicativo scrittore, canzonato da una donna. La scelta
di questi argomenti è felicissima. L’autore volge le spalle
al medio evo e inizia la letteratura moderna. Di un mondo mistico-teologico-scolastico non è più alcun vestigio.
Oramai tocchiamo terra: siamo in cospetto dell’uomo e
della natura. Abbiamo una pagina di storia intima
dell’anima umana, colta in una forma seria e diretta nella Fiammetta, in una forma negativa e satirica nel Corbaccio. La letteratura non è più trascendente, ma immanente, cioè a dire vede l’uomo e la natura in se stessa, e
non in forme estrinseche e separate, mitologiche e allegoriche. Ma il Boccaccio non sa trovare le forme convenienti a questo contenuto. Per rappresentarlo nella sua
verità non aveva che a mettersi in immediata comunione
con quello ed esprimere le sue impressioni così naturali
e fresche come gli venivano. Ma s’accosta a questo mondo con l’animo preoccupato dall’erudizione, dalla storia, dalla mitologia e dalla rettorica, e lo vede, lo dipinge
a traverso di queste forme. L’impressione giungendo nel
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
suo spirito vi è immediatamente falsificata, nè si riconosce più dietro a quel denso involucro, che se non è teologico-scolastico, è pur qualche cosa di più strano, è mitologico-rettorico. Nasce una nuova trascendenza, la cui
radice non è nel naturale sviluppo del pensiero religioso
e filosofico, come l’antica, ma nell’avviamento classico
preso dalla coltura. Fiammetta abbandonata da Panfilo,
prima di fare i suoi lamenti, vuol vedere come in Virgilio
si lamenta Didone abbandonata, pensando che a lei non
è lecito di lamentarsi in altra guisa. E se vuol consolarsi,
cercando compagni al suo dolore, ti fa un trattato di storia antica, narrando tutti i casi infelici di amore degli antichi iddii ed eroi. E se sogna, cerca in Ovidio la spiegazione de’ sogni. Vuol dire che sente vergogna di palesare
i suoi godimenti amorosi? E ti definisce la vergogna e ragiona lungamente de’ suoi effetti sulle donne. Vuol
esprimere gioia, speranza, timore, dolore, ira, gelosia? E
analizza ciascuno di questi sentimenti, facendo tesoro di
tutti i luoghi topici registrati da Aristotile. Bisogna vedere con che diligenza il Sansovino nota tutti i luoghi etici
e patetici, e le imitazioni e le erudizioni della Fiammetta,
a guida de’ maestri e degli scolari. Dante, Minerva oscura, potè spesso tra le nebbie delle sue allegorie attingere
il mondo reale, perchè era artista, e se è scolastico, non è
mai rettorico: il Boccaccio non può distrigarsi da quel
mondo artificiale e coglier la natura, perchè gli manca
ogni serietà di vita interiore nel pensiero e nel sentimento, e vi supplisce con le esagerazioni e le amplificazioni.
Che dirò delle sue descrizioni così minute, come le sue
analisi, e tutte di seconda mano, non ispirate dall’impressione immediata della natura? Veggasi il suo inverno e la primavera e l’autunno, e tutte le sue descrizioni
della bellezza virile e femminile, fatte con la squadra e
col compasso. Così gli è venuto scritto un romanzo prolisso, noioso, in guisa che, a sentir quegli eterni lamenti
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
della Fiammetta che aspetta Panfilo, siamo tentati di dire: – Panfilo, torna presto! Che non la sentiamo più. –
Più conforme al suo genio è il Corbaccio, satira delle
donne. Ma come il burlato è lui, le risa sono a sue spese,
specialmente quando si lamenta che una donna abbia
potuto farla a lui, che pure è un letterato. Vi mostra egli
così poco spirito come nella lettera a Nicolò Acciaioli,
che il Petrarca grecizzando chiamava Simonide, dove leva le alte strida perchè, invitato alla corte di Napoli, gli
sia toccata quella cameraccia e quel lettaccio, ed esce in
vitupèri, in minacce, in pettegolezzi, resi ancora più ridicoli da quella forma ciceroniana. Come qui minaccia e
vitupera e inveisce alla latina, così nel Corbaccio satireggia con la storia, co’ luoghi comuni degli antichi poeti,
narrando fatti o allegorie e ammassando noiosi ragionamenti. L’ordito è semplicissimo. Il Boccaccio, beffato da
una donna, si vuole uccidere, ma il timore dell’inferno
ne lo tiene, e pensa più saviamente a vivere e a vendicarsi, non col ferro, ma, come i letterati fanno, con «concordare di rime» o «distender di prose». Fra questi pensieri si addormenta e si trova in sogno nel «laberinto
d’amore», o valle incantata, una specie di selva dantesca,
dove gli appare un’ombra, ed è il marito della donna,
che nel purgatorio espia la troppa pazienza avuta con
lei. Costui gli espone tutte le cattive qualità delle donne,
a cominciare dalla sua. E quando si è bene sfogato, lo
conduce sopra di un monte altissimo, onde vede il laberinto metter capo nell’inferno. Questa vista guarisce il
Boccaccio del mal concetto amore. Come si vede, la satira non è rappresentazione artistica, ma esposizione, in
forma di un trattato di morale, de’ vizi femminili. Nondimeno trovi qua e là di bei motti, e novellette graziose e
descrizioni vivaci dei costumi delle donne, con l’uso felicissimo del dialetto fiorentino, com’è la donna in chiesa,
che «incomincia una dolente filza di paternostri,
dall’una mano nell’altra e dall’altra nell’una trasmutan-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
dogli senza mai dirne niuno», o la donna che con le sue
gelosie non dà tregua al marito, e «di ciarlare mai non
resta, mai non molla, mai non fina: dàlle, dàlle, dàlle,
dalla mattina infino alla sera, e la notte ancora non sa restare». Nelle sue gelose querele si rivela il vero genio del
Boccaccio, una forza comica accompagnata con rara felicità di espressione, attinta in un dialetto così vivace e
già maturo, pieno di scorciatoie, di frizzi, di motti, di
grazie. Citiamo alcuni brani:
«Credi tu ch’i’ sia abbagliata, e ch’i’ non sappia a cui tu vai
dietro? A cui tu vogli bene? E con cui tutto il dì favelli? Misera
me, che è cotanto tempo ch’io ci venni, e pur una volta ancora
non mi dicesti – Amor mio, ben sia venuta. – Ma alla croce di
Dio, io farò di quelle a te che tu fai a me. Or son io così sparuta? Non son io così bella, come la cotale? Ma sai che ti dico?
Chi due bocche bacia, l’una convien che gli puta. Fàtti costà,
se Iddio m’aiuti, tu non mi toccherai: va’ dietro a quelle di cui
tu se’ degno, chè certo tu non eri degno d’aver me, e fai bene
ritratto di quello che tu sei, ma a fare a far sia.
Questa è lingua già degna di Plauto, e il Corbaccio è
sparso di cotali scene, degne di colui che aveva già scritto il Decamerone. Fra’ tanti peccati che il marito tradito
e l’amante burlato attribuiscono alla donna c’è pur questo, che «le sue orazioni e i suoi paternostri sono i romanzi franceschi», e «tutta si stritola quando legge Lancillotto o Tristano nelle camere segretamente». E anche
«legge la canzone dello indovinello, e quella di Florio e
di Biancefiore, e simili altre cose assai». Sono preziose
rivelazioni sulla letteratura profana e proibita, allora in
voga. Ma se peccato c’è, il maggior peccatore era il Boccaccio per l’appunto, che per piacere alle donne scrivea
romanzi. Pure è lecito credere ch’elle leggevano con più
gusto la nuda storia francesca di Florio e Biancefiore,
che l’imitazione letteraria fatta dal Boccaccio, detta Filocolo, dove Biancefiore (Blanchefleur) è chiamata all’italiana «Biancofiore». Alle donne caleva poco di mitolo-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
gia e storia antica, e se tanta erudizione e artificio rettorico potea parere cosa mirabile al suo maestro di greco,
Pilato, e a’ latinisti e grecisti che erano allora i letterati,
le donne, che cercavano ne’ libri il piacer loro, facevano
de’ suoi scritti poca stima, e, «ciò che peggio era, per lui,
Aristotile, Tullio, Virgilio e Tito Livio e molti altri illustri uomini creduti suoi amici e domestici, come fango
scalpitavano e schernivano». In verità, le donne col loro
senso naturale erano migliori giudici in letteratura che
Leonzio Pilato e tutti i dotti.
Quelli che chiamarono «tranquillo» il nostro Giovanni espressero un concetto più profondo che non pensavano. La tranquillità è appunto il carattere del nuovo
contenuto che egli cercava sotto forme pagane. La letteratura del medio evo è tutt’altro che tranquilla; anzi il
suo genio è l’inquietudine, un cercare continuo, il di là
senza speranza di attingerlo. Il suo uomo è sospeso da
terra, con gli occhi in alto, accesi di desiderio. L’uomo
del Boccaccio è, al contrario, assiso, in ozio idillico, con
gli occhi volti alla madre terra, alla quale domanda e
dalla quale ottiene l’appagamento. Ma al Boccaccio non
piace esser chiamato «tranquillo», inconsapevole che la
sua forza è lì dov’è la sua natura. E si prova nel genere
eroico e cavalleresco, e nelle confessioni della Fiammetta tenta un genere lirico-tragico. Tentativi infelici di uomo che non trova ancora la sua via. L’indefinito è negato a lui, che descrive la natura con tanta minutezza di
analisi. Il sospiro è negato a lui, che numera ad uno ad
uno i fenomeni del sentimento. L’eroico e il tragico non
può allignare in un’anima idillica e sensuale. E quando
vi si prova, riesce falso e rettorico. Perciò non gli riesce
ancora di produrre un mondo, cioè una totalità organica, armonica e concorde. Nel suo mondo epico-tragicocavalleresco penetra uno spirito eterogeneo e dissolvente, che rende impossibile ogni formazione artistica, il
naturalismo pagano: spirito invitto, perchè è il solo che
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
vive al di dentro di lui, il solo che si possa dire il suo
mondo interiore. E quando gli riesce di coglierlo nella
sua semplicità e verità, come gli si move al di dentro, allora trova se stesso e diviene artista. Questo mondo, gittato come frammento discorde e caotico ne’ suoi romanzi epici e tragici, par fuori in tutta la sua purezza nel
Ninfale fiesolano e nel Ninfale d’Ameto.
Qui l’autore, volgendo le spalle alla cavalleria e a’
tempi eroici, rifà con l’immaginazione i tempi idillici
delle antiche favole e dell’età dell’oro, quando le deità
scendevano amicamente nella terra popolata di ninfe, di
pastori, di fauni e di satiri. La mitologia non è qui elemento errante fuori di posto in mondo non suo, è lei
tutto il mondo.
Questo mondo mitologico primitivo è un inno alla
natura. Nel Ninfale fiesolano la ninfa sacra a Diana, vinta dalla natura, manca al suo voto ed è trasmutata in
fonte. L’anima del racconto è il dolce peccato, nel quale
cadono Africo e Mensola non per corruzione o depravazione di cuore, ma per l’irresistibile forza della natura
nella piena semplicità ed innocenza della vita; sì che, saputo il fatto, ne viene compassione alla stessa Diana. Indi a poco sopraggiunge Atalante, e con la guida del figlio della colpa, nato da Mensola, distrugge gli asili sacri
a Diana, e marita le ninfe per forza, ed edifica Fiesole,
ed introduce la civiltà e la coltura. Così il mondo mitologico perisce con le sue selvatiche istituzioni, e comincia
il viver civile conforme alle leggi della natura e dell’amore.
Il racconto è diviso in sette parti o canti ed è in ottava
rima. L’autore, non costretto a gonfiare le gote nè a raffinare i sentimenti, si fa cullare dolcemente dalla sua immaginazione in questo mondo idillico, e descrive paesaggi e scene di famiglia e costumi pastorali con una
facilità che spesso è negligenza, non è mai affettazione o
esagerazione. La tromba è mutata nella zampogna, suo-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
no più umile, ma uguale e armonioso: l’ottava procede
piana e naturale, talora troppo rimessa; e non mancano
di bei versi imitativi. Africo e Mensola debbono dividersi, chè l’ora è tarda; e il poeta dice:
Partir non si sanno,
ma or si partono, or tornano, or vanno.
Altrove dice:
sempre mirandosi avanti ed intorno,
se Mensola vedea, poneva mente.
Frequente è in lui l’uso dello sdrucciolo in mezzo al verso, e quell’entrare de’ versi l’uno nell’altro, che slega e
intoppa le sue ottave eroiche, ma dà a queste ottave idilliche un aspetto di naturalezza e di grazia. Il suo periodo
poetico, saltellante e imbrogliato nella Teseide, qui è
corrente e spedito, assai prossimo al linguaggio naturale
e familiare:
Ella lo vide prima che lui lei,
perchè’ a fuggir del campo ella prendea:
Africo la sentì gridare – Omei! –
e poi guardando fuggir la vedea:
e infra se disse: – Per certo costei
è Mensola –, e poi dietro le correa;
e sì la prega e per nome la chiama,
dicendo: – Aspetta quel che tanto t’ama. –
Africo dorme; e il padre dice alla moglie, Alimena:
O cara sposa,
nostro figliuol mi pare addormentato,
e molto ad agio in sul letto si posa,
sì che a destarlo mi parria peccato,
e forse gli saria cosa gravosa
se io l’avessi del sonno svegliato.
– E tu di’ vero, – diceva Alimena –
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
lascial posare e non gli dar più pena. –
Manca il rilievo: per soverchia naturalezza si casca nel
triviale e nel volgare. Più tardi verrà il grande artista, che
calerà in questo mondo della natura e dell’amore appena sbozzato e pur ora uscito alla luce, e gli darà l’ultima
e perfetta forma.
Simile di disegno, ma in più larghe proporzioni, è il
Ninfale d’Ameto. È il trionfo della natura e dell’amore
sulla barbarie de’ tempi primitivi. E il barbaro qui non è
la ninfa, sacrata a Diana, che per violenza di natura rompe il voto, ma è il pastore, abitatore della foresta co’ fauni e le driadi, che scendendo al piano lascia l’alpina ferita e prende abito civile. Il luogo della scena comincia in
Fiesole, negli antichissimi tempi detta Corito, quando vi
abitavano le ninfe e non era venuto ancora Atalante a
cacciarle via e introdurvi costumi umani. Così l’Ameto si
collega col Ninfale fiesolano. Il pastore Ameto erra e
caccia su pel monte e per la selva, quando un dì affaticato giunge co’ suoi cani al piano, presso il Mugnone; e riposando e trastullandosi co’ cani, gli giunge all’orecchio
un dolce canto, e guidato dalla melodia scopre più giovanette intorno alla bellissima Lia. Sono ninfe, non sacrate a Diana, ma a Venere. Lia racconta nella sua canzone la storia di Narciso, «bellissimo e crudo
cacciatore», che, rifiutando il caro amore delle donne e
innamorato della sua immagine, fu convertito in fiore.
Ameto parte pensoso, recando seco l’immagine di Lia.
Venuta la primavera, torna al piano, e cerca e chiama
Lia, descrivendo la sua bellezza e offrendole doni:
Tu se’ lucente e chiara più che il vetro
ed assai dolce più ch’uva matura;
nel cuor ti sento, ov’io sempre t’impetro
E siccome la palma in ver l’altura
si stende, così tu, viepiù vezzosa
che ’l giovanetto agnel ne la pastura;
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
e sei più cara assai e grazïosa
che le fredde acque a’ corpi faticati,
o che le fiamme a’ freddi, e ch’altra cosa.
E i tuoi capei più volte ho simigliati
di Cerere a le paglie secche e bionde,
dintorno crespi al tuo capo legati...
Vieni, ch’io serbo a te giocondo dono,
che io ho còlti fiori in abbondanza
agli occhi bei, d’odor soave e buono.
E siccome suol esser mia usanza,
le ciriege ti serbo, e già per poco
non si riscaldan per la tua distanza.
Con queste, bianche e rosse come fuoco
ti serbo gelse, mandorle e susine,
fravole e bozzacchioni in questo loco.
Belle peruzze e fichi senza fine,
e di tortole ho presa una nidiata,
le più belle del mondo, e piccoline...
Si avvicinano i giorni sacri a Venere, e nel suo tempio
traggono pastori e fauni e satiri e ninfe, e Ameto trova la
sua Lia fra bellissime ninfe, delle quali contempla le bellezze parte a parte, fatto giudice esperto e amoroso. E
tutti fan cerchio a un pastore che canta le lodi di Venere
e di Amore. Sopravvengono altre ninfe, le quali «non
umane pensava, ma dèe», e contempla rapito celesti bellezze, e di pastore si sente divenuto amante, dicendo:
«Io, usato di seguire bestie, amore poco avanti da me
non saputo seguendo, non so come mi convertirò in
amante seguendo donne». Le belle ninfe gli siedono intorno, ed egli scioglie un inno a Giove e canta la sua
conversione. Questi sono gli antecedenti del romanzo,
sparsi di vaghissime descrizioni di bellezze femminili in
quella forma minuta e stancante che è il vezzo dell’autore. Lia propone che ciascuna ninfa canti la sua storia e
canti la deità reverita da lei, acciocchè «oziose, come le
misere fanno, non passino il chiaro giorno». Sedute in
cerchio e posto in mezzo Ameto, come loro presidente o
antistite, cominciano i loro racconti. Sono sette ninfe:
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Mopsa, Emilia, Adiona, Acrimonia, Agapes, Fiammetta
e Lia, ciascuna consacrata a una divinità, Pallade, Diana,
Pomena, Bellona, Venere, delle quali si cantano le lodi.
Ne’ racconti delle ninfe vedi la vittoria dell’amore e della natura sulla ferina salvatichezza degli uomini, e
all’ozio bestiale tener dietro le arti di Pallade, di Diana,
di Astrea, di Pomena e di Bellona, la cultura e l’umanità.
Ti vedi innanzi svilupparsi tutto il mondo della cultura,
e cominciare da Atene ed in ultimo posare in Etruria,
dove l’autore con giusto orgoglio pone il principio della
nuova cultura. Da ultimo apparisce una luce una e trina,
entro la quale guardando Ameto, Mopsa gli occhi asciugandoli, da quelli levò l’oscura caligine, sì che nella luce
triforme ravvisa la celeste e santa Venere, madre di amore puro e intellettuale. Tuffato nella fonte da Lia, gittati
i panni selvaggi e lavato di ogni lordura, si sente «di bruto fatto uomo», e «vede chi sieno le ninfe, le quali più
all’occhio che all’intelletto erano piaciute, e ora all’intelletto piacciono più che all’occhio; discerne quali sieno i
templi, quali le dee di cui cantano e chenti sieno i loro
amori, e non poco in sè si vergogna de’ concupiscevoli
pensieri avuti». Le ninfe, le quali non sono altro che le
scienze e le arti della vita civile, tornano alla celeste patria, e Ameto canta la sua redenzione dallo stato selvaggio.
Questo disegno evidentemente è uscito da una testa
giovanile, ancora sotto l’azione di tutti i diversi elementi
di quella cultura. Palpabili sono le reminiscenze della
Divina Commedia. Lia e Fiammetta ricordano Matilde e
Beatrice. Il concetto nella sua sostanza è dantesco: è
l’emancipazione dell’uomo, il quale, percorse le vie del
senso e dell’amore sensuale, è dalla scienza innalzato
all’amore di Dio. Anche la forma allegorica è dantesca,
non essendo quelle apparizioni che simboli di concetti e
figure di quelle separate intelligenze che presiedono alle
stelle e regolano i moti dell’animo. Tutto questo si trova
Letteratura italiana Einaudi
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
inviluppato in un mondo mitologico, che è la sua negazione, animato da un naturalismo spinto sino alla licenza: Apuleio e Longo contendono con Dante nel cervello
dello scrittore. Il romanzo, che nell’intenzione dovrebbe
essere spirituale, è nel fatto soverchiato da un vivo sentimento della bella natura e de’ piaceri amorosi. Si vede il
giovane, che sta con Dante in astratto, ma ha pieno il capo di mitologia, di romanzi greci e franceschi, di avventure licenziose, e fa di tutto una mescolanza. Se qualche
cosa in questa noiosa lettura ti alletta, è dove lo scrittore
si abbandona alla sua natura, com’è la comica descrizione che Acrimonia fa del suo vecchio marito, nel quale
intravvedi già il povero dottore a cui Paganino rubò la
moglie, e com’è qua e là qualche pittura e sentimento
idillico. Pure, in un mondo così dissonante e scordato si
sviluppa chiaramente un entusiasmo giovanile per la
coltura e l’umanità. Ci si sente il secolo, che scuote da sè
la rozza barbarie, e s’incammina fidente verso un mondo più colto e polito. Ameto si spoglia il ruvido abito del
medio evo, e guidato dalle muse prende aspetto gentile
e umano. Le ombre del misticismo si diradano nel tempio di Venere. Dante canta la redenzione dell’anima
nell’altro mondo. Il Boccaccio canta la fine della barbarie e il regno della coltura. È lo spirito nuovo, da cui più
tardi uscirà Lorenzo de’ Medici e Poliziano.
Gittando ora un solo sguardo su questi lavori, si possono raccogliere con chiarezza i caratteri della nuova
cultura. Le teorie in astratto rimangono le stesse, e il
Boccaccio pensa come Dante. Ma nel fatto lo spirito abbandona il cielo e si raccoglie in terra: perde la sua idealità e la sua inquietudine, e diviene tranquillo, calato tutto e soddisfatto nella materia della sua contemplazione.
A un mondo lirico di aspirazioni indefinite, espresso
nella visione e nell’estasi, succede un mondo epico, che
ha ne’ fatti umani e naturali il suo principio e il suo termine. Il poeta in luogo d’idealizzare realizza, cioè a dire
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
fugge le forme sintetiche e comprensive che gittano lo
spirito in un di là da esse, e cerca una forma nella quale
l’immaginazione si trovi tutta e si riposi. Non ci è più il
«forse» e il «parere», non una forma appena abbozzata,
quasi velo di qualcos’altro, ma una forma terminata e
chiusa in sè e corpulenta, nella quale l’oggetto è minutamente analizzato nelle singole parti: alla terzina succede
l’analitica ottava. Rimangono ancora le terzine, e le visioni e le allegorie, i sonetti e le canzoni, ma come forme
prettamente convenzionali e d’imitazione, sciolte dallo
spirito che le ha generate: il passato per lungo tempo si
continua come morta forma in un mondo mutato. Succedono forme giovani e nuove, più conformi a un contenuto epico. Sul mondo inquieto delle allegorie e delle visioni si alza il sereno e tranquillo mondo pagano, con le
sue deità umanizzate, con la sua natura animata, col suo
vivo sentimento della bellezza, con la sua disinteressata
contemplazione artistica. Queste tendenze non trovano
soddisfazione in un contenuto eroico e cavalleresco,
perchè la serietà di una vita eroica e cavalleresca è ita via
insieme col medio evo, e non è più nella coscienza, e
non può essere altro che imitazione letteraria e artificio
rettorico. Più conveniente a quelle forme è la vita idillica, ne’ cui tranquilli ozi, nella cui semplicità e chiarezza
l’anima, agitata dalle lotte politiche e turbata dalle ombre di un mondo trascendente, si raccoglie come in un
porto e si riposa. L’idillio è la prima forma nella quale si
manifesta questa nuova generazione, fiacca e stanca, pur
colta ed erudita, che chiama barbara la generazione passata, e celebra i nuovi tempi della coltura e dell’umanità,
invocando Venere e Amore.
Specchio di questa società nelle sue fluttuazioni, nelle
sue imitazioni, nelle sue tendenze, è il Boccaccio. I suoi
tentennamenti e le sue dissonanze provengono dalla
coesistenza nel suo spirito d’elementi vecchi e nuovi, vivi e morti, mescolati. Un doppio involucro, mistico e
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
mitologico, circonda come una nebbia questo mondo
della natura.
Fra questi tentennamenti si andò formando il Decamerone. Il Boccaccio lascia qui cavalleria, mitologia, allegoria, e tutto il suo mondo classico, tutte le sue reminiscenze dantesche, e si chiude nella sua società, e ci vive e
ci gode, perchè ivi trova se stesso, perchè vive anche lui
di quella vita comune. Par così facile attingere la società
in questa forma diretta e immediata: pur si vede quanto
laboriosa gestazione è necessaria, perchè esca alla luce il
mondo del tuo spirito.
Quel mondo esisteva prima del Decamerone. In Italia
abbondavano romanzi e novelle e «canzoni latine», canti licenziosi. Le donne, come abbiam visto, leggevano secretamente tra loro questi libri profani, e i novellatori
intrattenevano le liete brigate con racconti piacevoli e licenziosi. Il fondo comune de’ romanzi erano le avventure de’ cavalieri della Tavola rotonda e di Carlomagno
Nell’Amorosa visione il Boccaccio cita un gran numero
di questi eroi ed eroine, Artù, Lancillotto, Galeotto,
Isotta la bionda, Chedino, Palamides, Lionello, Tristano, Orlando, Uliviero, Rinaldo, Guttifré, Roberto Guiscardo, Federico Barbarossa, Federico secondo. Egli
medesimo scrisse romanzi per far piacere alle donne, e
rifatto il romanzo di Florio e Biancofiore, cercò un teatro più conforme a’ suoi studi classici ne’ tempi eroici e
primitivi delle greche tradizioni. Pure, le novelle doveano riuscire più popolari e più gradite, perchè più
conformi a’ tempi e a’ costumi. E se ne raffazzonavano o
inventavano di ogni sorta, serie e comiche, morali e
oscene, variate e abbellite da’ novellatori secondo i gusti
dell’uditorio. La novella era dunque un genere vivente
di letteratura, lasciato in balia dell’immaginazione, e come materia profana e frivola, trascurata dagli uomini
colti. Rivale della novella era la leggenda co’ suoi miracoli e le sue visioni. Gli uomini colti si tenevano alto in
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una regione loro propria, e lasciavano a’ frati i Fioretti di
san Francesco e la Vita del beato Colombino, e a’ buontemponi la semplicità di Calandrino e le avventure galanti di Alatiel.
In questo mondo profano e frivolo entrò il Boccaccio,
con non altro fine che di scrivere cose piacevoli e far cosa grata alla donna che gliene avea data commissione. E
raccolse tutta quella materia informe e rozza, trattata da
illetterati, e ne fece il mondo armonico dell’arte.
Dotte ricerche sonosi fatte sulle fonti dalle quali il
Boccaccio ha attinte le sue novelle. E molti credono si
tolga qualche cosa alla sua gloria, quando sia dimostrato
che la più parte de’ suoi racconti non sono sua invenzione, quasi che il merito dell’artista fosse nell’inventare, e
non piuttosto nel formare la materia. Fatto è che la materia, così nella Commedia e nel Canzoniere come nel
Decamerone, non uscì dal cervello di un uomo, anzi fu il
prodotto di una elaborazione collettiva, passata per diverse forme, insino a che il genio non l’ebbe fissata e fatta eterna.
Ci erano in tutti i popoli latini novelle sotto diversi
nomi, ma non c’era la novella, e tanto meno il novelliere,
in cui i singoli racconti fossero composti ad unità e divenissero un mondo organico. Questo organismo vi spirò
dentro il Boccaccio, e di racconti diversi di tempi, di costumi e di tendenze fece il mondo vivente del suo tempo, la società contemporanea, della quale egli aveva tutte le tendenze nel bene e nel male.
Non è il Boccaccio uno spirito superiore che vede la
società da un punto elevato e ne scopre le buone e cattive parti con perfetta e severa coscienza. È un artista che
si sente uno con la società in mezzo a cui vive, e la dipinge con quella mezza coscienza che hanno gli uomini
fluttuanti fra le mobili impressioni della vita, senza darsi
la cura di raccogliersi e analizzarle. Qualità che lo distingue sostanzialmente da Dante e dal Petrarca, spiriti rac-
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colti ed estatici. Il Boccaccio è tutto nel mondo di fuori
tra’ diletti e gli ozi e le vicissitudini della vita, e vi è occupato e soddisfatto, e non gli avviene mai di piegarsi in
sè, di chinare il capo pensoso. Le rughe del pensiero
non hanno mai traversata quella fronte, e nessun’ombra
è calata sulla sua coscienza. Non a caso fu detto «Giovanni della tranquillità». Sparisce con lui dalla nostra
letteratura l’intimità, il raccoglimento, l’estasi, la inquieta profondità del pensiero, quel vivere dello spirito in sè,
nutrito di fantasmi e di misteri. La vita sale sulle superficie e vi si liscia e vi si abbellisce. Il mondo dello spirito
se ne va: viene il mondo della natura.
Questo mondo superficiale, appunto perchè vuoto di
forze interne e spirituali, non ha serietà di mezzi e di
scopo. Ciò che lo move non è Dio, nè la scienza, non
l’amore unitivo dell’intelletto e dell’atto, la grande base
del medio evo; ma è l’istinto o l’inclinazione naturale:
vera e violenta reazione contro il misticismo. Ti vedi innanzi una lieta brigata, che cerca dimenticare i mali e le
noie della vita, passando le calde ore della giornata in
piacevoli racconti. Era il tempo della peste, e gli uomini
con la morte innanzi si sentivano sciolti da ogni freno e
si abbandonavano al carnevale della loro immaginazione. Di questo carnevale il Boccaccio aveva l’immagine
nella corte ove avea passati i suoi più bei giorni, attingendo le sue ispirazioni in quel letame, sul quale le Muse e le Grazie sparsero tanti fiori. Un congegno simile
trovi già nell’Ameto, un decamerone pastorale: se non
che ivi i racconti sono allegorici e preordinati ad un fine
astratto: non c’è lo spirito della Divina Commedia, ma ce
n’è l’ossatura. Qui al contrario i racconti non hanno altro fine che di far passare il tempo piacevolmente, e sono veri mezzani di piacere e d’amore, il vero Principe
Galeotto, titolo italiano del novelliere, velato pudicamente da un titolo greco. I personaggi evocati nell’immaginazione da diversi popoli e tempi appartengono al-
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lo stesso mondo, vuoto al di dentro, corpulento al di
fuori. Personaggi, attori, spettatori e scrittore sono un
mondo solo, il cui carattere è la vita tutta al di fuori, in
una tranquilla spensieratezza.
Questo mondo è il teatro de’ fatti umani abbandonati
al libero arbitrio e guidati ne’ loro effetti dal caso. Dio o
la provvidenza ci sta di nome, quasi per un tacito accordo, nelle parole di gente caduta nella più profonda indifferenza religiosa, politica e morale. E non c’è neppure quella intima forza delle cose, che crea la logica degli
avvenimenti e la necessità del loro cammino; anzi l’attrattivo del racconto è proprio nell’opposto, mostrando
le azioni umane per il capriccio del caso riuscire a un fine affatto contrario a quello che ragionevolmente si potea presupporre. Nasce una nuova specie di maraviglioso, generato non dall’intrusione nella vita di forze
oltrenaturali sotto forma di visioni o miracoli, ma da
uno straordinario concorso di accidenti non possibili ad
essere preveduti e regolati. L’ultima impressione è che
signore del mondo è il caso. Ed è appunto nel vario
giuoco delle inclinazioni e delle passioni degli uomini
sottoposte a’ mutabili accidenti della vita che è qui il
deus ex machina, il dio di questo mondo.
E poichè la macchina è il maraviglioso, l’imprevisto, il
fortuito, lo straordinario, l’interesse del racconto non è
nella moralità degli atti, ma nella loro straordinarietà di
cause e di effetti. Non già che il Boccaccio sconosca il
mondo morale e religioso, ed alteri le nozioni comuni
intorno al bene od al male, ma non è questo di che si
preoccupa e che lo appassiona. Poco a lui rileva che il
fatto sia virtuoso o vizioso: ciò che importa è che possa
stuzzicare la curiosità con la straordinarietà degli accidenti e dei caratteri. La virtù, posta qui a fare effetto
sull’immaginazione, manca di semplicità e di misura, e
diviene anch’essa un istrumento del maraviglioso, condotta ad una esagerazione, che scopre nell’autore il vuo-
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to della coscienza ed il difetto di senso morale. Esempio
notabile è la Griselda, il personaggio più virtuoso di
quel mondo. La quale per mostrarsi buona moglie soffoca tutti i sentimenti della natura e la sua personalità e il
suo libero arbitrio. L’autore, volendo foggiare una virtù
straordinaria, che colpisca di ammirazione gli uditori,
cade in quel misticismo contro di cui si ribella e che
mette in gioco, collocando l’ideale della virtù femminile
nell’abdicazione della personalità, a quel modo che secondo l’ideale teologico la carne è assorbita dallo spirito
e lo spirito è assorbito da Dio. Si rinnova il sacrificio di
Abramo, e il Dio che mette la natura a così crudel prova
è qui il marito. Similmente la virtù in Tito e Gisippo è
collocata così fuori del corso naturale delle cose, che
non ti alletta come un esempio, ma ti stupisce come un
miracolo. Ma virtù eccezionali e spettacolose sono rare
apparizioni, e ciò che spesso ti occorre è la virtù tradizionale di tempi cavallereschi e feudali, una certa generosità e gentilezza di re, di principi, di marchesi, reminiscenze di storie cavalleresche ed eroiche in tempi
borghesi. La qual virtù è in questo, che il principe usa la
sua potenza a protezione de’ minori, e soprattutto degli
uomini valenti d’ingegno e di studi e poco favoriti dalla
fortuna, come furono Primasso e Bergamino, verso i
quali si mostrarono magnifici l’abate di Cligny e Can
Grande della Scala. Così è molto commendato il primo
Carlo d’Angiò, il quale, potendo rapire e sforzare due
bellissime fanciulle, figliuole di un ghibellino, amò meglio dotarle magnificamente e maritarle. La virtù in questi potenti signori è di non fare malvagio uso della loro
forza, anzi di mostrarsi liberali e cortesi. Già cominciava
in quel mondo a parer fuori una classe di letterati, che
viveva alle spese di questa virtù, celebrando con giusto
cambio una magnificenza, della quale assaporavano gli
avanzi. L’anima altera di Dante mal vi si piegava, nè gli
fu ultima cagione d’amarezza quel mendicare la vita a
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frusto a frusto e scendere e salire per le altrui scale. Ma i
tempi non erano più all’eroica, e il Petrarca si lasciava
dotare e mantenere da’ suoi mecenati, e il Boccaccio vivea de’ rilievi della corte di Napoli, comicamente imbestiato, quando il mantenimento non era dicevole a un
par suo, disposto da’ buoni o da’ cattivi cibi al panegirico o alla satira. Tale è il tipo di ciò che in questo mondo
boccaccevole è chiamato la virtù, una liberalità e gentilezza d’animo, che dalle castella penetra nelle città e fino
ne’ boschi, asilo de’ masnadieri, della quale sono esempio Natan, e il Saladino, e Alfonso, e Ghino di Tacco, e
il negromante di Ansaldo. Questo, se non è propriamente senso morale, è pur senso di gentilezza, che raddolcisce i costumi e spoglia la virtù del suo carattere teologico e mistico, posto nell’astinenza e nella sofferenza, le
dà aspetto piacevole, più conforme ad una società colta
e allegra. Vero è che siccome il caso, regolatore di questo mondo, ne fa di ogni maniera, talora l’allegria che vi
domina è funestata da tristi accidenti, che turbano il bel
sereno. Ma è una nuvola improvvisa, la quale presto si
scioglie e rende più cara la vista del sole, o come dice la
Fiammetta, è una «fiera materia, data a temperare alquanto la letizia». Volendo guardare più profondamente in questo fenomeno, osserviamo che la gioia ha poche
corde, e sarebbe cosa monotona, noiosa, e perciò poco
gioiosa, come avviene spesso ne’ poemi idillici, se il dolore non vi si gittasse entro con le sue corde più varie e
più ricche d’armonia, traendosi appresso un corteggio
di vivaci passioni, l’amore, la gelosia, l’odio, lo sdegno,
l’indignazione. Il dolore ci sta qui non per sè, ma come
istrumento della gioia, stuzzicando l’anima, tenendola in
sospensione e in agitazione, insino a che per benignità
della fortuna o del caso comparisce d’improvviso il sereno. E quando pure il fatto sorta trista fine, com’è in
tutt’i racconti della giornata quarta, l’emozione è superficiale ed esterna, esaltata e raddolcita in descrizioni, di-
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scorsi e riflessioni, e non condotta mai sino allo strazio,
com’è nel fiero dolore di Dante. Sono fugaci apparizioni
tragiche in questo mondo della natura e dell’amore, provocate appunto dalla collisione della natura e dell’amore
non con un principio elevato di moralità, ma con la virtù
cavalleresca, «il punto d’onore». Di che bellissimo
esempio, oltre il Gerbino, è il Tancredi, che testimone
della sua onta uccide l’amante della figliuola, e mandale
il cuore in una coppa d’oro: la quale, messa sopra esso
acqua avvelenata, quella si bee e così muore. Il motivo
della tragedia è il punto d’onore, perchè ciò che move
Tancredi è l’onta ricevuta, non solo per l’amore della figliuola, ma ancora più per l’amore collocato in uomo di
umile nazione. Ma la figliuola dimostra vittoriosamente
al padre la legittimità del suo amore e della sua scelta,
invocando le leggi della natura e il concetto della vera
nobiltà, posta non nel sangue, ma nella virtù; e l’ultima
impressione è la condanna del padre indarno pentito e
piangente sul morto corpo della figliuola, il quale apparisce non come giusto vendicatore del suo onore offeso,
ma come ribelle verso la natura e l’amore. L’effetto estetico è la compassione verso il padre e la figliuola, l’una
di alto animo, l’altro umano e di benigno ingegno, vittime tutti e due non per difetto proprio, ma per le condizioni del mondo in mezzo a cui vivono. La conclusione
ultima è la rivendicazione delle leggi della natura e
dell’amore verso gli ostacoli in cui s’intoppano. Sicchè la
tragedia è qui il suggello e la riprova del mondo boccaccevole, e il dolore fugace che vi fa la sua comparsa, presentato nella sua forma più mite e tenera, vicina alla
compassione, è come il condimento della gioia, a lungo
andare insipida, quando sia abbandonata a se stessa.
La base della tragedia è mutata. Non è più il terrore
che invade gli spettatori incontro a un fato incomprensibile che si manifesta nella catastrofe, come ne’ greci, e
neppure l’espiazione per le leggi di una giustizia supe-
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riore, come nell’inferno dantesco; ma è il mondo abbandonato alle sue forze naturali e cieche, nel cui conflitto
rimane l’amore come una specie di diritto superiore, incontro a cui tutti hanno torto. La natura, che nel mondo
dantesco è il peccato, qui è la legge, ed ha contro di sè
non un mondo religioso e morale, di cui non è vestigio,
ancorchè ammesso in astratto e in parola, ma la società
come si trova ordinata in quel complesso di leggi, di
consuetudini che si chiamano l’«onore». Il conflitto è
tutto però al di fuori nell’ordine de’ fatti prodotti dal diverso urto di queste forze e terminati dalla benignità o
malvagità del caso o della fortuna; e non sale a vera opposizione interna che sviluppi le passioni e i caratteri. Il
poeta non è un ribelle alle leggi sociali e tantomeno un
riformatore; prende il mondo com’è, e se le sue simpatie
sono per le vittime dell’amore, non biasima per ciò coloro che dall’onore sono mossi ad atti crudeli, anch’essi
degni di stima, vittime anch’essi. Così esalta Gerbino,
che volle romper la fede data dal re, suo zio, anzi che
mancare alle leggi dell’amore ed esser tenuto vile; ma
non biasima il re che lo fece uccidere, «volendo anzi
senza nipote rimanere, ch’essere tenuto re senza fede».
Ne nasce in mezzo all’agitazione de’ fatti esteriori una
calma interna, una specie di equilibrio, dove l’emozione
non penetra se non quanto è necessario a ravvivare e variare l’esistenza. Perciò in questo mondo borghese e indifferente e naturale la tragedia rimane esteriore e superficiale, naufragata qui come un frammento
galleggiante nella vastità delle onde. Il movimento non
ha radice nella coscienza, nelle forti convinzioni e passioni stimolate dal contrasto, ma si scioglie in un giuoco
di immaginazione, in una contemplazione artistica de’
vari casi della vita, che sorprendano e attirino la tua attenzione. Per dirla con un solo vocabolo comprensivo,
virtù e vizi qui non hanno altro significato che di «avventure», ovvero casi straordinari tirati in iscena dal ca-
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priccio del caso. Gli uditori non vi prendono altro interesse che di trovarvi materia a passare il tempo con piacere; e del loro piacere è mezzana la stessa virtù e lo stesso dolore.
Un mondo, il cui dio è il caso e il cui principio direttivo è la natura, non è solo spensierato e allegro, ma è anche comico. Già quel non prendere in nessuna serietà
gli avvenimenti e farne un giuoco di pura immaginazione, quell’intreccio capriccioso de’ casi, quell’equilibrio
interno che si mantiene sereno tra le più crudeli vicissitudini, sono il terreno naturale su cui germina il comico.
Un’allegrezza vuota d’intenzione e di significato è cosa
insipida, è appunto quel riso che abbonda nella bocca
degli stolti. Perchè il riso abbia malizia o intelligenza,
dee avere una intenzione e un significato, dee esser comico. E il comico dà a questo mondo la sua fisonomia e
la sua serietà.
Questa società è essa medesima una materia comica,
perchè niente è più comico che una società spensierata e
sensuale, da cui escono i tipi di don Giovanni e di Sancio Panza. Ma è una società che rappresentava a quel
tempo quanto di più intelligente e colto era nel mondo,
e ne aveva coscienza. Una società siffatta aveva il privilegio di esser presa sul serio da tutto il mondo e di poter
ridere essa di tutto il mondo. In effetti due cose serie sono in queste novelle, l’apoteosi dell’ingegno e della dottrina che si fa riconoscere e rispettare da’ più potenti signori, e una certa alterezza borghese che prende il suo
posto nel mondo e si proclama nobile al pari de’ baroni
e de’ conti. Questi sono i caratteri di quella classe a cui
apparteneva il Boccaccio, istruita, intelligente, che teneva sè civile e tutto l’altro barbarie. E il comico qui nasce
appunto da questo: è la caricatura che l’uomo intelligente fa delle cose e degli uomini posti in uno strato inferiore della vita intellettuale. La società colta aveva innanzi a
sè i frati ed i preti, o come dice il Boccaccio, le cose cat-
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toliche, orazioni, confessioni prediche, digiuni, mortificazioni della carne, visioni e miracoli; e dietro stava la
plebe con la sua sciocchezza e la sua credulità. Sopra
questi due ordini di cose e di persone il Boccaccio fa sonare la sferza.
Materia del comico è dunque l’efficacia delle orazioni, come il «paternostro» di san Giuliano, il modo di
servire Dio nel deserto, la vita pratica de’ frati, de’ preti
e delle monache in contraddizione con le loro prediche,
l’arte della santificazione insegnata a fra Puccio, i miracoli e le apparizioni de’ santi, come l’apparizione
dell’angelo Gabriello, e la semplicità della plebe, trastullo dei furbi. Visibile soprattutto è la reazione della carne
contro gli eccessivi rigori di un clero che proscriveva il
teatro e la lettura de’ romanzi, e predicava i digiuni e i
cilizi come la via al paradiso. È una reazione che si annunzia naturalmente con la licenza e il cinismo. La carne
scomunicata si vendica, e chiama «meccanici» i suoi
maldicenti, cioè gente che giudica grossamente secondo
l’opinione volgare. Così il mondo dello spirito in quelle
sue forme eccessive è divenuto per questa gente il mondo volgare. È immaginabile con che voluttà la carne dopo la lunga compressione si sfoghi, con che delizia ti
ponga innanzi ad uno ad uno i suoi godimenti, scegliendo i modi e le frasi più scomunicate, e talora volgendo a
senso osceno frasi e immagini sacre. È il mondo profano
in aperta ribellione, che ha rotto il freno e fa la caricatura al padrone, cadutogli di sella. Su questo fondo comico s’intreccia una grande varietà di accidenti, di cui sono gli eroi i due protagonisti immortali di tutte le
commedie, chi burla e chi si fa burlare, i furbi e i gonzi,
e di questi i più martoriati e i più innocenti, i mariti. E
fra tanti accidenti si sviluppa una grande ricchezza di caratteri comici, de’ quali alcuni sono rimasti veri tipi, come il cattivello di Calandrino e lo scolare vendicativo
che sa dove il diavolo tien la coda. I caratteri seri sono
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piuttosto singolarità che tipi, individui perduti nella minutezza ed eccezionalità della loro natura, come Griselda, Tito, il conte di Anguersa, madama Beritola, Ginevra e la Salvestra e l’Isabetta e la figlia di Tancredi. Ma i
caratteri comici sono la parte viva e intima e sentita di
questo mondo, e riflettono in sè fisonomie universali
che incontrate nell’uso comune della vita, come compar
Pietro e maestro Simone e fra Puccio e il frate montone
e il giudice squasimodeo e monna Belcolore e Tofano e
Gianni Lotteringhi, e tutte le varietà, perchè «infinita è
la turba degli stolti». Così questo mondo spensierato e
gioviale si disegna, prende contorni, acquista una fisonomia, diviene la «commedia umana».
Ecco, a così breve distanza, la commedia e l’anticommedia, la «Divina Commedia» e la sua parodia, la «commedia umana»! E sullo stesso suolo e nello stesso tempo
Passavanti, Cavalca, Caterina da Siena, voci dell’altro
mondo, soverchiate dall’alto e profano riso di Giovanni
Boccaccio. La gaia scienza esce dal suo sepolcro col suo
riso incontaminato; i trovatori e i novellatori, spenti da’
ferri sacerdotali, tornano a vita e ripigliano le danze e le
gioiose canzoni nella guelfa Firenze; la novella e il romanzo, proscritti, proscrivono alla lor volta e rimangono
padroni assoluti della letteratura. Certo, questo mutamento non viene improvviso, come appare un moto di
terra: lo spirito laicale è visibile in tutta la letteratura e si
continua con tradizione non interrotta, come s’è visto,
insino a che nella Divina Commedia prende arditamente
il suo posto e si proclama anch’esso sacro e di diritto divino, e Dante, laico, assume tono di sacerdote e di apostolo. Ma Dante il fa con tanta industria che tutto l’edificio stia in piedi e la base rimanga salda. La sua
«commedia» è una riforma; la «commedia» del Boccaccio è una rivoluzione, dove tutto l’edificio crolla e sulle
sue rovine escono le fondamenta di un altro.
La Divina Commedia uscì dal numero de’ libri viven-
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ti, e fu interpretata come un libro classico, poco letta,
poco capita, pochissimo gustata, ammirata sempre. Fu
divina, ma non fu più viva. E trasse seco nella tomba tutti quei generi di letteratura, i cui germi appaiono così vivaci e vigorosi ne’ suoi schizzi immortali, la tragedia, il
dramma, l’inno, la laude, la leggenda, il mistero. Insieme
perirono il sentimento della famiglia e della natura e della patria, la fede in un mondo superiore, il raccoglimento e l’estasi e l’intimità, le caste gioie dell’amicizia e
dell’amore, l’ideale e la serietà della vita. In questo immenso mondo, crollato prima di venire a maturità e produrre tutti i suoi frutti, ciò che rimase fecondo fu Malebolge, il regno della malizia, la sede della umana
commedia. Quel Malebolge, che Dante gitta nel loto, e
dove il riso è soverchiato dal disgusto e dalla indignazione, eccolo qui che mena sulla terra la sua ridda infernale, abbigliato dalle Grazie, e si proclama esso il vero paradiso, come capì don Felice e non capì il povero frate
Puccio. In effetti qui il mondo è preso a rovescio.
«Commedia» per Dante è la beatitudine celeste. «Commedia» pel Boccaccio è la beatitudine terrena, la quale
tra gli altri piaceri dà anche questo, di passare la malinconia spassandosi alle spalle del cielo. La carne si trastulla, e chi ne fa le spese è lo spirito.
Se la reazione contro uno spiritualismo esagerato e
lontanissimo dalla vita pratica fosse venuta da lotte vivaci nelle alte regioni dello spirito, il movimento sarebbe
stato più lento o più contrastato, come negli altri popoli,
ma insieme più fecondo. Il contrasto avrebbe fortificata
la fede negli uni e le convinzioni negli altri, e generata
una letteratura piena di vigore e di sostanza, alla quale
non sarebbe mancata nè la passione di Lutero, nè l’eloquenza di Bossuet, nè il dubbio di Pascal, nè le forme
letterarie possibili solo dove la vita interiore è forte e sana. Così il movimento sarebbe stato insieme negativo e
positivo, il distruggere sarebbe stato insieme l’edificare.
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Ma le audacie del pensiero punite inesorabilmente,
troncata col sangue l’opposizione ghibellina, rimaso il
papato arbitro e vicino e sospettoso e vigile, quel mondo
religioso così corrotto ne’ costumi, come assoluto nelle
dottrine e grottesco nelle forme, al contatto con una coltura così rapida e con lo spirito fatto adulto e maturo
dallo studio degli antichi scrittori, non potè esser preso
sul serio dalla gente colta, che pure è quella che ha in
mano l’indirizzo della vita nazionale. Nacque a questo
modo la scissura tra la gente colta e tutto il rimanente
della società, che pure era la gran maggioranza, rimasa
passiva e inerte in mano al prete di Varlungo, a donno
Gianni, a frate Rinaldo e a frate Cipolla. Sicchè per la
gente istruita quel mondo divenne il mondo del volgo, o
de’ meccanici, e saperne ridere era segno di coltura: ne
ridevano anche i chierici che volevano esser tenuti uomini colti. Così coesistevano l’una accanto all’altra due
società distinte, senza troppo molestarsi. La libertà del
pensiero era negata; vietato mettere in dubbio la dottrina astratta; ma quanto alla pratica, era un altro affare, si
viveva e si lasciava vivere, trastullandosi tutti e sollazzandosi nel nome di Dio e di Maria. Gli stessi predicatori
ne davano esempio, cercando di divertire il pubblico
con motti e ciance ed iscede; cosa che al buon Dante
muoveva lo stomaco, e che faceva ridere il Boccaccio,
scrivendo nella conclusione del suo Novelliere: «se le
prediche de’ frati per rimorder delle lor colpe gli uomini
il più oggi piene di motti e di ciance e di scede si veggono, estimai che quegli medesimi non stesser male nelle
mie novelle, scritte per cacciar la malinconia delle femmine.»
L’indignazione di Dante era caduta: sopravvenne il riso,
come di cose oramai comuni. Non si move la bile se non
in quelli che credono e veggono profanata la loro credenza ne’ fatti: è la bile de’ santi e di tutti gli uomini di
coscienza. Ma quella colta società, vuota di senso reli-
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gioso e morale, non era disposta a guastarsi la bile per i
difetti degli uomini. Le «sfacciate donne fiorentine» qui
allettano e lasciviano e fanno «quadri viventi», come si
dice e si fa oggidì. Il traffico delle cose sacre, occasione
allo scisma della credente Germania, e che Dante nella
nobile ira sua chiama «adulterio», qui è materia di amabili frizzi, senza fiele e senza malizia. La confessione suggerisce l’idea di equivoci molto ridicoli, ne’ quali sono i
laici e le laiche, che la fanno a’ preti, uomini «tondi» e
«grossi», come si mostra nel confessore di ser Ciappelletto, e nel frate Bestia, carattere comico de’ meglio disegnati. Il foggiar miracoli, come quel di Masetto l’ortolan
Alberto o di frate Cipolla, il fabbricar santi e renderli
miracolosi, come è di ser Ciappelletto, è rappresentato
con l’allegria comica di gente colta e incredula. Profanazioni simili fanno ridere, perchè le cose profanate non
ispirano più riverenza.
Questa società tal quale, sorpresa calda calda nell’atto
della vita, è trasportata nel Decamerone: quadro immenso della vita in tutte le sue varietà di caratteri e di accidenti i più atti a destare la maraviglia, sul quale spicca
Malebolge tirato dall’inferno e messo sul proscenio, il
mondo sensuale e licenzioso della furberia e della ignoranza, entro cui si move senza mescolarvisi un mondo
colto e civile, il mondo della cortesia, riflesso di tempi
cavallereschi, vestito un po’ alla borghese, spiritoso, elegante, ingegnoso, gentile, di cui il più bel tipo è Federigo degli Alberighi. Gli abitanti naturali di questo mondo sono preti e frati e contadini e artigiani e umili
borghesi e mercatanti, con un corteggio femminile corrispondente, e le alte risa plebee di questo perpetuo carnevale coprono le donne e i cavalieri, le armi e gli amori,
le cortesie e le imprese di quel mondo dello spirito, della coltura, dell’ingegno e della eleganza, allegro anch’esso, ma di un’allegrezza costumata e misurata, magnifico
negli atti, avvenente nelle forme, e nel parlare e ne’ modi
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decoroso. Questi due mondi, le cui varietà si perdono
nello sfondo del quadro, vivono insieme, producendo
un’impressione unica e armonica di un mondo spensierato e superficiale, tutto al di fuori nel godimento della
vita, menato in qua e in là da’ capricci della fortuna.
Questo doppio mondo così armonizzato nelle sue varietà riceve la sua intonazione dall’autore e dalla lieta
brigata che lo introduce in iscena. L’autore e i suoi novellatori appartengono alla classe colta e intelligente. Essi invocano spesso Dio, parlano della Chiesa con rispetto, osservano tutte le forme religiose, fanno vacanza il
venerdì, perchè in quel giorno il nostro Signore per la
«nostra vita morì», cantano canzoni platoniche e allegoriche, e menano vita allegra, ma costumata e quale a
gentili persone si richiede. Lo spirito, l’eleganza, la coltura, le muse rendono questa società amabile, come oggi
si riscontra ne’ circoli più eleganti. Specchio suo è quel
mondo della cortesia, reminiscenza feudale abbellita
dalla coltura e dallo spirito, alla cui immagine si dipinge
la colta e ricca borghesia. E come quel mondo feudale
avea i suoi buffoni e giullari, questa società ha anch’essa
chi la rallegri. E i suoi buffoni e giullari sono quell’infinito mondo che le si schiera innanzi preti, frati, contadini, artigiani, di cui prende spasso, traendo piacere così
dai babbei come dai furbi. In questo comico non ci è
punto una intenzione seria e alta, come correggere i pregiudizi, assalire le istituzioni, combattere l’ignoranza,
moralizzare, riformare: nel che sta la superiorità del comico di Rabelais e di Montaigne, che è la reazione del
buon senso contro un mondo artificiale e convenzionale. Lì il riso è serio, perchè lascia qualche cosa nella coscienza; qui il riso è per il riso, per passare malinconia,
per cacciare la noia. Quel mondo plebeo è guardato come fa un pittore il modello, senz’altra intenzione che di
pigliarne i contorni e i lineamenti e mettere in vista ciò
che può meglio trastullare la nobile brigata. Nell’im-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
menso naufragio sopravviveva la coscienza letteraria e il
sentimento artistico fortificato dallo spirito e dalla coltura; ed è da quella coscienza che sono usciti questi capolavori, modelli idealizzati a uso e piacere di una società
intelligente e sensuale dal geniale artista, idolo delle giovani donne a cui sono intitolati.
L’ideale comico rimasto come il suggello dell’immortalità su questi modelli è nella rappresentazione diretta
di questa società così com’è, nella sua ignoranza e nella
sua malizia messa al cospetto di una società intelligente,
che sta lì a bella posta per applaudire e batter le mani. Il
motivo comico non esce dal mondo morale, ma dal
mondo intellettuale. Sono uomini colti che ridono alle
spalle degli uomini incolti, che sono i più. Perciò il carattere dominante che rallegra la scena è una certa semplicità di spirito di nature inculte, messa in risalto quando si trova a contatto con la furberia: ciò che costituisce
il fondo del carattere sciocco. Con la sciocchezza è congiunta spesso la credulità, la vanità, la millanteria, la volgarità de’ desidèri. La furberia dà il rilievo a questo carattere, sì che lo metta in vista nel suo aspetto ridicolo.
Ma la furberia è anch’essa comica, non certo allo sciocco, ma agl’intelligenti uditori che la comprendono. Così
i due attori concorrono ciascuno per la parte sua a produrre il riso. Qui è il fondamento della commedia boccaccevole. Si vede la coltura in quel suo primo fiorire
mostrar coscienza di sè, volgendo in gioco l’ignoranza e
la malizia delle classi inferiori. Il comico ha più sapore
quando i beffati sono quelli che ordinariamente beffano,
quando cioè i furbi, che burlano i semplici, sono alla lor
volta burlati dagl’intelligenti, com’è il confessore burlato dalla sua penitente.
Il comico talora vien fuori per un improvviso motto o
facezia, che illumina tutta una situazione e provoca il riso di un tratto e irresistibilmente: ciò che oggi si direbbe
un «tratto di spirito». Sono brevi novelle, il cui sapore,
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come nel sonetto, è tutto nella chiusa. Di questo genere
è la novella del giudeo, che guardando a Roma la corruzione cristiana, si converte al cristianesimo. La chiusa
sopraggiunge così improvvisa e così disforme alle premesse, che l’effetto è grande. E ce n’è parecchie altre di
questo stampo, e non molto felici, perchè l’autore lavora
sopra un motto già trovato e noto. Tali sono le novelle
della marchesana di Monferrato, di Guglielmo Borsiere
e di maestro Alberto. Questi fuochi incrociati di motti e
di frizzi, che brillano con tanto splendore ne’ circoli eleganti e bastano ad acquistarti riputazione di uomo di
spirito, sono la parte più appariscente, ma più elementare dello spirito. La fucina dove si fabbricavano motti, facezie, proverbi, epigrammi, frizzi, era la scuola de’ trovatori e della «gaia scienza». Moltissimi di questi motti
si erano già accasati nel dialetto fiorentino, e con molti
altri usciti dall’immaginazione di un popolo così svegliato e arguto. Il Decamerone ne è seminato. Ma questi
motti, appunto perchè entrati già nel corpo della lingua,
non sono altro che parole e frasi, un dizionario morto, e
raccoglierli e infilarli, come fa il Burchiello, non è da uomo di spirito. Sono i colori del comico, non sono il comico esso medesimo. Sono il patrimonio già acquistato
dello spirito nazionale, e perciò mancanti di quella freschezza e di quell’imprevisto che è la qualità essenziale
dello spirito; nè possono conseguire un effetto estetico
se non associandosi a qualche cosa di nuovo e d’inaspettato, trovato allora allora che ti vengono sotto la penna.
Ciò fa che il Burchiello è insipido, e il Boccaccio è spiritoso; perchè per il Boccaccio i motti e i frizzi non sono
scopo a sè stessi, ma un semplice mezzo di stile, il colorito.
Lo spirito nel suo senso elevato è nel comico quello
che il sentimento è nel serio, una facoltà artistica. E come il sentimento, così lo spirito è un grande condensatore, dando una velocità di percezione che ti faccia coglie-
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re di un tratto sotto contrarie apparenze il simile o il dissimile. Dove la sagacia giunge per via di riflessione, lo
spirito giunge di un salto e intuitivamente. I figli di Ugolino nell’esaltazione del sentimento dicono: «Tu ne vestisti queste misere carni e tu le spoglia». Qui il sentimento opera nel serio quello che nel comico lo spirito;
congiunge improvvisamente e in una sola frase idee e
immagini diverse. Ma per giungere a questa produzione
geniale è necessario che lo spirito sia anch’esso un sentimento, il sentimento del ridicolo, cioè a dire che stando
in mezzo al suo mondo ne provi tutte le emozioni, e ci
viva entro e ci si spassi, pigliandovi lo stesso interesse
che altri piglia nelle cose più serie della vita. Pure l’emozione dee esser quella di uno spettatore intelligente, anzi
che di un attore mescolato in mezzo a’ fatti, sì che tu
guardi quella calma e prontezza e presenza di animo,
che ti tenga superiore allo spettacolo: ond’è che il vero
uomo di spirito fa ridere e non ride, lui. È questa calma
superiore che rende lo spirito padrone del suo mondo e
glielo fa foggiare a sua guisa, annodando le fila, sviluppando i caratteri, disegnando le figure, distribuendo i
colori.
Lo spirito del Boccaccio è meno nell’intelletto che
nell’immaginazione, meno nel cercar rapporti lontani
che nel produrre forme comiche. Lo studio che i suoi
antecessori pongono a spiritualizzare, lui lo pone a incorporare. E cerca l’effetto non in questo o quel tratto,
ma nell’insieme, nella massa degli accessorii tutti stretti
come una falange. Gli antecessori fanno schizzi: egli fa
descrizioni. Quelli cercano l’impressione più che l’oggetto: egli si chiude e si trincera nell’oggetto e lo percorre e rivolta tutto. Perciò spesso hai più il corpo e meno
l’impressione; più sensazione che sentimento; più immaginazione che fantasia; più sensualità che voluttà. Mancano i profumi a’ suoi fiori, mancano i raggi alla sua luce. È una luce opaca, per troppa densità e ripetizione di
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se stessa. Questa maniera nelle cose serie è insopportabile, come nel Filocolo e nell’Ameto, con quelle interminabili descrizioni e orazioni, dove ti senti come arenato
e che non vai innanzi, E ti offende anche talora nel Decamerone, quando per esempio si fa parlare Tito o la figliuola di Tancredi con tutte le regole della rettorica e
della logica. Ma nel comico questa maniera è una delle
sue forme più naturali, e la prima a comparire nell’arte
dopo quella esplosione rudimentale di motti e di proverbi. Perchè il comico è il regno del finito e del senso, e
le prime sue impressioni sono singolarizzate nelle minute pieghe degli oggetti; dove nel serio le prime impressioni ti danno allegorie e personificazioni, forme generalizzate nell’intelletto. Questa prima forma del comico è
la caricatura.
La quale è la rappresentazione diretta dell’oggetto,
fatta in modo che sia messo in vista il suo lato difettoso e
ridicolo. Certo, basterebbe metterti sott’occhio il difetto
e lasciarti indovinare tutto il resto. Un solo tratto di spirito illumina tutto il corpo e te lo presenta all’immaginazione. Ma il Boccaccio non se ne contenta, e come fa il
pittore, ti disegna tutto il corpo, scegliendo e distribuendo in modo gli accessorii e i colori, che ne venga maggior luce sul lato difettoso. Di che nasce che il ridicolo
non rimane isolato su quel punto, ma si spande su tutta
l’immagine, di cui ciascuna parte concorre all’effetto,
apparecchiando, graduando e producendo una specie di
«crescendo» nella scala del comico. Il riso, perchè vi sei
ben preparato e disposto, di rado ti viene improvviso e
irresistibile, come in quei brevi tratti che ti presentano
rapporti inaspettati, anzi spesso più che riso è una gioia
uguale che ti tiene in uno stato di pacata soddisfazione.
Non ridi, ma hai la faccia spianata e contenta, e ti si vede
il riso sotto le guance, non tale però che debba per forza
scattar fuori in quella forma contratta e convulsa. Il quale effetto nasce da questo, che l’autore non ti presenta
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una serie di rapporti usciti dall’intelletto, ma una serie
di forme uscite dall’immaginazione. E sono forme piene,
carnose, togate, minutamente disegnate. L’autore, come
obbliato in questo mondo dell’immaginazione, ha aria
di non aggiungervi niente del suo, egli che ne è il mago.
E tu ci stai dentro come incantato. L’autore non si distrae mai, non mette il capo fuori per fare una smorfia
che provochi il riso, non tratta il suo argomento come
cosa frivola, e piglia e lascia e torna. Quella è la sua idea
fissa, e lo incalza e lo tiene e tiraselo appresso, e non gli
dà fiato, se non sia uscita tutta fuori. E tu non ti distrai,
ti senti come dondolato deliziosamente nella tua contemplazione, nè il riso, che talora ti coglie, t’interrompe,
chè subito ti ci rituffi entro, e corri e corri, e il corso è finito, e tu corri ancora dolcemente naufragato. Ma non è
il mondo orientale, dove l’immaginazione, quasi fatta
ebbra dall’oppio, salta fremente dalle braccia dell’amore
pe’ vasti campi dell’infinito e ti fa provare quel sentimento che dicesi voluttà, e che è l’infinito nel senso,
quel vago e indefinito e musicale che tra gli abbracciamenti ti rivela Dio. Questo è un mondo prettamente
sensuale, chiuso e appagato in forme precise e rotonde,
da cui niente è che ti stacchi e ti rapisca in alte regioni.
Appunto perchè questi fiori non mandano profumi e
queste luci non gittano raggi, tu hai sensazioni e non
sentimenti, immaginazione e non fantasia, sensualità e
non voluttà. Il rêve scompare. L’estasi non tiene più assorti i tuoi sguardi. Hai trovato già il tuo paradiso in
quella realtà piena e attraente. Diresti che la carne in
questo suo primo riapparire nel mondo ti si sveli nel suo
tripudio tutta nuda, ed empia di lusinghe e di vezzi il
tuo paradiso. Perciò la forma di questo paradiso è cinica, anche più dove un senso ironico di modestia è una
civetteria che riaccende il senso.
Poichè la forma di questo mondo è la caricatura, uscita da una immaginazione abbondante, minuta disegna-
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trice, hai innanzi non punte e rialzi, ma l’oggetto intero
nelle sue più fine gradazioni. Breve ne’ preliminari e nella dipintura astratta di personaggi, l’autore alza subito il
sipario, e ti trovi in piena azione che si movono e parlano. E già fin da’ primi lineamenti ti balza innanzi il motivo comico, che ti si sviluppa a poco a poco per via di
gradazioni, l’una entrata nelle altre con effetto crescente. Il Boccaccio vi spiega quella qualità che i francesi,
mirando alla forza nel suo calore e nella sua facilità,
chiamano «verve», e noi chiamiamo «brio», mirando alla forza nella sua allegra genialità. Di che maraviglioso
esempio è la novella di Alibech, e l’altra di ser Ciappelletto. A render più piccante la caricatura serve l’ironia,
che qui è forma non sostanziale, ma accessoria. Ed è
un’apparente bonomia, un’aria d’ingenuità, con la quale
il narratore fa il pudico e lo scrupoloso, e non vuol dire
e pur dice, e non vuol credere e pur crede, e si fa la croce con un sogghigno. Questa ironia è come una specie di
sale comico, che rende più saporito il riso a spese del
«paternostro» di san Giuliano e de’ miracoli di ser Ciappelletto.
Essendo base di questo mondo la descrizione, cioè
l’oggetto non ne’ suoi raggi e ne’ suoi profumi, cioè a dire nelle sue impressioni, ma nel suo corpo singolarizzato
ed individuato, ha bisogno di forme piene e ricche, e così nascono le due forme della nuova letteratura, l’ottava
rima nella poesia e il periodo nella prosa.
Abbiamo già vista la nona rima svilupparsi con magnificenza orientale nel poema l’Intelligenzia. L’ottava
rima non è inventata dal Boccaccio, come non è sua invenzione il periodo. Ma è lui che le dà un corpo e l’intonazione. Prima di lui l’ottava rima è un accozzamento
slegato e fortuito, dove diversi oggetti sono ficcati insieme a caso, che potrebbero assai bene star da sè. Stanno
lì dentro oggetti nudi, non ci e un solo oggetto sviluppato e addobbato. L’ottava rima è un meccanismo, non è
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ancora un organismo. Il Boccaccio ha fatto dell’ottava
una totalità organica, ed è l’oggetto che si sviluppa a poco a poco nelle sue gradazioni. Ben trovi ne’ suoi poemi
ottave felici; ma in generale elle sono impigliate, mal costruite, e in sul più bello ti cascano. Nel genere eroico ti
riesce sforzato e teso; nel genere idillico ti riesce volgare
e abbandonato. Gli è che l’ottava, nell’ampiezza e magnificenza delle sue costruzioni, è la maggiore idealità
della forma poetica e richiede un’attività geniale che
manca al Boccaccio, errante in un mondo artificiale e
convenzionale. Il difetto è tutto al di dentro, nell’anima;
ciò che freddamente è concepito, nasce debole e mal
congegnato, e non ci vale artificio.
Qui al contrario l’autore è a casa sua: pinge un mondo, in cui vive, a cui partecipa con la più grande simpatia, e tutto in esso, gitta via ogni involucro artificiale. Ci
è in lui qualche cosa più che il letterato, ci è l’uomo che
vi guazza entro e vi si dimena e vi si strofina e vi lascivia.
E n’esce una forma, che è quel mondo esso medesimo,
di cui sente gli stimoli nella carne e nell’immaginazione.
Così è venuta fuori quella forma di prosa, che si chiama
il «periodo boccaccevole».
A quel tempo il grande movimento letterario che aveva il suo centro a Firenze si era di poco allargato fuori di
Toscana. La restaurazione dell’antichità che presentava
all’immaginazione nuovi orizzonti, il mondo greco che
allora spuntava appena, involto in quel vago chiaroscuro
che accresce le illusioni, tirava a sè l’attenzione La lingua di Dante non era ancora lingua italiana: la chiamavano «idioma fiorentino». La lingua era sempre il latino,
nè era mutata l’opinione che di sole cose frivole e amorose si potesse scrivere in «latino volgare», come si chiamavano i dialetti. Il Boccaccio dice di sè che scrive in
«idioma fiorentino», e quelli che usavano il volgare dice
che scrivevano in «latino volgare». Il tipo di perfezione
era sempre il latino, e l’ideale vagheggiato dalla classe
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erudita era un volgare nobile o illustre, secondo quel
modello configurato, un volgare alzato a quella stessa
perfezione di forma. Questo tentò Dante nel Convito,
con piena fede che il volgare fosse acconcio ad esprimere le più gravi speculazioni della scienza non altrimenti
che il latino, e quello scolastico latino volgare o «volgare
latino», nudo e tutto ossa e nervi, parve per la prima volta magnificamente addobbato nelle larghe pieghe della
toga romana. Ma la pece scolastica s’era appiccata anche
a Dante, e quella barbarie delle scuole sta così in quelle
ampie forme a disagio, come un contadino vestito a festa in abito cittadinesco. Non ci è fusione, ci è punte e
contrasti.
Il Boccaccio non era uscito dalle scuole, e quando più
tardi studiò filosofia e un po’ anche teologia, il suo spirito era già formato nell’esperienza della vita comune,
nell’uso del suo volgare e nello studio de’ classici. Come
il Petrarca, ha in abbominio gli scolastici, ne’ quali vede
proprio il contrario di quella elegante coltura greca e romana, vede la barbarie e la rozzezza. Regnano nel suo
spirito, divinità, Virgilio e Ovidio e Livio e Cicerone, e
non ci è Bibbia che tenga, e non ci è san Tommaso.
Quando vuol dipingere alcun lato serio, morale o scientifico, del suo mondo, la sua imitazione è un artificio
esterno e meccanico, perchè ha più immaginazione che
sentimento e più intelletto che ragione. La sua forma è
decorosa, nobile, spesso disimpacciata, ma troppo uguale e placida, e talora ti fa sonnecchiare. Il periodo è un
rumor d’onde uniforme, mosse faticosamente da mare
stanco e sonnolento. Manca l’ispirazione, supplisce la
rettorica e la logica. Il che avviene, perchè il Boccaccio
separato dalle immagini e gittato nel vago del sentimento o nell’astratto del discorso, perde il piede e va giù.
Tratta le idee come fossero corpi, e analizza e minuteggia che è uno sfinimento. Le idee sono luoghi comuni
annacquati in un viavai di piccoli e oziosi accessorii, di-
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stinzioni, riserve, condizioni, «se», «ma», «avvegnachè»
e «conciossiacosachè». Uno studio soverchio di esattezza, una notomia minuta di ogni pensieruzzo mette più in
vista la volgarità e insipidezza dell’idea. La forma si stacca visibilmente dalla cosa, e appare un meccanismo ingegnoso, lavorato accuratamente e sempre quello. Cosa
c’è sotto? Il luogo comune. Questo fu chiamato più tardi forma letteraria. E non c’è cosa più contraria alla
scienza, che è parola e non frase, e mal si riconosce nelle
circonlocuzioni, nelle perifrasi e ne’ pleonasmi. In questo artificio ci è un progresso: ci è quell’arte de’ nessi e
delle gradazioni, che mancava alla prosa, e rivela uno
spirito adulto, educato dai classici. Ma ci è il difetto opposto, un volere di ogni idea fare una catena cominciata
e terminata in sè, ciò che è un pantano, e non acqua corrente. Il Boccaccio odia gli scolastici; ma il suo periodo
non è che sillogismo mascherato, una frase generica, come «umana cosa è aver compassione degli affiitti», che
per molti andirivieni riesce in qualche volgare moralità.
Il formulario è divenuto un meccanismo ben congegnato; ma il fondo è lo stesso. Vedi lo scolastico vestito a
nuovo e più alla moda. Se l’ampio giro del periodo boccaccevole è una catena artificiale dove la scienza perde
la sua semplicità ed elasticità e la sua libertà di movimento, non è meno assurdo nell’espressione del sentimento, la forza più libera e indisciplinabile dello spirito,
che spezza tutti i legami della logica e sbalza fuori con
rapidità. I bruschi e tragici movimenti dell’animo qui
sono come cristallizzati tra congiunzioni, parentesi e ragionamenti. Manca ogni subbiettività: ti è difficile guardare al di dentro nella coscienza; i casi sono straordinari,
i fatti interessanti, le situazioni drammatiche, e non ti
viene la lacrima, e non ti senti commosso, perchè l’anima non si manifesta che in frasi comuni e rigirate. Veggasi la novella di madama Beritola, e l’altra del conte
d’Anguersa, ove tra’ più pietosi accidenti e mutazioni
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della fortuna non si muta la forma, sempre attillata e
guantata. Pure, qua e là si sente una certa non dirò commozione, ma emozione di una immaginazione calda, e
n’escono movimenti sentimentali, come nelle ultime parole della figliuola di Tancredi e in alcuni tratti della
Griselda.
Questa forma di periodo, che si affà così poco alla
scienza e al sentimento, dove appare un mero meccanismo foggiato alla latina, acquista senso e moto, quando
il teatro della vita è nell’immaginazione, cioè a dire
quando l’autore si trova nel vivo dell’azione, non con
idee e sentimenti, ma con oggetti innanzi ben determinati. Tale è la descrizione della peste, o del combattimento di Gerbino. Perchè il fatto non è come l’idea,
uno e semplice, ma come il corpo, è un multiplo, un insieme di circostanze e di accessorii. Questo insieme è il
periodo, il quale nella sua evoluzione è ciò che in pittura
si chiama «un quadro». Aggruppare le circostanze, subordinarle, coordinarle intorno ad un centro, ombreggiare, lumeggiare, è arte somma nel Boccaccio. La descrizione, quando sta per sè, in astratto e separata
dall’azione, non riscalda abbastanza l’immaginazione e
riesce fronzuta, com’è spesso nelle introduzioni. Ma
quando ci è qualche cosa che si move e cammina, e rassomiglia ad un’azione, l’immaginazione si mette in moto
anche lei, e assiste pacata allo spettacolo, disegnando e
facendo quadri in quelle larghe forme che si chiamano
periodi. Questa maniera di narrare a quadri non è certo
l’andamento naturale dell’azione, che perde l’impeto e
l’attrito, arrestata ne’ suoi movimenti più rapidi dall’occhio tranquillo di una immaginazione disegnatrice. E
perciò non è maniera conveniente alla storia, e non è
prosa, ma è arte in forma prosaica, e narrazione poetica.
Que’ quadri e periodi ti danno non pur l’ordine e il legame e il significato de’ fatti, ma le movenze, le attitudi-
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ni, le gradazioni: onde nasce quell’effetto d’insieme che
dicesi «fisonomia» o «espressione».
Ma dove il periodo boccaccevole diviene una creazione sui generis, un organismo vivente, è nel lato comico e
sensuale del suo mondo. E non è già che vi adoperi maggiore artificio o finezza; ma è che qui ci è la musa, vale a
dire tutto un mondo interiore, la malizia, la sensualità, la
mordacità, un vero sentimento comico e sensuale. Ed è
questa sentimentalità, la sola che la natura abbia concessa al Boccaccio, che penetra in quei flessuosi giri della
forma e ne fa le sue corde. Il suo periodo è una linea
curva che serpeggia e guizza ne’ più libidinosi avvolgimenti, con rientrature e spezzamenti e spostamenti e
riempiture, e sono vezzi e grazie, o civetterie di stile, che
ti pongono innanzi non pur lo spettacolo nella sua chiarezza prosaica, ma il suo motivo sentimentale e musicale. Quelle onde sonore, quelle pieghe ampie della forma
latina, piena di gravità e di decoro, dove si sente la maestà e la pompa della vita pubblica, trasportata dal foro
nelle pareti di una vita privata oziosa e sensuale, diventano i lubrici volteggiamenti del piacere stuzzicato dalla
malizia. In bocca a Tito, a Gisippo senti la rettorica imitazione di un mondo fuori della coscienza: l’aria è pur
quella, ma cantata da un borghese che non ne ha il sentimento e sbaglia spesso il motivo. Qui al contrario, in
questo mondo erotico e malizioso, hai la stess’aria, penetrata da un altro motivo che la soggioga e se l’assimila;
e quelle forme magniloquenti che arrotondivano la bocca degli oratori, arrotondiscono il vizio e gli danno gli
ultimi finimenti e allettamenti. I latini nell’espressione
del comico gittavano via le armi pesanti e vestivano alla
leggiera: il Boccaccio concepisce come Plauto, e scrive
come Cicerone. Pure il suo concepire è così vivo e vero,
che Cicerone si trasforma nella sua immaginazione in
una sirena vezzosa che tutta in sè si spezza e si dimena.
Ma spesso, tutto dentro nel soggetto, gitta via i viluppi e
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i contorcimenti, e salta fuori snello, rapido, diritto, incisivo. Maestro di scorciatoie e di volteggiamenti, la sua
immaginazione covata da un sentimento vero spazia come padrona tra forme antiche e moderne, e le fonde e
ne fa il suo mondo, e vi lascia sopra il suo stampo. Sarebbe insopportabile questo mondo e profondamente
disgustoso, se l’arte non vi avesse profuse tutte le sue veneri, inviluppando la sua nudità in quelle ampie forme
latine, come in un velo agitato da venti lascivi. L’arte è la
sola serietà del Boccaccio, sola che lo renda meditativo
fra le orgie dell’immaginazione e gli corrughi la fronte
nella più sfrenata licenza, come avveniva a Dante e al
Petrarca nelle loro più alte e pure ispirazioni. Di che è
uscito uno stile dove si trovano fusi i vari uomini che vivevano in lui, il letterato, l’erudito, l’artista, il cortigiano,
l’uomo di studio e di mondo, uno stile così personale,
così intimo alla sua natura e al suo secolo, che l’imitazione non è possibile, e rimane monumento solitario e colossale fra tante contraffazioni.
Che cosa manca a questo mondo?
Mondo della natura e del senso, gli manca quel sentimento della natura e quel profumo voluttuoso che gli
darà il Poliziano.
Mondo della commedia, gli manca quell’alto sentimento comico nelle sue forme umoristiche e capricciose
che gli darà l’Ariosto.
E che cosa è questo mondo?
È il mondo cinico e malizioso della carne, rimasto nelle
basse sfere della sensualità e della caricatura spesso
buffonesca, inviluppato leggiadramente nelle grazie e
ne’ vezzi di una forma piena di civetteria, un mondo plebeo che fa le fiche allo spirito, grossolano ne’ sentimenti,
raggentilito e imbellettato dall’immaginazione, entro del
quale si move elegantemente il mondo borghese dello
spirito e della coltura con reminiscenze cavalleresche.
È la nuova «Commedia», non la «divina», ma la «ter-
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restre Commedia». Dante si avvolge nel suo lucco e sparisce dalla vista. Il medio evo con le sue visioni, le sue
leggende, i suoi misteri, i suoi terrori e le sue ombre e le
sue estasi, è cacciato dal tempio dell’arte. E vi entra rumorosamente il Boccaccio e si tira appresso per lungo
tempo tutta l’Italia.
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L’ULTIMO TRECENTISTA
L’ ultima voce di questo secolo è Franco Sacchetti, l’uomo «discolo e grosso». Di mezzana coltura, d’ingegno
poco al di là del comune, ma di un raro buon senso, di
poca iniziativa e originalità, ma di molta se.nplicità e naturalezza, era nella sua mediocrità la vera eco del tempo.
Gli facea cerchio la turba de’ rimatori, ripetizione stanca
del passato, il lucchese Guinigi e Matteo da San Miniato, e Antonio da Ferrara, e Filippo Albizi, e Giovanni
d’Amerigo, e Francesco degli Organi, e Benuccio da Orvieto, e Antonio da Faenza, e Astorre pur da Faenza, e
Antonio Cocco, e Angelo da San Geminiano, e Andrea
Malavolti, e Antonio Piovano, e Giovanni da Prato, e
Francesco Peruzzi, e Alberto degli Albizi, e Benzo de’
Benedetti, che lo chiama «eroe gentile», e parecchi altri.
E il nostro eroe gentile riceveva e mandava sonetti, cambiando lodi con lodi. Ultime voci de’ trovatori italiani.
Luoghi comuni e forma barbara annunziano un mondo
tradizionale ed esaurito. Ci trovi anche sentimenti morali e religiosi, ma insipidi e freddi come un’avemaria ripetuta meccanicamente tutt’i giorni. Per questo lato il Sacchetti continua il passato, fa perchè gli altri fanno, pensa
così, perchè gli altri così pensano, piglia il mondo come
lo trova, senza darsi la pena di esaminarlo. Questa è la
sua parte morta. Ma ci è una parte viva, quella a cui partecipa, e che suona nel suo spirito, quella in cui apparisce la sua personalità. Ed è appunto quel mondo di cui il
Boccaccio è così vivace espressione.
Franco è il «vero uomo della tranquillità». Il Boccaccio sdegnava l’epiteto, e talora voleva sonare la tromba e
rappresentare azioni e passioni eroiche. Franco non ha
pretensioni, e si mostra com’è, ed è contento di esser così. È uomo stampato all’antica, in tempi corrotti, buon
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
cristiano e insieme nemico degl’ipocriti e mal disposto
verso i preti e i frati, diritto ed intero nella vita, alieno
dalle fazioni, benevolo a tutti, talora mordace, ma senza
fiele, modesto estimatore di sè e lontanissimo di mettersi allato a’ grandi poeti di quel tempo, che erano, secondo lui e i contemporanei, Zanobi da Strada, il Petrarca e
il Boccaccio. Quali erano i desidèri del nostro brav’uomo? Menare una vita tranquilla e riposata; ed era il più
contento uomo del mondo, quando in villa o in città potea darsi buon tempo fra le allegre brigate, motteggiando, novellando, sonetteggiando. Ci è in lui dell’idillico e
del comico. Ama la villa, perchè in città
mal vi si dice, e di ben far vi è caro;
e nelle sue cacce, nelle sue ballate senti non di rado la
freschezza dell’aura campestre, come è quella così briosa delle «donne che givano cogliendo fiori per un boschetto», e l’altra delle «montanine», di una grazia così
ingenua. In città è un burlone, pieno il capo di motti, di
facezie, di fatterelli, e te li snocciola come gli escono,
con tutto il sapore del dialetto e con un’aria di bonomia
che ne accresce l’effetto. I suoi sonetti e le canzoni sono
molto al di sotto de’ madrigali e ballate o canzoni a ballo, di un andare svelto e allegro, dove non mancano pensieri galanti e gentili: dietro il poeta senti l’uomo che ci
piglia gusto e vi si sollazza, e sta già con l’immaginazione
nella lieta brigata dove i versi saranno cantati, tra musica
e ballo. Veggasi la ballata del «pruno» e il madrigale del
«falcone».
Le novelle del Sacchetti hanno per materia lo stesso
mondo boccaccevole in un aspetto più borghese e domestico: frizzi, burle, amorazzi, ipocrisie fratesche,
aneddoti, pettegolezzi vengon fuori, bassa vita popolana
in forma popolana. Alcuni le pregiano più che il Decamerone, per lo stile semplice e naturale e rapido, non
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
privo di malizia e di arguzia fiorentina. Ma la naturalezza del Sacchetti è quella dell’uomo a cui le muse sono
avare de’ loro doni. Non è artista, e neppure d’intenzione. Gli manca ogni sorta d’ispirazione Quel mondo con
tanta magnificenza organizzato nel Decamerone è qui un
materiale grezzo, appena digrossato. Perciò delle sue
trecento novelle si ricorda appena qualche aneddoto:
nessun personaggio è rimasto vivo.
Il Sacchetti sopravvisse al secolo. Nel suo buon umore ci è una nota malinconica, che all’ultimo manda più
lugubre suono. Non piace al brav’uomo un mondo, in
cui chi ha più danari vale più, e grida che «vertù con pecunia non si acquista», e che «gentilezza e virtù son nella mota». Dipinge al vivo gli avvocati de’ suoi tempi:
Legge civile e ragion canonica
apparan ben, ma nel mal spesso l’usano:
difendono i ladroni, e gli altri accusano.
Chi ha danari e chi più puote scusano:
tristo a colui che con costor s’incronica,
se non empie lor man sotto la tonica!
Ora se la piglia con le vecchie. Ora è tutto stizzoso per le
nuove fogge di vestire portate a Firenze da altri paesi.
Grida contro la turba de’ rimatori e de’ cantori:
Pieno è il mondo di chi vuol far rime:
tal compitar non sa che fa ballate,
tosto volendo che sieno intonate.
Così del canto avvien: senz’alcun’arte
mille Marchetti veggio in ogni parte.
E quando muore il Boccaccio, «copioso fonte di eleganza», esclama:
Ora è mancata ogni poesia,
e vòte son le case di Parnaso...
S’io piango o grido, che miracol fia,
pensando che un sol c’era rimaso
Letteratura italiana Einaudi
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Giovan Boccacci, ora è di vita fore? ...
... Quel duol che mi pugne
è che niun riman, nè alcun viene,
che dia segno di spene
a confortar che io salute aspetti,
perchè in virtù non è chi si diletti...
Sarà virtù già mai più in altrui
O starà quanto medicina ascosta,
quando anni cinquecento perdè il corso? ...
Chi fia in quella etate,
forse vedrà rinascer tal semenza;
ma io ho pur temenza,
che prima non risuoni l’alta tromba, ...
che si farà sentir per ogni tomba.
Ne’ numeri ciascuno ha mente pronta,
dove moltiplicando s’apparecchia
sempre tirare a sè con la man destra...
E le meccaniche arti
abbraccia chi vuol esser degno ed alto...
Ben veggio giovinetti assai salire
non con virtù, perchè la curan poco,
ma tutto adopran in corporea vesta: ...
... già mai non cercan loco
dove si faccia delle muse festa.
Come deggio sperar che surga Dante,
che già chi il sappia legger non si trova?
E Giovanni che è morto ne fe’ scola.
Tutte le profezie che disson sempre
tra il Sessanta e l’Ottanta esser il mondo
pieno di svari e fortunosi giorni,
vidon che si dovean perder le tempre
di ciascun valoroso e gire al fondo.
E questo è quel che par che non soggiorni...
E s’egli è alcun che guardi,
gli studi in forni vede già conversi...
Questa canzone di cui abbiamo citati alcuni brani è
l’elogio funebre del Trecento, pronunziato dal più candido e simpatico de’ suoi scrittori, l’ultimo trecentista.
Sulla fine del secolo il vecchio burlone gitta uno sguardo
malinconico indietro, e gli si affaccia la grande figura di
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Dante, e l’Africa col suo «alto poeta», e Giovan Boccacci non col suo festevole Decamerone, ma co’ dotti e magni volumi latini, De’ viri illustri, Delle donne chiare, e
«il terzo»:
Buccolica; il quarto: Monti e fiumi;
il quinto: Degl’iddii e lor costumi.
Oimè! Dante è morto. Morto è Boccacci. Petrarca muore. Chi rimane? E l’ultimo trecentista guarda intorno e
risponde: – Nessuno. – Ricorda le infauste profezie,
nunzie di sciagure fra il sessanta e l’ottanta, e gli pare venuto il finimondo. La forte semenza da cui uscirono i tre
grandi e tanti altri dottissimi, teologi, filosofi, legisti,
astrologi, è perita per sempre? O risurgerà dopo cinquecento anni, come fu della medicina? O non verrà prima
il giudizio finale? Il mondo è dato all’abaco e alle arti
meccaniche: «nuda è l’adorna scuola» da tutte sue parti:
non si trova fenestra
che valor dentro chiuda.
La nuova generazione è tutta dietro alle mode e a’ sollazzi e al guadagno, e non cura virtù, e spregia le muse, e
non ci è chi sappia leggere Dante, e gli studi sono mutati in forni. Il poeta accomiata la canzone in questo modo:
Orfana, trista, sconsolata e cieca,
senza conforto e fuor d’ogni speranza,
se alcun giorno t’avanza,
come tu puoi, ne va’ peregrinando,
e di’ al cielo: – Io mi ti raccomando. –
Con questi tristi presentimenti si chiude il secolo. Il Dugento finisce con Cino e Cavalcanti e Dante già adulti e
chiari, finisce come un’aurora entro cui si vede già brillare la vita nuova, una nuova èra. Il Trecento finisce co-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
me un tristo tramonto, così tristo e oscuro che il buon
Franco pensa: – Chi sa se tornerà il sole? –
Antonio da Ferrara, sparsasi voce della morte del Petrarca, intuona anche lui un poetico Lamento. Piangono
intorno al grand’uomo Gramatica, Rettorica, Storia, Filosofia, e lo accompagnano al sepolcro di Parnaso,
Virgilio, Ovidio, Giovenale e Stazio,
Lucrezio, Persio, Lucano e Orazio
e Gallo.
E Pallas Minerva, venuta dall’angelico regno, conserva
la sua corona. In ultimo della mesta processione spunta
l’autore col suo nome, cognome e soprannome:
È Anton de’ Beccar, quel da Ferrara,
che poco sa, ma volentieri impara.
È anche un brav’uomo costui, vede anche lui tutto nero:
Del mondo bandita è concordia e pace,
per l’universo la discordia trona,
sommerso è ogni bene,
l’amor di Dio ha bando,
e parmi che la fe’ vada mancando.
Sono lamenti senili di uomini superficiali e mediocri,
dove non trovi alcuna profondità di vista e non forza di
mente o di sentimento. Pur vi trovi, ancorchè in forma
pedantesca, la fisonomia del secolo negli ultimi giorni
della sua esistenza.
Quella nota malinconica è la stessa forza che tirò alla
Certosa il vecchio Boccaccio, e volse a Maria gli ardori
del Petrarca, e rattristò le ultime ore di Franco Sacchetti, e piegò le ginocchia di Giovanna innanzi a Caterina
da Siena. Perchè quella forza, contraddetta e negata nella vita, occupava ancora l’intelletto, e tra le orgie di una
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
borghesia arricchita e gaudente comparirà talora come
un rimorso, e chiamerà gli uomini alla penitenza.
«La fede va mancando», grida il ferrarese. e gli studi
«si convertono in forni», nota il fiorentino. Non si potea
meglio dipingere la fisonomia che andava prendendo il
secolo e che comunicava alla nuova generazione. Possiamo disegnarla in brevi tratti.
Come il popolo grasso piglia il sopravvento in Firenze, così nelle altre parti d’Italia la borghesia si costituisce, si ordina, diviene una classe importante per industrie, per commerci, per intelligenza e per coltura. E lo
stacco si fa profondo tra la plebe e la classe colta. La coltura non è privilegio di pochi, ma si allarga e si diffonde,
e fa del popolo italiano il più civile di Europa.
La vita pubblica e la vita religiosa rimane stazionaria
fra l’universale indifferenza. Continuano le stesse forme,
ma sciolte dallo spirito che le rendea venerabili, quelle
persone, quei riti e quel linguaggio appariscono cosa ridicola e diventano il motivo comico delle liete brigate.
La vita privata viene su. Ed è vita socievole, spensierata, condita dallo spirito. Gli uomini si uniscono in
compagnie o brigate non per discutere, ma per sollazzarsi, in città e in villa. E si sollazzano a spese delle classi
inculte. Trovatori, cantori e novellatori non sono più il
privilegio delle castella e delle corti. L’allegria feudale si
spande anche nelle case de’ ricchi borghesi, e i racconti
e i piacevoli ragionamenti condiscono i loro piaceri, e in
una forma spesso licenziosa e cinica. La licenza del linguaggio era il solletico dell’allegria.
Così venne una letteratura sensuale e motteggiatrice,
profana e pagana. Le novelle e i romanzi tennero il campo. L’allegra vita della città si specchiava in forme liriche svelte e graziose, rispetti, strambotti, frottole, ballate e madrigali. L’allegra vita de’ campi avea pur le sue
forme, le «cacce» e gl’idilli. L’anima di questa letteratura è lo spirito comico e il sentimento idillico.
Letteratura italiana Einaudi
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
La forma dello spirito comico è la caricatura penetrata di un’ironia maliziosa, ma non maligna. La forma idillica è la descrizione della bella natura, penetrata di una
molle sensualità. Traspare da tutta questa letteratura
una certa quiete e tranquillità interiore, come di gente
spensierata e soddisfatta.
Giovanni Boccaccio è il grande artista che apre questo mondo allegro della natura. Il misticismo perisce, ma
ben vendicato, traendosi appresso religione, moralità,
patria, famiglia, ogni semplicità e dignità di vita. Vengono nuovi ideali: la voluttà idillica e l’allegria comica. Sono le due divinità della nuova letteratura.
Ma come l’antica letteratura vede i suoi ideali attraverso un involucro allegorico-scolastico, così la nuova
non può trovare se stessa se non attraverso l’involucro
del mondo greco-latino.
La vita del Boccaccio è in compendio la vita letteraria
italiana, come si andrà sviluppando. Comincia scopritore instancabile di manoscritti, e tutto mitologia e storia
greca e romana. Non è ancora un artista, è un erudito.
La sua immaginazione erra in Atene e in Troia. Tenta
questo e quel genere, e non trova mai se stesso. Quel
mondo è come un denso velo che muta il colore degli
oggetti e gliene toglie la vista immediata. Imita Dante,
imita Virgilio, petrarcheggia e platoneggia come il buon
Sacchetti. Scrive magni volumi latini, ammirazione de’
contemporanei. E si scopre artista, quando, gittato via
tutto questo bagaglio, scrive per sollazzo, abbandonato
alla genialità dell’umore. Dove cerca il piacere, trova la
gloria.
Questa vita ne’ suoi tentennamenti, nelle sue imitazioni, nelle sue pedanterie, ne’ suoi ideali, è la storia della nuova letteratura.
Letteratura italiana Einaudi
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
XI
«LE STANZE»
Siamo al secolo decimoquinto. Il mondo greco-latino si
presenta alle immaginazioni come una specie di Pompei,
che tutti vogliono visitare e studiare. L’Italia ritrova i
suoi antenati, e i Boccacci si moltiplicano, l’impulso dato da lui e dal Petrarca diviene una febbre, o per dir meglio, quella tale corrente elettrica che incerti momenti
investe tutta una società e la riempie dello stesso spirito.
Quella stessa attività che gittava l’Europa crociata in Palestina, e più tardi spingendola verso le Indie le farà trovare l’America, tira ora gl’italiani a disseppellire il mondo civile rimasto per così lungo tempo sotto le ceneri
della barbarie. Quella lingua era la lingua loro, e quel sapere era il loro sapere: agl’italiani pareva avere racquistato la conoscenza e il possesso di sè stessi, essere rinati
alla civiltà. E la nuova èra fu chiamata il «Rinascimento».Nè questo era un sentimento che sorgeva improvviso. Per lunga tradizione Roma era capitale del mondo,
gli stranieri erano barbari, gl’italiani erano sempre gli
antichi romani, erano sangue latino, e la loro lingua era
il latino, e la lingua parlata era chiamata il «latino volgare», un latino usato dal volgo. Questo sentimento, legato
in Dante con le sue opinioni ghibelline, ispirava più tardi l’Africa e latinizzava anche le facezie del Boccaccio.
Ora diviene il sentimento di tutti e dà la sua impronta al
secolo. La storia ricorda con gratitudine gli Aurispi, i
Guarini, i Filelfi, i Bracciolini, che furono i Colombi di
questo mondo nuovo. Gli scopritori sono insieme professori e scrittori. Dopo le lunghe peregrinazioni in
oriente e in occidente, vengono le letture, i comenti, le
traduzioni. Il latino è già così diffuso, che i classici greci
si volgono in latino, perchè se ne abbia notizia, come i
dugentisti volgevano in volgare i latini. Pullulano latini-
Letteratura italiana Einaudi
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
sti e grecisti: la passione invade anche le donne. Grande
stimolo è non solo la fama, ma il guadagno. Diffusa la
coltura, i letterati moltiplicano e si stringono intorno alle corti e si disputano i rilievi ringhiando. Sorgono centri
letterari nelle grandi città: a Roma, a Napoli, a Firenze,
più tardi a Ferrara intorno agli Estensi. E quei centri si
organizzano e diventano accademie Sorge la pontaniana
a Napoli, l’Accademia platonica a Firenze, quella di
Pomponio Leto e di Platina a Roma. Illustri greci, caduta Costantinopoli, traggono a Firenze. Gemistio spiega
Platone a’ mercatanti fiorentini. Marsilio Ficino, il traduttore di Platone, lo predica dal pulpito, come la Bibbia. Pico della Mirandola, morto a trentun anno, stupisce l’Italia con la sua dottrina, ed oltrepassando il
mondo greco, cerca in Oriente la culla della civiltà.
I caratteri di questa coltura sono palpabili.
Innanzi tutto ti colpisce la sua universalità. Il centro
del movimento non è più solo Bologna e Firenze. Padova gareggia con Bologna. Il mezzodì dopo lungo sonno
prende il suo posto nella storia letteraria, e il Panormita
fa già presentire il Pontano e il Sannazzaro. Roma è il
convegno di tutti gli eruditi, attirati dalla liberalità di
Nicolò quinto. La coltura acquista una fisonomia nazionale, diviene italiana. Anche il volgare, trattato dalle
classi colte ed atteggiato alla latina, si scosta dagli elementi locali e municipali, e prende aria italiana.
Ma è l’Italia de’ letterati, col suo centro di gravità nelle corti. Il movimento è tutto sulla superficie, e non viene dal popolo e non cala nel popolo. O, per dir meglio,
popolo non ci è. Cadute sono le repubbliche, mancata è
ogni lotta intellettuale, ogni passione politica. Hai plebe
infinita, cenciosa e superstiziosa, la cui voce è coperta
dalla rumorosa gioia delle corti e de’ letterati, esalata in
versi latini. A’ letterati fama, onori e quattrini; a’ principi incensi, tra il fumo de’ quali sono giunti a noi papa
Nicolò, Alfonso il magnanimo, Cosimo padre della pa-
Letteratura italiana Einaudi
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
tria, e più tardi Lorenzo il magnifico, e Leone decimo e i
duchi di Este. I letterati facevano come i capitani di ventura: servivano chi pagava meglio: il nemico dell’oggi diventa il protettore del dimani. Erranti per le corti, si
vendevano all’incanto.
Questa fiacchezza e servilità di carattere, accompagnata con una profonda indifferenza religiosa, morale e
politica, di cui vediamo gli albori fin da’ tempi del Boccaccio, è giunta ora a tal punto che è costume e abito sociale, e si manifesta con una franchezza che oggi appare
cinismo. Una certa ipocrisia c’è, quando si ha ad esprimere dottrine non ricevute universalmente; ma quanto
alla rappresentazione della vita, ti è innanzi nella sua nudità. È una letteratura senza veli, e più sfacciata in latino
che in volgare.
Ne nasce l’indifferenza del contenuto. Ciò che importa non è cosa s’ha a dire, ma come s’ha a dire. I più sono
secretari di principi, pronti a vestire del loro latino concetti altrui. La bella unità della vita, come Dante l’aveva
immaginata, la concordia amorosa dell’intelletto e
dell’atto, è rotta. Il letterato non ha obbligo di avere delle opinioni, e tanto meno di conformarvi la vita. Il pensiero è per lui un dato, venutogli dal di fuori, quale esso
sia: a lui spetta dargli la veste. Il suo cervello è un ricco
emporio di frasi, di sentenze, di eleganze; il suo orecchio
è pieno di cadenze e di armonie: forme vuote e staccate
da ogni contenuto. Così nacque il letterato e la forma
letteraria.
Il movimento iniziato a Bologna era intellettuale: si
cercava negli antichi la scienza. Il movimento ora è puramente letterario: si cerca negli antichi la forma. Sorge
la critica, circondata di grammatiche e di rettoriche; il
gusto si raffina; gli scrittori antichi non sono più confusi
in una eguale adorazione: si giudicano, si classificano,
pigliano posto. Questi lavori filologici ed eruditi sono la
parte più seria e più durevole di questa coltura. Spicca-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
no fra tutti le Eleganze di Lorenzo Valla. Il titolo ti dà
già la fisonomia del secolo.
Effetti di questa coltura cortigiana e letteraria, co’
suoi vari centri in tutta Italia, sono una certa stanchezza
di produzione, l’inerzia del pensiero, l’imitazione delle
forme antiche come modelli assoluti, l’uomo e la natura
guardati a traverso di quelle forme. È una nuova trascendenza, il nuovo involucro. Lo scrittore non dice
quello che pensa o immagina o sente, perchè non è l’immagine che gli sta innanzi, ma la frase di Orazio o di
Virgilio vede il mondo non nella sua vista immediata,
ma come si trova rappresentato da’ classici, a quel modo
che Dante vedea Beatrice a traverso di Aristotile e di san
Tommaso.
Ma non ci è guscio che tenga incontro all’arte. Dante
potè spesso rompere quel guscio, perchè era artista. E se
in questa cultura fossero elementi seri di vita intellettuale e di elevate ispirazioni, non è dubbio che vedremmo
venire il grande artista, destinato a farne sentire il suono
pur tra queste forme latine. Ciò che ferve nell’intimo seno di una società, tosto o tardi vien su e spezza ogni involucro. Si dà colpa al latino, che questo non sia avvenuto. E se il medio evo non ha potuto sviluppare tra noi
tutte le sue forme, se il mondo interiore della coscienza
s’è infiacchito, la colpa è de’ classici che paganizzarono
la vita e le lettere! La verità è che i classici di questo fatto sono innocentissimi. Certo, il mondo di Omero e di
Virgilio, di Tucidide e di Livio, non è un mondo fiacco e
frivolo. E se i latinisti non poterono riprodurne che
l’esterno meccanismo, e se sotto a quel meccanismo ci è
il vuoto, gli è che il vuoto era nell’anima loro, e nessuno
dà ciò che non ha. Un cuore pieno trova il modo di
spandersi anche nelle forme più artificiali e più ripugnanti.
Leggete questi latinisti. Cosa c’è lì dentro che viva e si
mova? Lo spirito del Boccaccio che aleggia in quei versi
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
e in quelle prose: la quiete idillica e il sale comico, in una
forma elegante e vezzosa. Questo studio dell’eleganza
nelle forme, accompagnato co’ tranquilli ozi della villa e
i sollazzevoli convegni della città, era in iscorcio tutta la
vita del letterato.
Così, quando il secolo era travagliato da mistiche
astrazioni e da disputazioni sottili, il latino fu scolastico.
E ora che il naturalismo idillico e comico del Boccaccio
è il vero e solo mondo poetico, il latino è idillico, dico il
latino artistico e vivo. La grande orchestra di Dante è divenuta già nel Petrarca la flebile elegia. In questo latino
elegante il dolore è elegiaco, e il piacere è idillico. La vita è tutta al di fuori, è un riso della natura e dell’anima:
la stessa elegia è un rapimento voluttuoso de’ sensi. Sulle rive di Mergellina il Pontano canta gli Amori e i Bagni
di Baia, ora tutto vezzeggiativi e languori, ora motteggevole e faceto. Mergellina, Posilipo, Capri, Amalfi, le isole, le fonti, le colline escono dalla sua immaginazione pagana ninfe vezzose, e allegrano le nozze della sua
Lepidina. La crassa sensualità è vaporizzata fra le grazie
dell’immaginazione e i deliziosi profumi dell’eleganza.
La sua musa, come la sua colomba, «fugit insulsos et parum venustos» «odit sorditiem», nega i suoi doni a quelli
che sono «illepidi atque inelegantes», e «gaudet nitore»,
e rassomiglia alla sua «puella», di cui nessuna «vivit
mundior elegant’orve». Spirito ed eleganza, questo è il
mondo poetico di una borghesia colta e contenta, che
cantava i suoi ozi e passava il tempo tra Quintiliano, Cicerone, Virgilio, e i bagni e le cacce e gli amori. Ne senti
l’eco tra le delizie di Baia e tra le villette di Fiesole. Il
Pontano scrivea la Lepidina tra’ susurri della cheta marina; il Poliziano scrivea il Rusticus tra le aure della sua
villetta fiesolana. In tutte e due ispiratrice è la bella natura campestre, con più immaginazione nel Pontano,
con più sentimento nel Poliziano. Piace la «cerula» ninfa Posilipo e la «candida» Mergellina, e quel voler essere
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
uccello per cascarle in grembo è un bel tratto galante,
una sensualità dell’immaginazione. Il Pontano è figurativo, tutto vezzi e tutto spirito; il Poliziano è più semplice,
più vicino alla natura, e te ne dà l’impressione:
Hic resonat blando tibi pinus amata susurro;
hic vaga coniferis insibilat aura cupressis:
hic scatebris salit et bullantibus incita venis
pura coloratos interstrepit unda lapillos.
Questo latino, maneggiato con tanta sveltezza, modulato con tanta grazia, non cade nel vuoto, come lingua
morta, e questi canti non sono stimati lavori di pura erudizione e imitazione. Lorenzo Valla chiama il latino la
«lingua nostra»; nessuna cosa di qualche importanza
non si scrivea se non in latino, e metteasi a fuggire il volgare quello studio che oggi si mette a fuggire il dialetto.
Dante stesso era detto «poeta da calzolai e da fornai».
Non pareva impossibile continuare il latino, come i greci continuavano il greco, parlare la lingua universale, la
lingua della scienza e della coltura, essere intesi da tutti
gli uomini istrutti.
Ma queste tendenze trovavano naturale resistenza a
Firenze, dove il volgare avea messo salde radici, illustrato da tanta gloria, nè potea parer vergogna scrivere nella
lingua di Dante e del Petrarca. Ivi una classe colta nettamente distinta non era, e popolo grasso e popolo minuto erano ancora il popolo, con una comune fisonomia.
Grandissima l’ammirazione de’ classici; frequentissimi
gli Studi del Landino, del Crisoloro, del Poliziano; si
udiva a bocca aperta Gemistio e il Ficino e il Pico; si disputava di Platone e di Aristotile (discussioni erudite,
senza conclusione e serietà pratica); si applaudiva al Poliziano quando cantava la bellezza o la morte dell’Albiera o gli occhi di Lorenzo, «purus apollinei sideris nitor»,
come fossero gli occhi di Laura. Ma insieme si difendeva
il volgare come gloria nazionale; e il Filelfo spiegava
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Dante, e il Landino sponeva il Petrarca, e Leonardo
Bruni sosteneva essere il volgare lo stesso latino antico
com’era parlato a Roma, e Lorenzo de’ Medici preferiva
il Petrarca a’ poeti latini, chiamava «unico» Dante, celebrava la facondia e la vena del Boccaccio, e di Cino e di
Cavalcanti e di altri minori scrivea le lodi con acume e
maturità di giudizio. Ci erano gli oppositori, i grammatici, i pedanti, che dicevano Dante uno spropositato, un
ignorante, «rerum ommum ignarum» e che scrivea così
male in latino. Ma in Firenze non attecchivano. Cristoforo Landino nel suo studio, dove spiegava a un tempo Dante e Virgilio, pigliando a esporre il Petrarca, insegnava non esser la lingua toscana al di sotto della latina,
e non altrimenti che quella doversi sottoporre a regole
di grammatica e di rettorica. Certo, il vezzo del latino introduceva nel volgare caduto in mano a’ pedanti vocaboli e frasi e giri, di cui si sentono gli effetti fino nella
prosa del Machiavelli; ma quella barbara mescolanza
per la sua esagerazione divenne ridicola, e non potè alterare le forme del volgare, così come erano state fissate
negli scrittori e si mantenevano vive nel popolo. Nè
l’uso fu mai intermesso; e Lionardo scrivea in volgare la
vita di Dante e del Boccaccio, e in volgare Feo Belcari
scrivea le vite de’ santi e le rappresentazioni, e si continuavano i rispetti, gli strambotti, le frottole, le cacce, le
ballate, tutt’i generi di lirica popolare legati con le feste
e gl’intrattenimenti pubblici e privati, le mascherate, le
giostre, le serenate, le rappresentazioni, i giuochi, le sfide. Non era cosa facile guastare o sopraffare una lingua
legata così intimamente con la vita.
La forza della lingua volgare era appunto in questo:
che rifletteva la vita pubblica e privata, divenuta parte
inseparabile della società nelle sue usanze e ne’ suoi sentimenti. Onde se gli uomini colti, trasportati dalla corrente comune, scrivevano in latino per procacciarsi fama, nell’uso vario della vita adoperavano il volgare,
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
condotto ormai al suo maggior grado di grazia e di finezza, parlato e scritto bene generalmente. Un gran mutamento era però avvenuto nella letteratura volgare. Il
mondo ascetico-mistico-scolastico del secolo passato
non era potuto più risorgere di sotto a’ colpi del Petrarca e più del Boccaccio, ed era tenuto rozzo e barbaro, e
continuava la sua vita come un mondo fatto abituale e
convenzionale a cui è straniera l’anima. Al contrario era
in uno stato di produzione e di sviluppo il mondo profano, la «gaia scienza», e dava i suoi colori anche alle cose
sacre. Le laude erano intonate come i rispetti, e i misteri
acquistavano la tinta romanzesca delle novelle e romanzi
allora in voga. La Stella ricorda in molte parti le avventure della bella sventurata Zinevra, «sei anni andata tapinando per lo mondo». Spesso c’entra il comico e il
buffonesco, e ti par d’essere in piazza a sentir le ciane
che si accapigliano. La lauda tende al rispetto; la leggenda tende alla novella.
La leggenda è un racconto maraviglioso animato da uno
spirito mistico e ascetico, con le sue estasi, le sue visioni,
i suoi miracoli. Ci è al di sotto la fede che fa muovere i
monti e ti tiene al di sopra de’ sensi, anzi sforza i sensi e
dà loro le ali dell’immaginazione. Questo mondo miracoloso dello spirito, fatto così palpabile come fosse corpo, è rappresentato senza alcuno artificio che lo renda
verisimile, anzi con la più grande ingenuità, essendo
quelle verità incontrastate pel narratore e pe’ lettori.
Questa impressione ti fanno le leggende del Passavanti e
le Vite del Cavalca.
Questo è il mondo stesso che comparisce nelle rappresentazioni o misteri di questo secolo. Sono antiche
rappresentazioni, messe a nuovo, intonacate, imbiancate, a uso di un pubblico più colto. Santo Abraam, Alessio, Abramo, Eugenia e Maddalena, i santi e i padri e i
romiti del Cavalca ti sfilano innanzi. Con la natia rozzezza è ita via anche la semplicità e l’unzione e ogni senti-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
mento liturgico e ascetico. Il miracolo ci sta come miracolo, cioè a dire come una macchina del maraviglioso, a
quel modo che è la fortuna nelle novelle del Boccaccio.
Il motivo drammatico è l’effetto che fanno sugli spettatori certe grandi mutazioni e improvvise nello stato de’
personaggi, morale o materiale: perciò non gradazioni,
non ombre, non sfumature; i contorni sono chiari e decisi; l’azione è tutta esteriore e superficiale, e si ferma solo quando una mutazione improvvisa provoca esplosioni
liriche di gioia, di dolore, di maraviglia. Ci è quella lirica
superficiale e quella chiarezza epica che è propria del
Boccaccio. La lirica è sacra di nome, e non ha quell’elevazione dell’anima verso un mondo superiore, che senti
in Dante o in Caterina: ci è la preghiera, non ce n’è il
sentimento. L’azione è pedestre e borghese, di una prosaica chiarezza, non animata dal sentimento, non trasformata dall’immaginazione. E il mondo dantesco vestito alla borghese, i cui accenti di dolore sono elegia, le
cui mistiche gioie sono idilli mancato è il senso del terribile e del sublime, mancata è l’indignazione e l’invettiva:
se alcuna serietà rimane ancora in queste spettacolose
rappresentazioni, apparecchiate con tanta pompa di scene e di decorazioni, è reminiscenza ed eco di un mondo
indebolito nella coscienza. Ci erano ancora le confraternite, che a grandi spese davano di queste rappresentazioni; ma i fratelli non erano più i contemporanei di
Dante, e non gli autori e non gli spettatori. Si andava alle rappresentazioni, come alle feste carnascialesche, per
sollazzarsi. E si sollazzavano, come si conviene a gente
colta e artistica, co’ piaceri dello spirito e dell’immaginazione. Il mistero era per essi un piacevole esercizio
dell’immaginazione, una ricreazione dello spirito. Con
la coscienza vuota e con la vita tutta esterna e superficiale, il dramma era così poco possibile come la tragedia o
l’eloquenza sacra, o come rifare la visione o la leggenda.
Se quelle rappresentazioni fra tanto liscio e intonaco ri-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
masero stazionarie, e non poterono mai acquistare la serietà e profondità di un vero mondo drammatico, fu
perchè mancò all’Italia un ingegno drammatico, come
affermano alcuni, quasi l’ingegno fosse un frutto miracoloso, generato senza radici, e venuto espressamente
dal cielo? O fu, come affermano altri, perchè il latino attirò a sè gli uomini colti, e il mistero fu trascurato come
cosa del popolo, quasi che autori de’ misteri non fossero
gli uomini più colti di quel tempo, o il latino, che non
potè uccidere il volgare, potesse uccidere l’anima di una
nazione, quando un’anima ci fosse stata? La verità è che
il povero latino non potè uccider nulla, perchè nulla ci
era, niuna serietà di sentimento religioso, politico, morale, pubblico e privato, da cui potesse uscire il dramma.
Quel mondo spensierato e sensuale non ti potea dare
che l’idillico e il comico; e in tanto fiorire della coltura,
con tanta disposizione ed educazione artistica, non potea produrre che un mondo simile a sè, un mondo di pura immaginazione. Il mistero è un aborto, è una materia
sacra che non dice più nulla alla mente ed al cuore, senza alcuna serietà di motivi, e trasformata da uomini colti
in un puro giuoco d’immaginazione dove angioli e demoni, paradiso e inferno hanno così poca serietà come
Apollo e Diana e Plutone. La serietà e solennità della
materia era in flagrante contraddizione con quella forma
tutta senso e tutta superficie, e con quel mondo spensierato e allegro della pura immaginazione, idillico-comicoelegiaco. Il mistero ci fu, quale poteva realizzarlo l’Italia
in questa disposizione dello spirito, e ci fu l’ingegno,
quale poteva essere allora l’ingegno italiano. Quel mistero fu l’Orfeo, e quell’ingegno fu Angiolo Poliziano.
Il Poliziano è la più spiccata espressione della letteratura in questo secolo. Ci è già l’immagine schietta del
letterato, fuori di ogni partecipazione alla vita pubblica,
vuoto di ogni coscienza religiosa o politica o morale,
cortigiano, amante del quieto vivere, e che alterna le ore
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
tra gli studi e i lieti ozi. Ebbe in Lorenzo un protettore,
un amico, e divenne la sua ombra, il suo compagno ne’
sollazzi pubblici e secreti. Cominciò la vita, voltando
l’Iliade in latino, grecista e latinista sommo. Dettava epigrammi latini con la facilità di un improvvisatore. Si
traeva da tutta Europa a sentirlo spiegare Omero e Virgilio. E non si ammirava solo l’erudito, ma l’uomo di gusto e il poeta, che ispirato vi aggiungeva le sue emozioni
e le sue impressioni e i suoi carmi. Il suo studio e la sua
villetta di Fiesole sono il compendio di questa vita tranquilla e placida, spenta a quarant’anni.
Il Poliziano aveva uno squisito sentimento della forma nella piena indifferenza di ogni contenuto. Il tempio
era vuoto: vi entrò Apollo e lo empì d’immagini e di armonie. Il mondo antico s’impossessò subito di un’anima
dove ogni vestigio del medio evo era scomparso. Il Boccaccio senti che è ancora medio evo, e lo vedi alle prese
co’ canoni e le scienze sacre e le forme dantesche: il vecchio e il nuovo Adamo combattono in lui, come nel Petrarca: erano tempi di transizione. Nel Poliziano tutto è
concorde e deciso: non ci è più lotta. Teologia, scolasticismo, simbolismo, il medio evo nelle sue forme e nel
suo contenuto, di cui vedevi ancora la memoria prosaica
nelle laude e ne’ misteri, è un mondo in tutto estraneo
alla sua coltura e al suo sentire. Quello è per lui la barbarie. E non ha bisogno di cacciarlo dalla sua anima:
non ve lo trova. Il sentimento della bella forma, già così
grande nel Petrarca e nel Boccaccio, in lui è tutto; e quel
mondo della bella forma, appresso al quale correvano
faticosamente il Boccaccio e il Petrarca fin da’ primi anni, è il mondo suo, e ci vive come fosse nato là dentro, e
ne ha non solo la conoscenza, ma il gusto. Questo era la
coltura, l’umanità, il risorgimento, orgoglio di una società erudita, artistica, idillica, sensuale, quale il Boccaccio l’avea abbozzata, e che ora si specchia nel Poliziano
come nel suo modello ideale. Perchè questa generazio-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ne, caduta così basso, fiacca di tempra e vuota di coscienza, aveva pure la sua idealità, il suo divino, ed era
l’orgoglio della coltura, il sentimento della forma. Le sue
mascherate, le cacce, le serenate, le giostre, le feste, tanta parte di quella vita oziosa e allegra, erano nobilitate
dalle arti dello spirito e da’ piaceri dell’immaginazione.
E se il cardinale Gonzaga, rientrando nella patria, bandisce pubbliche feste e cerca nella poesia il loro ornamento e decoro, il giovane Poliziano gli scrive in due
giorni l’Orfeo. E che cosa è l’Orfeo? Come gli venne in
mente Orfeo? Giovanni Boccaccio nel Ninfale e
nell’Ameto canta la fine della barbarie e il regno della
coltura o dell’umanità. Il rozzo Ameto, educato dalle arti e dalle muse, apre l’animo alla bellezza e all’amore, e
di bruto si sente fatto uomo. Atalante trasforma il bosco
di Diana in città, e vi marita le ninfe, e v’introduce costumi civili. Orfeo è il grande protagonista di questo regno della coltura, venuto dall’antichità giovine e glorioso ne’ carmi di Ovidio e di Virgilio. Questo fondatore
dell’umanità col suono della lira e con la dolcezza del
canto mansuefà le fiere e gli uomini e impietosisce la
morte e incanta l’inferno. È il trionfo dell’arte e della
coltura su’ rozzi istinti della natura, consacrato dal martirio, quando, sforzando le leggi naturali, è dato in balìa
all’ebbro furore delle baccanti. Dopo lungo obblio nella
notte della seconda barbarie, Orfeo rinasce tra le feste
della nuova civiltà, inaugurando il regno dell’umanità, o
per dir meglio, dell’umanismo. Questo è il mistero del
secolo, è l’ideale del Risorgimento. Le sacre rappresentazioni cacciate dalle città menano vita oscura nei contadi, e cadono in così profondo obblio che giacciono ancora polverose nelle biblioteche.
L’Orfeo è un mondo di pura immaginazione. I misteri
avevano la loro radice in un mondo ascetico, fatto tradizionale e convenzionale, pur sempre reale per una gran
parte degli spettatori. Qui tutti sanno che Orfeo, le dria-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
di, le baccanti, le furie, Plutone e il suo inferno sono
creature dell’immaginazione. A quel modo che nelle
giostre i borghesi camuffati da cavalieri riproducevano il
mondo cavalleresco, i nuovi ateniesi dovevano provare
una grande soddisfazione a vedersi sfilare innanzi co’ loro costumi e abiti le ombre del mondo antico. Che entusiasmo fu quello, quando Baccio Ugolini, vestito da Orfeo e con la cetra in mano, scendeva il monte, cantando
in magnifici versi latini le lodi del cardinale! «Redeunt
saturnia regna.» Sembravano ritornati i tempi di Atene e
Roma; salutavano con immenso grido di applauso Orfeo, nunzio alle genti della nuova èra, della nuova civiltà.
Nel medio evo si dicea «vivere in ispirito», ed era il ratto
dell’anima alienata da’ sensi in un mondo superiore. Ciò
che una volta ispirava il sentimento religioso, oggi ispira
il sentimento dell’arte, la sola religione sopravvissuta, e
si vive in immaginazione. I ricchi, a quel modo che decorano i palagi degli avi, decorano con l’arte i loro piaceri.
E che decorazione è quest’Orfeo! Dove sotto forme
antiche vive e si move quella società, idealizzata nell’anima armoniosa del poeta. È un mondo mobile e superficiale, a celeri apparizioni, e mentre fissi lo sguardo il
fantasma ti fugge: la parola è come ebbra e si esala nel
suono e nel canto; il pensiero è appena iniziale, incalzato
dalle onde musicali; la tragedia è un’elegia; l’inno è un
idillio; e n’esce un mondo idillico-elegiaco, penetrato di
un dolce lamento, che non ti turba, anzi ti lusinga e ti
accarezza, insino a che questo bel mondo dell’arte ti si
disfà come nebbia, e ti svegli violentemente tra il furore
e l’ebbrezza dei sensi. Il canto di Aristeo, il coro delle
driadi, il ditirambo delle baccanti sono le tre tappe di
questo mondo incantato, la cui quiete idillica penetrata
di flebile e molle elegia si scioglie nel disordine bacchico. La lettura non basta a darne un’adeguata idea. Bisogna aggiungervi gli attori e le decorazioni e il canto e la
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
musica e l’entusiasmo e l’ebbrezza di una società che ci
vedea una così viva immagine di se stessa. Il suo ideale,
il suo Orfeo è una lieve apparizione, ondeggiante tra’
più delicati profumi, a cui se troppo ti accosti, ti fuggirà
come Euridice. È un mondo che non ha altra serietà, se
non quella che gli dà l’immaginazione; le passioni sono
emozioni, gli avvenimenti sono apparizioni, i personaggi
sono ombre; la vita danza e canta, e non si ferma e non
puoi fissarla. La stessa leggerezza penetra nelle forme,
flessibili, variamente modulate, e come tutta un’orchestra di metri, entranti gli uni negli altri in una sola armonia. Il settenario rammorbidisce l’endecasillabo; la ballata dà le ali all’ottava; le rime si annodano ne’ più
voluttuosi intrecci. Ora è il dialetto nella sua grazia, ora
è la lingua nella sua maestà; qui lo sdrucciolo ti tira nella
rapida corsa, là il tronco ti arresta e ti culla; con una facilità e un brio che pare il poeta giuochi con i suoi strumenti.
Così Orfeo, il figlio di Apollo e di Calliope, rinacque;
così divenne il nunzio del Risorgimento. Le edizioni
moltiplicarono; penetrò dalle corti nel contado; se ne fecero imitazioni; comparve la Istoria e favola d’Orfeo; e
anche oggi nelle valli toscane ti giunge la melodia di Orfeo dalla dolce lira, una storia in ottava rima. Personaggio indovinato, comparso proprio alla sua ora nel mondo moderno, segnacolo e vessillo del secolo.
L’Orfeo nacque tra le feste di Mantova; e tra le feste
di Firenze nacquero le Stanze. Quel mondo borghese
della cortesia, così ben dipinto nel Decamerone, riproducea nelle sue giostre il mondo profano de’ romanzi e
delle novelle, la cavalleria. I poeti celebrano a suon di
tromba «le gloriose pompe e i fieri ludi» di questi mercanti improvvisati cavalieri e vestiti all’eroica: non ci era
più la realtà; ce n’era l’immaginazione. Le giostre erano
in fondo una rappresentazione teatrale, e i giostranti
erano attori che rappresentavano i personaggi de’ ro-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
manzi, spettacolo continuato oggi nelle corse, con questo progresso, che gli attori sono i cavalli. Ridicoli sono i
poeti che narrano le alte geste de’ giostranti come fossero Orlando e Carlomagno, con le frasi ampollose de’ romanzi, e descrivono minutamente gli abiti, le fogge, le
divise, gli stemmi, gli scontri con una serietà frivola. Anche Giuliano de’ Medici fece la sua giostra, e divenne
l’eroe di quel poemetto che i posteri hanno chiamato le
Stanze.
Comincia a suon di tromba. Il poeta vuol celebrare le
gloriose imprese:
sì che i gran nomi e ’ fatti egregi e soli
fortuna o morte o tempo non involi.
Ma i fatti egregi e i gran nomi sono dimenticati. E che
cosa è rimasto? Le Stanze: forme vaganti, di cui nessuno
cerca il legame, ciascuna compiuta in sè. Nella giovine
mente del poeta non ci è il romanzo: ci è Stazio e Claudiano con le loro Selve, ci è Teocrito ed Euripide, ci è
Ovidio con le sue Metamorfosi, ci è Virgilio con la sua
Georgica, ci è il Petrarca con la sua Laura; ci è tutto un
mondo d’immagini fluttuanti, sciolte, disseminate come
le stelle nel cielo all’occhio semplice del pastore. Questo
è il mondo che vien fuori in un legame artificiale e meccanico, delle cui fila interrotte nessuno si cura: perchè la
giostra non è il motivo di questo mondo, è la semplice
occasione. La sua unità non è in un’azione frivola e incompiuta, debole trama. La sua unità è in se stesso, nello spirito che lo move, ed è quel vivo sentimento della
natura e della bellezza che dal Boccaccio in qua è il
mondo della coltura.
La primavera, la notte, la vita rustica, la caccia, la casa
di Venere, il giardino d’Amore, gl’intagli, non sono già
episodi, sono questo mondo esso medesimo nella sua
sostanza, animato da un solo soffio. Sono l’apoteosi di
Venere e d’Amore, della bella natura, la nuova divinità.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
E la natura non ha già quel vago, che ti fa pensoso e ti
tiene in una dolce malinconia; non sei nel regno de’ misteri e delle ombre, nel regno musicale del sentimento:
sei nel regno dell’immaginazione. Venere è nuda, Iside
ha alzato il velo. Non hai più gli schizzi di Dante, hai i
quadri del Boccaccio; non hai più la faccia di Giotto, hai
la figura del Perugino; non hai più il terzetto nel suo raccoglimento, hai l’ottava rima nella sua espansione. Ci è
quel sentimento idillico e sensuale che ispirò il Boccaccio, e di cui senti la fragranza nella Lepidila e nel Rusticus: l’anima sta come rilassata in dolce riposo, non fantasticando ma figurando parte a parte e disegnando, quasi
voglia assaporare goccia a goccia i suoi piaceri. E non è
la descrizione minuta, anatomica, spesso ottusa, del
Boccaccio; chè mentre la natura ti si offre distinta come
un bel paesaggio, non sai onde o come ti giungono mormorii, concenti, note, come la voce di una divinità nascosta nel suo grembo. La sensualità filtrata fra tanta
dolcezza di note lascia in fondo la sua parte grossolana
ed esce fuori purificata; e non è la musa civettuola del
Boccaccio, è la casta musa del Parnaso, che copre la sua
nudità e vi gitta sopra il suo manto verginale. Nel Boccaccio è la carne che accende l’immaginazione: nel Poliziano l’immaginazione è come un crogiuolo, dove l’oro
si affina. La sensuale e volgare Griseida si spoglia in quel
crogiuolo la sua parte terrea, e diviene la gentile Simonetta, bellezza nuda, sviluppata da ogni velo allegorico
dantesco e petrarchesco, a contorni precisi e finiti, pur
divina nella sua realtà:
nell’atto regalmente è mansueta,
e pur col ciglio le tempeste acqueta.
Tra il poeta e il suo mondo non ci è comunione diretta:
ci stanno di mezzo Virgilio, Teocrito, Orazio, Stazio,
Ovidio, che gli prestano le loro immagini e i loro colori.
Ma egli ha un gusto così fine e un sentimento della for-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ma così squisito, che ciò che riceve esce con la sua stampa come una nuova creazione. Ci è nel suo spirito una
grazia che ingentilisce il volgare naturalismo del suo
tempo, e una delicatezza che gli fa cogliere del suo mondo il più bel fiore. L’insignificante, il rozzo, il plebeo
non entra nella sua immaginazione: ciò che sta lì dentro
è tutto elegante e profumato, e non cessa che non l’abbia reso con l’ultima finitezza e perfezione. Le sue reminiscenze mitologiche e classiche sono semplici mezzi di
colorito e di rilievo: gli sta innanzi Venere, Diana, e la
tale e tale frase di Ovidio o di Virgilio; ma il suo spirito
va al di là della frase, attinge le cose nella loro vita, e le
rende con evidenza e naturalezza. Perciò, raro connubio, l’eleganza in lui non è mai rettorica e si accompagna
con la naturalezza, perchè ha delle cose una impressione
propria e schietta. La mammola, la rosa, l’ellera, la vite,
il montone, la capra, gli uccelli, le aurette, l’erba e il fiore, tutto si anima e si configura e prende le più vaghe e
gentili attitudini innanzi a questa immaginazione idillica. Ciò che prova non è sensualità, è voluttà, sensazione
alzata a sentimento, che fonde il plastico e te ne fa sentire la musica interiore. Ottiene potentissimi effetti con la
massima semplicità de’ mezzi, spesso col solo allogare
gli oggetti, ora aggruppando, ora distinguendo, e tutto
animando, come persone vive. Tale è la mammoletta
verginella con gli occhi bassi e vergognosa, e l’ellera che
va carpone co’ piedi storti, o l’erba che si maraviglia della sua bellezza, bianca, cilestre, pallida e vermiglia. Il
sentimento che n’esce non ha virtù di tirarti dalle cose e
lanciarti in infiniti spazi; anzi ti chiude nella tua contemplazione e vi ti tiene appagato, come fosse quella tutto il
mondo, e non pensi di uscirne, e la guardi parte a parte
nella grazia della sua varietà. Perchè il motivo dell’ispirazione non è lo spirito nella sua natura trascendente e
musicale, quale si mostra in Dante, ma il corpo, e non
come un bel velo, una bella apparenza, ma terminato e
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
tranquillo in se stesso, quale si mostra nel periodo e
nell’ottava, le due forme analitiche e descrittive del Boccaccio, divenute la base della nuova letteratura. L’ottava
del Boccaccio, diffusa, pedestre, insignificante, qui si fissa, prende una fisonomia. Ciascuna stanza è un piccolo
mondo, dove la cosa non lampeggia a guisa di rapida apparizione, ma ti sta riposata innanzi come un modello e
ti mostra le sue bellezze. Non è un periodo congegnato a
modo di un quadro, dove il protagonista emerga tra minori figure; ma è come una serie, dove ti vedi sfilare
avanti le parti ad una ad una di quel piccolo mondo. Diresti che in questa bella natura tutto è interessante, e
non ci è principale ed accessorio: maniera di ottava accomodata al genio di un uomo che non ammette l’insignificante e l’indifferente, e tutto vuole sia oro e porpora. Perciò non hai fusione, ma successione, che è la cosa
come ti si spiega innanzi, prima che il tuo spirito la scruti e la trasformi. La stanza non ti dà l’insieme, ma le parti; non ti dà la profondità, ma la superficie, quello che si
vede. Pure le parti sono così bene scelte e la serie è ordita con una gradazione così intelligente, che all’ultimo te
ne viene l’insieme, prodotto non dalla descrizione, ma
dal sentimento. Vuol descrivere la primavera e ti dà una
serie di fenomeni:
Zefiro già di be’ fioretti adorno
avea ai monti tolta ogni pruina;
avea fatto al suo nido già ritorno
la stanca rondinella peregrina;
risonava la selva intorno intorno
soavemente all’òra mattutina;
e la ingegnosa pecchia al primo albore
giva predando or uno or altro fiore.
Questi fenomeni sono così bene scelti, legati con tanto
accordo di pause e di tono, armonizzati con suoni così
freschi e soavi, che sembrano le voci di un solo motivo, e
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
te ne viene non all’occhio ma all’anima l’insieme, ed è
quel senso d’intima soddisfazione, che ti dà la primavera, la voluttà della natura. In Dante non ci è voluttà, ma
ebbrezza: così è trascendente. Nel Boccaccio non ci è
voluttà, ma sensualità. La voluttà è la musa della nuova
letteratura, è l’ideale della carne o del senso, è il senso
trasportato nell’immaginazione e raffinato, divenuto
sentimento. Qui è una voluttà tutta idillica, un godimento della natura senz’altro fine che il godimento, con perfetta obblivione di tutto l’altro; senti le prime e fresche
aure di questo mondo della natura assaporato da un’anima, il cui universo era la villetta di Fiesole illuminata e
abbellita da Teocrito e da Virgilio. Da questa doppia
ispirazione, un intimo godimento della natura accompagnato con un sentimento puro e delicato della forma e
della bellezza, sviluppato ed educato da’ classici, è uscito il nuovo ideale della letteratura, l’ideale delle Stanze,
una tranquillità e soddisfazione interiore piena di grazia
e di delicatezza nella maggior pulitezza ed eleganza della
forma; ciò che possiamo chiamare in due parole: «voluttà idillica». Il contenuto di questo ideale è l’età
dell’oro e la vita campestre, con tutto il corteggio della
mitologia, ninfe, pastori, fauni, satiri, driadi, divinità celesti e campestri, in una scala che dal più puro e più delicato va sino al lascivo e al licenzioso. La forma è il descrittivo ammollito e liquefatto in dolci note musicali,
quale apparisce nell’Orfeo e nelle Stanze, i due modelli
di questa letteratura, che iniziata nel Boccaccio, andrà
fino al Metastasio.
La quale non è lavoro solitario di letterato nel silenzio
del gabinetto, ma è lo spirito stesso della società, come si
andava atteggiando, còlto nelle costumanze e feste pubbliche. Centro di questo movimento è Lorenzo de’ Medici, col suo coro di dotti e di letterati, il Ficino, il Pico, i
fratelli Pulci, il Poliziano, il Rucellai, il Benivieni, e tutti
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
gli accademici. La letteratura vien fuori tra danze e feste
e conviti.
Lorenzo non avea la coltura e l’idealità del Poliziano.
Avea molto spirito e molta immaginazione, le due qualità della colta borghesia italiana. Era il più fiorentino
tra’ fiorentini, non della vecchia stampa, s’intende. Cristiano e platonico in astratto e a scuola, in realtà epicureo e indifferente, sotto abito signorile popolano e mercante da’ motti arguti e dalle salse facezie, allegro,
compagnevole, mezzo tra’ piaceri dello spirito e del corpo, usando a chiesa e nelle bettole, scrivendo laude e
strambotti, alternando orgie notturne e disputazioni accademiche, corrotto e corruttore. Era classico di coltura, toscano di genio, invescato in tutte le vivezze e le grazie del dialetto. Maneggiava il dialetto con quella facilità
che governava il popolo, lasciatosi menare da chi sapeva
comprenderlo e secondarlo nel suo carattere e nelle sue
tendenze. Chi comprende l’uomo è padrone dell’uomo.
Portò a grande perfezione la nuova arte dello Stato, quale si richiedeva a quella società, divenute le feste e la
stessa letteratura mezzi di governo. Alla violenza succedeva la malizia, più efficace: il pugnale del Bandini uccise un principe, non il principato; la corruzione medicea
uccise il popolo; o per dire più giusto, Lorenzo non era
che lo stesso popolo studiato, compreso e realizzato,
l’uno degno dell’altro. Tal popolo, tal principe. Quella
corruzione era ancora più pericolosa, perchè si chiamava «civiltà», ed era vestita con tutte le grazie e le veneri
della coltura.
Il giovine Lorenzo, odorando ancora di scuola, tra il
Landino e il Ficino, dantesco, petrarchesco, platonico,
con reminiscenze e immagini classiche, entra nella folla
de’ rimatori, i quali continuavano il mondo tradizionale
de’ sonetti e delle canzoni. Ce n’erano a dozzina, e in
tutte le parti d’Italia: l’uomo colto esordiva col sonetto,
uso giunto fino a’ tempi nostri. Molti canzonieri usciro-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
no in questo secolo; appena è se oggi si ricordi Giusto
de’ Conti e il Benivieni. Continuare il Petrarca dovea significare realizzarlo, sviluppare quell’elemento sensuale,
idillico, elegiaco, che giace sotto il suo strato platonico e
che è l’elemento nuovo. Ma il povero Petrarca era malato, e i sonettisti esalano sospiri poetici dall’anima vuota
e indifferente. Del Petrarca rimane il cadavere: immagini e concetti scastrati dal mondo in cui nacquero e campati in aria, senza base. Non c’è più un mondo organico,
ma un accozzamento fortuito e monotono di forme divenute convenzionali. Manca l’immaginazione e la malinconia e l’estasi, i veri fattori del mondo petrarchesco:
restano le astrattezze platoniche e le acutezze dello spirito, congiunta l’insipidezza con le vuote sottigliezze, come nelle rime tanto celebrate del Ceo, del Notturno, del
Serafino, del Sasso, del Cornazzano, del Tebaldeo. Lorenzo comincia lui pure con qualche cosa come la Vita
nuova, e narra il suo innamoramento, con le occasioni e
le spiegazioni de’ suoi sonetti, in una prosa grave e ampia alla maniera latina, pur disinvolta e franca. Anche
nel suo Canzoniere appariscono forme e idee convenzionali; anche vi domina lo spirito, di cui avea sì gran dovizia. Ma c’è lì una sua impronta; ci è un sentimento idillico e una vivacità d’immaginazione che alcuna volta ti
rinfresca e ti fa andare avanti con pazienza. Non ci è sonetto o canzone che si possa dire una perfezione; ma c’è
versi assai belli e qua e là paragoni, immagini, concetti
che ti fermano.
Il sonetto e la canzone sono quasi forme consacrate e
inalterabili, dove nessuno osa mettere una mano profana. Rimangono perciò immobili, senza sviluppo. Il nuovo spirito si fa via nella nuova forma, l’ottava rima o la
stanza. Vi apparisce l’amore idillico-elegiaco, proprio
del tempo; la forma condensata del Petrarca si scioglie e
si effonde ne’ magnifici giri dell’ottava; non più concetti
e sottili rapporti; hai narrazioni vivaci e fiorite descrizio-
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ni. Anche dove il concetto è dantesco, come nelle stanze
del Benivieni, che, lasciato il primo casto amore e corso
appresso alla sirena, si sente trasformato in lonza, la forma è lussureggiante e vezzosa, e più simile a sirena che a
casta donna. Modello di questo genere è la Selva d’Amore di Lorenzo, composizione a stanze, d’un fare largo e
abbondante, alquanto sazievole, il cui difetto è appunto
il soverchio naturalismo, una realtà minuta, osservata e
riprodotta esattamente ne’ suoi caratteri esterni, non fatta dall’arte mobile e leggiera, non idealizzata. Tra le sue
più ammirate descrizioni è quella dell’età dell’oro, dove
è patente questo difetto. Vedi l’uomo in villa, che tutto
osserva, e anima con l’immaginazione la natura senza
averne il sentimento. Ci è l’osservatore, manca l’artista.
Bella e parimente sazievole è la descrizione degli effetti che gli occhi della sua donna producono sulla natura. La soverchia esattezza nuoce all’illusione e addormenta l’immaginazione. Veggasi questa ottava:
Siccome il cacciator ch’i cari figli
astutamente al fero tigre fura;
e benchè innanzi assai campo gli pigli,
la fera, più veloce di natura
quasi già il giunge e insanguina gli artigli;
ma veggendo la sua propria figura
nello specchio che trova in su la rena,
crede sia ’l figlio e ’l corso suo raffrena.
Ci si vede un uomo che in un fatto così pieno di concitazione rimane tranquillo in uno stato prosaico, e osserva
e spiega il fenomeno e lo rende con evidenza, ma non ne
riproduce il sentimento: c’è l’esattezza, manca il calore e
l’armonia. Veggasi ora l’artista, il Poliziano:
Qual tigre a cui dalla pietrosa tana
ha tolto il cacciator gli suoi car figli;
rabbiosa il segue per la selva ircana,
che tosto crede insanguinar gli artigli;
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
poi resta di uno specchio all’ombra vana,
all’ombra ch’e suo’ nati par somigli;
e mentre di tal vista s’innamora
la sciocca, el predator la via divora.
Anche Lorenzo descrive le rose, come fa il Poliziano; ma
si paragoni. Ciò che in Lorenzo è naturalismo, è idealità
nel Poliziano. Nell’uno è il di fuori abbellito dall’immaginazione, l’altro nel di fuori ti fa sentire il di dentro.
Lorenzo dice:
Eranvi rose candide e vermiglie:
alcuna a foglia a foglia al sol si spiega,
stretta prima, poi par s’apra e scompiglie:
altra più giovinetta si dislega
appena dalla boccia; eravi ancora
chi le sue chiuse foglie all’aer niega;
altra cadendo a piè il terreno infiora.
Minuta analisi, con perfetta esattezza di osservazione e
con proprietà rara di vocaboli. Vedete ora nel Poliziano
queste rose animarsi come persone vive: ne senti la fragranza, la grazia, la freschezza:
questa di verdi gemme s’incappella;
quella si mostra allo sportel vezzosa;
l’altra che ’n dolce foco ardea pur ora,
languida cade e il bel pratello infiora.
In questo genere narrativo e descrittivo, di cui il Boccaccio nel Ninfale dava l’esempio, il poeta non è obbligato a
platonizzare e sottilizzare intorno alle sue poetiche fiamme per tutta una vita. Finge amori altrui, e in luogo di
chiudersi nella natura e ne’ fenomeni dell’amore fino alle più raffinate acutezze, trae colori nuovi e freschi dalla
qualità degli avvenimenti e dalla natura e condizioni dei
personaggi che introduce sulla scena. La donna cala dalle nubi e acquista una storia umana. Come son care que-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ste ricordanze di donna amata, che torna a casa e non vi
trova il suo amore!
Qui l’aspettai, e quinci pria lo scòrsi,
quinci sentii l’andar de’ leggier piedi,
e quivi la man timida li porsi;
qui con tremante voce dissi: – Or siedi, –
qui volle allato a me soletto porsi,
e quivi interamente me li diedi...
O sospirar che d’ambo i petti uscia!
O mobil tempo, o brevi ore e fugaci,
che tanto ben ve ne portaste via!
Quivi lasciommi piena di disio,
quando già presso al giorno disse: – Addio.
L’Ambra, il Corinto, Venere e Marte, la Nencia sono
poemetti di questo genere. Soprastà per calore ed evidenza di rappresentazione l’Ambra, graziosa invenzione
ispirata da Ovidio e dal Boccaccio. Ma il capolavoro è la
Nencia, che pare una pagina del Decamerone. Qui Lorenzo lascia la mitologia e gli amori sentimentali e idillici, ed entra nel vivo della società, rappresentando gli
amori di Vallera e Nencia, due contadini, con un tono
equivoco che non sai se dica da senno o da burla, e scopre il borghese disposto a pigliarsi beffe della plebe.
Tutta Firenze fu piena della Nencia; era la città che metteva in caricatura il contado. L’idillio vi si accompagna
con quel sale comico, che si sente nel prete di Varlungo
e monna Belcolore, e che è la vera genialità di Lorenzo:
basta ricordare i Beoni. Chi ama i paragoni ragguagli la
Beca, la Nencia e la Brunettina, tre ritratti di contadine.
Nella Beca del Pulci senti il puzzo del contado: la caricatura è sfacciatamente volgare e licenziosa. Nella Nencia
hai l’idealità comica: una caricatura fatta con brio e con
grazia, con un’aria perfetta di bonomia e di sincerità.
Nella Brunettina del Poliziano hai il ritratto ideale della
contadina, rimossa ogni intenzione comica. È la Venere
del contado con morbidezza di tinte assai ben fuse, vez-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
zosa e leggiadra nella maggior correzione ed eleganza
del disegno. Notabile è soprattutto la verità del colorito
e la perfetta realtà.
Tra le feste si ravviva la poesia popolare. Vedevi Lorenzo andar per le vie, come re Manfredi, sonando e
cantando tra’ suoi letterati. Il poeta della Nencia qui è
nel suo vero terreno, divenuto la voce di quella società
licenziosa e burlevole. La trasformazione è compiuta:
giungiamo sino alla parodia fatta con intenzione. I Beoni
o il Simposio è una parodia della Divina Commedia e dei
Trionfi non pur nel disegno, ma nelle frasi: le sacre immagini dell’Alighieri sono torte a significare le sconcezze e turpitudini dell’ebbrezza. Tra questi passatempi
poetici è da porre la Caccia col falcone, fatti frivoli e insignificanti, ma raccontati con lepore e con grazia in stanze sveltissime, con tutt’i sali e le vivezze del dialetto. Così si passava allegramente il tempo:
E così passo, compar, lieto il tempo,
con mille rime in zucchero ed a tempo.
Che è la fine e insieme il significato di questa pittura di
costumi.
Lo stesso spirito è nelle ballate e ne’ canti carnascialeschi: una sensualità illuminata dall’allegria e dall’umor
comico. Il mondo convenzionale de’ trovatori è ito via, e
insieme il suo vocabolario. Ti senti in mezzo a un popolo festevole e motteggiatore, che ha rotto il freno e si dà
balìa. Un’allegria spensierata e licenziosa è il motivo di
questi canti: l’amore non è un affetto, ma un divertimento, un modo di stare allegri. Il motto comune è la brevità
della vita, l’orrore della vecchiezza, il dovere di coglier
la rosa mentre è fiorita, quel tale: «Edamus et bibamus:
post mortem nulla voluptas». Aggiungi la caricatura de’
predicatori di morale e delle cose sacre, com’è la confessione di Lorenzo e la sua preghiera a Dio contro i mal
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
parlanti. In questo mondo, rappresentato dal vero e
nell’atto della vita, così di fuga e tra le impressioni, non
hai concetti raffinati, ma pittura vivace di costumi e di
sentimenti, come l’ansia dell’aspettare nella canzone:
Io non so qual maggior dispetto sia
che aspettar quel che il cor brama e desia;
o il dispetto contro i gelosi:
Non mi dolgo di te, nè di me stessi,
chè so mi aiuteresti stu potessi;
o quel volere e disvolere della donna nella canzonetta
sulla pazzia, e nell’altra, tirata giù tutta di un fiato, così
rapida e piena di cose:
Ei convien ti dica il vero
una volta, dama mia.
Questo carnevale perpetuo si manifesta ne’ Canti e
Trionfi carnascialeschi in tutta la sua licenza. Uscivano di
carnovale, come si costuma anche oggi, carri magnificamente addobbati, ora rappresentazioni mitologiche,
com’è il Trionfo di Bàcco e Arianna co’ suoi satiri e Sileno e Mida, ora corporazioni di arti e mestieri, com’è il
canto de’ «cialdonai», o de’ «calzolai», o delle «filatrici», o de’ «bericuocolai», ora pitture sociali, come il canto delle «fanciulle», o delle «giovani donne», o de’ «romiti», o de’ «poveri». Il motivo generale è l’amor
licenzioso, stuzzicato spesso da equivoci e allusioni che
mettono in moto l’immaginazione. È il cinismo del Boccaccio giunto in piazza e portato in trionfo. La rappresentazione della vita e de’ costumi e delle condizioni sociali e l’allegra caricatura, che sono l’anima di questo
genere di letteratura, com’è nel «carnevale» di Goethe,
si perdono ne’ bassi fondi della oscenità plebea. Cosa
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ora possono essere le sue Laude, se non parodie? Concetti, antitesi, sdolcinature e freddure.
In questa pozzanghera finirono le serenate, le mattinate, le dipartite, le ritornate, le lettere, gli strambotti, le
cacce, le mascherate, le frottole, le ballate, venute a mano de’ letterati. Il mondo del Boccaccio e del Sacchetti
perde i suoi vezzi e le sue leggiadrie ne’ sonetti plebei
del canonico Franco e suoi pari, che non avevano neppure l’arguzia e la festività di Lorenzo.
Il popolo era meno corrotto de’ suoi letterati. Ne’
suoi canti non trovavi certo l’amore platonico e ascetico
e i concetti raffinati, ma neppure gli equivoci osceni di
Lorenzo e le brutture del Franco.
La più schietta voce di questa letteratura popolare è
Angelo Poliziano. Rado capita negli equivoci. Scherza,
motteggia, ma con urbanità e decenza, come ne’ suoi
consigli alle donne:
Io vi vo’, donne, insegnare
come voi dobbiate fare;
e nel «ritratto della vecchia», e in quella ballata graziosissima:
Donne mie, voi non sapete
che io ho il mal che avea quel prete.
Nelle sue ballate senti la gentilezza e la grazia delle
«montanine» di Franco Sacchetti, massime quando il
fondo è idillico, come nella ballata dell’«augelletto», e
nell’altra:
Io mi trovai, fanciulle, un bel mattino
di mezzo maggio, in un verde giardino.
Nelle sue canzoni e canzonette, nelle sue Lettere e ne’
suoi rispetti non trovi novità d’idee o d’immagini o di si-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
tuazioni, e neppure un’impronta personale e subbiettiva, come nel Petrarca. Ci trovi il segretario del popolo,
che traduce in forme eleganti il repertorio comune de’
canti popolari dall’un capo all’altro d’Italia. Perciò non
hai qui la freschezza e originalità delle stanze idilliche:
spesso ci senti la fretta e la distrazione, come di chi scriva di fuga e per occasione. Vedi ritornare le stesse idee
con lievi mutamenti, com’è il fuggire del tempo e il coglier la rosa fiorita. Il dizionario delle idee popolari è
piccolo volume, e non s’ingrandisce in mano al Poliziano. Quelle poche idee si aggirano intorno a situazioni
generiche e semplici, come sono la bellezza del damo o
della dama, la gelosia, la dipartita, l’attendere, lo sperare, l’incitare, la disperazione e i pensieri di morte, le dichiarazioni e le disdette. Sono l’espressione di un essere
collettivo, non del tale e tale individuo. E così sono nel
Poliziano. I nomi mutano, secondo l’argomento, come
la dipartita e la ritornata, e anche secondo il tempo, come la serenata o il notturno o la mattinata; ma le forme
sono le stesse. Sono per lo più stanze in rime variamente
alternate, come nelle ballate e ne’ rispetti, fatte svelte e
leggiere nelle canzonette, ove domina il settenario o l’ottonario. Spesso non hai che un solo motivo variamente
modulato e con graziose ripigliate, come fosse un trillo o
un gorgheggio:
E crederrei, s’io fossi entro la fossa,
risuscitare al suon di vostra gola;
crederrei, quando io fussi nell’inferno,
sentendo voi, volar nel regno eterno.
La ripigliata è il vezzo del rispetto toscano. Ci si vede il
cervello in riposo, fra onde musicali, e come viene l’idea,
non corre a un’altra, ma ci si ferma e la trattiene deliziosamente nell’orecchio, finchè non le abbia data tutta la
sua armonia. Questo palpare e accarezzare l’idea, compiuta già come idea, ma non ancora compiuta come suo-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
no, è proprio della poesia popolare, povera d’idee, ricca
d’immagini e di suoni. La parola è nel popolo più musica che idea. Ciò che si diceva allora: «cantare a aria»,
qual si fosse il contenuto, o come dice un poeta, «siccome ti frulla». Così cantavasi «Crocifisso a capo chino»,
una lauda, con la stess’aria di una canzone oscena.
Tra queste impressioni nacque la «canzone di maggio», il saluto della primavera:
Ben venga Maggio,
e il gonfalon selvaggio,
cantata dalle villanelle, che venivano a Firenze, anche
due secoli dopo, come afferma il Guadagnoli. Vi si nota
la fina eleganza di un uomo che fa oro ciò che tocca,
congiunta con una perspicuità che la rende accessibile
anche alle classi inculte. Se Lorenzo esprime della vita
popolare il lato faceto e sensuale, con l’aria di chi partecipa a quella vita ed è pur disposto a pigliarne spasso; il
Poliziano anche nelle sue più frivole apparenze le gitta
addosso un manto di porpora, elegante spesso, gentile e
grazioso sempre. Alla idealità del Poliziano si accosta alquanto solo il Trionfo di Bacco e Arianna.
Lorenzo e il Poliziano sono il centro letterario de’
canti popolari, sparsi in tutta Italia non solo in dialetto,
ma anche in volgare, e di alcuni ci sono rimasti i primi
versi, come: «O crudel donna, che lasciato m’hai»; «Giù
per la villa lunga / la bella se ne va»; «Chi vuol l’anima
salvare / faccia bene a’ pellegrini», ecc. Vi si mescolavano laude, racconti e poemetti spirituali con le stesse intonazioni. Li portavano ne’ più piccoli paesi i rapsodi o
poeti ambulanti e i ciechi con la loro chitarra o mandòla
in collo, che vivevano di quel mestiere. E si chiamavano
«cantastorie», quando i loro canti erano romanzette o
romanze, racconti di strane avventure intercalati di
buffonerie e motti licenziosi. Questa letteratura profana
e proibita a’ tempi del Boccaccio, come s’è visto, era il
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
passatempo furtivo anche delle donne colte ed eleganti.
Erano alla moda «romanzi franceschi» con le loro traduzioni, imitazioni e raffazzonamenti in volgare. In questo
secolo moltiplicarono co’ rispetti e le ballate anche i romanzi. Della cavalleria si vedeva l’immagine sfarzosa
nelle corti, e alcuna lontana reminiscenza ne davano le
compagnie di ventura. Cavaliere e cavallo era ancora il
tipo della storia, l’ideale eroico celebrato nelle giostre e
riflesso ne’ romanzi. Se ne scrivevano in dialetto e in volgare. Tra gli altri che venner fuori, sono degni di nota
l’Aspromonte, l’Innamoramento di Carlo, l’Innamoramento di Orlando, Rinaldo, la Trebisonda, i Fioretti de’
paladini, il Persiano, la Tavola rotonda, il Troiano, la Vita
di Enea, la Vita di Alessandro di Macedonia, il Teseo, il
Pompeo romano, il Ciriffo Calvaneo. Il maggiore attrattivo era la libertà delle invenzioni: si empivano le carte di
fole e di sogni, come dice il Petrarca; e chi le dicea più
grosse, era stimato più. Questo elemento fantastico penetrò anche ne’ misteri, come nelle laude era penetrato
il canto popolare. Le rappresentazioni presero una tinta
romanzesca: l’effetto, non potendosi più trarre da un
sentimento religioso che faceva difetto, si cercava nella
varietà e nel maraviglioso degli accidenti, com’è il San
Giovanni e Paolo di Lorenzo.
Il romanzo adunque era penetrato in tutti gli strati
della società, e dalle corti scendeva fino ne’ più umili villaggi e di là risaliva alle corti. La plebe aveva i suoi cantastorie, la corte aveva i suoi novellatori. E non si contentavano di riferire i fatti come erano trasmessi dalle
cronache e dalle tradizioni, ma vi aggiungevano del loro
non solo nel colorito e negli accessorii, ma nella invenzione. Il Boccaccio recitava i suoi romanzi a corte e tra
liete brigate, come immagino fossero recitate le sue novelle. Il suo Florio, il Teseo, il Troilo lasciarono poco
durevole vestigio, perchè argomenti poco popolari e
guasti dall’erudizione e dalla mitologia. Ma l’impulso da
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
lui dato fu grande; e la ballata, la novella, il romanzo, ciò
che chiamasi letteratura profana, divennero l’impronta
del secolo, da Franco Sacchetti a Lorenzo de’ Medici.
La cavalleria propriamente detta avea per suo centro gli
eroi della Tavola rotonda e i paladini di Carlomagno. In
antico la Tavola rotonda avea molta popolarità, e Tristano e Isotta tennero per qualche tempo il primato. Il
Boccaccio nell’Amorosa visione cita gli eroi principali di
queste tradizioni normanne, come nomi già noti e volgari. Ma la Francia era più nota, e i «romanzi franceschi
più diffusi», e Carlomagno avea un certo legame con
l’Italia, come un eroe religioso, protettore del papa e
vincitore de’ saracini e precursore delle crociate. Era già
comparso l’Innamoramento di Orlando. E Matteo Boiardo ci die’ l’Orlando innamorato, una vasta tela in sessantanove canti, interrotta dalla morte.
Il Boiardo, conte di Scandiano, crebbe nella corte
estense, divenuta un centro letterario importante accanto a Napoli, Roma e Firenze. Ivi la letteratura nasceva
pure fra le giostre, gli spettacoli e le danze. Il Boiardo,
uomo coltissimo, dotto di greco e di latino, studiosissimo di Dante e del Petrarca, era rimasto estraneo al movimento impresso dal Boccaccio alla letteratura toscana.
Ne’ suoi sonetti, canzoni e ballate è facile a vedere non
so che astratto e rigido, come di uomo ben composto
negli atti e nella persona, pure impacciato. È in lui una
serietà di motivi che in quel secolo della parodia si può
chiamare un anacronismo. Gli piace recitare i suoi canti
tra liete brigate, e averne le lodi; ma i passatempi e gli
scherzi non sono il suo elemento, e crederebbe profanare i suoi eroi a pigliarsene gioco. Racconta con la serietà
d’Omero, e fu salutato allora l’«Omero italiano». Certo,
non crede alle sue favole, e non ci credono i suoi colti
uditori, e la comune incredulità scappa fuori alcuna volta in qualche tratto ironico; ma questo riso della coltura
a spese della cavalleria non è il motivo, e un accessorio
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
fuggevole del racconto. Cosa dunque aveva più di serio
la cavalleria nella coscienza italiana? Di vivo non era rimasto altro che le pompe e le cerimonie e le feste delle
corti. Quelle forme erano così vuote, come le cerimonie
chiesastiche, scomparso ogni sentimento eroico e religioso, anzi negato e parodiato. Invano si studia il Boiardo di togliere alla plebe il romanzo e dargli le serie proporzioni di un’epopea.
Il mondo omerico è un organismo vivente, dove sentimenti, pensieri, costumi e avvenimenti sono perfettamente realizzati e armonizzati: il mondo cavalleresco,
mancati tutt’i suoi motivi interiori, è qui sotto forme
epiche il mondo plebeo dell’immaginazione, un maraviglioso sciolto dalle leggi dello spazio e del tempo, senza
serietà di scopo e di mezzi, tra castelli incantati e colpi
di spada. Come Elena nell’Iliade, qui è Angelica che move intorno a sè Europa e Asia; salvo che Elena è un semplice antecedente, rimasto ozioso nel racconto, e Angelica è la vera motrice dell’immensa macchina, è il
maraviglioso in permanenza, la maga. Il miracolo continua: non lo fanno i santi; lo fanno i maghi e le maghe. E
il miracolo non è la macchina o l’istrumento, ma è fine a
se stesso. Voglio dire che il miracolo non è un mezzo per
conseguire uno scopo serio e sviluppare un’azione interessante, come nelle leggende e ne’ primitivi poemi cavallereschi animati dalla fede; non essendo nel mondo
del Boiardo altra serietà che il miracolo stesso, il fine di
sorprendere gli uditori con la straordinarietà degli avvenimenti. I motivi delle azioni non sono a cercare nella
serietà di un mondo religioso, morale, eroico, divenuto
convenzionale e tradizionale, come il mondo cristiano,
ma nel libero gioco delle passioni e de’ caratteri sotto
l’influsso di potenze occulte. Onde nasce un mondo pieno di vivacità e di mobilità, dove tutte le forze dell’individuo, non frenate da leggi e da autorità superiori, si sviluppano nel pieno rigoglio della natura e producono
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
effetti così maravigliosi come le stregonerie e gl’incanti.
Orlando e Rinaldo ti fanno maravigliare non meno che
Malagigi e Angelica. Un mondo così essenzialmente fantastico e insieme così poco serio per il poeta e per gli
uditori è in fondo quel mondo della cortesia calato dal
Boccaccio in mezzo alla borghesia e fatto moderno, e ritirato dal Boiardo alle sue aure natie. Il ferrarese ha creduto renderlo cosa seria, dandogli forma nobile e decorosa, purgata dalle licenze e da’ disordini de’ romanzi
plebei; ma è appunto quest’apparenza di serietà che toglie attrattivo al suo racconto. Ne’ romanzi plebei il maraviglioso fa un effetto serio sugl’ignoranti e ingenui
uditori; ma i colti «signori e cavalieri», alla cui presenza
recitava il Boiardo i suoi canti, non potevano vedere in
quei fantastici racconti che un puro giuoco d’immaginazione, disposti a spassarsi della plebe, che faceva gli occhioni e apriva la bocca. Quel mondo dunque non poteva divenire borghese se non trasportato
nell’immaginazione e accompagnato da un sogghigno. E
tutte e due queste condizioni mancano nell’Orlando innamorato. Il Boiardo ha molta vena inventiva: avvenimenti e personaggi pullulano sotto la sua penna. Certo,
non è tutto cosa sua; raccoglie di qua e di là; trova innanzi a sè un immenso materiale agglomerato da’ secoli:
ma quella materia la fa sua, scegliendo, combinando, padroneggiandola. Il suo intento, direi quasi la sua vanità,
è di sorprendere gli uditori con la ricchezza e varietà de’
suoi intrecci, menandoseli appresso tra le più strane avventure. Ma al Boiardo mancano tutte le grandi qualità
dell’artista, e soprattutto quelle due che sono essenziali
alla rappresentazione di questo mondo, l’immaginazione e lo spirito. Ben tenta talora lo scherzo; ma rimane un
tentativo abortito: non ha brio, non facilità, non grazia.
Gli manca lo spirito e gli manca ancora quell’alta immaginazione artistica che si chiama fantasia. Vede chiaro,
disegna preciso, come fosse un mondo storico; e appun-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
to perciò in un mondo così fantastico rimane pedestre e
minuto, e non ti sottrae al reale, non ti ruba i contorni,
non ti tira per forza in una regione incantata. A questo
grande inventore di magie la natura negò la magia più
desiderabile, la magia dello stile. Le più originali concezioni, le più interessanti situazioni ti cascano sul più bello: sei nel fantastico e ti trovi nel volgare, e Angelica ti si
trasforma in una donnicciuola e Orlando in un babbeo.
Il che avviene senza intenzione comica, unicamente per
la soverchia crudezza de’ colori, a cui mancano le gradazioni e le mezze tinte. Così quel mondo, che nella sua intima natura dovea essere fantastico e comico, ti riesce
spesso nella rappresentazione prosaico e volgare. Non
una sola situazione, non una figura è rimasta viva. Dicesi
che il nobil conte facesse suonare a festa le campane del
villaggio, quando gli venne trovato il nome di Rodamonte, quasi l’importanza fosse ne’ nomi o ne’ fatti. E non è
Rodamonte che è rimasto vivo, è Rodomonte.
Se il Boiardo recitava i suoi canti a’ signori ferraresi,
Luigi Pulci rallegrava le feste e i conviti di Lorenzo recitando le stanze del suo Morgante. Qui ritroviamo la fisonomia letteraria del tempo nelle sue gradazioni, dal Burchiello «sgangherato e senza remi», come lo chiama
Battista Alberti, sino a Lorenzo de’ Medici. Il Pulci discende in diritta linea dal Boccaccio e dal Sacchetti, e ne
sviluppa le tendenze con più energia che non il Poliziano e non Lorenzo.
Piglia il romanzo come lo trova per le vie, un miscuglio di santo e di profano, di buffonesco e di serio. E
non pensa a dargli un carattere eroico, anzi niente più
gli ripugna che la tromba. Ti dà un mondo rimpiccinito,
fatto borghese: gli eroi sono scesi dal piedistallo, hanno
perduta la loro aureola, e ti camminano innanzi semplici
mortali. Niente è più volgare che Carlo o Gano. Carlo è
un rimbambito, Gano è un birbante destituito di ogni
grandezza: volgare lui, volgari i suoi intrighi. Rinaldo è
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
un ladrone di strada, Ulivieri è un cacciatore di donne e
la sua Meridiana non è in fondo che una femminella. Di
caratteri e passioni non è a far parola: è un mondo superficiale e mobilissimo, e vai di palo in frasca, e non ti
raccapezzi. Gano trama la rovina de’ paladini, Forisena
si gitta dalla finestra, Babilonia rovina, Carlo è scoronato da Rinaldo; tutti questi grandi avvenimenti scappan
fuori appena abbozzati, come non fossero opera di uomini, ma di qualche bacchetta magica, rappresentati con
la stessa indifferenza e leggerezza di colorito, con la quale Morgante si mangia un elefante e sfracella il capo a
una balena. È la cavalleria com’era concepita e trasformata dalla plebe. Il cantastorie è in fondo un giullare, o
piuttosto un buffone plebeo, che abbassa quel mondo al
suo livello e de’ suoi uditori, e invocati gravemente Dio
e i santi e la Madonna, si abbandona a’ suoi lazzi, e ti fa
sbellicar dalle risa. Il buffone, personaggio accessorio
ne’ racconti e nelle commedie, è qui il personaggio principale, è lo spirito stesso del racconto. La parte più seria
del romanzo è certo la morte di Orlando; e anche lì
quanti lazzi! Ecco il principio della grande battaglia:
Chi vuol lesso Macon, chi l’altro arrosto;
ognun volea del nimico far torte:
dunque vegnamo alla battaglia tosto,
sì ch’io non tenga in disagio la morte,
che colla falce minaccia ed accenna
ch’io muova presto le lance e la penna.
Nell’inferno si fa gran festa, che attendono i pagani; Lucifero «trangugiava a ciocche le anime che piovean de’
seracini»; e san Pietro attende le anime de’ cristiani:
E perchè Pietro a la porta è pur vecchio,
credo che molto quel giorno s’affanna;
e converrà ch’egli abbi buon orecchio,
tanto gridavan quelle anime: – Osanna! –
ch’eran portate dagli angeli in cielo:
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sicchè la barba gli sudava e ’l pelo.
I campi di battaglia svegliano immagini tolte ad imprestito da’ macellai e da’ cucinieri; i colpi di spada sono in
modo così grossolano esagerati che la morte stessa diviene ridicola; i miracoli sono così strani e così caricati che
perdono ogni serietà, come è Orlando morto, trasformato in colomba, che si posa sulla spalla di Turpino e gli
entra in bocca con tutte le penne.
Se il buffone fosse di buona fede, seriamente credulo
e sciocco, avremmo il grottesco, com’è ne’ romanzi primitivi. Ma qui il buffone è un uomo colto, che parla a un
colto uditorio, e non è il buffone, ma fa il buffone, contraffacendo il cantastorie e la plebe che gli crede. Sicchè
ci troviamo in quella stessa disposizione di animo che
ispirò la Belcolore e la Nencia: è il borghese che si spassa
alle spalle della plebe. E te ne accorgi alla finta serietà
con che il poeta, quando le dice assai grosse, chiama in
testimonio Turpino, o dove nelle cose più gravi fa boccacce e t’esce fuori con una smorfia e si burla del suo argomento e de’ suoi personaggi. La parodia è ancora più
comica, perchè dissimulata con molta cura, di rado rilevata, e posta il più sovente nella natura stessa del fatto
senza alcuno artificio di forma, come è Morgante che
uccide una balena ed è ucciso da un granchiolino, o
Margutte che scoppia dalle risa e muore. E riderà in
eterno, nota l’angiolo Gabriello, trasformato l’individuo
in tipo. La rappresentazione è anch’essa conforme a
questa parodia plebea. La plebe non analizza e non descrive; ma ha l’intuito sicuro e la percezione viva, e coglie ciò che vede alla naturale e così in grosso, e non ci si
ferma e passa oltre. La forma qui è tutta esteriore e rapida; si movono insieme «le lance e la penna»; l’autore,
mentre move la penna, vede le lance moversi, vede quello che scrive; le figure si staccano dal fondo, e ti balzano
innanzi vivide, e tu le cogli in una sola girata d’occhio.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
L’ottava non ha periodo e le rime non hanno gioco: è un
incalzare di versi senza posa, frettolosi, poco curati, gli
uni addossati agli altri, e spesso tutto il quadro è un verso solo. Al che aiuta il dialetto, maneggiato maestrevolmente, soprattutto per la proprietà de’ vocaboli. Tutto è
plebeo: azioni, passioni e linguaggio. Un capolavoro di
questa vita plebea è il sacco di Sarragozza, col supplizio
di Gano e di Marsilio. – «E io voglio fare il boia» –, dice
l’arcivescovo Turpino. Uno di quei tratti che illuminano
tutta una situazione. La risposta di Rinaldo a Marsilio,
che vuol farsi cristiano all’ultima ora, è quale potrebbe
suonare in bocca di un becero.
Il romanzo è una commedia, che contro l’intenzione
dell’autore si volge in tragedia. Ma la tragedia è da burla, e non ce n’è il sentimento. Lo spirito del racconto è il
basso comico, un comico vuoto e spensierato, che imputridisce nelle acque morte di un’immaginazione volgare
e non si alza a fantasia. Maggiore spirito è in Lorenzo e
nel Boccaccio, che si mescolano fra la plebe, e non sono
plebe e la guardano alcun poco dall’alto. Ma il Pulci, ancorchè uomo colto, per i sentimenti e le inclinazioni è
plebe, e a forza di rappresentare la parte del buffone
plebeo, diviene egli medesimo quel cotale. Perciò gli
mancano tutte le alte qualità di un artista comico: la grazia, la finezza, la profondità dell’ironia, e ti riesce spesso
grossolano, superficiale, inculto e negletto anche nella
forma. Ha non solo la grossolanità, ma anche l’angustia
di un’immaginazione plebea, non essendoci ne’ suoi
personaggi molta ricchezza di carattere, quella varietà di
movenze, di sentimenti e d’istinti che fa dell’uomo un
piccolo mondo. Rinaldo, Orlando, Ulivieri, Astolfo,
Sansonetto, Ricciardetto, i paladini sono tutti a uno
stampo, e non ci è differenza in loro che della forza. Malagigi è insignificante. Gano, Falserone, Bianciardino,
Marsilio, Caradoro, Manfredonio, Falcone, Salincorno,
tutt’i pagani sono esseri superficiali, e spesso puri nomi.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
I più accarezzati dall’autore sono i due personaggi del
suo cuore, Morgante e Margutte. Morgante è lo scudiere di Orlando, ed è il vero protagonista, lo spirito del
racconto. Non è il cavaliere, è lo scudiere l’eroe di questa storia plebea, il cui spirito penetra dappertutto e si
continua anche dopo la sua morte. Morgante rappresenta il lato eroico e cavalleresco della plebe, ghiotto, millantatore, ignorante, di poca malizia, ma buono, fedele e
coraggioso. Il suo battaglio è l’emulo di Durindana.
Margutte è la plebe nella sua degenerazione e corruzione, ignobile, beffardo, ladro, fraudolento, assai vicino
all’animale. Questi due esseri accoppiati insieme si compiono e si spiegano. Se ci fosse maggiore stacco tra queste figure volgari e i cavalieri, nel loro antagonismo o
dualismo sarebbe la vera parodia, come è di Sancio Panza e don Chisciotte. Ma lo spirito plebeo penetra ancora
fra’ cavalieri, e Margutte e Morgante sono non una parte, ma il tutto, l’alto modello a cui più o meno è informata la storia, intitolata a buona ragione Il Morgante.
Una concezione originale è Astarotte. Il diavolo cornuto di Dante, che già riceve una prima trasformazione
nel suo nero cherubino, il bravo loico che ha tutta l’aria
di un dottore di Bologna, qui prende aria paesana, ed è
un buon compagnone. Come il nero cherubino arieggia
agli scolastici, Astarotte è il nuovo spirito del secolo,
motteggiatore, ironico e libero pensatore, che fa il teologo e l’astrologo, e spiega la Bibbia a modo suo, e battezza asini Dionisio e Gregorio; chè
ognuno erra
a voler giudicare il ciel di terra
Astarotte, che è stato un serafino e de’ principali, sa
molte cose, che non sanno «i poeti, i filosofi e i morali»,
e dice la verità, e non fa come gli spiriti folletti che si aggirano per l’aria e ingannano gli uomini, «facendo parere quel che non è»:
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
chi si diletta ir gli uomini gabbando,
chi si diletta di filosofia,
chi venire i tesori rivelando,
chi del futuro dir qualche bugia.
Vedesi la filosofia messa a fascio con l’astrologia e le altre arti di gabbare gli uomini.
Ma Astarotte promette di dire la verità, e tiene la promessa, come un diavolo d’onore:
Chè gentilezza è bene anche in inferno.
E sa la verità non per ragione, ma per esperienza, come
di cose che vede e tocca, confermandole anche con l’autorità della Scrittura. Dove ci vuol ragione, come nella
quistione della prescienza, la quale «l’umana gente avvolge di tanti errori», dice: – «Nol so: però non ti rispondo» –. Ma quanto a’ fatti, afferma ardito e sicuro. E
afferma che, salvo i giudei e i saracini, piacciono a Dio
quelli che osservano la loro religione, come fecero gli
antichi romani, su’ quali piovve tanta grazia celeste; che
al di là delle colonne d’Ercole è l’altro emisperio, abitato
come questo, e ben vi si può ire; che quella gente è parte
della famiglia di Adamo, anch’essa redenta, altrimenti
Dio sarebbe stato partigiano; che gli animali pinti nel
padiglione di Luciana non sono tutti, e compie la lista
descrivendo un gran numero di animali poco noti. Rinaldo, avido d’imparare, si propone di lanciarsi pe’ mari
ignoti e scoprire il nuovo mondo rivelato da Astarotte:
la poesia indovina Cristoforo Colombo, o piuttosto la
scienza, perchè il dotto Astarotte era in fondo il celebre
Toscanelli, amico e suggeritore del Pulci.
Questa concezione è una delle più serie della nostra
letteratura e delle meglio disegnate e sviluppate del Morgante. Ci è lì il secolo nelle sue intime tendenze non ancora ben chiare, che volge le spalle alle forme scolastiche
e alle contemplazioni ascetiche, e diffida de’ ragiona-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
menti astratti, e si gitta avido nella esplorazione della natura e dell’uomo. Il mondo gli si allarga innanzi, e mentre gli uni ricalcano le vie della storia e rifanno Atene e
Roma, gli altri lasciando teologia, filosofia e astrologia e
fatture e altre «opinioni sciocche», mostre ingannevoli
degli spiriti folletti, percorrono la terra in tutt’i versi e
già sono con l’immaginazione al di là dell’oceano. Il secolo comincia a prender possesso della terra; la storia
naturale, la fisica, la nautica, la geografia prendono il
posto delle quistioni sugli enti e sull’esistenza degli universali – i fatti e l’esperienza occupano le menti più che i
ragionamenti sottili. Aggiungi l’ironia, quel prender le
cose così alla leggiera e sdrucciolandovi appena,
quell’aria già scettica e miscredente, ancorachè non ci
sia ancora negazione e scetticismo, e avrai l’immagine
del secolo, il ritratto di Astarotte. Ma l’autore sembra
quasi non accorgersi della stupenda concezione, e abborraccia dappertutto, anche qui. Gli manca la coscienza seria e intelligente delle nuove vie, nelle quali entra il
secolo; gli manca quell’elevatezza d’animo che rende
eloquente l’uomo quando gli lampeggiano innanzi nuovi
orizzonti. L’Ulisse di Dante è sublime; il suo Rinaldo è
insignificante. E l’Astarotte riesce l’eco volgare e confusa di un secolo ancora inconsapevole di sè.
Il Pulci, il Boiardo, il Poliziano, Lorenzo, il Pontano e
tutti gli eruditi e i rimatori di quell’età non sono che
frammenti di questo mondo letterario, ancora nello stato di preparazione, senza sintesi.
Ci è un uomo che per la sua universalità parrebbe volesse abbracciarlo tutto, dico Leon Battista Alberti, pittore, architetto, poeta, erudito, filosofo e letterato; fiorentino di origine, nato a Venezia, educato a Bologna,
cresciuto a Roma e a Ferrara, vivuto lungamente a Firenze accanto al Ficino, al Landino, al Filelfo; caro a’
papi, a Giovan Francesco signore di Mantova, a Lionello d’Este, a Federigo di Montefeltro; celebrato da’ con-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
temporanei come «uomo dottissimo e di miracoloso ingegno», «vir ingenii elegantis, acerrimi iudicii, exquisitissimaeque doctrinae», dice il Poliziano. Destrissimo nelle
arti cavalleresche, compì i suoi studi a Bologna dalle lettere sino alle leggi, datosi poi con ardore alle matematiche e alla fisica. Deesi a lui la facciata di Santa Maria
Novella, la cappella di San Pancrazio, il palazzo Rucellai, la chiesa di Sant’Andrea in Mantova e di San Francesco primon Rimini. Sono suoi trovati la camera ottica, il
reticolo de’ pittori e l’istrumento per misurare la
profondità del mare, detto «bolide albertiana». Nelle
sue Piacevolezze matematiche trovi non pochi problemi
di molto interesse, e nei suoi libri Dell’architettura, che
gli procacciarono il nome di «Vitruvio moderno», hai
cenni di parecchie invenzioni o fatte o intravedute. I
suoi Rudimenti e i suoi Elementi di pittura e la sua Statua contengono preziosi insegnamenti tecnici di queste
arti.
Fu così pratico del latino, che un suo scherzo comico
scritto a venti anni e intitolato Philodoxeos, venne da
tutti gli eruditi attribuito a un antico scrittore latino, e
da Alberto d’Eyb a Carlo Marsuppini, professore di rettorica a Firenze e segretario della repubblica. E non minor pratica ebbe del volgare, in prosa e in verso, addestratosi anche nel maneggio del dialetto, quando con
Cosimo de’ Medici e gli altri sbanditi fu richiamato in
Firenze. Ne’ suoi Intercenali o «intrattenimenti della cena», ne’ suoi Apologhi, nel suo Momo scritto a Roma il
1451, dove rappresenta se stesso, piacevoleggia con urbanità. Scrisse i soliti sonetti e canzoni: e chi non ne scrivea allora? O chi non ne scrisse poi? Meglio riuscirono
le sue Egloghe e le sue Elegie, amorosi idilli, come era la
voga dal Boccaccio in qua. Era in voga anche Platone, e
platonizzò. Ma al suo ingegno così pratico, così lontano
dalle astrazioni, non potea piacere il misticismo platonico, che facea andare in visibilio il suo amico Ficino, e lo
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
seguì come artista ne’ suoi dialoghi della Tranquillità
dell’animo e della Famiglia, il cui terzo libro fu lungo
tempo attribuito al Pandolfini, e del Teogenio o della vita civile e rusticana. Tali sono pure l’Ecatomfilea, la Deifira, la Cena di famiglia, la Sofrona, la Deiciarchia. Il dialogo è la sua maniera prediletta, un certo discorrere alla
familiare e alla buona, così alieno dalle pedanterie scolastiche, e che trovi anche dove parla uno solo come nelle
sue Efebie, nella sua epistola sull’Amore, nella sua Amiria. Chi misura l’ingegno dalla quantità delle opere e
dalla varietà delle cognizioni, dee tenerlo ingegno così
miracoloso come fu tenuto a quel tempo. Certo, egli fu
l’uomo più colto del suo tempo e l’immagine più compiuta del secolo nelle sue tendenze.
Battista ha già tutta la fisonomia dell’uomo nuovo,
come si andava elaborando in Italia. La scienza, svestite
le sue forme convenzionali, è in lui amabile e familiare.
Lascia le discussioni teologiche e ontologiche. Materia
delle sue investigazioni è la morale e la fisica con tutte le
sue attinenze, cioè l’uomo e la natura così com’è, secondo l’esperienza, il nuovo regno della scienza. È un artista, perchè non solo studia e comprende, ma contempla,
vagheggia, ama l’uomo e la natura. Anima idillica e tranquilla, alieno dalle agitazioni politiche, ritirato nella pace e nell’affetto della famiglia, abitante in ispirito più in
villa che in città, non curante di ricchezze e di onori,
vuoto di ogni cupidigia e ambizione, si formò una filosofia conforme, di cui è base l’«aurea mediocritas», una
moderazione ed eguaglianza d’animo, che ti tenga fuori
di ogni turbazione. Il suo amore della natura campestre
non ha nulla di sentimentale e d’indefinito, che t’induca
a fantasticare; anzi tutto è disegnato partitamente con la
sagacia di un osservatore intelligente e con l’impressione
fresca di uomo che se ne senta ricreare l’occhio e riposare l’anima. E non è la natura in se stessa che lo alletta,
com’è ne’ «quadretti di genere» del Poliziano, ma è l’uo-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
mo nella natura: il paesaggio è un fondo appena abbozzato, sul quale vedi muoversi la vita campestre in quella
sua temperanza e tranquillità, dov’è posto l’ideale della
felicità. Il vero protagonista è perciò l’uomo, com’era
concepito allora, sottratto alle tempeste della vita pubblica, che cerca pace e riposo nel seno della famiglia e
tra’ campi, tutto alle sue faccende e a’ suoi onesti diletti.
Ma è insieme l’uomo colto e civile e umano, che disputa
e ragiona nel cerchio degli amici e con la famiglia attorno, porgendo utili ammaestramenti intorno all’arte della
vita. La quale arte si può ridurre in questa sentenza: che
l’uomo dee tener lontane da sè le passioni e le turbazioni
dello spirito e serbar regola e modo in tutte le cose.
Questo equilibrio interno, metà epicureo, è quella pace
che Dante cercava nell’altro mondo, e che Battista ti offre in questo mondo, il nuovo principio etico generato
dagli antichi moralisti e che Lorenzo Valla chiama argutamente la «voluttà». Il concetto ascetico che l’uomo
non può conseguire vera felicità in terra, è alieno dal
Quattrocento, che non nega e non afferma il cielo e si
occupa della terra. Battista non ti dà una filosofia con
deduzioni rigorose, non cessa di essere un buon cristiano e riverente alla religione; e non sospetta egli, e non
sospettavano i contemporanei, a quali pericolose conseguenze traeva quello indirizzo. Non è il filosofo: è l’artista e il pittore della vita, come gli si porgeva. I suoi ragionamenti non movono da princìpi filosofici, ma dalle
sentenze de’ moralisti antichi, dagli esempli della storia,
e soprattutto dalla sua esperienza della vita. Il suo uomo
non è un’astrazione, un’idea formata da concezioni anticipate, ma è preso dal vero nella vita pratica, co’ suoi costumi e le sue inclinazioni. Pinge e descrive più che non
ragiona; e non è un descrivere letterario o rettorico, ma
rapido, evidente, concentrato, come chi ha innanzi agli
occhi il modello e n’è vivamente impressionato. Onde
riesce pittore di costumi e di scene di famiglia, o campe-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
stri o civili, impareggiabile. E non hai già la vuota esteriorità, come spesso è in Lorenzo; ma dentro è il nuovo
ideale dell’uomo savio e felice, che par fuori nella calma
decorosa e composta de’ lineamenti, a cui fa spesso da
contrapposto la faccia disordinata dell’uomo sregolato e
turbato. È l’onesto borghese idealizzato, che succede al
tipo ascetico o cavalleresco del medio evo, un borghese
purgato ed emendato, toltagli l’aria beffarda e licenziosa. Di questo ideale immagine parlante è lo stesso Battista, di cui suprema virtù era la pazienza delle ingiurie
anche più gravi e de’ mali più stringenti della vita: «protervorum impetum patientia frangebat», dice di sè: ottimo rimedio a non guastarsi il sangue. Questa pazienza o
uguaglianza dell’animo è la genialità della nuova letteratura, impressa sulla fronte tranquilla del Boccaccio, del
Sacchetti, del Poliziano e del nostro Battista e che gl’innamora delle forme terse e riposate, il cui interno equilibrio si manifesta nella bellezza e nella grazia. Questo
amore della bella forma, non solo in sè tecnicamente,
ma come espressione dell’interna tranquillità, è la musa
di Battista. Scrivendo di sè, dice:
«Praecipuam et singularem voluptatem capiebat spectandis
rebus, in quibus aliquod esset specimen formae ac decus. Senes
praeditos dignitate aspectus et integros atque valentes iterum atque iterum demirabatur, delitiasque naturae sese venerari praedicabat... Quicquid ingenio esset hominum cum quadam effectum elegantia, id «prope divinum» dicebat... Gemmis floribus,
ac locis praesertim amoenis visendis, nonnumquam ab aegritudine in bonam valetudinem rediit.»
Quest’uomo, che alla vista della bella natura si sente
tornar sano, che sta lì a contemplare l’aspetto decoroso
di una vecchiezza sana e intera, che chiama divina l’opera elegante dell’ingegno, e sente voluttà a contemplare le
belle forme, aggiunge a questa squisita idealità un senso
così profondo del reale, che gli rende familiari gli arcani
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
della natura e anche della storia, come mostrò nelle lettere a Paolo Toscanelli, dove predice con molta sagacia
parecchi avvenimenti, le future sorti di principi e di
pontefici, e i moti delle città. Indi è che nelle sue pitture
trovi precisione tecnica, verità di colorito e grande
espressione: è una realtà finita ed evidente, che mostra
nelle sue forme impressioni e sentimenti. Veggasi nel
Governo della famiglia la pittura della vita villica, e la
descrizione del convito, e quella maravigliosa scena di
famiglia, dove Agnolo, veggendo la sua donna tutta pinta e impomiciata, dice: «Tristo a me! E ove t’imbrattasti
così il viso? Forse t’abbattesti a qualche padella in cucina? Laveraiti, chè quest’altri non ti dileggino. – Ella
m’intese e lagrimò. Io le die’ luogo ch’ella si lavasse le lagrime e il liscio». Dello stesso genere è la pittura de’ giocatori nella Cena di famiglia e nella Deiciarchia, e il ritratto nel Teogenio della vita quieta e felice di
Genipatro, nel quale intravvedi Battista:
«Truovomi ancora per la età riverito, pregiato, riputato;
consigliansi meco; odonmi come padre; ricordanmi; lodanmi
in suoi ragionamenti; approvano, seguono i miei ammonimenti; e se cosa mi manca, vedomi presso al porto ove io riposi
ogni stracchezza della vita, se ella forse a me fusse, qual certo
ella non è, grave. Nulla truovo per ancora in vita che mi dispiaccia, e questo mi conosco oggidì più felice che mai, poi che
in cosa niuna a me stesso dispiaccio... Godo testè qui ragionando con voi; godo solo leggendo questi libri; godo pensando e
commentando queste e simili cose, quali io vi ragiono, e ricordandomi la mia ben trascorsa vita e investigando fra me cose
sottili e rare, sono felice. E parmi abitare fra gl’iddii, quando io
investigo e ritruovo il sito e forze in noi de’ cieli e suoi pianeti.
Somma certo felicità viversi senza cura alcuna di queste cose
caduche e fragili della fortuna, con l’animo libero da tanta contagione del corpo; e fuggito lo strepito e fastidio della plebe in
solitudine, parlarsi con la natura maestra di tante maraviglie,
seco disputando della cagione, ragione, modo e ordine di sue
perfettissime e ottime opere, riconoscendo e lodando il padre e
procreatore di tanti beni.»
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Parti udire Cicerone a discorrere della vecchiezza e
dell’amicizia, e delle lettere e dell’uomo felice: senti in
questo Teogenio quella superiorità dell’intelligenza sulla
forza e sulla fortuna, e della coltura sulla barbarie e la
rozzezza plebea; quella beatitudine dell’uomo ritirato
nello studio, nella famiglia, ne’ campi; quell’ardore delle
scoperte, quel culto dell’arte, che è la fisonomia del secolo. Animate da questo spirito sono pure le ultime pagine della Tranquillità dell’animo, ove Battista pinge maravigliosamente se stesso. Nell’Ecatomfilea ti arrestano
ritratti di ancora maggior freschezza ed evidenza, com’è
la pittura degli amanti troppo giovani o troppo vecchi e
dell’amore degli uomini «che fioriscono in età ferma e
matura»: pittura che ha ispirato le belle ottave dell’Ariosto. De’ vagheggini perditempo dice:
«Parmi poca prudenzia amare questi oziosi e inerti, i quali
per disagio di faccende fanno l’amore suo quasi esercizio e arte, e con sue parrucchine, frastagli, ricamuzzi e livree, segni
della loro leggerezza, vagosi e frascheggiosi per tutto discorrono. Fuggiteli, figliuole mie, fuggiteli; però che questi non amano, ma così logorano passeggiando il dì, non seguendo voi, ma
fuggendo tedio.»
La storia dell’amore e della gelosia di Ecatomfila sembra un bel frammento di un romanzo fisiologico perduto, e per finezza e verità di osservazione è molto innanzi
alla Fiammetta del Boccaccio, la cui imitazione è visibile
nella Ecatomfilea, e più nella Deifira e nella Epistola di
un fervente amante: pianti e querele amatorie, dove il
buon Battista, uscendo della sua natura, come il Boccaccio, dà nella rettorica. Per trovare il grande scrittore devi cogliere Battista quando pinge o descrive, come
nell’epistola sopra l’amore, reminiscenza del Corbaccio,
e la pittura delle donne e l’altra dell’amante, pari alle più
belle del Corbaccio. E, per finirla, vedi nella Tranquillità
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
dell’animo la descrizione del duomo di Firenze, con tanta idealità nella massima precisione degli accessorii:
«... questo tempio ha in sè grazia e maestà, e ... mi diletta
ch’io veggo in questo tempio giunta una gracilità vezzosa con
una sodezza robusta e piena: tale che da una parte ogni suo
membro pare posto ad amenità, e dall’altra parte comprendo
che ogni cosa qui è fatta ed offirmata a perpetuità... Qui senti
in queste voci il sacrificio e in questi, quali gli antichi chiamavano misteri, una soavità maravigliosa... Ei possono in me questi canti ed inni della Chiesa quello a che fine ei dicono che furon trovati: troppo m’acquietano da ogni altra perturbazione
d’animo, e commovuomi a certa non so quale io la chiami lentezza d’animo piena di riverenza verso di Dio. E qual cuore sì
bravo si trova che non mansueti se stesso, quando ei sente su
bello ascendere e poi discendere quelle intere e vere voci con
tanta tenerezza e flessitudine? Affermovi questo, che mai sento
in quei misteri e cerimonie funerali invocare da Dio aiuto ... alle nostre miserie umane, che io non lacrimi.»
Come son vere queste impressioni! E con quanta felicità
rese! «Gracilità vezzosa», «lentezza d’animo», sono forme nuove, pregne d’idealità. Il sentimento religioso,
cacciato dalla coscienza, si trasforma in sentimento artistico, e move l’animo come architettura e come musica.
Pittore egregio, Battista non è del pari felice, quando
ragiona, o quando narra. I suoi ragionamenti non sono
originali e non profondi, e sembrano uscire più dalla
memoria che dall’intelletto; e la sua novella di Lionora
de’ Bardi, vivace, rapida, rimane una pura esteriorità,
lontana assai dal suo modello, il Boccaccio.
Volle Battista raggiungere nella prosa quella idealità
che il Poliziano poi raggiunse nella poesia. Amendue
maneggiano maestrevolmente il dialetto, ma abborrono
dal plebeo rozzo e licenzioso, e mirano a dare alla forma
un aspetto signorile ed elegante. Come il Poliziano vagheggiò una poesia illustre, così Battista continua la prosa illustre di Dante e del Boccaccio. Patente è su di lui
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
l’influsso che esercita la prosa latina e la maniera del
Boccaccio. Ne’ suoi trattati e dialoghi trovi prette voci
latine, come «bene est», «etiam», «idest», «praesertim»;
e parole e costruzioni e giri latini, come «proibire» e
«vietare», e participii presenti e infiniti con costruzione
latina, e «affirmare», «asseguire», «conditore di leggi»,
«duttore», «valitudine», e moltissimi altri vocaboli simili. Anche nel collocamento delle parole e nell’intreccio
del periodo latineggia. Ma non è un barbaro, che ti faccia strane mescolanze; anzi è uno spirito colto ed elegante, che ha nella mente un tipo e cerca di realizzarlo. Mira a un parlare di gentiluomo, se non con latina maestà,
certo con gravità elegante ed urbana. E come è un toscano, anzi un fiorentino, la latinità è temperata dalla vivezza e grazia paesana. Se guardiamo a’ trecentisti, il congegno del periodo, l’arte de’ nessi e de’ passaggi, una più
stretta concatenazione d’idee, una più intelligente distribuzione degli accessorii, una più salda ossatura ti mostra
qui una prosa più virile e uno spirito più coltivato, fatto
maturo dalla educazione classica. Pure, se per queste
qualità Battista avanza i trecentisti, è inferiore al Boccaccio, e rimane molto al di qua dalla perfezione. La prosa
non è nata ancora: ci è una prosa d’arte, dove lo scrittore è più intento alla forma che alle cose, e mira principalmente all’eleganza, alla grazia e alla sonorità. Come
arte, i ritratti di Battista sono ciò che la prosa ti dà di più
compìto in questo secolo. Ma sono frammenti, e tutti
quasi vogliono gli ultimi tocchi, e nessuno si può dir cosa così perfetta come è un quadro del Poliziano.
Cosa dunque rimane vivo di Battista? Niuna cosa intera come il Decamerone, fra le trentacinque sue opere.
Rimangono di bei frammenti, quadri staccati. Il secolo
finisce, e non hai ancora il libro del secolo, quello che lo
riassume e lo comprende ne’ suoi tratti sostanziali Se
hassi a dir «secolo» un’età sviluppata e compiuta in sè in
tutte le sue gradazioni, come un individuo, il primo se-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
colo comprende il Dugento e il Trecento, il cui libro
fondamentale è la Commedia, e il secondo secolo comincia col Boccaccio ed ha il suo compimento, la sua sintesi, nel Cinquecento. Il Petrarca è la transizione dall’uno
all’altro.
Il Quattrocento è un secolo di gestazione ed elaborazione. È il passaggio dall’età eroica all’età borghese, dalla società cavalleresca alla società civile, dalla fede e
dall’autorità al libero esame, dall’ascetismo e simbolismo allo studio diretto della natura e dell’uomo, dalla
barbarie scolastica alla coltura classica. Hai un mutamento profondo nelle idee e nelle forme, di cui il secolo
non si rende ben conto. Hai perciò un immenso repertorio di forme e di concetti: hai frammenti, manca il libro; hai l’analisi, manca la sintesi. Il secolo ha tendenze
varie e spiccate; ma non ne ha la coscienza. Nella sua coscienza ci è questo solo chiaro e distinto, che la perfezione è ne’ classici, e che a quel modello bisogna conformarsi: onde lo studio dell’eleganza, della bella forma in
qualsivoglia contenuto. Perciò il grande uomo del secolo per confessione de’ contemporanei fu Angiolo Poliziano, che nelle Stanze si accostò più a quell’ideale classico.
Ma questo grande movimento, che più tardi si manifestò in Europa come lotta religiosa, fu in Italia generalmente indifferenza religiosa, morale e politica, con
l’apoteosi della coltura e dell’arte. Il suo dio è Orfeo, e il
suo ideale è l’idillio, sono le Stanze. L’eleganza e il decoro delle forme è accompagnato con la licenza de’ costumi ed uno spirito beffardo, di cui i frati, i preti e la plebe
fanno le spese. Non era una borghesia che si andava formando: era una borghesia che già aveva avuta la sua storia, e fra tanto fiore di coltura e d’arte si dissolveva sotto
le apparenze di una vita prospera e allegra. A turbare i
baccanali sorse sullo scorcio del secolo frate Geronimo
Savonarola, e parve l’ombra scura e vindice del medio
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
evo che riapparisse improvviso nel mondo tra frati e plebe, e gitta nel rogo Petrarca, Boccaccio, Pulci, Poliziano,
Lorenzo e gli altri peccatori, e rovescia il carro di Bacco
e Arianna, e ritta sul carro della Morte tende la mano
minacciosa e con voce nunzia di sciagure grida agli uomini: – Penitenza! Penitenza! – Tra questo canto de’
morti:
Dolor, pianto e penitenza
ci tormentan tutta via:
questa morta compagnia
va gridando: – Penitenza. –
Fummo già come voi siete:
voi sarete come noi:
morti siam, come vedete;
così morti vedrem voi.
E di là non giova poi
dopo il mal far penitenza.
La borghesia gaudente e scettica chiamò quella gente i
«piagnoni», e quella gente pretese dal suo frate qualche
miracolo; e poichè il miracolo non fu potuto fare, si volse contro al frate. Nessuna cosa dipinge meglio quale
stacco era fra una borghesia colta e incredula, e una plebe ignorante e superstiziosa. Su questi elementi non poteva edificar nulla il frate. Voleva egli restaurare la fede
e i buoni costumi facendo guerra a’ libri, a’ dipinti e alle
feste, come se questo fosse la causa e non l’effetto del
male. Il male era nella coscienza, e nella coscienza non ci
si può metter niente per forza. Ci vogliono secoli, prima
che si formi una coscienza collettiva; e formata che sia,
non si disfà in un giorno. Chi mi ha seguito e ha visto
per quali vie lente e fatali si era formata questa coscienza
italiana, può giudicare qual criterio e quanto buon senso
fosse nell’impresa del frate. Nella storia c’è l’impossibile, come nella natura. E il frate, che voleva rimbarbarire
l’Italia per guarirla, era alle prese con l’impossibile.
Savonarola fu una breve apparizione. L’Italia ripigliò
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
il suo cammino, piena di confidenza nelle sue forze, orgogliosa della sua civiltà. Quaranta anni di pace, la lega
medicea tra Napoli, Firenze e Milano, l’invenzione della
stampa, la digestione già fatta del mondo latino, l’apparizione e lo studio del mondo greco, la vista in lontananza del mondo orientale, l’audacia delle navigazioni e
l’ardore delle scoperte, e tanto splendore e gentilezza di
corti a Napoli, a Firenze, a Urbino, a Mantova, a Ferrara, tanta prosperità e agiatezza e allegria della vita, tanta
diffusione ed eleganza della coltura e amore dell’arte
avevano ravvivate le forze produttive, indebolite nella
prima metà del secolo, e creato un movimento così efficace di civiltà, che non potè essere impedito o trattenuto
dalle più grandi catastrofi. Spuntava già la nuova generazione intorno al Boiardo, al Pulci, a Lorenzo, al Poliziano. E i giovani si chiamavano Nicolò Machiavelli,
Francesco Guicciardini, Ludovico Ariosto, Leonardo
da Vinci, Michelangelo, Raffaello, Bembo, Berni, tutta
una falange predestinata a compiere l’opera de’ padri.
L’un secolo s’intreccia talmente nell’altro, che non si
può dire dove finisca l’uno, dove l’altro cominci. Sono
una continuazione, un correre non interrotto intorno allo stesso ideale.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
XII
IL CINQUECENTO
Di questo ideale, di cui adombra i lineamenti Giovanni
Boccaccio, non hai finora che segni, indizi, frammenti. Il
suo lato positivo è una sensualità nobilitata dalla coltura
e trasformata nel culto della forma come forma, il regno
solitario dell’arte nell’anima tranquilla e idillica: di che
trovi l’espressione filosofica nell’Accademia platonica,
massime nel Ficino e nel Pico, e l’espressione letteraria
nell’Alberti e nel Poliziano, a cui con pari tendenza, ma
con minore abilità tecnica e artistica, si avvicina il Boiardo. Il protagonista di questo mondo nuovo è Orfeo, e il
suo modello più puro e perfetto sono le Stanze. Accanto
al Poliziano, pittore della natura, sta Battista Alberti,
pittore dell’uomo. Attorno a questi due spuntano egloghe, elegie, poemetti bucolici, rappresentazioni pastorali e mitologiche: la beata Italia in quegli anni di pace e di
prosperità s’interessava alle sorti di Cefalo e agli amori
di Ergasto e di Corimbo. Le accademie, le feste, le colte
brigate erano un’Arcadia letteraria, alla quale in quel
vuoto ozio degli spiriti il pubblico prendeva una viva
partecipazione. A Napoli, a Firenze, a Ferrara si vivea
tra novelle, romanzi ed egloghe. Gli uomini, già cospiratori, oratori, partigiani, patrioti, ora vittime, ora carnefici, sospiravano tra ninfe e pastori. E mi spiego l’infinito
successo che ebbe l’Arcadia del Sannazzaro, la quale
parve a’ contemporanei l’immagine più pura e compiuta
di quell’ideale idillico. Ma di questo Virgilio napolitano
non è rimasta viva che qualche sentenza felicemente
espressa, come:
L’invidia, figliuol mio, se stessa macera...
Peggiora il mondo e peggiorando invetera.
Nè della sua Arcadia è oggi la lettura cosa tollerabile, e
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
per la rigidità e artificio della prosa monotona nella sua
eleganza, e per un cotal vuoto e rilassatezza di azione e
di sentimento, che esprime a maraviglia quell’ozio interno, che oggi chiameremmo noia, e allora era quella placidità e tranquillità della vita, dove ponevano l’ideale
della felicità.
Il lato negativo di questo ideale era il comico, una
sensualità licenziosa e allegra e beffarda, che in nome
della terra metteva in caricatura il cielo, e rappresentava
col piglio ironico di una coltura superiore le superstizioni, le malizie, le dabbenaggini, i costumi e il linguaggio
delle classi meno colte. Da questa coltura sensuale, cinica e spiritosa uscì quell’epiteto, i «piagnoni», che fu a
Savonarola più mortale della scomunica papale. I canti
carnascialeschi sono il tipo del genere: il suo poeta è il
Boccaccio, il suo storico è il Sacchetti, il suo istrione è il
Pulci, il suo centro è Firenze. A questo lato negativo si
congiunge il Pomponazzi, che spezza ogni legame tra
cielo e terra, negando l’immortalità dell’anima. Era il vero motto, il segreto del secolo, la coscienza filosofica di
una società indifferente e materialista, che si battezzava
platonica, predicava contro i turchi e gli ebrei, voleva il
suo papa, il suo Alessandro sesto, che così bene la rappresentava, e non poteva perdonare al Pomponazzi di
dire ad alta voce i suoi segreti, quando ella medesima
non si aveva fatta ancora la domanda: – Cosa sono? E
dove vado?
Questa società tra balli e feste e canti e idilli e romanzi fu un bel giorno sorpresa dallo straniero e costretta a
svegliarsi. Era verso la fine del secolo. Il Pontano bamboleggiava in versi latini e il Sannazzaro sonava la sampogna, e la monarchia disparve, come per intrinseca rovina, al primo urto dello straniero. Carlo ottavo correva
e conquistava Italia col gesso. Trovava un popolo che
chiamava lui un barbaro, nel pieno vigore delle sue forze intellettive e nel fiore della coltura, ma vuota l’anima
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
e fiacca la tempra. Francesi, spagnuoli, svizzeri, lanzichenecchi insanguinarono l’Italia, insino a che, caduta
con fine eroica Firenze, cesse tutta in mano dello straniero. La lotta durò un mezzo secolo, e fu in questi cinquant’anni di lotta che l’Italia sviluppò tutte le sue forze
e attinse quell’ideale che il Quattrocento le aveva lasciato in eredità.
All’ingresso del secolo incontriamo Machiavelli e
l’Ariosto, come all’ingresso del Trecento trovammo
Dante. Machiavelli aveva già trentun anno, e ventisei ne
aveva l’Ariosto. E sono i due grandi ne’ quali quel movimento letterario si concentra e si riassume, attingendo
l’ultima perfezione.
Gittando un’occhiata sull’insieme, è patente il progresso della coltura in tutta Italia. Il latino e il greco è
generalmente noto, e non ci è uomo colto che non iscriva corretto ed anche elegante in lingua volgare, che oramai si comincia a dire senz’altro lingua italiana. Ma fuori di Toscana il tipo della lingua si discosta dagli
elementi locali e nativi, e si avvicina al latino, producendo così quella forma comune di linguaggio che Dante
chiamava aulica e illustre. I letterati, sdegnando i dialetti
e vagheggiando un tipo comune, e riconoscendo nel latino la perfezione e il modello, secondo l’esempio già dato dal Boccaccio e da Battista Alberti, atteggiarono la
lingua alla latina. E non pur la lingua, ma lo stile, mirando alla gravità, al decoro, all’eleganza, con grave scapito
della vivacità e della naturalezza. Questo concetto della
lingua e dello stile, creazione artificiosa e puramente letteraria, ebbe seguito anche in Toscana, come si vede ne’
mediocri, quale il Varchi o il Nardi, e anche ne’ sommi,
come nel Guicciardini e fino talora nel Machiavelli. La
quale forma latina di scrivere, sposata nel Boccaccio e
nell’Alberti alla grazia e al brio del dialetto, così nuda e
astratta ha la sua espressione pedantesca negli Asolani
del Bembo, e giunge a tutto quel grado di perfezione di
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
cui è capace nel Galateo del Casa e nel Cortigiano del
Castiglione. Ma in Toscana quella forma artificiale di
lingua e di stile incontrò dapprima viva resistenza, e senti negli scrittori il sapore del dialetto, quella non so quale atticità, che nasce dall’uso vivo, e che ti fa non solo
parlare ma sentire e concepire a quella maniera, come si
vede nelle Novelle del Lasca, ne’ Capricci del bottaio e
nella Circe del Gelli, nell’Asino d’oro e ne’ Discorsi degli
animali di Agnolo Firenzuola. Ma anche in questi hai
qua e là un sentore della nuova maniera ciceroniana e
boccaccevole, come non mancano fra gli altri italiani uomini d’ingegno vivace, che si avvicinano alla spigliatezza
e alla grazia toscana, quale si mostra Annibal Caro negli
Straccioni, nelle Lettere, nel Dafni e Cloe. La lotta durò
un bel pezzo tra la fiorentinità e quella forma comune e
illustre, che battezzavano lingua italiana, cioè a dire tra
la forma popolare o viva ed una forma convenzionale e
letteraria. Anche in Toscana gli uomini colti non si contentavano di dire le cose alla semplice e alla buona, come faceva il Lasca e Benvenuto Cellini, ma avevano innanzi un tipo prestabilito e cercavano una forma nobile
e decorosa. La borghesia voleva il suo linguaggio, e lo
stacco si fece sempre più profondo tra essa e il popolo.
Fioccavano i rimatori. Da ogni angolo d’Italia spuntavano sonetti e canzoni. Le ballate, i rispetti, gli stornelli,
le forme spigliate della poesia popolare, andarono a poco a poco in disuso. Il petrarchismo invase uomini e
donne. La posterità ha dimenticati i petrarchisti, e appena è se fra tanti rimatori sopravviva con qualche epiteto
di lode il Casa, il Costanzo, Vittoria Colonna, Gaspara
Stampa, Galeazzo di Tarsia e pochi altri, capitanati da
Pietro Bembo, boccaccevole e petrarchista, tenuto allora principe della prosa e del verso.
Certo, prose e versi erano nel loro meccanismo di una
buona fattura, e l’ultimo prosatore o rimatore scrivea
più corretto e più regolato che parecchi pregiati scrittori
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
de’ secoli scorsi. E perchè tutti scrivevano bene e tutti
sapevano tirar fuori un sonetto o un periodo ben sonante, moltiplicarono gli scrittori, e furono tentati tutt’i generi. Comparvero commedie, tragedie, poemi, satire,
orazioni, storie, epistole, tutto a modo degli antichi. Il
Trissino scrivea l’Italia liberata e la Sofonisba, Luigi Alamanni faceva il Giovenale e monsignor della Casa contraffaceva Cicerone. A’ misteri successero commedie e
tragedie, con magnifica rappresentazione. E non solo le
forme del dire latine, ma anche la mitologia s’incorporava nella lingua: e si giurò per gl’«iddii immortali», e
Apollo, le muse, Elicona, il Parnaso, Diana, Nettuno,
Plutone, Cerbero, le ninfe, i satiri divennero luoghi comuni in prosa ed in verso. Sapere il latino non era più
un merito: tutti lo sapevano, come oggi il francese, e mescolavano il parlare di parole latine, per vezzo o per
maggiore efficacia. Ci erano gl’improvvisatori, che nelle
corti lì su due piedi fabbricavano epigrammi e facezie,
come oggi si fa i brindisi, e ne avevano in merito qualche
scudo o qualche bicchiere di buon vino, che Leone decimo dava annacquato al suo «archipoeta», un improvvisatore di distici, quando il distico mal riusciva. E c’erano
anche non pochi, che conoscevano ottimamente il latino
e lo scrivevano con rara perfezione, come il Sannazzaro,
il Fracastoro e il Vida, i cui poemi latini sono ciò che di
più elegante siesi scritto in quella lingua ne’ tempi moderni. Aggiungi le odi ed elegie del Flaminio.
Latinisti e rimatori erano le due più grosse schiere de’
letterati. Nelle loro opere l’importante è la frase, un certo artificio di espressione, che riveli nell’autore coltura e
conoscenza de’ classici. I lettori non meno colti ed eruditi rimanevano ammirati, trovando nel loro libro le orme del Boccaccio o del Petrarca, di Virgilio o di Cicerone. Pareva questa imitazione il capolavoro dell’ingegno.
E mi spiego come uomini assai mediocri furono potuti
tenere in così gran pregio, quali Pietro Bembo, il capo-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
scuola, e monsignor Guidiccioni e Bernardo Tasso e simili, noiosissimi. Ma la frase, in tanta insipidezza del
fondo, non poteva essere sufficiente alimento all’attività
di una borghesia così svegliata ed eccitata, che decorava
la sua sensualità e il suo ozio co’ piaceri dello spirito.
Salse piccanti si richiedevano, fatti maravigliosi e straordinari, intrecciati in modo che stimolassero la curiosità e
tenessero viva l’attenzione. L’intrigo diviene la base delle novelle, de’ romanzi, delle commedie e delle tragedie,
un intrigo così avviluppato che è assai vicino al garbuglio. Si cerca ne’ fatti il nuovo e lo strano, che stuzzichi
l’immaginazione, il buffonesco e l’osceno nella commedia, il mostruoso e l’orribile nella tragedia. Dall’una parte ci è la frase, vacua sonorità, dall’altra il fatto, il vacuo
fatto uscito dal caso; e come la frase oltrepassa l’eleganza ed è pretensiosa, come nel Bembo, o leziosa e civettuola, come nel Firenzuola o nel Caro, così il fatto, per
voler troppo stuzzicare, diviene osceno o mostruoso, e
sempre assurdo. Il realismo abbozzato dal Boccaccio,
sviluppato nel Quattrocento, corre ora a passo accelerato alle ultime conseguenze: la dissoluzione morale e la
depravazione del gusto. Ci è nella società italiana una
forza ancora intatta, che in tanta corruzione la mantiene
viva, ed è nel pubblico l’amore e la stima della coltura, e
negli artisti e letterati il culto della bella forma, il sentimento dell’arte. In quella forma letteraria e accademica
vedevano gl’italiani una traduzione della lingua viva, il
parlare quotidiano idealizzato, secondo quel modello
dove ponevano la perfezione, ed eran larghi non pur di
lodi, ma di quattrini e di onori a questi artefici della forma. I centri letterari moltiplicarono; comparvero nuove
accademie; e le più piccole corti divennero convegni di
letterati, i più oscuri principi volevano il segretario che
ponesse in bello stile le loro lettere, e letterati e artisti
che li divertissero. Il centro principale fu a Roma, nella
corte di Leone decimo, dove convenivano d’ogni parte
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
novellatori, improvvisatori, buffoni, latinisti, artisti e letterati, come già presso Federico secondo. Anche i cardinali avevano segretari e parassiti di questa risma; anche i
ricchi borghesi, come il conte Gambara di Brescia, il
Chigi, i Sauli a Genova, i Sanseverino a Milano. Intorno
a Domenico Veniero in Venezia si aggruppavano Bernardo Tasso, Trifon Gabriele, il Trissino, il Bembo, il
Navagero, Speron Speroni; a Vittoria Colonna facevano
cerchio in Napoli il vecchio Sannazzaro, e il Costanzo, il
Rota, il Tarsia. Da questi noti s’indovini la caterva de’
minori. Pensioni, donativi impieghi, abbazie, canonicati,
era la manna che piovea sul loro capo. E c’era anche la
gloria: onorati, festeggiati, divinizzati, e senza discernimento confusi i sommi e i mediocri. Furono chiamati
«divini», con Michelangelo e l’Ariosto, Pietro Aretino e
il Bembo, e Bernardo Accolti, detto anche l’«unico».
Costui, fatto duca, usciva con un corteggio di prelati e
guardie svizzere; dove giungeva, s’illuminavano le città,
si chiudevano le botteghe, si traeva ad udire i suoi versi
dimenticati: tanti onori non furono fatti al Petrarca. I
letterati acquistarono coscienza della loro importanza:
pitocchi e adulatori, divennero insolenti, e si posero in
vendita, e la loro storia si può riassumere in quel motto
di Benvenuto Cellini: «Io servo a chi mi paga». Come si
facevano statue, quadri, tempi per commissioni, così si
facevano storie, epigrammi, satire, sonetti a richiesta, e
spesso l’ingiuria era via a vendere a più caro prezzo la
lode. In quest’aria viziata gli uomini anche meno corrotti divenivano servili e ciarlatani per far valere la merce.
Non ci è immagine più straziante che vedere l’ingegno
appiè della ricchezza, e udir Machiavelli chiedere qualche ducato a Clemente settimo, e l’Ariosto gridare al suo
signore che non aveva di che rappezzarsi il manto, e veder Michelangelo, quando,
... da’ rei tempi costretto,
eroi dipinse a cui fu campo il letto:
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
sdegnose parole di Alfieri. Soverchiavano i mediocri con
l’audacia, la ciarlataneria, l’intrigo e la bassezza, ora addentandosi, ora strofinandosi, temuti e corteggiati. Vecchia storia; ed è a credere che la cosa fosse pure così a’
tempi di Federico o di Roberto. Se non che allora la dottrina era merce rara, e richiedeva molta fatica ad acquistarla; dove ora la coltura e il sapere era diffuso, e lo
scrivere in prosa e in verso era divenuto un vero meccanismo, facile a imparare, che teneva luogo d’ispirazione,
e per la somiglianza esteriore confondeva nella stessa lode sommi e mediocri. Di grandi uomini è pieno quel secolo, se si dee stare a’ giudizi de’ contemporanei. Francesco Arsilli nella sua elegia De poëtis urbanis ti dà la
lista di cento poeti latini nella sola corte di Leone decimo, e lo stesso Ariosto celebra nomi oggi dimenticati.
Bernardo Tasso, il Rucellai, l’Alamanni, il Giovio, lo
Scaligero, il Muzio, il Doni, il Dolce, il Franco e altri infiniti furono tenuti cime d’uomini, che oggi nessuno più
legge. Pure ne’ più, anche ne’ mediocrissimi, era viva la
fede nella loro arte e lo studio di rendervisi perfetti. Venale era il Giovio, e ossequioso cortigiano era Bernardo
Tasso, ma quando prendevano la penna, c’era qualche
cosa nel loro animo che li nobilitava, ed era lo studio
della perfezione, il prendere sul serio il loro mestiere.
Quest’era la sola forza, la sola virtù rimasta intatta. La
corruzione e la grandezza del secolo non era merito o
colpa di principi o letterati, ma stava nella natura stessa
del movimento, ond’era uscito, che ora si rivelava con
tanta precisione, generato non da lotte intellettuali e novità di credenze, come fu in altri popoli, ma da una
profonda indifferenza religiosa, politica, morale, accompagnata con la diffusione della coltura, il progresso delle
forze intellettive e lo sviluppo del senso artistico. Qui è
il germe della vita e qui è il germe della morte; qui è la
sua grandezza e la sua debolezza.
Questo movimento è già come in miniatura tutto rac-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
colto presso il Boccaccio, il quale, se riproduce con vivacità le apparenze, non ne ha coscienza, e non sa qual
mondo nuovo sia in fermentazione sotto le sue ciniche
caricature. Del qual mondo nuovo appariscono i frammenti dal Sacchetti al Pulci, che ne fissano il lato negativo e comico, mentre il suo ideale trasparisce già nell’Alberti, nel Boiardo, nel Poliziano. La violenta reazione
del Savonarola non fa che accrescere forza e celerità al
movimento e dargli coscienza di sè. Il secolo decimosesto nella sua prima metà non è che questo medesimo
movimento scrutato profondamente, rappresentato nel
suo insieme, e condotto per le varie sue forme sino al
suo esaurimento. È la sintesi che succede all’analisi.
Qual è il lato positivo di questo movimento? È l’ideale della forma, amata e studiata come forma, indifferente il contenuto.
E qual è il suo lato negativo? È appunto l’indifferenza
del contenuto, una specie di eccletismo negli uni, come
Raffaello, Vinci, Michelangelo, il Ficino, il Pico, che abbracciano ogni contenuto, perchè ogni contenuto appartiene alla coltura, all’arte e al pensiero; eccletismo accompagnato negli altri da una satira allegra e senza fiele
di quei princìpi e forme e costumi del passato ancora in
credito presso le classi inculte.
Ciò che è divino in questo movimento è l’ideale della
forma, o per trovare una frase più comprensiva, è la coltura presa in se stessa e deificata. Il lato comico e negativo non è esso medesimo che una rivelazione della coltura.
Il «limbo» di Dante e l’Amorosa visione del Boccaccio
fanno già presentire quest’orgoglio di un’età nuova, che
comprendeva e glorificava tutta la coltura. Orfeo annunzia al suono della lira la nuova civiltà, che ha la sua
apoteosi nella Scuola di Atene, ispirazione dantesca di
Raffaello, rimasta così popolare, perch’ivi è l’anima del
secolo, la sua sintesi e la sua divinità. Questa Scuola
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
d’Atene, con i tre quadri compagni che comprendono
nel loro sviluppo storico teologia, poesia e giurisprudenza, è il poema della coltura, di così larghe proporzioni
come il paradiso di Dante, aggiuntovi il limbo. Il quadro
diviene una vera composizione, come lo vagheggiava
Dante ne’ suoi dipinti del purgatorio: il suo santo Stefano e il suo Davide hanno un riscontro nel Cenacolo, nella Sacra famiglia, nella Trasfigurazione, nel Giudizio,
poemi sparsi qua e là di presentimenti drammatici. Il
pittore vagheggia la bellezza nella forma come l’Alberti
o il Poliziano, e studia possibilmente a non alterare con
troppo vivaci commozioni la serenità e il riposo de’ lineamenti: perciò riescono figure epiche anzi che drammatiche. Quel non so che tranquillo e soddisfatto, che
senti nelle stanze del Poliziano, e ti avvicina più al riposo della natura che all’agitazione della faccia umana,
quella «pace tranquilla senz’alcuno affanno» è l’impronta di queste belle forme: salvo che quella pace non è già
«simile a quella che nel cielo india», un ideale musicale,
come Beatrice e Laura, ma vien fuori da uno studio del
reale ne’ suoi più minuti particolari. Senti che il pittore
ha innanzi un modello accuratamente studiato e contemplato con amore, che nella sua immaginazione si
compie, e prende quella purezza e riposo di forma, che
Raffaello chiamava «una certa idea». In questa certa
idea ci entra pure alcun poco il classico, il convenzionale
e la scuola; difetti appena visibili ne’ lavori geniali, usciti
da una sincera ispirazione, dove domina il sentimento
della bellezza e lo studio del reale. Così nacquero le Madonne del secolo, nella cui fisonomia non è l’inquietudine, l’astrazione e l’estasi della santa, ma la ingenua e idillica tranquillità della verginità e dell’innocenza. Queste
facce si vanno sempre più realizzando, insino a che nella
immaginazione veneziana di Tiziano pigliano una forma
quasi voluttuosa.
La stessa larghezza di concezione nella purezza e sem-
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plicità de’ lineamenti trovi nell’architettura: il gotico è
debellato dal Brunelleschi; si collega insieme l’ardito e il
semplice, Michelangiolo e Palladio. Chi ricordi in che
guisa l’Alberti rappresenta il duomo di Firenze, può
concepire il San Pietro, la vasta mole, che è il medio evo
nella sua materia e il mondo nuovo ne’ suoi motivi, la
vera e profonda sintesi di tutto quel gran movimento,
che ti offriva nell’apparenza lo stesso mondo del passato, quelle forme, quei nomi, quei costumi, que’ concetti
e quella materia, pure sostanzialmente trasformato ne’
suoi motivi, uscito dalla coscienza e divenuto un puro
ideale artistico, l’ideale della forma. Questa materia antica penetrata di uno spirito nuovo nella sua vasta comprensione epica, dove trovi fusi tutti gli elementi della
nuova civiltà, ti dà anche la letteratura nell’Orlando furioso. La Scuola di Atene, il San Pietro, l’Orlando furioso
sono le tre grandi sintesi del secolo.
L’Orlando furioso ti dà la nuova letteratura sotto il
suo duplice aspetto, positivo e negativo. È un mondo
vuoto di motivi religiosi, patriottici e morali, un mondo
puro dell’arte, il cui obbiettivo è realizzare nel campo
dell’immaginazione l’ideale della forma. L’autore vi si
travaglia con la più grande serietà, non ad altro inteso
che a dare alla sua materia l’ultima perfezione, così
nell’insieme come ne’ più piccoli particolari. Il poeta
non ci è più, ma ci è l’artista che continua il Petrarca, il
Boccaccio, il Poliziano, e chiude il ciclo dell’arte nella
poesia. Ma poichè in fine questo mondo così bello, edificato con tanta industria, non è che un giuoco d’immaginazione, vi penetra un’ironia superiore, che se ne burla e vi si spassa sopra col più allegro umore. La parte
plebea, che nel Decamerone occupa il proscenio, qui giace ne’ bassi fondi, con la sua oscenità e la sua buffoneria,
e sorge a galla il mondo della cortesia e del valore, ne’
suoi più bei colori, ma accompagnato da questo sentimento, che è un bel sogno: la realtà si fa valere e disfà il
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
castello incantato. È la visione severa di un’anima ricca
che si effonde in amabili fantasie, elegiaca nelle sue turbazioni, idillica nelle sue gioie, con non altro fine e non
altra serietà che la produzione artistica. Nelle arti figurative, la produzione è accompagnata con un perfetto obblio dell’anima nella sua creatura: Raffaello è tutto intero nella sua opera, e non guarda mai fuori, e realizza la
sua idea con quella serietà con la quale Dante costruisce
l’altro mondo. L’ideale della forma, che si esprime con
tanta serietà nelle arti, non ha ancora la coscienza che
esso è mera forma, mero giuoco d’immaginazione. Ma
qui l’arte si manifesta e si sente pura arte, e sa che il
mondo reale non è quello, e accompagna con un sorriso
la sua produzione. In questo sorriso, in questa presenza
e coscienza del reale tra le più geniali creazioni è il lato
negativo dell’arte, il germe della dissoluzione e della
morte.
Intorno a questo mondo ariostesco pullulano poemi e
romanzi e novelle. Lascio stare il Girone e l’Avarchide
dell’Alamanni, prette imitazioni, senza alcuna serietà.
Dirò un motto di due che tentarono vie nuove, il Trissino e Bernardo Tasso. A tutti e due spiacque il sorriso
ariostesco. Orlando e Rinaldo parvero al Trissino, non
altrimenti che al cardinale d’Este, delle «corbellerie»,
fole e capricci di cervello ozioso. Cercando nella storia
le sue ispirazioni e in Omero il suo modello, scrisse l’Italia liberata dà’ Goti. Nella sua intenzione dovea essere
un poema eroico e serio come l’Iliade, che chiamasse
l’Italia ad alti e virili propositi. Ma il Trissino non era
che un erudito, non poeta e non patriota, e non potea
trasfonder negli altri un eroismo che non era nella sua
anima, e nemmeno nella sua arida immaginazione. Di
eroico non c’è nel suo poema che le armi e le divise:
manca l’uomo. La sua punizione fu il silenzio e la dimenticanza, e il poveruomo, non volendo recarne la col-
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pa a difetto d’ingegno, se la piglia con l’argomento, e
prorompe:
Sia maledetta l’ora e il giorno, quando
presi la penna e non cantai d’Orlando.
Ma l’argomento cavalleresco non valse a salvare dal naufragio Bernardo Tasso, che nel suo Floridante e nel suo
Amadigi, più noto, vagheggiò una rappresentazione epica più conforme a’ precetti dell’arte e lontana da ciò
ch’egli diceva licenza ariostesca. Non piacque al pubblico, ma piacque a Speron Speroni, come il Girone era
piaciuto al Varchi. E il pubblico avea ragione; chè non
s’intendeva di Aristotile e di Omero, e non poteva pigliare sui serio gli eroi cavallereschi, si chiamassero Orlando o Amadigi. Bernardo è tutto fiori e tutto mèle, così artificiato e prolisso lui, come il Trissino negletto e
arido, tutti e due noiosi. Piacque invece l’Orlando innamorato rifatto dal Berni, dove la soverchia e uniforme
serietà del testo è temperata da forme ed episodi comici
appiccativi dal Berni. Ma il comico non passa la buccia e
non penetra nell’intimo stesso di quel mondo e non lo
trasforma, e il Berni mi fa l’effetto di quel buffone nelle
commedie, posto lì per far ridere il pubblico co’ suoi
lazzi, mentre gli attori accigliati conservano la lor posa
tragica.
Scrivere romanzi diviene un mestiere: l’epopea ariostesca è smembrata, e i suoi episodi diventano romanzi.
Sei ne scrive Lodovico Dolce, tra’ quali Le prime imprese di Orlando. Il Brusantini ferrarese canta Angelica innamorata, il Bernia canta Rodomonte, il Pescatore Ruggiero, e Francesco de’ Lodovici Carlo Magno. Romanzi
con la stessa facilità composti, applauditi e dimenticati.
Accanto agl’imitatori del Petrarca e del Boccaccio sorgono gl’imitatori dell’Ariosto.
Il mondo ariostesco nel suo lato positivo si collega
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con l’idillio, e nel suo lato negativo con la satira e la novella.
Dal Petrarca e dal Boccaccio al Poliziano l’idillio è la
vera musa della poesia italiana, la materia nella quale lo
spirito realizza l’ideale della pura forma, l’arte come arte. In quella grande dissoluzione sociale la poesia lascia
le città e trova il suo ideale ne’ campi, tra ninfe e pastori,
fuori della società, o piuttosto in una società primitiva e
spontanea.
Là trovi quell’equilibrio interiore, quella calma e riposo della figura, quella perfetta armonia de’ sentimenti
e delle impressioni, che chiamavano l’«ideale della bellezza» o della «bella forma». Questo spiega la grande
popolarità delle Stanze, dove questo ideale si vede realizzato con grande perfezione. Sono imitazioni la Ninfa
tiberina del Molza e il Tirsi del Castiglione. Nella Ninfa
tiberina hai di belle stanze: Euridice in fuga con alle
spalle l’innamorato Aristeo è così dipinta:
La sottil gonna in preda ai venti resta,
e col crine ondeggiando indietro torna.
Ella più ch’aura o più che strale presta
per l’odorata selva non soggiorna,
tanto che il lito prende snella e mesta,
fatta per la paura assai più adorna.
Esce Aristeo la vaga selva anch’egli,
e la man par avergli entro i capegli.
Tre volte innanzi la man destra spinse
per pigliar de le chiome il largo invito;
tre volte il vento solamente strinse,
e restò lasso senza fin schernito.
Maniera corretta, e nulla più. Manca in queste stanze il
movimento, il brio, il sentimento, o piuttosto la voluttà
idillica del Poliziano. La stessa parca lode è a fare de’
due poemi idillici, le Api del Rucellai e la Coltivazione
dell’Alamanni. Ci è la naturalezza, manca il sangue.
L’idillio fu la moda dell’Italia ne’ suoi anni di pace e
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di prosperità. Era il riposo voluttuoso di una borghesia
stanca di lotte e ritirata deliziosamente nella vita privata,
fra ozi e piaceri eleganti. Ora tra il rumore delle armi,
fra tante avventure e agitazioni della vita sottentra il romanzo cavalleresco. L’idillio cessa di essere un genere
vivo, e va a raggiungere il platonismo e il petrarchismo.
Gli angeli e il paradiso, Giove e Apollo, le piagge apriche e i vaghi colli, i languori di Tirsi e le smanie di Aristeo fanno lega insieme, e n’esce un vasto repertorio di
luoghi comuni, dove attingono poeti e poetesse: chè di
poetesse fu anche fecondo il secolo.
Il Quattrocento ondeggiava tra l’idillio e il carnevale:
ozio di villa e ozio di città. La quiete idillica era il solo
ideale superstite, nella morte di tutti gli altri, presso una
società sensuale e cinica, la cui vita era un carnevale perpetuo. Celebri diventano il carnevale di Venezia e il carnevale di Roma. I canti carnascialeschi fanno il giro
d’Italia. La buffoneria, l’equivoco osceno, lo scherzo
grossolano diventano un elemento importante della letteratura in prosa e in verso, l’impronta dello spirito italiano. Le accademie sono il semenzaio di lavori simili.
Esse rassomigliano quelle liete brigate di buontemponi e
fannulloni, che ispirarono il Decamerone, modello del
genere. Sono letterati ed eruditi, in pieno ozio intellettuale, che fanno per sollazzarsi versi e prose sopra i più
frivoli argomenti, tanto più ammirati per la vivacità dello spirito e l’eleganza delle forme, quanto la materia è
più volgare. Strani sono i nomi di queste accademie e di
questi accademici, come lo Impastato, il Raggirato, il
Propaginato, lo Smarrito, ecc. E recitano le loro dicerie,
o come dicevano, «cicalate» sull’insalata, sulla torta ,sulla ipocondria, inezie laboriose. Simili cicalate fatte in
verso erano dette «capitoli»: il Casa canta la gelosia, il
Varchi le ova sode, il Molza i fichi, il Mauro la bugia, il
Caro il naso lungo; si cantano le cose più volgari e anco
più turpi, e spesso con equivoci e allusioni oscene, al
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modo di Lorenzo, il maestro del genere. Il carnevale
dalla piazza si ritira nelle accademie, e diviene più attillato, ma anche più insipido. Tra queste accademie era
quella dei Vignaiuoli a Roma, dove recitavano il Mauro,
il Casa, il Molza, il Berni tra prelati e monsignori. Il Berni piacque fra tutti, e si disputavano i suoi capitoli, e se li
passavano di mano in mano.
Francesco Berni, «maestro e padre del burlesco stile», detto poi «bernesco», è l’eroe di questa generazione, erede di Giovanni Boccaccio e di Lorenzo, nella sua
sensualità ornata dalla coltura e dall’arte. Nella sua ammirazione per questo «primo e vero trovatore» dello stile burlesco, il Lasca dice:
Non sia chi mi ragioni di Burchiello;
che saria proprio come comparare
Caron dimonio all’agnol Gabriello.
Buontempone, amico del suo comodo e del dolce far
niente, la sua divinità è l’ozio più che il piacere:
Cacce, musiche, feste, suoni e balli,
giochi, nessuna sorte di piaceri
troppo il movea...
Onde il suo sommo bene era in iacere
nudo, lungo, disteso; e ’l suo diletto
era il non far mai nulla e starsi in letto.
Ma il poveruomo è costretto a lavorare per guadagnarsi
la vita, e fa il segretario, come tutti quasi i letterati di
quel tempo, a’ servigi di questo e quel cardinale:
aveva sempre in seno e sotto il braccio
dietro e innanzi di lettere un fastello,
e scriveva e stillavasi il cervello.
Dietro a’ capricci del suo padrone, una volta non ne può
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più, chè ha sonno, e dee stare lì a guardarlo giocare la
primiera:
Può far la nostra donna ch’ogni sera
io abbia a stare a mio marcio dispetto
infino alle undici ore andarne a letto
a petizion di chi gioca a primiera?
Direbbon poi costoro: – Ei si dispera,
e a’ maggiori di sè non ha rispetto. –
Corpo di... , io l’ho pur detto:
hassi a vegliar la notte intera intera?
La morte di papa Leone gitta il terrore tra’ letterati, che
vedono mancare la mangiatoia, e più quando il successore è Adriano sesto spagnuolo, oltramontano, avaro,
contadino, e non so quanti altri epiteti gli appicca nella
sua indignazione il Berni:
Pur quando io sento dire oltramontano
vi fo sopra una chiosa col verzino,
«idest nemico del sangue italiano».
Era in fondo un brav’uomo, senza fiele, un buon compagnone, col quale si passava piacevolmente un quarto
d’ora, anima tranquilla e da canonico, vuota di ambizioni e di cupidigie e di passioni, e anche d’idee. Sapea di
greco, e più di latino, e fece anche lui i suoi bravi versi
latini e i suoi sonetti petrarcheschi, come portava il tempo. Scrivea il più spesso a «sfogamento di cervello, il
maggior suo passatempo». Non cercava l’eleganza, per
fuggire fatica, e gli veniva «il sudor della morte», quando si dovea «metter la giornea» e rispondere «per le
consonanze o per le rime» a lettere eleganti. Lo scrivere
stesso gli era fatica. «A vivere avemo sino alla morte, –
dice al Bini, – a dispetto di chi non vuole, e il vantaggio
è vivere allegramente, come conforto a far voi, attendendo a frequentar quelli banchetti che si fanno per Roma,
e scrivendo soprattutto il manco che potete; quia haec
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est victoria quae vincit mundum». Si qualifica «asciutto
di parole, poco cerimonioso e intrigato in servitù»: ottime scuse alla sua pigrizia. E quando lo assediano e lo
tormentano e si dolgono che non risponda, e non li ami
e li dimentichi, gli viene la stizza:
Perchè m’ammazzi con le tue querele,
Priuli mio, perchè ti duoli a torto,
che sai che t’amo più che l’orso il miele?
Sai che nel mezzo del petto ti porto
serrato, stretto, abbarbicato e fitto,
più che non son le radici nell’orto:
se ti lamenti perchè non ti ho scritto...
E qui si calma la stizza, e vince la pigrizia, e la lettera finisce con un eccetera. Benedetta pigrizia, che lo fa parlare «come gli viene alla bocca» e gli fa scriver lettere
che sono «un zucchero di tre cotte», intarsiate di brevi
motti latini per vezzo, le più saporite e semplici e disinvolte in quel tempo de’ segretari, che se ne scrissero tante e così sudate! E non bastava che dovesse scriver lettere per forza, chè volevano da lui anche i capitoli e i
sonetti con la coda. – Fateci un capitolo sulla primiera!
«Compare, – scrive il poveruomo, – io non ho potuto
tanto schermirmi, che pure mi è bisognato dar fuori
questo benedetto capitolo e commento della primiera, e
siate certo che l’ho fatto, non perchè mi consumassi
d’andare in istampa, nè per immortalarmi come il cavalier Casio, ma per fuggire la fatica mia e la malevolenzia
di molti che, domandandomelo e non lo avendo, mi volevano mal di morte. Avendogliel’ a dare, mi bisognava
o scriverlo o farlo scrivere; e l’uno e l’altro non mi piaceva troppo, per non m’affaticare e non m’obbligare.»
Eccolo dunque costretto a fare il capitolo, e poi a stamparlo; eccolo immortale a suo dispetto. E scrisse sulle
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anguille, i cardi, la peste, le pesche, la gelatina, e sopra
Aristotile, il quale
ti fa con tanta grazia un argomento,
che te lo senti andar per la persona
fino al cervello e rimanervi drento.
Così venner fuori capitoli, sonetti, epistole, dove vivono
eterni i capricci e i ghiribizzi di un cervello ozioso e
ameno. Il successo fu grande. Dicono, perchè era fiorentino e maneggiava assai bene la lingua. Ed è un dir poco.
Il vero è che il Berni ha una intuizione immediata e netta delle cose, che rende vive e fresche con facilità e con
brio. Tra lui e la cosa non ci è nessun mezzo, o imitazione, o artificio di stile, o repertorio; egli l’attinge direttamente secondo l’immagine che gli si presenta nel cervello. E l’immagine è la cosa stessa in caricatura, guardata
cioè da un punto che la scopra tutta nel suo aspetto comico. Il quale aspetto balza improvviso innanzi alla nostra immaginazione, perchè non esce fuori a pezzi e a
bocconi da una descrizione, ma ti sta tutto avanti per
virtù di somiglianze o di contrasti inaspettati. Tale è la
pittura di maestro Guazzaletto, e la mula di Florimonte,
e la bellezza della sua donna, contraffazione della Laura
petrarchesca. In questi ritratti a rapporti non hai niente
che stagni o langua; hai una produzione continua, che ti
tien desto e ti sforza a ire innanzi insino a che il poeta
trionfalmente ti accomiata:
Ora eccovi dipinta
una figura arabica, un’arpia,
un uom fuggito dalla notomia.
Fin qui avevamo visto dal Boccaccio al Pulci messa in
caricatura plebe e frati; e anche il Berni ci si prova nella
Catrina e nel Mogliazzo, imitazioni caricate di parlari e
costumi plebei, inferiori per grazia e spontaneità alla
Nencia. Ma la materia ordinaria del Berni è la caricatura
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della borghesia, in mezzo a cui viveva. Non è più la coltura che ride dell’ignoranza e della rozzezza, è la coltura
che ride di se stessa: la borghesia fa la sua propria caricatura. Il protagonista non è più il cattivello di Calandrino, ma è il borghese vano, poltrone, adulatore, stizzoso,
sensuale e letterato, la cui immagine è lo stesso Berni,
che mena in trionfo la sua poltroneria e sensualità. L’attrattivo è appunto nella perfetta buona fede del poeta,
che ride de’ difetti propri e degli altrui, come di fragilità
perdonabili e comuni, delle quali è da uomo di poco spirito pigliarsi collera. Il guasto nella borghesia era già così profondo e tanto era oscurato il senso morale, che
non si sentiva il bisogno dell’ipocrisia, e si mostravano
servili e sensuali uomini per altre parti commendevoli;
com’erano moltissimi letterati e il nostro Berni, «il dabbene e gentile» Berni, dice il Lasca, che si dipinge a quel
modo con piena tranquillità di coscienza, e non pensa
punto che gliene possa venire dispregio. Quando certi
vizi diventano comuni a tutta una società, non generano
più disgusto e sono magnifica materia comica, e possono stare insieme con tutte le qualità di un perfetto galantuomo. Il Berni è poltrone e sensuale e cortigiano, e non
lo dissimula, ciò che farebbe ridere a sue spese, anzi lo
mette in evidenza, cogliendone l’aspetto comico, come
fa un uomo di spirito, che non crede per questo ne scapiti la sua riputazione. Questa credenza o perfetta buona fede lo mette in una situazione netta e schiettamente
comica, sì ch’egli contempla e vagheggia il suo difetto
senz’alcuna preoccupazione di biasimo e con perfetta libertà di artista. È sottinteso che in questi ritratti berneschi non è alcuna profondità o serietà di motivi; appena
la scorza è incisa: ci è la borghesia spensierata e allegra,
che non ha avuto ancora tempo di guardarsi in seno, ed
è tutto al di fuori, nella superficie delle cose. Questa superficialità e spensieratezza è anch’essa comica, è parte
inevitabile del ritratto. Perciò la forma comica sale di ra-
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do sino all’ironia, e rimane semplice caricatura, un movimento e calore d’immaginazione, com’è generalmente
ne’ comici italiani, a cominciare dal Boccaccio. Dove
non è immaginazione artistica, il comico non si sviluppa,
ed il difetto rimane prosaico, e perciò disgustoso, come
è in tutti gli scrittori di proposito osceni. Ne’ ritratti del
Berni entra anche l’osceno, ingrediente di obbligo a
quel tempo; ma non è lì che attinge la sua ispirazione,
non vi si piace e non vi si avvoltola. Ciò che l’ispira non
è il piacere dell’osceno, o la seduzione del vizio, ma è un
piacere tutto d’immaginazione e da artista, che senti nel
brio e nella facilità dello stile, e che mettendo in moto il
cervello gli fa trovare tanta novità di forme, d’immagini
e di ravvicinamenti, come è il ritratto della sua cameriera, e l’altro, un vero capolavoro, della sua famiglia. Ecco
perchè il Berni è tanto superiore a’ suoi imitatori ed
emuli, freddamente osceni e buffoni. Pure la buffoneria
oscena diviene l’ingrediente de’ banchetti, delle accademie e delle conversazioni, e invade la letteratura, quasi
condimento e salsa dello spirito: la statua di Pasquino
diviene l’emblema della coltura. Ci erano capitoli e sonetti: sorgono poemi interi berneschi, com’è la Vita di
Mecenate del Caporali, di una naturalezza spesso insipida e volgare, e il suo Viaggio al Parnaso, e la Gigantea
dell’Arrighi, e la Nanea del Grazzini, o i Nani vincitori
de’ giganti. Di tanti poeti berneschi si nomina oggi appena il Caporali. Nondimeno questa lirica bernesca è la sola viva in questo secolo. Gli stessi poeti petrarcheggiando annoiano, e si fanno leggere piacevoleggiando;
perchè i loro sospiri d’amore escono da un repertorio
già vecchio di concetti e di frasi, e non corrispondono
allo stato reale della società e della loro anima; dove in
quel piacevoleggiare ci è il secolo, ci è loro, e non ci è
ancora modelli o forme convenzionali, e qualche cosa
dee pur venire dal loro cervello.
I canti carnascialeschi, come i rispetti e le ballate e le
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serenate, erano legati con la vita pubblica; ora il circolo
della vita si restringe: la vita letteraria è nelle accademie
e tra’ convegni privati. Per le piazze si aggirano ancora i
cantastorie e si sentono canzoni plebee. Ma la coltura se
ne allontana, e la trovi in corte o nell’accademia o nelle
conversazioni, centri di allegria spensierata e licenziosa;
però da gente colta, che sa di greco e di latino, che ammira le belle forme e cerca ne’ suoi divertimenti l’eleganza, o come dicevasi, il «bello stile». Vi si recitavano
capitoli, sonetti, poemi burleschi, poemi di cavalleria e
novelle. Come però l’arte è una merce rara e la produzione era infinita, il pubblico diveniva meno severo, e
pur d’esser divertito non mirava tanto pel sottile nel modo. In sostanza questa borghesia spensierata e oziosa era
sotto forme così linde vera plebe, mossa dagli stessi
istinti grossolani e superficiali, la curiosità, la buffoneria,
la sensualità, e quando quest’istinti erano accarezzati,
accettava tutto, anche il mediocre, anche il pessimo: il
che era segno manifesto di non lontana decadenza.
Questa letteratura comica o negativa si sviluppa in
modo prodigioso. Accanto a’ capitoli e a’ romanzi moltiplicano le novelle. Il cantastorie diviene l’eroe della borghesia. E tutti hanno innanzi lo stesso vangelo, il Decamerone. Il petrarchismo era una poesia di transizione,
che in questo secolo è un così strano anacronismo come
l’imitazione di Virgilio o di Cicerone. Ma il Decamerone
portava già ne’ suoi fianchi tutta questa letteratura, era il
germe che produsse il Sacchetti, il Pulci, Lorenzo, il
Berni, l’Ariosto e tutti gli altri.
Quasi ogni centro d’Italia ha il suo Decamerone. Masuccio recita le sue novelle a Salerno, il Molza scrive a
Roma il suo decamerone, e il Lasca le sue Cene a Firenze, e il Giraldi a Ferrara i suoi Ecatommiti o cento favole, e Antonio Mariconda a Napoli le sue Tre giornate, e
Sabadino a Bologna le sue Porretane, e quattordici novelle scrive il milanese Ortensio Lando, e Francesco
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Straparola scrive in Venezia le sue Tredici piacevoli
notti, e Matteo Bandello il suo novelliere, e le sue diciassette novelle il Parabosco. A Roma si stampano le novelle del Cadamosto da Lodi e di monsignor Brevio da Venezia. A Mantova si pubblicano le novelle di Ascanio
de’ Mori, mantovano, e a Venezia escono in luce le Sei
giornate di Sebastiano Erizzo, gentiluomo veneziano, e
le dugento novelle di Celio Malespini, gentiluomo fiorentino, e i Giunti a Firenze pubblicano i Trattenimenti
di Scipione Bargagli. Aggiungi la Giulietta di Luigi da
Porto vicentino, e l’Eloquenza, attribuita a Speron Speroni.
Tutti questi scrittori, dal quattrocentista Masuccio sino al Bargagli che tocca il Seicento, si professano discepoli e imitatori del Boccaccio. Chi se ne appropria lo
spirito, e chi le invenzioni anche e la maniera. I toscani,
presso i quali il Boccaccio è di casa, scrivono con più libertà, e ci hanno una grazia e gentilezza di dire loro propria, che copre la grossolanità de’ sentimenti e de’ concetti: tale è il Lasca, e il Firenzuola nelle novelle inserite
ne’ suoi Discorsi degli animali e nel suo Asino d’oro. Gli
altri procedono più timidi, e riescono pesanti, come il
Giraldi e il Brevio e il Bargagli, o scorretti e trascurati,
come il Parabosco o lo Straparola o il Cadamosto. Il linguaggio è quell’italiano comune che già si usava dalla
classe colta nello scrivere e talora anche nel parlare, tradotto in una forma artificiosa e alla latina che dicevasi
letteraria, e solcato di neologismi, barbarismi, latinismi e
parole e frasi locali, salvo ne’ più colti, come è il Molza,
per speditezza e festività vicino a’ toscani.
Quel bel mondo della cortesia che nel Decamerone
tiene sì gran parte, rifuggitosi ne’ poemi cavallereschi,
scompare dalla novella. E neppure ci è quello stacco tra
borghesia e plebe, quella coscienza di una coltura superiore, che si manifesta nella caricatura della plebe,
quell’allegrezza comica a spese delle superstizioni e de’
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pregiudizi frateschi e plebei, che tanto ti alletta nelle novelle fiorentine e fino nella Nencia. Questo mondo interiore scompare anch’esso. La novella attinge tutta la società ne’ suoi vizi, nelle sue tendenze, ne’ suoi accidenti,
con nessun altro scopo che d’intrattenere le brigate con
racconti interessanti. L’interesse è posto nella novità e
straordinarietà degli accidenti, come sono i mutamenti
improvvisi di fortuna, o burle ingegnose per far danari o
possedere l’amata, o casi maravigliosi di vizi o di virtù.
Re, principi, cavalieri, dottori, mercanti, malandrini,
scrocconi, tutte le classi vi sono rappresentate e tutt’i caratteri, comici e seri, e tutte le situazioni, dalla pura storia sino al più assurdo fantastico. Sono migliaia di novelle, arsenale ricchissimo, dove hanno attinto
Shakespeare, Molière e altri stranieri.
La più parte di queste novelle sono aridi temi, magri
scheletri in forma affettata insieme e scorretta. L’interessante è stimolare la curiosità del pubblico e le sue tendenze licenziose e volgari. Perciò hai da una parte il comico e dall’altra il fantastico.
Nel comico, salvo i toscani, ne’ quali supplisce la grazia del dialetto, i novellieri mostrano pochissimo spirito.
Una delle novelle meglio condotte è la «scimia» del Bandello, la quale si abbiglia co’ panni di una vecchia morta,
e par dessa, e spaventa quelli di casa. Il fatto è in sè comico, ma l’esposizione è arida e superficiale, e i sentimenti e le impressioni comiche ci sono appena abbozzate. C’è una novella di Francesco Straparola assai
spiritosa d’invenzione, dove si racconta il modo che tenne un marito per rendere ubbidiente la moglie, e la
sciocca imitazione fattane dal fratello, novella che suggerì al Molière la Scuola de’ mariti. Ma di spiritoso non
c’è che l’invenzione, forse neppur sua: così triviale e abborracciata è l’esposizione. Un villano che fa la scuola
ad un astrologo è anche un bel concetto del Lando, ma
scarso di trovati e situazioni comiche. Pure il Lando è
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scrittor vivace e rapido, e nelle descrizioni efficace e pittoresco. Il villano predice la pioggia; ma l’astrologo vede
il cielo sereno.
«Alzato il viso, guatava d’ogni intorno, e diligentemente
ogni cosa contemplando, s’avvide essere il cielo tutto bello, il
sole temperato, il monte netto da nuvoli, e appresso s’accorse
che l’austro nel soffiare era dolcissimo, e cominciò attentamente a considerare in qual segno fosse il sole e in qual grado, che
cosa stesse nel mezzo del cielo, e qual segno stessegli in dritta
linea opposto. Nè potendo in verun modo conoscere che pioggia dovesse dal cielo cadere, al villano rivolto, disse con ira e
con isdegno: – Dio e la Natura potrebbono far piovere, ma la
Natura sola non lo potrebbe fare.»
Sopravvenuta più tardi pioggia dirottissima, descrive le
sue rovine e i suoi effetti in questo modo:
«Rovinarono torri, sbarbicaronsi molte querce, caddero bellissimi palagi, tremò tutta la riviera dell’Adige, parve che il cielo cadesse e che tutta la macchina mondana fosse per disciogliersi.»
Tutta la novella è scritta in questa prosa spedita e animata, e si legge volentieri, ma il sentimento comico vi fa
difetto, nè vi supplisce una lingua poetica e senza colore
locale.
Gran vantaggio ha sopra di lui il Lasca, non di spirito
o di coltura o di arte, ma di lingua, essendo il dialetto toscano, ricco di sali e di frizzi e di motti e di modi comici,
un istrumento già formato e recato a perfezione dal Boccaccio al Berni. Materia ordinaria del Lasca è la semplicità degli uomini «tondi e grossi», fatta giuoco de’ tristi
e degli scrocconi. È la novella ne’ termini che l’aveva lasciata il Boccaccio. Il suo Calandrino è Gian Simone o
Guasparri, rigirati e beffati da scrocconi che si prevalgono della loro credulità. Il Boccaccio mette in iscena preti e frati, il Lasca astrologi, guardando meno alle super-
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stizioni religiose che alle credenze popolari nell’«orco,
tregenda e versiera», negli spiriti e ne’ diavoli. Oggi abbiamo i magnetisti e gli spiritisti; allora c’erano i maghi o
gli astrologi, con la stessa pretensione di conoscere l’avvenire e di guarire gl’infermi, e conoscere i fatti altrui, e
farti comparire i morti o le persone lontane: materia inesausta di ridicolo, non altrimenti che i miracoli de’ frati.
Se il Boccaccio mette in gioco il mondo soprannaturale
della religione, il Lasca si beffa del mondo soprannaturale della scienza. Il fantastico regna ancora qua e colà in
Italia; ma a Firenze era morto sotto l’ironia del Boccaccio, del Sacchetti, di Lorenzo e del Pulci, nè i piagnoni
poterono risuscitarlo. Il nostro Lasca non ha lo spirito e
la finezza del Boccaccio, non ha ironia ed è grossolano
nelle sue caricature; ma è facile, pieno di brio e di vena,
evidente, e trova nel dialetto immagini e forme comiche
belle e pronte, senza che si dia la pena di cercarle. Ecco
la magnifica pittura dell’astrologo Zoroastro:
«... era uomo di trentasei in quarant’anni, di grande e di ben
fatta persona, di colore ulivigno, nel viso burbero e di fiera
guardatura, con barba nera, arruffata e lunga infino al petto,
ghiribizzoso molto e fantastico; aveva dato opera all’alchimia,
era ito dietro e andava tuttavia alla baia degl’incanti; aveva sigilli, caratteri, filattiere, pentacoli, campane, bocce e fornelli di
varie sorte da stillare erba, terra, metalli, pietre e legni; aveva
ancora carta non nata, occhi di lupo cerviero, bava di cane arrabbiato, spina di pesce colombo, ossa di morti, capestri d’impiccati, pugnali e spade che avevano ammazzato uomini, la
chiavicola e il coltello di Salomone, e erba e semi colti a vari
tempi della luna e sotto varie costellazioni, e mille altre favole e
chiacchiere da far paura agli sciocchi; attendeva all’astrologia,
alla fisonomia, alla chiromanzia e cento altre baiacce; credeva
molto nelle streghe, ma soprattutto agli spiriti andava dietro, e
con tutto ciò non aveva mai potuto vedere ne fare cosa che trapassasse l’ordine della natura, benchè mille scerpelloni e novellacce intorno a ciò raccontasse e di farle credere s’ingegnasse
alle persone; e non avendo nè padre, nè madre, e assai benestante sendo, gli conveniva stare il più del tempo solo in casa,
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non trovando per la paura nè serva, nè famiglio che volesse star
seco, e di questo infra sè maravigliosamente godea; e praticando poco, andando a casa con la barba avviluppata senza mai
pettinarsi, sudicio sempre e sporco, era tenuto dalla plebe per
un gran filosofo e negromante.»
È un periodo interminabile, tirato giù felicemente, dove,
come in un quadro, ti sta dinanzi tutta la persona, in una
ricchezza di accessorii, espressi con una proprietà di vocaboli, che si può trovar solo in un fiorentino. «Struggersi d’amore» è un sentimento serio che il Lasca traduce in comico, aggiungendovi le immagini del dialetto:
«la farà in modo innamorar di voi ch’ella non vegga altro dio, e si consumi e strugga de’ fatti vostri, come il sale nell’acqua, e ... vi verrà dietro, più che i pecorini al
pane insalato». Parlando del banchetto che tenne
l’astrologo con i suoi compagni di giunteria, lo Scheggia,
il Pilucca e il Monaco, alle spese del candido Gian Simone, dice: «E fecero uno scotto da prelati, con quel vino che smagliava». Se il Lasca dee molto al dialetto, ha
pure un pregio proprio che lo mette accanto al Berni,
una intuizione chiara e viva delle cose, che te le dà scolpite in rilievo. Tale è il viaggio per aria del Monaco, come Zoroastro dà a credere al dabben Simone:
«[Zoroastro] si stese in terra boccone, e disse non so che parole, e rittosi in piede e fatto due tomboli, s’arreco da un canto
del cerchio inginocchioni, e guardando fisso nel vaso,... disse: –
Il Monaco nostro ha già riavuto il resto, e vassene con l’insalata
verso Pellicceria per andarsene a casa; ma in questo istante io
l’ho fatto invisibilmente alzare ai diavoli da terra: oh eccolo che
egli e già sopra il Vescovado: oh che gli vien bene, egli è già sopra la piazza di Madonna: oh ora egli è sopra la vecchia di Santa Maria Novella: testè entra in Gualfonda: oh eccolo a mezza
la strada! Oh egli è già presso a meno di cinquanta braccia: oh
eccolo, eccolo già rasente alla finestra! Or ora sarà nel cerchio
in pianelle, in mantello, in cappuccio, e con l’insalata e con le
radici in mano.» Il nostro speziale, chè colui che chiamavano
«il Lasca» nell’accademia degli Umidi era appunto lo speziale
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Anton Maria Grazzini, dipinge con tanto rilievo gli oggetti,
perchè li vede chiarissimi nell’immaginazione, e non si ha a travagliare intorno alla forma, e non v’usa alcuno artificio, scrive
parlando. Nè è meno evidente e parlante nel dialogo. Simone,
passata la paura e uscitogli tutto l’amore di corpo, non vuol più
dare all’astrologo i venticinque fiorini promessigli. E dice allo
Scheggia:
«– Io ti giuro sopra la fede mia che mi è uscito ... tutto
l’amor di corpo, e della vedova non mi curo più niente... Oh
che vecchia paura ebb’io per un tratto! e’ mi si arricciano i capelli quando vi ci penso, sicchè pertanto licenzia e ringrazia
Zoroastro. – Lo Scheggia, udite le di colui parole, diventò piccino piccino..., e parendogli rimanere scornato, disse: – Oimè,
Gian Simone, che è quello che voi mi dite? Guardate che il negromante non si crucci. Che diavol di pensiero e il vostro? Voi
andate cercando Maria per Ravenna: io dubito fortemente, come Zoroastro intenda questo di voi, ch’egli non si adiri tenendosi uccellato e che poi non vi faccia qualche strano gioco. Bella cosa e da uomini dabbene mancar di parola! ...Tanto è Gian
Simone, egli non è da correrla così a furia: se egli vi fa diventare qualche animalaccio, voi avrete fatto poi una bella faccenda.
– Colui era già per la paura diventato nel viso un panno lavato,
e rispondendo allo Scheggia, disse: – Per lo sangue di tutt’i diavoli che fo giuro d’assassino, che domattina, la prima cosa, io
me ne voglio andare agli Otto, e contare il caso, e poi farmi
bello e sodare, non so chi mi tiene che non vada ora. – Tosto
che lo Scheggia senti ricordare gli Otto, diventò nel viso di sei
colori, e fra sè disse: – Qui non è tempo da battere in camicia,
facciamo che il diavolo non andasse a processione –; e a colui
rivolto, dolcemente prese a favellare e disse: – Voi ora, Gian Simone, entrate bene nell’infinito, e non vorrei per mille fiorini
d’oro in beneficio vostro, che Zoroastro sapesse quel che voi
avete detto. Ora non sapete che l’ufficio degli Otto ha potere
sopra gli uomini, e non sopra i demòni? Egli ha mille modi di
farvi, quando voglia gliene venisse, capitar male, che non si saperrebbe mai.»
Cosa manca al Lasca? La mano che trema. Scioperato,
spensierato, balzano, vispo e svelto, ci è in lui la stoffa di
un grande scrittor comico; ma gli manca il culto e la se-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
rietà dell’arte, e abborraccia e tira giù come viene, e lascia a mezzo le cose, e si arresta alla superficie, naturale
e vivace sempre, spesso insipido, grossolano e trascurato, massime nell’ordito e nel disegno.
Questo basso comico, plebeo e buffonesco, ne’ confini della semplice caricatura, perciò superficiale ed esteriore, ritratto di una borghesia colta, piena di spirito e
d’immaginazione, e insieme spensierata e tranquilla, ha
la sua sorgente colà stesso onde uscì il Morgante, e poi i
capitoli e i sonetti del Berni: è il bernesco nell’arte,
buffoneria ingentilita dalla grazia e alzata a caricatura,
maniera sviluppatasi gradatamente dal Boccaccio al Lasca, infiltratasi nel dialetto e rimasta forma toscana. Nelle altre parti d’Italia la buffoneria è senza grazia, spesso
caricata troppo, e lontana da quel brio tutto spontaneità
e naturalezza, che senti nel Berni e nel Lasca. Tra’ più
sgraziati è il Parabosco.
Col comico va congiunto il fantastico. Il novelliere, in
luogo di guardare nella vita reale e studiarvi i caratteri, i
costumi, i sentimenti, cerca combinazioni tali di accidenti che solletichino la curiosità. Per questa via dal
nuovo si va allo strano, e dallo strano al fantastico, al soprannaturale e all’assurdo. Così una borghesia scettica,
che ride de’ miracoli, che si beffa del soprannaturale religioso e non vuol sentire a parlare di misteri e di leggende, come forme barbare, sente poi a bocca aperta racconti di fate, di maghi, di animali parlanti, che tengano
desta la sua curiosità. Il Mariconda narra con serietà rettorica i casi di Aracne, di Piramo e Tisbe e altre favole
mitologiche. E con la stessa serietà Francesco Straparola
raccoglie nelle sue Notti le più sbardellate invenzioni di
quel tempo, saccheggiando tutt’i novellatori, Apuleio,
Brevio, soprattutto il napolitano Girolamo Morlino, autore di ottanta novelle in latino. Ivi trovi il fantastico
spinto all’ultimo limite dell’assurdo. Vedi un anello trasformato in un bel giovane, pesci e cavalli e falconi e bi-
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sce e gatte fatate che fanno maraviglie, e satiri e uomini
salvatici o in forma porcile, e morti risuscitati, e asini e
leoni in conversazione, e fate e negromanti e astrologi.
Queste ch’egli chiama «favole», si accompagnano con
altri racconti osceni o faceti, o com’egli dice, «ridicolosi», e sono le solite burle fatte alla gente semplice e grossa, o com’egli dice, «materiale». Il pretesto è uno scopo
di volgare morale o prudenza, un «fabula docet», ma in
fondo l’autore mira a render piacevoli le sue Notti, eccitando il riso o movendo la curiosità. Non mostra alcuna
intenzione letteraria, salvo nelle descrizioni, una goffa
imitazione del Boccaccio chiama egli medesimo «basso»
e «dimesso» il suo stile, e dice che le invenzioni non son
sue, ma suo è il modo di raccontarle. Non hai qui dunque contorcimenti, lenocini, artifici, eleganze: è un narrare alla buona e a corsa, in quella lingua comune italiana, di forma più latina che toscana, mescolata di parole
venete, bergamasche e anche francesi, come «follare»
(fouler) per calpestare. Non si ferma sul descrivere o
particolareggiare, non bada a’ colori salta le gradazioni,
va diritto e spedito, cercando l’effetto nelle cose, più che
nel modo di dirle. E le cose, non importa se di lui o di
altri, contengono spesso concetti molto originali, come
Nerino, lo studente portoghese, che fa le sue confidenze
amorose al suo maestro Brunello, ch’egli non sa essere il
marito della sua bella onde Molière trasse il pensiero
della sua Ecole des femmes; o l’asino che co’ suoi vanti la
fa al leone; o i bergamaschi che con la loro astuzia la fanno a’ dottori fiorentini; o la vendetta dello studente burlato dalle donne; o Flaminio che va in cerca della morte;
o le nozze del diavolo. Il successo fu grande: si fecero in
poco tempo del libro più di venti edizioni; e di molte favole è rimasta anche oggi memoria. L’osceno, il ridicolo,
il fantastico era il cibo del tempo: poi quella forma scorretta, imperfetta, ma senza frasche e spedita soprattutto
nel vivo del racconto, dovea rendere il libro di più facile
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lettura alla moltitudine che non gli Ecatommiti del Giraldi e le novelle dell’Erizzo e del Bargagli, di una forma
artificiata e noiosa. Ma il successo durò poco. Anche la
Filenia del Franco fu tenuta pari al Decamerone, e dimenticata subito. Manca allo Straparola il calore della
produzione, e ti riesce prosaico e materiale anche nel
più vivo di una situazione comica, o nel maggiore allettamento dell’oscenità, o ne’ movimenti più curiosi del
fantastico, come di uomini uccisi e rifatti vivi. Narra il
miracolo con quella indifferenza, che i casi quotidiani
della vita; e mi rassomiglia un uomo divenuto per la lunga consuetudine frigido e ottuso, che non ha più passioni, ma vizi. Chi vuol vederlo, paragoni le sue «Nozze del
diavolo» col Belfegor del Machiavelli, argomento simile,
e il suo studente vendicativo col famoso studente del
Boccaccio. E vedrà che a lui manca non meno il talento
comico che la virtù informativa. Ma che importa? Non
mira che a stuzzicare la sensualità e la curiosità, e chi si
contenta gode. E per meglio avere l’uno e l’altro intento,
aggiunge al racconto un enigma o indovinello in verso,
osceno di apparenza, e spiegato poi altrimenti che suona
a prima udita. Così oggi i cervelli oziosi per fuggir la
noia fanno o sciolgono sciarade e rebus. Il fantastico era
il cibo de’ cervelli oziosi, non meno che l’enigma, o i
tanti poemi cavallereschi. L’arte era divenuta mestiere; e
pur di sentire fatti nuovi e strani, non si cercava altro.
Ristorare il fantastico in mezzo a una borghesia scettica
e sensuale era vana impresa. Nelle antiche leggende senti il miracolo, e senti il maraviglioso ne’ romanzi antichi
di cavalleria: ora manca l’ingenuità e la semplicità, e l’arte non può riprodurre il fantastico che con un ghigno
ironico, volgendolo in gioco. Perciò la sola novella fantastica che si possa chiamare lavoro d’arte è il Belfegor, il
diavolo accompagnato dal sorriso machiavellico. Cosa
ha di vivo il diavolo borghese e volgare dello Straparola
o la sua Teodosia, che è la leggenda messa in taverna?
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Se una ristorazione del fantastico non era possibile,
come poteva aversi una ristorazione del tragico? Ma ci
furono anche novelle tragiche con la stessa intonazione
del Decamerone, anzi della Fiammetta. E sono quello
che potevano essere, fior di rettorica. D’immaginazione
ce n’era molta, ma di sentimento non ce n’era favilla.
Cosa di eroico o di affettuoso o di nobile poteva essere
tra quelle corti e quelle accademie, ciascuno sel pensi.
Chi desideri esempli di questa rettorica, vegga la Giulietta di Luigi da Porto, o nel Bandello i monologhi di
Adelasia e Aleramo, o nell’Erizzo i lamenti di re Alfonso
sulla tomba di Ginevra. Come a svegliare i romani ci voleva la vista del sangue, a muovere quella borghesia sonnolenta e annoiata si va sino al più atroce e al più volgare. La figliuola di re Tancredi nel Boccaccio è una
nobile creatura, ma sono mostri volgari la Rosmonda del
Bandello o l’Orbecche del Giraldi, che pur non ti empiono di terrore e non ti spoltriscono e non ti agitano,
per il freddo artificio della forma. Tra gli eleganti elegantissimo è il Bargagli, che sceglie forme nobili e solenni anche dove è in fondo cosa da ridere, come è la sua
Lavinella, situazione comica in forma seria, anzi oratoria.
Ciò che rimane di vivo in questa letteratura non e il
fantastico e non il tragico, ma un comico, spesso osceno
e di bassa lega e superficiale, che non va al di là della caricatura e talora è più nella qualità del fatto che ne’ colori. Alcuna volta ci è pur sentore di un mondo più gentile, soprattutto nell’Erizzo e nel Bandello, come è la
novella di costui della reina Anna; ma in generale, come
nelle corti anche più civili sotto forme decorose e amabili giace un fondo licenzioso e grossolano, la novella è
oscena e plebea in contrasto grottesco con uno stile nobile e maestoso, puro artificio meccanico. È un comico
che a forza di ripetizione si esaurisce e diviene sfacciato
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e prosaico. Il capitolo muore col Berni e la novella col
Lasca.
È il Decamerone in putrefazione. Il difetto del capitolo è di cercare i suoi mezzi comici più nelle combinazioni astratte dello spirito che nella rappresentazione viva
della realtà. È lo stesso difetto del petrarchismo: il Petrarca del capitolo è Francesco Berni, e i petrarchisti sono i suoi imitatori, che a forza di cercar rapporti e combinazioni escono in freddure e sottigliezze. Il difetto
della novella è la sensualità prosaica e la vana curiosità:
senza ideali e senza colori, e in una forma spesso pedantesca e sbiadita. E capitolo e novella hanno poi un difetto comune, la superficialità, quel lambire appena la esteriorità dell’esistenza e non cercare più addentro, come
se il mondo fosse una serie di apparenze fortuite e non
ci fosse uomo e non ci fosse natura. Essendo tutto un
giuoco d’immaginazione, a cui rimane estraneo il cuore
e la mente, la forma comica nella quale si dissolve è la
caricatura degradata sino alla pura buffoneria. Lo spirito volge in giuoco anche quel giuoco d’immaginazione,
intorno a cui si travagliarono con tanta serietà il Boccaccio, il Sacchetti, il Magnifico, il Poliziano, il Pulci, il Berni, il Lasca, divenuto nel Furioso il mondo organico
dell’arte italiana, e traduce l’ironia ariostesca in aperta
buffoneria, avvolgendo in una clamorosa risata tutti
gl’idoli dell’immaginazione, antichi e nuovi. La nuova
arte, uscita dalla dissoluzione religiosa, politica e morale
del medio evo e rimasta nel vuoto, innamorata di solo se
stessa, come Narciso, va a morire per mano di un frate
sfratato, di Teofilo Folengo: muore ridendo di tutto e di
se stessa. La Maccaronea del Folengo chiude questo ciclo negativo e comico dell’arte italiana. Ma ci era anche
un lato positivo. Mentre ogni specie di contenuto è messa in giuoco, e l’arte cacciata anche dal regno dell’immaginazione si scopre vuota forma, un nuovo contenuto si
va elaborando dall’intelletto italiano, e penetra nella co-
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scienza e vi ricostruisce un mondo interiore, ricrea una
fede non più religiosa, ma scientifica, cercando la base
non in un mondo sopra naturale e sopra umano, ma al
di dentro stesso dell’uomo e della natura. Pomponazzi,
negando l’esistenza degli universali, rigettando i miracoli, proclamando mortale l’anima, e spezzando ogni legame tra il cielo e la terra, pose obbiettivo della scienza
l’uomo e la natura. Platonici e aristotelici per diverse vie
proclamavano l’autonomia della scienza, la sua indipendenza dalla teologia e dal dogma. La Chiesa lasciava libero il passo a tutta quella letteratura frivola e oscena e a
tutta quella vita licenziosa, della quale era esempio la
corte di Leone, ma non potea veder senza inquietudine
questo risvegliarsi dell’intelligenza nelle scuole. Il materialismo pratico, l’indifferenza religiosa era spettacolo
vecchio; ma la spaventava quel materialismo alzato a
dottrina, e l’indifferenza divenuta aperta negazione, con
quella ipocrita distinzione di cose vere secondo la fede e
false secondo la scienza. Il concilio lateranense testimonia la sua inquietudine. Leone decimo proclama eresia
quella distinzione, proibisce l’insegnamento di Aristotile, e sottopone i libri alla censura ecclesiastica. A che
pro? Il materialismo era il motto del secolo. Leone decimo stesso era un materialista, come fu Lorenzo con tutto il suo platonismo. Nè altro erano il Pulci, il Berni, il
Lasca e gli altri letterati, ancorachè si guardassero di dirlo. Alcuni manifestavano con franchezza la loro opinione, come Lazzaro Bonamico, Giulio Cesare Scaligero,
Simone Porzio, Andrea Cesalpino, Speron Speroni, e
quel professore Cremonino da Cento che fe’ porre sulla
sua tomba: «Hic iacet Cremoninus totus». Quando gli
studenti avevano innanzi un professore nuovo, e lo vedevano nicchiare, gli dicevano subito: – Cosa pensate
dell’anima?
Quando il materialismo apparve, la società era già
materializzata. Il materialismo non fu il principio, fu il
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
risultato. Fino a quel punto il dogma era stato sempre la
base della filosofia e il suo passaporto. Era un sottinteso
che la ragione non poteva contraddire alla fede, e quando contraddizione appariva, si cercava il compromesso,
la conciliazione. Così poterono lungamente vivere insieme Cristo e Platone, Dio e Giove: tutta la coltura era
unificata nell’arte e nel pensiero, e non si cercava con
quanta logica e coesione e con quanta buona fede. In
nome della coltura si paganizzavano le forme cattoliche
anche da’ più pii, come ne’ loro poemi sacri facevano il
Sannazzaro e il Vida; si paganizzò anche san Pietro, e
paganizzava anche Leone decimo. Tutto questo era arte,
era civiltà, e non solo non era impedito, anzi promosso e
incoraggiato; farvi contro non si poteva senza aver taccia
di barbaro e incolto. E si tollerava pure Pasquino, voglio
dire quella buffoneria universale, le cui maggiori spese
le facevano preti, frati, vescovi e cardinali.
In quella corruzione così vasta, soprattutto nel clero,
era il caso di dire: «petimusque damusque vicissim»; e
tutti ridevano, e primi i beffati. Di cose di religione non
si parlava, e quando era il caso, le si faceva di berretto,
se ne osservavano le forme e il linguaggio per l’antica
abitudine, senza darvi alcuna importanza. Sotto il manto
dell’indifferenza ci era la negazione. In quel vuoto immenso non rimaneva altro in piedi che la coltura come
coltura e l’arte come arte. Ed era appunto la negazione
che appariva nell’arte sotto forma comica, e formava il
suo contenuto. Che cosa era quell’arte? Era il ritratto
dello spirito italiano. Era la contemplazione di una forma perfetta nella indifferenza o negazione del contenuto. La società vagheggiava nell’arte se stessa.
Ma era una società spensierata e accademica, che non
si era ancora guardata al di dentro, non si avea fatto il
suo esame di coscienza. E quando per la prima volta gitta l’occhio entro di sè e domanda: – Che sono dunque?
Onde vengo? Ove vado? – La risposta non poteva esse-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
re altra che questa: – Sono corpo: vengo dalla terra e
torno alla terra, l’«alma parens», la gran madre antica. –
Questa risposta dapprima fa rabbrividire: sembra una
scoperta, ed è un risultato. E invade le università e si attira i fulmini del concilio. Zitto! Grida la borghesia gaudente e spensierata, che non volea esser turbata nel suo
alto sonno. E la cosa rimase lì. «Intus ut libet, foris ut
moris», diceva Cremonino. Credete come volete, ma
parlate come parlano. E le audacie del Valla e del Pomponazzi si perdettero nel rumore de’ baccanali. Ci era la
cosa, ma non si voleva la parola. Materialismo era in tutto, nella vita, nelle lettere, nelle sue applicazioni alla morale, alla politica, all’uomo e alla natura. Ma non si chiamava materialismo. Si chiamava coltura, arte,
erudizione, civiltà, bellezza, eleganza: ipocrisia in alcuni,
in altri corta intelligenza. Così si viveva tutti in buon accordo e allegramente, e quando veniva la bile ci era lo
sfogatoio: permesso di dir male de’ preti e anche del papa, e di abbandonarsi a tutt’i piaceri corporali, andando
a messa, facendosi il segno della croce e gridando contro
gli eretici, e specialmente contro i signori luterani che
con le loro malinconie teologiche minacciavano il mondo di una nuova barbarie. Pigliare sul serio la teologia!
Questo per i nostri letterati era un tornare indietro di
due secoli.
Fu appunto in quel tempo che Lutero, spaventato come Savonarola alla vista di così vasta corruttela italiana,
proclamò la Riforma e regalò al mondo una teologia
purgata ed emendata. Se innanzi al papato fu un eretico,
alla borghesia italiana apparve un barbaro, come Savonarola. E in verità la sua teologia era in una vera contraddizione con la civiltà italiana, avendo per base la
reintegrazione dello spirito e l’indifferenza delle forme,
cioè a dire negando quella sola divinità che era rimasta
viva nella coscienza italiana, il culto della forma e
dell’arte. Una riforma religiosa non era più possibile in
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
un paese coltissimo, avvezzo da lungo tempo a ridere di
quella corruttela, che moveva indignazione in Germania
e che avea già cancellato nel suo pensiero il cielo dal libro dell’esistenza. L’Italia avea già valica l’età teologica
e non credeva più che alla scienza, e dovea stimare i Lutero e i Calvino come de’ nuovi scolastici. Perciò la
Riforma non potè attecchire fra noi e rimase estranea alla nostra coltura, che si sviluppava con mezzi suoi propri. Affrancata già dalla teologia, e abbracciando in un
solo amplesso tutte le religioni e tutta la coltura, l’Italia
del Pico e del Pomponazzi, assisa sulle rovine del medio
evo, non potea chiedere la base del nuovo edificio alla
teologia, ma alla scienza. E il suo Lutero fu Nicolò Machiavelli.
Il Machiavelli è la coscienza e il pensiero del secolo, la
società che guarda in sè e s’interroga e si conosce; è la
negazione più profonda del medio evo, e insieme l’affermazione più chiara de’ nuovi tempi; è il materialismo
dissimulato come dottrina, e ammesso nel fatto e presente in tutte le sue applicazioni alla vita.
Non bisogna dimenticare che la nuova civiltà italiana
è una reazione contro il misticismo e l’esagerato spiritualismo religioso, e, per usare vocaboli propri, contro
l’ascetismo, il simbolismo e lo scolasticismo: ciò che dicevasi il medio evo. La reazione si presentò da una parte
come dissoluzione o negazione: di che venne l’elemento
comico o negativo, che dal Decamerone va sino alla Maccaronea. Ma insieme ci era un lato positivo, ed era una
tendenza a considerare l’uomo e la natura in sè stessi, risecando dalla vita tutti gli elementi sopraumani e soprannaturali: un naturalismo aiutato potentemente dal
culto de’ classici e dal progresso dell’intelligenza e della
coltura. Onde venne quella tranquillità ideale della fisonomia, quello studio del reale e del plastico, quella finitezza dei contorni, quel sentimento idillico della natura
e dell’uomo, che diè nuova vita alle arti dello spazio e
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che senti ne’ ritratti dell’Alberti, nelle Stanze, nel Furioso e fino negli scherzi del Berni. Questo era il lato positivo del materialismo italiano, un andar più dappresso al
reale ed alla esperienza, dato bando a tutte le nebbie
teologiche e scolastiche, che parvero astrazioni. Il pensiero o la coscienza di questo mondo nuovo e in quello
che negava e in quello che affermava è il Machiavelli.
Il concetto del Machiavelli è questo, che bisogna considerare le cose nella loro verità «effettuale», cioè come
son porte dall’esperienza ed osservate dall’intelletto; che
era proprio il rovescio del sillogismo e la base dottrinale
del medio evo capovolta: concetto ben altrimenti rivoluzionario che non è quel ritorno al puro spirito della
Riforma e che sarà la leva da cui uscirà la scienza moderna.
Questo concetto applicato all’uomo ti dà il Principe e
i Discorsi, e la Storia di Firenze e i Dialoghi sulla milizia.
E il Machiavelli non ha bisogno di dimostrarlo: te lo dà
come evidente. Era la parola del secolo ch’egli trovava e
che tutti riconoscevano.
Così nasce la scienza dell’uomo, non quale può o dee
essere, ma quale è; dell’uomo non solo come individuo,
ma come essere collettivo, classe, popolo, società, umanità. L’obbiettivo della scienza diviene la conoscenza
dell’uomo, il «nosce te ipsum», questo primo motto della
scienza quando si emancipa dal soprannaturale e pone
la sua indipendenza. Tutti gli universali del medio evo
scompariscono La «divina commedia» diviene la «commedia umana» e si rappresenta in terra: si chiama storia,
politica, filosofia della storia, la scienza nuova. La scienza della natura si sviluppa più tardi. Non si crede più al
miracolo, ma si crede ancora all’astrologia. Attendete
ancora un poco, e il concetto del Machiavelli applicato
alla natura vi darà Galileo e l’illustre coorte dei naturalisti.
Non è il caso di disputare sulla verità o falsità delle
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
dottrine. Non fo una storia e meno un trattato di filosofia. Scrivo la storia delle lettere. Ed è mio obbligo notare
ciò che si move nel pensiero italiano; perchè quello solo
è vivo nella letteratura che è vivo nella coscienza.
Da quel concetto esce non solo la scienza moderna,
ma anche la prosa. Come nella scienza ci aveva ancora
molta parte l’immaginazione, la fede, il sentimento; così
nella prosa erano penetrati elementi etici, rettorici, poetici, chiusi in quella forma convenzionale boccaccevole,
che dicevasi forma letteraria, ed era già divenuta maniera, un vero meccanismo. Ma il Machiavelli spezza questo involucro, e crea il modello ideale della prosa, tutta
cose e intelletto, sottratta possibilmente all’influsso
dell’immaginazione o del sentimento, di una struttura
solida sotto un’apparente sprezzatura.
E da quel concetto dovea uscire anche un nuovo criterio della vita, e perciò dell’arte. L’uomo e la natura
hanno nel medio evo la loro base fuori di sè, nell’altra
vita; le loro forze motrici sono personificate sotto nome
di universali ed hanno un’esistenza separata. Questo
concetto della vita genera la Divina Commedia. La macchina della storia è fuori della storia ed è detta «la provvidenza». Questa macchina è nel mondo boccaccesco il
caso o la fortuna. Non ci è più la provvidenza, e non ci è
ancora la scienza. Il maraviglioso non è più detto miracolo, anzi del miracolo si fanno beffe; ma è detto intrigo,
nodo, accidente straordinario. Le passioni, i caratteri, le
idee non sono forze che regolano il mondo, sopraffatte
da questo nuovo fato, la volubile e capricciosa fortuna.
Il Machiavelli insorge e contro la fortuna e contro la
provvidenza, e cerca nell’uomo stesso le forze e le leggi
che lo conducono. Il suo concetto è che il mondo è quale lo facciamo noi, e che ciascuno è a se stesso la sua
provvidenza e la sua fortuna. Questo concetto dovea
profondamente trasformar l’arte.
La poesia italiana usciva dal medio evo libera da ogni
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ingombro allegorico e scolastico, ma insieme vuota di
ogni contenuto, forma pura. Il suo vero contenuto è negativo, cioè a dire è il ridere del suo contenuto, considerarlo come un giuoco d’immaginazione, un esercizio
dello spirito. Questo doppio elemento dell’arte è detto
dal Cecchi il «ridicolo» e il «grupposo», intendendo per
grupposo il nodo, l’intreccio, la varietà e novità de’ casi.
Di questo maraviglioso perseguitato dal ridicolo ti dà il
Machiavelli splendido esempio nel suo Belfegor. La novella, il romanzo, la commedia sono il teatro naturale di
questa poesia, la Divina Commedia dell’arte nuova. Ma
nel concetto del Machiavelli la vita non è una farsa della
provvidenza, e non è il giuoco capriccioso della fortuna,
ma è regolata da forze o da leggi umane e naturali. Perciò la base dell’arte non è l’avventura o l’intrigo, ma il
«carattere»; e se volete vedere quello che sarà, guardate
quali sono gli attori e quali le forze che mettono in giuoco. L’arte non può starsi contenta alla semplice esteriorità, e presentare gli avvenimenti come un accozzo fortuito di casi straordinari, ma dee forare la superficie e
cercare al di dentro dell’uomo quelle cause che sembrano provvidenziali o casuali. Così l’arte non è un vano e
ozioso gioco d’immaginazione, ma è rappresentazione
seria della vita nella sua realtà non solo esteriore, ma interiore. E quest’arte, che cerca la sua base nella scienza
dell’uomo, ti dà la Mandragola e la Storia di Firenze, e
più tardi la Storia d’Italia del Guicciardini e i suoi Ricordi.
A questo modo si realizza questa grand’epoca, detta il
«Risorgimento», che dal Boccaccio si stende sino alla seconda metà del secolo decimosesto. Da una parte, mancati tutti gl’ideali, religioso, politico, morale, e non rimasta nella coscienza altra cosa salda che l’amore della
coltura e dell’arte, il contenuto non ha alcun valore in se
stesso e diviene una materia qualunque trattata a libito
dall’immaginazione, che ne fa la sua creatura e spesso
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
anche il suo gioco, un gioco che ha la sua idealità
nell’ironia ariostesca, e trova la sua dissoluzione nella
caricatura della Maccaronea. Mentre l’arte produce i
suoi miracoli nella piena indifferenza del contenuto, come pura arte, un nuovo contenuto si forma e penetra
nella coscienza, uno studio dell’uomo e della natura in
sè stessi, che cerca la sua base nell’esperienza, e non
nell’immaginazione e non nelle vane cogitazioni. Questo
senso profondo del reale ti crea la scienza e la prosa, e ti
segna nella Mandragola un nuovo indirizzo dell’arte.
Se dunque vogliamo studiar bene questo secolo, dobbiamo cercarne i segreti ne’ due grandi, che ne sono la
sintesi, Ludovico Ariosto e Nicolò Machiavelli.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
XIII
L’ ORLANDO FURIOSO
Ludovico nacque nello stesso anno che Michelangiolo, il
1474. Machiavelli, Berni, Bembo, Guicciardini, Folengo, Aretino, i principali personaggi di questa età letteraria, nacquero in questo scorcio del secolo, a poca distanza di anni: il Machiavelli nel sessantanove, il Bembo nel
settanta, il Guicciardini nell’ottantadue, e nel novantaquattro il Folengo, e nel novanta Pietro Aretino.
Nel novantotto, proprio l’anno che il Machiavelli era
eletto segretario del comune fiorentino, Ludovico scrivea in prosa le sue due prime commedie. L’uno attendeva alle gravi faccende dello Stato, e ne’ suoi viaggi in Italia e in Europa attingeva quella scienza dell’uomo e
quella pratica del mondo, che dovea fare di lui la coscienza e il pensiero del secolo; l’altro faceva il letterato
in corte, e scrivea sonetti, canzoni, elegie, capitoli, commedie, tutto nel mondo della sua immaginazione.
Aveva allora ventisei anni. Cinque ne aveva sciupati
intorno alle leggi; finchè, avuta dal padre licenza, si mise
con ardore allo studio delle lettere, e tutto pieno il capo
di Virgilio, Orazio, Petrarca, Plauto, Terenzio, cominciò
a far versi latini e italiani, come tutti facevano, elegie,
canzoni, odi, epigrammi, madrigali, sonetti, epistole,
epitalami, carmi.
Nel ’94, quando Carlo ottavo scendeva in Italia, il
giovane Ludovico scrive un’ode oraziana a Filiroe, nome ch’egli appicca ad una contadinella. Carlo minaccia
... ... asperi
furore militis tremendo,
turribus ausoniis ruinam.
E il giovane sdraiato sull’erba e con gli occhi alla sua Filiroe scrive:
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Rursus quid hostis prospiciat sibi,
me nulla tangat cura, sub arbuto
iacentem aquae ad murmur cadentis...
Pensa e sente e scrive come Orazio. Il mondo precipita:
e che importa? sol che possa andar pe’ campi, seguire
Lida, Licori, Filli, Glaura, e cantare i suoi amori:
Est mea nunc Glycere, mea nunc est cura Lycoris
Lyda modo meus est, est modo Phyllis amor...
Antra mihi placeant potius montesque supini,
vividaque irriguis gramina semper aquis ...
Dum vaga mens aliud poscat, procul este Catones ...
E scrive De puella, De Lydia, nome oraziano di una sua
amata di Reggio, De Iulia, una cantante, De Glycere et
Lycori, De Megilla, e fino De catella puellae, imitazione
felice di Catullo. Luigi decimo-secondo conquista il ducato di Milano, chiamatovi da Alessandro sesto e che
importa,
... ... si furor, Alpibus
saevo flaminis irmpetu
... ... iam spretis, quatiat celticus ausones?
Che importa servire a re gallo o latino,
si sit idem hinc atque hinc non leve servitium?
Barbaricone esse est peius sub nomine, quam sub
moribus?
Tutti barbari e tutti tristi. E il giovane, esclamando: «Improba secli conditio!» e lamentando «clades et Latii interitum»,
nuper ab occiduis illatum gentibus, olim
pressa quibus nostro colla fuere iugo,
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
svolge l’occhio dallo spettacolo e cerca un asilo in Orazio e Catullo. L’anno appresso alla calata di Carlo ottavo
l’Ariosto recita l’orazione inaugurale degli studi nel
duomo di Ferrara, De laudibus philosophiae, e poi la reca in esametri. Scrivea pure sonetti, canzoni, elegie, dove si sente lo studio del Petrarca. Nel movantatre a diciannove anni, scrive un’elegia per la morte di Leonora
d’Aragona, moglie del duca di Ferrara. Nell’introduzione si scopre ancora lo studente e il dilettante:
Rime disposte a lamentarvi sempre,
accompagnate il miserabil core
in altro stil che in amorose tempre:
che or giustamente da mostrar dolore
abbiamo causa, ed è sì grave il danno
che appena so s’esser potria maggiore.
I suoi amori in italiano sono platonici, alla petrarchesca;
in latino sono sensuali, all’oraziana. In latino tiene Megilla tra le braccia, e non può credere a’ suoi occhi, e dice:
An haec vera Megilla
cuius detineor sinu?
Haec, haec vera mea est; nil modo fallimur,
mi anceps anime: en sume cupita iam
mellita oscula, sume
expectata diu bona.
Ma in italiano Megilla è «l’alta beltade», che «col suo
beato lume illustra e imbianca l’occaso», e l’amante e
«nel dir lento e restio» e non descrive, perchè «chi descriver puote a pieno il sole?».
Non è valore uman che tanto ascenda.
Se avesse potuto apprendere il greco, Anacreonte o
Teocrito gli avrebbe instillata nell’immaginazione un’al-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
tra fraseologia: perchè tutto questo è un gioco di frasi.
Ma, tutto dietro al latino, non pensò per allora al greco:
Che ’l saper nella lingua degli Achei
non mi reputo onor, s’io non intendo
prima il parlar de li latini miei.
Mentre l’uno acquistando, e differendo
vo l’altro, l’occasion fuggì sdegnata,
poi che mi porge il crine ed io nol prendo.
Morì il padre, ch’egli aveva soli ventott’anni, e lo lasciò
tra sorelle e piccoli fratelli capo della casa: così dovè
mutare Omero nel libro de’ conti:
Mi more il padre, e da Maria il pensiero
dietro a Marta bisogna ch’io rivolga;
ch’io muti in squarci ed in vacchette Omero.
Nè potè avere più agio e modo d’intendere «nella propria lingua dell’autore ciò che Ulisse sofferse a Troia e
poi nel lungo errore, e ciò che scrisse Euripide, Pindaro
e gli altri, a cui le Muse argive donar sì dolci lingue e sì
faconde»; perchè venuto in corte fu mandato qua e là,
oppresso dal giogo del cardinale d’Este:
E di poeta cavallar mi feo:
vedi se per le balze e per le fosse
io potevo imparar greco o caldeo.
Fra questi studi e imitazioni uscì la Cassaria, una commedia in prosa, scritta con tutte le regole della commedia plautina, e che parve un miracolo a Ferrara, appunto
perchè vedevano in italiano quello che erano usi ad ammirare in latino. Ai misteri e alle farse succedea la commedia e la tragedia, con tutte le regole dell’arte poetica e
con le forme di Plauto e Terenzio. E non solo s’imitava
quel meccanismo, ma si riproducea lo stesso mondo comico, servi, parasiti, cortigiane, padri avari e figli scape-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
strati. Il giovane autore, a quel modo che trasforma le
sue contadine in Filli e Licori, vive tutto in quel mondo
di Plauto, e nel suo lavoro d’imitazione perde di vista la
società in mezzo a cui si trova. La sua commedia è una
ricostruzione, non è una creazione, e intento al meccanismo, si lascia fuggire le più belle situazioni e contrasti
comici. Nel Bibbiena e nel Lasca ci è una certa vita che
viene dal Decamerone, non so che licenzioso e buffonesco, conforme allo spirito comico, quale s’era sviluppato
a Firenze, e si sentiva nel Lasca e nel Berni, segretario
del Bibbiena. Ma l’Ariosto vive fuori di questo ambiente, e in un mondo tutto di erudizione, e quando vuol essere faceto, ti riesce grossolano. Oltrechè, essendo quello un mondo di accatto e con caratteri già dati, ci sta a
disagio, e non ci si abbandona, e non se lo assimila. Un
effetto comico ci è; ed è ne’ viluppi, negl’intrighi, negli
equivoci, prodotti dal caso o dalla malizia, in un imbroglio drammatico, che spesso stanca l’attenzione. Ma l’intrigo non basta a sostenere l’interesse, quando i caratteri
non sieno bene sviluppati e l’intrigo non si trasformi in
situazione comica. Trappola, Volpino, Nebbia, Erofilo,
Lucrano sono esseri insignificanti, nè dall’intreccio esce
alcuna scena fondamentale, dove si raccolga l’interesse.
Più tardi scrisse altre commedie, intestatosi a farle in
versi sdruccioli, per rendere l’imitazione latina perfetta,
parendogli che quel metro rispondesse a capello al
giambo. Nè in questa forma sgraziata, che vuol essere
poesia e non è prosa, gli riesce meglio la commedia, ancorchè il soggetto alcuna volta potesse convenire a quella società, come è il Negromante. Sbagliata la via, non si
raddrizza più. Un negromante o astrologo che fa mestiere di sua arte, e con sue bugie cava quattrini da’ gonzi, è
un argomento popolarissimo, e trattato allora da tutt’i
novellieri. Il Boccaccio avea messo in iscena il prete o il
frate, come il prete di Varlungo o frate Cipolla: allora la
parte di scroccone e giuntatore era rappresentata
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
dall’astrologo. Il nome era mutato: il motivo comico era
lo stesso. Ricordiamoci con che brio ne ha trattato il Lasca in una sua novella. Ci si sente la tradizione e la malizia del Boccaccio, e l’ambiente di Firenze, dove lo speziale arguto continua il Sacchetti, il Pulci, il Magnifico.
Ma nel Negromante ariostesco senti la società latina, dove il servo è più astuto del padrone, rappresentata da chi
non vi sta in mezzo e non l’intende e la studia su’ libri.
Cinzio, Camillo, Massimo sono mummie più che uomini, preda facile de’ birboni che ci vivono intorno. Sono
essi non il principale, ma il fondo del quadro, la vile
moltitudine sulla quale si esercita la malizia de’ servi e
degli avventurieri. Concetto profondo, se l’Ariosto
l’avesse trovato lui e ne avesse cavato un mondo comico.
Ma ci sta a pigione e senza alcun senso, come se fosse
cosa naturalissima questo mondo colto al rovescio, sì
che i servitori ne sappiano più dei padroni e diventino i
loro tutori e salvatori, come Fazio e Temolo, che scoprono e sventano le malizie del negromante. Costui, che
è il protagonista, non è proprio un astrologo, com’è nel
Lasca, e come il prete è prete nel Boccaccio; ma è un
birbone matricolato, che fa l’astrologo senza crederci
punto. Nel Lasca la materia comica è cavata dall’astrologia messa in burla: qui l’astrologia ci sta per comparsa,
nè da essa escono i mezzi d’azione. Se mastro Iachelino,
che è il negromante, fosse un vero astrologo, che mentre
vuol farla a’ padroni è burlato da’ servitori, il concetto
sarebbe così spiritoso, com’è nell’astrologo del Lando,
di cui si mostra più sapiente un contadino, anzi l’asina
del contadino. Ma qui l’astrologo è un ignorantaccio,
che, come dice il Nibbio suo servo e confidente, mal sapendo leggere e male scrivere, fa professione di filosofo,
di medico, di alchimista, di astrologo, di mago:
e sa di queste e dell’altre scienzie
che sa l’asino e il bue di sonar gli organi.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Sicchè il tutto si riduce a una gara di malizia tra maestro
Iachelino e Nibbio da una parte, e Fazio e Temolo, che
sono i servi, dall’altra. Non mancano bei tratti, che rivelano nell’autore un ingegno e uno spirito comico non
comune. Cinzio racconta al servo le maraviglie del negromante, e il servo si beffa del negromante e del padrone, ed è in ultimo colui che l’accocca a tutti. Cinzio l’assicura gravemente che sa trasformare uomini e donne in
animali. Risponde Temolo:
Si vede far tutto il dì, nè miracolo
è cotesto . .
Non vedete voi che subito
un divien potestade, commissario,
provveditore, gabelliere, giudice,
notaio, pagator degli stipendii,
che li costumi umani lascia, e prendeli
o di lupo o di volpe o di alcun nibbio?
– Capisco – dice Cinzio. La poca esperienza che hai del
mondo ti fa parlare così. Ma non credi tu dunque che e’
possa scongiurare gli spiriti? – E Temolo risponde:
Di questi spirti, a dirvi il ver, pochissimo
nè meno crederei; ma li grandi uomini,
e principi e prelati, che vi credono,
fanno col loro esempio ch’io, vilissimo
fante, vi credo ancora.
Questo tratto è stupendo d’ironia; è il popolano ignorante che col suo naturale buon senso si prende spasso
de’ grandi uomini. Bella situazione drammatica è dove
Nibbio, viste le reti tese a Cinzio, a Massimo e a Camillo, il più ricco, domanda al negromante:
Delle tre starne che in piè avete, ditemi,
qual mangerete?
ASTROLOGO
Vedraimi ir beccandole
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ad una ad una, ed attaccarmi in ultimo
alla più grassa, e tutta divorarmela.
NIBBIO
Eccoven’una, e la miglior: mettetevi,
se avete fame, a piacer vostro a tavola.
ASTROLOGO
Chi è? Camillo?
NIBBIO
Si.
ASTROLOGO
Si ben; mangiarmelo
voglio, che l’ossa non credo ci restino.
E questo Nibbio, quando vede scoperte le magagne
dell’astrologo, egli, suo servo, confidente e mezzano, gli
dà il calcio dell’asino, e lo ruba e lo pianta lì. Sono bei
tratti perduti in un mondo convenzionale e superficiale,
e poco studiato, e abborracciato nei momenti più interessanti. L’autore vi mostra un’attitudine più a narrare,
ad esporre, a descrivere, che a drammatizzare. Che uomo sia mastro Iachelino, è benissimo esposto in un monologo di Nibbio; ma quando lo si vede in azione, lo si
trova noioso, insipido, grossolano, molto al di sotto
dell’aspettazione.
Ludovico era di coltura al di sotto de’ tanti dotti di
quel tempo, ed anche di alcuni della corte. Il cardinale
Ippolito pregiava assai meno i poeti, gente oziosa, che i
suoi staffieri e camerieri, e volendo trarre un utile dal
nostro poeta, ne fece un «cavallaro», mandandolo qua e
là in suo servigio. Ludovico, ricordandosi la grande amicizia di Leone decimo, quando era proscritto con la sua
famiglia da Firenze, vistolo papa, andò a lui pieno di
speranza, e non ne cavò altro che belle parole. Fu anche
in Firenze per commissione della corte ferrarese, e la
profonda impressione fattagli da quella vista si rivela in
una elegia scritta in quell’occasione:
A veder pien di tante ville i colli
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
par che ’l terren ve le germogli,
come vermène germogliar suole e rampolli.
Se dentro un mur, sotto un medesmo nome,
fosser raccolti i tuoi palazzi sparsi,
non ti sarian da pareggiar due Rome.
Inviato governatore in Garfagnana, alza le strida perchè
il cardinale lo abbia tolto a’ dolci studi e a’ cari amici e
spintolo in quel «rincrescevole laberinto». Da ultimo il
cardinale volea trarselo appresso in Ungheria, e qui il
nostro poeta perde le staffe e dichiara che in Ungheria
non vuole andare. Lodare il cardinale in versi, sta bene;
ma far da comparsa nel suo corteggio, questo no:
Io stando qui, farò con chiara tromba
il suo nome sonar forse tanto alto,
che tanto mai non si levò colomba.
E lo loda in latino e in volgare, e più sfacciatamente in
latino:
Quis patre invicto gerit Hercule fortius arma?
Mystica quis casto castius Hyppolito?
Ma Ippolito non si curava delle lodi, e lo volea servo e
non poeta:
Non vuol che laude sua da me composta
per opra degna di mercè si pona:
di mercè degno è l’ir correndo in posta...
S’io l’ho con laude ne’ miei versi messo,
dice ch’io l’ho fatto a piacere e in ozio:
più grato fòra essergli stato appresso.
Ludovico, scrittor di commedie, è lui medesimo un carattere de’ più comici, e se, rappresentando un mondo
convenzionale, è riuscito nelle commedie poco felice, è
stato felicissimo dipingendo se stesso alla buona e al na-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
turale. Alcune sue qualità te gli affezionano Ama i fratelli e la vecchia madre, e per loro si acconcia a servitù, rodendo il freno. Il suo ideale è la tranquillità della vita,
starsene a casa fantasticando e facendo versi, vivere e lasciar vivere. Ma il punto è che sia lasciato vivere. Il poveruomo era un personaggio idillico, non aveva ambizioni, non curava grandezze, nè onori; «gli sapeva
meglio una rapa» in casa sua che t«ordo o starna o porco selvaggio »all’altrui mensa:
E così sotto una vil coltre,
come di seta o d ’oro ben mi corco.
E più mi piace di posar le poltre
membra, che di vantarle che agli sciti
sien state, agl’indi, agli etiopi, e oltre.
Degli uomini son vari gli appetiti;
a chi piace la chierca, a chi la spada,
a chi la patria, a chi li strani liti.
Chi vuole andare attorno, attorno vada;
vegga Inghilterra, Ongheria, Francia e Spagna:
a me piace abitar la mia contrada.
Visto ho Toscana, Lombardia, Romagna,
quel monte che divide e quel che serra
l’Italia, e un mare e l’altro che la bagna.
Questo mi basta: il resto della terra,
senza mai pagar l’oste, andrò cercando
con Tolomeo, sia il mondo in pace o in guerra.
Ma non è lasciato vivere, e ha tra’ piedi il cardinale, e ne
sente una stizza che sfoga con questo e con quello.
Qualche rara volta la stizza si alza a indignazione e gli
strappa nobili accenti:
Apollo, tua merce, tua mercè, santo
collegio delle muse, io non possiedo
tanto per voi, ch’io possa farmi un manto.
... ...
Or, conchiudendo, dico che, se ’l sacro
cardinal comperato avermi stima
con li suoi doni, non mi è acerbo ed acro
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
renderli, e tôr la libertà mia prima.
... ...
Se avermi dato onde ogni quattro mesi
ho venticinque scudi, nè sì fermi
che molte volte non mi sien contesi,
mi debbe incatenar, schiavo tenermi,
obbligarmi ch’io sudi e tremi, senza
rispetto alcun ch’io muoia o ch’io m’infermi;
non gli lasciate aver questa credenza:
ditegli che più tosto ch’esser servo,
torrò la povertade in pazienza.
Ma sono scarse faville. Non è così rimesso d’animo o cupido d’onori, che imiti i cortigiani e sacrifichi la sua comodità per fare a gusto del cardinale; e non è così altero,
che rompa la catena una buona volta, e lo mandi con
Dio. Serve borbottando e sfogando il mal umore, con
una sua propria fisonomia nella scala de’ Sancio Panza e
de’ don Abbondio. E ne nascono situazioni stupendamente comiche. Tale è il suo viaggio a Roma, con tante
speranze nell’amico Leone. Come lo accoglie bene! Ma
sono parole, e la sera gli tocca andare a cena sino all’insegna del Montone:
Piegossi a me dalla beata sede:
la mano e poi le gote ambe mi prese,
e il santo bacio in amendue mi diede.
Indi, col seno e con la falda piena
di speme, ma di pioggia molle e brutto,
la notte andai sin al Montone a cena.
Ora lo prende la stizza, e si sfoga descrivendo la cupidità ingorda de’ cardinali; ora fa il filosofo, come volesse
dire: – E quando anche avessi le ricchezze del gran Turco e tre e quattro mitre, ne val poi la pena? –
Sia ver che d’oro m’empia la scarsella
e le maniche e il grembo, e se non basta,
m’empia la gola e il ventre e le budella;
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
in che util mi risulta essermi stanco
in salir tanti gradi? Meglio fora
starmi in riposo, o affaticarmi manco.
Ora ha aria di scusare il papa. – Poerino! Parenti, cardinali che gli diedero «il più bel di tutt’i manti,» amici che
lo aiutarono a tornare a Firenze, dee dar bere a tanti!
Se fin che tutti beano, aspetto a trarme
la volontà di bere, o me di sete,
o secco il pozzo d ’acqua veder parme,
meglio è star nella solita quiete.
Questa magnifica situazione è sviluppata con ricchezza di motivi e di gradazioni, con una perfetta varietà di
caratteri, e con un’ironia tanto più pungente, quanto appare più ingenua e più bonaria. Lo stesso ho a dire di
Ludovico fatto governatore, che fa un ritratto stizzoso
de’ suoi amministrati, e deplora il tempo sciupato intorno ad essi, o di Ludovico che nega di andare in Ungheria, o che raccomanda a Pietro Bembo il figlio, e gli narra la sua vita e le sue contrarietà, i suoi studi. Ci si vede
tra la stizza quella specie di rassegnazione delle anime
fiacche, che significa: – Ma che ci è a fare? Pazienza! – E
anche una specie di bonomia, che gli fa sciorinare tutt’i
suoi difetti, come fossero perle. Anche il Berni è così, e
si fa bello della sua poltroneria; ma carica e buffoneggia,
con lo scopo di far ridere: dove Ludovico si dipinge tutto al naturale a semplice sfogo del mal umore, e meno
cerca l’effetto e più l’ottiene. Si ride a spese degli altri e
anche un po’ a sue spese, e senza ch’egli se ne accorga o
se ne guardi. In un secolo così artificiato, dove per soverchio studio d’imitazione o per conseguire certi effetti
artistici si perdeva di vista la realtà della vita, Ludovico,
che scrivendo commedie o canzoni e sonetti petrarcheschi si pone in un mondo convenzionale, qui in presenza
di se stesso, come Benvenuto Cellini, crea un carattere
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
comico de’ più interessanti, perchè non è solo il suo ritratto, ma del borghese e letterato italiano a quel tempo
nel suo aspetto men reo. Ha visto Roma, ha visto Firenze, è stato in Lombardia, ma il suo mondo non si è ingrandito; il suo centro è rimasto Ferrara; e le sue cure
domestiche, i suoi umori con la corte, i suoi piccoli fastidi, i suoi amori, le sue relazioni letterarie, i suoi interessi
privati sono tutta la sua preoccupazione allora appunto
che l’Italia era corsa da’ barbari e si dibatteva nella sua
agonia. Il borghese colto, spensierato, pigro, tranquillo,
ritirato nella famiglia o tra le allegre brigate, è tutto qui
con la sua quiete e il suo «fuge rumores». Ci è in questo
ritratto un po’ di Orazio, ma l’imitazione è qui natura, è
somiglianza di anima e di genio. Il riso è puro di amarezza e di disprezzo, perchè senti che l’uomo di cui tu ridi è
onesto, gentile, ingenuo, inoffensivo, ha tutte le qualità
amabili delle anime deboli e buone. Non ci è il capitolo
e non la satira, perchè quell’uomo non si propone di
berteggiare nè di censurare, ma unicamente di sfogare il
suo umore col fratello o l’amico. E perciò la sua narrazione è mescolata di osservazioni, facezie, motti, proverbi, movimenti stizzosi d’immaginazione, tratti e pitture
satiriche, e soprattutto di apologhi graziosissimi, piccoli
capilavori. La terza rima, il linguaggio eroico e tragico
del medio evo, il linguaggio della Divina Commedia e
de’ Trionfi, in questa profonda trasformazione letteraria
diviene il linguaggio della commedia, il metro del capitolo, della satira e della epistola, con una sprezzatura
che arieggia alla prosa. La parabola si compie in queste
epistole dell’Ariosto, dove la terzina è profondamente
modificata, e prende forma pedestre, aguzzata e sentenziosa, come un epigramma o un proverbio.
La terzina, come il sonetto e la canzone, era il genere
letterario e tradizionale. L’ottava, la cui immagine si vede già abbozzata ne’ rispetti e ne’ canti popolari, era il
linguaggio de’ romanzi, delle narrazioni e delle descri-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
zioni, recata a perfezione dal Poliziano. Era il linguaggio
di moda e popolare. E la terzina sarebbe rimasta, come
il sonetto e la canzone, stazionaria e convenzionale, se il
Berni e l’Ariosto non le avessero data nuova vita, traendola dal cielo, e dandole abito conforme al tempo. L’ottava rima cantava; la terzina discorreva, berteggiava, satirizzava, esprimeva la parte prosaica e reale della vita.
Fra tanti fastidi e piccole miserie della vita Ludovico
scriveva l’Orlando furioso, con molta noia del cardinale
Ippolito, che vedeva sciupato in quelle «corbellerie» il
tempo destinato al suo «servizio». Il Boiardo interruppe
il suo Orlando innamorato proprio allora che calava le
Alpi Carlo ottavo per andar «non so in che loco». Morì
qualche anno dopo, quando Ludovico traduceva Plauto
e Terenzio e scriveva commedie, rappresentate magnificamente nel teatro di corte. La gloria dell’Omero ferrarese spronò l’Ariosto a tentar qualche cosa di simile. Cominciò in terza rima una storia epica de’ fasti estensi, ma
smise subito, disacconcio il metro alla sua larga vena. E
si risolse senz’altro di continuar la storia di Orlando, ripigliandola là dove l’avea lasciata il Boiardo. Se ne consigliò col Bembo, il quale lo esortò a scrivere il poema in
latino. L’Orlando in latino! Il Bembo non capiva cosa
fosse l’Orlando innamorato. Ma lo capiva l’Ariosto, che
di quella lettura facea sua delizia, e deliberò senza più di
usare lo stesso metro e le stesse forme. Così cansò l’imitazione classica, e ricuperò la libertà del suo ingegno.
Pose mano al lavoro nel 1505, al suo trentunesimo anno,
e vi si seppellì per dieci anni, e spese tutto il rimanente
della vita a emendarlo. Si racconta che andasse sino a
Modena in pianelle, e non se ne accorse che a metà della
via. Altri fatti si narrano della sua distrazione. Che cosa
c’era dunque nella sua testa? C’era l’Orlando furioso.
Niuna opera fu concepita nè lavorata con maggior serietà.
E ciò che la rendeva seria non era alcun sentimento
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
religioso o morale o patriottico, di cui non era più alcun
vestigio nell’arte, ma il puro sentimento dell’arte, il bisogno di realizzare i suoi fantasmi. Ci è ne’ suoi fini il desiderio un po’ di secondare il gusto del secolo, e toccare
tutte le corde che gli erano gradite, un po’ di tessere la
storia o piuttosto il panegirico di casa d’Este. Ma sono
fini che rimangono accessorii naufragati e dimenticati
nella vasta tela. Ciò che lo anima e lo preoccupa è un
sentimento superiore, che è per lui fede, moralità e tutto, ed è il culto della bella forma, la schietta ispirazione
artistica. E lo vedi mutare e rimutare, finchè non abbia
dato alle sue creazioni l’ultima forma che lo contenti. Da
questa serietà e genialità di lavoro uscì l’epopea del Rinascimento, il tempio consacrato alla sola divinità riverita ancora in Italia, l’Arte.
Ludovico e Dante furono i due vessilliferi di opposte
civiltà. Posti l’uno e l’altro tra due secoli, prenunziati da
astri minori, furono le sintesi, in cui si compì e si chiuse
il tempo loro. In Dante finisce il medio evo; in Ludovico
finisce il Rinascimento.
Ritratto tutti e due della loro età. Dante fu più poeta
che artista: all’artista nocquero la scolastica, l’allegoria,
l’ascetismo, e la stessa grandezza ed energia dell’uomo.
Ci era nella sua coscienza un mondo reale troppo vivo e
appassionato e resistente, perchè l’arte potesse dissolverlo e trasformarlo. E quel mondo reale era involuto in
forme così dense e fisse, che il suo sguardo profondo
non potè sempre penetrarvi e attingerlo nel suo immediato.
Tutto questo mondo è già sciolto innanzi a Ludovico,
nella sua realtà e nelle sue forme. È sciolto per un lavoro
anteriore al quale egli non ha partecipato. Già nel Petrarca spunta l’artista, che si foggia il mondo del suo
cuore, e se lo compone e atteggia come pittore, e ci crede e ci si appassiona e ne sente i tormenti e le gioie. Già
nel Boccaccio l’arte si trastulla a spese di quella realtà e
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
di quelle forme. Già su quel mondo è passato il ghigno
di Lorenzo, e il riso beffardo del Pulci, e già, vòto il tempio, è surta sugli altari la nuova divinità annunziata da
Orfeo, tra’ profumi eleganti del Poliziano. Ludovico
non ha niente da affermare, e niente da negare. Trova il
terreno già sgombro, e senza opera sua. Non è credente,
e non è scettico; è indifferente. Il mondo in mezzo a cui
si forma, destituito di ogni parte nobile e gentile, senza
religione, senza patria, senza moralità, non ha per lui
che un interesse molto mediocre. Buona pasta d’uomo,
con istinti gentili e liberi, servo non fremente e ribelle,
ma paziente e stizzoso, adempie nella vita la parte assegnatagli dalla sua miseria con fedeltà, con intelligenza,
ma senza entusiasmo e senza partecipazione interiore.
Lo chiamavano distratto. Ma la vita era per lui una distrazione, un accessorio, e la sua occupazione era l’arte.
Andate a vedere quest’uomo mezzano e borghese come
quasi tutt’i letterati di quel tempo, nella sua bontà e
tranquillità facilmente stizzoso, e che non sa conquistare
la libertà e non sa patire la servitù, e tutto rimpiccinito e
ritirato tra le sue contrarietà e le sue miserie si fa spesso
dar la baia per le sue distrazioni e le sue collere; andate a
vedere quest’uomo quando fantastica e compone. Il suo
sguardo s’illumina, la sua faccia è ispirata, si sente un iddio. Là, su quella fronte, vive ciò che è ancora vivo in
Italia: l’artista.
Già questo mondo cavalleresco, che riempie la sua
immaginazione, non era stato altro mai in Italia che un
mondo di fantasia e visto da lontano. E quando ogni
idealità si corruppe, molti cercavano ivi quell’ideale di
bontà e di virtù che altri trovavano nella vita pastorale:
così sorse sulle rovine del medio evo il poema cavalleresco e l’idillio, i due mondi poetici o ideali del Rinascimento. Una reminiscenza di quel mondo cavalleresco
c’era, ma lontana e confusa per le date, per i luoghi e per
i fatti; sicchè veniva alla coscienza non da tradizioni na-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
zionali, ma dalla lettura di romanzi tradotti o imitati.
Pure una immagine vicina di quel mondo era nelle corti,
dove appariva quel non so che signorile e gentile e umano che fu detto «cortesia», e dove spesso si davano spettacoli che richiamavano alla mente quelle forme e que’
costumi. Ci era dunque nella coscienza italiana un mondo della cortesia contrapposto al mondo plebeo per la
pulitezza delle forme e la gentilezza de’ sentimenti; un
mondo le cui leggi non erano derivate dal Vangelo, nè
da alcun codice, ma dall’essere cavaliere o gentiluomo; e
anche oggi sentiamo dire: «in fè di gentiluomo». Ci era il
codice dell’onore e dell’amore, che comprendeva gli obblighi del prode e leale cavaliere. La costanza e fedeltà
nell’amore, la devozione al suo signore, l’osservanza della parola, la difesa de’ deboli, la riparazione delle offese,
erano gli articoli principali di quel codice, il cui complesso costituiva il così detto punto d’onore. Questo è
quel mondo della cortesia che nel Decamerone apparisce
come il mondo poetico in contrapposto con la rozzezza
plebea: e in verità Gerbino e Guglielmo e la figlia di
Tancredi e Federigo degli Alberighi sono belle immagini di un mondo superiore per finezza e fierezza di tempra. Ma nelle corti italiane, come quelle di Urbino, di
Ferrara, di Mantova, era rimasto di quel mondo appena
un barlume, e più nell’apparenza che nella sostanza, anzi non rado avveniva di vedere accoppiata con l’eleganza
e la galanteria dei costumi la più sfacciata perfidia, come
in Cesare Borgia. Un sentimento vero e profondo
dell’onore non era dunque parte intima del carattere nazionale, e se allora potevano esserci uomini di onore,
non ci era certo nè un popolo, nè una classe, dove l’onore fosse regola della vita, anzi quegli uomini colti e svegliati erano inclinati a dar dello sciocco a quelli che con
loro danno o incomodità osservavano quelle leggi: non
era virtù, era dabbenaggine, e destava quel leggier senso
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ironico, la cui punta è appena dissimulata nell’esclamazione del poeta:
O gran bontà de’ cavalieri antichi!
Non ci era dunque in Italia un serio sentimento cavalleresco, che potesse ispirare qualche cosa come il Cid; e
scaduto ogni sentimento religioso, morale e politico,
l’onore rimaneva senza base, e non avea serbate che alcune delle sue qualità superficiali, e più brillanti che solide, di cui si vede il codice nel Cortigiano del Castiglione. Perciò la cavalleria, come la mitologia e come il
mondo religioso, non era fra noi altro che pura leggenda
o romanzo, un mondo d’immaginazione, che interessava
non per il suo ideale, ma per la novità, la varietà e la
straordinarietà degli accidenti. Meno il suo significato
era serio, e più il suo contenuto era fantastico e licenzioso, cancellati tutt’i limiti di spazio e di tempo e di verisimiglianza. Il cantastorie non si proponeva altro scopo
che di stuzzicare la curiosità e appagare l’immaginazione, intessendo sul vecchio fondo tradizionale cavalleresco le favole più assurde, e intrigandole fra loro in modo
da tener sospesa e curiosa l’attenzione. Indi quelle forme di narrare bizzarre, interrompendo, intramettendo,
ripigliando co’ passaggi più bruschi, e portando l’incoerenza fino nell’esterna orditura del racconto.
Già cominciava a spuntare una scienza dell’uomo e
della natura. L’invenzione della stampa, la scoperta di
Copernico, i viaggi di Colombo e di Amerigo Vespucci,
gli scritti del Pomponazzi, i Discorsi del Machiavelli, la
Riforma, la costruzione solida di grandi Stati, come la
Spagna, la Francia, l’Inghilterra, erano fatti colossali che
rinnovavano la faccia del mondo. Ma le conseguenze
non erano ancora ben chiare, e il mondo moderno, il
mondo dell’uomo e della natura, o, per dirlo in una parola, la scienza, era ancora come un sole inviluppato di
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vapori, che non danno via a’ suoi raggi. E i vapori erano
il mondo popolare dell’immaginazione, che suppliva alla
scienza, riempiendo la terra di miracoli. Ogni specie di
soprannaturale era accumulata e ammessa, il miracolo
de’ cristiani, il prodigio de’ pagani, gl’incanti de’ maghi
e delle fate, le imposture degli astrologi. L’uomo stesso
in mezzo a questa natura fatata e incantata era un attore
degno di quel teatro: essere ancora primitivo, credulo,
ignorante, abbandonato alle sue inclinazioni e passioni,
determinato all’azione da sùbiti movimenti, anzi che da
posata riflessione, e che non si ripiega mai in sè, non si
studia, non si conosce, è tutto superficie, tutto fuori nel
tumulto e nel calore della vita. Perciò è piuttosto
anch’esso una forza naturale che un essere consapevole,
una forza tirata e avvolta nel vario gioco degli avvenimenti, povera di «carattere» e di «autonomia».
Nondimeno l’Italia era il paese, dove l’uomo, come
intelligenza, era più adulto, più formato dall’educazione
e dalla coltura, e dove il soprannaturale sotto tutte le sue
forme non era ammesso che come macchina poetica, un
gioco d’immaginazione. Perciò, se in altre parti di Europa ci era ancora un legame tra il mondo cavalleresco e il
mondo reale, questo legame era spezzato tra noi, e la cavalleria non era che un mondo di pura immaginazione.
Ludovico era tutt’altro che uomo cavalleresco, anzi tirava al comico. E quando prese a voler continuare la
storia del Boiardo, era come un pittore che dipinge con
la stessa indifferenza una santa o una ninfa o una fata,
pur di dipingerla bene. Molti chiedono: – Quale fu lo
scopo dell’Ariosto? – Non altro che rappresentare e dipingere quel mondo della cavalleria. Omero canta l’ira
di Achille; Virgilio canta Enea; Dante canta la redenzione dell’anima; l’Ariosto non canta l’impresa di Agramante o di Carlo e non le furie di Orlando e non gli
amori di Ruggiero e Bradamante: l’impresa di Agramante è per lui come un punto fisso intorno al quale si svi-
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luppa il mondo cavalleresco, non lo scopo, ma il tempo
e il luogo nel quale si mostra quel mondo. Egli canta le
donne e i cavalieri, le cortesie e le audaci imprese che furono «a quel tempo» che Agramante venne in Francia.
Le furie di Orlando e gli amori di Ruggiero sono non
episodi, appunto perchè non ci è un’azione unica e centrale, ma parti importanti di quell’immensa totalità che
dicesi mondo cavalleresco. L’unità è dunque non questa
o quella azione e non questo o quel personaggio, ma è
tutto esso mondo nel suo spirito e nel suo sviluppo nel
tal luogo e nel tal tempo. Se l’impresa di Agramante fosse non il semplice materiale dove si sviluppa il mondo
cavalleresco, ma una vera e seria azione, lo scopo del
poema, e se Orlando e Ruggiero fossero episodi in quest’azione, il romanzo sarebbe così difettoso, come difettosa sarebbe la Divina Commedia, a volerla giudicare
con lo stesso criterio. Belli questi episodi che invadono
l’azione e la soperchiano! Bella quest’azione che ha i
suoi accidenti più importanti fuori del poema nella storia del Boiardo, e che ispira un interesse molto mediocre
al poeta, il quale se ne ricorda solo allora che ha bisogno
di raccogliere le fila troppo sparse in un centro, e volentieri e per lungo tempo se ne dimentica, e finita essa,
continua senza di essa! Unità d’azione ed episodi sono
un linguaggio convenzionale venutoci da Aristotile e da
Orazio, e sarebbe cosa assurda a volerlo applicare al
mondo cavalleresco. Perchè l’essenza di quel mondo è
appunto la libera iniziativa dell’individuo, la mancanza
di serietà, di ordine, e di persistenza in un’azione unica e
principale, sì che le azioni si chiamano avventure, e i cavalieri si dicono erranti. Staccarsi dal centro, andare vagando, e cercare avventure, è lo spirito di un mondo che
ripugna così alla unità come alla disciplina. Volere organizzare questo mondo co’ precetti di Orazio e di Aristotile è un volerlo falsificare. Il disordine qui è ordine, e la
varietà è unità. Come l’unità del mondo nella sua infini-
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ta varietà è nel suo spirito o nelle sue leggi, così l’unità di
questa vasta rappresentazione è nello spirito o nelle leggi del mondo cavalleresco.
La forza centripeta è assai fiacca in questo mondo
della libertà e dell’iniziativa individuale; e ci vuole l’angiolo Michele o il demonio per tirare i cavalieri erranti a
Parigi, dove si combatte. E non ci si trovano che un par
di volte, e appena una giornata; chè il dì appresso corrono di nuovo dietro a’ fantasmi delle loro passioni, tirati
da amore, da vendetta, da gloria, e vaghi tutti di avventure strane e maravigliose. La stessa impresa di Agramante non è un fatto religioso o politico, ma anch’essa
una grande avventura, cagionata dal desiderio della vendetta. Parigi è un punto stabile dove stanno a offesa e
difesa con gli eserciti Carlo e Agramante; ma i loro paladini e cavalieri, la più parte re e signori, vanno discorrendo per il mondo, e Parigi non è che un punto di convegno dove il racconto si raccoglie alcuna volta e si
riposa, e di cui si vale il poeta per comporre e annodare
le fila in certi grandi intervalli. Perchè al di sopra di quest’anarchia cavalleresca ci è uno spirito sereno e armonico, che tiene in mano le fila e le ordisce sapientemente, e
sa stuzzicare la curiosità e non affaticare l’attenzione,
cansare in tanta varietà e spontaneità di movimenti il cumulo e l’imbroglio, ricondurti innanzi improvviso personaggi e avvenimenti che credevi da lui dimenticati, e
nella maggiore apparenza del disordine raccogliere le fila, egli solo tranquillo e sorridente in mezzo al tumulto
di tanti elementi cozzanti. Parigi è il principal nodo
dell’ordito, è come un faro, che di tanto in tanto brilla e
illumina tutto intorno. La scena si apre a Parigi, appunto allora che le genti cristiane hanno avuto una gran rotta. E allora appunto, quando il bisogno è maggiore, Rinaldo, Orlando, Brandimarte vanno via. Rinaldo corre
dietro a Baiardo, Orlando corre dietro ad Angelica, e
Brandimarte corre dietro ad Orlando. Vi trovate già in
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pieno mondo cavalleresco: vi si sviluppano le avventure.
E mentre essi corrono, Agramante mette il fuoco a Parigi, e Rodomonte vi entra solo e vi sparge il terrore. Parigi è salvato, perchè una pioggia miracolosa spenge l’incendio, e Rinaldo guidato dall’angiolo Michele giunge
proprio a tempo e disfà i pagani. Agramante che assediava, è assediato. I cavalieri pagani sono anche erranti.
Ferraù cerca Orlando, a cui ha giurato di toglier l’elmo;
Gradasso cerca Rinaldo, a cui vuol togliere Baiardo; Sacripante cerca Angelica; Marfisa, Rodomonte, Ruggiero,
Mandricardo contendono e pugnano tra loro. Riesce al
demonio di farli correre appresso al ronzino di Doralice,
che li tira seco a Parigi. Giungono e disfanno i cristiani.
Ma il dì appresso si raccende la discordia e vengono alle
mani. Mandricardo è ucciso da Ruggiero; Marfisa e Rodomonte lasciano per ira il campo; e chi rimane? Rinaldo tra’ cristiani, Ruggiero tra’ pagani. Un duello tra Rinaldo e Ruggiero dee porre fine alla guerra. Ma
Agramante rompe i patti, è disfatto, la sua flotta è dispersa da’ nemici e da’ venti, e vede di lungi la sua patria
arsa da’ cristiani. Il poema cominciato a Parigi si termina a Parigi, con le nozze di Ruggiero e la morte di Rodomonte. Parigi è il legame esteriore del racconto, ma non
ne è l’anima o il motivo interiore. Il motivo è lo spirito
di avventura e la soddisfazione degli appetiti, l’amore, o
il punto d’onore, o il maraviglioso, che tirasi appresso il
cavaliere, quando non sia sviato e impedito da forze soprannaturali. Il soprannaturale è qui come semplice
macchina o forza, senza personalità; e forze sono e non
persone Michele e il demonio e la Discordia e Atlante e
Melissa. È un soprannaturale privo di ogni aureola e
prestigio, e tali sono pure le spade e gli scudi incantati, e
gli anelli fatati, e gl’ippogrifi, e la lancia di Argalìa, e il
corno di Astolfo, e simili storie viete e note, che lasciano
fredda l’immaginazione del poeta. Si è così avvezzi a
questo soprannaturale, che ci si sta dentro come in un
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mondo ordinario; quel fantastico in permanenza uccide
se stesso e perde le sue punte e i suoi colori; se interesse
ci è, non è in quello, ma negli effetti tragici o comici che
sa cavarne il poeta, come sono gli effetti comici del corno di Astolfo. Tra questo mondo soprannaturale vive
una forza indisciplinata e quasi ancora primitiva, nelle
varie sue gradazioni, dal mostro e dal gigante e dal pagano sino al cavaliere cristiano, il cui modello è nel codice
di onore, e che rappresenta la civiltà e il progresso nella
comune barbarie.
I motivi spirituali di questo mondo, l’amore, l’onore e
il maraviglioso o lo spirito di avventura, sono dal poeta
portati a quell’ultimo punto che confina col ridicolo:
l’amore toglie il senno ad Orlando ed imbestia Rodomonte; il punto d’onore degenera in puntiglio e produce
i più strani effetti, la cui immagine tragica è Mandricardo, e il cui modello comico è Rodomonte nelle sue imprese sul ponte; il maraviglioso ti conduce sino alla soglia dell’inferno e nel paradiso terrestre e nel regno della
Luna. Il mondo cavalleresco ne’ suoi motivi interni è
spinto all’ultima punta. Se l’elemento soprannaturale è
fiacco, e la stessa Alcina pare quasi più una personificazione allegorica che una verace persona poetica, vivacissima è al contrario la pittura degli avvenimenti determinati da forze naturali e umane, che abbracciano tutto il
circolo della vita nelle sue varie e contrarie apparenze.
Vi si sviluppano profonde combinazioni estetiche, serie
e comiche; come è Angelica che finisce moglie di un povero fante, la pazzia di Orlando, la peregrinazione di
Astolfo nella Luna, la discordia nel campo di Agramante, Agramante in vista di Biserta, e Gradasso fatato, che,
guerreggiando tutta la vita per avere Baiardo e Durlindana, quando le ha ottenute e si crede felice, è ammazzato da Orlando. Reminiscenza di Achille è Ruggiero, liberato dagli ozi del castello incantato e dalle delizie di
Alcina, e riuscito il più perfetto modello di cavaliere. In-
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torno a queste grandi combinazioni si aggruppano fatti
minori, che danno il finito e il contorno a questo mondo
nelle sue più lievi sfumature, come è la morte di Zerbino
e il lamento d’Isabella, Olimpia abbandonata, la morte e
le esequie di Brandimarte, le avventure di Grifone, Dudone, Marfisa, e le scene comiche di Martano, di Gabrina e di Giocondo. Quantunque un mondo così fatto abbia un aspetto fuori dell’ordinario e si discosti tanto da’
costumi e dal sentire del suo tempo, pure Ludovico ci
sta così a suo agio e ne ha sì vivamente impressa l’immaginazione, che te lo dà alla luce con tutt’i caratteri di una
vita presente e reale. E qui è il maraviglioso del genio
ariostesco, rappresentare un mondo così straordinario
con semplicità e naturalezza. Le condizioni di esistenza
sono veramente fantastiche sino all’assurdo; ma una volta ammesse quelle basi, il movimento storico diviene
profondamente umano e naturale. Si vegga con che fine
gradazioni psicologiche è condotto Orlando sino a perdere il senno, con che scala intelligente è rappresentato
il dolore di Olimpia, o la discordia de’ pagani nel campo
di Agramante. Perciò tutti quei personaggi ti stanno innanzi vivi, e non puoi dimenticarli più. Alcuni anzi son
divenuti caratteri comici proverbiali, come Rodomonte,
Gradasso, Sacripante, Marfisa. Il poeta non s’intromette
niente nella sua storia, e più che attore, è spettatore che
gode alla vista di quel mondo, quasi non fosse il mondo
suo, il parto della sua immaginazione. Indi quella perfetta obbiettività e perspicuità del mondo ariostesco, che è
stata detta chiarezza omerica. L’arte italiana in questa
semplicità e chiarezza ariostesca tocca la sua perfezione,
ed è per queste due qualità che l’Ariosto è il principe degli artisti italiani, dico «artisti» e non «poeti». Non dà
valore alle cose, slegate dalla realtà e puro gioco d’immaginazione; ma dà un immenso valore alla loro formazione, e intorno vi si travaglia con la maggiore serietà.
Non ci è così piccolo particolare, che non tiri la sua at-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
tenzione, e non abbia le sue ultime finitezze. Appunto
perchè l’interesse è non nella cosa, ma nella sua forma,
la maniera sobria e comprensiva di Dante è abbandonata, e non hai schizzi, hai quadri finiti. Ciò che nel Decamerone ti dà il periodo, qui te lo dà l’ottava, di una ossatura perfetta, e congegnata a modo di un quadro col suo
protagonista, i suoi accessorii e il suo sfondo. Il Poliziano ti dà una serie, di cui lascia il legame all’immaginazione: l’Ariosto ti dà un vero periodo, così distribuito e
proporzionato che pare una persona. E l’effetto è non
solo in quella ossatura materiale così solida e bene ordinata, ma in quell’onda musicale, in quella superficie
scorrevole e facile, che ti fa giungere all’anima insieme
coi fatti i loro motivi e i loro affetti. Nel secolo de’ grandi pittori, quando l’immaginazione italiana mirava a dare all’immagine tutta la sua finitezza, l’Ariosto è pittore
compìto, che non ti lascia l’oggetto finchè non ne abbia
fatto un quadro. E non è che cerchi effetti di luce o di
armonia straordinari, o lusso di colori e di accessorii:
non ci è ombra di affettazione, o di pretensione; ci è
l’oggetto per se stesso, che si spiega naturalmente. Il
poeta fissa l’esteriorità nel punto che è viva, quando cioè
è atteggiata così o così per movimenti interni o esteriori,
e non osserva, non riflette, non la scruta, non l’interroga, non cerca al di dentro, non la palpa, non la maneggia
per volerla abbellire. Nessun movimento subbiettivo
viene a turbare l’obbiettività del suo quadro; nessun
movimento intenzionale. Non ci è il poeta, ci è la cosa
che vive, e si move, e non vedi chi la move, e pare si mova da sè! Questa sublime semplicità nella piena chiarezza della visione è ciò che il Galilei chiamava a ragione la
«divinità» dell’Ariosto. E non è solo nel minuto, ma nelle grandi masse. La sua vista rimane tranquilla e chiara
ne’ più bruschi e complicati movimenti d’insieme. Indi è
che dipinge duelli, battaglie, giostre, feste, spettacoli,
paesaggi, castella, con quella purezza e semplicità di di-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
segno che dipinge le cose minime. Nelle ottave del Poliziano la superficie non ha più nulla di scabro, ma ti accorgi che è stata strofinata, leccata, lisciata e si vede l’intenzione dell’eleganza. Qui la superficie è così
naturalmente piana, che ti par nata a quel modo e che
non possa essere altrimenti. Pigliamo ad esempio la rosa:
Questa di verdi gemme s’incappella;
quella si mostra allo sportel vezzosa;
l’altra, che in dolce foco ardea pur ora,
languida cade e il bel pratello infiora.
Qui la rosa m’ha aria di una fanciulla civettuola, che
prende questa o quell’attitudine per parer vezzosa.
L’«incappellarsi», lo «sportello», quell’«ardere in dolce
foco», sono immagini appiccatele da immaginazione
umana. È la rosa non nella sua naturalezza immediata,
ma come pare all’uomo. Ci si vede il lavoro dello spirito,
che l’orna e la vezzeggia, la rosa passata attraverso lo
spirito e uscitane trasformata. Vedi ora nell’Ariosto, la
rosa,
che in bel giardin su la nativa spina
mentre sola e sicura si riposa,
nè gregge nè pastor se le avvicina;
l’aura soave e l’alba rugiadosa,
l’acqua, la terra al suo favor s’inchina:
gioveni vaghi e donne innamorate
amano averne e seni e tempie ornate.
Ma non sì tosto dal materno stelo
rimossa viene e dal suo ceppo verde,
che quanto avea dagli uomini e dal cielo
favor, grazia e bellezza, tutto perde.
Questa è la storia o il romanzo della rosa. Il poeta ha
aria non di descrivere, ma di raccontare, e ti pone innan-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
zi la cosa nella sua verità naturale, sì che niente paia oltrepassato, esagerato, o trasformato. L’«alba rugiadosa»,
il «ceppo verde», la «nativa spina», i «gioveni vaghi», le
«donne innamorate», i «seni e le tempie», il «gregge e il
pastore» sono tutte immagini naturali, distinte, plastiche, obbiettive, prodotte da una immaginazione impersonale, assorbita dallo spettacolo. E guarda alla movenza dell’ottava, con tanta semplicità che l’ultimo verso
par ti caschi per terra, come vil prosa, a quel modo che è
cascata la rosa da quella sua altezza verginale. Gli è che
qui eleganza, armonia, colorito non vengono da alcun
preconcetto dello spirito, ma sono la forma stessa delle
cose, non il loro ornamento o la loro veste, ma la loro
chiarezza. Come le cose minime, così le grandi masse sono disegnate con la stessa perspicuità e purezza. Fra tante battaglie e duelli e incanti e paesaggi non trovi mai ripetizioni o reminiscenze, perchè ciascuna cosa è come
un individuo perfettamente distinto e caratterizzato.
Quadro, piccolo o grande che sia, prende la sua movenza e il suo colore dalla cosa rappresentata, e però ciascun quadro è in sè distinto e compìto, condotto e disegnato negli ultimi particolari. Lo spirito ne’ suoi
preconcetti è limitato, e produce la «maniera», che ti
pone innanzi non la cosa vista, ma il modo di guardarla,
la visione: e perciò facilmente imitabili sono i poeti subbiettivi, ne’ quali prevale la maniera, come il Petrarca, il
Tasso, il Marino, e simili. Al contrario inimitabile è
l’Ariosto che non ha maniera, perchè è tutto obbliato e
calato nelle cose, e non ha un guardare suo proprio e
personale. Anzi egli ha una perfetta bonomia, un’aria di
raccontare alla schietta e alla buona, come le cose gli si
presentano, senza mettervi niente di suo. Ha un ingegno
poroso, che riceve e rende le cose nella evidenza e distinzione della loro personalità, senza che esse trovino
ivi intoppo o alterazione. Perciò il suo ingegno è trasmutabile in tutte guise, non secondo il suo umore, ma se-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
condo la varia natura delle cose. Con la stessa facilità e
sicurezza vien fuori l’eroico, il tragico, il comico, l’idillico, il licenzioso, come qualità naturali delle cose, anzi
che del suo spirito. Di che viene l’evidenza miracolosa
di questo mondo nella sua infinita varietà e libertà, e la
sua serietà artistica nel suo insieme e nelle minime parti.
L’evidenza è in quel coglier gli oggetti vivi, cioè in azione, e metterti innanzi tutti gli accessorii essenziali, anch’essi in azione, cioè come movimenti, attitudini o motivi, accessorii che Dante fa indovinare, e che qui si
sviluppano nelle larghe pieghe dell’ottava. E perchè gli
oggetti sono còlti in azione o in movimento, le descrizioni sono rare e sobrie, e appena accennati i caratteri e i
paesaggi, che sono l’uomo e la natura nel loro stato
d’immobilità, e abbozzate le intramesse e le commettiture e le circostanze facilmente intelligibili, e gli antecedenti richiamati brevemente, e l’azione colta nel momento più interessante e condotta innanzi con le vele
gonfie e con prospero vento. Mai non ti accade d’impaludare o di deviare: come in questo mondo par che non
esistano limiti di spazio o di tempo, così nello stile non
trovi intoppi o ingombri, e sei in acqua limpida e corrente. Tutto è succo e pieno di senso. Niente ci sta in
modo assoluto: tutto è relativo e intenzionale, e concorre all’effetto, ora serio ora comico. L’effetto è quale te lo
può dare un mondo di sola immaginazione, al quale il
poeta non prende altra partecipazione che artistica, che
non ha alcuna relazione con le sue passioni e i suoi sentimenti. L’effetto è una viva curiosità sempre nutrita e accompagnata spesso da una tranquilla soddisfazione, come chi sa di sognare, e gli piace, e tiene gli occhi mezzo
chiusi, immerso in quella contemplazione. Il sogno gli
piace, pure non dice nulla al suo cuore e alla sua mente:
è un dolce ozio dell’immaginazione. È un flutto d’immagini così vive e limpide, così naturali e così espressive,
che ti tengono a sè e non ti concedono alcuna distrazio-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ne; e ti giungono portate da onde sonore, tra colori e tra
mormorii, che dilettano la vista e suonano deliziosamente nell’orecchio. Quel mondo è il tuo rêve, o per dirla
con linguaggio tolto a quel mondo, è il tuo castello incantato, il tuo sogno dorato. L’impressione non è così
profonda che oltrepassi l’immaginazione e colpisca il
tuo essere in ciò che di più serio ha il pensiero o il sentimento. La più gagliarda impressione ti suscita appena
una emozione, nuvoletta nel suo formarsi già sciolta in
quel limpido cielo. Di queste nuvolette leggiere, appena
disegnate, è sparso il racconto, e sono movimenti subitanei che provocano una risata o una lacrima, immediatamente repressi e trasformati. Eccone qualche esempio:
– Nè men ti raccomando ancora la mia Fiordi... –
ma dir non puote «ligi», e qui finìo...
Stese la mano in quella chioma d’oro,
e strascinollo a se’ con violenza;
ma come gli occhi in quel bel volto mise,
gli ne venne pietade e non l’uccise.
Così subitanee e così fugaci sono le tue emozioni, quando ti balzano innanzi certe immagini tenere. Si sveglia
subito nel tuo cuore qualche cosa che si move, e che non
puoi chiamare ancora «sentimento», quando una nuova
immagine ti avverte del gioco e ricaschi nella tranquillità
della tua visione. Una delle creature più simpatiche
dell’Ariosto è Zerbino, e quando gli giunge addosso la
spada di Mandricardo, ci è nel nostro cuore un piccol
movimento, che risponde ai palpiti della sua Isabella;
ma il poeta con una galanteria piena di grazia paragona
la lunga e non profonda ferita al nastro purpureo, che
partisce la tela d’argento ricamata dalla sua bella, e
spenge in sul nascere quel movimento. La morte di Zerbino è una scena molto tenera, il cui sentimento troppo
straziante è rintuzzato da immagini graziosissime. Isa-
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bella è china sul morente: il poeta la guarda, e la trova
pallidetta come rosa:
rosa non còlta in sua stagion, sì ch’ella
impallidisca in su la siepe ombrosa.
Zerbino, morendo, nella sua disperazione manda un ultimo sguardo pieno di passione all’amata:
per queste bocca e per questi occhi giuro,
per queste chiome onde allacciato fui...
Talora è una sola circostanza ben collocata, che dal sentimentale ti gitta nell’immagine:
e straccia a torto l’auree crespe chiome.
A quest’ufficio adempiono specialmente i paragoni, che
nel più vivo dell’emozione te ne distraggono e ti presentano un altro oggetto. Sacripante nel suo dolore paragona la verginella alla rosa. Angelica incalzata da Rinaldo
pare una cavriola fuggente, che abbia veduta la madre
sotto i denti del pardo:
ad ogni sterpo che passando tocca,
esser si crede all’empia fera in bocca.
L’«impasto leone», l’«uscito di tenebre serpente», l’«orsa assalita nella petrosa tana», il «vase a bocca stretta e a
lungo collo, onde l’acqua esce a goccia a goccia», e simili spettacoli, non nuovi e non originali, come presso
Dante, ma di apparenze e movenze vivacissime, sono gagliarde diversioni e distrazioni che riconducono la vita al
di fuori anche nel maggiore strazio della passione. Veggasi nel canto quarantacinquesimo il lamento di Bradamante, che è una vera canzone elegiaca, sparsa di amabili paragoni. Quell’occhio vagante, che cerca se stesso
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
nella natura, ha già rasciutte le lacrime. Onde nasce quel
tono generale del sentimento più vicino all’elegiaco e
all’idillico che all’eroico e al tragico; ciò che è conforme
non pure alla natura impressionabile e tenera del poeta,
ma alla stessa tendenza dell’arte, dal Petrarca in qua.
Anche la natura rimane tutta al di fuori e non ti cerca
l’anima, com’è il giardino di Alcina e il paradiso terrestre. Ci è l’immagine, non ci è il sentimento:
Zaffir, rubini, oro, topazi e perle
e diamanti e crisoliti e iacinti
potriano i fiori assimigliar che per le
liete piagge v’avea l’aura dipinti...
Cantan fra i rami gli augelletti vaghi
azzurri e bianchi e verdi e rossi e gialli,
murmuranti ruscelli e cheti laghi
di limpidezza vincono i cristalli.
Qual è il suono che manda questa natura? Quali impressioni? Quali ispirazioni? Astolfo fra tanta bellezza guarda e passa, e non gli si move il core che di maraviglia alla vista di un muro che è tutto di una gemma
più che carbonchio lucida e vermiglia.
O stupenda opra! O dedalo architetto!
Non hai dunque il sentimento della natura, come non
hai il sentimento della patria, della famiglia, dell’umanità, e neppure dell’amore, dell’onore. In luogo del sentimento hai la sentenza morale, che è la sua astrazione, il
sentimento naturalizzato e cristallizzato in bei versi, come:
il miser suole
dar facile credenza a quel che vuole.
Ecco magnifiche sentenze intorno all’amore:
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Quel che l’uom vede, Amor gli fa invisibile,
e l’invisibil fa vedere Amore.
Che non può far di un cor che abbia suggetto
questo crudele e traditore Amore?...
Che lietamente in sul principio applaude,
e tesse di nascosto inganno e fraude.
... ... Amor che sempre
d’ogni promessa sua fu disleale,
e sempre guarda come involva e stempre
ogni nostro disegno razionale...
Io dico e dissi e dirò finch’io viva
che chi si trova in degno laccio preso
pur che altamente abbia locato il core
pianger non dee, se ben languisce e muore.
Chi mette il piè sull’amorosa pania,
cerchi ritrarlo e non v’inveschi l’ale:
chè non è in somma amor se non insania,
a giudizio de’ savi universale.
Oh gran contrasto in giovenil pensiero
desir di lauda ed impeto d’amore!
Né, chi più vaglia, ancor si trova il vero,
chè resta or questo, or guel superiore.
Amor sempre rio non si ritrova:
se spesso nuoce, anche talvolta giova.
La lunga absenzia, il veder vari luoghi,
praticare altre femmine di fuore,
par che sovente disacerbi e sfogli
dell’amorose passïoni il core.
Amor dee far gentile un cor villano,
e non far d’un gentil contrario effetto.
Queste sentenze non sono osservazioni profonde e originali, ma luoghi comuni assai bene versificati, che non
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
lasciano alcun vestigio di sè. Il sentimento, ora condensato in una sentenza, ora tradotto in una immagine, appena nato, si dissolve. Non mancano tratti sentimentali,
come è la risposta di Dardinello a Rinaldo, o di Agramante a Brandimarte, o i lamenti di Olimpia o di Orlando o di Cloridano così musicali ed elegiaci; ma stanno
come inviluppati in quel mare fantastico, e naufragati
sotto a quei flutti d’immagini. Sono voci d’angoscia e di
passione, che prima di giungere a noi già si confondono
col rumore delle onde e diventano visibili: sono immagini Un ultimo esempio ce lo dà Orlando, che piangendo
e chiamando Angelica la paragona ad un’agnella smarrita, e ci fa intorno de’ ricami.
In una società così poco sentimentale, così superficiale e mobile, e così ricca d’immaginazione, come povera
di coscienza, si può concepire quale viva ammirazione
dovessero destare questi quadri plastici. La nuova letteratura iniziata in quei giri musicali del Decamerone si
contemplava e si ammirava in queste flessuose ottave,
dove la vita nella sua rapida vicenda è così palpabile e
così limpida «Procul este, profani.» Nessuna ombra del
reale, nessuno spettro del presente, nessuna voce
profonda del cuore o della mente venga a turbare questa
danza serena. Siamo nel regno della pura arte: assistiamo a’ miracoli dell’immaginazione. Il poeta volge le
spalle all’Italia, al secolo, al reale e al presente, e naviga
come Dante in un altro mondo, e quando dalla lunga via
ritorna, si circonda, come d’una corona, di poeti e di artisti, vera immagine di quella Italia, madre della coltura
e dell’arte, a cui egli presentava l’Orlando. Ma Dante si
traeva appresso nell’altro mondo tutta la terra: la patria
lo inseguiva anche colà co’ suoi fantasmi. Ludovico naviga con la testa scarica e il cuore tranquillo, come un
pittore che viaggia e dipinge quello che vede. Ciò che gli
fa tremare la mano, ciò che gli fa battere il cuore, è questo solo pensiero: «Quello che mi sta nella testa, quello
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
che io vedo così bene qua dentro, uscirà così sulla tela?». E tocca e ritocca, sino alla morte, scontento, inquieto: perchè non è tranquillo, chi ha qualche cosa a
realizzare, sulla terra. Ciò che Ludovico ha a realizzare
non è questo o quel contenuto nella sua realtà e serietà.
Il mondo cavalleresco è per lui fuori della storia, libera
creatura della sua immaginazione. Ciò che ha a realizzare in quello è la forma, la pura forma, la pura arte, il sogno di quel secolo e di quella società, la musa del Risorgimento. Ed ha tutte le qualità da ciò. Ha sensibilità più
che sentimento; ha impressioni ed emozioni più che passioni; ha vista chiara più che profonda; ha l’anima tranquilla, sgombra di ogni preoccupazione, piena di fantasie, allegra nella produzione, e tutta versata al di fuori
nei suoi fantasmi. È lo spirito non ancora consapevole,
che vive al di fuori e si espande nel mondo e s’immedesima con quello e lo riflette puro con brio giovanile. Così
è venuto fuori quasi di un getto, quasi per generazione
spontanea, questo mondo cavalleresco, sorriso dalle
Grazie, di una freschezza eterna, tolto alle ombre e a’
vapori e a’ misteri del medio evo, e illuminato sotto il
cielo italiano di una luce allegra e soave. Niente è uscito
dalla fantasia moderna che sia comparabile a questo limpido mondo omerico. Il Risorgimento realizzava il suo
sogno, la nuova letteratura avea trovato il suo mondo.
E che cosa volea questa nuova letteratura? Non volea
già questo o quel contenuto. Era scettica e cinica, e credeva solo all’arte. E l’Ariosto le dava questo mondo
dell’arte in un contenuto di pura immaginazione.
Ma non ci accostiamo molto a questa bella esteriorità.
Se ci mettiamo sopra la mano, la ci fugge come ombra, e
se guardiamo al di sotto, pare non ci sia nulla. Quando
leggi Omero, senti uscirne, non sai come, le mille voci
della natura, che trovano un’eco nelle tue fibre, e sembrano le tue voci, le voci della tua anima. Gli è che ivi la
forma è esso medesimo il contenuto, e il contenuto sei
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
tu, è vita della tua vita, è sangue del tuo sangue. Qui il
contenuto è un giuoco della immaginazione, e non ti ci
profondi e non ti ci appassioni, appunto perchè hai il
sentimento che è un giuoco. Talora sta per spuntarti la
lacrima, quando ti svegli di un tratto e scoppi in una risata.
Pare, ma non è vero, che al di sotto di questa bella
esteriorità non ci è nulla. Al di sotto ci è Momo, ci è lo
spirito di Giovanni Boccaccio.
L’elemento dell’arte negativo e dissolvente avea già
percorso tutto il suo ciclo a Firenze, giunto sino alla pura buffoneria. Il Boccaccio, il Sacchetti, il Magnifico, il
Pulci, il Berni hanno il proposito espresso della caricatura, hanno innanzi un mondo reale, di cui mettono in
rilievo il lato comico. L’Ariosto non ha intenzione di
mettere in gioco la cavalleria, come fece il Cervantes, e
nel suo mondo s’incontrano episodi comici, e anche licenziosi, e anche grotteschi, come la Gabrina, con la
stessa indifferenza che s’incontrano episodi tragici ed
elegiaci. Ma, se il suo riso non è intenzionale, non è neppure un semplice mezzo di stile per divertire i lettori
buffoneggiando, come fece poi il Berni nel suo Orlando.
Il suo riso è più serio e più profondo.
È il riso dello spirito moderno, diffuso sul soprannaturale di ogni qualità; è, se non ancora la scienza, il buon
senso, generato da un sentimento già sviluppato del reale e del possibile, è il riso precursore della scienza.
Ludovico è innanzi tutto un artista. A questo mondo
cavalleresco egli non ci crede; pur se ne innamora, ci si
appassiona, ci vive entro, ne fa il suo mondo, più serio a
lui che tutto il mondo che lo circonda. Ma è un amore,
un interesse semplicemente di artista. La sua immaginazione se lo assimila, ne acquista una piena intelligenza,
fa e disfà, compone e ricompone, con assoluta padronanza, come materia di cui conosce tutti gli elementi, e
che atteggia e configura a suo genio. La materia, in Dan-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
te così resistente e scabra, qui perde i suoi angoli e le sue
punte, e come cera, riceve tutte le impressioni. L’immaginazione le si accosta sgombra di ogni preconcetto e di
ogni intenzione, e vi si cala e vi si obblia, e pare non sia
altro che la stessa materia. Il creatore è scomparso nella
creatura. L’obbiettività è perfetta. Ma guarda bene, e
vedrai sulla faccia di quella creatura la fisonomia poco
riverente di colui che l’ha creata, e che in certi momenti
pare si burli della tua emozione e ti squadri la mano.
Non sai se è di te che si burli o della sua creatura, e a
ogni modo ci mette una grazia, che gli daresti un bacio.
La burla ti coglie improvviso, nella maggiore serietà della rappresentazione. Una barzelletta, un motto ti disfà in
un istante le creazioni più interessanti, e ti avviene così
spesso, che non ti abbandoni più e prendi guardia, e ti
avvezzi a poco a poco a quell’ambiente equivoco nel
quale si aggira quel mondo. Quando l’autore sembra interamente scomparso nella sua creazione, tu non te la lasci fare, e sai che un bel momento metterà fuori il capo e
ti farà una smorfia. Di sotto a quella obbiettività omerica si sviluppa di un tratto sotto forma d’ironia l’elemento subbiettivo e negativo.
Cosa è dunque questo mondo? È la sintesi del Risorgimento nelle sue varie tendenze. È il medio evo, il mondo chiamato «barbaro», il passato, rifatto dall’immaginazione e disfatto dallo spirito. Ci è lì dentro quel
sentimento dell’arte, quel culto della forma e della bellezza, quella obbiettività di una immaginazione giovane,
ricca, analitica, pittoresca, che caratterizza la nuova letteratura, che genera i miracoli della pittura e dell’architettura, e che lì giunge alla sua perfezione, congiunta
con lo splendore e con l’armonia la massima semplicità e
naturalezza di disegno. E c’è insieme quell’intimo senso
dell’uomo e della natura, o del reale, che ti atteggia il
labbro ad un ghigno involontario, quando ti vedi sfilare
innanzi un mondo fuori della natura e fuori dell’uomo,
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generato dalla tua immaginazione. Tu ammassi le nuvole; tu le configuri; tu formi i magnifici spettacoli; e tu te
la ridi, perchè sai che quel mondo sei tu che lo componi,
e non ci vedi altra serietà se non quella che gli dà la tua
immaginazione. Tu sei a un tempo fanciullo e uomo.
Come fanciullo, senti bisogno di esercitare la tua immaginazione, e formi soldati e castelli e ci fantastichi intorno; ma ecco sopraggiungere l’uomo, che ti fa un ghigno,
e quel ghigno vuol dire: – Sono soldati e castelli di carta.
– La cultura è nel suo fiore, l’immaginazione è nel maggior vigore della sua espansione, ed opera i più grandi
miracoli dell’arte; ma lo spirito è già adulto, materialista
e realista, incredulo, ironico, e si trastulla a spese della
sua immaginazione. Questo momento dello spirito moderno, che ricompone il passato non come realtà, ma come arte, e, appunto perchè semplice gioco d’immaginazione o arte pura, lo perseguita della sua ironia, è la vita
interiore del mondo ariostesco, è il suo organismo estetico. Prendi un quadro di Raffaello ed un sonetto del Berni, ed avrai accentuati gli estremi, tra’ quali erra questa
unità superiore, dove sono fusi e contemperati ciò che è
troppo ideale nell’uno e ciò che è troppo grossolano
nell’altro. La quale fusione è fatta con gradazioni così
intelligenti e con passaggi così naturali, e il lettore fin
dal principio vi è così ben preparato, che non hai dissonanze o stonature, e niente ti urta, perchè il poeta opera
senza coscienza o intenzione, e concepisce a quel modo
naturalmente, ed è lui medesimo l’unità che comunica al
suo mondo.
Vedi come concepisce. Il protagonista non è il savio
Orlando, ma Orlando matto e furioso. Questo tipo della
cavalleria così trasformato è già una concezione ironica.
Ma guarda ora come vien fuori questa concezione. Il
momento della pazzia è rappresentato con tale realtà di
colorito, che la tua illusione è perfetta. Ci si vede una
profonda conoscenza della natura umana nelle sue più
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fine gradazioni. È un «crescendo» di particolari e di colori, che ti rendono naturalissimo un fatto così straordinario. Venuto in furore e matto, il poeta te lo abbandona alle risate del pubblico. Ad una scena tenera succede
la più schietta allegrezza comica, la caricatura spinta sino alla buffoneria. Anche il modo come Orlando riacquista il senno ha un profondo senso comico. Secondo
le tradizioni del medio evo, l’uomo non può trovare la
pace che nell’altro mondo. È la base della Divina Commedia. Il poeta materializza questo concetto e lo rende
comico, cavandone la bizzarra concezione che ciò che si
perde in terra, si ritrova nell’altro mondo. Di qui il viaggio di Astolfo sull’ippogrifo nell’altro mondo, che è una
vera parodia del viaggio dantesco. Il fumo e il puzzo
gl’impedisce di entrare nell’inferno; ma all’ingresso trova le prime peccatrici, punite, come Lidia, per la soverchia crudeltà verso gli amanti. È il concetto della Francesca da Rimini preso a rovescio, e divenuto comico. Poi
sale al paradiso terrestre, e in un bel palagio di gemme
trova san Giovanni evangelista, Enoch ed Elia, che gli
danno alloggio in una stanza e provvedono di buona
biada il suo cavallo, e a lui danno frutti di tal sapore,
che a suo giudicio sanza
scusa non sono i due primi parenti
se per quei fur sì poco ubbidienti.
Astolfo vi trova buon cibo, buon riposo e «tutt’i comodi». È il paradiso terrestre materializzato. Di là, «uscito
del letto», con san Giovanni ascende sulla Luna. Qui la
parodia prende forma satirica, senza fiele e in aria scherzosa. In un vallone è ammassato ciò che in terra si perde:
Le lacrime e i sospiri degli amanti,
l’inutil tempo che si perde a giuoco,
e l’ozio lungo d’uomini ignoranti;
vani disegni che non han mai loco,
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i vani desidèri sono tanti,
che la più parte ingombran di quel loco:
ciò che in somma qua giù perdesti mai,
là su salendo ritrovar potrai.
Per comprendere questa ironia, bisogna ricordare che
la Luna era come un castello di Spagna o un castello in
aria nelle idee popolari, e anche oggidì uno che vive nelle astrattezze si dice che «sta nel regno della luna». Là si
trova in varie ampolle un liquore sottile e molle, che è il
senno che si perde in terra.
Di sofisti e di astrologhi raccolto
e di poeti ancor ve n’era molto.
Chiama sofisti i filosofi e li mette a un mazzo con gli
astrologhi e i poeti. Dove il medio evo vedea il maggior
senno, egli vede vacuità e astrazione. La fine è di una
schietta allegria:
e vi son tutte l’occorrenze nostre;
sol la pazzia non v’è poca, nè assai,
chè sta qua giù, nè se ne parte mai.
L’ironia colpisce anche Angelica, la figliuola del maggior re del Levante, l’amata di Orlando, di Rinaldo, di
Sacripante, di Ferraù, che finisce moglie di un «povero
fante». La scena comincia nel Boiardo con le più eroiche
apparenze della cavalleria, giostre, tornei, duelli, con
Carlomagno circondato de’ suoi paladini, tra il fiore de’
cavalieri di Francia, di Spagna, di Lamagna, d’Inghilterra, tra cui pompeggia la figura di Angelica, la reina del
racconto; e va a finire in un idillio, negli amori di Angelica e Medoro. Ciò che nel Boiardo ha proporzioni epiche e cavalleresche, soprattutto nelle battaglie di Albracca, passando nel cervello di Ludovico, si trasforma
in una concezione ironica.
Anche nella guerra tra Carlo e Agramante, unità este-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
riore e meccanica del poema, la cavalleria è guardata da
un aspetto comico. Il lato eroico della cavalleria è l’individualità, quella forza d’iniziativa che fa di ogni cavaliere l’uomo libero, che trova il suo limite in se stesso, cioè
a dire nelle leggi dell’amore e dell’onore, a cui ubbidisce
volontariamente. Togli il limite, e l’iniziativa individuale
diviene confusione e anarchia, l’eroico divien comico. Il
cavaliere non ubbidisce più che a’ suoi istinti e passioni;
si sviluppa in lui la parte bestiale, nascono collisioni e attriti del più alto effetto comico. Il concetto è già adombrato con brio nel ritratto della Discordia, capitata da
san Michele in un convento di frati, «tra santi ufficii e
messe»:
avea dietro e dinanzi e d’ambi i lati
notai, procuratori ed avvocati.
Questa scena, dove sono attori san Michele, il Silenzio,
la Frode, la Discordia, è ammiratissima per originalità di
concezione e fusione di colori:
Dovunque drizza Michelangel le ale,
fuggon le nubi e torna il ciel sereno,
gli gira intorno un aureo cerchio, quale
veggiam di notte lampeggiar baleno.
Versi stupendamente epici, che vanno digradando fin
nel satirico con naturali mutamenti di tono. Ed è un satirico ancora più efficace, perchè non ci è apparenza d’intenzione satirica, anzi ci si rivela una bonomia, un’aria
senza malizia, dov’è la finezza dell’ironia ariostesca. La
Discordia fa il suo mestiere, e ne viene la famosa scena
nel campo di Agramante rimasta proverbiale dov’è il vero scioglimento dell’azione, il motivo interno della dissoluzione e della sconfitta dell’esercito pagano. I movimenti comici in questa scena sono più nelle cose che
nelle frasi, fondati su quel subitaneo e impreveduto del-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
le impressioni e degl’istinti che toglie luogo alla riflessione e spinge i cavalieri gli uni contro gli altri. Rodomonte
è il più spiccato carattere di questo genere, ed è rimasto
proverbiale, mistura di forza e di coraggio e di bestialità.
Le sue imprecazioni contro le donne, la sua credulità e
sciocchezza nel fatto d’Isabella, la sua comica lotta col
pazzo Orlando, la sua scurrilità e grossolanità verso Bradamante sono tratti felicissimi, che mettono in evidenza
il cavaliere errante nel suo aspetto comico, materia gigantesca vuota di senno, grossolana e bestiale. Il contrapposto è Ruggiero, «di virtù fonte», nel quale il poeta
ha voluto rappresentare la parte seria ed eroica del cavaliere, leale, gentile, magnanimo. Nella sua concezione ci
entra un po’ l’Achille omerico, un po’ Damone e Pizia,
Quinzio e Flaminio, collisioni tra l’onore e l’amore, tra
l’amore e l’amicizia, da cui escono molti effetti drammatici. Ma chi ha studiato un po’ Ludovico, come si dipinge egli medesimo, vede che l’uomo è al di sotto del poeta nè in lui ci è la stoffa, da cui escono le grandi figure
eroiche, ne ci è nel suo tempo. Manca al suo eroe prediletto semplicità e naturalezza: l’eroico va digradando nel
fantastico e nell’idillico. Perciò il suo Ruggiero non ha
potuto togliere il posto a Orlando e Rinaldo, gli eroi
dell’antica cavalleria, e malgrado le sue simpatie pel fondatore di casa d’Este, l’interesse è assai più per Orlando
e Rodomonte, creazioni geniali e originali.
L’ironia è non solo nella concezione fondamentale
del poema, ma negli accessorii cavallereschi. L’amore di
Orlando verso Angelica è stato perfettamente cavalleresco, sì che, avendola per molto tempo in sua mano, non
le ha tolto l’onore, «almeno» secondo che Angelica ne
assicura Sacripante, il quale dal canto suo non vuole essere «così sciocco». Doralice piange la morte di Mandricardo; ma, se non fosse vergogna, andrebbe «forse» a
stringer la mano a Ruggiero:
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Io dico «forse», non ch’io ve l’accerti,
ma potrebbe esser stato di leggiero...
Per lei buono era vivo Mandricardo;
ma che ne volea far dopo la morte?
Un riso scettico aleggia sulle virtù cavalleresche e sui
grandi colpi de’ cavalieri, quei gran colpi «ch’essi soli
sanno fare». Una frase, un motto scopre l’ironia sotto le
più serie apparenze. È un riso talora a fior di labbra, appena percettibile nella serietà della fisonomia.
Questo risolino che quasi involontariamente erra tra
le labbra e non si propaga sulla faccia, e non degenera
che assai di rado in aperta e sonora risata, questa magnifica esposizione artistica che ti dà tutta l’apparenza e l’illusione della realtà nelle cose più strane e assurde, tutto
questo, fuso insieme senz’aria d’intenzione e di malizia e
con perfetta bonarietà, ti mostra la concezione come un
corpo in movimento e cangiante, che non puoi fissare e
definire, più simile a fantasma che a corpo. Non sai se è
cosa seria o da burla; pur ti piace, perchè, mentre la tua
immaginazione è soddisfatta, il tuo buon senso non è offeso, e contempli le vaghe fantasie egregiamente dipinte
di secoli infantili col risolino intelligente di un secolo
adulto.
Questo mondo, dove non è alcuna serietà di vita interiore, non religione, non patria, non famiglia, e non sentimento della natura, e non onore e non amore, questo
mondo della pura arte, scherzo di una immaginazione
che ride della sua opera e si trastulla a proprie spese, è
in fondo una concezione umoristica profondata e seppellita sotto la serietà di un’alta ispirazione artistica. Il
poeta considera il mondo non come un esercizio serio
della vita nello scopo e ne’ mezzi, ma come una docile
materia abbandonata alle combinazioni e a’ trastulli della sua immaginazione. Ci è in lui la coscienza che il suo
lavoro è così serio artisticamente, come è serio il lavoro
di Omero, di Virgilio o di Dante, e ci è insieme la co-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
scienza che è un lavoro semplicemente artistico, e perciò
dal punto di vista del reale uno scherzo, o come dicea il
cardinale Ippolito, una «corbelleria». E sarebbe stato
una corbelleria, se l’autore avesse voluto dargli più serietà che non portava, e fondarvi sopra una vera epopea.
Ma la corbelleria diviene una concezione profonda di
verità, perchè il poeta è il primo a riderne dietro la tela,
ed ha l’aria di beffarsi lui de’ suoi uditori. Questo stare
al di sopra del mondo, e tenerne in mano le fila, e fare e
disfare a talento, considerandolo non altrimenti che un
arsenale d’immaginazione, è ciò che dicesi «capriccio» e
«umore». Se non che il poeta è zimbello spesso della sua
immaginazione, e si obblia in quel suo mondo, e gli dà
l’ultima finitezza. Di che nasce che l’umore piglia la forma contenuta dell’ironia, e tu ondeggi in una atmosfera
equivoca e mobile, dove vizio e virtù, vero e falso
confondono i loro confini, e dove tutto è superficie, passioni, caratteri, mezzi e fini, superficie maravigliosa per
chiarezza, semplicità e naturalezza di esposizione, che
all’ultimo dispare come un fantasma, cacciato via da una
frase ironica, dispare, ma dopo di avere destata la tua
ammirazione e suscitate in te molte emozioni. In questo
mondo fanciullesco dell’immaginazione, dove si rivela
un così alto sentimento dell’arte e insieme la coscienza
di un mondo adulto e illuminato, si dissolve il medio evo
e si genera il mondo moderno. E perchè questo è fatto
senza espressa intenzione, anzi con la bonomia e naturalezza di chi sente e concepisce a quella guisa, i due mondi non sono tra loro in antitesi, come nel Cervantes, ma
convivono, entrano l’uno nell’altro, sono la rappresentazione artistica dell’un mondo con sópravi l’impronta
dell’altro. In questa fusione più sentita che pensata, e
che fa dell’autore e della sua creazione un solo mondo
armonico perfettamente compenetrato, sta la verità e la
perpetua giovinezza del mondo ariostesco, per la sua eccellenza come opera di pura arte il lavoro più finito
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
dell’immaginazione italiana, e per il profondo significato
della sua ironia una colonna luminosa nella storia dello
spirito umano.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
XIV
LA MACCARONEA
Mentre Ludovico componeva il suo Orlando a Ferrara,
Girolamo Folengo vi facea i primi studi sotto la guida di
un tal Cocaio. Era di Cipada, villaggio mantovano, di famiglia nobile e agiata. Strinse conoscenza con Ludovico.
Comparivano allora in istampa la Spagna, il Buovo, la
Trebisonda, l’Ancroia, il Morgante, il Mambriano del
Cieco di Ferrara, l’Orlando innamorato. Avea il capo
pieno di romanzi più che di grammatica, e pensò rifare
l’Orlando innamorato, ma saputo del Berni, smise per allora. Andato in istudio a Bologna, fu discepolo del Pomponazzi, che dava bando al soprasensibile e al sopranaturale, e predicava il più aperto naturalismo. Gli
studenti erano ordinati a modo di casta, con le loro leggi
e privilegi, capi i più arrischiati e baldanzosi, tra’ quali
era un giovane mantovano, chiamato con lo stesso nome
di Francesco Gonzaga, marchese di Mantova, che lo
tenne a battesimo. Vive erano tra loro le reminiscenze
cavalleresche, rinfrescate dalla lettura; e duelli, sfide, avventure, imprese amorose erano una parte della loro vita, più interessante che le lezioni accademiche. Fra tanti
capi ameni ci era Girolamo, che per le sue eccentricità si
fe’ mandar via da Bologna, e non fu voluto ricevere in
casa il padre, sicchè finì frate in Brescia, ribattezzatosi
Teofilo. Ma ne fuggì con una donna, e ricomparso nel
secolo, per campare la vita si die’ a scriver romanzi, sotto il nome di quel tal Cocaio, postogli a’ fianchi, Cassandra inascoltata, dal padre, e di Merlino, il celebre mago
de’ romanzi di cavalleria. Ebbe fama, ma quattrini pochi, e Merlino il «pitocco», come si chiama nel suo Orlandino, stanco della vita errante, si rifece frate, scrisse
poesie sacre, e morì pentito e confesso e da buon cristiano, come il Boccaccio.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Merlino, o piuttosto Teofilo, o piuttosto Girolamo,
era, come vedete, uno di quegli uomini che si chiamano
«scapestrati», e fin dal principio perdono l’orizzonte, e
fanno una vita «sbagliata». Messosi fuori di ogni regola
e convenienza sociale, in una vita equivoca, non laico e
non frate, tra miseria e dispregio, si abbrutì, divenne cinico, sfrontato e volgare. Trattò la società come nemica,
e le sputò sul viso, prorompendo in una risata pregna di
bile. Ridere a spese delle forme religiose e cavalleresche
era moda; egli ci mise intenzione e passione. Ciò che negli altri era colorito, in lui fu l’obbiettivo, lo scopo. E a
questa intenzione furono armi una fantasia originale,
una immaginazione ricca e una vena comica tra il buffonesco e il satirico. La sua prima concezione, come ci assicura quel tal Cocaio, fu l’Orlandino o le geste del piccolo Orlando, poema in ottava rima e in otto capitoli.
Lo chiama la prima deca «autentica» di Turpino, stimando apocrife tutte le storie in voga, eccetto quelle del
Boiardo, del Pulci, dell’Ariosto e del Cieco da Ferrara:
Apocrife son tutte e le riprovo,
come nemiche d’ogni veritate;
Boiardo, l’Ariosto, Pulci, e il Cieco
autenticati sono ed io con seco.
Ma Orlando nasce al settimo capitolo, e quando comincia appena a vivere, finisce il poema. Forse il poco successo gli tolse la voglia di andare innanzi. La forma è orrida, irta di barbarismi e solecismi, e confessa egli
medesimo che i lettori vi trovavano
oscuri sensi ed affettate rime.
– Ma che colpa ci ho io? – Soggiunge Merlino:
Non tutti Sannazzari ed Ariosti,
non tutti son Boiardi ed altri eletti,
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
li cui sonori accenti fur composti
dell’alma Clio negli ederati tetti,
tetti si larghi a lor, a noi sì angosti,
e rari son pur troppo gli entro accetti!
Ho riportato questi versi come esempio. Era di scarsa
coltura, e lo chiamavano per istrazio il «grammatico»,
che tanto è a dire quanto un puro asino;
e poco studioso della lingua chiamava chiacchieroni i toscani, che accusavano lui di lombardismi e latinismi:
Tu mi dirai, lettor, ch’io son lombardo
e più sboccato assai di un bergamasco;
grosso nel profferir, nel scriver tardo,
però dal Tosco facilmente io casco.
Una lingua cruda, che è una miscela di voci latine, lombarde, italiane e paesane senza gusto e armonia, uno stile stecchito, asciutto, lordo e plebeo, spiegano la fredda
accoglienza di un pubblico così colto e artistico. Il concetto è la difesa delle inclinazioni naturali contro le restrizioni religiose, con pitture satiriche de’ chierici, «qui
praedicant ieiunium ventre pleno». Vi penetrano alcune
idee della Riforma, come nella preghiera di Berta, non a’
santi, dic’ella, ma a Dio, e mescolate con invettive e
buffonerie a spese de’ frati o «incappucciati», con bile e
stizza di frate sfratato. Il che non procede da fede intellettuale e non da indignazione di animo elevato, ma da
scioltezza di costumi e di coscienza. Veggasi ad esempio
il ritratto di Griffarrosto, allusione al priore del suo convento, ritratto osceno e bilioso, tra il ringhio del cane e
gli attucci senza vergogna della scimmia. La sua caricatura de’ tornei cavallereschi, concepita con brio, eseguita in forma stentata e grossolana, rivela una fantasia originale, a cui mancano gl’istrumenti.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Riuscitogli male l’italiano, tentò un poema in latino, e
smise subito. In ultimo trovò il suo istrumento, una lingua senza grammatiche e senza dizionari, e di cui nessuno aveva a chiedergli conto, una lingua tutta sua, trasformabile a sua posta secondo il bisogno del suo
orecchio e della sua immaginazione, dico la lingua maccaronica.
Il latino era allora lingua viva nelle classi colte e diffusa. Sannazzaro, Vida, Fracastoro, Flaminio erano nomi
sonori più che il Berni o l’Ariosto o il Boiardo. Se in Firenze l’italiano avea vinta la prova, nelle altre parti d’Italia il latino aveva ancora la preminenza. In quella dissoluzione generale di credenze, d’idee, di forme, la
buffoneria penetrò anche nelle due lingue, e ne uscì una
terza lingua, innesto delle due, possibile solo in Italia,
dove esse erano lingue note e affini. Avemmo adunque il
pedantesco, un latino italianizzato, e il maccaronico, un
italiano latinizzato, con mal definiti confini, sì che talora
il pedantesco entra nel maccaronico e il maccaronico nel
pedantesco. Tentativi infelici e dimenticati, quando nel
1521, cinque anni dopo l’Orlando furioso, uscì in luce la
Maccaronea di Merlin Cocaio, e fece tale impressione,
che in quattro anni se ne fecero sei edizioni.
La Maccaronea nel principio è l’Orlandino, mutati i
nomi. A quel modo che Milone rapisce Berta e poi la lascia, e Berta gli partorisce Orlando; Guido, discendente
di Rinaldo, rapisce Baldovina, figlia di Carlomagno, e
fugge con lei in Italia, accolti ospitalmente da un contadino di Cipada, patria appunto del nostro Merlino. Guido lascia Baldovina, cercando avventure, ed ella muore,
dopo di aver partorito Baldo. Fin qui l’Orlandino e la
Maccaronea vanno insieme; ma qui l’Orlandino finisce
subito, e la trama è ripigliata e continuata nella Maccaronea. Baldo, come Orlandino, ha molta forza e coraggio,
e si gitta a imprese arrischiate. Ha parecchi compagni,
tra’ quali Fracasso, che ricorda Morgante, da cui discen-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
de, e Cingar, che ricorda Margutte. Dicono che sotto
questi nomi si celino gl’irrequieti studenti di Bologna,
capitanati da quel Francesco mantovano, che sarebbe
Baldo. Fatto è che, date e ricevute molte busse, Baldo è
messo in prigione. Cingar, vestito da frate, lo libera. Eccoli tutti per terra e per mare cavalieri erranti e compiono audaci imprese. Baldo distrugge corsari, estermina le
fate, ritrova Guido suo padre fatto romito, che gli predice grandi destini; va in Africa, scopre le foci del Nilo,
scende nell’inferno. Giunto co’ suoi in quella parte
dell’inferno, dove ha sede la menzogna e la ciarlataneria
e dove stanno i negromanti, gli astrologi e i poeti, Merlino trova colà il suo posto e pianta i suoi personaggi e finisce il racconto.
Abbandonarsi alla sua sbrigliata immaginazione e accumulare avventure è a prima vista lo scopo di Merlino,
come di tutt’i romanzieri di quel tempo. Anzi di avventure ce n’è troppe; e fra tanti intrighi l’autore pare talora
intricato e stanco. Ti senti sbalzato altrove prima che abbi potuto ben digerire il cibo messoti innanzi. Molte avventure sono reminiscenze classiche e cavalleresche, ma
rifatte e trasformate in modo originale; e il tutt’insieme è
originalissimo. Cominciamo con Carlomagno e i paladini, ma dopo alcuni libri o canti ci troviamo in Cipada,
con l’immaginazione errante fra Mantova, Venezia, Bologna, e con innanzi l’Italia con la sua scorza da medio
evo penetrata da uno spirito cinico e dissolvente. Le forme sono epiche, ma caricate in modo che si scopre l’ironia. La caricatura non è un semplice sfogo d’immaginazione comica e buffonesca, come le avventure non sono
un semplice stimolo di curiosità: ci è una intenzione che
penetra in quei fatti e in quelle forme e se li assoggetta,
ci è la parodia.
Baldo è l’ultimo di quella serie di cavalieri erranti, che
comincia con Aiace, Achille, Teseo, continua con Bruto,
Pompeo e gli altri eroi celebrati da Livio e Sallustio, e va
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a finire in Orlando e Rinaldo, da cui discende Baldo. La
sua missione è di purgare la terra da’ mostri, dagli assassini e dalle streghe. La cavalleria è l’istrumento divino
contro Lucifero. Baldo vince i corsari, atterra i mostri,
uccide le streghe e debella l’inferno. Tutto questo è raccontato con un suono di tromba così romoroso, con un
accento epico così caricato, che si ride di buona voglia a
spese di Baldo, di Fracasso, di Cingar, e degli altri cavalieri.
Ma in quest’allegra parodia penetra un’intenzione ancora più profonda, la satira delle opinioni, delle credenze, delle istituzioni, de’ costumi, delle forme religiose e
sociali. Il medio evo ne’ suoi diversi aspetti è in fuga,
frustato a sangue dal terribile frate, rifatto laico. Perchè
infine i mostri, le streghe e l’inferno non sono altro che
forme religiose e sociali, i vizi, le lascivie e i pregiudizi
popolari. E come tutta questa dissoluzione non nasce da
nuova fede o da nuova coscienza, ma da compiuta privazione di coscienza e di fede, la cavalleria, che in nome
della giustizia e della virtù debella l’inferno, è essa medesima una parodia e l’impressione ultima è una risata
sopra tutti e sopra tutto. Qualche sforzo di un’aspirazione più seria ci è; Leonardo che muore, per mantenere
intatta la sua verginità, è una bella immagine allegorica
perduta fra tante caricature. Hai una dissoluzione universale di tutte le idee e di tutte le credenze, nella sua
forma più cinica. Lì dentro ci è la società italiana còlta
dal vero nella sua ultima espressione: coltura e arte assisa sulle rovine del medio evo, beffarda e vuota.
La lingua stessa è una parodia del latino e dell’italiano, che si beffano a vicenda. Come i maccheroni vogliono essere ben conditi di cacio e di butirro, così la lingua
maccaronica vuol essere ben mescolata. Spesso vi apparisce per terzo anche il dialetto locale, e si fa un intingolo saporitissimo. La lingua è in se stessa comica, perchè
quel grave latino epico, che intoppa tutt’a un tratto in
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
una parola italiana stranamente latinizzata, e talora tolta
dal vernacolo, produce il riso. La parodia che è nelle cose scende nella lingua, la quale sembra un eroe con la
maschera di Pulcinella, un Virgilio carnascialesco. Alione astigiano e qualche altro avevano già dato esempio di
questa lingua recata a perfezione da Merlino. Egli ne sa
tutt’i segreti e la maneggia con un’audacia da padrone,
con un tale sentimento di armonia, che par l’abbia già
bella e formata nell’orecchio. Come saggio, cito alcuni
brani della sua invocazione alla musa maccaronica:
Sed prius altorium vestrum chiamare bisognat,
o macaroneam Musae quae funditis artem...
Non mihi Melpomene, mihi non menchiona Thalia,
Non Phoebus grattans chitarrinum carmina dictent...
Pancificae tantum Musae doctaeque sorellae,
Gosa, Comina, Striax, Mafelinaque, Togna, Pedrala,
imboccare suum veniant macarone poëtam.
Ecco in qual modo descrive il Parnaso di queste muse
plebee:
Credite quod giuro, neque solam dire bosiam
possem per quantos abscondit terra tesoros:
illic ad bassum currunt cava flumina brodae,
quae lacum suppae generant, pelagumque guacetti.
Hic de materia tortarum mille videntur
ire redire rates...
Sunt ibi costerae freschi tenerique botiri,
in quibus ad nubesfumant caldaria centum,
plena casoncellis, macaronibus atque foiadis.
Ipsae habitant nymphae super alti montis aguzzum,
formaiumque tridant grataloribus usque foratis.
E non è meno originale il suo stile. Della nuova letteratura i grandi «stilisti» sono il Boccaccio, il Poliziano,
l’Ariosto. Costoro narrando fanno quadri, ciò che costi-
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tuisce il periodo. Ti offrono le cose dipinte, sono coloristi: Merlino dipinge le cose con altre cose, i suoi colori
non sono concetti o immagini, sono fatti. Ha poche reminiscenze classiche: tra lui e la natura non ci è nulla di
mezzo. La sua immaginazione non rimane nella vaga generalità delle cose, ma scende nel più minuto della realtà
e ne cava novità di paragoni e di colori. I fatti più assurdi e fantastici sono narrati co’ più precisi particolari, ed
hanno l’evidenza della storia, e ti rivelano un raro talento di osservazione dell’uomo e della natura, non nelle loro linee generali solamente, ma nelle singole e locali forme della loro esistenza. Veggasi la descrizione della
caverna di Eolo e della tempesta, e le disperazioni di
Cingar:
Solus ibi Cingar cantone tremebat in uno,
atque morire timens, cagarellam sentit abassum...
Undique mors urget, mors undique cruda menazzat.
Infinita facit cunctis vota ille beatis,
iurat, quod cancar veniat sibi, velle per omnem
pergere descalzus mundum, saccove dobatus.
Vult in Agrignano sanctum retrovare Danesum,
qui nunc vivit adhuc vastae sub fornice rupis,
fertque oculi cilios distesos usque genocchios.
Ad zocolos ibit, quos olim Ascensa ferebat:
quos in Taprobana gens portugalla catavit.
Hisque decem faciet per fratres dicere messas,
his quoque candelam tam grandem, tamque pesentam
vult offerre simul, quam grandis quamque pesentus
est arbor navis, prigolo si scampet ab isto.
Se stessum accusat multas robasse botegas,
sgardinasse casas et sgallinasse polaros:
at si de tanto travaio vadat adessum
liber speditus, vult esse Macharius alter,
alter heremita Paulus, spondetque Sepulchri
post visitamentum, vitam menare tapinam.
Talia dum Cingar trepido sub pectore pensat,
en ruptae sublimis aquae montagna ruinat,
quae superans altam gabiam strepitosa trapassat,
nec pocas secum portavit in aequora gentes.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
La stessa ricchezza di particolari trovi nella descrizione
de’ venti, e nelle vicende della tempesta. Ci hai il carattere dello stile di Merlino, un realismo animato da una
immaginazione impressionabile e da un umorismo inestinguibile. Non ha tutto la stessa perfezione: ci è di
molta ciarpa, la facilità è talora negligenza; desideri l’ultima mano, desideri la serietà artistica dell’Ariosto.
Questo realismo rapido, nutrito di fatti, sobrio di colori,
fa di Merlino lo scrittore più vicino alla maniera di Dante, salvo che Dante spesso ti fa degli schizzi, ed egli disegna e compie tutto il fatto. Il suo continuatore e imitatore è fuori d’Italia, è Rabelais, che ha la stessa maniera. In
Italia prevalse la rettorica, la cui prima regola è l’orrore
del particolare e la vaga generalità. Merlino al contrario
aborre le perifrasi, i concetti, le astrazioni e quel colorire
a vuoto per via di figure e d’immagini, e non pare che lavori con la riflessione o con l’immaginazione, ma che
stia lì tutto attirato in mezzo a un mondo che si muove,
guardato e parodiato ne’ suoi minimi movimenti. Baldovina e Guido giungono affamati in casa di Berto, e cucinano essi medesimi il pasto. Al poeta non fugge nulla, i
cibi, il modo di apparecchiarli, il desco, l’affaccendarsi
di Berto, la fisonomia e gli atti de’ due suoi ospiti: e ne
nasce una scena di famiglia piena di allegria comica, il
cui effetto è tutto ne’ particolari. Il piccolo Baldo va a
scuola, e in luogo del Donato studia romanzi. Hai innanzi la scuola di quel tempo, i libri alla moda, i costumi
de’ maestri e degli scolari, ciascun particolare con la sua
fisonomia:
Beldovina tamen cartam comprarat et illam
letrarurm tolam, supra quam disceret «a, b».
Unde scholam Baldus nisi non spontaneus ibat,
nam quis erat tanti, seu mater, sive pedantus,
qui tam terribilem posset sforzare putinum?
Ipse tribus sic sic profectum fecerat annis,
ut quoscumque libros legeret, nostrique Maronis
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
terribiles guerras fertur recitasse magistro.
At mox Orlandi nasare volumina coepit,
non deponentum vacat ultra ediscere normas;
non speties, numeros, non casus atque figuras;
non Doctrinalis versamina tradere menti;
non hinc, non illinc, non hoc, non illoc et altras
mille pedantorum baias, totidemque fusaras.
Fecit de cuius Donati deque Perotto
scartozzos ac sub prunis salcizza cosivit.
Orlandi tantum gradant, et gesta Rinaldi;
namque animum guerris faciebat talibus altum.
Legerat Ancroiam, Tribisondam, facta Danesi,
Antonnaeque Bovum, Antiforra, Realia Franzae,
innamoramentum Carlonis, et Aspera-montem,
Spagnam, Altobellum, Morgantis bella gigantis,
Meschinique provas, et qui «Cavalerius Orsae»
dicitur, et nulla cecinit qui laude Leandram.
Vidit ut Angelicam sapiens Orlandus amavit,
utque caminavit nudo cum corpore mattus,
utque retro mortam tirabat ubique cavallam,
utque asinum legnis caricatum calce ferivit,
illeque per coelum veluti cornacchia volavit.
Baldus in his factis nimium stigatur ad arma,
sed tantum quod sit piccolettus corpore tristat.
È una scena di quel tempo, ispirata a Merlino dalla sua
vita studentesca di Ferrara e Bologna, quando Cocaio, il
suo pedagogo, gli metteva in mano Donato e il Porretto,
ed egli ne faceva «scartozzos», e leggeva romanzi, e sopra
tutti l’Orlando furioso. Non c’è una sola generalità: tutto
è cose, e ciascuna cosa è animata, come un uomo ha la
sua fisonomia e il suo movimento, determinato da forze
interiori. Non solo vedi quello che fa Baldo, ma quello
che pensa e sente; perchè la parola, se nel suo senso letterale esprime un’azione, con la sua aria maccaronica e
la sua giacitura e la sua armonia te ne dà il sentimento,
come è quel «nasarat», e quel «volavit», e quel «piccolettus», e quell’«hinc, illinc, hoc, illoc, et altras mille pedantorum baias».
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
La parte seria del racconto dovrebb’esser la cavalleria, perchè essa è che fa guerra all’inferno, cioè alla malvagità e al vizio. Ma la serietà è apparente, e il fondo è
una parodia scoperta, il cui eroe più simpatico è il gigante Fracasso, parodia di quella forza oltreumana che si attribuiva a’ cavalieri erranti. Dico «parodia scoperta», se
guardiamo alla conclusione ingegnosissima; perchè,
giunti i cavalieri nella regione infernale delle menzogne
poetiche, Merlino te li pianta, e si ferma colà come nella
sua patria. Questa patria de’ poeti, de’ cantanti, degli
astrologi, de’ negromanti, di tutti quelli
qui fingunt, cantant, dovinant somnia genti,
compluere libros follis vanisque novellis,
è una conchiglia, o piuttosto una immensa zucca, secca e
vuota, «mangiabilis, quando tenerina fuit», dove tremila
barbieri strappano i denti a’ condannati. E Merlino
esclama:
Zucca mihi patria est, opus est hic perdere dentes,
tot quot in immenso posui mendacia libro.
E tronca il racconto, e dice addio a Baldo:
Balde, vale, studio alterius te denique lasso.
Il poeta conchiude beffandosi di Baldo e della sua arte,
e di se stesso, che ha composto un vero mostro oraziano,
fuori di tutte le regole, perduti i remi, mescolati l’austro
co’ fiori e i cignali col mare:
Tange peroptatum, navis stracchissima, portum,
tange, quod amisi longinqua per aequora remos:
he heu, quid volui, misero mihi, perditus Austrum
floribus, et liquidis immisi fontibus apros.
È il comico portato all’estremo dell’umore. La caricatu-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ra del Boccaccio, la buffoneria del Pulci, l’ironia
dell’Ariosto è qui l’allegro e capriccioso umore di una
negazione universale e scoperta, nella forma più cinica.
In questa negazione universale la satira penetra dappertutto, e attinge la società, come il medio evo l’aveva
costituita, in tutte le sue forme, religiose, politiche, morali, intellettuali. La scolastica è messa alla berlina: san
Tommaso e Scoto e Alberto stanno come visionari accanto agli astrologi e a’ negromanti. Megera fa un terribile ritratto di tutt’i disordini della Chiesa e de’ papi, e
Aletto fulmina ugualmente guelfi e ghibellini, i seguaci
della Francia e i seguaci dell’Impero. I monaci sono il
principale bersaglio di questi strali poetici. Una delle
pitture più comiche è quel biricchino di Cingar vestito
da francescano per liberare Baldo dal carcere:
Iam non is Cingar, quia sanctus portat amictus...
sub tunicis latitant sacris quam saepe ribaldi!
Notabile è la satira de’ frati nell’ottavo libro:
Postquam giocarunt nummos borsamque vodarunt,
postquam pane caret cophinum, vinoque berillus
in fratres properant, datur his extemplo capuzzus.
La moltiplicità de’ conventi gli fa temere che un bel dì
rimanga la gente cristiana senza soldati e senza contadini. Scherza su’ motti del Vangelo. Fa una parodia della
confessione. I cavalieri erranti giungono alla porta
dell’inferno, dov’e parodiata la celebre scritta di Dante:
Regia Luciferi dicor, bandita tenetur
chors hic, intrando patet, ast uscendo seratur.
Ma non possono domare l’inferno, se prima non si confessano, e il confessore è Merlino stesso, il poeta:
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Nomine Merlinus dicor, de sanguine Mantus,
est mihi cognomen Cocaius maccaronensis.
Quale confessione i cavalieri possano fare a Merlino, soprattutto Cingar, il lettore s’immagini. È una farsa. Tutta l’opera è penetrata da uno spirito capriccioso e beffardo, che fa di quel mondo in mezzo a cui si trova il suo
aperto trastullo, e gli dà forme carnascialesche.
Anche la Moscheide di Merlino è una caricatura o un
travestimento carnevalesco della cavalleria in uno stile
più corretto e uguale. La guerra finisce con la sconfitta
compiuta delle mosche, descritta co’ tratti, da lui caricati, dell’Ariosto e di altri poeti cavallereschi. Eccone alcuni brani verso la fine:
Numquam facta fuit tam cruda baruffola mundo:
nil nisi per terram membra taiata micant.
Grandes mortorum vadunt ad sydera montes,
sydera, quae multo rossa cruore colant.
Pulmones, milzae, lardi, ventralia, membri
Saturni ad sphaeram foeda per astra volant.
Una corada Iovis mostazzum colsit, et uno
Sol ibi ventrazzo spinctus ab axe fuit.
Dumque dei coenant, puero Ganimede ministro,
multa super mensas ossa taiata cadunt.
Nunc brazzus Ragni, nunc gamba cruenta Pedocchi,
nunc cor Moschini, nunc pulicina manus...
... trucidatis ducibus, Moschaea ruinat
tota, nec una quidem vivere Moschaea potest.
Formicae, Pulices, Ragni – Victoria! – clamant,
trombettae tararan iam frisolando sonant.
Il Rodomonte delle mosche è Siccaborone, sul quale da
una torre gittano un sasso enorme,
qui super elmettum schiazzavit Siccaboronem,
vitaque cum gemitu sub Phlegetonta fugit.
La Zanitonella o gli amori di Zanina e Tonello è un suo
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
poemetto bucolico in caricatura, dove si fa strazio delle
immagini e de’ sentimenti petrarcheschi e idillici. Il Petrarca narra che Amore colpì lui improvviso e disarmato. Il medesimo avviene a Tonello:
Solus solettus stabam colegatus in umbra,
pascebamque meas virda per arva capras.
Nulla travaiabant vodam pensiria mentem,
nullaaue cogebat cura gratare caput,
cum mihi bolzoniger cor, oyme, Cupido, forasti,
nec tuns in fallum dardus alhora dedit...
More valenthominis schenam de-retro feristi:
o bellas provas quas, traditore, facis!
Guardando un po’ addentro in questa caricatura universale del mondo, si vedono qua e là spuntare alcuni lineamenti confusi di un mondo nuovo. Ci si sente lo spirito
della Riforma, il dolore di un’Italia scissa tra Impero e
Francia, essa che unita aveva imperato sull’universo,
l’indignazione di tanta licenza e corruzione de’ costumi
nel secolo degl’ipocriti e delle cortigiane, un disprezzo
delle fantasticherie teologiche, scolastiche e astrologiche, un sentimento del reale e dell’umano. Ma sono velleità, immagini confuse e volubili, che si affacciano appena e non hanno presa sul suo spirito vagabondo e
sulla sua capricciosa immaginazione.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
XV
MACHIAVELLI
Dicesi che Machiavelli fosse in Roma, quando il 1515
uscì in luce l’Orlando furioso. Lodò il poema, ma non
celò il suo dispiacere di essere dimenticato dall’Ariosto
nella lunga lista ch’egli stese nell’ultimo canto di poeti
italiani. Questi due grandi uomini, che dovevano rappresentare il secolo nella sua doppia faccia, ancorchè
contemporanei e conoscenti, sembrano ignoti l’uno
all’altro.
Niccolò Machiavelli, ne’ suoi tratti apparenti, è una fisonomia essenzialmente fiorentina ed ha molta somiglianza con Lorenzo de’ Medici. Era un piacevolone, che
si spassava ben volentieri tra le confraternite e le liete brigate, verseggiando e motteggiando, con quello spirito arguto e beffardo che vedi nel Boccaccio e nel Sacchetti e
nel Pulci e in Lorenzo e nel Berni. Poco agiato de’ beni
della fortuna, nel corso ordinario delle cose sarebbe riuscito un letterato fra’ tanti stipendiati a Roma, o a Firenze, e dello stesso stampo. Ma caduti i Medici, ristaurata
la repubblica e nominato segretario, ebbe parte principalissima nelle pubbliche faccende, esercitò molte legazioni
in Italia e fuori, acquistando esperienza degli uomini e
delle cose, e si affezionò alla repubblica, per la quale non
gli parve assai di sostenere la tortura, poi che tornarono i
Medici. In quegli uffici e in quelle lotte si raffermò la sua
tempra e si formò il suo spirito. Tolto alle pubbliche faccende, nel suo ozio di San Casciano meditò su’ fati
dell’antica Roma e sulle sorti di Firenze, anzi d’Italia. Ebbe chiarissimo il concetto che l’Italia non potesse mantenere la sua indipendenza, se non fosse unita tutta o gran
parte sotto un solo principe. E sperò che casa Medici,
potente a Roma e a Firenze, volesse pigliare l’impresa.
Sperò pure che volesse accettare i suoi servigi, e trarlo di
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ozio e di miseria. All’ultimo, poco e male adoperato da’
Medici, finì la vita tristamente, lasciando non altra eredità a’ figliuoli che il nome. Di lui fu scritto: «Tanto nomini nullum par elogium».
I suoi Decennali, arida cronaca delle «fatiche d’Italia
di dieci anni», scritta in quindici dì, i suoi otto capitoli
dell’Asino d’oro, sotto nome di bestie satira de’ degeneri
fiorentini, gli altri suoi capitoli dell’Occasione, della Fortuna, dell’Ingratitudine, dell’Ambizione, i suoi canti carnascialeschi, alcune sue stanze, o serenate, o sonetti, o
canzoni, sono lavori letterari su’ quali è impressa la fisonomia di quel tempo, alcuni tra il licenzioso e il beffardo, altri allegorici o sentenziosi, sempre aridi. Il verso
rasenta la prosa; il colorito è sobrio e spesso monco;
scarse e comuni sono le immagini. Ma in questo fondo
comune e sgraziato appariscono i vestigi di un nuovo essere, una profondità insolita di giudizio e di osservazione. Manca l’immaginativa: soprabbonda lo spirito. Ci è
il critico, non ci è il poeta. Non ci è l’uomo nello stato di
spontaneità che compone e fantastica, come era Ludovico Ariosto. Ci è l’uomo che si osserva anche soffrendo, e
sentenzia sulle sorti sue e dell’universo con tranquillità
filosofica: il suo poetare è un discorrere:
Io spero, e lo sperar cresce il tormento,
io piango, e ’l pianger ciba il lasso core;
io rido, e il rider mio non passa drento;
io ardo, e l’arsion non par di fuore;
io temo ciò ch’io veggo e ciò ch’io sento,
ogni cosa mi dà nuovo dolore;
così sperando piango, rido e ardo,
e paura ho di ciò che io odo o guardo.
Tali sono pure le sue osservazioni sul variare delle cose
mondane nel capitolo della Fortuna. Delle sue poesie
cosa è rimasto? Qualche verso ingegnoso, come ne’ Decennali:
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
la voce d’un Cappon tra cento Galli,
e qualche sentenza o concetto profondo, come nel canto
De diavoli o de’ romiti. Il suo capolavoro è il capitolo
dell’Occasione, massime la chiusa, che ti colpisce d’improvviso e ti fa pensoso. Nel poeta si sente lo scrittore
del Principe e de’ Discorsi.
Anche in prosa Machiavelli ebbe pretensioni letterarie, secondo le idee che correvano in quella età. Talora si
mette la giornea e boccacceggia, come nelle sue prediche alle confraternite, nella descrizione della peste, e ne’
discorsi che mette in bocca a’ suoi personaggi storici.
Vedi ad esempio il suo incontro con una donna in chiesa
al tempo della peste, dove abbondano i lenocini della
rettorica e gli artifici dello stile: ciò che si chiamava eleganza.
Ma nel Principe, ne’ Discorsi, nelle Lettere, nelle Relazioni, ne’ Dialoghi sulla milizia, nelle Storie, Machiavelli
scrive come gli viene, tutto inteso alle cose, e con l’aria
di chi reputi indegno della sua gravità correre appresso
alle parole e a’ periodi. Dove non pensò alla forma riuscì
maestro della forma. E senza cercarla trovò la prosa italiana.
È visibile in Niccolò Machiavelli lo spirito incredulo e
beffardo di Lorenzo, impresso sulla fronte della borghesia italiana in quel tempo. E avea pure quel senso pratico, quella intelligenza degli uomini e delle cose, che rese
Lorenzo eminente fra’ principi, e che troviamo generalmente negli statisti italiani a Venezia, a Firenze, a Roma,
a Milano, a Napoli, quando vivea Ferdinando d’Aragona, Alessandro sesto, Ludovico il Moro, e gli ambasciatori veneziani scrivevano ritratti così vivi e sagaci delle
corti, presso le quali dimoravano. Ci era l’arte, mancava
la scienza. Lorenzo era l’artista. Machiavelli doveva essere il critico.
Firenze era ancora il cuore d’Italia: lì ci erano ancora i
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
lineamenti di un popolo, ci era l’immagine della patria.
La libertà non voleva ancora morire. L’idea ghibellina e
guelfa era spenta, ma ci era invece l’idea repubblicana
alla romana, effetto della coltura classica, che fortificata
dall’amore tradizionale del viver libero e dalle memorie
gloriose del passato, resisteva a’ Medici. L’uso della libertà e le lotte politiche mantenevano salda la tempra
dell’animo, e rendevano possibile Savonarola, Capponi,
Michelangiolo, Ferruccio, e l’immortale resistenza agli
eserciti papali imperiali. L’indipendenza e la gloria della
patria e l’amore della libertà erano forze morali fra quella corruzione medicea rese ancora più acute e vivaci dal
contrasto.
Machiavelli per la sua coltura letteraria, per la vita licenziosa, per lo spirito beffardo e motteggevole e comico, si lega al Boccaccio, a Lorenzo e a tutta la nuova letteratura. Non crede a nessuna religione, e perciò le
accetta tutte, e magnificando la morale in astratto vi passa sopra nella pratica della vita. Ma ha l’animo fortemente temprato e rinvigorito negli uffici e nelle lotte politiche, aguzzato negli ozi ingrati e solitari. E la sua
coscienza non è vuota. Ci è lì dentro la libertà e l’indipendenza della patria. Il suo ingegno superiore e pratico
non gli consentiva le illusioni, e lo teneva ne’ limiti del
possibile. E quando vide perduta la libertà, pensò all’indipendenza, e cercò negli stessi Medici l’istrumento della salvezza. Certo, anche questa era un’utopia o una illusione, un’ultima tavola alla quale si afferra il misero
nell’inevitabile naufragio; ma un’utopia, che rivelava la
forza e la giovinezza della sua anima e la vivacità della
sua fede. Se Francesco Guicciardini vide più giusto e
con più esatto sentimento delle condizioni d’Italia, è che
la sua coscienza era già vuota e petrificata. L’immagine
del Machiavelli è giunta a’ posteri simpatica e circondata di un’aureola poetica per la forte tempra, e la sincerità
del patriottismo e l’elevatezza del linguaggio e per quel-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
la sua aria di virilità e di dignità fra tanta folla di letterati
venderecci. La sua influenza non fu pari al suo merito.
Era tenuto uomo di penna e di tavolino, come si direbbe
oggi, più che uomo di Stato e di azione. E la sua povertà,
la vita scorretta, le abitudini plebee e «fuori della regola», come gli rimproverava il correttissimo Guicciardini,
non gli aumentavano riputazione. Consapevole di sua
grandezza, spregiava quella esteriorità delle forme e
que’ mezzi artificiali di farsi via nel mondo, che sono sì
familiari e sì facili a’ mediocri. Ma la sua influenza è stata grandissima nella posterità, e la sua fama si è ita sempre ingrandendo fra gli odii degli uni e le glorificazioni
degli altri. Il suo nome è rimasto la bandiera, intorno alla quale hanno battagliato le nuove generazioni nel loro
contraddittorio movimento ora indietro, ora innanzi.
Ci è un piccolo libro del Machiavelli, tradotto in tutte
le lingue il Principe, che ha gittato nell’ombra le altre sue
opere. L’autore è stato giudicato da questo libro, e questo libro è stato giudicato non nel suo valore logico e
scientifico, ma nel suo valore morale. E hanno trovato
che questo libro è un codice della tirannia, fondato sulla
turpe massima che il fine giustifica i mezzi, e il successo
loda l’opera. E hanno chiamato machiavellismo questa
dottrina. Molte difese sonosi fatte di questo libro ingegnosissime, attribuendosi all’autore questa o quella intenzione più o meno lodevole. Così n’è uscita una discussione limitata e un Machiavelli rimpiccinito.
Questa critica non è che una pedanteria. Ed è anche
una meschinità porre la grandezza di quell’uomo nella
sua utopia italica, oggi cosa reale. Noi vogliamo costruire tutta intera l’immagine, e cercare ivi i fondamenti della sua grandezza.
Niccolò Machiavelli è innanzi tutto la coscienza chiara e seria di tutto quel movimento, che nella sua spontaneità dal Petrarca e dal Boccaccio si stende sino alla seconda metà del Cinquecento. In lui comincia veramente
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
la prosa, cioè a dire la coscienza e la riflessione della vita. Anche lui è in mezzo a quel movimento, e vi piglia
parte, ne ha le passioni e le tendenze. Ma, passato il momento dell’azione, ridotto in solitudine, pensoso sopra i
volumi di Livio e di Tacito, ha la forza di staccarsi dalla
sua società, e interrogarla: – Cosa sei? Dove vai? –
L’Italia aveva ancora il suo orgoglio tradizionale, e
guardava l’Europa con l’occhio di Dante e del Petrarca,
giudicando barbare tutte le nazioni oltre le Alpi. Il suo
modello era il mondo greco e romano, che si studiava di
assimilarsi. Soprastava per coltura, per industrie, per
ricchezze, per opere d’arti e d’ingegno: teneva senza
contrasto il primato intellettivo in Europa. Grave fu lo
sgomento negl’italiani, quando ebbero gli stranieri in casa; ma vi si ausarono, e trescarono con quelli, confidando di cacciarli via tutti con la superiorità dell’ingegno.
Spettacolo pieno di ammaestramento è vedere tra lanzi,
svizzeri, tedeschi e francesi e spagnuoli l’alto e spensierato riso di letterati, artisti, latinisti, novellieri e buffoni
nelle eleganti corti italiane. Fino ne’ campi i sonettisti
assediavano i principi: Giovanni de’ Medici cadeva tra’
lazzi di Pietro Aretino. Gli stranieri guardavano attoniti
le maraviglie di Firenze, di Venezia, di Roma e tanti miracoli dell’ingegno; e i loro principi regalavano e corteggiavano i letterati, che con la stessa indifferenza celebravano Francesco primo e Carlo quinto. L’Italia era
inchinata e studiata da’ suoi devastatori, come la Grecia
fu da’ romani.
Fra tanto fiore di civiltà e in tanta apparenza di forza
e di grandezza mise lo sguardo acuto Niccolò Machiavelli, e vide la malattia, dove altri vedevano la più prospera salute. Quello che oggi diciamo decadenza egli
disse «corruttela», e base di tutte le sue speculazioni fu
questo fatto, la corruttela della razza italiana, anzi latina,
e la sanità della germanica.
La forma più grossolana di questa corruttela era la li-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
cenza de’ costumi e del linguaggio, massime nel clero:
corruttela che già destò l’ira di Dante e di Caterina, ed
ora messa in mostra ne’ dipinti e negli scritti, penetrata
in tutte le classi della società e in tutte le forme della letteratura, divenuta come una salsa piccante che dava sapore alla vita. La licenza accompagnata con l’empietà e
l’incredulità avea a suo principal centro la corte romana,
protagonisti Alessandro sesto e Leone decimo. Fu la vista di quella corte che infiammò le ire di Savonarola e
stimolò alla separazione Lutero e i suoi concittadini.
Nondimeno il clero per abito tradizionale tuonava dal
pergamo contro quella licenza. Il Vangelo rimaneva
sempre un ideale non contrastato, salvo a non tenerne
alcun conto nella vita pratica: il pensiero non era più la
parola e la parola non era più l’azione, non ci era armonia nella vita. In questa disarmonia era il principale motivo comico del Boccaccio e degli altri scrittori di commedie, di novelle e di capitoli.
Nessun italiano, parlando in astratto, poteva trovar
lodevole quella licenza, a’ cui allettamenti pur non sapeva resistere. Altra era la teoria, altra la pratica. E nessuno poteva non desiderare una riforma de’ costumi, una
restaurazione della coscienza. Sentimenti e desidèri vani, affogati nel rumore di quei baccanali. Non ci era il
tempo di piegarsi in sè, di considerare la vita seriamente.
Pure erano sentimenti e desidèri che più tardi fruttificarono e agevolarono l’opera del Concilio di Trento e la
reazione cattolica.
Rifare il medio evo, e ottenere la riforma de’ costumi
e delle coscienze con una ristaurazione religiosa e morale era stato già il concetto di Geronimo Savonarola, ripreso poi e purgato nel Concilio di Trento. Era il concetto più accessibile alle moltitudini e più facile a
presentarsi. I volghi cercano la medicina a’ loro mali nel
passato.
Machiavelli, pensoso e inquieto in mezzo a quel car-
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nevale italiano, giudicava quella corruttela da un punto
di vista più alto. Essa era non altro che lo stesso medio
evo in putrefazione, morto già nella coscienza, vivo ancora nelle forme e nelle istituzioni. E perciò, non che
pensasse di ricondurre indietro l’Italia e di ristaurare il
medio evo, concorse alla sua demolizione.
L’altro mondo, la cavalleria, l’amore platonico sono i
tre concetti fondamentali, intorno a’ quali si aggira la
letteratura nel medio evo, de’ quali la nuova letteratura
è la parodia più o meno consapevole. Anche nella faccia
del Machiavelli sorprendi un movimento ironico, quando parla del medio evo, soprattutto allora che affetta
maggior serietà. La misura del linguaggio rende più terribili i suoi colpi. Nella sua opera demolitiva è visibile la
sua parentela col Boccaccio e col Magnifico. Il suo Belfegor è della stessa razza, dalla quale era uscito Astarotte.
Ma la sua negazione non è pura buffoneria, puro effetto comico, uscito da coscienza vuota. In quella negazione ci è un’affermazione, un altro mondo sorto nella
sua coscienza. E perciò la sua negazione è seria ed eloquente.
Papato e impero, guelfismo e ghibellinismo, ordini
feudali e comunali, tutte queste istituzioni sono demolite nel suo spirito. E sono demolite, perchè nel suo spirito è sorto un nuovo edificio sociale e politico.
Le idee che generarono quelle istituzioni sono morte,
non hanno più efficacia di sorta sulla coscienza, rimasta
vuota. E in quest’ozio interno è la radice della corruttela
italiana. Questo popolo non si può rinnovare, se non rifacendosi una coscienza. Ed è a questo che attende Machiavelli. Con l’una mano distrugge, con l’altra edifica.
Da lui comincia, in mezzo alla negazione universale e
vuota, la ricostruzione.
Non è possibile seguire la sua dottrina nel particolare.
Basti qui accennare la idea fondamentale.
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Il medio evo riposa sopra questa base: che il peccato è
attaccarsi a questa vita, come cosa sostanziale, e la virtù
è negazione della vita terrena e contemplazione dell’altra; che questa vita non è la realtà o la verità, ma ombra
e apparenza; e che la realtà è non quello che è, ma quello che dee essere, e perciò il suo vero contenuto è l’altro
mondo. L’inferno. Il Purgatorio. Il Paradiso, il mondo
conforme alla verità e alla giustizia. Da questo concetto
della vita teologico-etico uscì la Divina Commedia e tutta la letteratura del Dugento e del Trecento.
Il simbolismo e lo scolasticismo sono le forme naturali di questo concetto. La realtà terrena è simbolica: Beatrice è un simbolo: l’amore è un simbolo. E l’uomo e la
natura hanno la loro spiegazione e la loro radice negli
enti o negli universali, forze estramondane, che sono la
maggiore del sillogismo, l’universale da cui esce il particolare.
Tutto questo, forma e concetto, era già dal Boccaccio
in qua negato, caricato, parodiato, materia di sollazzo e
di passatempo: pura negazione nella sua forma cinica e
licenziosa, che aveva a base la glorificazione della carne
o del peccato, la voluttà, l’epicureismo, reazione
all’ascetismo. Andavano insieme teologi e astrologi e
poeti, tutti visionari: conclusione geniale della Maccaronea, ispirata al Folengo dal mondo della Luna ariostesco. In teoria ci era una piena indifferenza, e in pratica
una piena licenza.
Machiavelli vive in questo mondo e vi partecipa. La
stessa licenza nella vita, e la stessa indifferenza nella teoria. La sua coltura non è straordinaria: molti a quel tempo avanzavano lui e l’Ariosto di dottrina e di erudizione.
Di speculazioni filosofiche sembra così digiuno come di
enunciazioni scolastiche e teologiche. E a ogni modo
non se ne cura. Il suo spirito è tutto nella vita pratica.
Nelle scienze naturali non sembra sia molto innanzi,
quando vediamo che in alcuni casi accenna all’influsso
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
delle stelle. Battista Alberti avea certo una coltura più
vasta e più compiuta. Niccolò non è filosofo della natura, è filosofo dell’uomo. Ma il suo ingegno oltrepassa
l’argomento e prepara Galileo.
L’uomo, come Machiavelli lo concepisce, non ha la
faccia estatica e contemplativa del medio evo, e non la
faccia tranquilla e idillica del Risorgimento. Ha la faccia
moderna dell’uomo che opera e lavora intorno ad uno
scopo.
Ciascun uomo ha la sua missione su questa terra, secondo le sue attitudini. La vita non è un giuoco d’immaginazione, e non è contemplazione Non è teologia, e
non è neppure arte. Essa ha in terra la sua serietà, il suo
scopo e i suoi mezzi. Riabilitare la vita terrena, darle uno
scopo, rifare la coscienza, ricreare le forze interiori, restituire l’uomo nella sua serietà e nella sua attività: questo è lo spirito che aleggia in tutte le opere del Machiavelli.
È negazione del medio evo, e insieme negazione del
Risorgimento. La contemplazione divina lo soddisfa così
poco, come la contemplazione artistica. La coltura e
l’arte gli paiono cose belle, non tali però che debbano e
possano costituire lo scopo della vita. Combatte l’immaginazione, come il nemico più pericoloso, e quel veder le
cose in immaginazione e non in realtà gli par proprio esser la malattia che si ha a curare. Ripete ad ogni tratto
che bisogna giudicar le cose come sono, e non come
debbono essere.
Quel «dover essere», a cui tende il contenuto nel medio evo e la forma nel Risorgimento, dee far luogo
all’«essere», o com’egli dice, alla verità «effettuale».
Subordinare il mondo dell’immaginazione, come religione e come arte, al mondo reale, quale ci è posto
dall’esperienza e dall’osservazione, questa è la base del
Machiavelli.
Risecati tutti gli elementi sopraumani e soprannatura-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
li, pone a fondamento della vita la patria. La missione
dell’uomo su questa terra, il suo primo dovere è il patriottismo, la gloria, la grandezza, la libertà della patria.
Nel medio evo non ci era il concetto di patria: ci era il
concetto di fedeltà e di sudditanza. Gli uomini nascevano tutti sudditi del papa e dell’imperatore, rappresentanti di Dio; l’uno era lo spirito, l’altro il corpo della società. Intorno a questi due «Soli» stavano gli astri
minori, re, principi, duchi, baroni, a cui stavano di contro in antagonismo naturale i comuni liberi. Ma la libertà era privilegio papale e imperiale, e i comuni esistevano anch’essi per la grazia di Dio, e perciò del papa o
dell’imperatore, e spesso imploravano legati apostolici o
imperiali a tutela e pacificazione. Savonarola proclamò
re di Firenze Gesù Cristo, ben inteso lasciando a sè il
dritto di rappresentarlo e interpretarlo. È un tratto che
illumina tutte le idee di quel tempo.
Ci era ancora il papa e ci era l’imperatore; ma l’opinione, sulla quale si fondava la loro potenza, non ci era
più nelle classi colte d’Italia. Il papa stesso e l’imperatore avevano smesso l’antico linguaggio, il papa, ingrandito di territorio, diminuito di autorità, l’imperatore debole e impacciato a casa.
Di papato e d’impero, di guelfi e ghibellini non si parlava in Italia che per riderne, a quel modo che della cavalleria e di tutte le altre istituzioni. Di quel mondo rimanevano avanzi in Italia il papa, i gentiluomini e gli
avventurieri o mercenari. Il Machiavelli vede nel papato
temporale non solo un sistema di governo assurdo e
ignobile, ma il principale pericolo dell’Italia. Democratico, combatte il concetto di un governo stretto, e tratta
assai aspramente i gentiluomini, reminiscenze feudali. E
vede ne’ mercenari o avventurieri la prima cagione della
debolezza italiana incontro allo straniero, e propone e
svolge largamente il concetto di una milizia nazionale
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Nel papato temporale, nei gentiluomini, negli avventurieri combatte gli ultimi vestigi del medio evo.
La «patria» del Machiavelli è naturalmente il comune
libero, libero per sua virtù e non per grazia del papa e
dell’imperatore, governo di tutti nell’interesse di tutti.
Ma, osservatore sagace, non gli può sfuggire il fenomeno storico de’ grandi Stati che si erano formati in Europa, e come il comune era destinato anch’esso a sparire
con tutte le altre istituzioni del medio evo. Il suo comune gli par cosa troppo piccola e non possibile a durare
dirimpetto a quelle potenti agglomerazioni delle stirpi,
che si chiamavano «Stati» o «Nazioni». Già Lorenzo,
mosso dallo stesso pensiero, avea tentato una grande lega italica, che assicurasse l’«equilibrio» tra’ vari Stati e la
mutua difesa, e che pure non riuscì ad impedire l’invasione di Carlo ottavo. Niccolò propone addirittura la
costituzione di un grande Stato italiano, che sia baluardo d’Italia contro lo straniero. Il concetto di patria gli si
allarga. Patria non è solo il piccolo comune, ma è tutta la
nazione. L’Italia nell’utopia dantesca è il «giardino
dell’impero»; nell’utopia del Machiavelli è la «patria»,
nazione autonoma e indipendente.
La «patria» del Machiavelli è una divinità, superiore
anche alla moralità e alla legge. A quel modo che il Dio
degli ascetici assorbiva in sè l’individuo, e in nome di
Dio gl’inquisitori bruciavano gli eretici; per la patria tutto era lecito, e le azioni, che nella vita privata sono delitti, diventavano magnanime nella vita pubblica. «Ragion
di Stato» e «salute pubblica» erano le formole volgari,
nelle quali si esprimeva questo dritto della patria, superiore ad ogni dritto. La divinità era scesa di cielo in terra
e si chiamava la «patria», ed era non meno terribile. La
sua volontà e il suo interesse era «suprema lex». Era
sempre l’individuo assorbito nell’essere collettivo. E
quando questo essere collettivo era assorbito a sua volta
nella volontà di un solo o di pochi, avevi la servitù. Li-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
bertà era la partecipazione più o meno larga de’ cittadini
alla cosa pubblica. I dritti dell’uomo non entravano ancora nel codice della libertà. L’uomo non era un essere
autonomo, e di fine a se stesso: era l’istrumento della patria, o ciò che è peggio, dello Stato: parola generica, sotto la quale si comprendeva ogni specie di governo, anche il dispotico, fondato sull’arbitrio di un solo. Patria
era dove tutti concorrevano più o meno al governo, e se
tutti ubbidivano, tutti comandavano: ciò che dicevasi
«repubblica». E dicevasi «principato», dove uno comandava e tutti ubbidivano. Ma, repubblica o principato, patria o Stato, il concetto era sempre l’individuo assorbito nella società, o, come fu detto poi, l’onnipotenza
dello Stato.
Queste idee sono enunciate dal Machiavelli, non come da lui trovate e analizzate, ma come già per lunga
tradizione ammesse, e fortificate dalla coltura classica.
Ci è lì dentro lo spirito dell’antica Roma, che con la sua
immagine di gloria e di libertà attirava tutte le immaginazioni, e si porgeva alle menti modello non solo nell’arte e nella letteratura, ma ancora nello Stato.
La patria assorbisce anche la religione. Uno Stato non
può vivere senza religione. E se il Machiavelli si duole
della corte romana, non è solo perchè a difesa del suo
dominio temporale è costretta a chiamar gli stranieri, ma
ancora perchè co’ suoi costumi disordinati e licenziosi
ha diminuita nel popolo l’autorità della religione. Ma
egli vuole una religione di Stato, che sia in mano del
principe un mezzo di governo. Della religione si era perduto il senso, ed era arte presso i letterati e istrumento
politico negli statisti. Anche la moralità gli piace, e loda
la generosità, la clemenza, l’osservanza della fede, la sincerità e le altre virtù, ma a patto che ne venga bene alla
patria; e se le incontra sulla sua via non istrumenti, ma
ostacoli, gli spezza. Leggi spesso lodi magnifiche della
religione e delle altre virtù de’ buoni principi; ma ci
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odori un po’ di rettorica, che spicca più in quel fondo
ignudo della sua prosa. Non è in lui e non è in nessuno
de’ suoi contemporanei un sentimento religioso e morale schietto e semplice.
Noi che vediamo le cose di lontano, troviamo in queste dottrine lo Stato laico, che si emancipa dalla teocrazia, e diviene a sua volta invadente. Ma allora la lotta era
ancor viva, e l’una esagerazione portava l’altra. Togliendo le esagerazioni, ciò che esce dalla lotta è l’autonomia
e l’indipendenza del potere civile, che ha la sua legittimità in se stesso, sciolto ogni vincolo di vassallaggio e di
subordinazione a Roma. Nel Machiavelli non ci è alcun
vestigio di diritto divino. Il fondamento delle repubbliche è «vox populi», il consenso di tutti. E il fondamento
de’ principati è la forza, o la conquista legittimata e assicurata dal buon governo. Un po’ di cielo e un po’ di papa ci entra pure, ma come forze atte a mantenere i popoli nell’ubbidienza e nell’osservanza delle leggi.
Stabilito il centro della vita in terra e attorno alla patria, al Machiavelli non possono piacere le virtù monacali dell’umiltà e della pazienza, che hanno «disarmato il
cielo e effeminato il mondo» e che rendono l’uomo più
atto a «sopportare le ingiurie che a vendicarle». «Agere
et pati fortia romanum est». Il cattolicismo male interpretato rende l’uomo più atto a patire che a fare. Il Machiavelli attribuisce a questa educazione ascetica e contemplativa la fiacchezza del corpo e dell’animo, che
rende gl’italiani inetti a cacciar via gli stranieri e a fondare la libertà e l’indipendenza della patria. La virtù è da
lui intesa nel senso romano, e significa «forza», «energia», che renda gli uomini atti a’ grandi sacrifici e alle
grandi imprese. Non è che agl’italiani manchi il valore;
anzi ne’ singolari incontri riescono spesso vittoriosi:
manca l’educazione o la disciplina o, come egli dice, «i
buoni ordini e le buone armi», che fanno gagliardi e liberi i popoli.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Alla virtù premio è la gloria. «Patria», «virtù», «gloria», sono le tre parole sacre, la triplice base di questo
mondo.
Come gl’individui hanno la loro missione in terra, così anche le nazioni. Gl’individui senza patria, senza
virtù, senza gloria sono atomi perduti, «numerus fruges
consumere nati». E parimente ci sono nazioni oziose e
vuote, che non lasciano alcun vestigio di sè nel mondo.
Nazioni storiche sono quelle che hanno adempiuto un
ufficio nell’umanità, o, come dicevasi allora, nel genere
umano, come Assiria, Persia, Grecia e Roma. Ciò che
rende grandi le nazioni è la virtù o la tempra, gagliardia
intellettuale e corporale, che forma il carattere o la forza
morale. Ma come gl’individui, così le nazioni hanno la
loro vecchiezza, quando le idee che le hanno costituite
s’indeboliscono nella coscienza e la tempra si fiacca. E
l’indirizzo del mondo fugge loro dalle mani e passa ad
altre nazioni.
Il mondo non è regolato da forze soprannaturali o casuali, ma dallo spirito umano, che procede secondo le
sue leggi organiche e perciò fatali. Il fato storico non è la
provvidenza, e non la fortuna, ma la «forza delle cose»,
determinata dalle leggi dello spirito e della natura. Lo
spirito è immutabile nelle sue facoltà ed immortale nella
sua produzione.
Perciò la storia non è accozzamento di fatti fortuiti o
provvidenziali, ma concatenazione necessaria di cause e
di effetti, il risultato delle forze messe in moto dalle opinioni, dalle passioni e dagl’interessi degli uomini.
La politica o l’arte del governare ha per suo campo
non un mondo etico, determinato dalle leggi ideali della
moralità, ma il mondo reale, come si trova nel tal luogo
e nel tal tempo. Governare è intendere e regolare le forze che muovono il mondo. Uomo di Stato è colui che sa
calcolare e maneggiare queste forze e volgerle a’ suoi fini.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
La grandezza e la caduta delle nazioni non sono dunque accidenti o miracoli, ma sono effetti necessari, che
hanno le loro cause nella qualità delle forze che le movono. E quando queste forze sono in tutto logore, esse
muoiono.
E a governare, quelli che stanno solo in sul lione, non
se ne intendono. Ci vuole anche la volpe, o la prudenza,
cioè l’intelligenza, il calcolo e il maneggio delle forze che
muovono gli Stati.
Come gl’individui, così le nazioni hanno legami tra
loro, dritti e doveri. E come ci è un dritto privato, così ci
è un dritto pubblico, o dritto delle genti, o, come dicesi
oggi, dritto internazionale. Anche la guerra ha le sue leggi.
Le nazioni muoiono. Ma lo spirito umano non muore
mai. Eternamente giovane, passa di una nazione in
un’altra, e continua secondo le sue leggi organiche la
storia del genere umano. C’è dunque non solo la storia
di questa o quella nazione, ma la storia del mondo, anch’essa fatale e logica, determinata nel suo corso dalle
leggi organiche dello spirito. La storia del genere umano
non è che la storia dello spirito o del pensiero. Di qui
esce ciò che poi fu detto «filosofia della storia».
Di questa filosofia della storia e di un dritto delle genti non ci è nel Machiavelli che la semplice base scientifica, un punto di partenza segnato con chiarezza e indicato a’ suoi successori. Il suo campo chiuso è la politica e
la storia.
Questi concetti non sono nuovi. I concetti filosofici,
come i poetici, suppongono una lunga elaborazione. Ci
si vede qui dentro le conseguenze naturali di quel grande movimento, sotto forme classiche realista, ch’era in
fondo l’emancipazione dell’uomo dagli elementi soprannaturali e fantastici, e la conoscenza e il possesso di se
stesso. E a’ contemporanei non parvero nuovi, nè auda-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ci, veggendo ivi formulato quello che in tutti era sentimento vago.
L’influenza del mondo pagano è visibile anche nel
medio evo, anche in Dante Roma è presente allo spirito.
Ma lì è Roma provvidenziale e imperiale, la Roma di Cesare, e qui è Roma repubblicana, e Cesare vi è severamente giudicato. Dante chiama le gloriose imprese della
repubblica «miracoli della provvidenza», come preparazione all’impero: dove pel Machiavelli non ci sono miracoli, o i miracoli sono i buoni ordini; e se alcuna parte
dà alla fortuna, la dà principalissima alla virtù. Di lui è
questo motto profondo: «I buoni ordini fanno buona
fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici successi
delle imprese». Il classicismo adunque era la semplice
scorza, sotto alla quale le due età inviluppavano le loro
tendenze. Sotto al classicismo di Dante ci è il misticismo
e il ghibellinismo; la corteccia è classica, il nocciolo è
medievale. E sotto al classicismo del Machiavelli ci è lo
spirito moderno che ivi cerca e trova se stesso. Ammira
Roma, quanto biasima i tempi suoi, dove «non è cosa alcuna che gli ricomperi di ogni estrema miseria, infamia e
vituperio, e non vi è osservanza di religione, non di leggi
e non di milizia, ma sono maculati di ogni ragione bruttura». Crede con gli ordini e i costumi di Roma antica di
poter rifare quella grandezza e ritemprare i suoi tempi, e
in molte proposte e in molte sentenze senti i vestigi di
quell’antica sapienza. Da Roma gli viene anche la nobiltà dell’ispirazione e una certa elevatezza morale. Talora ti pare un romano avvolto nel pallio, in quella sua
gravità; ma guardalo bene, e ci troverai il borghese del
Risorgimento, con quel suo risolino equivoco. Savonarola è una reminiscenza del medio evo, profeta e apostolo a modo dantesco; Machiavelli in quella sua veste romana è vero borghese moderno, sceso dal piedistallo,
uguale tra uguali, che ti parla alla buona e alla naturale.
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È in lui lo spirito ironico del Risorgimento con lineamenti molto precisi de’ tempi moderni.
Il medio evo qui crolla in tutte le sue basi, religiosa,
morale, politica, intellettuale. E non è solo negazione
vuota. È affermazione, è il verbo. Di contro a ciascuna
negazione sorge un’affermazione. Non è la caduta del
mondo, è il suo rinnovamento. Dirimpetto alla teocrazia
sorge l’autonomia e l’indipendenza dello Stato. Tra l’impero e la città o il feudo, le due unità politiche del medio
evo, sorge un nuovo ente, la Nazione, alla quale il Machiavelli assegna i suoi caratteri distintivi, la razza, la lingua, la storia, i confini. Tra le repubbliche e i principati
spunta già una specie di governo medio o misto, che riunisca i vantaggi delle une e degli altri, e assicuri a un
tempo la libertà e la stabilità, governo che è un presentimento de’ nostri ordini costituzionali, e di cui il Machiavelli dà i primi lineamenti nel suo progetto per la riforma degli ordini politici in Firenze. È tutto un nuovo
mondo politico che appare. Si vegga, fra l’altro, dove il
Machiavelli tocca della formazione de’ grandi Stati, e soprattutto della Francia.
Anche la base religiosa è mutata. Il Machiavelli vuole
recisa dalla religione ogni temporalità, e, come Dante,
combatte la confusione de’ due reggimenti, e fa una descrizione de’ principati ecclesiastici, notabile per la
profondità dell’ironia. La religione ricondotta nella sua
sfera spirituale è da lui considerata, non meno che l’educazione e l’istruzione, come istrumento di grandezza nazionale. È in fondo l’idea di una Chiesa nazionale, dipendente dallo Stato, e accomodata a’ fini e agl’interessi
della nazione.
Altra è pure la base morale. Il fine etico del medio
evo è la santificazione dell’anima, e il mezzo è la mortificazione della carne. Il Machiavelli, se biasima la licenza
de’ costumi invalsa al suo tempo, non è meno severo
verso l’educazione ascetica. La sua dea non è Rachele,
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ma è Lia, non è la vita contemplativa, ma la vita attiva. E
perciò la virtù è per lui la vita attiva, vita di azione, e in
servigio della patria. I suoi santi sono più simili agli eroi
dell’antica Roma che agl’iscritti nel calendario romano.
O per dir meglio, il nuovo tipo morale non è il santo, ma
è il patriota.
E si rinnova pure la base intellettuale. Secondo il gergo di allora, il Machiavelli non combatte la verità della
fede, ma la lascia da parte, non se ne occupa, e quando
vi s’incontra, ne parla con un’aria equivoca di rispetto.
Risecata dal suo mondo ogni causa soprannaturale e
provvidenziale, vi mette a base l’immutabilità e l’immortalità del pensiero o dello spirito umano, fattore della
storia. Questo è già tutta una rivoluzione. È il famoso
«cogito», nel quale s’inizia la scienza moderna. È l’uomo
emancipato dal mondo soprannaturale e sopraumano,
che, come lo Stato, proclama la sua autonomia e la sua
indipendenza, e prende possesso del mondo.
E si rinnova il metodo. Il Machiavelli non riconosce
verità a priori e princìpi astratti, e non riconosce autorità
di nessuno, come criterio del vero. Di teologia e di filosofia e di etica fa stima uguale, mondi d’immaginazione,
fuori della realtà. La verità è la cosa effettuale, e perciò il
modo di cercarla è l’esperienza accompagnata con l’osservazione, lo studio intelligente de’ fatti. Tutto il formolario scolastico va giù. A quel vuoto meccanismo fondato sulle combinazioni astratte dell’intelletto
incardinate nella pretesa esistenza degli universali sostituisce la forma ordinaria del parlare diritta e naturale.
Le proposizioni generali, le «maggiori» del sillogismo,
sono capovolte e compariscono in ultimo come risultati
di una esperienza illuminata dalla riflessione. In luogo
del sillogismo hai la «serie», cioè a dire concatenazione
di fatti, che sono insieme causa ed effetto, come si vede
in questo esempio:
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
«Avendo la città di Firenze ... perduta parte dell’imperio
suo, fu necessitata a fare guerra a coloro che lo occupavano, e
perchè chi l’occupava era potente, ne seguiva che si spendeva
assai nella guerra senza alcun frutto: dallo spendere assai ne risultava assai gravezze, dalle gravezze infinite querele del popolo; e perchè questa guerra era amministrata da un magistrato di
dieci cittadini, ... l’universale cominciò a recarselo in dispetto,
come quello che fosse cagione e della guerra e delle spese di essa.»
Qui i fatti sono schierati in modo che si appoggiano e
si spiegano a vicenda: sono una doppia serie, l’una complicata, che ti dà le cause vere, visibile solo all’uomo intelligente; l’altra semplicissima che ti dà la causa apparente e superficiale, e che pure è quella che trascina ad
opere inconsulte l’universale, con una serietà ed una sicurezza, che rende profondamente ironica la conclusione. I fatti saltan fuori a quel modo stesso che si sviluppano nella natura e nell’uomo, non vi senti alcuno artificio.
Ma è un’apparenza. Essi sono legati, subordinati, coordinati dalla riflessione, sì che ciascuno ha il suo posto,
ha il suo valore di causa o di effetto, ha il suo ufficio in
tutta la catena: il fatto non è solo fatto, o accidente, ma è
ragione, considerazione: sotto la narrazione si cela l’argomentazione. Così l’autore ha potuto in poche pagine
condensare tutta la storia del medio evo e farne magnifico vestibulo alla sua storia di Firenze. I suoi ragionamenti sono anch’essi fatti intellettuali, e perciò l’autore
si contenta di enunciare e non dimostra. Sono fatti cavati dalla storia, dall’esperienza del mondo, da un’acuta
osservazione, e presentati con semplicità pari all’energia. Molti di questi fatti intellettuali sono rimasti anche
oggi popolari nella bocca di tutti, com’è quel «ritirare le
cose a’ loro princìpi», o quell’ironia de’ «profeti disarmati», o «gli uomini si stuccano del bene, e del male si
affliggono», o «gli uomini bisogna carezzarli o spegnerli». Di queste sentenze o pensieri ce ne sono raccolte. E
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sono un intero arsenale, dove hanno attinto gli scrittori,
vestiti delle sue spoglie. Come esempio di questi fatti intellettuali usciti da una mente elevata e peregrina, ricordo la famosa dedica de’ suoi Discorsi. Con la forma scolastica rovina la forma letteraria, fondata sul periodo.
Ne’ lavori didascalici il periodo era una forma sillogistica dissimulata, una proposizione corteggiata dalla sua
maggiore e dalle sue idee medie, ciò che dicevasi dimostrazione, se la materia era intellettuale, o descrizione, se
la materia era di puri fatti. Machiavelli ti dà semplici
proposizioni, ripudiato ogni corteggio; non descrive e
non dimostra, narra o enuncia, e perciò non ha artificio
di periodo. Non solo uccide la forma letteraria, ma uccide la forma stessa come forma, e fa questo nel secolo
della forma, la sola divinità riconosciuta. Appunto perchè ha piena la coscienza di un nuovo contenuto, per lui
il contenuto è tutto e la forma è nulla. O, per dire più
corretto, la forma è essa medesima la cosa nella sua verità effettuale, cioè nella sua esistenza intellettuale o materiale. Ciò che a lui importa, non è che la cosa sia ragionevole, o morale, o bella, ma che la sia. Il mondo è così e
così; e si vuol pigliarlo com’è, ed è inutile cercare se possa o debba essere altrimenti. La base della vita, e perciò
del sapere, è il «Nosce te ipsum», la conoscenza del mondo nella sua realtà. Il fantasticare, il dimostrare, il descrivere, il moralizzare sono frutto d’intelletti collocati
fuori della vita e abbandonati all’immaginazione. Perciò
il Machiavelli purga la sua prosa di ogni elemento astratto, etico e poetico. Guardando il mondo con uno sguardo superiore, il suo motto è: «Nil admirari». Non si maraviglia e non si appassiona, perchè comprende, come
non dimostra e non descrive, perchè vede e tocca. Investe la cosa direttamente, e fugge le perifrasi, le circonlocuzioni, le amplificazioni, le argomentazioni, le frasi e le
figure, i periodi e gli ornamenti, come ostacoli e indugi
alla visione. Sceglie la via più breve, e perciò la diritta:
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non si distrae e non distrae. Ti dà una serie stretta e rapida di proposizioni e di fatti, soppresse tutte le idee
medie, tutti gli accidenti, e tutti gli episodi. Ha l’aria del
pretore, che «non curat de minimis», di un uomo occupato in cose gravi, che non ha tempo, nè voglia di guardarsi attorno. Quella sua rapidità, quel suo condensare
non è un artificio, come talora è in Tacito e sempre è nel
Davanzati, ma è naturale chiarezza di visione, che gli
rende inutili tutte quelle idee medie, di cui gli spiriti mediocri hanno bisogno per giungere faticosamente ad una
conseguenza, ed è insieme pienezza di cose, che non gli
fa sentire necessità di riempiere gli spazi vuoti con belletti e impolpature, che tanto piacciono a’ cervelli oziosi.
La sua semplicità talora è negligenza; la sua sobrietà talora è magrezza: difetti delle sue qualità. E sono pedanti
quelli che cercano il pel nell’uovo, e gonfiano le gote in
aria di pedagoghi, quando in quella divina prosa trovino
latinismi, slegature, scorrezioni e simili negligenze.
La prosa del Trecento manca di organismo, e perciò
non ha ossatura, non interna coesione: vi abbonda l’affetto e l’immaginativa, vi scarseggia l’intelletto. Nella
prosa del Cinquecento hai l’apparenza, anzi l’affettazione dell’ossatura, la cui espressione è il periodo. Ma l’ossatura non è che esteriore, e quel lusso di congiunzioni e
di membri e d’incisi mal dissimula il vuoto e la dissoluzione interna. Il vuoto non è nell’intelletto, ma nella coscienza, indifferente e scettica. Perciò il lavoro intellettivo è tutto al di fuori, frasche e fiori. Gli argomenti più
frivoli sono trattati con la stessa serietà degli argomenti
gravi, perchè la coscienza è indifferente ad ogni specie
di argomento, grave o frivolo. Ma la serietà è apparente,
è tutta formale e perciò rettorica: l’animo vi rimane
profondamente indifferente. Monsignor della Casa scrive l’orazione a Carlo quinto con lo stesso animo che
scrive il capitolo sul forno, salvo che qui è nella sua natura e ti riesce cinico, lì è fuori della sua natura e ti riesce
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falso. Il Galateo e il Cortigiano sono le due migliori prose di quel tempo, come rappresentazione di una società
pulita ed elegante, tutta al di fuori, in mezzo alla quale
vivevano il Casa e il Castiglione, e che poneva la principale importanza della vita ne’ costumi e ne’ modi. Anche l’intelletto, in quella sua virilità ozioso, poneva la
principale importanza della composizione ne’ costumi e
ne’ modi, ovvero nell’abito. Quell’abbigliamento boccaccevole e ciceroniano divenne in breve convenzionale,
un meccanismo tutto d’imitazione, a cui l’intelletto stesso rimaneva estraneo. I filosofi non avevano ancora
smesse le loro forme scolastiche, i poeti petrarcheggiavano, i prosatori usavano un genere bastardo, poetico e
rettorico, con l’imitazione esteriore del Boccaccio: la
malattia era una, la passività o indifferenza dell’intelletto, del cuore, dell’immaginazione, cioè a dire di tutta
l’anima. Ci era lo scrittore, non ci era l’uomo. E fin d’allora fu considerato lo scrivere come un mestiere, consistente in un meccanismo che dicevasi «forma letteraria»,
nella piena indifferenza dell’animo: divorzio compiuto
tra l’uomo e lo scrittore. Fra tanto infuriare di prose rettoriche e poetiche comparve la prosa del Machiavelli,
presentimento della prosa moderna.
Qui l’uomo è tutto, e non ci è lo scrittore, o ci è solo in
quanto uomo. Il Machiavelli sembra quasi ignori che ci
sia un’arte dello scrivere, ammessa generalmente e divenuta moda o convenzione. Talora ci si prova, e ci riesce
maestro; ed è, quando vuol fare il letterato anche lui.
L’uomo è in lui tutto. Quello che scrive è una produzione immediata del suo cervello, esce caldo caldo dal di
dentro, cose e impressioni spesso condensate in una parola. Perchè è un uomo che pensa e sente, distrugge e
crea, osserva e riflette, con lo spirito sempre attivo e presente. Cerca la cosa, non il suo colore: pure la cosa vien
fuori insieme con le impressioni fatte nel suo cervello,
perciò naturalmente colorita, traversata d’ironia, di ma-
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linconia, d’indignazione, di dignità, ma principalmente
lei nella sua chiarezza plastica. Quella prosa è chiara e
piena come un marmo, ma un marmo qua e là venato. È
la grande maniera di Dante che vive là dentro. Parlando
dei mutamenti introdotti al medio evo ne’ nomi delle
cose e degli uomini, finisce così: «e i Cesari e i Pompei
Pietri, Mattei e Giovanni diventarono». Qui non ci è
che il marmo, la cosa ignuda; ma quante vene in questo
marmo! Ci senti tutte le impressioni fatte da quell’immagine nel suo cervello, l’ammirazione per quei Cesari e
Pompei, il disprezzo per quei Pietri e Mattei, lo sdegno
di quel mutamento; e lo vedi alla scelta caratteristica de’
nomi, al loro collocamento in contrasto come nemici, e a
quell’ultimo ed energico «diventarono», che accenna a
mutamenti non solo di nomi, ma di animi. Questa prosa
asciutta, precisa e concisa, tutta pensiero e tutta cose,
annunzia l’intelletto già adulto emancipato da elementi
mistici, etici e poetici, e divenuto il supremo regolatore
del mondo: la logica o la forza delle cose, il fato moderno. Questo è in effetti il senso intimo del mondo, come
il Machiavelli lo concepisce. Lasciando da parte le sue
origini, il mondo è quello che è, un attrito di forze umane e naturali, dotate di leggi proprie. Ciò che dicesi «fato», non è altro che la logica, il risultato necessario di
queste forze, appetiti, istinti, passioni, opinioni, fantasie,
interessi, mosse e regolate da una forza superiore, lo spirito umano, il pensiero, l’intelletto. Il Dio di Dante è
l’amore, forza unitiva dell’intelletto e dell’atto: il risultato era sapienza. Il Dio di Machiavelli è l’intelletto, l’intelligenza e la regola delle forze mondane: il risultato è
scienza. – Bisogna amare –, dice Dante. – Bisogna intendere –, dice Machiavelli. L’anima del mondo dantesco è
il cuore: l’anima del mondo machiavellico e il cervello.
Quel mondo è essenzialmente mistico ed etico: questo è
essenzialmente umano e logico. La virtù muta il suo significato. Non è sentimento morale, ma è semplicemen-
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te forza o energia, la tempra dell’animo; e Cesare Borgia
è virtuoso, perchè avea la forza di operare secondo logica, cioè di accettare i mezzi, quando aveva accettato lo
scopo. Se l’anima del mondo è il cervello, hai una prosa
che è tutta e sola cervello.
Ora possiamo comprendere il Machiavelli nelle sue
applicazioni. La storia di Firenze sotto forma narrativa è
una logica degli avvenimenti. Dino scrive col cuore
commosso, con l’immaginazione colpita: tutto gli par
nuovo, tutto offende il suo senso morale. Vi domina il
sentimento etico, come in Dante, nel Mussato, in tutt’i
trecentisti. Ma ciò che interessa il Machiavelli è la spiegazione de’ fatti nelle forze motrici degli uomini, e narra
calmo e meditativo, a modo di filosofo che ti dia l’interpretazione del mondo. I personaggi non sono còlti nel
caldo dell’affetto e nel tumulto dell’azione: non è una
storia drammatica. L’autore non è sulla scena, nè dietro
la scena; ma è nella sua camera, e mentre i fatti gli sfilano avanti, cerca afferrarne i motivi. La sua apatia non è
che preoccupazione di filosofo, inteso a spiegare e tutto
raccolto in questo lavoro intellettivo, non distratto da
emozioni e impressioni. È l’apatia dell’ingegno superiore, che guarda con compassione a’ moti convulsi e nervosi delle passioni.
Ne’ Discorsi ci è maggior vita intellettuale. L’intelletto
si stacca da’ fatti, e vi torna, per attingervi lena e ispirazione. I fatti sono il punto fermo intorno a cui gira. Narra breve, come chi ricordi quello che tutti sanno, ed ha
fretta di uscirne. Ma, appena finito il racconto, comincia
il discorso. L’intelletto, come rinvigorito a quella fonte,
se ne spicca tutto pieno d’ispirazioni originali, sorpreso
e contento insieme. Senti lì il piacere di quell’esercizio
intellettuale e di quella originalità, di quel dir cose che a’
volgari sembrano paradossi. Quei pensieri sono come
una schiera ben serrata, dove non penetra niente dal di
fuori, a turbarvi l’ordine. Non è una mente agitata nel
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calore della produzione tra quel flutto d’immaginazioni
e di emozioni che ti annunzia la fermentazione come avviene talora anche a’ più grandi pensatori. È l’intelletto
pieno di gioventù e di freschezza, tranquillo nella sua
forza, e in sospetto di tutto ciò che non è lui. Digressioni, immagini, effetti paragoni, giri viziosi, perplessità di
posizioni, tutto è sbandito in queste serie disciplinate
d’idee, mobili e generative, venute fuori da un vigor
d’analisi insolito e legate da una logica inflessibile. Tutto
è profondo, ed è così chiaro e semplice, che ti par superficiale.
Il fondamento de’ Discorsi è questo, che gli uomini
«non sanno essere nè in tutto buoni, nè in tutto tristi», e
perciò non hanno tempra logica, non hanno virtù. Hanno velleità, non hanno volontà. Immaginazioni, paure,
speranze, vane cogitazioni, superstizioni tolgono loro la
risolutezza. Perciò «stanno» volentieri «in sull’ambiguo», e scelgono le «vie di mezzo», e «seguono le apparenze». Ci è nello spirito umano uno stimolo o appetito
insaziabile che lo tiene in continua opera e produce il
progresso storico. Ond’è che gli uomini non sono tranquilli, e salgono di un’ambizione in un’altra, e prima si
difendono, e poi offendono, e più uno ha, più desidera.
Sicchè negli scopi gli uomini sono infiniti, e ne’ mezzi
sono perplessi e incerti.
Quello che degl’individui, si può dire anche dell’uomo collettivo, come famiglia, o classe. Nelle società non
ci è in fondo che due sole classi, degli «abbienti» e de’
«non abbienti», de’ ricchi e de’ poveri. E la storia non è
se non l’eterna lotta tra chi ha e chi non ha. Gli ordini
politici sono mezzi di equilibrio tra le classi. E sono liberi, quando hanno a fondamento l’«equalità». Perciò libertà non può essere, dove sono «gentiluomini» o classi
previlegiate.
È chiaro che una scienza o arte politica non è possibile, quando non abbia per base la conoscenza della mate-
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ria su che si ha a esercitare, cioè dell’uomo come individuo e come classe. Perciò una gran parte di questi Discorsi sono ritratti sociali delle moltitudini o delle plebi,
degli ottimati o gentiluomini, de’ principi, de’ francesi,
de’ tedeschi, degli spagnuoli, d’individui e di popoli. Sono ritratti finissimi per originalità di osservazione ed evidenza di esposizione, ne’ quali vien fuori il «carattere»,
cioè quelle forze che movono individui e popoli o classi
ad operare così o così. Le sue osservazioni sono frutto di
una esperienza propria e immediata; e perciò freschissime e vive anche oggi.
Poichè il carattere umano ha questa base comune,
che i desidèri o appetiti sono infiniti, e debole ed esitante è la virtù del conseguirli, hai disproporzione tra lo
scopo e i mezzi; onde nascono le oscillazioni e i disordini della storia. Perciò la scienza politica o l’arte di condurre e governare gli uomini ha per base la precisione
dello scopo e la virtù de’ mezzi; e in questa consonanza
è quella energia intellettuale, che fa grandi gli uomini e
le nazioni. La logica governa il mondo.
Questo punto di vista logico, preponderante nella
storia, comunica all’esposizione una calma intellettuale
piena di forza e di sicurezza, come di uomo che sa e vuole. Il cuore dell’uomo s’ingrandisce col cervello. Più uno
sa, e più osa. Quando la tempra è fiacca, di’ pure che
l’intelletto è oscuro. L’uomo allora non sa quello che
vuole, tirato in qua e in là dalla sua immaginazione e dalle sue passioni: com’è proprio del volgo.
Un’applicazione di questa implacabile logica è il Principe. Machiavelli biasima i principi che per fraude o per
forza tolgono la libertà a’ popoli. Ma, avuto lo Stato, indica loro con quali mezzi debbano mantenerlo. Lo scopo non è qui la difesa della patria, ma la conservazione
del principe: se non che il principe provvede a se stesso,
provvedendo allo Stato. L’interesse pubblico è il suo interesse. Libertà non può dare, ma può dare buone leggi
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
che assicurino l’onore, la vita, la sostanza de’ cittadini.
Dee mirare a procacciarsi il favore e la grazia del popolo, tenendo in freno i gentiluomini e gli uomini turbolenti. Governi i sudditi, non ammazzandoli, ma studiandoli e comprendendoli, «non ingannato da loro, ma
ingannando loro». Come stanno alle apparenze, il principe dee darsi tutte le buone apparenze, e non volendo
essere, parere almeno religioso, buono, clemente, protettore delle arti e degl’ingegni. Nè tema d’essere scoperto; perchè gli uomini sono naturalmente semplici e
creduli. Ciò che in loro ha più efficacia è la paura: perciò il principe miri a farsi temere più che amare. Soprattutto eviti di rendersi odioso o spregevole.
Chi legge il trattato De regimine principum di Egidio
Colonna vi troverà un magnifico mondo etico, senza alcun riscontro con la vita reale. Chi legge questo Principe
del Machiavelli, vi troverà un crudele mondo logico,
fondato sullo studio dell’uomo e della vita. L’uomo vi è
come natura, sottoposto nella sua azione a leggi immutabili, non secondo criteri morali, ma secondo criteri logici. Ciò che gli si dee domandare non è se quello che egli
fa sia buono o bello, ma se sia ragionevole o logico, se ci
sia coerenza tra’ mezzi e lo scopo. Il mondo non è governato dalla forza come forza, ma dalla forza come intelligenza. L’Italia non ti potea dare più un mondo divino ed etico: ti dà un mondo logico. Ciò che era in lei
ancora intatto era l’intelletto; e il Machiavelli ti dà il
mondo dell’intelletto, purgato dalle passioni e dalle immaginazioni.
Machiavelli bisogna giudicarlo da quest’alto punto di
vista. Ciò a cui mira è la serietà intellettuale, cioè la precisione dello scopo e la virtù di andarvi diritto senza
guardare a destra e a manca e lasciarsi indugiare o traviare da riguardi accessorii o estranei. La chiarezza
dell’intelletto non intorbidato da elementi soprannaturali o fantastici o sentimentali è il suo ideale. E il suo
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eroe è il domatore dell’uomo e della natura, colui che
comprende e regola le forze naturali e umane, e le fa
suoi istrumenti. Lo scopo può essere lodevole o biasimevole; e se è degno di biasimo, è lui il primo ad alzare
la voce e protestare in nome del genere umano. Veggasi
il capitolo decimo, una delle proteste più eloquenti che
sieno uscite da un gran cuore. Ma, posto lo scopo, la sua
ammirazione è senza misura per colui che ha voluto e saputo conseguirlo. La responsabilità morale è nello scopo, non è ne’ mezzi. Quanto ai mezzi, la responsabilità è
nel non sapere o nel non volere, nell’ignoranza o nella
fiacchezza. Ammette il terribile; non ammette l’odioso o
lo spregevole. L’odioso è il male fatto per libidine o per
passione o per fanatismo, senza scopo. Lo spregevole è
la debolezza della tempra, che non ti fa andare là dove
l’intelletto ti dice che pur bisogna andare.
Quando Machiavelli scrivea queste cose, l’Italia si trastullava ne’ romanzi e nelle novelle, con lo straniero a
casa. Era il popolo meno serio del mondo e meno disciplinato. La tempra era rotta. Tutti volevano cacciar lo
straniero, a tutti «puzzava il barbaro dominio»; ma erano velleità. E si comprende come il Machiavelli miri
principalmente a ristorare la tempra attaccando il male
nella sua radice. Senza tempra, moralità, religione, libertà, virtù sono frasi. Al contrario, quando la tempra si
rifà, si rifà tutto l’altro. E Machiavelli glorifica la tempra
anche nel male. Innanzi a lui è più uomo Cesare Borgia,
intelletto chiaro e animo fermo, ancorachè destituito
d’ogni senso morale, che il buon Pier Soderini, cima di
galantuomo, ma «anima sciocca», che per la sua incapacità e la sua fiacchezza perdette la repubblica.
Ma, se in Italia la tempra era infiacchita, lo spirito era
integro. Se da una parte Machiavelli poneva a base della
vita l’essere «uomo», iniziando l’età virile della forza intelligente, d’altra parte il motivo principale comico dello
spirito italiano nella sua letteratura romanzesca era ap-
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punto la forza incoerente, cioè a dire indisciplinata e
senza scopo. Il tipo cavalleresco, com’era concepito in
Italia, era ridicolo per questo, che si presentava all’immaginazione come un esercizio incomposto di una forza
gigantesca senza serietà di scopo e di mezzi, la forza come forza, e tutta la forza ne’ fini più seri e più frivoli: ciò
che rende così comici Morgante, Mandricardo, Fracasso.
Ci erano certo i fini cavallereschi, come la tutela delle
donne, la difesa degli oppressi, ma che parevano a quel
pubblico intelligente e scettico comici non altrimenti
che quegli effetti straordinari di forza corporale. Si può
dire di quei cavalieri foggiati dallo spirito italiano quello
che Doralice dicea a Mandricardo, quando lo vedea intestato a fare per una spada e uno scudo quello avea fatto per impossessarsi di lei: – Non fu amore che ti mosse,
«fu naturale ferita di core» – Lo spirito italiano adunque
da una parte metteva in caricatura il medio evo come un
giuoco disordinato di forze, e dall’altra gittava la base di
una nuova età su questo principio virile, che la forza è
intelligenza, serietà di scopo e di mezzi. Ciò che l’Italia
distruggeva, ciò che creava, rivelava una potenza intellettuale, che precorreva l’Europa di un secolo.
Ma in Italia c’era l’intelligenza e non ci era la forza. E
si credeva con la superiorità intellettuale di potere cacciar gli stranieri. Era una intelligenza adulta, svegliatissima, ma astratta, una logica formale nella piena indifferenza dello scopo. Era la scienza per la scienza, come
l’arte per l’arte. Nella coscienza non ci era più uno scopo, nè un contenuto. E quando la coscienza è vuota, il
cuore è freddo, e la tempra è fiacca anche nella maggiore virilità dell’intelletto. Il movimento dello spirito era
stato assolutamente negativo e comico. Agl’italiani era
più facile ridere delle forze indisciplinate che disciplinarsi, e più facile ridere degli stranieri che mandarli via.
Il frizzo era l’attestato della loro superiorità intellettuale
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e della loro decadenza morale. Mancava non la forza fisica, e non il coraggio che ne è la conseguenza, ma la
forza morale, che ci tenga stretti intorno ad una idea, e
risoluti a vivere e a morire per quella.
Machiavelli ebbe una coscienza chiarissima di questa
decadenza, o, com’egli diceva, «corruttela»:
«Qui, – scrive – è virtù grande nelle membra, quando la non
mancasse ne’ capi. Specchiatevi ne’ duelli e ne’ congressi de’
pochi, quanto gl’italiani siano superiori con le forze, con la destrezza, con l’ingegno.»
Pure l’Italia era corrotta, perchè difettiva di forze morali, e perciò di un degno scopo, che riempisse di sè la
coscienza nazionale Di lui è questo grande concetto: che
il nerbo della guerra non sono i danari, nè le fortezze, nè
i soldati, ma le forze morali, o, com’egli dice, il patriottismo e la disciplina. Di quella corruzione italiana la principal causa era il pervertimento religioso. Abbiamo di
lui queste memorabili parole, di cui Lutero era il comento:
«La ... religione, se ne’ princìpi della repubblica cristiana si
fosse mantenuta secondo che dal fondatore di essa fu ordinato,
sarebbero gli Stati e le repubbliche più felici e più unite ch’elle
non sono. Nè si può fare altra maggiore coniettura della declinazione d’essa, quanto è vedere come quelli popoli che sono
più propinqui alla Chiesa romana, capo della religione nostra,
hanno meno religione. Chi considerasse i fondamenti suoi e vedesse l’uso presente quanto è diverso da quelli, giudicherebbe
esser propinquo o la rovina o il flagello.»
Certo, non è ufficio grato dire dolorose verità al proprio paese, ma è un dovere, di cui l’illustre uomo sente
tutta la grandezza:
«Chi nasce in Italia e in Grecia, e non sia divenuto in Italia
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
oltramontano e in Grecia turco, ha ragione di biasimare i tempi suoi.»
Per lui è questo una sacra missione, un atto di patriottismo. Il suo sguardo abbraccia tutta la storia del mondo.
Vede tanta gloria in Assiria, in Media, in Persia, in Grecia, in Italia e Roma. Celebra il regno de’ Franchi, il regno de’ Turchi, quello del soldano, e le geste della «setta
saracina», e le virtù «de’ popoli della Magna» al tempo
suo. Lo spirito umano, immutabile e immortale, passa di
gente in gente e vi mostra la sua virtù. E quando gitta
l’occhio sull’Italia, il paragone lo strazia. Le sue più belle pagine storiche sono dove narra la decadenza di Genova, di Venezia, di altre città italiane in tanto fiorire degli Stati europei. Non adulare il suo paese, ma dirgli il
vero, fargli sentire la propria decadenza, perchè ne abbia vergogna e stimolo, descrivere la malattia e notare i
rimedi, gli pare ufficio d’uomo dabbene. Questo sentimento del dovere dà alle sue parole una grande elevatezza morale:
«Se la virtù che allora regnava e il vizio che ora regna non
fossero più chiari del sole, andrei nel parlare più rattenuto. Ma,
essendo la cosa sì manifesta che ciascuno la vede, sarò animoso
in dire manifestamente quello che intenderò di quelli e di questi tempi, acciocchè gli animi de’ giovani che questi miei scritti
leggeranno, possano fuggire questi e prepararsi ad imitar quelli... Perchè gli è ufficio di uomo buono, quel bene, che per la
malignità dei tempi e della fortuna non ha potuto operare, insegnarlo ad altri, acciocchè, sendone molti capaci, alcuno di
quelli più amati dal cielo possa operarlo.»
Queste parole sono un monumento. Ci si sente dentro
lo spirito di Dante.
Machiavelli tiene la sua promessa. Giudica con severità uomini e cose. Del papato tutti sanno quello che ha
scritto. Nè è più indulgente verso i principi:
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«Questi nostri principi, che erano stati molti anni nel principato loro, per averlo dipoi perso non accusino la fortuna, ma
l’ignavia loro; perchè, non avendo mai ne’ tempi quieti pensato
che possono mutarsi, ... quando poi vennero i tempi avversi,
pensarono a fuggirsi e non a difendersi.»
Degli avventurieri scrive:
«Il fine delle loro virtù è stato che [Italia] è stata corsa da
Carlo, predata da Luigi, forzata da Ferrando e vituperata da’
svizzeri; ... tanto che essi han condotto Italia schiava e vituperata.»
Nè è meno severo verso i gentiluomini, avanzi feudali,
rimasti vivi ed eterni in questa maravigliosa pittura:
«Gentiluomini sono chiamati quelli che oziosi vivono de’
proventi delle loro possessioni abbondantemente, senz’avere
alcuna cura o di coltivare o di alcuna altra necessaria fatica a vivere. Questi tali sono perniciosi in ogni provincia: ma più perniciosi sono quelli che oltre alle predette fortune comandano a
castella ed hanno sudditi che ubbidiscono a loro. Di queste
due sorte di uomini ne sono pieni il regno di Napoli, terra di
Roma, la Romagna e la Lombardia. Di qui nasce che in quelle
provincie non è stato mai alcuno vivere politico, perchè tali generazioni di uomini sono nemici di ogni civiltà.»
Degna di nota è qui l’idea, tutta moderna, che il fine
dell’uomo è il lavoro, e che il maggior nemico della civiltà è l’ozio: principio che ha gittato giù i conventi, ed
ha rovinato dalla radice non solo il sistema ascetico o
contemplativo, ma anche il sistema feudale, fondato su
questo fatto: che l’ozio de’ pochi vivea del lavoro de’
molti. Un uomo, che con una sagacia pari alla franchezza nota tutte le cause della decadenza italiana, potea ben
dire, accennando a Savonarola:
«Ond’è che a Carlo, re di Francia, fu lecito a pigliare Italia
col gesso; e chi diceva come di questo ne erano cagione i pec-
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cati nostri, diceva il vero; ma non erano già quelli che credeva,
ma questi ch’io ho narrati.»
Gli oziosi sono fatalisti. Spiegano tutto con la fortuna.
Anche allora de’ mali d’Italia accagionavano la mala sorte. Machiavelli scrive:
«La fortuna dimostra la sua potenza, dove non è ordinata
virtù a resisterle, e quivi volta i suoi impeti, dove la sa che non
sono fatti gli argini e i ripari a tenerla. E se voi considererete
l’Italia che è la sede di queste variazioni e quella che ha dato loro il moto, vedrete essere una campagna senza argini e senza
alcun riparo.»
Essendo l’Italia in quella corruttela, Machiavelli invoca un redentore, un principe italiano, che come Teseo o
Ciro o Mosè o Romolo, la riordini, persuaso che a riordinare uno Stato si richieda l’opera di un solo, a governarlo l’opera di tutti. Ne’ grandi pericoli i romani nominavano un dittatore: nell’estremo della corruzione
Machiavelli non vede altro scampo che nella dittatura:
«Cercando un principe la gloria del mondo, dovrebbe desiderare di possedere una città corrotta, non per guastarla in tutto, come Cesare, ma per riordinarla, come Romolo.»
Di Cesare scrive un giudizio originale rimasto celebre:
«Nè sia è alcuno che s’inganni per la gloria di Cesare, sentendolo massime celebrare dagli scrittori; perchè questi che lo
lodano sono corrotti dalla fortuna sua e spauriti dalla lunghezza dell’imperio, il quale, reggendosi sotto quel nome, non permetteva che gli scrittori pèarlassero liberamente di lui. Ma chi
vuol conoscere quello che gli scrittori liberi ne direbbero, vegga quello che dicono di Catilina. E tanto è più detestabile Cesare, quanto è più da biasimare quello che ha fatto, che quello
che ha voluto fare un male. Vegga pure con quante laudi celebrano Bruto; talchè non potendo biasimare quello per la sua
potenza, e’ celebrano il nimico suo... E conoscerà allora benis-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
simo quanti obblighi Roma, Italia, il mondo abbia con Cesare.»
Machiavelli promette, a chi prende lo Stato con la
forza, non solo l’amnistia, ma la gloria, quando sappia
ordinarlo:
«Considerino quelli a chi i cieli dànno tale occasione, come
sono loro proposte due vie: l’una che li fa vivere sicuri, e dopo
la morte gli rende gloriosi; l’altra li fa vivere in continue angustie, e dopo la morte lasciare di se una sempiterna infamia.»
Invoca egli dunque un qualche amato dal cielo, che
sani l’Italia dalle sue ferite, «e ponga fine ... a’ sacchi di
Lombardia, alle espilazioni e taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca di quelle sue piaghe già per lungo
tempo infistolite». È l’idea tradizionale del Redentore o
del Messia. Anche Dante invocava un messia politico, il
veltro. Se non che il salvatore di Dante ghibellino era
Arrigo di Lussemburgo, perchè la sua Italia era il giardino dell’impero; dove il salvatore di Machiavelli doveva
essere un principe italiano, perchè la sua Italia era nazione autonoma, e tutto ciò che era fuori di lei era straniero, barbaro, «oltramontano». Chi vuol vedere il progresso dello spirito italiano da Dante a Machiavelli, paragoni
la mistica e scolastica Monarchia dell’uno col Principe
dell’altro, così moderno ne’ concetti e nella forma.
L’idea del Machiavelli riuscì un’utopia, non meno che
l’idea di Dante. Ed oggi è facile assegnarne le cagioni.
«Patria», «libertà», «Italia», «buoni ordini», «buone armi», erano parole per le moltitudini, dove non era penetrato alcun raggio d’istruzione e di educazione. Le classi
colte, ritiratesi da lungo tempo nella vita privata, tra ozi
idillici e letterari, erano cosmopolite, animate dagl’interessi generali dell’arte e della scienza, che non hanno patria. Quell’Italia di letterati corteggiati e cortigiani perdeva la sua indipendenza, e non aveva quasi aria di
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accorgersene. Gli stranieri prima la spaventarono con la
ferocia degli atti e de’ modi; poi la vinsero con le moine,
inchinandola e celebrando la sua sapienza. E per lungo
tempo gl’italiani, perduta libertà e indipendenza, continuarono a vantarsi per bocca de’ loro poeti signori del
mondo, e a ricordare le avite glorie. Odio contro gli stranieri ce ne era, ed anche buona volontà di liberarsene.
Ma ci era così poca fibra, che di una redenzione italica
non ci fu neppure il tentativo. Nello stesso Machiavelli
fu una idea, e non sappiamo che abbia fatto altro di serio per giungere alla sua attuazione, che di scrivere un
magnifico capitolo, in un linguaggio rettorico e poetico
fuori del suo solito, e che testimonia più le aspirazioni di
un nobile cuore che la calma persuasione di un uomo
politico. Furono illusioni. Vedeva l’Italia un po’ a traverso de’ suoi desidèri. Il suo onore, come cittadino, e di
avere avuto queste illusioni. E la sua gloria, come pensatore, è di avere stabilito la sua utopia sopra elementi veri
e durevoli della società moderna e della nazione italiana,
destinati a svilupparsi in un avvenire più o meno lontano, del quale egli tracciava la via. Le illusioni del presente erano la verità del futuro.
Non è maraviglia che il Machiavelli con tanta esperienza del mondo, con tanta sagacia d’osservazione abbia avuto illusioni, perchè nella sua natura ci entrava
molto del poetico. Vedilo nell’osteria giocare con l’oste,
con un mugnaio, con due fornaciari a «picca» e a «tric
trac»:
«E ... nascono molte contese e molti dispetti di parole ingiuriose, e il più delle volte si combatte per un quattrino, e siamo
sentiti non di manco gridare da San Casciano.»
Questo non è che plebeo, ma diviene profondamente
poetico nel comento appostovi:
«Rinvolto in quella viltà, traggo il cervello di muffa, e sfogo
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
la malignità di questa mia sorte, sendo contento che mi calpesti
per quella via, per vedere se la se ne vergognasse.»
Vedilo tutto solo pel bosco con un Petrarca o con un
Dante «libertineggiare» con lo spirito, fantasticare, abbandonato alle onde dell’immaginazione.
«Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nello scrittoio; e
in sull’uscio mi spoglio quella veste contadina piena di fango e
di loto, e mi metto abiti regali e curiali, e vestito decentemente
entro nelle antiche corti degli antichi uomini; da’ quali ricevuto
amorevolmente, mi pasco del cibo che solum è mio; e non mi
vergogno di parlar con loro e domandarli delle loro azioni, ed
essi per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro
ore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo
la povertà, non mi sbigottisce la morte, tutto mi trasferisco in
loro.»
Quel «trasferirsi in loro», quel «libertineggiare» sono
frasi energiche di uno spirito contemplativo, estatico,
entusiastico. Ci è una parentela tra Dante e Machiavelli.
Ma è un Dante nato dopo Lorenzo de’ Medici, nutrito
dello spirito del Boccaccio, che si beffa della «divina
Commedia», e cerca la commedia in questo mondo.
Nella sua utopia è visibile una esaltazione dello spirito,
poetica e divinatrice. Ecco: il principe leva la bandiera,
grida: – Fuori i barbari! – A modo di Giulio. Il poeta è
lì; assiste allo spettacolo della sua immaginazione:
«Quali porte se gli serrerebbero? quali popoli gli negherebbero l’ubbidienza? quale invidia se gli opporrebbe? quale italiano gli negherebbe l’ossequio?»
E finisce co’ versi del Petrarca:
Virtù contra al furore
prenderà l’armi, e fia il combatter corto:
chè l’antico valore
negl’italici cor non è ancor morto.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Ma furono brevi illusioni. C’era nel suo spirito la bella
immagine di un mondo morale e civile, e di un popolo
virtuoso e disciplinato, ispirata dall’antica Roma: ciò che
lo fa eloquente ne’ suoi biasimi e nelle sue lodi. Ma era
un mondo poetico troppo disforme alla realtà, ed egli
medesimo è troppo lontano da quel tipo, troppo simile
per molte parti a’ suoi contemporanei. Ond’è che la sua
vera musa non è l’entusiasmo, è l’ironia. La sua aria beffarda congiunta con la sagacia dell’osservazione lo chiariscono uomo del Risorgimento De’ principi ecclesiastici scrive:
«Costoro soli hanno Stati e non gli difendono, hanno sudditi e non gli governano, e gli Stati per essere indifesi non sono
lor tolti, ed i sudditi per non essere governati non se ne curano,
nè pensano nè possono alienarsi da loro. ... Essendo quelli retti
da cagione superiore, alla quale la mente umana non aggiunge,
lascerò il parlarne; perchè, essendo esaltati e mantenuti da Dio,
sarebbe ufficio d’uomo temerario e presuntuoso il discorrerne.»
In tanta riverenza di parole non è difficile sorprendere sulle labbra di chi scrive quel piglio ironico che trovi
ne’ contemporanei. Famosi sono i suoi ritratti per l’originalità e vivacità dell’osservazione. De’ francesi e spagnuoli scrive:
«Il francese ruberia con l’alito, per mangiarselo e mandarlo
a male, e goderselo con colui a chi ha rubato: natura contraria
dello spagnuolo, che di quello che ti ruba, mai ne vedi nulla.»
Da questo profondo ed originale talento di osservazione, da questo spirito ironico uscì la Mandragola, l’alto
riso nel quale finirono le sue illusioni e i suoi disinganni.
Dopo i primi tentativi idillici, la commedia si era
chiusa nelle forme di Plauto e di Terenzio. L’Ariosto
scrivea per la corte di Ferrara; il cardinale di Bibbiena
scrivea per le corti di Urbino e di Roma. Vi si rappresen-
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tavano anche con molta magnificenza traduzioni dal latino. Talora gli attori erano fanciulli.
«Fu pur troppo nuova cosa, – scrive il Castiglione – vedere
vecchiettini lunghi un palmo servare quella gravità, quelli gesti
così severi, [simular] parasiti e ciò che fece mai Menandro.»
Accompagnamento alla commedia era la musica, e intermezzi o intromesse erano le «moresche», balli mimici.
Le decorazioni magnifiche. Nella rappresentazione della
Calandria in Urbino vedevi
«un tempio, ... tanto ben finito, – dice il Castiglione – che
non saria possibile a credere che fosse fatto in quattro mesi:
tutto lavorato di stucco, con istorie bellissime: finte le finestre
di alabastro, tutti gli architravi e le cornici d’oro fino e azzurro
oltramarino, ... figure intorno tonde finte di marmo, colonnette
lavorate... Da un de’ capi era un arco trionfale... Era finta di
marmo, ma era pittura, la storia delli tre Orazi, bellissima... In
cima dell’arco era una figura equestre bellissima, tutta tonda,
armata, con un bello atto, che ferìa con un’asta un nudo, che
gli era a’ piedi.»
L’Italia si vagheggiava colà in tutta la pompa delle sue
arti, architettura, scultura, pittura. Musiche bizzarre,
tutte nascoste e in diversi luoghi. Quattro intromesse,
una «moresca di Iasón» o Giasone, un carro di Venere,
un carro di Nettuno, un carro di Giunone. La prima intromessa è così descritta dal Castiglione:
«La prima fu una moresca di Iasón, il quale comparse nella
scena da un capo ballando, armato all’antica, bello, con la spada e una targa bellissima dall’altro furon visti in un tratto due
tori tanto simili al vero, che alcuni pensàrno che fosser veri,
che gittavano fuoco dalla bocca. A questi si accostò il buon Iasón, e feceli arare, posto loro il giogo e l’aratro, e poi seminò i
denti del dracone: e nacquero appoco appoco dal palco uomini armati all’antica, tanto bene quanto credo io che si possa. E
questi ballarono una fiera moresca, per ammazzare Iasón; e poi
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quando furono all’entrare, si ammazzavano ad uno ad uno, ma
non si vedeano morire. Dietro ad essi se n’entrò Iasòn, e subito
uscì col vello d’oro alle spalle, ballando eccellentissimamente,
e questo era il Moro, e questa fu la prima intromessa.»
Finita la commedia nacque sul palco all’improvviso un
Amorino, che dichiarò con alcune stanze il significato
delle intromesse. Poi
«si udì una musica nascosa di quattro viole, e poi quattro
voci con le viole, che cantarono una stanza con un bello aere di
musica, quasi una orazione ad Amore: e così fu finita la festa,
con grande satisfazione e piacere di chi la vide.»
dice sempre il Castiglione, l’autore del Cortigiano, che ci
ebbe non piccola parte ad ordinarla.
Cosa era questa Calandria, nella cui rappresentazione
Urbino e poi Roma sfoggiarono tanto lusso ed eleganza?
Il protagonista è Calandro, un facsimile di Calandrino, il
marito sciocco, motivo comico del Decamerone, rimasto
proverbiale in tutte le commedie e novelle. Non vi manca il negromante o l’astrologo che vive a spese de’ gonzi.
L’intreccio nasce da un fratello e una sorella similissimi
di figura, che vestiti or da uomo, or da donna generano
equivoci curiosissimi. Dov’è lo sciocco ci è anche il furbo, e il furbo è Fessenio, licenzioso, arguto, cinico, che
fa il mezzano al padrone, il cui pedagogo ci perde le sue
lezioni. Molto bella è una scena tra il pedagogo e Fessenio, il pedagogo che moralizza, e Fessenio che gli dà la
baia. Come si vede, l’argomento è di Plauto e il pensiero
è del Boccaccio. La tela è antica, lo spirito è moderno.
Assisti ad una rappresentazione di una delle più ciniche
novelle del Decamerone. Caratteri, costumi, lingua e stile, tutto è vivo e fresco: ci senti la scuola fiorentina del
Berni e del Lasca, l’alito di Lorenzo de’ Medici. È uno
sguardo allegro e superficiale gittato sul mondo. I carat-
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teri vi sono appena sbozzati; domina il caso e il capriccio; gli accidenti più strani si addossano gli uni sugli altri, crudi, senza sviluppo, più simili a’ balli mimici delle
intromesse che a vere e serie rappresentazioni. Pare che
quegli uomini non avessero tempo di pensare e non di
sentire, e che tutta la loro vita fosse esteriore, come la vita teatrale in certi tempi è stata tutta nelle gole de’ cantanti e nelle gambe delle ballerine. Queste erano le commedie dette «d’intreccio», sullo stesso stampo delle
novelle.
A prima vista ti pare alcuna cosa di simile la Mandragola. Anche ivi è grande varietà d’intreccio, con accidenti i più comici e più strani. Ma niente è lasciato al caso.
Machiavelli concepisce la commedia, come ha concepito
la storia. Il suo mondo comico è un gioco di forze, dotate ciascuna di qualità proprie, che debbono condurre
inevitabilmente al tale risultato. L’interesse è perciò tutto nei caratteri e nel loro sviluppo. Il protagonista è il
solito marito sciocco. Il suo Calandrino o Calandro è il
dottor Nicia, uomo istrutto e che sa di latino, gabbato
facilmente da uomini, che hanno minor dottrina di lui,
ma più pratica del mondo. Ci è già qui un concetto assai
più profondo che non è in Calandro: si sente il gran
pensatore. L’obbiettivo dell’azione comica è la moglie,
virtuosissima e prudentissima donna, vera Lucrezia. E si
tratta di vincerla non con la forza, ma con l’astuzia. Gli
antecedenti sono simili a quelli della Lucrezia romana.
Callimaco, come Sesto, sente vantar la sua bellezza, e lascia Parigi, e torna in Firenze sua patria, risoluto di farla
sua. La tragedia romana si trasforma nella commedia
fiorentina. Il mondo è mutato e rimpiccinito, Collatino è
divenuto Nicia.
Come Machiavelli ha potuto esercitare il suo ingegno a
scriver commedie?
Scusatelo con questo, che s’ingegna
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
con questi van pensieri
fare il suo tristo tempo più soave;
perchè altrove non ave
dove voltare il viso;
chè gli è stato interciso
mostrar con altre imprese altre virtue,
non sendo premio alle fatiche sue.
Cattivi versi, ma strazianti. Il suo riso è frutto di malinconia. Mentre Carlo ottavo correva Italia, Piero de’ Medici e Federigo d’Aragona si scrivevano i loro intrighi
d’amore, il cardinale da Bibbiena, «assassinato di amore», e il Bembo esalavano in lettere i loro sospiri, e l’uno
scrivea gli Asolani e l’altro la Calandria, e Machiavelli
parlava al deserto, ammonendo, consigliando, e non
udito e non curato, fece come gli altri, scrisse commedie, ed ebbe l’onore di far ridere molto il papa e i cardinali.
Callimaco, l’innamorato di Lucrezia, si associa all’impresa Ligurio, un parasito che usava in casa Nicia. Lo
sciocco è Nicia, il furbo è Ligurio, l’amico di casa, come
si direbbe oggi. Ligurio tiene le fila in mano, e fa movere
tutti gli attori a suo gusto, perchè conosce il loro carattere, ciò che li move.
Ligurio è un essere destituito d’ogni senso morale e
che per un buon boccone tradirebbe Cristo. Non ha bisogno di essere Iago, perchè Nicia non è Otello. E un
volgare mariuolo, che con un po’ più di spirito farebbe
ridere. Riesce odioso e spregevole, il peggior tipo d’uomo che abbia nel Principe concepito Machiavelli. Fessenio è più allegro e più spiritoso, perciò più tollerabile.
Ciò che move Ligurio e gli aguzza lo spirito è la pancia:
finisce le sue geste in cantina. Ma questo suo lato comico è appena indicato, e questa figura ti riesce volgare e
fredda.
Un altro associato di Callimaco è il suo servo Siro.
Costui ha poca parte, ma è assai ben disegnato. Ode tut-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
to, vede tutto, capisce tutto, ed ha aria di non udire, non
vedere e non capire: fa l’asino in mezzo a’ suoni. Ma
questo lato comico è poco sviluppato, e ti riesce anche
lui freddo. Ciò che non guasta nulla, essendo una parte
secondaria.
Colui che è dietro la scena e fa ballare i suoi figurini è
Ligurio. E sembra che l’ambizione di questo furfante sia
di nascondere sè, e mettere in vista tutto il suo mondo.
Poco interessante per se stesso, lo ammiri nella sua opera, e perdi lui di vista.
Callimaco è un innamorato: per aver la sua bella farebbe monete false. La parte odiosa è riversata sul capo
di Ligurio. A lui le smanie e i delirii. Non è amore petrarchesco, e non è cinica volgarità: è vero amor naturale
coi colori suoi, rappresentato con una esagerazione e
una bonomia che lo rende comico.
«... Mi fo di buon cuore, ma io ci sto poco su; perchè d’ogni
parte m’assalta tanto desio d’essere una volta con costei, ch’io
mi sento dalle piante de’ piè al capo tutto alterare: le gambe
tremano, le viscere si commuovono, il cuore mi si sbarba dal
petto, le braccia si abbandonano, la lingua diventa muta, gli
occhi abbarbagliano, il cervello mi gira.»
Ma queste sono figure secondarie. L’interesse è tutto
intorno al dottor Nicia, il marito sciocco, sì sciocco che
diviene istrumento inconsapevole dell’innamorato e lo
conduce lui stesso al letto nuziale. L’autore, molto sobrio intorno alle figure accessorie, concentra il suo spirito comico attorno a costui e lo situa ne’ modi più acconci a metterlo in lume. La sua semplicità è accompagnata
con tanta prosunzione di saviezza e con tanta sicurezza
di condotta, che l’effetto comico se ne accresce. E Ligurio non solo lo gabba, ma ci si spassa, e gli tiene sempre
la candela sul viso per farlo ben vedere agli spettatori.
Nelle ultime scene ci è una forza e originalità comica che
ha pochi riscontri nel teatro antico e moderno.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Il difficile non era gabbare Nicia, ma persuadere Lucrezia. L’azione, così comica per rispetto a Nicia, qui
s’illumina di una luce fosca e ti rivela inesplorate
profondità. Gl’istrumenti adoperati a vincer Lucrezia
sono il confessore e la madre, la venalità dell’uno, l’ignoranza superstiziosa dell’altra. E Machiavelli, non che voglia palliare, qui è terribilmente ignudo, scopre senza
pietà quel putridume Sostrata, la madre, in poche pennellate è ammirabilmente dipinta. È una brava donna,
ma di poco criterio, e avvezza a pensare col cervello del
suo confessore. Alle ragioni della figliuola risponde: – Io
non ti so dire tante cose, figliuola mia. Tu parlerai al frate, vedrai quello che ti dirà, e farai quello che tu di poi
sarai consigliata da lui, da noi e da chi ti vuol bene –. E
non si parte mai di là, è la sua idea fissa, la sua sola idea:
– T’ho detto e ridicoti che se fra Timoteo ti dice che non
ci sia carico di coscienza, che tu lo faccia senza pensarvi
–. Il confessore sa perfettamente che madre è questa. «...
È ... una bestia, – dice – e sarammi un grande aiuto a
condurre Lucrezia alle mie voglie». –
Il carattere più interessante è fra Timoteo, il precursore di Tartufo, meno artificiato, anzi tutto naturale. Fa
bottega della chiesa, della Madonna, del purgatorio. Ma
gli uomini non ci credono più, e la bottega rende poco.
E lui aguzza l’ingegno. Se la prende co’ frati, che non
sanno mantenere la riputazione dell’immagine miracolosa della Madonna:
«Io dissi mattutino, lessi una Vita de’ santi padri, andai in
chiesa, ed accesi una lampada ch’era spenta, mutai il velo a una
Madonna che fa miracoli. Quante volte ho io detto a questi frati che la tengano pulita? E si maravigliano poi che la divozione
manca. Oh quanto poco cervello e in questi mia frati!»
Il suo primo ingresso sulla scena è pieno di significato:
còlto sul fatto in un dialogo con una sua penitente, pittura di costumi profonda nella sua semplicità. Sta spesso
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in chiesa, perchè «in chiesa vale più la sua mercanzia». È
di mediocre levatura, buono a uccellar donne:
«... Madonna Lucrezia è savia e buona. Ma io la giungerò in
su la bontà, e tutte le donne hanno poco cervello, e come n’e
una che sappia dire due parole, e’ se ne predica; perchè in terra di ciechi chi ha un occhio è signore.»
Conosce bene i suoi polli:
«Le più caritative persone che sieno son le donne, e le più
fastidiose. Chi le scaccia, fugge i fastidi e l’utile; chi le intrattiene, ha l’utile e i fastidi insieme. Ed è vero che non è il mele senza le mosche.»
Biascica paternostri e avemarie, e usa i modi e il linguaggio del mestiere con la facilità indifferente e meccanica
dell’abitudine. A Ligurio che, promettendo larga limosina, lo richiede che procuri un aborto, risponde: – Sia col
nome di Dio, facciasi ciò che volete, e per Dio e per carità sia fatta ogni cosa. ... Datemi ... cotesti danari, da
poter cominciare a far qualche bene –. Parla spesso solo,
e si fa il suo esame, e si dà l’assoluzione, sempre che glie
ne venga utile:
«Messer Nicia e Callimaco son ricchi, e da ciascuno per diversi rispetti sono per trarre assai. La cosa conviene che stia segreta, perché l’importa così a loro dirla come a me. Sia come si
voglia, io non me ne pento.»
Se mostra inquietudine, è per paura che si sappia:
«Dio sa ch’io non pensava a ingiuriare persona: stavami nella mia cella, diceva il mio ufficio, intratteneva i miei divoti. Capitommi innanzi questo diavolo di Ligurio, che mi fece intignere il dito in un errore, donde io vi ho messo il braccio e tutta la
persona, e non so ancora dov’io m’abbia a capitare. Pure mi
conforto che quando una cosa importa a molti, molti ne hanno
aver cura.»
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Questo è l’uomo, a cui la madre conduce la figliuola. Il
frate spiega tutta la sua industria a persuaderla, e non si
fa coscienza di adoperarvi quel poco che sa del Vangelo
e della storia sacra.
«Io son contenta, – conchiude Lucrezia – ma non credo mai
esser viva domattina».
E il frate risponde:
«Non dubitare, figliuola mia, io pregherò Dio per te, io dirò
l’orazione dell’angiolo Raffaello, che t’accompagni. Andate in
buon’ora, e preparatevi a questo misterio, che si fa sera. – Rimanete in pace, padre –»
dice la madre, e la povera Lucrezia, che non è ben persuasa, sospira:
«Dio m’aiuti e la nostra Donna che non càpiti male».
Quel fatto il frate lo chiama un «misterio», e il mezzano
è l’angiol Raffaello!
Queste cose movevano indignazione in Germania e
provocavano la Riforma. In Italia facevano ridere. E il
primo a ridere era il papa. Quando un male diviene così
sparso dappertutto e così ordinario che se ne ride, è cancrena, e non ha rimedio.
Tutti ridevano. Ma il riso di tutti era buffoneria, passatempo. Nel riso di Machiavelli ci è alcun che di tristo e
di serio, che oltrepassa la caricatura, e nuoce all’arte.
Evidentemente, il poeta non piglia confidenza con Timoteo, non lo situa come fa di Nicia, non ci si spassa, se
ne sta lontano, quasi abbia ribrezzo. Timoteo è anima
secca, volgare e stupida, senz’immaginazione e senza
spirito, non è abbastanza idealizzato, ha colori troppo
crudi e cinici. Lo stile nudo e naturale ha aria più di di-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
scorso che di dialogo. Senti meno il poeta che il critico,
il grande osservatore e ritrattista.
Appunto perciò la Mandragola è una commedia che
ha fatto il suo tempo. È troppo incorporata in quella società, in ciò ch’ella ha di più reale e particolare. Quei
sentimenti e quelle impressioni, che la ispirarono, non li
trovi oggi più. La depravazione del prete e la sua terribile influenza sulla donna e sulla famiglia appare a noi un
argomento pieno di sangue: non possiamo farne una
commedia. Machiavelli stesso, che trova tanti lazzi nella
pittura di Nicia, qui perde il suo buon umore e la sua
grazia, e mi assimiglia piuttosto un anatomico, che nuda
le carni e mostra i nervi e i tendini. Nella sua immaginazione non ci è il riso e non ci è l’indignazione al cospetto
di Timoteo: c’è quella spaventevole freddezza con la
quale ritrae il principe, o l’avventuriere o il gentiluomo.
Sono come animali strani, che, curioso osservatore, egli
analizza e descrive, quasi faccia uno studio, estraneo alle
emozioni e alle impressioni.
La Mandragola è la base di tutta una nuova letteratura. È un mondo mobile e vivace, che ha varietà, sveltezza, curiosità, come un mondo governato dal caso. Ma
sotto queste apparenze frivole si nascondono le più
profonde combinazioni della vita interiore. L’impulso
dell’azione viene da forze spirituali, inevitabili come il
fato. Basta conoscere i personaggi, per indovinare la fine. Il mondo è rappresentato come una conseguenza, le
cui premesse sono nello spirito o nel carattere, nelle forze che lo movono. E chi meglio sa calcolarle, colui vince.
Il soprannaturale, il maraviglioso, il caso sono detronizzati. Succede il carattere. Quello che Machiavelli è nella
storia e nella politica, è ancora nell’arte.
Si distinsero due specie di commedie, «d’intreccio» e
«di carattere». «Commedia d’intreccio» fu detta, dove
l’interesse nasce dagli sviluppi dell’azione, come erano
tutte le commedie e novelle di quel tempo e anche trage-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
die. Si cercava l’effetto nella stranezza e nella complicazione degli accidenti. Commedia di carattere fu detta,
dove l’azione è mezzo a mettere in mostra un carattere.
E sono definizioni viziose. Hai da una parte commedie
sbardellate per troppo cumulo d’intrighi, dall’altra commedie scarne per troppa povertà d’azione. Machiavelli
riunisce le due qualità. La sua commedia è una vera e
propria azione, vivacissima di movimenti e di situazioni,
animata da forze interiori, che ci stanno come forze o
istrumenti, e non come fini o risultati. Il carattere è messo in vista vivo, come forza operante, non come qualità
astratta. Ciò che di più profondo ha il pensiero esce fuori sotto le forme più allegre e più corpulente fino della
più volgare e cinica buffoneria, come è il «Don Cuccù»,
e la «palla di aloè». Ci è lì tutto Machiavelli, l’uomo che
giocava all’osteria e l’uomo che meditava allo scrittoio.
Di ogni scrittore muore una parte. E anche del Machiavelli una parte è morta, quella per la quale e venuto
a trista celebrità. È la sua parte più grossolana, è la sua
scoria quella che ordinariamente è tenuta parte sua vitale, così vitale che è stata detta il «machiavellismo» Anche oggi, quando uno straniero vuol dire un complimento all’Italia, la chiama patria di Dante e di
Savonarola e tace di Machiavelli. Noi stessi non osiamo
chiamarci «figli di Machiavelli». Tra il grande uomo e
noi ci è il machiavellismo. È una parola, ma una parola
consacrata dal tempo, che parla all’immaginazione e ti
spaventa come fosse l’orco.
Del Machiavelli è avvenuto quello che del Petrarca. Si
è chiamato «petrarchismo» quello che in lui è un incidente ed è il tutto ne’ suoi imitatori. E si è chiamato
«machiavellismo» quello che nella sua dottrina è accessorio e relativo, e si è dimenticato quello che vi è di assoluto e di permanente. Così è nato un Machiavelli di convenzione, veduto da un lato solo e dal meno
interessante. È tempo di rintegrare l’immagine.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Ci è nel Machiavelli una logica formale e c’è un contenuto.
La sua logica ha per base la serietà dello scopo, ciò
ch’egli chiama «virtù». Proporti uno scopo, quando non
puoi o non vuoi conseguirlo, è da femmina. Essere uomo significa «marciare allo scopo». Ma nella loro marcia
gli uomini errano spesso, perchè hanno l’intelletto e la
volontà intorbidata da fantasmi e da sentimenti, e giudicano secondo le apparenze. Sono spiriti fiacchi e deboli
quelli che stimano le cose, come le paiono e non come le
sono: a quel modo che fa la plebe. Cacciar via dunque
tutte le vane apparenze, e andare allo scopo con lucidità
di mente e fermezza di volontà, questo è essere un uomo, aver la stoffa d’uomo. Quest’uomo può essere un tiranno o un cittadino, un uomo buono o un tristo. Ciò è
fuori dell’argomento, è un altro aspetto dell’uomo. Ciò a
che guarda Machiavelli è di vedere se è un uomo ciò a
che mira è rifare le radici alla pianta «uomo» in declinazione. In questa sua logica la virtù è il carattere o la tempra, e il vizio è l’incoerenza, la paura, l’oscillazione.
Si comprende che in questa generalità ci è lezioni per
tutti, pe’ buoni e pe’ birbanti, e che lo stesso libro sembra agli uni il codice de’ tiranni, e agli altri il codice degli uomini liberi. Ciò che vi s’impara è di essere un uomo, come base di tutto il resto. Vi s’impara che la storia,
come la natura, non è regolata dal caso, ma da forze intelligenti e calcolabili, fondate sulla concordanza dello
scopo e de’ mezzi; e che l’uomo, come essere collettivo o
individuo, non è degno di questo nome, se non sia anch’esso una forza intelligente, coerenza di scopo e di
mezzi. Da questa base esce l’età virile del mondo, sottratta possibilmente all’influsso dell’immaginazione e
delle passioni, con uno scopo chiaro e serio, e con mezzi
precisi.
Questo è il concetto fondamentale, l’obbiettivo del
Machiavelli. Ma non è principio astratto e ozioso: ci è
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
un contenuto, che abbiamo già delineato ne’ tratti essenziali.
La serietà della vita terrestre, col suo istrumento, il lavoro; col suo obbiettivo, la patria; col suo principio,
l’eguaglianza e la libertà; col suo vincolo morale, la nazione, col suo fattore, lo spirito o il pensiero umano, immutabile ed immortale, col suo organismo, lo Stato, autonomo e indipendente, con la disciplina delle forze,
con l’equilibrio degl’interessi, ecco ciò che vi è di assoluto e di permanente nel mondo del Machiavelli, a cui è di
corona la gloria, cioè l’approvazione del genere umano,
ed è di base la virtù o il carattere, «agere et pati fortia».
Il fondamento scientifico di questo mondo è la cosa effettuale, come te la porge l’esperienza e l’osservazione.
L’immaginazione, il sentimento, l’astrazione sono così
perniciosi nella scienza, come nella vita. Muore la scolastica, nasce la scienza.
Questo è il vero machiavellismo, vivo, anzi giovane
ancora. È il programma del mondo moderno, sviluppato, corretto, ampliato, più o meno realizzato. E sono
grandi le nazioni che più vi si avvicinano. Siamo dunque
alteri del nostro Machiavelli. Gloria a lui, quando crolla
alcuna parte dell’antico edificio. E gloria a lui, quando si
fabbrica alcuna parte del nuovo. In questo momento
che scrivo, le campane suonano a distesa, e annunziano
l’entrata degl’Italiani a Roma. Il potere temporale crolla.
E si grida il «viva» all’unità d’Italia. Sia gloria al Machiavelli.
Scrittore, non solo profondo, ma simpatico. Perchè
nelle sue transazioni politiche discerni sempre le sue vere inclinazioni. Antipapale, antimperiale, antifeudale, civile, moderno e democratico. E quando, stretto dal suo
scopo, propone certi mezzi, non di rado s’interrompe,
protesta, ha quasi aria di chiederti scusa e di dirti: –
Guarda che siamo in tempi corrotti; e se i mezzi son
questi, e il mondo è fatto così, la colpa non è mia. –
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Ciò che è morto del Machiavelli non è il sistema, è la
sua esagerazione. La sua «patria» mi rassomiglia troppo
l’antica divinità, e assorbe in sè religione, moralità, individualità. Il suo «Stato» non è contento di essere autonomo esso, ma toglie l’autonomia a tutto il rimanente.
Ci sono i dritti dello Stato: mancano i dritti dell’uomo.
La «ragione di Stato» ebbe le sue forche, come l’Inquisizione ebbe i suoi roghi, e la «salute pubblica» le sue
mannaie. Fu stato di guerra e in quel furore di lotte religiose e politiche ebbe la sua culla sanguinosa il mondo
moderno. Dalla forza uscì la giustizia. Da quelle lotte
uscì la libertà di coscienza, l’indipendenza del potere civile e più tardi la libertà e la nazionalità. E se chiamate
machiavellismo quei mezzi, vogliate chiamare anche machiavellismo quei fini. Ma i mezzi sono relativi e si trasformano, sono la parte che muore: i fini rimangono
eterni. Gloria del Machiavelli è il suo programma, e non
è sua colpa che l’intelletto gli abbia indicati de’ mezzi, i
quali la storia posteriore dimostrò conformi alla logica
del mondo. Fu più facile il biasimarli, che sceglierne altri. Dura lex, sed ita lex.
Certo, oggi il mondo è migliorato in questo aspetto.
Certi mezzi non sarebbero più tollerati, e produrrebbero un effetto opposto a quello che se ne attendeva Machiavelli, allontanerebbero dallo scopo. L’assassinio politico, il tradimento, la frode, le sette, le congiure sono
mezzi che tendono a scomparire. Presentiamo già tempi
più umani e civili, dove non sieno più possibili la guerra,
il duello, le rivoluzioni, le reazioni, la ragion di Stato e la
salute pubblica. Sarà l’età dell’oro. Le nazioni saranno
confederate, e non ci sarà altra gara che d’industrie, di
commerci e di studi.
È un bel programma. E quantunque sembri un’utopia, non dispero. Ciò che lo spirito concepisce, presto o
tardi viene a maturità. Ho fede nel progresso e nell’avvenire.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Ma siamo ben lontani dal Machiavelli. E anche da’
nostri tempi. E non è co’ criteri di un mondo nascosto
ancora nelle ombre dell’avvenire che possiamo giudicare e condannare Machiavelli. Anche oggi siamo costretti
a dire: – Crudele è la logica della storia; ma quella è. –
Nel machiavellismo ci è una parte variabile nella qualità e nella quantità, relativa al tempo, al luogo, allo stato
della coltura, alle condizioni morali de’ popoli. Questa
parte, che riguarda i mezzi, è molto mutata, e muterà in
tutto, quando la società sia radicalmente rinnovata. Ma
la teoria de’ mezzi è assoluta ed eterna, perchè fondata
sulle qualità immutabili della natura umana. Il principio, dal quale si sviluppa quella teoria, è questo, che i
mezzi debbono avere per base l’intelligenza e il calcolo
delle forze che movono gli uomini. È chiaro che in queste forze c’è l’assoluto e il relativo, e il torto del Machiavelli, comunissimo a tutt’i grandi pensatori, è di avere
espresso in modo assoluto tutto, anche ciò che è essenzialmente relativo e variabile.
Il machiavellismo, in ciò che ha di assoluto o di sostanziale, è l’uomo considerato come un essere autonomo e bastante a se stesso, che ha nella sua natura i suoi
fini e i suoi mezzi, le leggi del suo sviluppo, della sua
grandezza e della sua decadenza, come uomo e come società. Su questa base sorgono la storia, la politica, e tutte
le scienze sociali. Gl’inizi della scienza sono ritratti, discorsi, osservazioni di uomo che alla coltura classica unisca esperienza grande, e un intelletto chiaro e libero.
Questo è il machiavellismo, come scienza e come metodo. Ivi il pensiero moderno trova la sua base e il suo linguaggio. Come contenuto, il machiavellismo su’ rottami
del medio evo abbozza un mondo intenzionale, visibile
tra le transazioni e i vacillamenti dell’uomo politico, un
mondo fondato sulla patria, sulla nazionalità, sulla libertà, sull’uguaglianza, sul lavoro, sulla virilità e serietà
dell’uomo.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
In letteratura, l’effetto immediato del machiavellismo
è la storia e la politica emancipate da elementi fantastici,
etici, sentimentali, e condotte in forma razionale; è il
pensiero volto agli studi positivi dell’uomo e della natura, messe da parte le speculazioni teologiche e ontologiche; è il linguaggio purificato della scoria scolastica e del
meccanismo classico, e ridotto nella forma spedita e naturale della conversazione e del discorso. È l’ultimo e
più maturo frutto del genio toscano. Su questa via incontriamo prima Francesco Guicciardini con tutti gli
scrittori politici della scuola fiorentina e veneta, poi Galileo Galilei con la sua illustre coorte di naturalisti.
Francesco Guicciardini, ancorche di pochi anni più
giovane di Machiavelli e di Michelangiolo, già non sembra della stessa generazione. Senti in lui il precursore di
una generazione più fiacca e più corrotta, della quale
egli ha scritto il vangelo ne’ suoi Ricordi. Ha le stesse
aspirazioni del Machiavelli. Odia i preti. Odia lo straniero. Vuole l’Italia unita. Vuole anche la libertà, concepita
a modo suo, con una immagine di governo stretto e temperato, che si avvicina a’ presenti ordini costituzionali o
misti. Ma sono semplici desidèri, e non metterebbe un
dito a realizzarli.
«Tre cose, – scrive – desidero vedere innanzi alla mia morte,
ma dubito, ancora che vivessi molto, non ne vedere alcuna:
uno vivere di repubblica bene ordinato nella città nostra, Italia
liberata da tutt’i barbari, e liberato il mondo della tirannide di
questi scelerati preti.»
Una libertà bene ordinata, l’indipendenza e l’autonomia delle nazioni, l’affrancamento del laicato, ecco il
programma del Machiavelli, divenuto il testamento del
Guicciardini, e che oggi è ancora la bandiera di tutta la
parte liberale e civile europea.
Si può credere che questi fossero i desidèri anche delle classi colte. Ma erano amori platonici, senza influsso
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
nella pratica della vita. Il ritratto di quella società è il
Guicciardini, che scrive: «Conoscere non è mettere in
atto». Altro è desiderare, altro è fare. La teoria non è la
pratica. Pensa come vuoi, ma fa come ti torna. La regola
della vita è «l’interesse proprio», «il tuo particolare».
Il Guicciardini biasima «l’ambizione, l’avarizia e la
mollizie de’ preti» e il dominio temporale ecclesiastico;
ama Martino Lutero, «per vedere ridurre questa caterva
di scelerati a’ termini debiti, cioè a restare o senza vizi o
senza autorità»; ma «per il suo particolare» è necessitato
«amare la grandezza de’ pontefici» e servire a’ preti e al
dominio temporale. Vuole emendata la religione in molte parti; ma non ci si mescola, lui, «non combatte con la
religione, nè con le cose, che pare che dependono da
Dio; perchè questo obbietto ha troppa forza nella mente
delli sciocchi». Ama la gloria e desidera di fare «cose
grandi ed eccelse», ma a patto che non sia «con suo danno o incomodità». Ama la patria, e, se perisce, glie ne
duole, non per lei, perchè «così ha a essere», ma per sè,
«nato in tempi di tanta infelicità». È zelante del ben
pubblico, ma «non s’ingolfa tanto nello Stato» da mettere in quello tutta la sua fortuna. Vuole la libertà, ma
quando la sia perduta, non è bene fare mutazioni, perchè «mutano i visi delle persone, non le cose, e non puoi
fare fondamento sul populo», e quando la vada male, ti
tocca «la vita spregiata del fuoruscita». Miglior consiglio
è portarsi in modo che quelli che «governano non ti abbiano in sospetto e neppure ti pongano fra’ malcontenti». Quelli che altrimenti fanno, sono uomini «leggieri».
Molti, è vero, gridano libertà, ma «in quasi tutti prepondera il rispetto dell’interesse suo». Essendo il mondo
fatto così, hai a pigliare il mondo com’è, e condurti di
guisa che non te ne venga danno, anzi la maggiore comodità possibile. Così fanno gli uomini «savi».
La corruttela italiana era appunto in questo, che la
coscienza era vuota, e mancava ogni degno scopo alla vi-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ta. Machiavelli ti addita in fondo al cammino della vita
terrestre la patria, la nazione, la libertà. Non ci è più il
cielo per lui, ma ci è ancora la terra. Il Guicciardini ammette anche lui questi fini, come cose belle e buone e
desiderabili, ma li ammette sub conditione, a patto che
sieno conciliabili col tuo «particulare», come dice, cioè
col tuo interesse personale. Non crede alla virtù, alla generosità, al patriottismo, al sacrificio, al disinteresse. Ne’
più prepondera l’interesse proprio, e mette se francamente tra questi più, che sono i savi: gli altri li chiama
«pazzi», come furono i fiorentini, che «vollero contro
ogni ragione opporsi», quando «i savi di Firenze avrebbono ceduto alla tempesta», e intende dell’assedio di Firenze, illustrato dall’eroica resistenza di quei pazzi, tra’
quali erano Michelangelo e Ferruccio. Machiavelli combatte la corruttela italiana, e non dispera del suo paese.
Ha le illusioni di un nobile cuore. Appartiene a quella
generazione di patrioti fiorentini, che in tanta rovina
cercavano i rimedi, e non si rassegnavano, e illustrarono
l’Italia con la loro caduta. Nel Guicciardini comparisce
una generazione già rassegnata. Non ha illusioni. E perchè non vede rimedio a quella corruttela, vi si avvolge
egli pure, e ne fa la sua saviezza e la sua aureola. I suoi
Ricordi sono la corruttela italiana codificata e innalzata a
regola della vita.
Il dio del Guicciardini è il suo particolare. Ed è un
dio non meno assorbente che il Dio degli ascetici, o lo
Stato del Machiavelli. Tutti gl’ideali scompariscono.
Ogni vincolo religioso, morale, politico, che tiene insieme un popolo, è spezzato. Non rimane sulla scena del
mondo che l’individuo. Ciascuno per sè, verso e contro
tutti. Questo non è più corruzione, contro la quale si
gridi: è saviezza, è dottrina predicata e inculcata, è l’arte
della vita.
Il Guicciardini si crede più savio del Machiavelli, perchè non ha le sue illusioni. Quel venir fuori sempre con
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l’antica Roma lo infastidisce, e rompe in questo motto
sanguinoso:
«Quanto s’ingannano coloro che ad ogni parola allegano i
romani! Bisognerebbe avere una città condizionata com’era la
loro, e poi governarsi secondo quello esemplo: il quale a chi ha
le qualità disproporzionate è tanto disproporzionato, quanto
sarebbe volere che uno asino facesse il corso di un cavallo.»
In questo concetto della vita il Guicciardini è di così
buona fede, che non sente rimorso, e non mostra la menoma esitazione, e guarda con un’aria di superiorità
sprezzante gli uomini che fanno altrimenti. Il che avviene, a suo avviso, non per virtù o altezza d’animo, ma
«per debolezza di cervello», avendo offuscato lo spirito
dalle apparenze, dalle impressioni, dalle vane immaginazioni e dalle passioni. Ci si vede l’ultimo risultato a cui
giunge lo spirito italiano, già adulto e progredito, che
caccia via l’immaginazione e l’affetto e la fede, ed è tutto
e solo cervello, o, come dice il Guicciardini, «ingegno
positivo».
Perchè l’ingegno sia positivo si richiede la «prudenza
naturale», la «dottrina» che dà le regole, l’«esperienza»
che dà gli esempli, e il «naturale buono», tale cioè che
stia al reale, e non abbia illusioni. E non basta. Si richiede anche la «discrezione» o il discernimento, perchè è
«grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e per dire così per regola, perchè
quasi tutte hanno distinzione e eccezione, e queste distinzioni e eccezioni non si trovano scritte in su’ libri,
ma bisogna lo insegni la discrezione». Il vero libro della
vita è dunque «il libro della discrezione», a leggere il
quale si richiede da natura «buono e perspicace occhio». La dottrina sola non basta, e non è bene stare al
giudicio di quelli che scrivono, e in ogni cosa «volere vedere ognuno che scrive: così quello tempo che s’arebbe
a mettere in speculare, si consuma a leggere libri con
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
stracchezza d’animo e di corpo, in modo che l’ha quasi
più similitudine a una fatica di facchini che di dotti».
L’uomo positivo vede il mondo altro da quello che
«a’ volgari» pare. Non crede agli astrologi, ai teologi, a’
filosofi e a tutti quelli che scrivono le cose sopra natura,
o che non si veggono, «e dicono mille pazzie: perchè in
effetti gli uomini sono al buio delle cose, e questa indagazione ha servito e serve più a esercitare gl’ingegni che
a trovare la verità».
Questa base intellettuale è quella medesima del Machiavelli, l’esperienza e l’osservazione, il fatto e lo «speculare» o l’osservare. Nè altro è il sistema. Il Guicciardini nega tutto quello che il Machiavelli nega, e in forma
anche più recisa, e ammette quello che il Machiavelli
ammette. Ma è più logico e più conseguente. Poichè la
base è il mondo com’è, crede un’illusione a volerlo riformare, e volergli dare le gambe di cavallo, quando esso le
ha di asino, e lo piglia com’è e vi si acconcia, e ne fa la
sua regola e il suo istrumento. Conoscere non è mettere
in atto. Ciò che è nella tua mente e nella tua coscienza
non può essere di regola alla tua vita. Vivere è conoscere
il mondo e voltarlo a benefizio tuo. Tienti bene con tutti, perchè «gli uomini si riscontrano». Stai con chi vince,
perchè «te ne viene parte di lode e di premio». «Abbi
appetito della roba», perchè la ti dà riputazione, e la povertà è spregiata. Sii schietto, perchè, «quando sia il caso
di simulare, più facilmente acquisti fede». Sii stretto nello spendere, perchè «più onore ti fa uno ducato che tu
hai in borsa, che dieci che tu ne hai spesi». Studia di
«parere buono», perchè «il buon nome vale più che
molte ricchezze». Non meritarti nome di sospettoso,
ma, perchè più sono i cattivi che i buoni, «credi poco e
fidati poco», Questo è il succo dell’arte della vita seguita
da’ più, ancorchè con qualche ipocrisia, come se ne vergognassero. Ma il Guicciardini ne fa un codice, fondato
sul divorzio tra l’uomo e la coscienza, e sull’interesse in-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
dividuale. È il codice di quella borghesia italiana, tranquilla, scettica, intelligente e positiva, succeduta a’ codici d’amore e alle regole della cavalleria.
Ma il Guicciardini con tutta la sua saviezza trovò un
altro più savio di lui, e volendo usare Cosimo a benefizio
suo, avvenne che fu lui istrumento di Cosimo. Così finì
la vita, come il Machiavelli, nella solitudine e nell’abbandono. Ebbe anche lui le sue illusioni e i suoi disinganni, meno nobili, meno degni della posterità, perchè
si riferivano al suo particolare. Ritirato nella sua villa
d’Arcetri, usò gli ozi a scrivere la Storia d’Italia.
Se guardiamo alla potenza intellettuale, è il lavoro più
importante che sia uscito da mente italiana. Ciò che lo
interessa non è la scena, la parte teatrale o poetica, sulla
quale facevano i loro esercizii rettorici il Giovio, il Varchi, il Giambullari e gli altri storici. I fatti più maravigliosi o commoventi sono da lui raccontati con una certa
sprezzatura, come di uomo che ne ha viste assai e non si
maraviglia e non si commove più di nulla. Non ha simpatie e antipatie, non ha tenerezze e indignazioni, e neppure ha programmi e preconcetti intorno a’ risultati generali dei fatti e alle sorti del suo paese. Il suo intelletto
chiaro e tranquillo è chiuso in sè, e non vi entra nulla dal
di fuori che lo turbi o lo svii. È l’intelletto positivo, con
quelle qualità che abbiamo notate, e che in lui sono
egregie, la prudenza naturale, la dottrina, l’esperienza, il
naturale buono e la discrezione. Maravigliosa è soprattutto la sua discrezione nel non riconoscere princìpi, nè
regole assolute, e giudicare caso per caso, guardando in
ciascun fatto la sua individualità, quel complesso di circostanze sue proprie, che lo fanno esser quello e non un
altro: dov’è la vera distinzione tra il pedante e l’uomo
d’ingegno. Con queste disposizioni è naturale che lo interessa meno la scena che il dietroscena, dove penetra
con sicurezza il suo occhio perspicace. Ha comune col
Machiavelli il disprezzo della superficie, di ciò che si ve-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
de e si dice il parere, e lo studio dell’essere, di ciò che è
al di sotto, e che non si vede. Hai innanzi non la sola descrizione de’ fatti, ma la loro genesi e la loro preparazione, li vedi nascere e svilupparsi. I motivi più occulti e
vergognosi sono rivelati con la stessa calma di spirito
che i motivi più nobili. Ciò che l’interessa non è il carattere etico o morale di quelli, ma la loro azione su’ fatti. Il
motivo determinante è l’interesse, ed è sagacissimo
nell’indagazione non meno degl’interessi privati che degl’interessi detti pubblici, e sono interessi di re e di corti. Ma gl’interessi hanno la loro ipocrisia, e si nascondono sotto il manto di fini più nobili, come la gloria,
l’onore, la libertà, l’indipendenza, fini che escono in
mezzo, quando si vuol cattivare i popoli o gli eserciti. Di
che nasce, massime nelle concioni, una specie di rettorica, ad usum delphini, voglio dire ad uso de’ volgari, che
non guardano nel fondo, e si lasciano trarre alle belle
apparenze. I popoli e gli eserciti vi stanno come istrumenti, e i veri e principali attori sono pochi uomini, che
li movono con la violenza e con l’astuzia, e li usano a’ fini loro.
Lo storico avea intenzioni letterarie. La sua prosa,
massime ne’ Ricordi, ha la precisione lapidaria di Machiavelli, con quella rapidità e semplicità e perfetta evidenza, che l’avvicina agli esempli più finiti della prosa
francese, senza che ne abbia i difetti. Lo stile e la lingua
in questi due scrittori giunge per vigore intellettuale ad
un grado di perfezione che non è stato più avanzato. Ma
il Guicciardini, di un giudizio così sano nell’andamento
de’ fatti umani, avea de’ preconcetti in letteratura, opinioni ammesse senza esame, solo perchè ammesse da
tutti. Lo scrivere è per lui, come per i letterati di quel
tempo, la traduzione del parlare e del discorso naturale
in un certo meccanismo molto complicato e a lui faticoso, quasi vi facesse allora per la prima volta le sue prove.
Molti uomini mediocri, quali il Casa, o il Castiglione, o il
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Salviati, o lo Speroni, vi riescono con minore difficoltà,
come disciplinati ed educati a quella forma. La sua chiarezza intellettuale e la sua rapida percezione è in visibile
contrasto con quei giri avviluppati e affannosi del suo
periodo. Li diresti quasi artifici diplomatici per inviluppare in quelle pieghe i suoi concetti e le sue intenzioni,
se non fosse manifesta la sua franchezza spinta sino al cinismo. Sono artifici puramente letterari e rettorici. E sono rettorica le sue circonlocuzioni, le sue descrizioni, le
sue orazioni, le sue sentenze morali, un certo calore
d’immaginazione e di sentimento, una certa solennità di
tuono. Al di sotto di questi splendori artificiali trovi un
mondo di una ossatura solida e di un perfetto organismo, freddo come la logica ed esatto come la meccanica,
e che non è forse in fondo se non un corso di forze e
d’interessi seguiti nei loro più intimi recessi da un intelletto superiore.
La Storia d’Italia è in venti libri e si stende dal 1494 al
1532 Comincia con la calata di Carlo ottavo, finisce con
la caduta di Firenze. Apparisce in ultimo, come un funebre annunzio di tempi peggiori, Paolo terzo, il papa della Inquisizione e del Concilio di Trento. Questo periodo
storico si può chiamare la «tragedia italiana», perchè in
questo spazio di tempo l’Italia dopo un vano dibattersi
cesse in potestà dello straniero. Ma lo storico non ha pur
sentore dell’unità e del significato di questa tragedia; e il
protagonista non è l’Italia e non è il popolo italiano. La
tragedia c’è, e sono le grandi calamità che colpiscono
gl’individui, le arsioni, le prede, gli stupri, tutt’i mali
della guerra. Avvolto fra tanti «atrocissimi accidenti»,
sagacissimo a indagarne i più riposti motivi nel carattere
degli attori e nelle loro forze, l’insieme gli fugge. La
Riforma, la calata di Carlo, la lotta tra Carlo quinto e
Francesco primo, la trasformazione del papato, la caduta di Firenze, e l’Italia bilanciata di Lorenzo divenuta
un’Italia definitivamente smembrata e soggetta, questi
Letteratura italiana Einaudi
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
fatti generali preoccupano meno lo storico che l’assedio
di Pisa e i più oscuri pettegolezzi tra’ principi. Sembra
un naturalista, che studi e classifichi erbe, piante e minerali, e indaghi la loro struttura interna e la loro fisiologia,
che li fa essere così o così. L’uomo vi apparisce come un
essere naturale, che operi così fatalmente come un animale, determinato all’azione da passioni, opinioni, interessi, dalla sua natura o carattere, con la stessa necessità
che l’animale è determinato da’ suoi istinti e qualunque
essere vivente dalle sue leggi costitutive. Considerando
l’uomo a questo modo, lo storico conserva quella calma
dell’intelletto, quell’apatia e indifferenza che ha un filosofo nella spiegazione de’ fenomeni naturali. Ferruccio e
Malatesta gl’ispirano lo stesso interesse; anzi Malatesta è
più interessante, perchè la sua azione è meno spiegabile
e attira più la sua attenzione intellettuale. Di che si stacca questo concetto della storia, che l’uomo, ancora che
sembri nelle sue azioni libero, è determinato da motivi
interni, o dal suo carattere, e si può calcolare quello che
farà e come riuscirà quasi con quella sicurezza che si ha
nella storia naturale. Perciò chi perde, ha sempre torto,
dovendo recarne la cagione a se stesso, che ha mal calcolato le sue forze e quelle degli altri. Questa specie di fisica storica non oltrepassa gl’individui, i quali ci appaiono
qui come una specie di macchinette, maravigliose, anzi
miracolose alla plebe, a noi poco interessanti, perchè
sappiamo il segreto, conosciamo l’ingegno da cui escono
quei miracoli, e tutto il nostro interesse è concentrato
nello studio dell’ingegno.
Il Machiavelli va più in là. Egli intravede una specie
di fisica sociale, come si direbbe oggi, un complesso di
leggi che regolano non solo gl’individui, ma la società e
il genere umano. Perciò patria, libertà, nazione, umanità, classi sociali sono per lui fatti non meno interessanti che le passioni, gl’interessi, le opinioni, le forze che
movono gl’individui. E se vogliamo trovare lo spirito o il
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
significato di questa epoca, molto abbiamo ad imparare
nelle sue opere. Indi è che, come carattere morale, il segretario fiorentino ispira anche oggi vive simpatie in tutti gl’intelletti elevati, che sanno mirare al di là della scorza nel fondo delle sue dottrine, e come forza
intellettuale, unisce alla profonda analisi del Guicciardini una virtù sintetica, una larghezza di vista, che manca
in quello. Lui, è un punto di partenza nella storia, destinato a svilupparsi; l’altro è un bel quadro, finito e chiuso
in sè.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
XVI
PIETRO ARETINO
Il mondo teologico-etico del medio evo tocca l’estremo
della sua contraddizione in questo mondo positivo del
Guicciardini, un mondo puramente umano e naturale,
chiuso nell’egoismo individuale, superiore a tutt’i vincoli morali che tengono insieme gli uomini. Il ritratto vivente di questo mondo nella sua forma più cinica e più
depravata è Pietro Aretino. L’immagine del secolo ha in
lui l’ultima pennellata.
Pietro nacque nel 1492 in uno spedale di Arezzo da
Tita, la bella cortigiana, la modella scolpita e dipinta da
parecchi artisti. Senza nome, senza famiglia, senza amici
e protettori, senza istruzione. «Andai alla scuola, quanto
intesi la santa croce, componendo ladramente merito
scusa, e non quegli che lambiccano l’arte de’ greci e de’
latini.» A tredici anni rubò la madre e fuggì a Perugia, e
si allogò presso un legatore di libri. A diciannove anni
attirato dalla fama della corte di Roma e che tutti vi si facevano ricchi, vi giunse che non aveva un quattrino, e fu
ricevuto domestico presso un ricco negoziante, Agostino Chigi, e poco poi presso il cardinale di San Giovanni.
Cercò fortuna presso papa Giulio, e non riuscitogli, vagando e libertineggiando per la Lombardia, da ultimo si
fe’ cappuccino in Ravenna. Salito al pontificato Leone
decimo, e concorrendo a quella corte letterati, buffoni,
istrioni, cantori, ogni specie di avventurieri, gli parve lì il
suo posto, smise l’abito e corse a Roma, e vestì la livrea
del papa, divenne suo valletto. Spiritoso, allegro, libertino, sfacciato, mezzano, in quella scuola compì la sua
educazione e la sua istruzione. Imparò a chiudere in
quattordici versi le sue libidini e le sue adulazioni e le
sue buffonerie, e ne fe’ traffico e ne cavò di bei quattrini. Ma era sempre un valletto, e poco gli era a sperare in
Letteratura italiana Einaudi
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
una corte, dove s’improvvisava in latino. Armato di lettere di raccomandazione, va a Milano, a Pisa, a Bologna,
a Ferrara, a Mantova, e si presenta a principi e monsignori sfacciatamente, con aria e prosunzione di letterato. Studia come una donna l’arte di piacere, e aiuta la
ciarlataneria con la compiacenza. «A Bologna mi fu cominciato a essere donato; il vescovo di Pisa mi fe’ fare
una casacca di raso nero ricamata in oro, che non fu mai
la più superba; presso il signor Marchese di Mantova sono in tanta grazia, che il dormir e il mangiar lascia per
ragionar meco, e dice non avere altro piacere, ed ha
scritto al cardinale cose di me che veramente onorevolmente mi gioveranno, e son io regalato di trecento scudi. Tutta la corte mi adora, e par beato chi può avere
uno de’ miei versi, e quanti mai feci, il signore li ha fatti
copiare, e ho fatto qualcuno in sua lode. E sto qui, e tutto il giorno mi dona, e gran cose, che le vedrete ad Arezzo.» Gli dànno del messere e del signore; il valletto è un
gentiluomo, e torna a Roma «tra paggi di taverna, e vestito come un duca», compagno e mezzano de’ piaceri
signorili, e con a lato gli Estensi e i Gonzaga che gli hanno familiarmente la mano sulla spalla. Continua il mestiere così bene incominciato. Una sua «laude» di Clemente settimo gli frutta la prima pensione; sono
versacci:
Or queste sì che saran lodi, queste
lodi chiare saranno, e sole e vere,
appunto come il vero e come il sole.
Il suo spirito, il suo umore gioviale, l’estro libidinoso gli
acquistarono tanta riputazione, che fuggito di Roma per
i suoi sedici sonetti illustrativi de’ disegni osceni di Giulio Romano, fu cercato come un buon compagnone da
Giovanni de’ Medici, capo delle Bande Nere, detto il
gran diavolo. Aveva poco più che trent’anni. Giovanni e
Francesco primo se lo disputano. Giovanni voleva fare
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
signore di Arezzo il suo compagno di orgie e di libidini,
quando una palla tedesca gli troncò il disegno e la vita.
Pietro avea coscienza oramai della sua forza. E lasciando
le corti, riparò in Venezia come in una rocca sicura, e di
lì padroneggiò l’Italia con la penna. Udiamo lui stesso,
come si dipinge nelle sue lettere: «Dopo ch’io mi rifugiai
sotto l’egida della grandezza e delle libertà veneziane,
non ho più nulla da invidiare. Nè il soffio dell’invidia,
nè l’ombra della malizia non potranno offuscare la mia
fama, nè togliere la possanza della mia casa. – Io sono
un uomo libero per la grazia di Dio. – Non mi rendo
schiavo de’ pedanti. – Non mi si vede percorrere le tracce nè del Petrarca nè di Boccaccio. Bastami il genio mio
indipendente. Ad altri lascio folleggiar la purezza dello
stile, la profondità del pensiero; ad altri la pazzia di torturarsi, di trasformarsi, mutando sè stessi. Senza maestro, senz’arte, senza modello, senza guida, senza luce,
io avanzo, e il sudore de’ miei inchiostri mi fruttano la
felicità e la rinomanza. Che avrei di più a desiderare? –
Con una penna e qualche foglio di carta me ne burlo
dell’universo. Mi dicono ch’io sia figlio di cortigiana; ciò
non mi torna male; ma tuttavia ho l’anima di un re. Io
vivo libero, mi diverto, e perciò posso chiamarmi felice.
– Le mie medaglie sono composte d’ogni metallo e di
ogni composizione. La mia effigie è posta in fronte a’
palagi. Si scolpisce la mia testa sopra i pettini, sopra i
tondi, sulle cornici degli specchi, come quella di Alessandro, di Cesare, di Scipione. Alcuni vetri di cristallo si
chiamano vasi aretini. Una razza di cavalli ha preso questo nome, perchè papa Clemente me ne ha donato uno
di quella specie. Il ruscello che bagna una parte della
mia casa è denominato l’Aretino. Le mie donne vogliono esser chiamate Aretine. Infine si dice stile aretino. I
pedanti possono morir di rabbia prima di giungere a
tanto onore.» E non erano ciarle. L’Ariosto dice di lui:
«il flagello de’ principi, il divin Pietro Aretino». Un pe-
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dante, parlando delle lettere dell’Aretino e del Bembo,
diceva al Bembo: «Chiameremo voi il nostro Cicerone, e
lui il nostro Plinio.» «Purchè Pietro se ne contenti», rispose il Bembo. E non se ne contentava. A Bernardo
Tasso, che vantava le sue lettere, scrive: «Stimando di
troppo le proprie vostre opere, e non abbastanza le altrui, voi avete messo in compromesso il vostro giudizio.
Nello stile epistolare voi siete l’imitator mio, e voi camminate dietro di me a piè nudi. Voi non potete imitare
nè la facilità delle mie frasi, nè lo splendore delle mie
metafore. Son cose che si veggono languire nelle vostre
carte, e che nascono vigorose nelle mie. Convengo che
voi avete qualche merito, una certa grazia di stile angelico e di armonia celeste, che risuona gradevolmente negl’inni, nelle odi e negli epitalami. Ma tutte queste dolcitudini non convengono alle Epistole, che hanno d’uopo
di espressione e di rilievo, non di miniatura e di artifizio.
È colpa del vostro gusto che preferisce il profumo de’
fiori al sapore de’ frutti. Ma non sapete chi son io? Non
sapete quante lettere ho pubblicate, che sonosi trovate
maravigliose? Io non mi starò qui a fare il mio elogio, il
quale finalmente non sarebbe che verità. Non vi dirò
che gli uomini di merito dovrebbero riguardare siccome
un giorno memorabile il dì della mia nascita: io che, senza seguire e senza servir le corti, ho costretto tutto quanto vi ha di grande sulla terra, duchi, principi e monarchi,
a diventar tributarii del mio ingegno! Per quanto è lungo e largo il mondo, la fama non si occupa che di me.
Nella Persia e nell’India trovasi il mio ritratto e vi è stimato il mio nome. Finalmente io vi saluto, e statevi ben
certo, che se molte persone biasimano il vostro modo di
scrivere, ciò non è per invidia – e se qualche altre lo lodano, egli e per compassione.» Tale si teneva e tale lo teneva il mondo. Fu creduto un grand’uomo sulla sua fede. Non mirava alla gloria; dell’avvenire se ne
infischiava; voleva il presente. E l’ebbe, più che nessun
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
mortale. Medaglie, corone, titoli, pensioni, gratificazioni, stoffe d’oro e d’argento, catene e anella d’oro, statue
e dipinti, vasi e gemme preziose, tutto ebbe che la cupidità di un uomo potesse ottenere. Giulio III lo nominò
cavaliere di San Pietro. E per poco non fu fatto cardinale. Avea di sole pensioni ottocentoventi scudi. Di gratificazioni ebbe in diciotto anni venticinquemila scudi.
Spese durante la sua vita più di un milione di franchi.
Gli vennero regali fino dal corsaro Barbarossa e dal sultano Solimano. La sua casa principesca è affollata di artisti, donne, preti, musici, monaci, valletti, paggi, e molti
gli portano i loro presenti, chi un vaso d’oro, chi un quadro, chi una borsa piena di ducati, e chi abiti e stoffe.
Sull’ingresso vedi un busto di marmo bianco coronato
di alloro: è Pietro Aretino. Aretino a dritta, Aretino a
manca; guardate nelle medaglie d’ogni grandezza e
d’ogni metallo sospese alla tappezzeria di velluto rosso:
sempre l’immagine di Pietro Aretino. Morì a sessantacinque anni, il 1557, e di tanto nome non rimase nulla.
Le sue opere poco poi furono dimenticate, la sua memoria è infame; un uomo ben educato non pronunzierebbe
il suo nome innanzi a una donna.
Chi fu dunque questo Pietro, corteggiato dalle donne, temuto dagli emuli, esaltato dagli scrittori, così popolare, baciato dal papa, e che cavalcava a fianco di Carlo quinto? Fu la coscienza e l’immagine del suo secolo.
E il suo secolo lo fece grande.
Machiavelli e Guicciardini dicono che l’appetito è la
leva del mondo. Quello che essi pensarono, Pietro fu.
Ebbe da natura grandi appetiti e forze proporzionate.
Vedi il suo ritratto, fatto da Tiziano. Figura di lupo che
cerca la preda. L’incisore gli formò la cornice di pelle e
zampe di lupo; e la testa del lupo assai simile di struttura
sta sopra alla testa dell’uomo. Occhi scintillanti, narici
aperte, denti in evidenza per il labbro inferiore abbassato, grossissima la parte posteriore del capo, sede degli
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appetiti sensuali, verso la quale pare che si gitti la testa,
calva nella parte anteriore. «Figlio di cortigiana, anima
di re», dice lui. Legatore di libri, valletto del papa, miserie! I suoi bisogni sono infiniti. Non gli basta mangiare;
vuole gustare; non gli basta il piacere; vuole la voluttà;
non gli basta il vestire; vuole lo sfarzo; non gli basta arricchire; vuole arricchire gli altri, spendere e spandere.
E a chi se ne maraviglia risponde: «Ebbene, che farci a
questo? Se io son nato per vivere così, chi m’impedirà di
vivere così?» I suoi sogni dorati sono vini squisiti, cibi
delicati, ricchi palagi, belle fanciulle, belli abiti. Di ciò
che appetisce, ha il gusto. E nessuno è giudice più competente in fatto di buoni bocconi e di godimenti leciti e
illeciti. È in lui non solo il senso del piacere, ma il senso
dell’arte. Cerca ne’ suoi godimenti il magnifico, lo sfarzoso, il bello, il buon gusto, l’eleganza.
Ed ha forze proporzionate a’ suoi appetiti, un corpo
di ferro, una energia di volontà, la conoscenza e il disprezzo degli uomini, e quella maravigliosa facoltà che il
Guicciardini chiama discrezione, il fiuto, il da fare caso
per caso. Sa quello che vuole. La sua vita non è scissa in
varie direzioni: uno è lo scopo, la soddisfazione de’ suoi
appetiti, o, come dice il Guicciardini, il suo particolare.
Tutti i mezzi sono eccellenti, e li adopera secondo i casi.
Ora è ipocrita, ora è sfacciato. Ora è strisciante, ora è insolente. Ora adula, ora calunnia. La credulità, la paura,
la vanità, la generosità dell’uomo sono in mano sua un
ariete per batterlo in breccia ed espugnarlo. Ha tutte le
chiavi per tutte le porte. Oggi un uomo simile sarebbe
detto un camorrista, e molte sue lettere sarebbero chiamate ricatti. Il maestro del genere è lui. Specula soprattutto sulla paura. Il linguaggio del secolo è officioso,
adulatorio; il suo tono è sprezzante e sfrontato. Le calunnie stampate erano peggio che pugnali; cosa stampata voleva dir cosa vera; e lui mette a prezzo la calunnia, il
silenzio e l’elogio. Non gli spiacea aver nome di mala
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lingua, anzi era parte della sua forza. Francesco primo
gl’inviò una catena d’oro composta di lingue incatenate
e con le punte vermiglie, come intinte nel veleno, con
sopravi questo esergo: «Lingua eius loquetur
mendacium». Aretino gli fa mille ringraziamenti. Quando non gli conviene dir male delle persone, dice male
delle cose, tanto per conservarsi la reputazione, come
sono le sue intemerate contro gli ecclesiastici, i nobili, i
principi. Così l’uomo abbietto fu tenuto un apostolo, e
fu detto flagello de’ principi. Talora trovò chi non aveva
paura. Achille della Volta gli die’ una pugnalata. Nicolò
Franco, suo segretario, gli scrisse carte di vitupèri. Pietro Strozzi lo minaccia di ucciderlo, se si attenta a pronunziare il suo nome. È bastonato, sputacchiato. È lui
allora che ha paura, perchè era vile e poltrone. Sir
Howel lo bastona, ed egli loda il Signore che gli accorda
la facoltà di perdonare le ingiurie. Giovanni, il gran diavolo, morendo gli disse: «Ciò che più mi fa soffrire è vedere un poltrone.» Ma in generale amavano meglio trattarlo come Cerbero, e chiudergli i latrati, gittandogli
un’offa. Le sue lettere sono capilavori di malizia e di
sfrontatezza. Prende tutte le forme e tutti gli abiti, dal
buffone e dal millantatore sino al sant’uomo calunniato
e disconosciuto. Come saggio, ecco una sua lettera alla
piissima e petrarchesca marchesa di Pescara, che lo aveva esortato a cangiar vita e a scrivere opere pie:
«Confesso che non sono meno utile al mondo e meno gradevole a Gesù, spendendo le mie veglie per cose futili, che se le
impiegassi in opere di pietà. Ma quale ne è la causa? La sensualità altrui e la mia povertà. Se i principi fossero così divoti, come io sono bisognoso, la mia penna non traccerebbe che miserere. Illustrissima madonna, tutti al mondo non possedono
l’ispirazione della grazia divina. Il fuoco della concupiscenza
divora la maggior parte; ma Voi, voi non ardete che di fiamma
angelica. Per noi musiche e commedie sono quel che è per voi
la preghiera e la predica. Voi non rivolgereste gli occhi per vedere Ercole nelle fiamme o Marsia scorticato; noi altrettanto
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per non riguardare san Lorenzo sulla graticola o san Bartolomeo spoglio della sua pelle. Vedete un po’: io ho un amico, per
nome Brucioli, il quale dedicò la sua Bibbia al Re Cristianissimo. Dopo cinque anni non ne ebbe tampoco risposta. La mia
commedia, invece, la Cortigiana, acquistossi dal medesimo re
una ricca collana. Di guisa che la mia cortigiana si sentirebbe
tentata a beffarsi del Vecchio Testamento, se non fosse cosa
troppo indecorosa. Accordatemi mille scuse, Signora, per le
baie che vi ho scritte, non per malizia, ma per vivere. Che Gesù
v’ispiri di farmi tenere da Sebastiano da Pesaro il resto della
somma, sulla quale ho già ricevuto trenta scudi, e di cui vi sono
anticipatamente debitore.»
All’ultimo una stoccata, come si direbbe oggi. È una
lettera tirata giù di un fiato da un genio infernale. Con
che bonomia si beffa della pia donna, avendo aria di farne l’elogio! Con che cinismo proclama le sue speculazioni sulla libidine e sulla oscenità umana, come fossero la
cosa più naturale di questo mondo! Specula pure sulla
divozione, e con pari indifferenza scrive libri osceni e vite di santi, il Ragionamento della Nanna e la Vita di santa Caterina da Siena, la Cortigiana errante e la Vita di
Cristo. E perchè no? Posto che traeva guadagno di qua e
di là. Scrisse di ogni materia, e in ogni forma, dialoghi,
romanzi, epopee, capitoli, commedie, e anche una tragedia, l’Orazia. Immagina quali eroi possono essere gli
Orazii, quale eroina l’Orazia, e che specie di popolo romano può uscire dall’immaginazione di Pietro. Pure è il
solo lavoro che abbia intenzioni artistiche, fatto ch’era
già vecchio e sazio e cupido più di gloria che di danari.
Gli riuscì una freddura, un mondo astratto e pedestre,
di cui non comprese la semplicità e la grandezza. Negli
altri suoi lavori senti lui nella verità della sua natura, dedito a piacere al suo pubblico, a interessarlo, a guadagnarselo, a fare effetto. Ci è innanzi a lui una specie di
mercato morale: conosce qual è la merce più richiesta,
più facile a spacciare e a più caro prezzo. Si fa una coscienza e un’arte posticcia, variabile secondo i gusti del
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suo padrone, il pubblico. Perciò fu lo scrittore più alla
moda, più popolare e meglio ricompensato. I suoi libri
osceni sono il modello di un genere di letteratura, che
sotto nome di racconti galanti invase l’Europa. L’oscenità era una salsa molto ricercata in Italia dal Boccaccio
in poi; qui è essa l’intingolo. Le vite di santi sono veri romanzi, dove ne sballa di ogni sorta, solleticando la natura fantastica e sentimentale delle pinzochere. Fabbro di
versi assai grossolano, senti ne’ suoi sonetti e capitoli la
bile e la malignità congiunta con la servilità. Così, alludendo alla munificenza di Francesco primo, dice a Pier
Luigi Farnese:
Impara tu, Pier Luigi ammorbato,
impara, ducarel da tre quattrini,
il costume da un Re tanto onorato.
Ogni signor di trenta contadini
e d’una bicoccazza usurpar vuole
le cerimonie de’ culti divini.
Pietro non è un malvagio per natura. È malvagio per calcolo e per bisogno. Educato fra tristi esempi, senza religione, senza patria, senza famiglia, privo di ogni senso
morale, con i più sfrenati appetiti e con molti mezzi intellettuali per soddisfarli, il centro dell’universo è lui, il
mondo pare fatto a suo servizio. Su questa base, la sua
logica e uguale alla sua tempra. Ha una chiara percezione de’ mezzi, e nessuna esitazione o scrupolo a metterli
in atto. E non lo dissimula, anzi se ne fa gloria, è lì la sua
forza, e vuole che tutti ne sieno persuasi. Il mondo era
un po’ a sua immagine, molti erano che avrebbero voluto imitarlo, ma non avevano il suo ingegno, la sua operosità, la sua penetrazione, la sua versatilità, il suo spirito.
Perciò l’ammiravano. Fra tanti avventurieri e condottieri, di cui l’Italia era ammorbata, gente vagabonda senza
princìpi, senza professione e in cerca di una fortuna a
qualunque costo, il principe, il modello era lui. Tiziano
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lo chiama il condottiero della letteratura. E lui non se ne
offende, se ne pavoneggia. Lasciato alla sua spontaneità,
quando non lo preme il bisogno, e non opera per calcolo, scopre buone qualità. È allegro, conversevole, liberale, anzi magnifico, amico a tutta prova, riconoscente,
ammiratore de’ grandi artisti, come di Michelangiolo e
di Tiziano. Aveva la logica del male e la vanità del bene.
Pietro come uomo è un personaggio importante, il
cui studio ci tira bene addentro ne’ misteri della società
italiana, della quale era immagine in quella sua mescolanza di depravazione morale, di forza intellettuale e di
sentimento artistico. Ma non è meno importante come
scrittore.
La coltura tendeva a fissarsi e a meccanizzarsi. Non si
discuteva più se si aveva a scrivere in volgare o in latino.
Il volgare aveva conquistato oramai il suo dritto di cittadinanza. Ma si discuteva se il volgare si avesse a chiamare toscano o italiano. E non era contesa di parole, ma di
cose. Perchè molti scrittori pretendevano di scrivere come si parlava dall’un capo all’altro d’Italia, e non erano
disposti di andare a prender lezione in Firenze. Amavano meglio latinizzare che toscaneggiare Riconoscevano
come modelli il Boccaccio e il Petrarca, ma non davano
alcuna autorità alla lingua viva. Lingua viva era per loro
il linguaggio comune, che atteggiavano alla latina e alla
boccaccevole. Questo meccanismo era accettato generalmente; se non che in Firenze il fondo della lingua non
era il linguaggio comune, mescolato di elementi locali,
siculi, lombardi, veneti, ma l’idioma toscano, così
com’era stato maneggiato dagli scrittori. E Firenze,
esaurita la produzione intellettuale, alzò le colonne di
Ercole nel suo vocabolario della Crusca, e disse: non si
va più oltre. Il Bembo e più tardi il Salviati fissarono le
forme grammaticali. E le regole dello scrivere in tutt’i
generi furono fissate nelle rettoriche, traduzioni o raffazzonamenti di Aristotile, Cicerone e Quintiliano. Si
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giunse a questo, che Giulio Camillo pretendea d’insegnare tutto il sapere mediante un suo meccanismo. Tendenza al meccanizzare: che è fenomeno costante in tutte
le età che la produzione si esaurisce, e la coltura si arresta, e si raccoglie nelle sue forme e si cristallizza.
Pietro, di mediocrissima coltura, considera tutte queste regole come pedanteria. La sua vita interiore così
spontanea e piena di forza produttiva mal vi si può adagiare. Il pedantismo è il suo nemico e lo combatte corpo
a corpo. E chiama pedantismo quel veder le cose non in
sè stesse e per visione diretta, ma a traverso di preconcetti, di libri e di regole. Quegl’inviluppi di parole e di
forme gli sono così odiosi, come l’ipocrisia, quel «covrirsi della larva di un’affettata modestia, invilupparsi
nella pelle della volpe e predicar l’umiltà e la decenza
senza valer meglio degli altri.» Non ascoltate quest’ipocriti,» scrive al cardinale di Ravenna «pedanti comentatori di Seneca, i quali, dopo di aver passata la lor vita
nell’assassinare i morti, non sono contenti se non quando crocifiggono i vivi. Sì, monsignore, egli è il pedantismo, che ha avvelenato i Medici; è il pedantismo che ha
ucciso il duca Alessandro; è il pedantismo che ha prodotto tutt’i mali di questo mondo; è desso che per la
bocca del pedante Lutero ha provocata l’eresia e l’ha armata contro la nostra santa fede. Lorenzino si fe’ assassino per pedanteria, e per pedanteria si fe’ eretico Lutero,
cioè a dire operarono per preconcetti, secondo i libri, e
senza nessuna intelligenza de’ tempi loro.» Non è meno
implacabile verso il pedantismo letterario. Al Dolce scrive: «Andate pur per le vie che al vostro studio mostra la
natura. Il Petrarca e il Boccaccio sono imitati da chi
esprime i concetti suoi con la dolcezza e con la leggiadria con cui dolcemente e leggiadramente essi andarono
esprimendo i loro, e non da chi gli saccheggia, non pur
de’ «quinci», de’ «quindi», de’ «soventi» e degli «snelli», ma de’ versi interi. Il pedante che voglia imitare, «ri-
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moreggia» dell’imitazione, e mentre ne schiamazza negli
scartabelli, la trasfigura in locuzione, ricamandola con
parole tisiche in regola. O turba errante, io ti dico e ridico che la poesia è un ghiribizzo della natura nelle sue allegrezze, il qual si sta nel furor proprio, e mancandone,
il cantar poetico diventa un cimbalo senza sonagli e un
campanile senza campane, per la qual cosa chi vuol
comporre e non trae cotal grazia dalle fasce è un zugo
infreddato. Imparate ciò ch’io favello da quel savio pittore, il quale, nel mostrare a colui che il dimandò, chi
egli imitava, una brigata d’uomini col dito, volle inferire
che dal vivo e dal vero toglieva gli esempi, come gli tolgo
io parlando e scrivendo. La natura di cui son secretario
mi detta ciò ch’io compongo. È certo ch’io imito me
stesso, perchè la natura è una compagnona badiale, e
l’arte una piattola che bisogna che si appicchi; sicchè attendete a esser scultore di sensi e non miniator di vocaboli.» Parecchi scrivevano allora così alla naturale, e basta citare fra tutti il Cellini, tutto vita e tutto cose. Ma il
Cellini si teneva un ignorante, e voleva che il Varchi riducesse la sua Vita nella forma de’ dotti, dove l’Aretino
si teneva superiore a tutti gli altri, e dava facilmente del
pedante a quelli che lambiccavano le parole. Ci è in lui
una coscienza critica così diritta e decisa, che in quel
tempo ci dee parere straordinaria. La stessa libertà e altezza di giudizio portò nelle arti, di cui aveva il sentimento. A Michelangiolo scrive: «Ho sospirato di sentirmi sì piccolo e di saper voi così grande». Il suo favorito è
il suo amico e compare Tiziano, il cui realismo così pieno e quasi sensuale si affà alla sua natura. Preso di febbre, si appoggia alla finestra, e guarda le gondole e il Canal grande di Venezia, e rimane pensoso e
contemplativo, lui, Pietro Aretino! La vista della bella
natura lo purifica, lo trasforma. E scrive al Tiziano:
«Quasi uomo che fatto noioso a se stesso non sa che farsi della mente, non che de’ pensieri, rivolgo gli occhi al
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cielo, il quale, da che Dio lo creò, non fu mai abbellito
da così vaga pittura di ombre e di lumi, onde l’aria era
tale, quale vorrebbono esprimerla coloro che hanno invidia a voi, per non esser voi. I casamenti, benchè sien
pietre vere, parevano di materia artificiata. E di poi
scorgete l’aria, ch’io compresi in alcun luogo pura e viva, in altra parte torbida e smorta. Considerate anche la
maraviglia ch’io ebbi de’ nuvoli, i quali nella principal
veduta mezzi si stavano vicini a’ tetti degli edificii, e
mezzi nella penultima, perocchè la diritta era tutta di
uno sfumato pendente in bigio nero. Mi stupii certo del
color vario di cui essi si dimostravano: i più vicini ardevano con le fiamme del foco solare, e i più lontani rosseggiavano d’un ardore di minio non così bene acceso.
O con che belle tratteggiature i pennelli naturali spingevano l’aria in là, discostandola da’ palazzi con il modo
che la discosta il Vecellio nel far de’ paesi! Appariva in
certi lati un verde azzurro, e in alcuni altri un azzurro
veramente composto dalle bizzarrie della natura maestra
de’ maestri. Ella con i chiari e con gli scuri sfondava e rilevava in maniera, che io, che so come il vostro pennello
è spirito dei suoi spiriti, e tre e quattro volte esclamai: –
O Tiziano, dove sete mo? – Per mia fe’ che, se voi aveste
ritratto ciò ch’io vi conto, indurreste gli uomini nello
stupore che confuse me.» È notabile che questo sentimento della natura vivente, de’ suoi colori e de’ suoi
chiaroscuri, non produce nella sua anima alcuna impressione o elevatezza morale, ma solo una ammirazione o
stupore artistico, come in un italiano di quel tempo. Vede la natura a traverso il pennello di Tiziano e del paesista Vecellio, ma la vede viva, immediata, e con un sentimento dell’arte che cerchi invano nel Vasari. Fra tante
opere pedantesche di quel tempo intorno all’arte e allo
scrivere, le sue lettere artistiche e letterarie segnano i
primi splendori di una critica indipendente, che oltre-
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passa i libri e le tradizioni, e trova la sua base nella natura.
Quale il critico, tale lo scrittore. Delle parole non si
dà un pensiero al mondo. Le accoglie tutte, onde che
vengano e quali che sieno, toscane, locali e forestiere,
nobili e plebee, poetiche o prosaiche, aspre e dolci, umili e sonore. E n’esce uno scrivere, che è il linguaggio parlato anche oggi comunemente in Italia dalle classi colte.
Abolisce il periodo, spezza le giunture, dissolve le perifrasi, disfà ripieni ed ellissi, rompe ogni artificio di quel
meccanismo che dicevasi forma letteraria, s’accosta al
parlar naturale. Nel Lasca, nel Cellini, nel Cecchi, nel
Machiavelli ci è la stessa naturalezza, ma ci senti l’impronta toscana, tutta grazia. Questi è un toscano ineducato, figlio della natura, vivuto fuori del suo paese, e che
parla tutte le lingue fra le quali esercita le sue speculazioni. Fugge il toscaneggiare, come una pedanteria; non
cerca la grazia, cerca l’espressione e il rilievo. La parola
è buona, quando gli renda la cosa atteggiata come è nel
suo cervello, e non la cerca, gli viene innanzi cosa e parola, tanta e la sua facilità. Non sempre la parola è propria, e non sempre adatta, perchè spesso scarabocchia, e
non scrive, abusando della sua facilità. Il suo motto è:
«Come viene, viene», e nascono grandi ineguaglianze.
Di Cicerone e del Boccaccio non si dà fastidio, anzi fa
proprio l’opposto, cercando non magnificenza e larghezza di forme, nelle quali si dondola un cervello indolente, ma la forma più rapida e più conveniente alla velocità delle sue percezioni. E neppure affetta brevità,
come il Davanzati, cervello ozioso, tutto alle prese con le
parole e gl’incisi, perchè la sua attenzione non è al di
fuori, è tutta al di dentro. Abbandona i procedimenti
meccanici, non cura le finezze e le lascivie della forma.
Ha tanta forza e facilità di produzione, e tanta ricchezza
di concetti e d’immagini, che tutto esce fuori con impeto e per la via più diritta. Non ci è intoppo, non ci è di-
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gressione o distrazione: pronto e deciso nello stile, come
nella vita. Mai non fu così vero il detto, che lo stile è
l’uomo. Come il suo io è il centro dell’universo, è il centro del suo stile. Il mondo che rappresenta non esiste
per sè, ma per lui, e lo tratta e lo maneggia come cosa
sua, con quel capriccio e con quella libertà che il Folengo tratta il mondo della sua immaginazione. Se non che
nel Folengo si sviluppa l’umore, perchè il suo mondo è
immaginario, e lo tratta senz’alcuna serietà, solo per riderne; dove il mondo di Pietro è cosa reale, e ne ha una
perfetta conoscenza, e lo tratta per sfruttarlo, per cavarne il suo utile. Perciò non rispetta il suo argomento, non
si cala e non si obblia in esso; ma ne fa il suo istrumento,
i suoi mezzi, anche a costo di profanarlo indegnamente.
Tratta Gesù Cristo come un cavaliere errante, e «che
importa» dice «la menzogna che io mescolo a queste
opere? Dacchè io parlo de’ Santi, che sono il nostro rifugio celeste, le mie parole diventano parole di evangelio».
Di santa Caterina scrive che «Io non avrei fatto sei pagine di tutto, se avessi voluto attenermi alla tradizione e
alla storia. Le mie spalle hanno assunto tutto il peso
dell’invenzione; perchè infine queste cose tornano alla
più gran gloria di Dio». Talora si secca per via, il cervello è vuoto, e ammassa aggettivi con uno sfoggio di pompa oratoria, che rivela il ciarlatano: «Come lodare il religioso, il chiaro, il grazioso, il nobile, l’ardente, il fedele,
il veridico, il soave, il buono, il salutare, il santo e il sacro linguaggio della giovane Caterina, vergine, sacra,
santa, salutare, nobile, graziosa, chiara, religiosa e facile?» Sembra una campana che ti assorda, e ti turi le
orecchie. Questo dicevasi stile fiorito, e l’Aretino te ne
regala, quando non ha di meglio. Talora vuol pur dire,
ma non ha vena, e non sentimento, ed esce nelle più
sbardellate metafore e nelle sottigliezze più assurde,
massime ne’ suoi elogi, che gli erano così ben pagati.
«Essendo i meriti vostri» scrive al duca d’Urbino «le
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
stelle del Ciel della Gloria, una di loro, quasi pianeta
dell’ingegno mio, lo inclina a ritràrvi con lo stil delle parole la imagine dell’anima, acciocchè la vera faccia delle
sue virtù, desiderata dal mondo, possa vedersi in ogni
parte; ma il poter suo, avanzato dall’altezza del subbietto, non ostante che sia mosso da cotale influsso, non
può esprimere in qual modo la bontà, la clemenza e la
fortezza di pari concordia vi abbiano concesso, per fatal
decreto, il vero nome di Principe.» È un periodo alla
boccaccevole, stiracchiato ne’ concetti e nella forma.
Qui non ci è il «come viene, viene»; ma ci è il non voler
venire e il farlo venire per forza. I suoi panegirici sono
tutti rettorici, metaforici, miniati, falsamente pomposi,
gonfiati sino all’assurdo, e sembrano quasi caricature
ironiche sotto forma di omaggi. Il dir bene non era per
lui cosa tanto facile, quanto il dir male, dove spiega tutto
il vigore della sua natura cinica e sarcastica. Assume un
tuono enfatico, e cerca peregrinità di concetti e di modi,
un linguaggio prezioso, composto tutto di perle, ma di
perle false: preziosità passata in Francia con Voiture e
Balzac e castigata da Molière, e che in Italia dovea divenire la fisonomia della nostra letteratura. Ecco alcune di
queste perle false, messe in circolazione dall’Aretino:
«Io pesco nel lago della mia memoria con l’amo del pensiero. – Il mio merito risplende della vernice della vostra
grazia. – Il chiodo della riconoscenza conficca il nome
de’ miei amici nel mio cuore. – Non seppellite le mie
speranze nella tomba delle vostre false promesse. – La
vostra grandezza ascende le scale del cielo con istupor
delle genti. – La vostra eloquenza si move dal natural
dell’intelletto con tanta facondia, che si riman confusa
nella maraviglia la lingua che le proferisce i concetti e
l’orecchie che l’ascoltano. – Tòrre a Solimano, in servigio della Cristianità, l’animo dall’anima, l’anima dal corpo, e il corpo dalle armi. – Raccogliete l’affezione mia in
un lembo della vostra pietà. – Mi dono a voi, padri de’
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
vostri popoli, fratelli de’ vostri servi, erarii della caritade
e subbietti della clemenza. – La faccia della liberalità ha
per ispecchio il cuore di coloro a cui si porge. – La vostra Eccellenza ricerca da me qualche ciancia per farne
ventaglio del caldo grande che arde questi dì.» Questo
stile fiorito o prezioso è traversato a quando a quando
da lampi di genio: paragoni originali, immagini splendide, concetti nuovi e arditi, pennellate incisive, e trovi
pure, quando è abbandonato a sè e non cerca l’effetto,
verità di sentimento e di colorito, come in questa lettera
così commovente nella sua semplicità: «Le scarpe azzurro-turchine, ricamate in oro, che ho ricevute insieme
con la vostra lettera, m’han fatto tanto piangere, quanto
m’hanno arrecato di piacere. La giovinetta che doveva
adornarsene, questa mattina ha ricevuto gli olii santi, ed
io non posso scrivervene di più, tanto sono commosso.»
La dissoluzione del meccanismo letterario è una forma
di scrivere più vicina al parlare, libera da ogni preconcetto e immediata espressione di quel di dentro, uno stile ora fiorito, ora prezioso, che sono le due forme della
declinazione dell’arte e delle lettere, ecco ciò che significa Pietro Aretino, come scrittore. La sua influenza non
fu piccola. Aveva attorno secretari, allievi e imitatori
della sua maniera, come il Franco, il Dolce, il Landi, il
Doni, e altri mestieranti. «Io vivo di Kirieleison» scrive il
Doni. «I miei libri sono scritti prima di esser composti, e
letti prima di esser stampati». La sua Libreria si legge
ancora oggi per un certo brio e per curiose notizie.
Ma Pietro ha ancora una certa importanza, come
scrittor di commedie. C’era un mondo comico convenzionale, la cui base era Plauto e Terenzio, con accessorii
cavati dalla vita plebea e volgare di quel tempo. La base
erano equivoci, riconoscimenti, viluppi di accidenti, che
tenessero viva la curiosità. Intorno vi si schieravano caratteri divenuti convenzionali, il parassito, il servo ghiottone, la cortigiana, la serva furba e mezzana, il figliuolo
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
prodigo, il padre avaro e burlato, il poltrone che fa il
bravo, il sensale, l’usuraio. Lo studio de’ nostri comici è
interessante, chi voglia conoscer bene addentro i misteri
di quella corruttela italiana. Vedrà i legami di famiglia
sciolti, e figli scioperati accoccarla a’ padri, zimbello essi
medesimi di usurai, cortigiani e mezzani, tra le risa del
rispettabile pubblico. Codesto mondo era la commedia,
con sue forme fisse alla latina, sparsa di lazzi e di lubricità. Il più fecondo scrittor comico fu il Cecchi, morto il
1587, che in meno di dieci giorni improvvisava commedie, farse, storie e rappresentazioni sacre. Ha il brio e la
grazia fiorentina comune col Lasca, ma ha meno spirito
e movimento, anzi talora ti par di stare in una morta gora. Il suo mondo e i suoi caratteri sono come un repertorio già noto e fissato, e la furia gl’impedisce di darvi il
colore e la carne. Ti riesce non di rado scarno e paludoso. Pietro dà dentro in tutto questo meccanismo, e lo disfà. Non riconosce regole e non tradizioni e non usi teatrali. «Non vi maravigliate», dice nel prologo della
Cortigiana «se lo stil comico non si osserva con l’ordine
che si richiede, perchè si vive d’un’altra maniera a Roma, che non si vivea in Atene». Fra le regole c’era questa, che i personaggi non potevano comparire più di cinque volte in iscena. Pietro se ne burla con molto spirito:
«Se voi vedessi uscire i personaggi più di cinque volte in
iscena, non ve ne ridete, perchè le catene, che tengono i
molini sul fiume, non terrebbono i pazzi di oggidì». Mira all’effetto; tronca gl’indugi, sgombra gl’intoppi; evita
le preparazioni, gli episodi, le descrizioni, le concioni, i
soliloqui spessi; cerca in tutto l’azione e il movimento, e
ti gitta fin dal principio nel bel mezzo di quel suo mondo furfantesco vivamente particolareggiato. Non ha la
sintesi del Machiavelli, quell’abbracciare con sicuro occhio un vasto insieme, e legarlo e svilupparlo con fatalità
logica, come fosse un’argomentazione. Non è ingegno
speculativo, è uomo d’azione, e lui stesso personaggio
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
da commedia. Perciò non ti dà un’azione bene studiata
e ordita come è la Mandragola; gli fugge l’insieme, il
mondo gli si presenta a pezzi e a bocconi. Ma come il
Machiavelli, egli ha una profonda esperienza del cuore
umano e grande conoscenza de’ caratteri, i quali si sviluppano ben rilevati e sporgenti tra la varietà degli accidenti, e dominano la scena, e generano invenzioni e situazioni piccanti. Come ci gode questo furfante fra tante
bricconate che mette in iscena! Perchè infine quel mondo comico è il suo mondo, quello dove ha fatto tante
prove di malizia e di ciarlataneria. Il concetto fondamentale è che il mondo è di chi se lo piglia, e perciò è
de’ furbi e degli sfacciati, e guai agli sciocchi! Tocca ad
essi il danno e le beffe, perchè sono loro abbandonati alle risa del pubblico, sono loro la materia comica. L’Ipocrita è l’apoteosi di un furfante, che a furia d’intrighi e di
malizia diviene ricco, proprio come l’Aretino. La Talanta è una cortigiana che l’accocca a tutt’i suoi amanti, e finisce ricca, stimata e maritata a un suo antico e fedele
amante, alla barba degli altri. Il Filosofo, mentre studia
Platone e Aristotile, se la fa fare dalla moglie, e poi il
buon uomo si riconcilia con essa. Nella Cortigiana messer Maco, che vuol divenire cardinale, e Parabolano che
in grazia delle sue ricchezze crede di avere a’ suoi piedi
tutte le donne, sono per tutta la commedia zimbello di
cortigiane, di mezzani e di furfanti. Il Marescalco o grande scudiere, per non far dispiacere al duca di Mantova,
suo signore, consente a sposarsi con una donna, che non
ha mai visto, lui nemico delle donne e del matrimonio.
Nè questo è un mondo immaginario e subbiettivo, anzi
è proprio quella società lì, co’ suoi costumi egregiamente rappresentati nel più fino e nel più minuto. Pietro vi
gavazza entro, come nel suo elemento, lanciando satire,
elogi, epigrammi, bricconerie e laidezze, con un brio e
un ardore di movenze, come fossero fuochi artificiali.
Alcuni caratteri sono rimasti celebri, e tutti son vivi e ve-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ri. Il suo Marescalco ha ispirato Rabelais e Shakespeare,
ed è uno scherzo originalissimo. Il suo Parabolano è rimasto l’appellativo degli uomini fatui e vani. Messer
Maco è il tipo, da cui usciva il Pourceaugnac. Il suo ipocrita è un Tartufo innocuo e messo in buona luce. Il suo
filosofo, che egli chiama Plataristotile, è una caricatura
de’ Platonici di quel tempo. A sentirlo sentenziare è savissimo, ma non ha pratica del mondo, e il servo la sa
più lunga di lui, e più lunga del servo la sa Tessa, la moglie. Questo filosofo, a cui la moglie gliela fa sul naso,
pronunzia sentenze bellissime sulle donne, mentre il servo, che sa tutto, gli fa la boccaccia:
«Plataristotile – La femmina è guida del male e maestra della scelleratezza.
Servo – Chi lo sa, nol dica.
Plataristotile – Il petto della femmina è corroborato d’inganni.
Servo – Tristo per chi non la intende.
Plataristotile – Solo quella è casta che da nessuno è pregata.
Servo – Questo sì ch’io stracredo.
Plataristotile – Chi sopporta la perfidia della moglie, impara
a perdonare le ingiurie.
Servo – Bella ricetta per chi è polmone.»
E il servo conchiude: «Vostra Saviezza pigli quello che
vi potria intervenire in buona parte, e non si lasci tanto
andar dietro agli speculamenti dottrineschi, che il diavolo non vi lasciasse poi andare per i canneti».
«Tu parli da eloquente, » risponde il filosofo; «ma
non ci son per considerar sopra, per lo appetito della
gloria che conseguisco filosofando».
Il suo Boccaccio è uno di quei merli capitati nelle unghie di una cortigiana e scorticati vivi. La sua serva tende l’imboscata:
«Boccaccio – Che cosa move la tua madonna a voler parlare
a me, che son forestiere?
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Lisa – Forse la grazia ch’è in voi; maffe sì ch’ella c’è, or via.
Boccaccio – Tu ti diletti da ben dire.
Lisa – Mi venga la morte, se non ispasima di favellarvi.
Boccaccio – Chi è gentile, il dimostra.
Lisa – Nel vederla manderete a monte le bellezze d’ogni altra... State saldo, fermatevi, e mirate il sole, la luna e le stelle,
che si levano là su quell’uscio.
Boccaccio – Che brava appariscenzia!
Lisa – Il vostro giudizio ha garbo.
Boccaccio – Purch’io sia l’uom ch’ella cerca. I nomi alle volte
si strantendono.
Lisa – Il vostro è sì dolce che si appicca alle labbra. Eccola
corrervi incontro a braccia aperte.»
Le cortigiane sono il suo tema favorito. La sua Angelica è il tipo di tutte le altre. E la sua Nanna è la maestra
del genere.
Questa è la commedia che poteva produrre quel secolo, l’ultimo atto del Decamerone, un mondo sfacciato e
cinico, i cui protagonisti sono cortigiani e cortigiane, e il
cui centro è la corte di Roma, segno a’ flagelli dell’uomo, che nella sua rocca di Venezia erasi assicurata l’impunità.
Secondo una tradizione popolare molto espressiva
Pietro morì di soverchio ridere, come morì Margutte, e
come moriva l’Italia.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
XVII
TORQUATO TASSO
L’ Ariosto, il Machiavelli, l’Aretino sono le tre forme
dello spirito italiano a quel tempo un’immaginazione serena e artistica, che si sente pura immaginazione e beffa
se stessa; un intelletto adulto, che dà bando alle illusioni
dell’immaginazione e del sentimento, e t’introduce nel
santuario della scienza, nel mondo dell’uomo e della natura; una dissoluzione morale, senza rimorso, perchè
senza coscienza, perciò sfacciata e cinica. Intorno
all’Ariosto si schierano gl’innumerabili novellieri, romanzieri e comici, pasto avido di popolo colto e ozioso,
che vive di castelli incantati, perchè non prende più sul
serio la vita reale. Intorno al Machiavelli si stringono
tutta una schiera d’illustri statisti e storici, come il Guicciardini, il Giannotti, il Paruta, il Segni, il Nardi, e tutt’i
grandi pensatori, che cercano la redenzione nella scienza. Attorno all’Aretino si move tutto il mondo plebeo
de’ letterati, istrioni, buffoni, cortigiani, speculatori e
mestieranti. L’Ariosto spinge l’immaginazione fino al
punto che provoca l’ironia. Il Machiavelli spinge la sua
realtà e la logica a tal segno che produce il raccapriccio.
E l’Aretino spinge il suo cinismo a tal grado che produce il disgusto. Queste tre forme dello spirito si riflettono
in loro ingrandite e condensate.
Quello era il tempo che i grandi Stati d’Europa prendevano stabile assetto, e fondavano ciascuno la «patria»
di Machiavelli, cioè una totalità politica fortificata e cementata da idee religiose, morali e nazionali. E quello
era il tempo che l’Italia non solo non riusciva a fondare
la patria, ma perdeva affatto la sua indipendenza, la sua
libertà, il suo primato nella storia del mondo.
Di questa catastrofe non ci era una coscienza nazionale, anzi ci era una certa soddisfazione. Dopo tante cala-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
mità venivano tempi di pace e di riposo, e il nuovo dominio non parve grave a popoli stanchi di tumulti e di
lotte, avvezzi a mutare padroni, e pazienti di servitù, che
non toccava le leggi, i costumi, le tradizioni, le superstizioni, e assicurava le vite e le sostanze. Alcun moto di
plebe ci fu, come a Napoli per l’Inquisizione e per la gabella de’ frutti, cagionato da poca abilità ne’ governanti,
anzi che da elevatezza di sentimenti ne’ sudditi. Quanto
alle classi colte, ritirate da gran tempo nella vita privata,
negli ozi letterari e ne’ piaceri della città e della villa,
niente parve loro mutato in Italia, perchè niente era mutato nella lor vita. Contenti anche i letterati, a’ quali non
mancava il pane delle corti e l’ozio delle accademie.
Questa Italia spagnuola-papale aveva anche un aspetto
più decente. A forza di gridare che il male era nella licenza de’ costumi, massime fra gli ecclesiastici, il Concilio di Trento si diede a curare il male riformando i costumi e la disciplina. «Si non caste, tamen caute.» Al
cinismo successe l’ipocrisia. Il vizio si nascose; si tolse lo
scandalo. E non fu più tollerata tutta quella letteratura
oscena e satirica; Niccolò Franco, l’allievo e poi il rivale
di Pietro Aretino, predicatosi da sè «flagello del flagello
de’ principi», finì impiccato per un suo epigramma latino. Il riso del Boccaccio morì sulle labbra di Pietro Aretino. La censura preventiva, stabilita già dal Concilio lateranense, fu applicata con severità; fu costituita la
Congregazione dell’Indice. Sorsero nuovi ordini religiosi per la riforma de’ costumi e l’educazione della gioventù, i teatini, i somaschi, i barnabiti, i padri dell’oratorio, i gesuiti. Si composero poesie sacre, che si
cantavano nelle chiese e nelle processioni. San Filippo
Neri introdusse gli «oratorii», drammi e commedie sacre. L’istruzione cadde in mano a’ preti e a’ frati. Spirava un odore di santità!
Questa fu la riforma fatta dal Concilio di Trento, e
che il Sarpi chiama «difformazione». Il tema prediletto
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
de’ poeti italiani e de’ protestanti erano gli scandali della
corte romana. Roma, la «meretrice» di Dante, la «Babilonia» del Petrarca, era stata assalita da’ protestanti nel
suo lato più debole, e più efficace sulle grossolane moltitudini, nella sua scostumatezza. Il Concilio spezzò quest’arma antica di guerra in mano agli avversari, riformando la disciplina e dando in questo ragione al vecchio
Savonarola. Rimosso lo scandalo, il Concilio credea di
aver tolta alla Riforma protestante la sua ragion di essere, e stimò possibile una conciliazione. Ma la licenza de’
costumi era il pretesto, e non la cagion vera e intima della Riforma germanica e della incredulità italiana, che era
l’intelletto già adulto e libero, che non voleva riconoscere autorità di sorta e reclamava la libertà di esame. Ora il
Concilio non dava a questo alcuna soddisfazione, come
sarebbe stato un accostare la gerarchia a forme democratiche e lasciare alcuna larghezza di opinione in certe
quistioni; anzi fece proprio l’opposto, rafforzò l’autorità
papale a spese de’ vescovi, atteggiando la gerarchia a
monarchia assoluta, e definì tutte le quistioni di domma
e di fede, negando la competenza della ragione e della
coscienza individuale. Così la scissione divenne definitiva, e l’Europa cristiana fu divisa in due campi: dall’un
lato la Riforma, dall’altro il romanismo e il papismo. La
Riforma avea per bandiera la libertà di coscienza e la
competenza della ragione nell’interpretazione della Bibbia e nelle quistioni teologiche; il romanismo avea per
contrario a fondamento l’autorità infallibile della Chiesa, anzi del papa, e l’ubbidienza passiva, il «credo quia
absurdum». Questa lotta tra la fede e la scienza, l’autorità e la libertà, è antica, coeva alle origini stesse della religione, ma si manifestava in quistioni parziali intorno a
questo o a quel dogma, e solo allora se ne acquistò coscienza, e la differenza fu elevata a principio. In questa
coscienza più chiara sta l’importanza della Riforma e del
Concilio di Trento. Innanzi di questo tempo, ci era in
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Italia una specie di ecletismo, per il quale filosofia e teologia andavano insieme, senza troppo saper come, a
quel modo che classicismo e cristianesimo, e le idee più
ardite si facevano largo, quando erano accompagnate
con la clausola: «salva la fede». Era una specie di compromesso tacito, per il quale il mondo, bene o male, andava innanzi, senza troppi urti. Ora non sono più possibili gli equivoci, le cautele e ipocrisie oratorie: le due
parti sanno quello che vogliono, e stanno a fronte nemiche. La Chiesa, anzi il papa si proclama solo e infallibile
interprete della verità, e dichiara eretica non questa o
quella proposizione solamente, ma la libertà e la ragione, il dritto di esame e di discussione. Da questa lotta
esce il concetto moderno della libertà. Presso gli antichi
«libertà» era partecipazione de’ cittadini al governo, nel
qual senso è intesa anche dal Machiavelli. Presso i moderni accanto a questa libertà politica è la libertà intellettuale, o, come fu detto, la «libertà di coscienza», cioè
a dire la libertà di pensare, di scrivere, di parlare, di riunirsi, di discutere, di avere una opinione e divulgarla e
insegnarla: libertà sostanziale dell’individuo, dritto naturale dell’uomo, e indipendente dallo Stato e dalla
Chiesa. Di qui viene questa conseguenza, che interpretare e bandire la verità è dritto naturale dell’uomo, e non
privilegio di prete: sicchè proprio della Riforma fu il secolarizzare la religione. Il concetto opposto fondato
sull’onnipotenza della Chiesa o dello Stato è il dritto divino, la teocrazia, il cesarismo, assorbimento dell’individuo nell’essere collettivo, come si chiami, o Chiesa, o
Stato, o papa, o imperatore.
Il Concilio di Trento portava conseguenze non solo
religiose, ma politiche. Da esso usciva la consacrazione
della monarchia assoluta sulle rovine de’ privilegi feudali e delle franchigie comunali. Papa e re si diedero la mano. Il re prestava al papa il braccio secolare, e il papa lo
consacrava, lo legittimava, gli dava i suoi inquisitori e i
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
suoi confessori. La monarchia fu ordinata a modo della
gerarchia ecclesiastica, e fondata sullo stesso principio
dell’autorità e della ubbidienza passiva. Trono e altare
furono del pari inviolabili, e indiscutibili. E fu atto di ribellione pensare liberamente di papa o di re, anzi venne
su il motto: «De Deo parum, de rege nihil». Così la religione divenne un istrumento politico, il dispotismo religioso divenne il sussidio naturale del dispotismo politico.
Ma l’autorità e la fede sono di quelle cose che non si
possono imporre. E in Italia era così difficile restaurare
la fede, come la moralità. Ciò che si potè conseguire fu
l’ipocrisia, cioè a dire l’osservanza delle forme in disaccordo con la coscienza. Divenne regola di saviezza la
dissimulazione e la falsità nel linguaggio, ne’ costumi,
nella vita pubblica e privata: immoralità profonda, che
toglieva ogni autorità alla coscienza, ed ogni dignità alla
vita. Le classi colte incredule e scettiche si rassegnarono
a questa vita in maschera con la stessa facilità che si acconciarono alla servitù e al dominio straniero. Quanto
alle plebi, vegetavano, e fu cura e interesse de’ superiori
lasciarle in quella beata stupidità.
Non mancarono resistenze individuali. Molti uomini
pii, e anche ecclesiastici, amarono meglio ardere su’ roghi o esulare che mentire alla coscienza. Intere famiglie
abbandonarono l’Italia, e portarono altrove le loro industrie. Uomini egregi di virtù e di scienza onorarono il
paese natio scrivendo, predicando nella Svizzera,
nell’Inghilterra, in Germania. Operosissimo fra tutti il
Socino, da Siena, da cui presero nome i sociniani. Il suo
merito è di avere avuto della Riforma una coscienza assai più chiara, che non Lutero e non Calvino, facendo
fede quanto l’intelletto italiano era innanzi in queste
speculazioni. Perchè il Socino, uscendo dalle quistioni
parziali intorno a questo o a quel pronunziato teologico,
sulle quali battagliavano Lutero, Melantone e Calvino,
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proclama la ragione sola competente, negando ogni elemento soprannaturale, e fa centro dell’universo l’uomo
nel suo libero arbitrio, negando l’onniscienza divina e la
predestinazione. Ci si vede subito l’italiano, il concittadino di Machiavelli.
A questi esempi e a questi martìri l’Italia rimaneva indifferente. Quistioni che insanguinavano mezza Europa,
non la toccavano. Ed erano quistioni, dalle quali sciolte
nell’uno o nell’altro modo, dipendeva l’avvenire della civiltà e la sorte delle nazioni. Rimase romana tutta la gente latina, Spagna, Francia, Italia. Ma in Francia e nella
Spagna non fu, se non dopo accanite persecuzioni, che
resero indimenticabile il Tribunale della inquisizione e
la giornata di san Bartolomeo. In quelle lotte lo spirito
nazionale si ritemprò, e si svegliarono gl’intelletti; e il
sentimento religioso esaltato dagl’interessi politici e dal
fanatismo delle plebi fu fattore di civiltà, accentrò le forze intorno alla monarchia assoluta, costituì fortemente
l’unità nazionale e impresse alla vita intellettuale un moto più celere. La Spagna di Carlo quinto e di Filippo secondo ebbe il suo Cervantes, il suo Lopez e il suo Calderon, e la Francia ebbe il suo secolo d’oro, co’ suoi poeti,
filosofi e oratori, ebbe Cartesio, Malebranche e Pascal,
ebbe Bossuet e Fènelon, Corneille, Racine, e Molière Le
due nazioni uscirono dalla lotta potenti, prospere, e saldamente unificate.
In Italia non ci fu lotta, perchè non ci fu coscienza,
voglio dire convinzioni e passioni religiose, morali e politiche. Le altre nazioni entravano pure allora in via; essa
giungeva al termine del suo cammino, stanca e scettica.
Rimase papale con una coltura tutta pagana ed antipapale. Il suo romanismo non fu effetto di rinnovamento
religioso negli spiriti, come tentò di fare frate Savonarola, fu inerzia e passività; mancava la forza e di combatterlo e di accettarlo Piacque quella maggiore castigatezza e correzione nelle forme, stucchi della licenza, nè
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dispiaceva quel nuovo splendore del papato, e non
avendo patria, si fabbricavano volentieri una patria universale o cattolica, col suo centro a Roma. Venne in voga predicare contro gli eretici, e celebrare le vittorie cattoliche sopra i turchi, come quella di Lepanto, e più
tardi quella di Vienna. Papa e Spagna imperavano, nessuno riluttante. Ma se Filippo secondo o Luigi decimoquarto potevano dire: – Lo Stato son io –; Spagna e papa non potevano dire: – L’Italia siamo noi. – Mancavano
loro que’ gagliardi consensi che vengono dal di dentro e
formano il vincolo nazionale. Lo spirito italiano ubbidiva inerte e non scontento, ma rimaneva al di fuori, non
s’immedesimava in loro. Le idee vecchie non erano credute più con sincerità, e mancavano idee nuove, che formassero la coscienza e rinvigorissero la tempra: indi
quel consenso superficiale ed esteriore, quello stato di
acquiescenza passiva e di sonnolenza morale. L’intelletto in quella sua virilità non apparteneva a loro, era contro di loro. E se vogliamo trovare i vestigi di una nuova
Italia, che si vada lentamente elaborando, dobbiamo
cercarli nell’opposizione fatta a Spagna e papa. La storia
di questa opposizione è la storia della vita nuova.
Il primo fenomeno di questa sonnolenza italiana fu il
meccanismo, una stagnazione nelle idee, uno studio di
fissare e immobilizzare le forme. Si arrestò ogni movimento filosofico e speculativo. Il Concilio di Trento
avea poste le colonne d’Ercole, avea pensato esso per
tutti. La scienza fu presa in sospetto. Permesso appena il
platonizzare. I grandi problemi della destinazione umana, etici, politici, metafisici, furono messi da parte, ed al
pensiero non rimase altro campo che lo studio della natura ne’ limiti della Bibbia. Crebbe invece lo studio delle
forme.
Fu allora che si formò l’Accademia della Crusca, e fu
il Concilio di Trento della nostra lingua. Anch’essa sco-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
municò scrittori e pose dommi. E ne venne un arruffio
concepibile solo in quell’ozio delle menti.
La nostra lingua avea già una forma stabile e sicura in
tutta Italia. Il toscano era «il fiore della lingua italiana»,
così dice Speron Speroni. Ci era dunque una lingua italiana, vale a dire un fondo comune di vocaboli con una
comune forma grammaticale, atteggiato variamente e
colorito secondo le varie parti d’Italia. Allora, come ora,
si sentiva nello scrittore l’italiano e anche il toscano, il
lombardo, o il veneziano, o il napolitano. Questa varietà
di atteggiamento e di colorito, questo elemento locale
era la parte viva della lingua, che lo scrittore attingeva
dall’ambiente in cui era. Se Firenze fosse stata un centro
effettivo d’Italia, come Parigi, la lingua fiorentina sarebbe rimasta lingua viva di tutti gli scrittori italiani, che ivi
avrebbero avuto la loro naturale attrazione. Ma Firenze
era allora per gli italiani un museo, da studiarsi nei suoi
monumenti, voglio dire ne’ suoi scrittori. L’Accademia
della Crusca considero la lingua come il latino, vale a dire come una lingua compiuta e chiusa in sè, di modo che
non rimanesse a fare altro, se non l’inventario. Chiamò
puri tutt’i vocaboli contenuti nel suo dizionario e usati
da questo o da quello scrittore, e scomunicò tutti gli altri. Fece una scelta degli scrittori, e di sua autorità creò
gli eletti ed i reprobi. Così la lingua, segregata dall’uso
vivente, divenne un cadavere, notomizzato, studiato, riprodotto artificialmente, e gl’italiani si avvezzarono a
imparare e scrivere la loro lingua, come si fa il latino o il
greco. Il Petrarca e il Boccaccio diventarono modelli così inviolabili come la Bibbia, e il «non si può» venne in
moda anche per le parole, tanto che mancò pazienza fino al gesuita Bartoli. A mostrare in qual modo studiassero i nostri letterati, cito ad esempio un uomo coltissimo
e d’ingegno non ordinario, Speron Speroni:
«Io veramente fin da’ primi anni, desiderando oltramodo di
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
parlare e di scrivere volgarmente i concetti del mio intelletto, e
questo non tanto per dovere essere inteso, il che è cosa degna
da ogni volgare, quanto a fine che il nome mio con qualche
laude tra’ famosi si numerasse, ogni altra cura posposta, alla lezion del Petrarca e delle Cento novelle con sommo studio mi rivolgei: nella qual lezione con poco frutto non pochi mesi per
me medesimo esercitatomi, ultimamente da Dio ispirato ricorsi
al nostro messer Trifon Gabriele; dal quale benignamente aiutato, vidi e intesi perfettamente quei due autori, li quali, non
sapendo che notar mi dovessi, avea trascorso più volte.»
Questo è un solo periodo! E che affanno! E domando se
vi par lingua viva. Ecco ora in iscena Trifone, uno de’
grammatici e critici più riputati e chiamato il Socrate di
quella età:
«Questo nostro buon padre primieramente mi fece noti i
vocaboli, poi mi die’ regole da conoscere le declinazioni e coniugazioni de’ nomi e verbi toscani, finalmente gli articoli, i
pronomi, i participi, gli adverbi e le altre parti dell’orazione distintamente mi dichiarò: tanto che accolte in uno le cose imparate, io ne composi una mia grammatica, con la quale, scrivendo, io mi reggeva... Poichè a me parve d’esser fatto un solenne
gramatico, ... io mi diedi al far versi: allora pieno tutto di numeri, di sentenzie e di parole petrarchesche o boccacciane, per
certi anni fei cose a’ miei amici meravigliose; poscia parendomi
che la mia vena si cominciasse a seccare (perciocchè alcune
volte mi mancava i vocaboli, e non avendo che dire in diversi
sonetti, uno istesso concetto m’era venuto ritratto), a quello ricorsi che fa il mondo oggidì, e con grandissima diligenzia feci
un rimario o vocabolario volgare, nel quale per alfabeto ogni
parola, che già usarono questi due, distintamente riposi: oltre
di ciò in un altro libro i modi loro del descriver le cose, giorno,
notte, ira, pace, odio, amore, paura, speranza, bellezza siffattamente raccolsi, che nè parole, nè concetto usciva di me, che le
novelle e i sonetti loro non ne fossero esempio... Era d’opinione che la nostra arte oratoria e poetica altro non fosse che imitar loro ambidue, prosa e versi a lor modo scrivendo.»
Adunque la lingua, la «testura delle parole», i loro «numeri» e la loro «concinnità», frasi del tempo, si studia-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
vano nel Boccaccio e nel Petrarca, e se ne cavarono
grammatiche, dizionari e repertorii di frasi e di concetti.
Così insegnava Trifone Gabriele, detto Socrate, e così
praticava Speron Speroni, riuscito con questa scuola a
scrivere in quel gergo artificiale e convenzionale, che si e
visto. Così la lingua, fatta classica e pura, rimase immobile e cristallizzata, come lingua morta, e il suo studio
divenne difficilissimo. Si voleva non solo che la parola
fosse pura, ma che fosse numerosa ed elegante. Si formo
una scienza de’ numeri non pure in verso, ma in prosa.
Il periodo divenne un artificio complicatissimo. Eccone
un saggio nello Speroni:
«... come la composizione della prosa è ordinanza delle voci
delle parole, così i numeri sono ordini delle sillabe loro; con li
quali dilettando le orecchie, la buona arte oratoria comincia,
continua e finisce l’orazione; perciocchè ogni clausola, come
ha principio, così ha mezzo e fine: nel principio si va movendo,
e ascende; nel mezzo quasi stanca della fatica stando in pie si
posa alquanto; poi discende e vola al fine per acquetarsi... La
prosa alcuna volta ben compone le parole non belle, e altra
volta le belle malamente va componendo; e può occorrere che,
siccome nella musica bene e spesso le buone voci discordano, e
le non buone o per usanza o per arte sono tra loro concordi;
così i pari, i simili e i contrari, cose tutte per lor natura ben risonanti, qualche volta con voce aspra e difforme, qualche volta
scioccamente e a bocca aperta, va esplicando la orazione. Finalmente molte fiate intravviene che la prosa perfettamente
composta, quasi fiume del proprio corso appagandosi, non si
cura non che di giungere al fine, ma di posarsi per lo cammino,
e va sempre, e se ’l fiato non le mancasse, continuamente tutta
sua vita camminerebbe: però a’ numeri ricorriamo, li quali, attraversando la strada piacevolmente con lusinghe e con vezzi, a
rinfrescarsi e albergare con loro la invitino, e non volendo la
cortesia, vogliono usare le forze e per ben suo, mal suo grado,
con violenzia l’arrestino.»
Con questi criteri non è maraviglia che a lungo andare si sia giunto a tale, che un predicatore componeva i
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
suoi periodi a suon di musica. E si comprende anche
che lo Speroni fabbricasse a questo modo i suoi periodi,
e quanta ammirazione dovessero destare i periodi con
tanto artificio congegnati del Bembo, del Casa o del Castiglione. La parola ebbe una sua personalità, fu isolata
dalla cosa; e ci furono parole pure e impure, belle e
brutte, aspre e dolci, nobili e plebee. Nella scelta delle
parole stava il segreto della eleganza. Si cercava non la
parola propria, ma la parola ornata, o la perifrasi; la ripetizione era peccato mortale, e se la cosa era la stessa,
dovea cercarsi una diversa parola, tacere i nomi propri e
«ogni cosa delle altrui voci adornare», come lo Speroni
nota del Petrarca, il quale chiamò «la testa ’oro fino’ e
’tetto d’oro’; gli occhi ’soli’, ’stelle’, ’zaffiri’, ’nido’ e ’albergo d’amore’; le guance or ’neve e rose’, or ’latte e foco’; ’rubini’ i labbri; ’perle’ i denti; la gola e il petto ora
’avorio’, ora ’alabastro’». Una lingua viva è sempre propria, perchè la parola ti esce insieme con la cosa; una lingua morta è necessariamente impropria, perchè la trovi
ne’ dizionari e negli scrittori bella e fatta, mutilata di tutti quegli accessorii che il popolo vi aggiungeva, e che determinavano il suo significato e il suo colore. Così la nostra lingua, giunta a un alto grado di perfezione, che
pure allora nella Eneide del Caro e nel Tacito del Davanzati mostrava la sua potenza, si arresto nel suo sviluppo, a quel modo che la vita italiana, e disputavano
come si avesse a chiamare, o «toscana» o «fiorentina» o
«italiana,» quando era già bella e imbalsamata, ben rinchiusa e coperchiata nel dizionario della Crusca.
Il medesimo era della grammatica. Si cercò il criterio
non nella natura e nel significato delle cose, e non nella
logica necessità, ma nell’uso variabilissimo degli scrittori. Indi regole arbitrarie e più arbitrarie eccezioni, e
quella folla di significati attribuiti a una sola parola, e
tante inutilità decorate col nome di «ripieno», e sottigliezze infinite su di una lettera o una sillaba. Onde nac-
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que una ortografia in molte parti campata in aria e tentennante, una sintassi complicata e incerta, un guazzabuglio di particelle, pronomi, generi, casi, alterazioni e
costruzioni, una grammatica che anche oggi è una delle
meno precise e semplici. Avemmo una lingua senza proprietà e una grammatica senza precisione; perchè lingua
e grammatica furono considerate non in rispetto alle cose, ma per se stesse, come forme vacue e arbitrarie.
L’attenzione era tutta al di fuori, sulla superficie. La
letteratura fu un artificio tecnico, un meccanismo. E si
cercò il suo fondamento non nelle ragioni intrinseche di
ciascuna forma messa in relazione con le cose, ma
nell’esempio degli scrittori. Come del periodo, così immaginarono uno schema artificiale e immobile di composizione, la cui base fu posta in una certa concordanza
del tutto e delle parti, come in un orologio, e questo
chiamavano scrivere classico. Smarrito il sentimento
dell’arte e della poesia, non rimase che un concetto prosaico di perfezione meccanica, la regolarità e la correzione. Davano una importanza straordinaria alla lingua, alla grammatica, all’elocuzione, al periodo, alla
composizione: e qui erano le colonne di Ercole, qui finiva la critica. Gli scrittori giudicati secondo questi criteri
erano più o meno lodati secondo che più o meno si avvicinavano al modello. Si vantavano le commedie e le tragedie di quel tempo per la loro conformità alle regole. E
come un effetto bisognava ottenere sugli spettatori, e
quella regolarità ammiratissima era pur la più noiosa cosa di questo mondo, cercavano l’effetto ne’ mezzi più
grossolani e caricati, a cui sogliono ricorrere gli uomini
mediocri. Le commedie erano buffonerie, le tragedie
erano orrori, e tra le più insopportabili era appunto la
Canace dello Speroni. Una sola cosa mancava all’Italia, il
genere eroico, e lo Speroni è tutto sconsolato di non trovarne l’esempio nel Petrarca: «Quasi nuovo alchimista,
lungamente mi faticai per trovare l’eroico, il qual nome
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niuna guisa di rima dal Petrarca tessuta non è degna di
appropriarsi.» Il Trissino era mal riuscito. L’Orlando furioso era fuori regola, e gli si perdonava, perchè era «romanzo» e non poema. Il problema era di «trovare l’eroico», come diceva lo Speroni. Ciascun vede quanto
Pietro Aretino entrasse innanzi per ingegno critico a tutti costoro.
Conforme a quei criteri era la pratica. Comenti al
Boccaccio e al Petrarca infiniti. Molte traduzioni di classici, tra le quali il Livio del Nardi, la Rettorica e l’Eneide
del Caro, le Metamorfosi dell’Anguillara, il Tacito del
Davanzati. Grammatiche e rettoriche tutte ad uno stampo dal Bembo al Buommattei, detto «messer Ripieno»,
anzi sino al Corticelli. Imitazioni, anzi contraffazioni
classiche in uno stile artificiato, che tirava a sè anche i
più robusti ingegni, anche il Guicciardini. E le accademie che moltiplicavano sotto i nomi più strani, dove, finiti i baccanali, regnavano vuote cicalate e dispute grammaticali. Come contrapposto, non mancavano gli
eccentrici, che cercavano fama per via opposta, come il
Lando, che chiamava «imbecille» il Boccaccio e «animalaccio» Aristotile, e solleticava l’attenzione pubblica co’
suoi Paradossi.
Nella prima metà del secolo la libertà, anzi la licenza
dello scrivere gittava in mezzo a quell’aspetto uniforme
e pedantesco della letteratura la vivezza, la grazia, la
mordacità, la lubricità, la personalità dello scrittore. Dirimpetto al classico ci era l’avventuriere.
Ultimo di questi avventurieri fu Benvenuto Cellini,
morto nel 1570, Natura ricchissima, geniale e incolta,
compendia in sè l’italiano di quel tempo, non modificato dalla coltura. Ci è in lui del Michelangiolo e dell’Aretino insieme fusi, o piuttosto egli è l’elemento greggio,
primitivo, popolano, da cui usciva ugualmente l’Aretino
e Michelangiolo.
Artista geniale e coscienzioso, l’arte è il suo dio, la sua
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moralità, la sua legge, il suo dritto. L’artista, secondo
lui, è superiore alla legge, e «gli uomini, come Benvenuto, unici nella loro professione, non hanno ad essere obbligati alle leggi». Cerca la sua ventura di corte in corte,
armato di spada e di schioppetto, e si fa ragione con le
sue armi e con la lingua non meno mortale, che «fora e
taglia». Se incontra il suo nemico, gli tira una stoccata, e
se lo ammazza, suo danno; perchè «li colpi non si dànno
a patti». Se lo mettono prigione, gli pare uno scandalo e
gli fanno uno «scellerato torto». È divoto, come una
pinzochera, e superstizioso come un brigante. Crede a’
miracoli, a’ diavoli, agl’incantesimi, e, quando ne ha bisogno, si ricorda di Dio e de’ santi, e canta salmi e orazioni, e va in pellegrinaggio. Non ha ombra di senso morale, non discernimento del bene e del male, e spesso si
vanta di delitti che non ha commessi. Bugiardo, millantatore, audace, sfacciato, pettegolo, dissoluto, soverchiatore, e sotto aria d’indipendenza, servitore di chi lo paga. È contentissimo di sè e non si tiene al di sotto di
nessuno, salvo il «divinissimo» Michelangiolo. Potentissimo di forza e di vita interiore, questo cavaliere errante
dettò egli medesimo la sua vita, e si ritrasse con tutte
queste belle qualità, sicurissimo di alzare a sè un monumento di gloria. Queste qualità vengon fuori con la
spontaneità della natura ed il brio della forza in uno stile
evidente e deciso, come il suo cesello.
Nella seconda metà del secolo questa vita ricca e licenziosa è compressa, e la personalità scompare sotto il
compasso dell’accademia e del Concilio di Trento. Rimangono stizze, passioncelle, denuncie, calunnie, furori
grammaticali, la parte più grossolana e pedantesca di
quella vita. In quel tempo l’Inghilterra avea il suo
Shakespeare; Rabelais e Montaigne, pieni di reminiscenze italiane, preludevano al gran secolo; Cervantes scrivea il suo Don Chisciotte, e Camoens le sue Lusiadi. E i
nostri critici scrivevano gli Avvertimenti grammaticali e i
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Dialoghi sull’Amore platonico, Sulla Rettorica, Sulla Storia, sulla Vita attiva e contemplativa, e cercavano e non
trovavano il genere eroico.
Tra queste preoccupazioni e miserie venne in luce la
Gerusalemme Liberata. L’Italia avea il suo poema eroico, non so che «simile» all’Iliade e all’Eneide, e i critici
dovevano essere soddisfatti. Il giovane Pellegrini annunziò la buona novella a suon di tromba, con l’entusiasmo
dell’età.
La Gerusalemme intoppava in un mondo non più
poetico, ma critico. Il sentimento dell’arte era esausto,
l’ispirazione e la spontaneità nel comporre e nel giudicare era guasta da ragionamenti fondati sopra concetti critici, generalmente ammessi e tenuti come vangelo.
L’Ariosto si pose a scrivere come gli era dettato dentro,
e non guardava altro. Il suo argomento divenne innanzi
al suo genio un vero mondo, con la sua propria maniera
di essere e con le sue regole. Il Tasso, come Dante, era
già critico prima di esser poeta, aveva già innanzi a sè
tutta una scuola poetica. Ciò che sta avanti a lui non è il
suo argomento, ma certi fini, certe preoccupazioni certi
modelli, e Orazio e Aristotile, e Omero e Virgilio. A diciotto anni è già una maraviglia di dotto, e conosce Platone e Aristotile e sviluppa a maraviglia tesi di filosofia,
di rettorica e di etica. Scrive il Rinaldo, e, come aveva
imparato il «simplex et unum», studia all’unità dell’azione e alla semplicità della composizione, e ne chiede scusa al pubblico. Ma il pubblico, avvezzo alle larghe e magnifiche proporzioni dell’Orlando e dell’Amadigi, trova
il pasto un po’ magro e ne torce la bocca. Lasciò allora
da parte il poema cavalleresco, o, come dicevano, il romanzo, e pensò di dare all’Italia quel poema eroico, che
tutti cercavano. Esitò sulla scelta dell’argomento, avea
pronti quattro o cinque temi, e rimise l’elezione, dicesi,
al duca Alfonso, suo mecenate. In somma cominciò la
Gerusalemme. Volle fare un poema «regolare», come di-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
cevano, secondo le regole. L’argomento rispondeva a’
tempi pel suo carattere religioso e cosmopolitico, e vi
poteva senza sforzo introdurre un eroe estense, e, come
l’Ariosto, far la sua corte al duca. Si die’ una cura infinita delle proporzioni e delle distanze, per conservare
l’unità e la semplicità della composizione. Guardò al verisimile, per dare al suo mondo un aspetto di naturale e
di credibile. Introdusse un’azione seria, intorno a cui
tutto convergesse, e fece del pio Goffredo un protagonista effettivo, un vero capo e re a uso moderno. Soppresse i cavalieri erranti, e cavò l’intreccio non dallo spirito
di avventura, ma dall’azione celeste e infernale, come in
Omero. Umanizzò il soprannaturale, rendendolo spiegabile e quasi allegorico, e come una semplice esteriorità
degl’istinti e delle passioni. Nobilitò i caratteri, sopprimendo il volgare, il grottesco e il comico, e sonò la tromba dal primo all’ultimo verso. Tolse molta parte al caso e
alla forza brutale, e molta ne die’ all’ingegno, alla forza
morale, alle scienze, come ne’ suoi duelli e battaglie.
Mirò a dare al suo racconto un’apparenza di storia e di
realtà. Si consigliava spesso con i critici, e dava loro a
leggere il poema canto per canto, e mutava e correggeva,
docilissimo. Tra questi critici consultati era Speron Speroni.
Il Tasso voleva fare un poema seriamente eroico, animato da spirito religioso, possibilmente storico e prossimo al vero o verisimile, di un maraviglioso naturalmente
spiegabile, e di un congegno così coerente e semplice,
che fosse vicino ad una logica perfezione. Questo era il
suo ideale classico, che cercò di realizzare, e che spiegò
ne’ suoi scritti sul poema eroico e sulla poesia, ne’ quali
mostrò che ne sapeva più de’ suoi avversari.
Il poema fu accolto con quello spirito che fu composto. Letto prima a bocconi; quando uscì tutto intero,
scorretto e senza saputa dell’autore, si destò un vespaio.
I critici lo combatterono con le sue armi. – Se volevate
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
fare un poema religioso, – diceva l’Antoniano – dovevate darci un poema che potesse andar nelle mani anche
delle monache. – Gli uomini pii, che allora davano il
tuono, mostravano scandalo di quegli amori rappresentati con tanta voluttà, malgrado che il povero Tasso ne
chiedesse perdono alla Musa «coronata di stelle fra’
beati cori». E per farli tacere, costruì un’allegoria postuma e particolareggiata, che fosse di passaporto a quei diletti profani. Come arte, il poema fu esaminato nella
composizione, nella elocuzione, nella lingua e fino nella
grammatica: che era la materia critica di quel tempo.
Trovavano la composizione difettosa, soprattutto per
l’episodio di Olindo e Sofronia, lasciati lì e dimenticati
nel rimanente dell’azione. Parea loro che la vera e seria
azione comprendesse pochi canti, e il resto fosse un tessuto di episodi e avventure legate non necessariamente
con quella. L’elocuzione giudicavano artificiata e pretensiosa, la lingua impura e impropria, e non abbastanza
osservata la grammatica. Facevano continui confronti
con l’Eneide e con l’Iliade, e disputavano sottilmente e
futilmente sul genere eroico e sulle sue regole. Sorsero
confronti stranissimi tra l’Orlando e la Gerusalemme, e
chi facea primo l’Ariosto e chi il Tasso. La contesa occupò per qualche tempo l’oziosa Italia, e oscurò ancora
più il senso poetico, e non fe’ dare un passo alla critica.
Si rimase come in un pantano. Fra tanti opuscoli merita
attenzione quello di un giovane, chiamato a grandi destini, Galileo Galilei, che ne scrisse con un gran buon
senso, con molto gusto e con un retto sentimento
dell’arte.
L’Accademia della Crusca ebbe molta parte in questa
contesa. E si comprende. Mancava alla lingua del Tasso
il sapore toscano, quel non so che schietto e natio, con
una vivezza e una grazia che è un amore. Ma il Salviati
rese pedantesca l’accusa, facendo il pedagogo e notando
i punti e le virgole. L’esagerazione dell’accusa suscitò
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
l’entusiasmo della difesa, e il libro fu più noto e desiderato. Oggi, in tanto silenzio e indifferenza pubblica, un
autore si terrebbe fortunato di svegliare tanta attenzione. Ma il Tasso ne venne malato del dispiacere, e, quasi
fossero assalti personali, trattò i suoi critici come nemici.
In verità, il principal suo nemico era lui stesso. Si difendeva, ma con cattiva coscienza, perchè, professando i
medesimi princìpi critici, sentiva in fondo di aver torto.
E venne nell’infelice idea di rifare il suo poema, e dare
soddisfazione alla critica. Così uscì la Gerusalemme
Conquistata. Purgò la lingua, ubbidì alla grammatica. Le
«armi» cessarono di essere «pietose» e non divennero
«pie»; il «capitano» divenne il «cavalier sovrano»; il
«gran sepolcro» sparve del tutto, e il sublime «io ti
perdón» fu trasformato nel prosaico «perdón io». Le
correzioni sono quasi tutte infelici, di seconda mano,
fatte a freddo. Non ci è più il poeta, ci è il grammatico e
il linguista, co’ suoi terribili critici dirimpetto. Corresse
anche l’elocuzione, rifiutò i lenocini, cercò una forma
più grave e solenne, che ti riesce fredda e insipida. Peggior guasto nella composizione. Soppresse Olindo e Sofronia, e vi sostituì una fastidiosa rassegna militare. Cacciò via Rinaldo, come reminiscenza cavalleresca, e vi
ficcò un Riccardo, nome storico delle crociate, divenuto
un Achille, a cui die’ un Patroclo in Ruperto. Trasformò
Argante in un Ettore, figliuolo del re, di Aladino divenuto Ducalto. Fe’ di Solimano un Mezenzio, e lo regalò
di un figliuolo per imitare in sulla fine la leggenda virgiliana. Troncò le storie finali di Armida e di Erminia mutata in Nicea. Anticipò la venuta degli egizi, e moltiplicò
le azioni militari, per occupare il posto lasciato vuoto
dagli episodi abbreviati o soppressi. E gli parve così di
aver rafforzata l’unità e la semplicità dell’azione, resa
più coerente e logica la composizione, e dato al poema
un colorito più storico e reale. Ma non parve al pubblico, che non potè risolversi a dimenticare Armida, Rinal-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
do, Erminia, Sofronia, le sue più care creazioni e più popolari. E dimenticò piuttosto la Gerusalemme conquistata, che oggi nessuno più legge.
La poetica del Tasso è nelle sue basi essenziali conforme a quella di Dante. Lo scopo della poesia è per lui il
«vero condito in molli versi», come era per Dante il «vero sotto favoloso e ornato parlare ascoso». Il concetto
religioso è anche il medesimo, la lotta della passione con
la ragione. Passione e ragione sono in Dante inferno e
paradiso, e nel Tasso Dio e Lucifero, e i loro istrumenti
in terra Armida e la celeste guida di Ubaldo e Carlo.
L’intreccio è tutto fondato su questo antagonismo, divenuto il luogo comune de’ poeti italiani. L’Armida del
Tasso è l’Angelica del Boiardo e dell’Ariosto, salvo che
il Boiardo affoga il concetto nella immensità della sua tela, e l’Ariosto se ne ride saporitamente, dove il Tasso ne
fa il centro del suo racconto. Questo, che i critici chiamavano un «episodio», era il concetto sostanziale del
poema. Omero canta l’ira di Achille, cioè canta non la
ragione, ma la passione, nella quale si manifesta la vita
energicamente. Le sue divinità sono esseri appassionati,
Giove stesso non è la ragione, ma la necessità delle cose,
il fato. Virgilio s’accosta al concetto cristiano, togliendo
il pio Enea agli abbracciamenti di Didone. Pure, poeticamente ciò che desta il maggiore interesse non è il pio
Enea, ma l’abbandonata Didone. Nella leggenda cristiana il paradiso perduto e il peccato di Adamo sono argomenti epici, ne’ quali erompe la vita nella violenza de’
suoi istinti e delle sue forze. Nella passione e morte di
Cristo l’interesse poetico giunge al suo più alto effetto
tragico, perchè è il martirio della verità. In Dante questo
concetto preso nella sua logica perfezione produce
l’astrazione del paradiso e l’intrusione dell’allegoria; come nel Tasso produce l’astrazione del Goffredo. Si
confondeva il vero poetico, che è nella rappresentazione
della vita, col vero teologico o filosofico, che è un’astra-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
zione mentale o intellettuale della vita. L’Ariosto se la
cava benissimo, perchè canta la follia di Orlando, e
quando viene la volta della ragione, volge il fatto a una
soluzione comica e piccante, mandando Astolfo a pescarla nel regno della Luna. Il Tasso vuol restaurare il
concetto nella sua serietà, e mirando a quella perfezione
mentale, gli esce l’infelice costruzione del Goffredo e la
fredda allegoria della «donna celeste».
Non è meno errato il suo concetto della vita epica.
Ciò che lo preoccupa è la verità storica, il verisimile o il
nesso logico, e una certa dignità uguale e sostenuta. E
non vede che questo è l’esterno tessuto della vita, o il
meccanismo, il semplice materiale con appena la sua ossatura e il suo ordine logico. Il suo occhio critico non va
al di là, e quando il poeta morì e sopravvisse il critico,
esagerando questi concetti astratti e superficiali, guastò
miserabilmente il suo lavoro, e ci die’ nella Gerusalemme conquistata di quella ricca vita il solo scheletro, il
quale, perchè meglio congegnato e meccanizzato, gli
parve cosa più perfetta.
Ma il Tasso, come Dante, era poeta, ed aveva una vera ispirazione. E la spontaneità del poeta supplì in gran
parte agli artifici del critico.
Torquato Tasso, educato in Napoli da’ gesuiti, vivuto
nella sua prima gioventù a Roma, dove spiravano già le
aure del Concilio di Trento, era un sincero credente, ed
era insieme fantastico, cavalleresco, sentimentale, penetrato ed imbevuto di tutti gli elementi della coltura italiana. Pugnavano in lui due uomini: il pagano e il cattolico, l’Ariosto e il Concilio di Trento. Mortagli la madre
che era ancor giovinetto, lontano il padre, insidiato da’
parenti, confiscati i beni, tra’ più acuti bisogni della vita,
non dimentica mai di essere un gentiluomo. Serve in
corte e si sente libero; vive tra’ vizi e le bassezze, e rimane onesto; domanda pietà con la testa alta e con aria
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
d’uomo superiore e in nome de’ princìpi più elevati della dignità umana.
Ha una certa somiglianza col Petrarca. Tutti e due furono i poeti della transizione, gl’illustri malati, che sentivano nel loro petto lo strazio di due mondi, che non poterono conciliare. La musa della transizione è la
malinconia. Ma la malinconia del Petrarca era superficiale: rimaneva nella immaginazione, non penetrò nella
vita. Era una malinconia non priva di dolcezza, che si
effondeva e si calmava negli studi, e lo tenne contemplativo e tranquillo fino alla più tarda età. La malinconia
del Tasso è più profonda, lo strazio non è solo nella sua
immaginazione, ma nel suo cuore, e penetra in tutta la
vita. Sensitivo, impressionabile, tenero, lacrimoso. Prende sul serio tutte le sue idee, religiose, filosofiche, morali, poetiche, e vi conforma il suo essere. Entusiasta sino
all’allucinazione, perde la misura del reale e spazia nel
mondo della sua intelligenza, dove lo tiene alto
sull’umanità l’elevatezza e l’onestà dell’animo. Gli manca quel fiuto degli uomini e quel senso pratico della vita,
che abbonda a’ mediocri. La sua immaginazione è in
continuo travaglio, e gli corona e trasforma la vita non
solo come poeta, ma come uomo. Immaginatevelo
nell’Italia del Cinquecento e in una di quelle corti, e presentirete la tragedia. All’abbandono, alla confidenza,
all’espansione della prima giovinezza succede tutto il
corteggio del disinganno, la diffidenza, il concentramento, la malinconia, l’umor nero e l’allucinazione: stato
fluttuante tra la sanità e la pazzia, e che potè far credere,
non che ad altri, ma a lui stesso di non avere intero il
senno. In luogo di medici e di medicine gli era bisogno
un ritiro tranquillo, co’ suoi libri, e vicina una madre, o
una sorella, o amici resi intelligenti dall’affetto. Invece
ebbe il carcere e la sterile compassione degli uomini, lui
supplicante invano a tutt’i principi d’Italia. Libero,
trovò una sorella ed un amico, che se valsero a raddolci-
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re, non poterono sanare un’immaginazione da tanto
tempo disordinata. E quando ebbe un primo riso della
fortuna, il giorno della sua incoronazione fu il giorno
della sua morte.
Guardate in viso il Petrarca e il Tasso. Tutti e due
hanno la faccia assorta e distratta, gli occhi gittati nello
spazio e senza sguardo, perchè mirano al di dentro. Ma
il Petrarca ha la faccia idillica e riposata di uomo che ha
già pensato ed è soddisfatto del suo pensiero; il Tasso ha
la faccia elegiaca e torbida di uomo che cerca e non trova. E nell’uno e nell’altro non vedi i lineamenti accentuati ed energici della faccia dantesca.
Manca al Tasso, come al Petrarca, la forza con la sua
calma olimpica e con la sua risoluta volontà. È un carattere lirico, non è un carattere eroico. E come il Petrarca,
è natura subbiettiva, che crea di se stesso il suo universo.
Se fosse nato nel medio evo, sarebbe stato un santo.
Nato fra quello scetticismo ipocrita e quella coltura contraddittoria, vive tra scrupoli e dubbi, e non sa diffinire
egli medesimo se gli è un eretico o un cattolico, più crudele inquisitore di sè che il tribunale dell’Inquisizione.
Cominciò molto vicino all’Ariosto col suo Rinaldo. E gli
parve che non se ne fosse discostato abbastanza con la
sua Gerusalemme Liberata. Scrupoli critici e religiosi lo
condussero alla Gerusalemme conquistata, ch’egli chiamava la «vera Gerusalemme», la «Gerusalemme celeste».
E non parsogli ancora abbastanza, scrisse le Sette giornate della creazione.
Se in Italia ci fosse stato un serio movimento e rinnovamento religioso, la Gerusalemme sarebbe stato il poema di questo nuovo mondo, animato da quello stesso
spirito che senti nella Messiade o nel Paradiso perduto.
Ma il movimento era superficiale e formale, prodotto da
interessi e sentimenti politici più che da sincere convinzioni. E tale si rivela nella Gerusalemme Liberata.
Il Tasso non era un pensatore originale, nè gittò mai
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
uno sguardo libero su’ formidabili problemi della vita.
Fu un dotto e un erudito, come pochi ce n’erano allora,
non un pensatore. Il suo mondo religioso ha de’ lineamenti fissi e già trovati, non prodotti dal suo cervello. La
sua critica e la sua filosofia è cosa imparata, ben capita,
ben esposta, discorsa con argomenti e forme proprie,
ma non è cosa scrutata nelle sue fonti e nelle sue basi,
dove logori una parte del suo cervello. Ignora Copernico, e sembra estraneo a tutto quel gran movimento
d’idee che allora rinnovava la faccia di Europa, e allettava in pericolose meditazioni i più nobili intelletti d’Italia. Innanzi al suo spirito ci stanno certe colonne d’Ercole, che gli vietano andare innanzi; e quando
involontariamente spinge oltre lo sguardo, rimane atterrito e si confessa al padre inquisitore, come avesse gustato del frutto proibito. La sua religione è un fatto esteriore al suo spirito, un complesso di dottrine da credere e
non da esaminare, e un complesso di forme da osservare. Nel suo spirito ci è una coltura letteraria e filosofica
indipendente da ogni influenza religiosa, Aristotile e
Platone, Omero e Virgilio, il Petrarca e l’Ariosto, e più
tardi anche Dante. Nel suo carattere ci è una lealtà e alterezza di gentiluomo, che ricorda tipi cavallereschi anzi
che evangelici. Nella sua vita ci è una poesia martire della realtà; vita ideale nell’amore, nella religione, nella
scienza, nella condotta, riuscita a un lungo martirio coronato da morte precoce. Fu una delle più nobili incarnazioni dello spirito italiano, materia alta di poesia, che
attende chi la sciolga dal marmo, dove Goethe l’ha incastrata, e rifaccia uomo la statua.
Che cosa è dunque la religione nella Gerusalemme? È
una religione alla italiana, dommatica, storica e formale:
ci è la lettera, non ci è lo spirito. I suoi cristiani credono,
si confessano, pregano, fanno processioni: questa è la
vernice; quale è il fondo? È un mondo cavalleresco, fantastico, romanzesco e voluttuoso, che sente la messa e si
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
fa la croce. La religione è l’accessorio di questa vita, non
ne è lo spirito, come in Milton o in Klopstok. La vita è
nella sua base, quale si era andata formando dai Boccaccio in qua, col suo ideale tra il fantastico e l’idillico, aggiuntavi ora un’apparenza di serietà, di realtà e di religione.
Il tipo dell’eroe cristiano è Goffredo, carattere astratto, rigido, esterno e tutto di un pezzo. Ciò che è in lui di
più intimo è il suo sogno, che è pure imitazione pagana,
reminiscenza del sogno di Scipione. Il concetto religioso
è manifestato in Armida, la concupiscenza o il senso, e
in Ubaldo, voce della «donna celeste» o della ragione.
Ma «la ragione parla, e il senso morde», come dice il Petrarca, e l’interesse poetico è tutto intorno ad Armida.
La ragione usa una rettorica più pagana che cristiana, e
mostra aver pratica più con Seneca e con Virgilio che
con la Bibbia: il fonte della sua morale non è il paradiso,
ma la gloria. La ragione parla, e Armida opera, circondata di artifici e di allettamenti. E l’autore qui si trova
nel campo suo, e s’immerge in fantasie ariostesche, profane, idilliche, che crede trasformate in poesia religiosa,
perchè in ultimo vi appicca la verga aurea immortale di
Ubaldo, e la sua rettorica. Rinaldo, il convertito, non ha
una chiara personalità, perchè quello che è e quello che
diviene non si sviluppa nella sua coscienza, e non par
quasi opera sua, ma influsso di potenze malefiche e benefiche, le quali se lo contendono. Il dramma è tutto
esterno, e rimane d’assai inferiore alla confessione di
Dante, penetrata da spirito religioso. Quanto al rimanente, Rinaldo è una reminiscenza del Rinaldo o Orlando ariostesco in proporzioni ridotte, come Argante è
una reminiscenza di Rodomonte con faccia più seria.
Più tardi Rinaldo, trasformato in Riccardo, divenne una
reminiscenza di Achille; Sveno, mutato in Ruperto, fu
reminiscenza di Patroclo, e Solimano divenne Mezenzio, e Argante Ettore. Reminiscenze cavalleresche, remi-
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niscenze classiche, più vivaci e fresche le prime, come
più vicine e ancora sonanti nello spirito italiano.
Il Tasso sentiva confusamente che il poema non gli
era venuto così conforme al suo tipo religioso, com’egli
aveva in mente. E nella Gerusalemme conquistata cercò
supplirvi. Ma cosa fece? Accentuò qualche allegoria, diluì il sogno di Goffredo, appiccò al bel viaggio al di là
dell’Oceano, sola ispirazione moderna e degna di Camoens, un viaggio sotterraneo assai stentato di concetto
e di forma, e vi aggiunse una storia anteriore delle crociate, dipinta nella tenda di Goffredo. Rese il poema più
pesante, ma non più religioso, perchè la religione non è
nel dogma, non nella storia e non nelle forme, ma nello
spirito. E lo spirito religioso, come qualunque fenomeno
della vita interiore, non è cosa che si possa mettere per
forza di volontà.
Volea fare anche un poema serio. Ma la sua serietà è
negativa e meccanica, perchè da una parte consiste nel
risecare dalla vita ariostesca ogni elemento plebeo e comico, e dall’altra in un ordito più logico e più semplice,
secondo il modello classico. E sente pure di non esservi
riuscito, e nella Gerusalemme rifatta usa colori ancora
più oscuri, e cerca un meccanismo più perfetto. Gitta
tutt’i personaggi nello stesso stampo, e, per far seria la
vita, la fa monotona e povera. Cerca una serietà della vita in tempi di transizione, oscillanti fra tendenze contraddittorie, senza scopo e senza dignità. Cerca l’eroico,
quando mancavano le due prime condizioni di ogni vera
grandezza, la semplicità e la spontaneità. La sua serietà è
come la sua religione, superficiale e letteraria.
E voleva soprattutto dare al suo poema un aspetto di
credibilità e di realtà. Sceglie i suoi elementi dalla storia;
cerca esattezza di nomi e di luoghi; guarda ad una connessione verisimile d’intreccio; e, come uno scultore, ingrandisce i suoi personaggi con tale uguaglianza di proporzioni, che sembrano tolti dal vero. Chiude in limiti
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ragionevoli i miracoli della forza fisica; nè la forza e il
coraggio sono i soli fattori del suo mondo, ma anche
l’esperienza, la saggezza, l’abilità e la destrezza. Rifacendo la Gerusalemme, accentuò ancora questa sua intenzione, cercando maggiore esattezza storica e geografica.
Nelle sue tendenze critiche e artistiche si vede già un’anticipazione di quella scuola storica e realista che si sviluppò più tardi. Ma sono tendenze intellettuali, cioè puramente critiche, in contraddizione con lo stato ancora
fantastico dello spirito italiano e con la sua natura romanzesca e subbiettiva. Gli manca la forza di trasferirsi
fuori di sè, non ha il divino obblio dell’Ariosto, non attinge la storia nel suo spirito e nella sua vita interiore, attinge appena il suo aspetto materiale e superficiale. Ciò
che vive al di sotto è lui stesso: cerca l’epico, e trova il lirico, cerca il vero o il reale, e genera il fantastico, cerca
la storia, e s’incontra con la sua anima.
La Gerusalemme conquistata, di aspetto più regolare e
di un meccanismo più severo, è un ultimo sforzo per effettuare un mondo poetico, dal quale egli sentiva esser
rimasto molto lontano nella prima Gerusalemme. La base di questo mondo dovea essere la serietà di una vita
presa dal vero, colta nella sua realtà storica e animata da
spirito religioso. Rimase in lui un mondo puramente intenzionale, un presentimento di una nuova poesia, uno
scheletro che rimpolpato e colorito e animato da vita interiore si chiamerà un giorno I Promessi Sposi.
Come in Dante, così nel Tasso questo mondo intenzionale penetrato in un fondo estraneo vi rimane appiccaticcio. Ci è qui come nel Petrarca un mondo non riconciliato di elementi vecchi e nuovi, gli uni che si
trasformano, gli altri ancora in formazione. Il di fuori è
assai ben congegnato e concorde; ma è una concordia
meccanica e intellettuale, condotta a perfezione nella seconda Gerusalemme. Sotto a quel meccanismo senti il
disorganismo, un principio di vita molto attivo nelle
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parti, che non giunge a formare una totalità armonica. Il
fenomeno è stato avvertito da’ critici, a’ quali è parso
che l’interesse sia maggiore negli episodi che nell’insieme; e questi episodi, Olindo e Sofronia, Rinaldo e Armida, Clorinda ed Erminia sono i soli rimasti vivi nel popolo, giudice inappellabile di poesia. Ma ciò che si
chiama «episodio» è al contrario il fondo stesso del racconto, la sua sostanza poetica; perchè il poema, sotto
una vernice religiosa e storica, è nella sua essenza un
mondo romanzesco e fantastico, conforme alla natura
dello scrittore e del tempo.
Il fantastico è per lungo tempo la condizione di un
popolo, che non ha l’intelligenza e la pratica della vita
terrestre e non la prende sul serio. La vita di quelle plebi
superstiziose e di quelle borghesie oziose e gaudenti era
il romanzo, il maraviglioso delle avventure prodotte da
combinazioni straordinarie di casi o da forze soprannaturali. Il Tasso stesso era di un carattere romanzesco, insciente e aborrente delle necessità della vita pratica. Il
suo viaggio per gli Abruzzi in veste da contadino, e il
suo presentarsi alla sorella non conosciuto, e la scena tenera che ne fu effetto, è tutto un romanzo. Aggiungi le
impressioni letterarie che gli venivano dalla lettura
dell’Ariosto e dell’Amadigi, e la gran voga de’ romanzi e
il favore del pubblico, e ci spiegheremo come la prima
cosa che uscì dal suo cervello fu il Rinaldo, e come questo mondo romanzesco si conserva invitto attraverso le
sue velleità religiose, storiche e classiche.
L’intreccio fondamentale del poema è un romanzo
fantastico a modo ariostesco, un’Angelica che fa perdere
il senno a Orlando, e un Astolfo che fa un viaggio fantastico per ricuperarglielo. Hai Armida che innamora Rinaldo, e Ubaldo che attraversa l’Oceano per guarirlo
con lo specchio della ragione. Angelica e Armida sono
maghe tutt’e due, e istrumenti di potenze infernali, ma
sono donne innanzi tutto, e la loro più pericolosa magia
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
sono i vezzi e le lusinghe. Come Angelica, così Armida si
tira appresso i guerrieri cristiani e li tien lontani dal campo; nè vi manca l’altro mezzo ariostesco, la discordia,
che produce la morte di Gernando, l’esilio volontario di
Rinaldo e la cattività di Argillano. Da queste cause, le
quali non sono altro che le passioni sciolte da ogni freno
di ragione e svegliate da vane apparenze, escono le infinite avventure dell’Ariosto e le poche del Tasso annodate intorno alla principale, Armida e Rinaldo. La selva incantata, che ricorda la selva dantesca, è la selva degli
errori e delle passioni, o delle vane apparenze, nè i cristiani possono entrare in Gerusalemme, se non disfacciano quegl’incanti, cioè a dire, se non si purghino delle
passioni. Questo è il concetto allegorico di Dante, divenuto tradizionale nella nostra poesia, smarrito alquanto
nel pelago di avventure del Boiardo e dell’Ariosto, e ripescato dal Tasso con un’apparenza di serietà, che non
giunge a cancellare l’impronta ariostesca, cioè quel carattere romanzesco, che gli avevano dato il Boiardo e
l’Ariosto. Intorno a questo centro fantastico moltiplicano duelli e battaglie: materia tanto più popolare, quanto
meno in un popolo è sviluppato un serio senso militare.
Il popolo italiano era il meno battagliero di Europa, e si
pasceva di battaglie immaginarie. Vanamente cerchiamo
in questo mondo fantastico un senso storico e reale, ancorachè il poeta vi si adoperi. Mancano i sentimenti più
cari della vita. Non ci è la donna, non la famiglia, non
l’amico, non la patria, non il raccoglimento religioso,
nessuna immagine di una vita seria e semplice. Gildippe
e Odoardo riesce una freddura. La «pietà» di Goffredo
e la «saviezza» di Raimondo sono epiteti. L’amicizia di
Sveno e Rinaldo e nelle parole. Unica corda è l’amore, e
spesso riesce artificiato e rettorico, com’è ne’ lamenti di
Tancredi e di Armida, ed anche in Erminia con quelle
sue battaglie tra l’onore e l’amore. Nessuna cosa vale
tanto a mostrare il fondo frivolo e scarso della vita italia-
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na, quanto questi sforzi impotenti del Tasso a raggiungere una serietà alla quale pur mirava. Volere o non volere, rimane ariostesco, e di gran lunga inferiore a
quell’esempio. Gli manca la naturalezza, la semplicità, la
vena, la facilità e il brio dell’Ariosto: tutte le grandi qualità della forza. Quella vita romanzesca, così ricca di situazioni e di gradazioni, così piena di movimenti e di armonie, con una obbiettività e una chiarezza che sforza il
tuo buon senso e ti tira seco come sotto l’influsso di una
malia, se ne è ita per sempre.
Su quel fondo romanzesco il Tasso edifica un nuovo
mondo poetico, e qui è la sua creazione, qui sviluppa le
sue grandi qualità. È un mondo lirico, subiettivo e musicale, riflesso della sua anima petrarchesca, e, per dirlo in
una parola, è un mondo sentimentale.
È un sentimento idillico ed elegiaco che trova nella
natura e nell’uomo le note più soavi e più delicate. Già
questo sentimento si era sviluppato al primo apparire
del Risorgimento nel Poliziano e nel Pontano, deviato e
sperduto fra tanto incalzare di novelle, di commedie e di
romanzi. L’idillio era il riposo di una società stanca, la
quale, mancata ogni serietà di vita pubblica e privata, si
rifuggiva ne’ campi, come l’uomo stanco cercava pace
ne’ conventi. Sopravvennero le agitazioni e i disordini
dell’invasione straniera; e quando fine della lotta fu
un’Italia papale e spagnuola, perduta ogni libertà di
pensiero e di azione, e mancato ogni alto scopo della vita, l’idillio ricomparve con più forza, e divenne l’espressione più accentuata della decadenza italiana. Solo esso
è forma vivente fra tante forme puramente letterarie.
L’idillio italiano non è imitazione, ma è creazione originale dello spirito. Già si annunzia nel Petrarca, quale
si afferma nel Tasso, un dolce fantasticare tra’ mille suoni della natura. L’anima ritirata in sè è malinconica e disposta alla tenerezza, e senti la sua presenza e il suo accento in quel fantasticare. La natura diviene musicale,
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
acquista una sensibilità, manda fuori con le sue immagini mormorii e suoni, voci della vita interiore. Prevale
nell’uomo la parte femminile, la grazia, la dolcezza, la
pietà, la tenerezza, la sensibilità, la voluttà e la lacrima;
tutto quel complesso di amabili qualità che dicesi il
«sentimentale». I popoli, come gl’individui, nel pendio
della loro decadenza diventano nervosi, vaporosi, sentimentali. Non è un sentimento che venga dalle cose, ciò
che è proprio della sanità, ma è un sentimento che viene
dalla loro anima troppo sensitiva e lacrimosa. Manca la
forza epica di attingere la realtà in se stessa, e questa vita
femminile è un tessuto di tenere o dolci illusioni, nelle
quali l’anima effonde la sua sensibilità. Il sentimento è
perciò essenzialmente lirico e subbiettivo. Come il lavoro è tutto al di dentro, ci si sente l’opera dello spirito,
non so che manifatturato, la cosa non colta nella naturalezza e semplicità della sua esistenza, ma divenuta un
fantasma e un concetto dello spirito.
Il Tasso cerca l’eroico, il serio, il reale, lo storico, il religioso, il classico, e si logora in questi tentativi fino
all’ultima età. Sarebbe riuscito un Trissino; ma la natura
lo aveva fatto un poeta, il poeta inconscio d’un mondo
lirico e sentimentale, che succedeva al mondo ariostesco. A quest’ufficio ha tutte le qualità di poeta e di uomo. L’uomo è fantastico, appassionato, malinconico, di
una perfetta sincerità e buona fede. Il poeta è tutto musica e spirito, concettoso insieme e sentimentale. La sua
immaginazione non è chiusa in sè, come in un ultimo
termine, a quel modo che dal Boccaccio all’Ariosto si rivela nella poesia, ma è penetrata di languori, di lamenti,
di concetti e di sospiri, e va diritto al cuore. L’Ariosto
dice:
in sì dolci atti, in sì dolci lamenti,
che parea ad ascoltar fermare i venti.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Il sentimento appena annunziato si scioglie in una immagine fantastica. Il Tasso dice:
In queste voci languide risuona
un non so che di flebile e soave,
ch’al cor gli serpe ed ogni sdegno ammorza,
e gli occhi a lacrimar gl’invoglia e sforza.
Nella forma ariostesca ci è una virtù espansiva, che rimane superiore all’emozione e cerca il suo riposo non
nel particolare, ma nell’insieme: qualità della forza. Nella forma del Tasso ci è l’impressionabilità, che turba
l’equilibrio e la serenità della mente, e la trattiene intorno alla sua emozione: l’immagine si liquefà e diviene un
«non so che», annunzio dell’immagine che cessa e
dell’emozione che soverchia:
e un non so che confuso instilla al core
di pietà, di spavento e di dolore.
Anche tra’ furori delle battaglie la nota prevalente è
l’elegiaca, come nella ottava:
Giace il cavallo al suo signore appresso.
Ne’ casi di morte gli riesce meglio l’elegiaco che l’eroico.
Aladino, che cadendo morde la terra ove regnò, è grottesco. Solimano, che
... ... gemito non spande,
nè atto fa se non altero e grande,
ti offre un’immagine indistinta. Argante muore come
Capaneo, ma la forma è concettosa e insieme vaga, e
quelle voci e que’ moti «superbi, formidabili, feroci»
non ti dànno niente di percettibile avanti all’immaginazione. L’idea in queste forme rimane intellettuale, non
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
diviene arte. Al contrario precise, anzi pittoresche, sono
le immagini di Dudone, di Lesbino, de’ figli di Latino,
di Gildippe ed Odoardo, dove le note caratteristiche sono la grazia e la dolcezza. Così è pure nella morte di Clorinda; ispirazione petrarchesca con qualche reminiscenza di Dante. Clorinda è Beatrice nel punto che parea
dire: – Io sono in pace –; ma è una Beatrice spogliata de’
terrori e degli splendori della sua divinità. Il sole non si
oscura, la terra non trema, e gli angioli non scendono
come pioggia di manna. La religione del Tasso è timida,
ci è innanzi a lui il ghigno del secolo, mal dissimulato
sotto l’occhio dell’inquisitore. L’elemento religioso era
ammesso come macchina poetica, a quel modo che la
mitologia: tale è l’angiolo di Tortosa, e Plutone, messi
insieme. È una macchina insipida in tutt’i nostri epici,
perchè convenzionale, e non meditata nelle sue profondità. Gli angioli del Tasso sono luoghi comuni, e il suo
Plutone, se guadagna come scultura, è superficialissimo
come spirito, e parla come un maestro di rettorica. La
parte attiva e interessante è affidata alla magia, ancora in
voga a quel tempo, dalla quale il Tasso trae tutto il suo
maraviglioso. La morte di Clorinda non è una trasfigurazione, come quella di Beatrice, e si accosta al carattere
elegiaco e malinconico di quella di Laura, nel cui bel
volto «morte bella parea». Qui tutto è preciso e percettibile, il plastico è fuso col sentimentale, il riposo idillico
col patetico, e l’effetto è un raccoglimento muto e solenne di una pietà senz’accento, come suona in questa immagine nel suo fantastico così umana e vera e semplice,
perchè rispondente alle reali impressioni e parvenze di
un’anima addolorata:
... ... in lei converso
sembra per la pietate il cielo e il sole.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
La stessa ispirazione petrarchesca è nelle ultime parole
di Sofronia:
Mira il ciel com’è bello, e mira il sole
che a sè par che ne inviti e ne console.
Movimento lirico, che ricorda immagini simili di Dante
e del Petrarca, accompagnate nel Tasso da un tono alquanto pedantesco, quando vuol darvi uno sviluppo puramente dottrinale e religioso, come nelle prime parole
di Sofronia, che hanno aria di una riprensione amorevole fatta da un confessore a un condannato a morte, o
nelle parole di Piero a Tancredi, che hanno aria di predica. La sua anima candida e nobile la senti più nelle sue
imitazioni petrarchesche e platoniche, che in ciò che tira
dal fondo dottrinale e tradizionale religioso. Sofronia,
che fa una lezione a Olindo, ricorda Beatrice che ne fa
una simile e più aspra a Dante; ma Beatrice è nel suo carattere, è tutta l’epopea di quel secolo, ci è in lei la santa,
la donna, ed anche il dottore di teologia; Sofronia è rigida, tutta di un pezzo, costruzione artificiale e solitaria in
un mondo dissonante,
perciò appunto esagerata nelle sue tinte religiose, a cominciare da quella «vergine di già matura verginità» per
finire in quel bruttissimo:
... ... ella non schiva,
poi che seco non muor, che seco viva.
In questa eroina, martire della fede, non ci è la santa con
le sue estasi e i suoi ardori oltremondani, e non ci penetra il femminile con la sua grazia e amabilità. È uscita dal
cervello concetto cristiano con reminiscenze pagane e
platoniche. Colui che l’ha concepita, pensava a Eurialo e
Niso, a Beatrice e a Laura. La creatura è rimasta nel suo
intelletto, e non ha avuto la forza di penetrare nella sua
coscienza e nella sua immaginazione così com’era, nel
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
suo immediato. Il che avviene quando la coscienza e
l’immaginazione sono già preoccupate, e non conservano nella loro verginità le concezioni dell’intelletto. Se è
vero che, concependo Sofronia, il Tasso pensasse a
Eleonora, è una ragione di più, che ci spiega l’artificio e
la durezza di questa costruzione. Perciò Sofronia è la
meno viva e la meno interessante fra le donne del Tasso,
e non è stata mai popolare. Ma Sofronia è umanizzata da
Olindo, il femminile, in un episodio dove l’uomo è Sofronia: Olindo diviene eroe per amore, come altri diviene eroe per paura. Il suo carattere non è la forza, qualità
estranea al tempo ed al Tasso, e che senti così bene in
quel sublime: «Me me, adsum qui feci, in me convertite
ferrum», imitato qui a rovescio e rettoricamente. Il carattere di questo timido amante, «o mal visto, o mal noto, o mal gradito», presentato a’ lettori in una forma artificiosa e sottile, è l’eco del Tasso, un’anticipazione del
Tancredi, la stampa di quel tempo e di quel poeta, un
elegiaco spinto sino al gemebondo, un idillico spinto sino al voluttuoso. Il vero eroe del poema è Tancredi, che
è il Tasso stesso miniato: personaggio lirico e subbiettivo, dove penetra il soffio di tempi più moderni, come in
Amleto. Tancredi è gentiluomo, cioè cavalleresco nel
senso più delicato e nobile, gagliardo e destro più che
gigantesco di corpo, malinconico, assorto, flebile, amabile, consacrato da un amore infelice. La sua Clorinda è
una Camilla battezzata, tradizione virgiliana che al momento della morte si rivela dantesca e petrarchesca. Carattere muto, diviene intelligibile e umano in morte, come Beatrice e Laura. La sua apparizione a Tancredi
ricorda quella di Laura, ed è una delle più felici imitazioni. La formazione poetica della donna non fa in Clorinda alcun passo: rimane reminiscenza petrarchesca. E
se vuoi trovare l’ideale femminile compiutamente realizzato nella vita in quel suo complesso di amabili qualità,
dèi cercarlo non nella donna, ma nell’uomo, nel Petrar-
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ca e nel Tasso, caratteri femminili nel senso più elevato,
e in questa simpatica e immortale creatura del Tasso, il
Tancredi. Si è detto che l’uomo nella sua decadenza tenda al femminile, diventi nervoso, impressionabile, malinconico. Il simile è de’ popoli. E lo spirito italiano fa la
sua ultima apparizione poetica tra’ languori e i lamenti
dell’idillio e dell’elegia, divenuto sensitivo e delicato e
musicale. Il sentimento è il genio del Tasso, che gli fa
rompere la superficie ariostesca, e gli fa cavare di là dentro i primi suoni dell’anima. L’uomo non è più al di fuori, si ripiega, si raccoglie. Lo stesso Argante è colpito da
questo sublime raccoglimento innanzi alla caduta di Gerusalemme, come il poeta innanzi alle rovine di Cartagine, o quando nell’immensità dell’oceano concepisce e
comprende Colombo. Qui è l’originalità e la creazione
del gran poeta, che sorprende Solimano nelle sue lacrime e Tancredi nella sua vanagloria. Vita intima, della
quale dopo Dante e il Petrarca si era perduta la memoria.
Con l’elegiaco si accompagna l’idillico. L’immagine
sua più pura e ideale è l’innamorata Erminia, che acqueta le cure e le smanie nel riposo della vita campestre.
Quella scena è tra le più interessanti della poesia italiana. Erminia è comica nel suo atteggiamento eroico, e
fredda e accademica nelle sue discussioni tra l’onore e
l’amore; ma quando si abbandona all’amore, si rivelano
in lei di bei movimenti lirici, come:
Oh belle agli occhi miei tende latine!
Nella sua anima ci è l’impronta malinconica e pensosa
del Tasso, una certa dolcezza e delicatezza di fibra, che
la tien lontana dalla disperazione, e la dispone alla pace
e alla solitudine campestre, della quale un pastore gli fa
un quadro tra’ più finiti della nostra poesia. Erminia errante pe’ campi con le sue pecorelle, tutta sola in com-
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pagnia del suo amore, pensosa e fantastica e lacrimosa,
espande le sue pene con una dolcezza musicale, il cui segreto è meno nelle immagini che nel numero. Trovi reminiscenze petrarchesche e luoghi comuni in una musica nuova, piena di misteri o di «non so che» nella sua
melodia. Un traduttore può rendere il senso, ma non la
musica di quelle ottave. L’anima del poeta non è nelle
cose, ma nel loro suono, a cui è sacrificata alcuna volta
la proprietà, la precisione, la sobrietà, tutte le alte qualità dello stile, che rendono ammirabile il Petrarca, suo
ispiratore: pur non te ne avvedi sotto la malia di
quell’onda musicale, che non è un artifizio esteriore e
meccanico, ma è il non so che del sentimento, che viene
dall’anima e va all’anima.
L’idillico non è in questa o quella scena, ma è la sostanza del poema, il suo significato. La base ideale del
poema è il trionfo della virtù sul piacere, o della ragione
sulle passioni. Un lato di questa base rimane intellettuale e allegorico, e si risolve poeticamente in esortazioni
paterne, come:
Signor, non sotto l’ombra o in piaggia molle,
tra fonti e fior, tra ninfe e tra sirene,
ma in cima all’erto e faticoso colle
della virtù riposto è il nostro bene.
Contrapposto alla virtù è il piacere, e qui si sviluppano
tutte le facoltà idilliche del poeta. In Erminia l’idea idillica è la pace della vita campestre, farmaco del dolore
vòlto in dolce melanconia. Qui l’idea idillica è il piacere
della bella natura spinto sino alla voluttà e alla mollezza,
come ozio di anima e contrapposto alla virtù e alla gloria: ciò che il poeta chiude nel motto: «quel che piace, ei
lice», traduzione del dantesco: «libito fe’ licito». Questa
idea è sviluppata nel canto della ninfa e nel canto
dell’uccello, che sono due veri inni al Piacere:
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Solo chi segue ciò che piace è saggio.
Il primo canto è di una esecuzione così perfetta per naturalezza e semplicità, che soggioga anche il severo Galilei, e gli fa dire che qui il Tasso si accosta alla divinità
dell’Ariosto. L’altro canto è fondato su questo concetto
maneggiato così spesso da Lorenzo e dal Poliziano:
«Amiamo, chè la vita è breve». L’immagine è anche imitata dal Poliziano: è la descrizione della rosa, fatta pure
dall’Ariosto; ma, dove nel Poliziano ci è il puro sentimento della bellezza, qui si sviluppa un elemento sentimentale o elegiaco: l’impressione non è la bellezza della
rosa, ma la sua breve vita, e ne nasce un canto immortale, penetrato di piacere e di dolore, il cui complesso è
una voluttà resa più intensa da immagini tenere, fatti la
morte e il dolore istrumenti del piacere e dell’amore. Il
protagonista di questo mondo idillico è Armida, anzi
questo mondo è il suo prodotto, perchè essa è la maga
del piacere che gli dà vita. Armida e Rinaldo ricordano
Alcina e Ruggiero, e il concetto stesso del guerriero tenuto negli ozi lontano dalla guerra risale ad Achille in
Sciro, come l’idea dell’amore sensuale che trasforma gli
uomini in bestie è già tutta intera nella maga Circe. Di
questa lotta tra il piacere e la virtù si trovano vestigi poetici in tutte le nazioni. Il Tasso con un senso di poesia
profondo ha fatto di Armida una vittima della sua magia. La donna vince la maga, e come Cupido finisce innamorato di Psiche, cioè a dire di divino si fa umano,
Armida finisce donna che obblia Idraotte e l’inferno e la
sua missione, e pone la sua magia a’ servigi del suo amore. Questo rende Armida assai più interessante di Alcina, e le dà un nuovo significato. È l’ultima apparizione
magica della poesia, apparizione entro la quale penetra e
vince l’uomo e la natura. È il soprannaturale domato e
sciolto dalle leggi più forti della natura. È la donna uscita dal grembo delle idee platoniche e delle allegorie, che
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
si rivela co’ suoi istinti nella pienezza della vita terrena.
Già in Angelica apparisce la donna; ma la storia di Angelica finisce appunto allora, e allora appunto comincia
la storia di Armida. Angelica, terminando le sue avventure nella prosa idillica del suo matrimonio con un «povero fante», è salutata e accomiatata dal poeta con quel
suo risolino ironico. Il concetto, ripigliato dal Tasso, diviene una interessante storia di donna, a cui l’arte magica dà il teatro e lo scenario. Così la maga Armida è l’ultima maga della poesia e la più interessante nella
chiarezza e verità della sua vita femminile. Vive anche
oggi nel popolo più che Alcina, Angelica, Olimpia e Didone, perchè unisce tutti gli splendori della magia con
tutta la realtà di un povero core di donna. La sua riabilitazione è in quell’ultimo motto tolto alla Madonna: –
Ecco l’ancilla tua –; conclusione piena di senso: molto le
è perdonato, perchè ha molto amato. Ed è l’amore che
uccide in lei la maga e la fa donna. Trasformazione assai
più poetica che non è lo scudo di Ubaldo e la donna celeste: ond’è che Rinaldo nella sua conversione t’interessa
assai meno che Armida in questa sua trasfigurazione,
perchè quella conversione nasce da cause esterne e soprannaturali, e questa trasfigurazione è il logico effetto
di movimenti interni e naturali.
In Erminia e in Armida si compie la donna, non quale
uscì dalla mente di Dante e del Petrarca, di cui si trovano le orme in Sofronia e in Clorinda, non il tipo divino,
eroico e tragico della donna, ma un tipo più umano, idillico ed elegiaco. La forza di Erminia è nella sua debolezza. Senza patria e senza famiglia, sola sulla terra, vive
perchè ama, e, perchè ama, opera, ma le sue vere azioni
sono discorsi interiori, visioni, estasi, illusioni, lamenti e
lacrime, tutto un mondo lirico, che si effonde con una
dolcezza melanconica tra onde musicali. Erminia pastorella è la madre di tutte le Filli e Amarilli che vennero
poi, lontanissime dal modello. Nè tra le creature idilli-
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che del Boccaccio, del Poliziano, del Molza, del Sannazzaro c’è nessuna che le si avvicini. In Armida si sviluppa
tutto il romanzo di un amore femminile con le sue voluttà, con i suoi ardori sensuali, con le sue furie e le sue
gelosie e i suoi odii. Nessuno aveva ancora colta la donna con un’analisi così fina nell’ardenza e nella fragilità
de’ suoi propositi, nelle sue contraddizioni. La lingua
dice: – Odio –, e il cuore risponde: – Amo; – la mano
saetta, e il cuore maledice la mano:
e mentre ella saetta, Amor lei piaga.
Si dirà che tutto questo non è eroico, e non tragico; e
appunto per questo elle sono creature viventi, figlie non
dell’intelletto, ma di tutta l’anima, con l’impronta sulla
fisonomia del poeta e del secolo.
Il mondo idillico, figlio della mente d’Armida, è il palazzo e il giardino incantato, cioè la bella natura campestre resa artistica, trasformata dall’arte in istrumento di
voluttà, sì che pare che «imiti l’imitatrice sua».
Nell’Odissea, nelle Georgiche, nelle Stanze, ne’ giardini
ariosteschi la bella natura è sostanzialmente campestre o
idillica, e il suo ideale umano è la vita pastorale: l’età
dell’oro attinge anche di là le sue immagini. Il quadro
abituale della poesia classica e italiana è il verde de’
campi, i fiori, gli alberi, il riso della primavera, le fresche
ombre, gli antri, le onde, gli uccelli, le placide aurette,
quadro decorato dall’arte con le sue statue e i suoi intagli. Questa vista della natura si allarga innanzi al secolo
di Colombo e di Copernico, e ne senti l’impressione
nell’immensità dell’oceano, dove il Tasso trova alcune
belle ispirazioni. Ma alla fine del viaggio, toccando le
isole Fortunate, soggiorno di Armida, ricasca nel solito
quadro, e vi pone l’ultima mano. Qui vedi raccolto come in un bel mazzetto tutto ciò che di vezzoso e di leggiadro avea trovato l’immaginazione poetica da Omero
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
all’Ariosto; ma è nell’ultima sua forma, raffinata o artificiosa. Come Dante crea una natura oltremondana, il
Tasso crea una natura oltrenaturale, una natura incantata, il paradiso della voluttà. Non è la natura còlta
nell’immediato della sua esistenza, ma natura artefatta,
lavorata e trasformata da un artista, che ha fini e mezzi
suoi, e l’artista è Armida, maestra di vezzi e di artifici,
che crea intorno a sè una natura meretricia e voluttuosa.
Questa forma testamentaria della natura classica è portata a un alto grado di perfezione da un poeta che a un
sentimento musicale sviluppatissimo aggiungeva tutte le
finezze dello spirito.
Abbiamo anche una selva incantata, cioè una selva artefatta, e accomodata ad uno scopo a lei estraneo. L’incanto ne’ romanzi cavallereschi è così arbitrario come la
natura, e non è altro che combinazione straordinaria di
apparenze, che déstino curiosità e maraviglia. Qui, come
è concepito dal Tasso, l’incanto è ragionevole, e perciò
intelligibile, è la natura rimaneggiata dall’arte e indirizzata ad uno scopo. Come il giardino e il palazzo incantato, così la selva incantata è opera di artista che l’atteggia
a suo modo e secondo i suoi fini. Il concetto non è nuovo: è la nota selva delle false apparenze, la selva degli errori e delle passioni; ma l’esecuzione è originalissima, e
ti offre il microcosmo del Tasso, il suo mondo elegiacoidillico condensato e accentuato. Ci è lì fuso insieme Erminia e Armida, Tancredi e Rinaldo, tutta l’anima poetica del Tasso, ciò che di più tenero ha l’elegia e ciò che di
più molle ha l’idillio, ne’ loro accenti più musicali.
Questo è il vero mondo poetico della Gerusalemme,
un mondo musicale, figlio del sentimento, che dalla più
intima malinconia va digradando fino al più molle e voluttuoso di una natura meridionale. Ingegno napolitano,
manca al Tasso la grazia e la vivezza toscana, e la decisione e chiarezza lombarda così ammirabile nell’Ariosto,
ma gli abbonda quel senso della musica e del canto, quel
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dolce fantasticare dell’anima tra le molli onde di una
melodia malinconica insieme e voluttuosa, che trovi nelle popolazioni meridionali, sensibili e contemplative.
Questo mondo del sentimento è insieme il mondo dei
«concetti». Come il Petrarca, così il Tasso è disposto
meno a rinnovare un vecchio repertorio che ad abbigliarlo a nuovo. Dottissimo, la sua materia poetica è piena di reminiscenze, e non coglie il mondo nel suo immediato, ma a traverso i libri. Lavora sopra il lavoro,
raffina, aguzza immagini e concetti: la qual forma nella
sua esteriorità meccanica egli la chiama il «parlare disgiunto», ed è un «lavoro di tarsie», come diceva il Galilei. Cercando l’effetto non nell’insieme, ma nelle parti, e
facendo di ogni membretto un mondo a sè, raffinato e
accentuato, le giunture si scompongono, l’organismo
del periodo si scioglie, e vien fuori una specie di parallelismo, concetti e immagini a due a due, posti di fronte in
guisa che si dieno rilievo a vicenda. Il fondo di questo
parallelismo è l’antitesi, presa in un senso molto largo,
cioè una certa armonia che nasce da oggetti simili o dissimili posti dirimpetto, come:
Molto egli oprò col senno e colla mano,
molto soffrì nel glorioso acquisto:
e invan l’inferno a lui s’oppose, e invano
si armò d’Asia e di Libia il popol misto.
Quel «molto» e quell’«invano» sono il ritornello di una
cantilena chiusa in se stessa ed esaurita nell’espressione
di un rapporto tra due oggetti. Naturalmente, cercando
l’effetto in quel rapporto, l’intelletto vi prende parte più
che non si convenga a poeta, e riesce nel raffinato e nel
concettoso, come:
Oh di par con la man luci spietate!
Essa le piaghe fe’, voi le mirate.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Questo parallelismo, fondato sopra ritornelli di parole,
ravvicinamenti di oggetti, e straordinarietà di rapporti,
non è un accidente è il carattere di questa forma con
gradazioni più o meno spiccate. E non attinge solo i
pensieri, ma anche le immagini, come:
... ... e par che porte
lo spavento negli occhi e in man la morte.
L’immaginazione nelle sue contemplazioni ha sempre a’
fianchi un pedagogo, che analizza e distingue con logica
precisione, come:
Sparsa è d’armi la terra, e l’armi sparte
di sangue, e il sangue col sudor si mesce.
Cerca troppo il poeta lo stacco e il rilievo, dare un significato anche all’insignificante, e cerca il significato ne’
rapporti intellettuali anche tra la maggiore evidenza della rappresentazione e la concitazione più violenta
dell’affetto, come:
O sasso amato ed onorato tanto,
che dentro hai le mie fiamme e fuori il pianto!
Con questi giuochi di parole e di pensieri si lagna Tancredi e infuria Armida, la quale anche nella disperazione
del suicidio fa un discorsetto alle sue armi assai ingegnoso, e finisce:
sani piaga di stral piaga d’amore,
e sia la morte medicina al core.
È ciò che fu detto «orpello del Tasso» o maniera, propria de’ poeti subiettivi, una forma artificiosa di rappresentazione, dove l’interessante non è la cosa, ma il modo
di guardarla. In questo caso la forma non è la cosa, ma
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
lo spirito, con le sue attitudini facilmente classificabili
ne’ loro caratteri esteriori, e divenute maniera o abitudine nella rappresentazione, com’è il petrarchismo o il
marinismo. Essendo il proprio di questa maniera una
cantilena breve e chiusa, che ha il suo valore non solo
nel rimanente della clausola, ma in se stessa, vi si sviluppa l’elemento cantabile e musicale, una enfasi sonora,
un suono di tromba perpetuo e monotono, con certe
pause, con certi trilli, con certe ripigliate, con un certo
sopratuono come di chi gridi e non parli, che non comporta la semplice recitazione, come si può in molti passi
di Dante, del Petrarca e dell’Ariosto, ma ti costringe alla
declamazione. Ci è un «arma virumque cano» dal principio all’ultimo, un accento sollevato e teso, come di chi si
trovi in uno stato cronico di esaltazione. Indi, scelta di
parole sonanti, riempiture di epiteti e di avverbi, nobiltà
convenzionale di espressione, povertà di parole, di frasi,
di costruzioni e di gradazioni. Con questa forma declamatoria si accompagna naturalmente la rettorica, che è
quel tenersi su’ generali, e ravvivare luoghi comuni o
concettosi con un calore tutto d’immaginazione, tra uno
scoppiettio di apostrofi, epifonemi, ipotiposi, interrogazioni ed esclamazioni: il che gli avviene massime quando
mira alla forza di concitate passioni, come sono i lamenti di Tancredi e i furori di Armida. Questa è la «maniera» del Tasso, per entro alla quale penetra il potente soffio d’un sentimento vero, che spesso gli strappa accenti
nella loro energia pieni di semplicità. Nelle ultime parole di Clorinda ci è un sì e un no in battaglia, «al corpo
no, all’anima sì»; ma, salvo questo, che affetto e quanta
semplicità in quell’affetto ! Togliete quel fiato al Petrarca e al Tasso, cosa rimane? La maniera, il petrarchismo
e il marinismo, il cadavere de’ due poeti.
La Gerusalemme non è un mondo esteriore, sviluppato ne’ suoi elementi organici e tradizionali, come è il
mondo di Dante o dell’Ariosto. Sotto le pretensiose ap-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
parenze di poema eroico è un mondo interiore, o lirico,
o subbiettivo, nelle sue parti sostanziali elegiaco-idillico,
eco de’ languori, delle estasi e de’ lamenti di un’anima
nobile, contemplativa e musicale. Il mondo esteriore ci
era allora, ed era il mondo della natura, il mondo di Copernico e di Colombo, la scienza e la realtà. Anche il
Tasso ne ha un bagliore, e visibili sono qui le sue intenzioni storiche, reali e scientifiche, rimaste come presentimenti di un mondo letterario futuro. L’Italia non era
degna di avere un mondo esteriore, e non l’aveva. Perduto il suo posto nel mondo, mancato ogni scopo nazionale della sua attività, e costretta alla ripetizione prosaica di una vita, di cui non aveva più l’intelligenza e la
coscienza, la sua letteratura diviene sempre più una forma convenzionale separata dalla vita, un gioco dello spirito senza serietà, perciò essenzialmente frivolo e rettorico anche sotto le apparenze più eroiche e più serie. Di
questa tragedia Torquato Tasso è il martire inconscio, il
poeta appunto di questa transizione; mezzo tra reminiscenze e presentimenti, fra mondo cavalleresco e mondo
storico; romanzesco, fantastico, tra le regole della sua
poetica, la severità della sua logica, le sue intenzioni realiste e i suoi modelli classici; agitantesi in un mondo contraddittorio senza trovare un centro armonico e conciliante; così scisso e inquieto e pieno di pentimenti nel
suo mondo poetico, come nella vita pratica. Miserabile
trastullo del suo cuore e della sua immaginazione, fu là il
suo martirio e la sua gloria. Cercando un mondo esteriore ed epico in un repertorio già esaurito, vi gittò dentro
se stesso, la sua idealità, la sua sincerità, il suo spirito
malinconico e cavalleresco, e là trovò la sua immortalità.
Ivi si sente la tragedia di questa decadenza italiana. Ivi la
poesia prima di morire cantava il suo lamento funebre, e
creava Tancredi, presentimento di una nuova poesia,
quando l’Italia sarà degna di averla.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
XVIII
MARINO
Questo mondo lirico, che nella Gerusalemme si trova
mescolato con altri elementi, apparisce in tutta la sua
purezza idillica ed elegiaca nell’Aminta. Ivi il Tasso incontra il vero mondo del suo spirito e lo conduce a
grande perfezione.
L’Aminta non è un dramma pastorale e neppure un
dramma. Sotto nomi pastorali e sotto forma drammatica
è un poemetto lirico, narrazione drammatizzata, anzi
che vera rappresentazione, com’erano le tragedie e le
commedie e i così detti drammi pastorali in Italia. Citerò
la Virginia dell’Accolti, resa celebre dall’imitazione di
Shakespeare. Essa è in fondo una novella allargata a
commedia, di quel carattere romanzesco che dominava
nell’immaginazione italiana, aggiuntavi la parte del
buffone, che è il Ruffo, la cui volgarità fa contrasto con
la natura cavalleresca de’ due protagonisti, Virginia e il
principe di Salerno. Gli avvenimenti più strani si accavallano con magica rapidità, appena abbozzati, e quasi
semplice occasione a monologhi e capitoli, dove paion
fuori i sentimenti dei personaggi misti alla narrazione.
Di tal genere erano anche le egloghe o commedie pastorali, iniziate fin da’ tempi del Boiardo nella corte di Ferrara, e giunte allora a una certa perfezione d’intreccio e
di meccanismo nel Sacrificio del Beccari, nell’Aretusa del
Lollio e nello Sfortunato dell’Argenti. Queste ecloghe,
che dalla semplicità omerica e virgiliana erano state condotte fino ad un serio viluppo drammatico, furono dette
senza più «favole boscherecce». E anche commedie pastorali.
L’Aminta è un’azione fuori del teatro, narrata da testimoni o da partecipi con le impressioni e le passioni in
loro suscitate. L’interesse è tutto nella narrazione svilup-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
pata liricamente e intramessa di cori, il cui concetto è
l’apoteosi della vita pastorale e dell’amore: «s’ei piace, ei
lice». Il motivo è lirico, sviluppo di sentimenti idillici,
anzi che di caratteri e di avvenimenti. Abbondano descrizioni vivaci, soliloqui, comparazioni, sentenze, movimenti appassionati. Vi penetra una mollezza musicale,
piena di grazia e delicatezza, che rende voluttuosa anche
la lacrima. Semplicità molta è nell’ordito, e anche nello
stile, che senza perder di eleganza guadagna di naturalezza, con una sprezzatura che pare negligenza ed è artificio finissimo. Ed è perciò semplicità meccanica e manifatturata, che dà un’apparenza pastorale a un mondo
tutto vezzi e tutto concetti. È un mondo raffinato, e la
stessa semplicità è un raffinamento. A’ contemporanei
parve un miracolo di perfezione, e certo non ci è opera
d’arte così finamente lavorata.
Tentò il Tasso anche la tragedia classica, e ad imitazione di Edipo re scrisse il suo Torrismondo. Ma l’Italia
non avea più la forza di produrre nè l’eroico, nè il tragico, e lì non ci è di vivo se non quello solo di vivo che era
nel poeta e nel tempo, l’elemento elegiaco, massime ne’
cori. I contemporanei credettero di avere il poema eroico nella Gerusalemme, e non molto soddisfatti del Torrismondo aspettavano ancora la tragedia classica.
Delle sue rime sopravvive qualche sonetto e qualche
canzone, effusione di anima tenera e idillica. Invano vi
cerco i vestigi di qualche seria passione. Repertorio vecchio di concetti e di forme con i soliti raffinamenti. Dipinge bella donna così:
Chè del latte la strada
ha nel candido seno,
e l’oro delle stelle ha nel bel crine,
ne’ lumi ha la rugiada.
Il suo dolore esprime a questo modo:
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Fonti profonde son d’amare vene
quelle ond’io porto sparso il seno e ’l volto;
è ’nfinito il dolor, che dentro accolto
si sparge in caldo pianto e si mantene:
nè scema una giammai di tante pene,
perch’il mio core in dolorose stille
le versi a mille a mille.
I sentimenti umani sono petrificati nell’astrazione di
mille personificazioni, come l’amore, la pietà, la fama, il
tempo, la gelosia, e nel gelo di dottrine platoniche e di
forme petrarchesche.
Quel che sieno le sue prose, si può immaginare. Dottissime, irte di esempi e di citazioni, in istil grave, in andamento sostenuto, ma non inceppato, sfolgoranti di
nobili sentimenti. Quando esprime direttamente i moti
del suo animo, mostra un affetto rilevato da una forma
cavalleresca e di gentiluomo anche nell’abiezione della
sua sorte, com’è in alcune sue lettere. Quando specula,
come ne’ Dialoghi, senti ch’è fuori della vita, e sta in quistioni astratte, o formali. Ci è un libro che volontariamente ha chiuso, ed è il libro della libera investigazione.
Nella sua giovinezza l’autore del Rinaldo, dedito a furtivi e disordinati amori, era anche infetto dalla peste filosofica. La gran quistione era qual fosse superiore, la fede
o la religione, la volontà o l’intelletto. I filosofi moderni
rivendicano, egli dice, la sovranità dell’intelletto, e sostengono che l’uomo non può credere a quello che ripugna all’intelletto. Tratto dalla corrente, il giovine Tasso
non crede all’incarnazione, nè all’immortalità dell’anima, e di quei suoi costumi e di queste opinioni i suoi avversari gli fecero carico presso la corte, quand’egli era
già pentito e confesso e animato da zelo religioso. La sua
religione è messa d’accordo con la sua filosofia su questo bel ragionamento, che l’intelletto non può spiegare
tante cose che pure esistono, e che perciò esistono anche le verità della fede, ancorchè l’intelletto non sia
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
giunto a spiegarle. Indi è che ti riesce più erudito e dotto che filosofo, e rimane segregato da tutto quel movimento intellettuale intorno alla natura e all’uomo che allora ferveva anche in Italia, abbandonandosi al suo
naturale discorso timidamente, e non senza aggiungere
che se cosa gli vien detta non pia e non cattolica, sia per
non detta. Odia a morte i luterani, ha in sospetto i filosofi «moderni», e cerca un rifugio negli antichi, massime
in Platone, più affine alla sua natura contemplativa e religiosa. De’ suoi dubbi, delle sue ansietà, della sua vita
intellettuale interiore non è rimasto un pensiero, non un
grido. Ci è qui l’anima di Pascal o di sant’Agostino, cristallizzata in quell’atmosfera inquisitoriale nelle forme
classiche e negli studi platonici. Uno de’ suoi più interessanti dialoghi è quello che prende il nome del Minturno, scrittore napolitano, che fra l’altro die’ fuori una
Poetica. Ivi il poeta investiga la natura del bello, confutando tutte le definizioni volgari, e conchiude che il bello è la natura angelica, ovvero l’anima «in quanto si purga», che è appunto il concetto della sua Gerusalemme.
Evidentemente, confonde il bello col vero e colla perfezione morale, intravede l’ideale, e non lo coglie, e si discosta dalla poesia quanto più si accosta a quel concetto,
come nella Conquistata e nelle Sette giornate. Il dialogo è
platonico nel concetto e nell’andamento, ma vi desideri
la grazia e la freschezza di quel divino.
Il secolo comincia con l’Arcadia del Sannazzaro, e finisce con l’Arcadia del Guarini, detta il Pastor fido.
L’idillio, attraversato nel suo cammino dalla moda cavalleresca, ripiglia forza e resta padrone del campo, sviluppandosi a forma drammatica.
L’idillico e il comico erano generi viventi insieme col
romanzesco, e rappresentavano quella parte di vita poetica rimasta all’Italia. Il tragico e l’eroico erano pura imitazione. Perciò il comico e l’idillico si sprigionano in
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
parte dalle forme classiche e prendono un aspetto più
franco.
Il comico sviluppato in una moltitudine di novelle e
di commedie lasciava quel fondo convenzionale di Plauto e Terenzio, e produceva caratteri freschi e vivi, e per
piacere si accostava alle forme della vita popolare e anche a quel linguaggio, ora mescolando con l’italiano il
dialetto, ora scrivendo tutto in dialetto. Le farse napolitane accennavano già a questo genere. Ne scrisse anche
di simili Beolco, o il Ruzzante, detto il «famosissimo».
Gli attori cominciarono a contentarsi del canavaccio, o
del semplice ordito, come si fa ne’ balli teatrali, e improvvisavano il linguaggio, a quel modo che facevano gli
antichi novellieri. Compagnie di rapsodi, o improvvisatori, si sparsero in Italia, e anche più tardi a Parigi e a
Londra, traendosi appresso un repertorio, dove attinsero molti soggetti e pensieri e situazioni drammatiche
Shakespeare e Molière. Come ci era un fondo comune
d’invenzione, così ci erano caratteri fissi e determinati,
che comparivano in maschera, e alcuni anche senza, come Pantalone, Brighella, Arlecchino, Pulcinella, il Dottore bolognese, il capitan Spavento, o il capitano Matamoros, il servo sciocco, come Trappola, e simili.
Rappresentazioni, che ricordavano le atellane dell’antica
Roma, e si chiamavano «commedie a soggetto», dove
non ci era altro di espresso che il soggetto. Gli attori erano anche autori, e spesso rappresentavano prima una
commedia «erudita», e poi per far piacere al pubblico
improvvisavano una commedia a soggetto, o «dell’arte».
Intrighi amorosi, combinazioni straordinarie della vita e
certe parti episodiche convenute, certi caratteri tradizionali, come lo sciocco, il buffo, il discolo, il pedante, la
mezzana, l’usuraio, sono il fondo di questi repertorii popolari, a’ quali si avvicinano molto le commedie
dell’Aretino. Ivi si trovano i secreti della vita e del carattere italiano, assai più che in tutte le imitazioni classiche.
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Una storia della commedia e della novella in tutte le sue
forme sarebbe un lavoro assai istruttivo, e se ne caverebbero elementi preziosi per la storia della società italiana.
Un ricco repertorio di soggetti sceneggiati ci ha lasciato
nelle sue Cinquanta giornate Flaminio Scala, autore e attore così famoso come il «famosissimo» Ruzzante, e Andrea Calmo, «stupore e miracolo delle scene». Flaminio
rappresentava la parte dell’innamorato, e fu il capo di
quella compagnia comica che aprì il primo teatro italiano a Parigi nel 1577, sotto Enrico terzo. Celebre attrice
fu sua moglie Orsola, e più celebre fu Isabella di Padova, sposata a Francesco Andreini, che rappresentava la
parte del capitan Spavento. Isabella, celebrata dal Tasso, dal Castelvetro, dal Campeggi, dal Chiabrera, morì a
Lione, e nella scritta posta al suo sepolcro è detta «Musis amica et artis scaenicae caput». Pari a lei di fama e di
genio e di virtù fu Vincenza Armani, di Venezia, scrittrice e attrice, che ne’ drammi pastorali rappresentava la
parte di Clori. La parte del Dottore fu resa celebre dal
Graziano, e Arlecchino ebbe il suo grande interprete in
Giovanni Ganassa, da Bergamo, che nel 1570 introdusse
nella Spagna la commedia dell’arte, come Flaminio aveva fatto a Parigi e a Londra. Il Roscio del secolo fu il Verato, di Ferrara, celebrato dal Tasso e dal Guarini, che
intitolò dal suo nome un’apologia del suo dramma. La
commedia dell’arte non era altro se non la stessa commedia erudita tolta di mano agli accademici e rinfrescata
nella vita popolare, maneggiata da scrittori meno dotti,
ma più pratici del teatro e più intelligenti del gusto pubblico: perciò più svelta e vivace nel suo andamento, e
rallegrata da quello spirito che viene dall’improvviso e
dall’uso del dialetto, non senza cadere a sua volta nel vizio opposto alla pedanteria, ne’ lazzi sconci degli Arlecchini. Di essa non sono rimasti che gli scheletri: tutto ciò
che vi aggiungeva l’immaginazione improvvisatrice vive
solo nell’ammirazione de’ contemporanei.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Accanto al comico e al romanzesco si sviluppava il
sentimento idillico, con tanto più forza quanto la società
era più artificiata e raffinata. L’idillio si presentava come
contrasto tra l’onore e l’amore, tra la città e la villa, tra le
leggi sociali e le leggi della natura. Naturalmente è
l’amore o la natura che vince. La felicità, posta nell’età
dell’oro, cioè a dire fuori de’ travagli e delle agitazioni
della vita reale, nel riposo o tranquillità dell’anima; la vita rustica con quelle bellezze della natura, con quella vita di godimenti semplici, con quella spontaneità e ingenuità di sentimenti, era quel naturale contrapposto di
un mondo convenzionale, che senti nell’Aminta e nel
«pastore» di Erminia. L’ideale poetico posto fuori della
società in un mondo pastorale rivelava una vita sociale
prosaica, vuota di ogni idealità. La poesia incalzata da
tanta prosa si rifuggiva, come in un ultimo asilo, ne’
campi, e là gli uomini di qualche valore attingevano le
loro ispirazioni, di là uscirono i versi del Poliziano, del
Pontano e del Tasso. Come la commedia a soggetto era
il pascolo della plebe, il dramma pastorale era il grato
trattenimento delle corti, che ci trovavano un linguaggio
più castigato e predicatore di virtù fuori di ogni applicazione alla vita pratica. Perciò, come la commedia divenne sempre più licenziosa e plebea, il dramma pastorale
prese aria cortigiana, e quel mondo semplice della natura si manifestò con una raffinatezza degna delle nobili
principesse spettatrici. Questo carattere già visibile
nell’Aminta diviene spiccatissimo nel Pastor fido. Giambattista Guarini fu poeta di occasione e cortigiano di natura, dove il Tasso fu tutto l’opposto: cortigiano per bisogno e per istinto poeta. Il Guarini era nobile e ricco, e
non lo strinse alla vita di corte che la sua natura irrequieta e ambiziosa. Passò il tempo errando di corte in corte,
e dopo i disinganni correva dietro a nuovi inganni. Aveva molto ingegno, non comune coltura, assai pratica della vita e degli uomini, mente chiarissima, grande attività.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Compagno negli studi col Tasso a Padova, fu a Ferrara
suo emulo, e quando il Tasso capitò in prigione, prese il
suo posto e fu battezzato poeta di corte. Disgustato a
sua volta degli Estensi, si ritirò in una sua bellissima villa, e vi concepì e vi scrisse il Pastor fido, acclamato da
tutta Italia. Anche lui ebbe le sue intenzioni critiche.
Volle fare una tragicommedia, mescolanza di elementi
tragici e comici in un ordito largo e ricco, dove fossero
innestate più azioni. Questo parve eresia a’ critici, tenaci
al «simplex et unum», e che non concepivano l’arte se
non come un ideale tragico o comico. Si ravvivarono
adunque quelle polemiche letterarie, che dal Castelvetro
e dal Caro in qua mettevano in moto tante accademie. Il
Guarini si difese assai bene nell’Apologia, e mostrò coscienza chiarissima della sua opera. Forse il teatro spagnuolo non fu senza influenza sulla sua critica, ma, come tutto si diffiniva con l’autorità de’ classici, difese
quell’innesto di azioni e quella mescolanza di caratteri
con Aristotile alla mano e con l’Andria di Terenzio. Oggi gli si fa gloria di quello che allora si reputava peccato.
Si dice ch’egli abbia intraveduto il dramma moderno, e
non solo lo intravide, ma lo concepì con l’esattezza di un
critico odierno. La poesia dee rappresentare la vita così
com’è, con le sue mescolanze e i suoi sviluppi: questo è
il concetto ch’esce chiaramente dal suo discorso. Ma
quello che in Shakespeare e in Calderon è sentimento
dell’arte sviluppato naturalmente in una vita nazionale,
ricca e piena, in lui è visione intellettuale e solitaria, è
concetto di critico, non sentimento di artista; concepiva
il dramma quando del dramma mancavano tutte le condizioni in Italia, principalmente una vita seria e sostanziale. La sua critica fa onore all’intelletto italiano, allora
nel fiore del suo sviluppo, e rivela insieme la decadenza
della facoltà poetica.
Il Pastor fido, come meccanismo ed esecuzione tecnica, è ciò che di più perfetto offriva la poesia. Due azioni
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entranti naturalmente l’una nell’altra e magnificamente
innestate, caratteri ben trovati e ben disegnati e perfettamente fusi nella loro mescolanza, una superficie levigata
con l’ultima eleganza, una versificazione facile, chiara e
musicale fanno di questo poemetto, per ciò che si attiene a costruttura e ad abilità tecnica, un gioiello. Tutto
ciò che chiarezza d’intelletto e industria di stile e di verso può dare, è qui dentro. Il concetto, come nell’Aminta, è il trionfo della natura, con la quale il destino, in lotta apparente, si riconcilia da ultimo, mediante le solite
agnizioni. Il poema è un’apoteosi della vita pastorale e
dell’età dell’oro, contrapposta alla corruzione e alle agitazioni della città, e invocata spesso da’ personaggi con
senso d’invidia nella stretta delle loro passioni. Abbondano invocazioni, preghiere, sentenze morali e religiose;
ma il fondo è sostanzialmente pagano e profano, è il naturalismo, la natura scomunicata e condannata come
peccato, che qui, dopo lunga lotta, si scopre non essere
altro che la stessa legge del destino. La conclusione è:
«Omnia vincit amor», riconciliato col destino e divenuto
virtù, con tanto più sapore, con quanto più dolore:
Quello è vero gioire,
che nasce da virtù dopo il soffrire.
Ma la virtù è nome, e la cosa è il godimento amoroso
sotto forme così voluttuose, che il Bellarmino ebbe a dire aver fatto più male con quel suo libro il Guarini che
non i luterani. Dal concetto nasce tutto l’intrigo. Corisca
e il satiro sono l’elemento comico e plebeo: l’una è la
donna corrotta della città, tornata a’ campi e divenuta il
mal genio di questa favola, l’altro è l’ignoranza e la grossolanità della vita naturale ne’ suoi cattivi istinti, e tutti e
due sono la macchina poetica, l’istrumento che annoda
gli avvenimenti e produce la catastrofe. I protagonisti
sono Mirtillo e Amarilli, che si amano senza speranza,
essendo Amarilli fidanzata a Silvio, il quale, come la Sil-
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via dell’Aminta, è dedito alla caccia, ed ha il core chiuso
all’amore, invano amato da Dorinda, invano fidanzato
ad Amarilli. Mirtillo ed Amarilli per inganno di Corisca
e per la bestialità del satiro sono dannati a morte, mentre Silvio per errore ferisce Dorinda, travestita e scambiata per lupo. All’ultimo, Silvio s’intenerisce e sposa
Dorinda, e Mirtillo, scopertosi esser egli il vero Silvio, figlio di Montano, che dovea essere fidanzato ad Amarilli,
la sposa. Così la natura, posta d’accordo co’ responsi
dell’oracolo trionfa; e tutti contenti, la natura e il destino, gli dei e gli uomini. Certo, qui ci sono tutti gli elementi di un dramma, e «dramma» lo chiamano i critici
per l’innesto delle azioni, per la mescolanza de’ caratteri, e per la parte data al destino secondo la tragedia greca: cose non lodevoli e non biasimevoli, che possono essere e non essere in un dramma. Il valore di una poesia
bisogna cercarlo non in queste condizioni esterne del
suo contenuto, ma nella sua forma, cioè nella sua vita intima. Il Pastor fido è così poco un dramma, come
l’Aminta, ancorchè ne abbia maggiore apparenza nel
suo meccanismo. Ma la sua vita organica è quella medesima dell’Aminta, suo specchio e sua reminiscenza, e
tutti e due sono poemi lirici, narrazioni, descrizioni,
canti, non rapprese ella scena, e non te ne giunge sul teatro che l’eco lirica. Vedi sfilare i personaggi l’uno appresso l’altro, e non è ragione che venga l’uno prima, e
l’altro poi, e ci narrano i loro guai: parlano, non operano. Indi monologhi e narrazioni interminabili. Hanno
operato o vogliono operare, e ci raccontano quello che
hanno fatto o son disposti a fare, aggiungendovi le loro
riflessioni e impressioni. L’azione è un’occasione all’effusione lirica. Abbondano i cori, ma ciascun personaggio fa esso medesimo ufficio di coro, perchè non opera,
ma discorre, riflette, effonde i suoi dolori e le sue gioie.
Non manca al Guarini un ingegno drammatico, e lo mostra nella scena tra il satiro e Corisca, o tra Silvio e Do-
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rinda, o dove Dorinda ferita s’incontra con Silvio. Ciò
che gli manca è la serietà di un mondo drammatico, non
essendo questo suo mondo che un prodotto artificiale e
meccanico di combinazioni intellettuali. Manca a lui e
manca all’Italia un mondo epico e drammatico, e perciò
non ci è epica, e non ci è dramma. Quel suo mondo
dell’Arcadia era per lui cosa così poco seria, come il
mondo cavalleresco era all’Ariosto, salvo che l’Ariosto
se ne ride, e lui lo prende sul serio, a quel modo che il
Tasso. Cosa n’esce? Sotto pretensioni drammatiche esce
un mondo lirico, come di sotto alle pretensioni eroiche
del Tasso usciva un poema lirico. Il secolo era vuoto di
passione e di azione, e vuoto di coscienza, nè il Concilio
trentino potè dargliene altro che l’apparenza ipocrita.
«Questo è un secolo di apparenza, – scrive il Guarini, –
e si va in maschera tutto l’anno». Ma egli pure andava in
maschera, e fu col secolo, non fuori e non sopra di esso.
Rimaneva l’idolatria della letteratura, considerata come
un bel discorso nella eleganza delle sue forme, condimento di una vita molle tra le feste e le pompe e gli ozi
idillici delle corti. E questa è la vita che ti dà il Guarini,
bei discorsi lirici e musicali, per entro ai quali spira
un’aria molle e voluttuosa. Questa è la vita intima del
Pastor fido, come dell’Aminta, e se vogliamo gustarlo, lasciamo lì il dramma co’ suoi innesti, le sue mescolanze e
il suo destino, e mettiamoci a questo punto di vista.
Manca al Guarini l’ispirazione, la malinconia, la concentrazione fantastica, il profondo sentimento del Tasso, e come poeta gli è di gran lunga inferiore. Parla sempre di amore, ma non lo sente. E non sente la vita
pastorale, quella inclinazione alla solitudine e alla pace
idillica, lui che ambizione e cupidigia tenea distratto tra
le più prosaiche occupazioni della vita. La virtù, la religione, il destino, tutto ciò che la vita ha di più elevato, è
nella sua mente, non è nella sua coscienza. O, per dir
meglio, coscienza non ha: quel focolare interno, dove
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convivono e si raffinano tutte le potenze dell’anima,
condizionandosi a vicenda; dove si genera il filosofo, il
poeta, l’uomo di Stato, il gran cittadino, centro di vita,
da cui solo esce la vita. E perchè questo centro di vita gli
manca, il Guarini ha immaginazione e non ha fantasia,
ha spirito e non ha sentimento, ha orecchio musicale e
non ha l’armonia che nell’anima si sente. Lo diresti un
gran poeta in potenza, a cui sia fallita la formazione per
la distrazione delle forze interiori. Perciò non ha la produzione geniale del poeta, ma la mirabile costruzione di
un artista consumato: della quale si può dire quello che
il coro dice della chioma finta di Corisca, che gli è un
«cadavere d’oro». Splende e non scalda, lusinga l’orecchio e i sensi, e non lascia alcun vestigio nell’anima: tutti
quei personaggi vestiti di oro e di porpora sono morti
con esso Mirtillo e Amarilli. Ma quali splendori! qual
maraviglia di costruzione! Fra tanti costruttori il primo
posto tocca al Guarini, a cui stanno prossimi il Caro e il
Monti. La sua ricca immaginazione si spande al di fuori
come iride nella pompa de’ suoi più smaglianti colori; il
suo spirito chiaro e acuto profonde con brio e facilità i
concetti più ingegnosi, più delicati e più fini; il suo verso
ti sembra nato insieme con que’ colori e con que’ concetti: così è duttile, molle, vezzoso ed elegante. Se ci è lì
dentro un sentimento, è una sensualità raffinata, la poesia della libidine. È lo stesso mondo del Tasso con le
stesse qualità, esagerate dall’emulo, che pretendea di far
meglio: un mondo plasmato nelle corti e ritratto della
coltura. Quel mondo, che nel Tasso apparisce malinconico e contraddittorio tra gli strazi e le confuse aspirazioni della transizione, eccolo qui sfacciato e a bandiera
spiegata. È il naturalismo del Boccaccio nella sua ultima
forma, purgato e castigato, involto in apparenze morali
e religiose, un naturalismo con licenza de’ superiori, o
«in maschera», come direbbe il Guarini. Non basta la licenza; il nudo disgusta e non alletta; la sensualità intor-
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pidita ha bisogno degli stimoli dell’immaginazione e dello spirito. Il cavallo di battaglia per i poeti platonici erano gli occhi: qui è il bacio. Già il Tasso avea fatto qualche allusione al gioco del bacio. Il Guarini ne fa una
pittura voluttuosissima, e il bacio preso per furto diviene il luogo comune dell’Arcadia. Quanti raffinamenti
sul bacio! Odasi il Guarini:
... quello è morto bacio a cui
la baciata beltà bacio non rende.
Ma i colpi di due labbra innamorate,
quando a ferir si va bocca con bocca...
son veri baci, ove con giuste voglie
tanto si dona altrui, quanto si toglie.
Baci pur bocca curiosa e scaltra
o seno, o fronte, o mano: unqua non fia
che parte alcuna in bella donna baci,
che baciatrice sia,
se non la bocca, ove l’un’alma e l’altra
corre e si bacia anch’ella, e con vivaci
spiriti pellegrini
dà vita al bel tesoro
de’ bacianti rubini:
sicchè parlan tra loro
quegli animati e spiritosi baci
gran cose in picciol suono...
Tal gioia amando prova, anzi tal vita
alma con alma unita:
e son come d’amor baci baciati
gl’incontri di due cori amanti amati.
Poesia splendida, dove lo spirito è così raffinato ne’ suoi
concetti, com’è la sensuale immaginazione ne’ suoi colori. Non è la vita in atto; è vita lirica, narrata, descritta,
sentenziata. Anche Corisca e il satiro si esprimono sentenziando, anche il coro. Uno spirito sottile trova i più
ingegnosi rapporti, che l’immaginazione condensa in
versi felicissimi. E poichè si tratta di baci, ecco una sentenza di Amarilli:
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Bocca baciata a forza,
se ’l bacio sputa, ogni vergogna ammorza.
La soverchia facilità rompe ogni misura. Ciascuna situazione diviene un tema astratto, sul quale l’immaginazione intesse i più preziosi ricami. I discorsi, dialoghi o
monologhi, sono vere canzoni, dove riccamente è sviluppato qualche sentimento, divenuto un’astrazione dello spirito. La canzone spesso si sveste la maestà e solennità petrarchesca, e divenuta elegiaca e idillica anche
nella sua esteriorità, ti si presenta innanzi spezzata in sè,
intramessa di versetti e di rime, in brevi periodetti, tutta
vezzi e languori e melodie, assai vicina al madrigale concettoso e galante, dove il Guarini era maestro. Bellissimo esempio sono le canzonette, che cantano le ninfe intorno ad Amarilli nel giuoco della «cieca».
Il secolo si chiude sotto le più belle apparenze di progresso letterario. La sua vita interna è il naturalismo in
viva opposizione con l’ascetismo. Vi si sviluppa l’idillico, il comico, il romanzesco, portandosi appresso come
parti morte il petrarchismo e il classicismo. Questa vita
nuova s’inizia nel Boccaccio, ritratto sintetico del secolo,
dove commedia, idillio e romanzo fanno la loro prima
comparsa. L’idillio, tranquillo riposo dell’anima nel seno della natura, ideale di felicità contrapposto all’inquieto ideale ascetico, attinge la sua perfezione estetica
nelle Stanze, e fa sentire i suoi susurri tra le fantasie ariostesche. L’idillio è il sentimento della natura vivente e
delle belle forme, che si scioglie dal soprannaturale; è un
naturalismo, non è ancora umanismo, e accosta l’arte alla natura, e nella maggior finitezza del disegno, de’ contorni e delle figure raggiunge l’idealità della bella forma,
e produce i miracoli dell’arte e della poesia italiana. Il
comico ha già nel Boccaccio il suo grande poeta. È il riso della nuova generazione, che fa la parodia del passato
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ne’ suoi diversi aspetti, religioso, etico, dottrinale, in novelle, capitoli e commedie: onde si sviluppa una ricca
letteratura, buffonesca, ironica, licenziosa, umoristica. E
come il comico non chiude in sè alcuna affermazione,
anzi viene da indifferenza e da scetticismo, ha tutt’i segni di una dissoluzione morale, di cui la più sfacciata
espressione sono le commedie dell’Aretino, e riesce in
ultimo superficiale e frivolo. L’immaginazione in quella
insipidezza della vita interiore, in quella poca serietà
della vita esteriore si gitta al romanzesco, e vi si trastulla
colla coscienza superiore di un intelletto adulto, con la
coscienza che gli è un giuoco e un passatempo: situazione che attinge la sua bellezza artistica nel mondo armonico dell’Ariosto, e si scioglie nell’umorismo del Folengo. E quando, giunta la licenza al suo ultimo segno ne’
costumi e nello scrivere, vi si volle porre un rimedio e
sopravvenne la reazione ascetica e platonica, quando si
volle imporre alla coscienza italiana un’affermazione, e
alla letteratura un ideale, risorse l’idillio, l’ideale del naturalismo, e fu la sola forza viva fra tanti ideali religiosi,
morali, platonici, con visibile contrasto tra i concetti
platonici e religiosi, e la sensualità dell’idillio. La letteratura prende un’apparenza religiosa e morale, epica e tragica; e la pompa delle sentenze, il lusso de’ colori, la
grandiloquenza rettorica, la finezza de’ concetti rivelano
la poca serietà di quelle tendenze. Sotto a quelle apparenze vive ne’ più seducenti colori un mondo lirico idillico; il naturalismo condannato nelle parole è la vera vita
organica, che vien fuori in una forma di apparenze meno licenziose, ma più raffinata e voluttuosa. Il sentimento di questa transizione nelle sue contraddizioni e nella
sua sincerità si riflette nella nobile anima del Tasso, e ne
cava suoni malinconici, elegiaci, voluttuosi, musicali,
che sono l’ultimo raggio della poesia. Quel mondo idillico fra tanta pompa di sentenze morali e d’intenzioni platoniche si afferma nella sua nudità presso il Guarini, e
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
diviene il motivo della nuova generazione poetica. Il Seicento non è una premessa, è una conseguenza.
La letteratura italiana era allora così popolare in Europa, come prima fu la provenzale, e poi la francese. In
verità, quanto alla parte tecnica, giungeva allora all’ultima perfezione. I più mediocri scrivono con piena osservanza delle regole grammaticali, con un nesso logico più
severo, e con un fare più spedito. Si vede una letteratura
già formata, quando le altre erano allora in uno stato di
formazione. Critici, retori, grammatici, professori, accademici pullulavano dappertutto, fra una turba di poeti e
di prosatori in tutt’i generi. L’Italia del Seicento non solo non ha coscienza della sua decadenza, ma si tiene ed è
tenuta principe nella coltura letteraria. Nessuno le contende il primato, e le altre nazioni cercano ne’ suoi novellieri, ne’ suoi epici, ne’ suoi comici le loro invenzioni
e le loro forme.
Dicono che nel Seicento si sviluppò una rivoluzione
letteraria, e che tutti cercavano novità. Il che prova appunto che la letteratura avea già presa la sua forma fissa,
e compiuto il suo circolo. Le novità non si cercano, ma
si offrono, quando la letteratura comincia a svilupparsi:
allora tutto è fresco, tutto è nuovo. Cercavano novità,
perchè si sentivano innanzi ad una letteratura esaurita
nel suo repertorio e nelle sue forme, divenuta tradizionale, meccanica, e già materia comica nella Secchia rapita e nello Scherno degli dei, poemi comici comparsi al
principio del secolo, dove sono volte in ridicolo le forme
mitologiche ed epiche. Ma è comico vuoto e negativo,
perchè gli manca il rilievo nel contrasto di altre forme, e
nulla di positivo è nello spirito de’ due autori, il Tassoni
e il Bracciolini. Nel loro spirito quelle forme son morte,
e perciò ridicole, ma invano cerchi quali altre forme vivessero nel loro secolo e nella loro coscienza: ond’è che
quel comico cade nel vuoto e rimane insipido. Al contrario il Don Chisciotte è opera di eterna freschezza, per-
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chè ivi lo spirito cavalleresco si dissolve nella immagine
di una nuova società, che gli sta dirimpetto, e con la sua
presenza lo rende comico. Il Tassoni volge in ridicolo
anche le forme liriche petrarchesche, e censura non solo
il petrarchismo, ma esso il Petrarca. Parla in nome della
semplicità, del buon senso, e del verisimile: gli ripugna
tutto ciò che è raffinato e concettoso. Critica caduta nel
vuoto, perchè quella semplicità di vita, quel sentimento
del reale non era nel secolo, e nella sua coscienza era
un’astrazione dell’intelletto: un buon gusto naturale,
privo di un mondo plastico, in cui si potesse esplicare.
Perciò tutti quelli che scrivono con semplicità e naturalezza, malgrado certe vivezze e certe grazie di stile, riescono insipidi, come il Tassoni e più tardi il Redi. Mancava loro la vita interiore, e l’esteriorità, in mezzo a cui
stavano, era affatto insipida, quando non era pretensiosa. Del Tassoni sopravvive il ritratto del conte di Culagna:
filosofo, poeta e bacchettone,
che era fuor de’ perigli un Sacripante,
ma ne’ perigli un pezzo di polmone.
Dico il ritratto, perchè nella rappresentazione è così
sbiadito e insipido, come gli altri personaggi. Del Redi è
rimasto il Bacco in Toscana, che ricorda le baccanti
dell’Orfeo, e per brio e calore d’immaginazione, per naturalezza di movenze, per artificio di verso è di piacevole lettura.
Non solo la letteratura nelle sue forme e nel suo contenuto, ma è anche esaurita la vita religiosa, morale e politica, quantunque ce ne fosse una seria apparenza comandata e servile, via alla fortuna. La storia ha
condannato a un giusto obblio le opere servili, frondose
e adulatorie, e serba grata memoria di quelle dove spira
alcuna libertà di pensiero, perchè, quando anche non
possa ammirare lo scrittore, trova degno d’ammirazione
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l’uomo. Certo all’uomo è inferiore lo scrittore, perchè la
sua critica è negativa, e non move dalla chiara coscienza
di una nuova società, ma da un semplice sentimento di
resistenza e di opposizione. Anche nel Cinquecento la
critica è negativa, ma è negazione universale, col consenso e fra le risa di tutti, non è il pensiero solitario dell’artista. Questo spiega il Berni, spiega la Mandragola, le satire dell’Ariosto, le commedie dell’Aretino, i poemi
cavallereschi ironici e umoristici. La scienza può esser
solitaria: l’arte dee avere a sua materia un mondo plastico e vivente, di cui è la voce. In quel secolo la negazione
era libera, ammessa, desiderata, applaudita, ci era comunione simpatica fra l’autore e i lettori; e ci era pure in
fondo a quella negazione la coscienza di un mondo nuovo, di un rinnovamento o risorgimento, di un mondo
dell’arte e della natura, che succedeva alla barbarie del
medio evo. Anche nel Trecento Dante avea con sè il secolo, e lo fuse in tutte le sue direzioni in un mondo plastico, che era appunto il mondo del medio evo, l’altro
mondo. Ora ci è un mondo ipocrita e inquisitoriale, dove la vita religiosa e sociale fuori della coscienza è meccanizzata e immobilizzata in forme fisse e inviolabili.
L’arte intisichisce, priva di un mondo libero intorno a
se. Chi vuol comprendere la differenza de’ secoli, legga i
Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini, l’ardito comentatore di Tacito, caduto sotto il pugnale spagnuolo.
Il suo Parnaso, che succede al mondo ariostesco e al
dantesco, è di nessunissima serietà, e rimane una semplice occasione, una cornice, dove inquadra pensieri, stizze, frizzi, allusioni e allegorie, senz’altra unità o centro
che il suo ghiribizzo. È un mondo sciolto in atomi, senza
vita e coesione interna. La critica, priva di un mondo serio, in cui si possa incorporare, si svapora in sentenze,
esortazioni, sermoni, prediche, declamazioni e generalità rettoriche, tanto più biliosa, quanto meno artistica.
Così apparisce nelle Satire di Salvator Rosa, che pure so-
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no salvate dall’obblio per la maschia energia di un’anima sincera e piena di vita, che incalora la sua immaginazione e gli fa trovare novità di espressioni e di forme pittoriche felicemente condensate.
Come suole avvenire, nessun secolo sonò così spesso
la tromba epica, quanto questo secolo così poco eroico.
Alcuni seguirono le orme del Tasso, come il Graziani
nel Conquisto di Granata. Il Chiabrera scrisse il Foresto,
la Gotiade, la Firenze, l’Amadeide, il Ruggiero, tutti poemi eroici, oltre ventidue poemetti profani e quattordici
sacri. Il Villafranchi, lo Stigliani e altri cantarono la scoperta dell’America, e anche il Tassoni avea preso a scrivere sullo stesso argomento il suo Oceano, quando con
miglior consiglio e con più chiara coscienza delle sue attitudini si volse a fare nella Secchia rapita la parodia delle forme eroiche. Di tanti poemi epici non uno solo è rimasto. Ce n’è di tutti gli argomenti, sacri e profani,
cavallereschi, eroici, mitologici, perchè erano capricci
individuali, e mancava l’argomento del secolo. Novissimo e popolarissimo argomento era la scoperta
dell’America, che ispirò al Tasso la più geniale delle sue
concezioni, il viaggio alle isole Fortunate. Ma fu trattato
col solito bagaglio classico, e il mondo nuovo apparve
stanca e vieta reminiscenza di un mondo poetico già decrepito.
Il mondo eroico di quel secolo era stato fabbricato
dal Concilio di Trento. Ed era una ristaurazione del
mondo cattolico alle prese co’ turchi, e vincitore meno
per virtù propria che per la grazia di Dio. Questo argomento di tutt’i poemi cavallereschi, sciolto nella buffoneria del Pulci e nell’ironia dell’Ariosto, purgato e nobilitato dal Tasso, era divenuto l’accento «ufficiale» del
secolo. Il poeta di questa ristaurazione fu Gabriello
Chiabrera, che compiuti i suoi studi a Roma, educato
da’ gesuiti, guidato da Speron Speroni, ritiratosi nella
nativa Savona pieno il capo di testi greci e latini e d’arti
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poetiche, verseggiò instancabilmente, sino alla tarda età
di ottantasei anni, fra le ammirazioni de’ principi e de’
letterati. In tre volumi di liriche non ti è facile incontrare
un pensiero o una immagine che ti arresti, e avendo a
mano argomenti nobilissimi o affettuosissimi, niente è
che ti mova o t’innalzi. Non ci è quasi avvenimento di
qualche importanza che non sia da lui celebrato, come
le vittorie su’ pirati delle galee toscane, la battaglia di
Lepanto, le fazioni de’ veneziani in Grecia. Lodi di principi abbondano, ma non mancano lodi di grandi capitani, e soprattutto di santi, come di Pietro, Paolo, Cecilia,
Maria Maddalena, Stefano, Agata, e simili, a cominciare
dalla Vergine. Vi s’inframmettono satire di eretici, come
Lutero, Calvino e Beza, che sono vere invettive personali. Naturalmente non mancano anche gli amori, temi
astratti, ne’ quali spuntano già le Filli, le Amarilli e le
Cloe, che più tardi invasero l’Arcadia. Che più? Quando
manca l’argomento vivo e presente, si esercita, come i
collegiali, sopra generalità astratte, come il verno, le stelle, Muzio Scevola, il ratto di Proserpina, il diluvio, Golia, Giuditta e simili. Canzoni e canzonette, ditirambi ed
epitaffi, sonetti e poemi, trovi qui ogni varietà di forme,
come ogni varietà di contenuto. Ora fa l’eroe, ora fa il
cascante, e suona con la stessa facilità la tromba, la cetra,
la lira e la zampogna, ora scimieggiando Pindaro, ora
Anacreonte. Le feste principesche gli forniscono materia di favole boscherecce e di drammi musicali. Ma tutto
è a uno stampo, e tratta di argomenti commoventissimi
e presenti con la stessa indifferenza che scrive di Proserpina o di Chirone. In luogo di chiudersi nel suo argomento e cercarne le latebre, divaga in fatti mitologici o
in generalità rettoriche, e riesce vuoto e freddo. Dee far
le lodi di san Francesco? Ed eccoti una tirata sulla fame
dell’oro. Gli manca ogni talento pittorico, ogni movimento di affetto o d’immaginazione, e non ha alcuna
esaltazione o entusiasmo lirico. C’è più poesia nelle Vite
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del Cavalca, che in queste sue insipide Maddalene Lucie
Cecilie, Stefani e Sebastiani. Dante in pochi tratti ti fissa
nella memoria santo Stefano assai meglio che non fa in
sette strofe il Chiabrera, errante tra reminiscenze sacre e
profane, e affatto incapace di cogliere l’individuo nella
sua personalità. In qualche strofa di fra Iacopone senti
la Vergine; ma non la trovi nelle cento strofe che le sono
qui consacrate. Il martirio di san Sebastiano è materia
pietosissima. In mano al Chiabrera diviene ampollosa e
fredda rettorica. Dove non è insipido, riesce pretensioso, come quando, esortando le muse a cantare il santo
trafitto, dice:
tendete, arciere d’ammirabil canto,
musici dardi al saettato Santo.
Se guardi alla materia, ci è qui tutto il mondo eroico,
morale e religioso del cristianesimo, ma non ce n’è lo
spirito, nè poteva infonderlo co’ suoi decreti il Concilio
di Trento. La letteratura religiosa è una moda, anzi che
un sentimento; lo spirito vi rimane estraneo, e si conserva classico e letterario quanto alle forme, nell’indifferenza del contenuto. Che cosa move davvero o interessa il
Chiabrera? Nulla, perchè nella sua coscienza nulla ci è,
non fede, non moralità, non patria, e non amore, e non
arte, ancorchè di tutto questo tratti. Certo, il Chiabrera
è un bravissimo uomo, sinceramente pio e onesto, natura soave e tranquilla. Ma perchè un contenuto sia poetico, non basta sia nell’animo come un mondo abituale e
tradizionale, a quel modo che era nel Chiabrera: dee essere passione, che stimoli l’immaginazione e svegli la
meditazione Una passione l’ha il Chiabrera, e non è pel
contenuto, a lui indifferente, quale esso sia, ma per le
forme. Dico «forme», e non «forma», perchè a lui manca pure quel senso della bellezza e della forma, che fa
grandi i nostri artisti del Cinquecento. Perciò gli fa difetto ogni qualità di poeta e di artista, la fede del conte-
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nuto e il senso della forma. Ha pure in grado mediocrissimo quel senso musicale, che natura concede così facilmente a italiani, sgraziato nell’intreccio delle rime e nella combinazione de’ suoni, e talora dà in dissonanze e
stonature. La sua idea fissa è di trovare, come Colombo,
un mondo nuovo, e parve a’ contemporanei ci fosse riuscito, sì che Urbano scrisse sulla sua tomba: «novos orbes poëticos invenit». Mondi nuovi poetici ci erano allora, ed erano i mondi che creavano Camoens, Cervantes,
Montaigne, Shakespeare e Milton. Ma in Italia, mancata
ogni vita interiore, la novità era nelle forme, ed esausto il
mondo latino, il Chiabrera si mise a cercar novità nel
mondo greco: «thebanos modos fidibus hetruscis adaptare primus docuit», dice Urbano. I quali modi tebani sono
le strofe, l’antistrofe e l’epodo, accozzamenti di parole
fuor dell’usato, costruzioni artificiali, una certa moralità
astratta e volgare, una sobrietà e semplicità di colori.
Forme meccaniche, le quali non vengono da virtù interiore, ma sono pura imitazione. Anzi niente è più lontano dallo spirito del Chiabrera che la bellezza greca, quel
candore, quella grazia, e quella semplicità; e spesso la
sua semplicità è aridità, il suo candore è volgarità, e la
sua grazia è cascaggine; affettato e pretensioso in quei
modi e in quelle forme, che presso i greci sono vezzi natii: veggasi il suo ditirambo. Del resto, più che nell’eroico, riesce nel grazioso, e se oggi alcuna cosa si legge pure di lui, sono alcune sue canzonette. Ma chi ricordi
l’Aminta, giudicherà queste canzonette assai povera cosa. Anche il Gravina studiò alla greca semplicità, come
medicina al secolo tronfio e manierato, e sforzandosi di
esser semplice, riuscì insipido, freddo e volgare. Gli è
che l’imitazione greca, dopo tanto latineggiare, era il naturale sviluppo di un fatto puramente letterario e meccanico, non animato da alcuna vita interiore di poeta o
di secolo.
Un altro poeta eroico fu il senatore Vincenzo Filicaia,
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
di cui rimangono le canzoni per la liberazione di Vienna. Prende volentieri accento di profeta, e si dà tutta
l’apparenza di un sacro furore. Sembra non parli, ma
canti, anzi urli, col pugno teso, gli occhi stralunati, gli
atti convulsi. Ammassa esclamazioni, interrogazioni ripetizioni, con un grande rimbombo di suoni e di frasi.
Pomposa rettorica, nella quale si scopre la simulazione
della vita. Non è in lui alcun sentimento del reale, ma un
calore d’immaginazione, un orecchio musicale, ed una
non mediocre abilità nella fattura del verso, che gli assegna un posto tra’ poeti di second’ordine.
Il Chiabrera e il Filicaia furono anche poeti nazionali.
L’uno lamenta la vita molle de’ guerrieri italiani, o,
com’egli dice, la leggiadria dell’italica gente:
... ... E dove
calzar potrassi una gentil scarpetta,
un calcagnetto sì polito? ...
Lungo fora a narrar come son gai
per trapunto i calzoni, e come ornate
per entro la casacca in varie guise
serpeggiando sen van bottonature.
Splendono soppannati i ferraiuoli
bizzarramente; e sulla coscia manca
tutti d’argento arabescati e d’oro
ridono gli elsi della bella spada.
Dell’altro è il verso celebre:
O fossi tu men bella, o almen più forte!
Ma l’Italia era per loro un sentimento così superficiale
come la religione, un tema a sonetti e canzoni, come le
Vendemmie o le Lodi di Cristina. Quando il Filicaia domanda all’Italia dov’è il suo braccio, e perchè si serve
dell’altrui, e ricorda che gli stranieri sono tutti nemici
nostri, e furono nostri servi, senti ch’è a mille miglia lontano dalla realtà, che vagheggia un’Italia di tradizione e
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di reminiscenza, di cui non è più vestigio neppure nella
sua coscienza, ch’egli medesimo non prende sul serio le
sue maraviglie e i suoi furori, e che le sue parole sono
ebollizioni e ciance rettoriche. I contemporanei erano
pure fatti così; e ammiravano quel bel sonetto tirato giù
con un solo impeto tra mille splendori di una calda immaginazione, come ammiravano una bella predica, salvo
a far tutto il contrario di quello che diceva il Vangelo e il
predicatore.
Questa è la vita morale, religiosa e nazionale italiana a
quel tempo: un mondo tradizionale tornato in moda, favorito dagl’interessi, mantenuto nelle sue apparenze,
rimbombante nelle frasi, non sentito, non meditato, non
ventilato e rinnovato, non contrastato e non difeso, non
realtà e non idealità, cioè a dire non praticato nella vita,
e non scopo o tendenza della vita. Il tarlo della società
era l’ozio dello spirito, un’assoluta indifferenza sotto
quelle forme abituali religiose ed etiche, le quali, appunto perchè mere forme o apparenze, erano pompose e
teatrali. La passività dello spirito, naturale conseguenza
di una teocrazia autoritaria, sospettosa di ogni discussione, e di una vita interiore esaurita e impaludata, teneva
l’Italia estranea a tutto quel gran movimento d’idee e di
cose da cui uscivano le giovani nazioni di Europa; e fin
d’allora ella era tagliata fuori del mondo moderno, e più
simile a museo che a società di uomini vivi.
La letteratura era a quell’immagine, vuota d’idee e di
sentimenti, un gioco di forme, una semplice esteriorità.
Si frugava nel vecchio arsenale classico, si giravano e rigiravano quei pensieri e quelle forme. Il mondo greco
appena libato era corso in tutte le direzioni, e dava un
certo aspetto di novità alle forme letterarie. La poesia
italiana nella sua lunga durata avea messo in circolazione un repertorio oramai fatto abituale e vuoto di affetto;
e non ci essendo la forza di rinnovare il contenuto, tutti
eran dietro ad aguzzare, assottigliare, ricamare, maniera-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
re, colorire un mondo invecchiato che non dicea più
niente allo spirito. Meno il contenuto era vivo, e più le
forme erano sottili, pretensiose, sonore. Nacque una vita
da scena, con grande esagerazione e abbondanza di frasi
un eroismo religioso, patriottico, morale a buon mercato, perchè dietro alle parole non ci era altro. Di questo
eroismo rettorico il più bel saggio è la Fortuna del Guidi, il quale trovò modo di rendere ridicola e millantatrice la Fortuna di Dante: tanto si era perduto il senso del
vero e del semplice. E ne uscì quella maniera preziosa e
fiorita, della quale dava già esempio l’Aretino, quando la
sua mente non era abbastanza solleticata dall’argomento. Uno degl’ingegni meno guasti fu il Chiabrera: pur
sentasi questo suo epitaffio a Raffaello:
Per abbellir le immagini dipinte,
alle vive imitar pose tal cura,
che a belle far le vere sue Natura
oggi vuole imitar le costui finte.
E il prezioso non è solo ne’ concetti, ma nelle forme,
cercandosi i modi più disusati in dir cose le più semplici.
Ecco un esempio di queste forme preziose nella Fortuna
del Guidi:
Questa è la man che fabbricò sul Gange
i regni agl’Indi, e sull’Oronte avvolse
le regie bende dell’Assiria a’ crini;
pose le gemme a Babilonia in fronte,
recò sul Tigri le corone al Perso,
espose al piè di Macedonia i troni.
Tra’ verseggiatori più preziosi e affettati è da porre il Lemene, e tra’ più civettuoli e fioriti Giovambattista Zappi. La degenerazione del genere si vede nel Frugoni, il
più vuoto e il più pretensioso.
Spettacolo assai istruttivo è questo di un popolo che
per parecchie generazioni spende tutta la sua attività in-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
torno a quistioni di forme, ed erge a suo obbiettivo la
parola in se stessa, staccata da ogni contenuto. Che è divenuta Firenze, la madre di Dante, di Michelangiolo e di
Machiavelli? Eccola, quale è vantata dal Filicaia:
Qui del puro natio dolce idioma
l’oro s’affina; e se non è a’ dì nostri
spenta la gloria de’ toscani inchiostri,
forse invidia ne avranno Atene e Roma...
Qui d’ogni voce il peso, il senso, il suono
a rigoroso esame ognor si chiama,
e il reo si purga e si trasceglie il buono.
Onde l’alto lavor fregia e ricama
la gran maestra del parlar, che trono
erge a se stessa, ed a se stessa è fama.
Firenze è la gran maestra della parola. Là è il suo trono e
la sua fama. E qual maraviglia che gli uomini di qualche
ingegno, trovando insipida e invecchiata la parola, l’ornano, l’aguzzano, l’imbellettano, e, come dice il Filicaia,
vi fanno intorno fregi e ricami? Nè ci è coscienza che
tanto liscio al di fuori, con tanta insipidezza e vacuità nel
fondo, è un’ultima forma della decadenza; anzi abbondano i Pindari e gli Anacreonti, moltiplicano i poeti in
tutt’i canti d’Italia, e co’ poeti le accademie, e si tengono
primi in tutta Europa, della quale ignorano la coltura.
Possiamo ora spiegarci come l’Arcadia acquistò l’importanza di un grande avvenimento, sì che per parecchie
decine di anni occupò l’attenzione pubblica. Si videro
uomini dottissimi e gravissimi fanciulleggiare tra quei
pastori e pastorelle, e dettar le leggi dell’accademia con
una solennità, come fossero le leggi delle dodici tavole.
Parea che a restaurare la poesia e il buon gusto bastasse
l’osservanza di alcune regole, e moltiplicarono i medici,
quando il malato era morto. Gli arcadi, rimasti proverbiali, come di gente dotta e insieme frivola, per correggere l’eroico si gettarono nel pastorale, come se trasportando la vita ne’ campi e tra’ pastori, trovassero quella
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
naturalezza e semplicità che non è nella materia, ma
nell’anima dello scrittore. Furono aridi, insipidi, leziosi,
affettati, falsi.
Il re del secolo, il gran maestro della parola, fu il cavalier Marino, onorato, festeggiato, pensionato, tenuto
principe de’ poeti antichi e moderni, e non da plebe, ma
da’ più chiari uomini di quel tempo. Dicesi che fu il corruttore del suo secolo. Piuttosto è lecito di dire che il secolo corruppe lui, o, per dire con più esattezza, non ci fu
corrotti, nè corruttori. Il secolo era quello, e non potea
esser altro, era una conseguenza necessaria di non meno
necessarie premesse. E Marino fu l’ingegno del secolo, il
secolo stesso nella maggior forza e chiarezza della sua
espressione. Aveva immaginazione copiosa e veloce,
molta facilità di concezione, orecchio musicale, ricchezza inesauribile di modi e di forme, nessuna profondità e
serietà di concetto e di sentimento, nessuna fede in un
contenuto qualsiasi. Il problema per lui, come pe’ contemporanei, non era il che, ma il come. Trovava un repertorio esausto, già lisciato e profumato dal Tasso e dal
Guarini, i due grandi poeti della sua giovanezza. Ed egli
lisciò e profumò ancora più, adoperandovi la fecondità
della sua immaginazione e la facilità della sua vena. La
moda era alle idee religiose e morali, e il Murtola scriveva il Mondo creato, il Campeggi le Lagrime della Vergine,
e il Marino la Strage degl’innocenti, e le sue stesse poesie
erotiche inviluppava in veli allegorici. Ma la vita era in
fondo materialista, gaudente, volgare, pettegola, licenziosa; il naturalismo viveva nella sua forma più grossolana sotto a quelle pretensioni religiose. Le prime poesie
del Marino furono sfacciatamente lubriche, come la prima sua giovinezza; e quando venne a età più matura,
cercò non la correzione, ma la decenza esteriore, decorando i suoi furori erotici di un ammanto allegorico.
Nelle tradizioni della poesia ci è un concetto, che
mette capo in Circe ed Ulisse, ed è l’imbestiamento
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
dell’uomo per opera dell’amore, e la sua liberazione per
opera della ragione. Questo concetto diviene un episodio importante in tutte le nostre poesie romanzesche ed
eroiche, ed è anche la Musa che ispira Dante e il Petrarca. Angelica, Alcina, Armida sono le Circi italiane, co’
loro giardini, co’ loro palagi e castelli incantati, co’ loro
viaggi attraverso lo spazio. Questo è l’episodio più interessante, anzi è il concetto fondamentale della Gerusalemme Liberata. L’episodio del Tasso incastrato fra elementi religiosi ed eroici diviene ora esso solo il poema,
diviene l’Adone.
La storia del naturalismo poetico incomincia
nell’Amorosa visione, e finisce nell’Adone. I due poemi
sono assai simili di concetto. L’amore, principio della
generazione, è anima del mondo, è la corona della natura e dell’arte, in esso s’inizia, in esso si termina il circolo
della vita. Venere e Adone è la congiunzione non solo
spirituale, ma corporale del divino e dell’umano; è
l’amore sensuale che investe tutta la natura, cielo e terra.
Nel paradiso teologico di Dante il corpo si solve nello
spirito; ma in questo paradiso mitologico lo spirito ha la
sua perfezione e la sua vita nell’amore sensuale. Un senso tragico si aggiunge a questa commedia terrena. L’uomo è mortale, e i suoi piaceri sono lievi e fugaci; e la
conclusione è la morte di Adone fra il compianto
degl’immortali.
La base è l’amore sensuale rappresentato in tutt’i suoi
gradi nel giardino del Piacere, uno di quei giardini
d’amore già celebri nelle rime del Poliziano, dell’Ariosto
e del Tasso, qui diviso in cinque giardini corrispondenti
a’ cinque sensi, sì che questa sola descrizione prende già
buona parte del poema. Nel giardino del Tatto Adone
gode gli ultimi diletti, e s’indìa, è rapito in cielo, attinge
la felicità. Il cielo o il paradiso del Marino non comprende che la Luna, Mercurio e Venere, tutto l’universo
dell’amore. La Luna è la sede della natura, Mercurio è la
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
sede dell’arte, e sede dell’amore è Venere. È tutto il cielo della vita, simile a’ diversi gradi dell’Amorosa visione.
Ma l’apoteosi e il trionfo dell’amore è di breve durata, e
Venere non ha il tempo di rendere immortale il suo
amato. Adone muore, vittima della gelosia di Marte, e
gli ultimi canti narrano la morte di Adone, il compianto
di Venere e degli dei, e le sue esequie.
È inutile dire che tutte queste combinazioni non hanno pel Marino alcun valore effettivo ed intrinseco, e che
esse sono una materia qualunque arricchita di moltissime favole mitologiche, buona a sviluppare le sue forze
poetiche, il solito macchinismo fantastico dell’amore ne’
poemi italiani. I concetti e le passioni sono insulse personificazioni, come l’amore, l’arte, la natura, la filosofia,
la gelosia, la ricchezza ed altre figure allegoriche. Dico
insulse, perchè a quelle personificazioni manca e la
profondità del significato e la serietà della vita. È lo
scheletro de’ poemi italiani, aggiuntivi anche certi episodi ingegnosi per far la corte alle famiglie principesche
d’Italia e alla casa di Francia. Ma è un puro scheletro,
dove non penetra per alcuno spiraglio la vita. E poichè
quello solo c’interessa che vive, questo poema non
c’ispira nessuno interesse. Non c’è un solo personaggio
che attiri l’attenzione e lasci di sè un vestigio nella memoria; non una sola situazione drammatica o lirica di
qualche valore. La vita è materializzata e allegorizzata,
tutta al di fuori, ne’ suoi accidenti, contrasti e simiglianze esteriori; e come le simiglianze o i contrasti esterni sono infiniti, nascono rapporti capricciosi, arbitrari tra le
cose, che sono veri, quanto a questa o a quella apparenza, ma ridicoli e falsi per rispetto alla totalità della vita.
Abbiamo veduto in che modo la rosa è rappresentata
nel Poliziano, nell’Ariosto e nel Tasso. Sono pochi particolari che lumeggiano la rosa nella sua individualità, e
non alterano la sua natura. Sentite ora la rosa del Marino:
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Rosa, riso d’amor, del ciel fattura,
rosa del sangue mio fatta vermiglia,
pregio del mondo e fregio di natura,
della Terra e del Sol vergine figlia,
d’ogni ninfa e pastor delizia e cura,
onor dell’odorifera famiglia;
tu tien d’ogni beltà le palme prime,
sopra il vulgo de’ fior donna sublime.
Quasi in bel trono imperatrice altera
siedi colà su la nativa sponda;
turba d’aure vezzosa e lusinghiera
ti corteggia d’intorno e ti seconda;
e di guardie pungenti armata schiera
ti difende per tutto e ti circonda.
E tu fastosa del tuo regio vanto,
porti d’or la corona e d’ostro il manto.
Porpora de’ giardin, pompa de’ prati,
gemma di primavera, occhio d’aprile,
di te le grazie e gli amoretti alati
son ghirlanda a la chioma, al sen monile.
Tu qualor torna agli alimenti usati
ape leggiadra, o zeffiro gentile,
dài lor da bere in tazza di rubini
rugiadosi licori e cristallini.
Non superbisca ambizioso il sole
di trionfar fra le minori stelle,
chè ancor tu fra i ligustri e le viole
scopri le pompe tue superbe e belle.
Tu sei con tue bellezze uniche e sole
splendor di queste piagge, egli di quelle;
egli nel cerchio suo, tu nel tuo stelo,
tu sole in terra ed egli rosa in cielo.
E ben saran tra voi conformi voglie:
di te fia ’l sole, e tu del sole amante.
Ei delle insegne tue, de le tue spoglie
l’aurora vestirà nel suo levante.
Tu spiegherai ne’ crini e nelle foglie
la sua livrea dorata e fiammeggiante;
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
e per ritrarlo ed imitarlo a pieno,
porterai sempre un picciol sole in seno.
Evidentemente, qui non ci è il sentimento della natura, e
non la schietta impressione della rosa. Hai combinazioni
astratte e arbitrarie dello spirito, cavate da somiglianze
accidentali ed esterne, che adulterano e falsificano le
forme naturali, e creano enti mostruosi che hanno esistenza solo nello spirito. La vita pastorale già nel Tasso
ha i suoi ricami, che però fregiano forse un po’ troppo,
ma non adulterano gli oggetti e i sentimenti. Ed anche
l’Adone ha il suo pastore, che vuole imitare, anzi oltrepassare il pastore di Erminia, e conchiude così:
Lunge da’ fasti ambiziosi e vani,
mi è scettro il mio baston, porpora il vello,
ambrosia il latte, a cui le proprie mani
servon di coppa, e nèttare il ruscello.
Son ministri i bifolci, amici i cani,
sergente il toro e cortigian l’agnello,
musici gli augelletti e l’aure e l’onde,
piume l’erbette, e padiglion le fronde.
Queste lambiccature e finezze di spirito egli le chiama in
una sua lettera a Claudio Achillini «ricchezze di concetti
preziosi», e ivi pone l’eccellenza della poesia:
È del poeta il fin la maraviglia:
parlo dell’eccellente e non del goffo;
chi non sa far stupir, vada alla striglia.
La novità e la maraviglia non è nel repertorio, che è vecchissimo, un rimpasto di elementi e motivi per lungo
uso divenuti ottusi; ciò che è ripulito e messo a nuovo è
lo scenario, o lo spettacolo, vecchio anch’esso, ma lustrato e inverniciato. Il qual lustro gli viene non dalla sua
intima personalità più profondamente esplorata o sentita, ma da combinazioni puramente soggettive, ispirate
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
da simiglianze o dissonanze accidentali, e perciò tendenti al paradosso e all’assurdo: di che nasce quello stupore
in che il Marino pone il principale effetto della poesia.
Nè queste combinazioni artificiali sono solo intorno alle
cose, come giardini, campi, fiori, ma anche intorno alle
persone allegoriche, come la gelosia, l’amore, e intorno
agli atti, come il riso, il bacio. Il Marino confessa di avere innanzi un zibaldone, dove avea scritto per ordine di
materia quello che di più piccante e maraviglioso avea
trovato ne’ poeti greci, latini e italiani e anche spagnuoli;
e ammassa e concentra tutti quei tesori di concetti preziosi in un punto solo. Ma non è un freddo imitatore e
raccoglitore. La sua immaginazione si avviva tra quelle
ricchezze, e diviene attiva, si fa alleata dello spirito, trasforma quelle combinazioni e quei rapporti in immagini,
e le immagini hanno il loro finimento nella facile e briosa vocalità de’ suoni. Talora i concetti stessi spariscono;
ma rimane sempre un’onda melodiosa, la cantilena:
Adone, Adone, o bell’Adon, tu giaci,
nè senti i miei sospir, nè miri il pianto;
o bell’ Adone, o caro Adon, tu taci,
nè rispondi a colei che amasti tanto!
Lasciami, lascia imporporare i baci,
anima cara, in questo sangue alquanto;
arresta il volo, aspetta tanto almeno
che il mio spirto immortal ti mora in seno.
La poesia italiana in quest’ultimo momento della sua vita non è azione, e neppure narrazione, è spettacolo vocalizzato, descrizione a tendenze liriche, tra lo scoppiettio de’ concetti, il lustro delle immagini, e la sonorità
delle frasi e delle cadenze, e i vezzi delle variazioni. Il
suo ideale è l’idillio, una vita convenzionale, mitologica,
amorosa, allegrata dal riso del cielo e della terra. L’Adone è esso medesimo un idillio inviluppato in un macchinismo mitologico, come l’Euridice, la Proserpina. Un
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
idillio del Marino, di colorito freschissimo e moderno,
tutto impregnato di ardente sensualità, è la sua Pastorella. Chi ricordi la pastorella di Guido Cavalcanti, così sobria e semplice nella sua maniera, può misurare fino a
qual grado di ricercatezza nello sviluppo e nelle determinazioni di queste situazioni liriche era giunta la poesia. Pure la sensualità era ancora quello che rimaneva di
vivo in questi poeti seicentistici, esalata in tenerezze,
languori, voluttà, galanterie e dolcitudini.
Un ideale frivolo e convenzionale, nessun senso della
vita reale, un macchinismo vuoto, un repertorio logoro,
in nessuna relazione con la società, un assoluto ozio interno, un’esaltazione lirica a freddo, un naturalismo
grossolano sotto velo di sagrestia, il luogo comune sotto
ostentazione di originalità, la frivolezza sotto forme
pompose e solenni, l’inezia collegata con l’assurdo e il
paradosso, la vista delle cose superficiale e leggiera, la
superficie isolata dal fondo e alterata con relazioni artificiali, la parola isolata dall’idea e divenuta vacua sonorità, questi sono i caratteri comuni a tutt’i poeti della decadenza, messa la differenza degl’ingegni.
Questi caratteri sono più o meno comuni a tutte le
forme dello scrivere, tragedie, commedie, poemi, idilli,
canzoni, discorsi, prefazioni, descrizioni, narrazioni,
orazioni, panegirici, quaresimali, epistole, verso e prosa.
Il Marino della prosa fu Daniello Bartoli, fabbro artificiosissimo e insuperabile di periodi e di frasi, di uno
stile insieme prezioso e fiorito. È stato in ogni angolo
quasi della terra; ha fatto migliaia di descrizioni e narrazioni: non si vede mai che la vista di tante cose nuove gli
abbia rinfrescate le impressioni. Retore e moralista
astratto, pieno il capo di mitologia e di sacra Scrittura
copiosissimo di parole e di frasi in tutto lo scibile, colorista brillante, credè di poter dir tutto, perchè tutto sapeva ben dire. La natura e l’uomo non è per lui altro che
stimolo e occasione a cavargli fuori tutta la sua erudizio-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ne e frasario. Altro scopo più serio non ha. Estraneo al
movimento della coltura europea e a tutte le lotte del
pensiero, stagnato in un classicismo e in un cattolicismo
di seconda mano, venutogli dalla scuola, e non frugato
dalla sua intelligenza, il suo cervello rimane ozioso non
meno che il suo cuore; e la sua attenzione è tutta intorno
alla parte tecnica e meccanica dell’espressione. Tratta la
lingua italiana, come greco o latino, come lingua morta,
già fissata, e da lui pienamente posseduta. Sferza i pedanti col suo Torto e Dritto del non si può. Fugge le
smancene toscane, e ricorda la risposta fatta a certi messi toscaneggianti, che domandavano qualche sussidio
per rifare il ponte della loro città:
Qualor, talor, e quinci e quindi, e guari,
rifate il ponte co’ vostri danari.
La sua lingua spedita, colorita, elegante, copiosa ha quel
carattere di lingua classica italiana già così spiccato nel
Tasso, nel Guarini e nel Marino e in quasi tutt’i seicentisti. Il toscano parlato ha poca presa anche su moltissimi
uomini colti della Toscana, e rimane stazionario in bocca al volgo. La lingua classica nella sua fattura esterna e
grammaticale tocca in lui un alto grado di perfezione
per copia e scelta di vocaboli, per regolarità di costruzione, per speditezza di giunture e movimenti musicali.
Ama starsi nel minuto, notomizzare, descrivere, e vi
spiega tutte le ricchezze del dizionario. Descrive lungamente e con infiniti particolari le chiocciole, e conchiude:
«Eccovene in prima vestite di uno schietto drappo: argentine, bianche lattate, grigie, nericate, morate, purpuree, gialle,
bronzine, dorate, scarlattine, vermiglie. Poi, le addogate con
lunghe strisce e liste di più colori a divisa, e quali se ne vergano
per lo lungo, quali per lo traverso, alcune diritto, altre più vagamente a onda. Ma certe in vero maravigliose, lavorate a mo-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
do d’intarsiatura, con minuzzoli di più colori bizzarramente
ordinati, o d’un musaico di scacchi, l’un bianco e l’altro nero,
quanto alla figura formatissimi, e alle giunture non isfumati
punto, ma con una division tagliente, come appunto fossero
alabastro e paragone, strettamente commessi. Le più sono dipinte a capriccio, o granite, gocciolate, moscate, altre qua e là
tócche con certe leggerissime leccature di minio, di cinabro,
d’oro, di verdazzurro, di lacca; altre pezzate con macchie più
risentite e grandi; altre o grandinate di piastrelli o sparse di rotelle, o minutissimo punteggiate; altre corse di vene come i
marmi, con un artificio senz’arte, o spruzzate di sangue in mezzo ad altri colori, che le fan parere diaspri.»
E segue ancora per un pezzo su questo andare. L’immaginazione rimane smarrita fra tante ricchezze, e perchè
tutto è rilievo, manca il rilievo. Non ci è senso di arte, nè
di natura, e chi vuol sentire la differenza, ricordi la descrizione che fa l’Aretino del cielo di Venezia, così trepida d’impressioni e movimenti interni. E non ha neppur
senso d’uomo, nè di tante sue situazioni affettuose, nè di
tanti suoi ritratti di personaggi ideali o storici alcuna cosa è rimasta viva. Eccolo in Terra Santa. Che impressioni e che affetti non dee destare quella vista in un buon
cristiano, com’era il Bartoli! Ma se ne sbriga così:
«Lagrime di dolore e baci di pietoso affetto unitamente si
debbono a questo venerabile terreno, che col piè scalzo e in atto non di curioso geografo, ma di pellegrino divoto, calchiamo.»
E attendiamo gli ardori estatici del pellegrino. Ma è un
cominciare con Plinio e un finire con Lucano, con intramessa di fredde amplificazioni rettoriche.
Stessa coltura e stesso contenuto nel padre Segneri.
Non ha altra serietà che letteraria, ornare e abbellire il
luogo comune con citazioni, esempli, paragoni e figure
rettoriche: perciò stemperato superficiale, volgare e
ciarliero. Si loda il suo esordio alla predica del paradiso:
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
«Al cielo, al cielo!». Il concetto è questo: – La terra non
offre un bene perfetto; miriamo dunque al cielo. E noi
abbiamo conosciuto già questo mondo, già l’abbiamo
sperimentato, ed ancora tolleriam di rimanerci. Eh! Al
cielo, al cielo! – Ora la prima parte non ha bisogno di
dimostrazione, perchè ammessa da tutti. Ma qui si accaneggia il Segneri, e intorno a questo luogo comune intesse tutt’i suoi ricami. E se avesse veramente il sentimento della terrena infelicità e delle gioie celesti, non
mancherebbe ai suoi colori novità, freschezza, profondità. Ma non è che uno spasso letterario, un esercizio
rettorico. Luogo comune il concetto; luoghi comuni gli
accessorii. Non mira efficacemente a convertire, a persuadere l’uditorio; non ha fede, nè ardore apostolico, nè
unzione; non ama gli uomini, non lavora alla loro salute
e al loro bene. Ha nel cervello una dottrina religiosa e
morale di accatto, ed ereditaria, non conquistata col sudore della sua fronte, una grande erudizione sacra e profana: ivi niente si move, tutto è fissato e a posto. La sua
attività è al di fuori, intorno al condurre il discorso e distribuire le gradazioni, le ombre e la luce e i colori. Gli si
può dar questa lode negativa, che se spesso stanca, non
annoia l’uditorio, che tien sospeso e maravigliato con un
«crescendo» di gradazioni e sorprese rettoriche; e talora
piacevoleggia e bambineggia per compiacere a quello.
Ancora è a sua lode, che si mostra scrittore corretto, e
non capita nelle stramberie del Panigarola, o nelle sdolcinature e affettazioni de’ suoi successori.
Si può ora scorgere il cammino della letteratura, iniziata nel Boccaccio, reazione all’ascetismo, negativa e
idillica. La negazione percorse tutta la scala delle forme
comiche dalla caricatura del Boccaccio all’umorismo del
Folengo, e si sciolse nello sfacciato cinismo di Pietro
Aretino: fu essa vita e anima delle novelle, delle commedie, de’ capitoli, de’ poemi romanzeschi. Semplice negazione, finì nella sensualità, nella licenza delle idee e delle
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
forme, in un pretto materialismo. Accanto a questo elemento negativo ci era l’idillio, un ritiro dell’anima dalle
astrazioni teologiche e dalle agitazioni politiche nella
semplicità e nella quiete della natura, un naturalismo
spiritualizzato dal sentimento della forma o della bellezza, che produsse i miracoli della poesia e della pittura.
La grazia, l’eleganza, la finitezza delle forme, la misura e
l’armonia nell’insieme e nelle parti sono l’impronta di
quest’aurea età. Ma questa letteratura portava in sè il
germe della dissoluzione, ed era la sua tendenza accademica, letteraria e classica, per la poca serietà del suo
contenuto e la sua separazione da tutt’i grandi interessi
morali, politici e sociali che allora commovevano e ringiovanivano molta parte di Europa. Giunta l’arte a quella perfezione, aveva bisogno di un nuovo contenuto per
trasformarsi e rinsanguarsi. E se la reazione tridentina ci
avesse dato questo nuovo contenuto, sarebbe stata la
benvenuta. Avremmo avuto una seria ristaurazione religiosa e letteraria. Ma fu ristaurazione delle forme, non
della coscienza. Agli stessi riformatori mancava nella loro opera la serietà della coscienza, come vedrà chi studi
bene la storia del Concilio di Trento non dico nel Sarpi,
ma nello stesso Pallavicino, voce leziosa e affettata di
quei padri riformatori. Di che nacque l’ultimo pervertimento del carattere nazionale. L’idea che a salvare l’anima bastasse andare a messa e portare addosso uno scapolare, e che l’assoluzione del confessore fosse
sufficiente a lavare tutte le macchie, salvo a tornar da capo, diede alle plebi italiane quell’impronta grottesca di
bassezza, immoralità e divozione, che anche oggi in molti luoghi non si è cancellata. Quanto alle classi colte, la
vita era menzogna, una vita ostentatrice di sentimenti religiosi e morali senza alcuna radice nella coscienza. Tale
la vita, tale la letteratura. Quella sua tendenza accademica e letteraria divenne la sua forma definitiva. Fu rettorica, cioè a dire menzogna, espressione pomposa di senti-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
menti convenzionali. Il pio Torquato prese sul serio
quel nuovo contenuto, e vagheggiò un mondo eroico e
religioso, che naufragò tra gli elementi che lo accompagnavano idillici e fantastici. Come sotto lo scapolare batteva il core del brigante, sotto a quelle forme pompose
viveva invitto il naturalismo lirico, fantastico, idillico del
vecchio contenuto. L’Armida divenne l’Adone, e
l’Aminta il Pastorfido. Fra tante vite di santi e rappresentazioni sacre, fra tante liriche eroiche, morali e patriottiche, ciò che ancor vive è il naturalismo, una certa ebbrezza musicale de’ sensi, che fa cantare a’ marinai
napolitani le stanze di Armida e i lubrici versi del Marino. Tutti si sentivano innanzi a un mondo poetico invecchiato, e volevano rinnovarlo, e non vedevano che bisognava innanzi tutto rinnovare la coscienza. Aguzzarono
l’intelletto, gonfiarono le frasi, e non potendo esser nuovi, furono strani L’attività si concentrò intorno alla frase, e il mondo letterario segregato dalla vita, e vuoto di
ogni scopo serio, divenne un esercizio accademico e rettorico.
La parola come parola, fine a se stessa, è il carattere
della forma letteraria o accademica. Nel secolo scorso
aveva un aspetto ciceroniano e boccaccevole; ora, divenuta l’essenza stessa della letteratura, vi si aggiunge
un’aria preziosa, cioè a dire una ostentazione di peregrinità nella sottigliezza del concetto o nel giro della frase.
Citammo già alcuni esempi di Pietro Aretino. Ora ci è in
tutti anche ne’ più semplici, un po’ di Pietro Aretino. E
quando questo sforzo dello spirito pareva soverchia fatica, gli scrittori rimanevano senza più semplici parolai o
frasaiuoli: ciò che si diceva «stile fiorito». Queste sono le
due forme della decadenza, di cui si vedono già i vestigi
in Pietro Aretino, e che ora tengono il campo nelle accademie letterarie. Gli accademici s’incensano, si batton le
mani, si decretano l’immortalità. Abbiamo gli Ardenti, i
Solleciti, gl’Intrepidi, gli Olimpici, i Galeotti, gli Stordi-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ti, gl’Insipidi, gli Ottusi, gli Smarriti. Acquistano un’importanza artificiale, molti vi pigliano il battesimo di
grandi uomini, come fu del Salvini, dotto uomo ma d’ingegno assai inferiore alla fama. Corona di questa letteratura frivola sono gli acrostici, gl’indovinelli, gli anagrammi, e simili giuochi di spiriti oziosi.
La parola, come parola, può per qualche tempo avere
un’esistenza artificiale nelle accademie, ma non potrà
mai formare una letteratura popolare, perchè la parola,
se come espressione è potentissima, come semplice sensibile è inferiore a tutti gli altr’istrumenti dell’arte. La
parola è potentissima, quando viene dall’anima, e mette
in moto tutte le facoltà dell’anima ne’ suoi lettori; ma
quando il di dentro è vuoto, e la parola non esprime che
se stessa, riesce insipida e noiosa. Allora la vista materiale, il colore, il suono, il gesto sono ben più efficaci alla
rappresentazione che quella morta parola. Si comprende adunque come i parolai con tutto il loro spirito e la
loro eleganza mantennero la loro influenza in un circolo
sempre più ristretto di lettori, e come al contrario presero il sopravvento gli attori, i musici e i cantanti, divenuti
popolarissimi in Italia e fuori. Le accademiche commedie del Fagiuoli doveano piacer meno che le commedie
a soggetto, venute sempre più in voga, dove il fondo
monotono e tradizionale era ringiovanito dagli accessorii improvvisati e dall’abile mimica. D’altra parte nella
parola si sviluppava sempre più l’elemento cantabile e
musicale, già spiccatissimo nel Tasso, nel Guarini, nel
Marino. La sonorità o la melodia era divenuta principal
legge del verso o della prosa, e si fabbricavano i periodi
a suon di musica: ciascuno aveva nell’orecchio un’onda
melodiosa. Parte di rettorica era la declamazione, cioè a
dire un modo di recitare solenne e armonioso. La parola
non era più una idea, era un suono; e spesso recitavasi a
controsenso, per non guastare il suono. Questo movimento musicale della nuova letteratura già visibile nel
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Petrarca e nel Boccaccio, pure armonizzato con le idee e
le immagini, ora in quella insipidezza di ogni vita interiore diviene esso il principale regolatore di tutti gli elementi della composizione: tutto il solletico è nell’orecchio. E si capisce come, giunte le cose a questo punto, la
letteratura muore d’inanizione, per difetto di sangue e
di calore interno, e divenuta parola che suona, si trasforma nella musica e nel canto, che più direttamente ed
energicamente conseguono lo scopo. Perciò fra tanta
letteratura accademica il melodramma o il dramma musicale è il genere popolare, dove lo scenario, la mimica, il
canto e la musica opera sull’immaginazione ben più potentemente che la parola insipida, vacua sonorità, rimasta semplice accessorio.
La letteratura moriva, e nasceva la musica.
Già la musica non fu mai scompagnata dalla poesia.
Liriche sacre e profane erano cantate e musicate, e ancora tutta la varietà delle canzoni popolari. Nel teatro i cori e gl’intermezzi erano cantati. Ma quando il dramma
divenne insulso, e la parola perdette ogni efficacia, si
cercò l’interesse nella musica, e tutto il dramma fu cantato. E come la musica non bastasse, si ricorse a tutt’i
mezzi più efficaci su’ sensi e sull’immaginativa, magnificenza e varietà di apparati scenici, combinazioni fantastiche di avvenimenti, allegorie e macchine mitologiche.
Fu da questa corruzione e dissoluzione letteraria che
uscì il melodramma, o l’«opera», serbata a sì grandi destini.
Il primo tipo del melodramma è l’Orfeo. Il Tasso, il
Guarini, il Marino sono scrittori melodrammatici. La lirica seicentistica è in gran parte melodrammatica. E
quelle canzonette, tutti quei languori di Filli e Amarilli
sono i preludi del Metastasio. I trilli, le cadenze, le variazioni, i parallelismi, le simmetrie, le ripigliate, tutt’i congegni della melodia musicale, appariscono già nella poesia. La parola, non essendo altro più che musica, avea
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perduta la sua ragion d’essere, e cesse il campo alla musica e al canto.
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XIX
LA NUOVA SCIENZA
La letteratura non poteva risorgere che con la risurrezione della coscienza nazionale. Come negazione, ebbe vita
splendida, che si chiuse col Folengo e l’Aretino. Arrestato quel movimento negativo dal Concilio di Trento, nacque un’affermazione ipocrita e rettorica, sotto alla quale
senti una delle forme più deleterie della negazione, l’indifferenza. In quella stagnazione della vita pubblica e
privata, non rimane alla letteratura altro di vivo che un
molle lirismo idillico, il quale si scioglie nel melodramma, e dà luogo alla musica.
Ma quel movimento non era puramente negativo. Vi
sorgeva dirimpetto l’affermazione del Machiavelli, una
prima ricostruzione della coscienza, un mondo nuovo in
opposizione dell’ascetismo, trovato e illustrato dalla
scienza. È in questo mondo nuovo che la letteratura dovea cercare il suo contenuto, il suo motivo, la sua novità.
Accettarlo o combatterlo era lo stesso. Ma bisognava ad
ogni costo avere una fede, lottare, poetare, vivere, morire per quella.
I princìpi furono favorevoli. Insieme con la nuova letteratura si era sviluppata un’agitazione filosofica nelle
università e nelle accademie, indipendente dalla teologia
cattolica o riformista, o piuttosto in opposizione mascherata alla teologia e all’aristotelismo dominante ancora nelle scuole. I liberi pensatori eran detti «filosofi moderni» o i «nuovi filosofi», come predicatori di nuove
dottrine, e vedemmo come il Tasso nella sua giovinezza
soggiacque alla loro autorità. Tra questi nuovi filosofi,
che proclamavano l’autonomia della ragione, e la sua indipendenza da ogni autorità di teologo e di filosofo, disputando soprattutto contro Aristotile, era Bernardino
Telesio, dell’Accademia Cosentina, nel quale è già spic-
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cata la tendenza all’investigazione de’ fatti naturali e al
libero filosofare lasciate da parte le astrazioni e le forme
scolastiche. Tra questi «uomini nuovi», come li chiama
Bacone, ebbe qualche fama il Patrizi, e Mario Nizzoli da
Modena, che combattè ugualmente Aristotile e Platone,
fuggì il gergo scolastico, e fu detto dal Leibnitz «exemplum dictionis philosophiae reformatae». Gli uomini
nuovi chiamavano pedanti gli avversari, e come portavano i tempi, alternavano le villanie con gli argomenti. Il
carattere di questo nuovo filosofare era l’indipendenza
della filosofia dirimpetto la fede e l’autorità, il metodo
sperimentale, e la riabilitazione della materia o della natura, risecato dalla investigazione tutto ciò che è soprannaturale e materia di fede. Filosofia e letteratura andavano di pari passo; il Machiavelli e l’Ariosto
s’incontravano sullo stesso terreno, ciascuno co’ suoi
mezzi. L’ironia dell’Ariosto ha il suo comento nella logica del Machiavelli. Come negazione, la nuova filosofia
era troppo radicale, perchè non solo negava il papato,
ma il cattolicismo, e non solo il cattolicismo, ma il cristianesimo, e non solo il cristianesimo, ma l’altro mondo, e non solo l’altro mondo, ma Dio stesso. Non è che
queste cose apertamente si negassero, anzi il linguaggio
era pieno di cautele e di ossequi, maestro il Machiavelli;
ma co’ più umili inchini le mettevano da parte, come
materia di fede, e vi sostituivano la «natura», il «mondo», la «forza delle cose», la «patria», la «gloria», altri
elementi ed altri fini. Era in fondo l’umanismo e il naturalismo, appoggiato alla ragione e all’esperienza, che
prendeva il suo posto nel mondo. Questo grande movimento dello spirito che segna l’aurora de’ tempi moderni, e che si può ben chiamare il Rinnovamento, avea
nell’intelletto italiano la sua posizione più avanzata. Tutte le idee religiose, morali e politiche del medio evo erano parte affievolite, parte affatto cancellate nella coscienza degli uomini colti, anche de’ preti, anche de’
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
papi: l’indifferenza pubblica aveva la sua espressione
nell’ironia, nel cinismo, nell’umorismo letterario. Ora
questa negazione e indifferenza universale non potea
produrre un organismo politico e sociale, anzi era indizio più di dissoluzione, che di nuova formazione. La negazione non era effetto di una energica affermazione,
come fu per la Riforma, reazione contro il paganesimo e
il materialismo della Corte romana prodotta da un vivace sentimento spiritualista, religioso e morale, secondato
da passioni e interessi politici. La Riforma riuscì, perchè
fu limitata nella sua negazione e nelle sue conclusioni,
perchè avea a sua base lo spirito religioso e morale delle
classi colte, e perchè, combattendo il papa e sostenendo
i principi nella loro lotta contro l’imperatore, seppe
metter dalla sua gl’interessi e le ambizioni. Presso noi, la
negazione era un fatto puramente intellettuale, e quanto
più assolute le conclusioni dell’intelletto, tanto più era
debole la volontà e la forza di effettuarle. L’ideale stava
a troppa distanza dal reale. La stessa utopia ne’ suoi voli
d’immaginazione rimaneva inferiore a quella posizione
così avanzata dell’intelletto. Rimasero dunque conclusioni accademiche, temi rettorici, investigazioni solitarie
nell’indifferenza pubblica. Le stesse audacie del Machiavelli passarono inosservate. La libertà del pensiero
non era scritta in nessuna legge, ma ci era nel fatto, e si
filosofava e si disputava sopra qualsivoglia materia
senz’altro pericolo che degli emuli e invidiosi, che talora
concitavano contro gli uomini nuovi le ire papali. Se il
movimento avesse potuto svilupparsi liberamente, non è
dubbio che avrebbe trovato il suo limite nelle applicazioni politiche e sociali, fermandosi in quelle idee medie, che meno sono lontane dalla realtà, e che si trovano
già delineate nel Machiavelli, il più pratico e positivo di
quegli uomini nuovi. Avremmo forse avuto la «patria»
del Machiavelli, una chiesa nazionale, una religione purgata di quella parte grottesca e assurda, che la rende
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spregevole agli uomini colti, e una educazione civile
dell’animo e del corpo. Ma appunto allora l’Italia perdette la sua indipendenza politica e la sua libertà intellettuale; anzi la vittoria della Riforma in molte parti di
Europa rese timidi e sospettosi i governanti, e cominciò
feroce persecuzione contro gli uomini nuovi, eretici e filosofi, e più gli eretici, come più pericolosi. Avemmo il
Concilio di Trento e l’Inquisizione, e, cosa anco peggiore, l’educazione gesuitica, eunuca e ipocrita. I più arditi
esularono; e venne su la nuova generazione, con apparenze più corrette, e con una dottrina ufficiale che non
era lecito mettere in discussione. Salvar le apparenze era
il motto, e bastava. E ne uscì una società scredente, sensuale, indifferente, rettorica nelle forme, insipida nel
fondo, con letteratura conforme. Religione, patria, virtù,
educazione, generosità, sono temi poetici e oratorii frequentissimi, con esagerazioni spinte all’ultimo eroismo,
perchè in nessuna relazione con la serietà e la pratica
della vita.
Ma nè l’Inquisizione co’ suoi terrori, nè poi i gesuiti
co’ loro vezzi poterono arrestare del tutto quel movimento intellettuale, che avea la sua base nel naturale sviluppo della vita italiana. Poterono bene ritardarlo tanto
e impedirlo nel suo cammino, che ci volle più di un secolo, perchè acquistasse importanza sociale.
La reazione aveva anche i suoi uomini dotti. Ma la
differenza era in questo, che ne’ suoi uomini era stagnata ogni attività intellettuale ed ogni vigore speculativo,
volto il lavoro della mente agli accidenti e alle forme, più
che alla sostanza, com’era pure de’ letterati; dove negli
altri hai un serio progresso intellettuale, vivificato dalla
fede, e stimolato dalla passione. La reazione avea vinto
pienamente, avea seco tutte le forze sociali, e l’opposizione cacciata via dalle accademie e dalle scuole, frenata
dall’Inquisizione e dalla censura, toltale ogni libertà e
forza di espansione, era una infima minoranza appena
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avvertita nel gran movimento sociale. Perciò alla reazione mancò la lotta, dove si affina l’intelletto e si accendono le passioni, e per difetto di alimento rimase stazionaria e arcadica. L’attività intellettuale e l’ardore della fede
rimase privilegio dell’opposizione, sì che dove trovi movimento intellettuale, ivi trovi opposizione più o meno
pronunziata, e spesso involontaria e quasi senza saputa
dello scrittore. La storia di questa opposizione non è
stata ancora fatta in modo degno. Pure, là sono i nostri
padri, là batteva il core d’Italia, là stavano i germi della
vita nuova. Perchè infine la vita italiana mancava per il
vuoto della coscienza, e la storia di questa opposizione
italiana non è altro se non la storia della lenta ricostituzione della coscienza nazionale. Cosa ci era nella coscienza? Nulla. Non Dio, non patria, non famiglia, non
umanità, non civiltà. E non ci era più neppure la negazione, che anch’essa è vita, anzi ci era una pomposa simulazione de’ più nobili sentimenti con la più profonda
indifferenza. Se in questa Italia arcadica vogliamo trovare uomini, che abbiano una coscienza, e perciò una vita,
cioè a dire che abbiano fede, convinzioni, amore degli
uomini e del bene, zelo della verità e del sapere, dobbiamo mirare là, in questi uomini nuovi di Bacone, in questi primi santi del mondo moderno, che portavano nel
loro seno una nuova Italia e una nuova letteratura.
E inchiniamoci prima innanzi a Giordano Bruno. Cominciò poeta, fu grande ammiratore del Tansillo. Aveva
molta immaginazione e molto spirito, due qualità che
bastavano allora alla fabbrica di tanti poeti e letterati; nè
altre ne avea il Tansillo, e più tardi il Marino e gli altri lirici del Seicento. Ma Bruno avea facoltà più poderose,
che trovarono alimento ne’ suoi studi filosofici. Avea la
visione intellettiva, o, come dicono, l’intuito, facoltà che
può esser negata solo da quelli che ne son senza, e avea
sviluppatissima la facoltà sintetica, cioè quel guardar le
cose dalle somme altezze e cercare l’uno nel differente.
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Non era di ugual forza nell’analisi, dove non mostra pazienza e sagacia d’investigazione, ma quell’acutezza sofistica d’ingegno, che fa di lui l’ultimo degli scolastici nelle argomentazioni, e il precursore de’ marinisti ne’
colori. Supplisce all’analisi con l’immaginazione, fantasticando, dove non giunge la sua visione, saltando le
idee medie, e sforzandosi divinare quello che per lo stato allora della cognizione non può attingere. Spesso le
sue idee sono immagini, e le sue speculazioni sono fantasie e allegorie. Ci era nel suo petto un dio agitatore,
che sentono tutt’i grand’ingegni; ed era un dio filosofico, attraversato e avviluppato di forme poetiche, che gli
guastano la visione e lo dispongono più a costruire lui il
mondo, che a speculare sulla costruzione di quello. Con
queste forze e con queste disposizioni si può immaginare qual viva impressione dovettero fare sul suo spirito gli
studi filosofici. La sua cultura è ampia e seria: si mostra
dimestico non solo de’ filosofi greci, ma de’ contemporanei. Ha una speciale ammirazione verso il «divino»
Cusano e molta riverenza pel Telesio. Il suo favorito è
Pitagora, di cui afferma invidioso Platone. Alla sua natura contemplativa e poetica dovea riuscire sommamente
antipatico Aristotile, e ne parla con odio, quasi nemico.
Cosa dovea parere a quel giovine tutto quell’edifizio
teologico-scolastico-aristotelico sconquassato dagli uomini nuovi, ma saldo ancora nelle scuole, sul quale s’innestava una società corrotta e ipocrita? Il primo movimento del suo spirito fu negativo e polemico, fu la
negazione delle opinioni ricevute, accompagnata con un
amaro disprezzo delle istituzioni e de’ costumi sociali.
Era il tempo delle persecuzioni. I migliori ingegni emigravano, regnava l’Inquisizione. E Bruno era frate, e frate domenicano. Come uscì dal convento, e perchè esulò,
s’ignora. Ma a quel tempo bastava poco ad essere battezzato eretico: ricordiamo i terrori del povero Tasso.
Fuggì Bruno in Ginevra, dove trovò un papa anche più
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intollerante. Fuggì a Tolosa, a Lione, a Parigi, dove ebbe
qualche tregua, e pubblicò il suo primo lavoro. Era il
1582. Aveva una trentina di anni.
Cosa è questo primo lavoro? Una commedia, il Candelaio. Bruno vi sfoga le sue qualità poetiche e letterarie.
La scena è in Napoli, la materia è il mondo plebeo e volgare, il concetto è l’eterna lotta degli sciocchi e de’ furbi,
lo spirito è il più profondo disprezzo e fastidio della società, la forma è cinica. È il fondo della commedia italiana dal Boccaccio all’Aretino, salvo che gli altri vi si spassano, massime l’Aretino, ed egli se ne stacca e rimane al
di sopra. Chiamasi «accademico di nulla accademia,
detto il Fastidito». Nel tempo classico delle accademie il
suo titolo di gloria è di non essere accademico. Quel
«fastidito» ti dà la chiave del suo spirito. La società non
gl’ispira più collera; ne ha fastidio, si sente fuori e sopra
di essa. Si dipinge così:
«L’autore, sì lo conosceste, ... have una fisonomia smarrita:
par che sempre sii in contemplazione delle pene dell’inferno;
... un che ride sol per far comme fan gli altri. Per il più lo vedrete fastidito, restio e bizzarro.»
Il mondo gli parve un gioco vano di apparenze, senza
conclusione. E il risultato della sua commedia è «in tutto non esser cosa di sicuro; ma assai di negozio, difetto
abbastanza, poco di bello e nulla di buono». Nessuno
interesse può destare la scena del mondo a un uomo,
che nella dedica conchiude così:
«Il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla si
annichila, è un solo, che non può mutarsi, un solo è eterno e
può perseverare eternamente uno, simile e medesimo. Con
questa filosofia l’animo mi s’ingrandisce, e me si magnifica l’intelletto.»
Ma non gli s’ingrandisce il senso poetico, il quale è ap-
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punto nel contrario, nel dar valore alle più piccole rappresentazioni della natura, e prenderci interesse. Un uomo simile era destinato a speculare sull’uno e sul medesimo, non certo a fare un’opera d’arte. Non si mescola
nel suo mondo, ma ne sta da fuori e lo vede nelle sue generalità. Ecco in qual modo dipinge l’innamorato:
«Vedrete in un amante sospiri, lacrime, sbadacchiamenti,
tremori, sogni, rizzamenti e un cuor rostito nel fuoco d’amore;
pensamenti, astrazioni, collere, malinconie, invidie, querele, e
men sperar quel che più si desia.»
E continua di questo passo, ammassando tutt’i luoghi
topici della rettorica e tutte le frasi della moda:
«cuor mio», «mio bene», «mia vita», «mia dolce piaga»
e «morte», «dio», «nume», «poggio», «riposo», «speranza», «fontana», «spirito», «tramontana stella», ed
«un bel sol che all’alma mai tramonta», ... «crudo core»,
«salda colonna», «dura pietra», «petto di diamante», ...
«cruda man che ha le chiavi del mio core», «mia nemica», «mia dolce guerriera», «bersaglio sol di tutt’i miei
pensieri», e «bei son gli amor miei, non quei d’altrui». È
il vecchio frasario de’ petrarchisti, venutogli a noia e ammassato qui alla rinfusa. Ci è il critico, non ci è il poeta
comico che ci viva dentro e ci si trastulli. Fino il titolo, il
Candelaio, lo mena a questa considerazione filosofica:
che è la candela destinata a illuminare le «ombre delle
idee». Perciò costruisce il suo mondo comico a quel modo che costruisce il suo universo, guardando nelle apparenze l’essenza e la generalità:
«Eccovi avanti agli occhi oziosi princìpi, debili orditure, vani pensieri, frivole speranze, scoppiamenti di petto, scoverture
di corde, falsi presuppositi, alienazioni di mente, poetici furori,
offuscamento di sensi, turbazion di fantasia, smarrito peregrinaggio d’intelletto, fede sfrenata, cure insensate, studi incerti,
somenze intempestive, e gloriosi frutti di pazzia.»
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Con queste disposizioni non individua, come fa l’artista,
ma generalizza, mette insieme le cose più disparate, perchè nelle massime differenze trova sempre il simile e
l’uno, e profonde antitesi, similitudini, sinonimi, con
una copia, un brio, una novità di relazioni che testimoniano straordinaria acutezza di mente. Chi legge Bruno
si trova già in pieno Seicento, e indovina Marino e
Achillini. Ecco un periodo alla sua donna:
«Voi, coltivatrice del campo dell’animo mio, che dopo di
avere attrite le glebe della sua durezza, e assotigliatogli il stile,
acciocchè la polverosa nebbia sollevata dal vento della leggerezza non offendesse gli occhi di questo e quello, con acqua divina, che dal fonte del vostro spirito deriva, m’abbeveraste l’intelletto.»
Sembra un periodo rubato a Pietro Aretino, che ne facea mercato. Il difetto penetra anche nella rappresentazione, essendo i caratteri concepiti astrattamente, perciò
tesi e crudi, senza ombre e chiaroscuri, con una cinica
nudità, resa anche più spiccata da una lingua grossolana,
un italiano abborracciato e mescolato di elementi napolitani e latini.
In questo mondo comico i tre protagonisti, che sono i
tre sciocchi beffardi e castigati, abbracciano la vita nelle
sue tre forme più spiccate, la letteratura, la scienza e
l’amore nella loro comica degenerazione. La letteratura
è pedanteria, la scienza è impostura, l’amore è bestialità.
Il personaggio meglio riuscito è il pedante, che finisce
sculacciato e rubato. E il pedante sotto vari nomi diviene parte sostanziale anche del suo mondo filosofico, diviene il suo elemento negativo e polemico. Dirimpetto
alla sua speculazione ci è sempre il pedante aristotelico,
che rappresenta il senso comune o le opinioni volgari,
ed è messo alla berlina. La speculazione si sviluppa in
forma di dialogo, dove il pedante rappresenta la parte
del buffone resa più piccante dalla solennità magistrale.
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A questo elemento comico aggiungi un altro elemento
letterario, l’allegorico e il fantastico, che lo dispone a inviluppare i suoi concetti sotto immagini e finzioni,
com’è nel suo Asino cillenico e nello Spaccio della bestia
trionfante. Qui arieggia Luciano, come in altri dialoghi
più severamente speculativi arieggia Platone. Il suo dialogo Degli eroici furori ricorda la Vita nuova di Dante,
una filza di sonetti, ciascuno col suo comento, il quale
nella sua generalità è una dottrina allegorica intorno
all’entusiasmo e alla ispirazione. Il contenuto nel Bruno
è in molta parte nuovo, ma le sue forme letterarie non
nascono dal contenuto, sono appiccate a quello, e sono
forme invecchiate e corrotte dal lungo uso, perciò senza
grazia e semplicità, e senza calore intimo. Se non disgustano e non annoiano, si dee al suo acuto spirito e alla
sua attività intellettuale, che non ti fa mai stagnare, e ti
sorprende di continuo con sali, frizzi, antitesi, bizzarrie,
concetti e finezze, che è il cattivo gusto degli uomini
d’ingegno.
Ma quest’uomo così inviluppato in forme tradizionali
e già guaste, che accennavano già ad una prossima dissoluzione della letteratura italiana, era nella sua speculazione perfettamente libero, e costruiva un nuovo contenuto, da cui dovea uscire più tardi una nuova critica e
una nuova letteratura. La sua filosofia è la condanna più
esplicita delle sue forme e de’ suoi pregiudizi letterari.
Non vo’ già analizzare il suo sistema filosofico: chè
non fo storia di filosofia. Ma debbo notare le idee e le
tendenze che ebbero una decisa influenza sul progresso
umano.
Ne’ suoi primi scritti, tutti in latino, si vede il giovane,
a cui si apre tutto il mondo della cognizione, e cerca
riassumerlo, costruire l’albero enciclopedico. Raimondo
Lullo avea già tentata questa sintesi, come aiuto della
memoria. Bruno rifà il suo lavoro, stabilisce categorie e
distinzioni, note mnemoniche, o idee generali, intorno a
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cui si aggruppino i particolari, come «cielo», «albero»,
«selva». Queste note le chiama «suggelli», a cui è aggiunto «sigillus sigillorum», cioè le idee prime, da cui discendono le altre. Il suo entusiasmo per quest’«architettura lulliana», titolo di un suo scritto, è tale, che la
chiama «arte delle arti», perchè vi si trova «quidquid per
logicam, metaphysicam, cabalam, naturalem magiam, artes magnas atque breves theoretice inquiritur». Bruno
non avea attinto che il meccanismo della scienza, perchè
queste categorie o distribuzioni per capi e per materia
sono distinzioni formali e arbitrarie, e rassomigliano un
dizionario fatto per categorie a soccorso della memoria.
Il volgo ci dà molta importanza e crede, imparando
quelle categorie, di avere imparato a così buon mercato
tutte le scienze. Dicesi che molti gli stessero attorno per
aver da lui il secreto di diventar dottori in qualche mese,
e che beffati gliene volessero: anzi a queste inimicizie
plebee si attribuisce la sua fuga da Parigi e la sua andata
a Londra. Ivi continuò i suoi studi lulliani e pubblicò
Explicatio triginta sigillorum, con una introduzione intitolata: Recens et completa ars reminiscendi. In questi studi meccanici e formali si rivela già un principio organico, che annunzia il gran pensatore. L’arte del ricordarsi
si trasforma innanzi alla sua mente speculativa in una vera arte del pensare, in una logica che è ad un tempo una
ontologia. Ci è un libro pubblicato a Parigi nel 1582, col
titolo: De umbris idearum, e lo raccomando a’ filosofi,
perchè ivi è il primo germe di quel mondo nuovo, che
fermentava nel suo cervello. Ivi tra quelle bizzarrie mnemoniche è sviluppato questo concetto capitalissimo, che
le serie del mondo intellettuale corrispondono alle serie
del mondo naturale, perchè uno è il principio dello spirito e della natura, uno è il pensiero e l’essere. Perciò
pensare è figurare al di dentro quello che la natura rappresenta al di fuori, copiare in sè la scrittura della natura. Pensare è vedere, ed il suo organo è l’occhio interio-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
re, negato agl’inetti. Ond’è che la logica non è un argomentare, ma un contemplare, una intuizione intellettuale non delle idee, che sono in Dio, sostanza fuori della
cognizione, ma delle ombre o riflessi delle idee ne’ sensi
e nella ragione. Bruno parla con disprezzo dantesco del
volgo, a cui è negato il lume interno, la visione del vero e
del buono riflesso nella ragione e nella natura; e premette al suo libro questa protesta:
Umbra profunda sumus, ne nos vexetis, inepti;
non vos, sed doctos tam grave quaerit opus.
Che vuol dire in buono italiano: – Chi non ci vede, suo
danno, e non ci stia a seccare. –
Questo concetto rinnovava la scienza nella sua sostanza e nel suo metodo. Il dualismo teologico-filosofico
del medio evo, da cui scaturiva il dualismo politico, papa e imperatore, dava luogo all’unità assoluta. E il formalismo meccanico aristotelico-scolastico cedeva il
campo a un metodo organico, cioè a dire derivato
dall’essenza stessa della scienza. Il nuovo concetto era la
chiave della speculazione di Bruno.
A Londra Bruno sostenne una disputa sul sistema di
Copernico, lungamente da lui narrata e con colori molto
comici nella Cena delle ceneri, cioè del primo dì di quaresima. Poi sviluppò più ampiamente le sue idee nel dialogo della Causa, principio e uno, e nell’altro dell’Infinito, universo e mondi, pubblicati a Londra nel 1584. Quei
tre libri sono la sua metafisica.
Ciò che ti colpisce dapprima in questa speculazione è
la riabilitazione, anzi l’indiamento della materia scomunicata, chiamata «peccato». Bruno ha chiara coscienza
di ciò che fa. Perchè mette in bocca al pedante aristotelico le opinioni volgari che correvano intorno alla materia. Il pedante è Polinnio, ed è descritto così:
«Questo è un di quelli che, quando ti arràn fatta una
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bella costruzione, prodotta una elegante epistolina,
scroccata una bella frase da la popina ciceroniana, qua è
risuscitato Demostene, qua vegeta Tullio, qua vive Salustio; qua è un Argo che vede ogni lettera, ogni sillaba,
ogni dizione... Chiamano all’essamina le orazioni, fanno
discussione de le frasi, con dire: – Queste sanno di poeta, queste di comico, queste di oratore! Questo è grave,
questo è lieve, quello è sublime, quell’altro è «humile dicendi genus». Questa orazione è aspera, sarebbe lene, se
fusse formata cossì. Questo è un infante scrittore, poco
studioso dell’antiquità, non redolet arpinatem, desepit
Latium. Questa voce non è tosca, non è usurpata da
Boccaccio, Petrarca e altri probati autori... – Con questo
trionfa, si contenta di sè, gli piaceno più ch’ogn’altra cosa i fatti suoi: è un Giove che da l’alta specula rimira e
considera la vita degli altri uomini suggetta a tanti errori, calamitadi, miserie e fatiche inutili. Solo lui è felice,
lui solo vive vita celeste, quando contempla la sua divinità nello specchio di uno spicilegio, un dizionario, un
Calepino, un lessico, un Cornucopia, un Nizzolio... Se
avvien che rida, si chiama Democrito; se avvien che si
dolga, si chiama Eraclito; se disputa, si chiama Crisippo;
se discorre, si nome Aristotile; se fa chimere, si appella
Platone; se mugge un sermoncello, se intitula Demostene; se construisce Virgilio, lui è il Marone. Qua corregge
Achille, approva Enea, riprende Ettore, esclama contro
Pirro, si condole di Priamo, arguisce Turno, scusa Didone, comenda Acate, e infine mentre «verbum verbo reddit» e infilza salvatiche sinonimie «nihil divinum a se
alienum putat», e così borioso smontando de la sua catedra, come colui c’ha disposti i cieli, regolati i senati, domati gli eserciti, riformati i mondi, è certo che se non
fosse l’ingiuria del tempo, farebbe con gli effetti quello
che fa con l’opinione. O tempora o mores! Quanti son
rari quei che intendeno la natura dei participi, degli adverbi, delle coniunczioni !
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Polinnio sarebbe immortale, se fosse in azione così vivo
e vero, come è dipinto qui, ma l’artista è inferiore al critico, nè il Polinnio che parla è uguale al Polinnio descritto con così felice umore sarcastico. Polinnio sa a mente
tutto quello che è stato scritto intorno alla materia, e tutto solo, «ita, inquam, solus ut minime omnium solus»,
come fosse in cattedra, ti sciorina sulla materia una lezione, anzi, come dice lui, una «nervosa orazione:»
«La materia... di peripatetici dal principe..., non minus che
dal Platon divino e altri, or «caos», or «hyle» or «silva», or
«massa», or «potenzia», or «aptitudine», or «privationi admixtum», or «peccati causa», or «ad maleficium ordinata», or «per
se non ens», or «per se non scibile», or «per analogiam ad formam cognoscibile», or «tabula rasa», or «indepictum», or «subiectum», or «substratum», or «substerniculum», or «campus»,
or «infinitum», or «indeterminatum», or «prope nihil», or« neque quid, neoue quale, neque quantum», tandem ... «femina»
vien detta, tandem, inquam, ut una complectantur omnia
vocula, «foemina» .»
Ebbene, questa materia, che Polinnio per disprezzo
chiama «femmina», la «causa del peccato», la «tavola rasa», il «prope nihil», il «neque quid, neque quale, neque
quantum», è proclamata da Bruno immortale e infinita.
Passano le forme: la materia resta immutabile nella sua
sostanza:
«Nella natura, variandosi in infinito, e succedendo l’una a
l’altra le forme, è sempre una materia medesma... Quello che
era seme, si fa erba, e da quello che era erba, si fa spica, da che
era spica, si fa pane, da pane chilo, da chilo sangue, da questo
seme, da questo embrione, da questo uomo, da questo cadavero, da questo terra, da questo pietra... Bisogna dunque che sia
una medesima cosa, che da sè non è pietra, non terra, non cadavere, non uomo, non embrione, non sangue...; ma che dopo
che era sangue, si fa embrione, ricevendo l’essere embrione;
dopo ch’era embrione, riceve l’essere uomo, facendosi uomo.»
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
E poichè tutte le forme passano, ed ella resta, Democrito e gli epicurei «quel che non è corpo dicono esser
nulla: per conseguenza vogliono la materia sola essere la
sustanza delle cose, e anche quella essere la natura divina», le forme non essendo «altro che certe accidentali
disposizioni della materia», come sostengono i cirenaici,
cinici e stoici. Bruno avea dapprima la stessa opinione,
diffusa già in molti contemporanei, soprattutto nei medici, parendogli che quella dottrina avesse «fondamenti
più corrispondenti alla natura che quei di Aristotile».
Cominciò dunque prettamente materialista; ma considerata la cosa «più maturamente» non potè confondere la
potenza passiva di tutto e la potenza attiva di tutto, chi
fa e chi è fatto, la forma e la materia: onde venne nella
conclusione esserci nella natura due sustanze, l’una ch’è
forma, l’altra che è materia, la «potestà di fare» e la «potestà di esser fatto». Perciò nella scala degli esseri «c’è
un intelletto, che dà l’essere a ogni cosa, chiamato da’
pitagorici...’datore delle forme’; una anima e principio
formale, che si fa ed informa ogni cosa, chiamata da’
medesimi ’fonte delle forme’; una materia, della quale
vien fatta e formata ogni cosa, chiamata da tutti ’ricetto
delle forme’.
Quanto all’intelletto, «primo e ottimo principio»,
«non possiamo conoscer nulla, se non per modo di vestigio, essendo la divina sostanza infinita e lontanissima
da quegli effetti che sono l’ultimo termine del corso della nostra discorsiva facultade ». Dio dunque è materia di
fede e di rivelazione, e secondo la teologia e «ancora tutte riformate filosofie» è cosa «da profano e turbolento
spirito il voler precipitarsi a ... definire circa quelle cose
che son sopra la sfera della nostra intelligenza». Dio «è
tutto quello che può essere»; in lui potenza e atto «son
la medesima cosa», possibilità assoluta, atto assoluto.
«Lo uomo è quel che può essere; ma non è tutto quel
che può essere... Quello, che è tutto quel che può essere,
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è uno il quale nell’esser suo comprende ogni essere. Lui
è tutto quel che è e può essere.» In lui ogni potenza e atto è «complicato, unito e uno: nelle altre cose è esplicato, disperso e moltiplicato». Lui è «potenza di tutte le
potenze, atto di tutti gli atti, vita di tutte le vite, anima di
tutte le anime, essere di tutto l’essere.» Perciò il Rivelatore lo chiama «Colui che è», il «Primo» e il «Novissimo», poichè «non è cosa antica e non è cosa nuova», e
dice di lui: «Sicut tenebrae eius, ita et lumen eius». «Atto
absolutissimo» e «absolutissima potenza, non può esser
compreso dall’intelletto se non per modo di negazione;
non può ... esser capito, nè in quanto può esser tutto»,
nè in quanto è tutto. Ond’è che il sommo principio è
escluso dalla filosofia, e Bruno costruisce il mondo, lasciando da parte la più alta contemplazione, che ascende sopra la natura, la quale «a chi non crede è impossibile e nulla». Quelli che non hanno il lume
soprannaturale, stimano ogni cosa esser corpo, o semplice, come lo etere, o composto, come gli astri, e non cercano la divinità fuor de l’infinito mondo e le infinite cose, ma dentro questo e in quelle». Questa è la sola
differenza tra il «fedele teologo» e il «vero filosofo». E
Bruno conchiude: – Credo che abbiate compreso quel
che voglio dire. – Il medio evo avea per base il soprannaturale e l’estramondano: Bruno lo ammette come «fedele teologo», ma come «vero filosofo» cerca la divinità
non fuori del mondo, ma nel mondo. È in fondo la più
radicale negazione dell’ascetismo e del medio evo.
Lasciando da parte la contemplazione del primo principio, rimangono due sostanze: la forma che fa e la materia di cui si fa, i due princìpi costitutivi delle cose.
La forma nella sua assolutezza è l’«anima del mondo», la cui «intima, più reale e propria facoltà e parte
potenziale» è l’«intelletto universale». Come il nostro
intelletto produce le specie razionali, così l’intelletto o
l’anima del mondo produce le specie naturali, «empie il
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
tutto, illumina l’universo», come disse il poeta: «...totamque infusa per artus / mens agitat molem, et toto se
corpore miscet». Questo intelletto, detto da’ platonici
«fabro del mondo», e da Bruno «artefice interno»,
«infondendo e porgendo qualche cosa del suo alla materia, ... produce il tutto». Esso è la forma universale e sostanziale insita nella materia, perchè non opera circa la
materia e fuor di quella, ma figura la materia da dentro,
«come da dentro del seme o radice» forma «il stipe, da
dentro il stipe caccia i rami, da dentro i rami le formate
brance, da dentro queste ispiega le gemme, da dentro
forma, figura e intesse come di nervi le fronde, li fiori e
li frutti». La natura opra dal centro, per dir così, del suo
soggetto o materia. Sicchè la forma, se come causa efficiente è estrinseca, perchè «non è parte delle cose prodotte»; «quanto all’atto della sua operazione», è intrinseca alla materia, perchè opera nel seno di quella. È
causa, cioè, fuori delle cose; ed è insieme principio, cioè
insito nelle cose. Non ci è creazione, ci è generazione, o,
come dice Bruno, «esplicazione».
La forma è in tutte le cose, e perciò tutte le cose hanno anima. Vivere è avere una forma, avere anima. Tutte
le cose sono viventi. «Se la vita si trova in tutte le cose,
l’anima» è «forma di tutte le cose»: presiede alla materia, «signoreggia nelli composti, effettua la composizione e consistenza delle parti». Perciò essa è immortale e
una non meno che la materia. Ma «secondo la diversità
delle disposizioni della materia e secondo la facultà de’
princìpi materiali attivi e passivi, viene a produr diverse
figurazioni». Sono queste forme esteriori, che solo si
cangiano e annullano, «perchè non sono cose, ma de le
cose, non sono sustanze, ma de le sustanze sono accidenti e circostanze. Perciò dice il poeta: «Omnia mutantur, nihil interit». E Salomone dice: «Quid est quod est?
Ipsum, quod fuit. Quid est quod fuit? Ipsum, quod futurum est. Nihil sub sole novum». Vani dunque sono i ter-
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rori della morte, e più vani i terrori dell’«avaro Caronte,
onde il più dolce della nostra vita ne si rape ed avvelena».
Machiavelli avea già parlato di uno «spirito del mondo» immortale ed immutabile, fattore della storia secondo le sue leggi costitutive. Quello spirito della storia nella speculazione di Bruno è il «fabro del mondo», il suo
«artefice interno».
Dirimpetto alla forma assoluta è la materia assoluta,
cioè secondo sè, distinta dalla forma. Come la forma
esclude da sè ogni concetto di materia, così la materia
esclude da sè ogni concetto di forma. La materia è
«informe», potenza passiva «pura, nuda, senz’atto, senza virtù e perfezione», «prope nihil»: è l’indifferente, lo
stesso e il medesimo, il tutto e il nulla. Appunto perchè
è tutte le cose, non è alcuna cosa. E perchè non è alcuna
cosa, non è corpo; «nullas habet dimensiones», è indivisibile, soggetto di cose corporee e incorporee. Se avesse
certe dimensioni, certo essere, certa figura, certa proprietà, certa differenzia, non sarebbe assoluta.»
Ma forma e materia nella loro assolutezza, come
aventi vita propria, estrinseca l’una all’altra, sono non
distinzioni reali, ma vocali e nominali, sono distinzioni
logiche e intellettuali, perchè «l’intelletto divide quello
che in natura è indiviso», com’è vizio di Aristotile, e degli scolastici, che popolarono il mondo di entità logiche,
quasi fossero sussistenze reali. Bruno si beffa in molte
occasioni di questi filosofi, che moltiplicarono gli enti,
immaginando fino la «socrateità» come l’essenza di Socrate, la «ligneità» come essenza del legno. Questa distinzione tra gli enti logici e gli enti reali è già un gran
progresso. Non che le distinzioni logiche sieno senza
importanza, anzi esse sono una serie corrispondente alla
serie delle cose, sono le generalità della natura; il torto è
di considerarle cose viventi e reali, e credere, per esem-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
pio, che forma e materia sieno due sostanze distinte, appunto perchè possiamo e dobbiamo concepirle distinte.
In natura o nella realtà forma e materia sono una sola
sostanza. L’una implica l’altra: porre l’una è porre l’altra. La forma non può sussistere se non aderente alla
materia, una forma che stia da sè è una astrazione logica
Parimente la materia vuota e informe è un’astrazione;
essa è come una «pregnante che ha già in sè il germe vivo». Non ci è forma che non abbia in sè «un che materiale», e non ci è materia che non abbia in sè il suo principio formale e divino. Bruno dice: «Lo ente,
logicamente diviso in quel che è e può essere, fisicamente è indiviso, indistinto e uno». Perciò la potenza coincide coll’atto, la materia con la forma. Giove, «la essenzia
per cui tutto quel ch’è ha l’essere», è «intimamente» in
tutto; onde «s’inferisce che tutte le cose sono in ciascuna
cosa, e tutto è uno».
La materia non è dunque nulla, «prope nihil», come
vuole Aristotile; anzi ha in sè tutte le forme, e le produce
dal suo seno per opera della natura, efficiente o artefice
«interno e non esterno, come aviene nelle cose artificiali». Se il principio formale fosse esterno, si potrebbe dire
ch’ella «non abbia in sè forma e atto alcuno»; ma le ha
tutte, perchè tutte le caccia «dal suo seno». Perciò la
materia non è «quello in cui le cose si fanno», ma quello
«di cui ogni specie naturale si produce». Ciò che, oltre i
pitagorici, Anassagora e Democrito, comprese anche
Mosè, quando disse: «‘Produca la terra li suoi animali’,... quasi dicesse: ’Producale la materia’». Adunque le
«forme» ed «entelechie» di Aristotile e le «fantastiche
idee di Platone», i «sigilli ideali separati dalla materia ...
son peggio che mostri», sono «chimere e vane fantasie».
La materia è fonte dell’attualità, è non solo in potenza,
ma in atto; è sempre la medesima e immutabile, in eterno stato, e non è quella che si muta, ma quella intorno
alla quale e nella quale è la mutazione. Ciò che si altera è
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il composto, non la materia. Si dice stoltamente che la
materia appetisca la forma. Non può appetere «il fonte
delle forme che è in sé», perchè nessuno appete ciò che
possiede. E perciò, in caso di morte, non si dee dire che
«la forma fugge... o... lascia la materia, ma più tosto che
la materia rigetta quella forma» per prenderne un’altra.
Il povero Gervasio, che fa nel dialogo la parte del senso
comune e volgare, vedendo a terra non solo le opinioni
aristoteliche di Polinnio, ma tante altre cose, esce in
questa esclamazione: – «Or ecco a terra non solamente li
castelli di Polinnio, ma ancora d’altri che di Polinnio!».
–
Adunque, se gl’individui sono innumerabili, ogni cosa è uno, e il conoscere questa unità è lo scopo e termine
di tutte le filosofie e contemplazioni naturali, montando
non al sommo principio, escluso dalla speculazione, ma
alla somma monade o atomo o unità, anima del mondo,
atto di tutto, potenza di tutto, tutta in tutto.
Questa sostanza unica è «l’universo, uno, infinito, immobile». «Non è materia, perchè non è figurato, nè figurabile..., non è forma, perchè non informa, nè figura»
sostanza particolare, «atteso che è tutto, è massimo, è
uno, è universo... È talmente forma che non è forma, è
talmente materia che non è materia, è talmente anima
che non è anima; perchè è il tutto indifferentemente, e
però è uno, l’universo è uno». In lui tutto è centro: il
centro è dappertutto e la circonferenza è in nessuna parte, ed anche la circonferenza è dappertutto e in nessuna
parte il centro. Non c’è vacuo tutto è pieno: quello in
cui vi può essere corpo, e che può contenere qualche cosa, e nel cui seno sono gli atomi. Perciò l’universo è di
dimensione infinita e i mondi sono innumerabili. La
causa finale del mondo è la perfezione, e agl’innumerabili gradi di perfezione rispondono i mondi innumerabili: animali grandi, co’ loro organi e il loro sviluppo, de’
quali uno è la terra. Per la continenza di questi innume-
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rabili si richiede uno spazio infinito, l’eterea regione,
dove si muovono i mondi, perciò non affissi e inchiodati. Vano è cercare il loro motore esterno, perchè tutti si
muovono dal principio interno, che è la propria anima.
Il punto di partenza è una reazione visibile contro il
soprannaturale e l’estramondano. Il mondo popolato di
universali nel medio evo è negato da Bruno in nome della natura. Dio stesso, dice Bruno, se non è natura, è natura della natura; se non è l’anima del mondo, è l’anima
dell’anima del mondo. E in questo caso è materia di fede, non è parte della cognizione. La base della sua dottrina è perciò l’intrinsechezza del principio formale o divino della natura. Ciascuno ha Dio dentro di sè. Il vero e
il buono luce dentro di noi non per lume soprannaturale, ma per lume naturale. Il naturalismo reagiva contro il
soprannaturale.
Quelli che hanno lume soprannaturale, come i profeti, cioè a dire che ricevono il lume dal di fuori, egli li
chiama «asini» o «ignoranti», de’ quali fa un ironico panegirico nell’Asino cillenico, e tra questi e quelli che
hanno il lume naturale e vedono per virtù propria è la
stessa differenza che è «tra l’asino che porta i sacramenti e la cosa sacra». Quelli sono vasi e strumenti; questi
principali artefici ed efficienti: quelli hanno più dignità,
perchè hanno la divinità; questi sono essi più degni, e
sono divini. L’asinità è la condizione della fede: chi crede, non ha bisogno di sapere; e l’asinità conduce alla vita eterna.
«– Forzatevi, forzatevi dunque ad essere asini, o voi che siete uomini!... – grida Bruno con umore – così, divoti e pazienti,
sarete contubernali alle angeliche squadre... E voi che siete già
asini,... adattatevi a proceder... di bene in meglio, afinchè perveniate... a quella dignità che non per scienze ed opre,... ma
per fede s’acquista. Se... tali sarete..., vi troverete scritti nel libro della vita, impetrerete la grazia in questa militante, ed ot-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
terrete la gloria in quella trionfante ecclesia, nella quale vive e
regna Dio per tutt’i secoli de’ secoli.»
Questa tirata umoristica finisce con un «molto pio» sonetto in lode degli asini, il cui concetto è che «il gran Signor li vuol far trionfanti». Nè solo è l’asino trionfante,
ma l’ozio, perchè l’eterna felicità s’acquista per «fede»,
non per «scienze», e non per «opre». Anche dell’ozio
hai un panegirico ironico, e per saggio diamo il seguente
sillogismo:
«Li dèi son dèi, perchè son felicissimi; li felici son felici perchè son senza sollecitudine e fatica; fatica e sollecitudine non
han coloro che non si muovono e alterano; questi son massime
quei ch’han seco l’ocio: dunque gli dèi son dèi, perchè han seco l’ocio.»
Sillogismo pieno di senso nella sua frivola apparenza.
Momo, il censore divino, ne resta intrigato, e dice che
«per aver studiato logica in Aristotile non aveva imparato di rispondere agli argomenti in quarta figura». L’ozio
fa naturalmente l’elogio dell’età dell’oro, la sua età, il
suo regno, e cita i bei versi del Tasso:
... ... legge aurea e felice,
che natura scolpì: «S’ei piace, ei lice».
E finisce con questa esortazione:
Lasciate le ombre, ed abbracciate il vero,
non cangiate il presente col futuro.
Voi siete il veltro che nel rio trabocca,
mentre l’ombra desia di quel ch’ha in bocca.
Avviso non fu mai di saggio e scaltro,
perdere un ben per acquistarne un altro.
A che cercate sì lunge diviso,
se in voi stessi trovate il paradiso?
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L’ozio e l’ignoranza sono i caratteri della vita ascetica e
monacale, della quale Bruno aveva avuto esperienza.
«[La libertade], – fa egli dire a Giove – quando verrà ad essere ociosa, sarà frustratoria e vana, come indarno è l’occhio
che non vede, e mano che non apprende. Ne l’età... dell’oro
per l’ocio gli uomini non erano più virtuosi, che sin al presente
le bestie son virtuose, e forse erano più stupidi che molte di
queste.»
Bruno rigetta quella vita oziosa, che fu detta «aurea», e
ch’egli chiama «scempia», fondata sulla passività dell’intelletto e della volontà, e non può parlarne senz’aria di
beffa. Il soprannaturale è incalzato ne’ suoi princìpi e
nelle sue conseguenze.
Secondo la morale di Bruno il lume naturale viene destato nell’anima dall’amore del divino, o dal principio
formale aderente alla materia, e per il quale la materia è
bella. Amare la materia in quanto materia è cosa bestiale
e volgare, e Bruno se la prende col Petrarca e i petrarchisti, lodatori di donne per ozio e per pompa d’ingegno, a quel modo che altri «han parlato delle lodi della
mosca, dello scarafone, dell’asino, de Sileno, de Priapo,
scimmie de’ quali son coloro che han poetato a’ nostri
tempi – dic’egli – delle lodi degli orinali, della piva, della fava, del letto, delle bugie, del disonore, del forno, del
martello, della carestia, della peste». Obbietto dell’amore eroico è il divino, o il formale: la bellezza divina «prima si comunica alle anime, e... per quelle... si comunica
alli corpi; onde è che l’affetto ben formato ama... la corporal bellezza, per quel che è indice della bellezza del
spirito. Anzi quello che n’innamora del corpo è una certa spiritualità che veggiamo in esso, la qual si chiama
’bellezza’, la qual non consiste nelle dimensioni maggiori o minori, non nelli determinati colori o forme, ma in
certa armonia e consonanza de membri e colori.»
L’amore sveglia nell’anima il lume naturale, o la visione
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intellettiva, la luce intellettuale, e la tiene in istato di
contemplazione o di astrazione, sì che pare insana e furiosa, come posseduta dallo spirito divino. Questo è non
il volgare, ma l’eroico furore, per il quale l’anima si converte come Atteone in quel che cerca, cerca Dio e diviene Dio, e avendo contratta in sè la divinità, non è necessario che la cerchi fuori di sè. «Però ben si dice il regno
di Dio essere in noi, e la divinitade abitare in noi per forza della visione intellettuale. Non tutti gli uomini hanno
la visione intellettuale, perchè non tutti hanno l’amore
eroico; ne’ più domina non la mente, che innalza a cose
sublimi, ma l’immaginazione, che abbassa alle cose inferiori; e questo volgo concepisce l’amore a sua immagine:
fanciullo il credi, perchè poco intendi;
perchè ratto ti cangi, e’ par fugace;
per esser orbo tu, lo chiami cieco.
L’amore eroico è proprio delle nature superiori, dette
«insane», non perchè non sanno, ma perchè «soprasanno», sanno più dell’ordinario, e tendono più alto, per
aver più intelletto.
La visione o contemplazione divina non è però oziosa
ed estrinseca, come ne’ mistici e ascetici: Dio è in noi, e
possedere Dio è possedere noi stessi. E non ci viene dal
di fuori, ma ci è data dalla forza dell’intelletto e della volontà, che sono tra loro in reciprocanza d’azione: l’intelletto, che, suscitato dall’amore, acquista occhio e contempla; e la volontà che, ringagliardita dalla
contemplazione, diviene efficace, o doppiata: ciò che
Bruno esprime con la formola: «io voglio volere». Dalla
contemplazione esce dunque l’azione: la vita non è ignoranza e ozio, anzi è «intelletto e atto mediante l’amore»,
secondo la formola dantesca rintegrata da Bruno: è intendere ed operare. Maggiori sono le contrarietà e le necessità della vita, e più intensa è la volontà, perchè amore è unità e amicizia de’ contrari, o degli oppositi, e nel
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
contrasto cerca la concordia. La mente è unità,;l’immaginazione è moto, è diversità; la facultà razionale è in
mezzo, composta di tutto, in cui concorre l’uno con la
moltitudine, il medesimo col diverso, il moto con lo stato, l’inferiore col superiore. Come gli dèi trasmigrano in
forme basse e aliene, o per sentimento della propria nobiltà ripigliano la divina forma; così il furioso eroico, innalzandosi per la conceputa specie della divina beltà e
bontà, con l’ale dell’intelletto e volontà intellettiva s’innalza alla divinità, lasciando la forma di soggetto più
basso:
da soggetto più vil divegno un dio...
Mi cangio in Dio da cosa inferiore.
«Cangiarsi in Dio» significa levarsi dalla moltitudine
all’uno, dal diverso allo stesso, dall’individuo alla vita
universale, dalle forme cangianti al permanente, vedere
e volere nel tutto l’uno e nell’uno il tutto. O, per uscire
da questa terminologia, Dio è verità e bontà scritta al di
dentro di noi, visibile per lume naturale; e cercarla e
possederla è la perfezione morale, lo scopo della vita.
È stato notato che Bruno non ti offre un sistema concorde e deciso. La filosofia è in lui ancora in istato di
fermentazione. Hai i vacillamenti dell’uomo nuovo, che
vive ancora nel passato e del passato. Combatte il soprannaturale, ma il suo lume naturale, la sua «mens
tuens», la sua intuizione intellettiva, ne serba una confusa reminiscenza. Contempla Dio nella infinità della natura, ma non sa strigarsi dal Dio estramondano, e non sa
che farsene, rimasto come un antecedente inconciliato
della sua speculazione. Ora quel Dio è verità e sostanza,
e noi siamo sua ombra, «umbra profunda sumus»; ora
quel Dio è proprio la natura, o, «se non è natura, è natura della natura». Ci è in lui confuso Cartesio, Spinosa e
Malebranche. Combatte la scolastica, e ne conserva in
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
gran parte le abitudini. Odia la mistica, e talora, a sentirlo, è più mistico di un santo padre. Rigetta l’immaginazione, e ne ha tutt’i vizi e tutte le forme. Manca l’armonia nel suo contenuto e nelle sue forme. E non è
maraviglia che anche oggi i filosofi si accapiglino nella
interpretazione del suo sistema.
Interessantissima è questa storia interiore dello spirito di Bruno nelle sue distinzioni e sottigliezze, e nelle
oscillazioni del suo sviluppo; anzi è questa la sua vera
biografia. Niente è più drammatico che la vita interiore
di un grande spirito nella sua lotta con l’educazione, co’
maestri, con gli studi, col tempo, co’ pregiudizi, nelle
sue imitazioni, fluttuazioni e resistenze. La sua grandezza è appunto in questo, di vincere in quella lotta, cioè
che di mezzo a quelle fluttuazioni si stacchino con maggior forza ed evidenza le sue tendenze predilette, che gli
danno un carattere ed una fisonomia. E questa fisonomia di Bruno noi dobbiamo cercare, a traverso i suoi ondeggiamenti.
Innanzi tutto, Bruno ha sviluppatissimo il sentimento
religioso, cioè il sentimento dell’infinito e del divino,
com’è di ogni spirito contemplativo. Leggendolo, ti senti più vicino a Dio. E non hai bisogno di domandarti, se
Dio è, e cosa è. Perchè lo senti in te, e appresso a te, nella tua coscienza e nella natura. Dio è «più intimo a te
che non sei tu a te stesso». Tutte le religioni non sono in
fondo che il divino in diverse forme. E sotto questo
aspetto Bruno ti fa un’analisi assai notevole delle religioni antiche e nuove. L’amore del divino, il «furore eroico», è il carattere delle nobili nature. E questo amore ci
rende atti non solo a contemplare Dio come verità, ma
ancora a realizzarlo come bontà. Ivi ha radice la scienza
e la morale.
Questi concetti non sono nuovi, e di simili se ne trovano nella Scrittura e ne’ padri. Ma lo spirito n’è nuovo.
Non è solo questo, che «i cieli narrano la gloria di Dio»,
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ma quest’altro, che i cieli sono essi medesimi divini, e si
movono per virtù propria, per la loro intrinseca divinità.
È la riabilitazione della materia o della natura, non più
opposta allo spirito e scomunicata, ma fatta divina, divenuta «genitura di Dio». È il finito o il concreto che apparisce all’infinito, e lo realizza, gli dà l’esistenza. O, come dicesi oggi, è il Dio vivente e conoscibile che
succede al Dio astratto e solitario. L’universo, eterno ed
infinito, è la vita o la storia di Dio.
Questo è ciò che fu detto il «naturalismo di Bruno», o
piuttosto del secolo, ed era il naturale progresso dello
spirito, che usciva dalle astrattezze scolastiche, o, come
dice Bruno, «dalle credenze e dalle fantasie», e cercava
la sua base nel concreto e nel finito era la prima voce
della natura che scopriva se stessa e si proclamava di essenza divina, una e medesima che la divinità, «secondo
che l’unità è distinta nella generata e generante, o producente e prodotta». Bruno nel suo entusiasmo per la
natura divina dice che lo spirito eroico
«vede l’anfitrite, il fonte di tutti i numeri, di tutte specie, di
tutti i raggioni, che è la monade, vera essenza dell’essere di tutti, e, se non la vede in sua essenza, in absoluta luce, la vede nella sua genitura, che gli è simile, che è la sua imagine: perchè
dalla monade, che è la divinitate, procede questa monade, che
è la natura, l’universo, il mondo, dove [ella] si contempla e si
specchia»
cioè dove s’intende ed è intelligibile.
Questa visione di Dio, privilegio dello spirito eroico,
non ha nulla a fare col lume soprannaturale, con la fede,
o la grazia, o l’estasi, o altro che dal di fuori piova
nell’anima. Dio, fatto conoscibile nel mondo, diviene
materia della cognizione, e l’anima effettua la sua unione
con lui per un atto della sua energia, per intrinseca virtù.
La visione è intellettiva, e il suo organo è la mente, dove
Dio, o la Verità, si rivela, come «in propria e viva sede»,
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
a quelli che la cercano, «per forza del riformato intelletto e volontà», cioè per la scienza.
L’amore del divino, spinto sino al «furore eroico», lega Bruno co’ mistici. Il naturalismo letterario era pretto
materialismo, che si sciolse nella licenza e nel cinismo, e
mise capo in ozio idillico snervante, peggiore dell’ozio
ascetico. Il naturalismo di Bruno era al contrario non il
divino materializzato, ma la materia divinizzata. La materia in se stessa è volgare bestialità; essa ha valore come
divina. Il divino non è infuso o intrinseco, ma è insito e
connaturato. Cercarlo ed effettuarlo è il degno scopo
della vita. E non si rivela se non a quelli che lo cercano e
lo conquistano col lavoro della mente illuminata
dall’amore eroico. Ciò distingue i vulgari da’ nobili spiriti. Molti sono i chiamati, pochi gli eletti. «Molti rimirano, pochi vedono.» Bruno parla spesso con tale unzione
e con tale esaltazione mistica, che ti pare un Dante o un
san Bonaventura.
Ma i mistici sono semplicemente contemplanti, dove
per Bruno non è contemplazione nella quale non sia
azione, e non è azione nella quale non sia contemplazione. La nuda contemplazione è ozio. Contemplare è operare. Si vede l’uomo che esce dal convento ed entra nella vita militante.
Folengo esce dal convento, rinnegando Dio e sputando sul viso alla società. In lui il secolo scettico e materialista ha la sua ultima espressione. Anche a Bruno abbonda la satira e l’ironia; anche in lui ci è un lato negativo e
polemico, sviluppato con potenza e abbondanza d’immaginazione. Ma questo lato rimane assorbito nella sua
speculazione. Il suo scopo è tutto positivo: è la restaurazione di Dio, e con esso del sentimento religioso e della
coscienza. Ciò che Savonarola tentò con la fede e con
l’entusiasmo, egli tenta con la scienza. Non accetta Dio
come gli è dato, nè se ne rimette alla fede, perchè non è
un credente. Dio vuole cercarlo e trovarlo lui, con la sua
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
attività intellettuale, con l’occhio della mente. E questo
Dio, da lui trovato, e di cui sente l’infinita presenza in se
stesso e negl’infiniti mondi e in ciascun essere vivente,
nel massimo e nel minimo, non rimane astratta verità
nella sua intelligenza, ma scende nella coscienza e penetra tutto l’essere, intelletto, volontà, sentimento e amore.
Comincia scredente, finisce credente. Ma è un «credo»
generato e formato nel suo spirito, non venutogli dal di
fuori. Per questo «credo» non gli fu grave morire ancor
giovane sul rogo, dicendo a’ suoi giudici le celebri parole: «Maiori forsitan cum timore sententiam in me dicitis,
quam ego accipiam». Sembra che il suo maggior peccato
innanzi alla Chiesa sia stata la sua fede negl’infiniti mondi, come traspare da questa malvagia ironia dello Scioppio: «Sic ustulatus misere periit, renunciaturus credo, in
reliquis illis, quos finxit, mundis, quonam pacto homines
blasphemi et impii a romanis tractari solent».
Insisto su questo carattere entusiastico e religioso di
Bruno, o, com’egli dice, «eroico», che gli dà la figura di
un santo della scienza. Quante volte l’umanità, stanca di
aggirarsi nell’infinita varietà, sente il bisogno di risalire
al tutto ed uno, all’assoluto, e cercarvi Dio, le si affaccia
sull’ingresso del mondo moderno la statua colossale di
Bruno.
Il suo supplizio passò così inosservato in Italia, che
parecchi eruditi lo mettono in dubbio. Nè le opere sue
vi lasciarono alcun vestigio. Si direbbe che i carnefici insieme col corpo arsero la sua memoria. Anche in Europa
il brunismo lasciò deboli tracce. Il progresso delle idee e
delle dottrine era così violento, che il gran precursore fu
avvolto e oscurato nel turbinìo. Come Dante, Bruno attendeva la sua risurrezione. E quando dopo un lungo lavoro di analisi riappare la sintesi, Jacobi e Schelling sentirono la loro parentela col grande italiano, e
riedificarono la sua statua.
In Bruno trovi la sintesi ancora inorganica della scien-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
za moderna, con le sue più spiccate tendenze, la libera
investigazione, l’autonomia e la competenza della ragione, la visione del vero come prodotto dell’attività intellettuale, la proscrizione delle fantasie, delle credenze e
delle astrazioni, un più intimo avvicinamento alla natura
o al reale. Dico «tendenze», perchè nel fatto l’immaginazione e il sentimento soprabbondavano in lui, e gli
tolsero quella calma armonica di contemplazione, senza
la quale riesce difettiva la virtù organizzatrice, e quella
pazienza di osservazione e di analisi, senza la quale le
più belle speculazioni rimangono infeconde generalità.
Quanto alla sua sintesi, il Dio astratto ed estramondano fatto visibile e conoscibile nella infinita natura,
l’unità e medesimezza di tutti gli esseri, l’eternità e l’infinità dell’universo nella perenne metempsicosi delle forme, il sentimento dell’anima o della vita universale, l’infinita perfettibilità delle forme nella loro
trasformazione, la produttività della materia dal suo intrinseco, l’azione dinamica della natura nelle sue combinazioni, la libertà distinta dal libero arbitrio e rappresentata come la stessa effettuazione del divino o della
legge, la moralità e la glorificazione del lavoro, sono
concetti che, svolti lungamente e variamente da Bruno
in opere latine e italiane, appaiono punti luminosi nella
speculazione moderna, e ne trovi i vestigi in Cartesio, in
Spinosa, in Leibnitz, e più tardi in Schelling, in Hegel e
ne’ presenti materialisti. Se dovessi con una sola formola
caratterizzare il mondo di Bruno, lo chiamerei il «mondo moderno ancora in fermentazione».
Roma bruciava Bruno, Parigi bruciava Vanini. I loro
carnefici li dissero atei. Pure Dio non fu mai cosa sì seria, come nel loro petto.
– Andiamo a morir da filosofo – disse Vanini, avvicinandosi al rogo. Eran detti anche «novatori», titolo d’infamia, che è divenuto il titolo della loro gloria.
Nel 1599. Bruno era già nelle mani dell’Inquisizione,
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
e Campanella nelle mani spagnuole. Nel primo anno del
Seicento Bruno periva sul rogo, e Campanella aveva la
tortura. Così finiva l’un secolo, così cominciava l’altro.
«Tu, asinus, nescis vivere», dicevano a Campanella amici
e nemici: «ne loquaris in nomine Dei». E lui prendeva ad
insegna una campana, con entrovi l’epigrafe: «Non tacebo». Anche Bruno diceva di sè: «Dormitantium animorum excubitor». La nuova scienza sorge come una nuova
religione, accompagnata dalla fede e dal martirio. «Philosophus» diceva il Pomponazzi per esperienza propria
«ab omnibus irridetur, et tamquam stultus et sacrilegus
habetur; ab inquisitoribus prosequitur, fit spectaculum
vulgi: haec igitur sunt lucra philosophorum, haec est eorum merces». Pure questi uomini nuovi derisi, perseguitati, spettacolo del volgo, avevano una fede invitta nel
trionfo delle loro dottrine. L’accademia cosentina di Telesio avea per impresa la luna crescente, col motto: «Donec totum impleat orbem». Bruno, perseguitato dal suo
secolo, diceva: – La morte in un secolo fa vivo in tutti gli
altri. – Campanella paragona il filosofo al Cristo, che il
terzo giorno, spezzando la pietra, risorge. Il carattere era
pari all’ingegno. Dietro al filosofo ci era l’uomo.
Telesio è detto da Bacone il «primo degli uomini nuovi». Ma la novità era già antica di un secolo, e Telesio
che avea fatto i suoi studi a Padova, a Milano, a Roma,
professato a Napoli, quando, stanco di lotte e di persecuzioni, deliberò di ritrarsi nella nativa Cosenza, vi
portò il motto del pensiero italiano, la «filosofia naturale», fondata sull’esperienza e sull’osservazione. Il suo
merito è di avere esercitata una seria influenza intellettuale tra’ suoi concittadini e di aver fondata sotto nome
di «accademia» una vera scuola filosofica. Come Machiavelli, così egli non segue altro che l’osservazione e la
natura: «poichè la sapienza umana è arrivata alla più alta
cima che possa afferrare, se ha osservato quello che si
presenta a’ sensi, e ciò che può esser dedotto per analo-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
gia dalle percezioni sensibili». Sincero, modesto, d’ingegno non grande ma di grandissima giustezza di mente e
di sano criterio, fu benemerito meno per le sue dottrine,
che per il metodo ed il linguaggio. E in verità, la grande
e utile novità era allora il metodo. Il suo maggiore elogio
lo ha fatto Campanella in queste parole: «Telesius in
scribendo stylum vere philosophicum solus servat, iuxta
verum naturam sermones significantes condens, facitque
hominem potius sapientem quam loquacem». L’obbiettivo era sciogliere il pensiero dalla servitù di Aristotile,
«tiranno degl’ingegni», e metterlo in diretta comunicazione con la natura, rifarlo libero, ciò che con una precisione uguale alla concisione dice Campanella nel suo famoso sonetto a Telesio:
Telesio, il telo della tua faretra
uccide de’ sofisti in mezzo al campo
degl’ingegni il tiranno senza scampo:
libertà dolce alla verità impetra.
L’impresa non era lieve. Resistevano tutte le dotte mediocrità, tutto quel complesso di uomini e d’istituzioni
che l’Aretino chiamava «la pedanteria», i «Polinnii» di
Bruno spalleggiati da francescani, domenicani e gesuiti,
e spesso l’ultimo argomento era il rogo, il carcere, l’esilio. Dir cose nuove era delitto non solo alla Chiesa, ma a’
principi venuti in sospetto di ogni novità nelle scuole:
pure la fede di un rinnovamento era universale, e «Renovabitur» fu il motto del Montano, discepolo di Telesio, nel compendio che scrisse della sua dottrina. Si era
fino allora pensato col capo d’altri: gli uomini volevano
ora pensare col capo loro. Questo era il movimento. E
fu così irresistibile, che la novità usciva anche da’ segreti
del convento. Fu là che si formò ne’ forti studi libera e
ribelle l’anima di Bruno. E là, in un piccolo convento di
Calabria, si educava a libertà l’ingegno di Tommaso
Campanella. Assai presto oltrepassò gli studi delle scuo-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
le, e, fatto maestro di sè, lesse avidamente e disordinatamente tutti quei libri che gli vennero alle mani. Nella solitudine si fa presto ad esser dotto. Ivi il giovine raccolse
immensi materiali in tutto lo scibile. Il suo idolo era Telesio, il gran novatore; il suo odio era Aristotile con tutto
il suo seguito, e, come Bruno, preferiva gli antichi filosofi greci, massime Pitagora. Venuto in Cosenza, i suoi frati, che già conoscevano l’uomo, non vollero permettergli
di udire, nè di veder Telesio: ciò che infiammò il desiderio e l’amore. Il giorno che Telesio morì, fu visto in chiesa accanto alla bara il giovine frate, che dovea continuarlo. I cosentini, sentendolo nelle dispute, dicevano che in
lui era passato lo spirito di Telesio. La scuola telesiana o
riformatrice, come era detta, gli fu tutta intorno, il Bombino, il Montano, il Gaieta, da lui celebrati insieme col
maestro. Il suo primo lavoro fu una difesa di Telesio
contro il napoletano Marta. Venuto a Napoli per la
stampa dell’opera, attirò l’attenzione per il suo ardore
nelle dispute, per l’agilità e la presenza dello spirito, per
la franchezza delle opinioni, e per l’immenso sapere. E
gl’invidiosi dicevano: – Come sa di lettere costui, che
mai non le imparò? – E recavano a magia, a cabala, a
scienza occulta ciò che era frutto di studi solitari. Le
opinioni telesiane poco attecchivano in Napoli, onde il
buon Telesio avea dovuto andar via per le molte inimicizie. Anche il Porta ci stava a disagio, e dovea con le
commedie far perdonare alla sua filosofia. Naturalmente, si strinse un legame tra Campanella e l’autore della
Magia naturale e della Fisionomia. Disputavano, leggevano, conferivano i loro lavori. Frutto di questa dimestichezza fu il libro De sensu rerum, a cui successe l’altro:
De investigatione. Ivi si stabilisce per qual via si giunga a
ragionare «col solo senso e colle cose che si conoscono
pe’ sensi»: ciò che è il metodo sperimentale, base della
filosofia naturale. Ci si vede l’influenza di Telesio, di
Porta e di tutta la scuola riformatrice.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Porta potè esser tollerato a Napoli, perchè era non
solo gentiluomo e assai riverito, ma uomo di spirito, e
amabilissimo. Ma Campanella non sapea vivere, come
dicevano i suoi emuli. Era tutto di un pezzo, e alla naturale, veemente, rozzo, audace di pensiero e di parola. E
venne in uggia a moltissimi, e anche ai suoi frati, che
non gli potevano perdonare l’odio contro Aristotile. Come Bruno, lasciò il convento, e indi a non molto Napoli,
e con in capo già una nuova metafisica tutta abbozzata,
fu a Roma, poi a Firenze, dove il destino faceva incontrare i due grandi ingegni di quel tempo, Campanella e
Galilei.
Michelangiolo moriva, e tre giorni prima, il 15 febbraio del 1564, nasceva in Pisa Galileo Galilei. Tutto gli
rise nel principio, levato maraviglioso grido di sè per le
sue invenzioni della misura del tempo per mezzo del
pendolo, del termometro, del compasso geometrico, del
telescopio. Con questo potente istrumento iniziò le sue
speculazioni astronomiche, che rinnovavano il cielo biblico e tolemaico. Parecchi fatti, divinati da Bruno, acquistavano certezza, come ciò che si vede e si tocca. Il
suo Nunzio sidereo appariva così maraviglioso, come il
viaggio di Colombo. Le montuosità della luna, le fasi di
Venere e di Marte, le macchie del sole, i satelliti di Giove erano tali scoperte a breve distanza, che spoltrivano
gli animi oziosamente cullati ne’ romanzi e nelle oscenità letterarie. La filosofia naturale vinceva oramai le ultime resistenze nella pubblica opinione. Non si trattava
più d’ipotesi e di astratti ragionamenti. I fatti erano là, e
parlavano più alto che i sillogismi de’ teologi e degli scolastici. La cosa effettuale di Machiavelli, il lume naturale
di Bruno, il metodo sperimentale di Telesio, la libertà
dolce alla verità di Campanella avevano il loro riscontro
nelle belle parole di Galileo: – «Ah viltà inaudita d’ingegni servili, farsi spontaneamente mancipio!» –. Il buon
Simplicio, il pedante aristotelico, come Polinnio, rispon-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
de: – «Ma, quando si lasci Aristotile, chi ne ha da essere
scorta nella filosofia?» –. E Galileo replica pacatamente:
– «...I ciechi solamente hanno bisogno di guida.. Ma chi
ha gli occhi nella fronte e nella mente, di quelli si ha da
servire per iscorta» –. Il lume soprannaturale, la scienza
occulta, il mistero, il miracolo scompariva innanzi allo
splendore di questo lume naturale dell’occhio e della
mente: la magia, l’astrologia, l’alchimia, la cabala sembravano povere cose innanzi a’ miracoli del telescopio.
Colombo e Galileo ti davano nuova terra e nuovo cielo.
Sulle rovine delle scienze occulte sorgevano l’astronomia, la geografia, la geometria, la fisica, l’ottica, la meccanica, l’anatomia. E tutto questo era la filosofia naturale, il naturalismo. – «La filosofia – diceva Galileo – è
scritta nel libro grandissimo della natura.» – E stupendamente diceva Campanella:
Il mondo è il libro, dove il Senno eterno
scrisse i propri concetti.
Campanella nacque il 1568, quattro anni dopo Galileo.
Si videro a Firenze: Galileo già famoso, in grazia della
Corte, professore, con un concetto dell’universo e della
scienza chiaro, intero, ben circoscritto: Campanella,
oscuro, conscio del suo ingegno, di concetti molti e arditi e smisurati, in aria di avventuriere che cerchi fortuna,
più che di un savio tranquillo e riposato nella scienza.
Cercò una cattedra. – Chi è costui? – E il Granduca
chiese le informazioni al generale di San Domenico, il
quale rispose: «Alquanto differente relazione tengo io
del padre fra Tommaso Campanella di quella è stata fatta a Vostra Altezza... io farò prova del valore e sufficienza sua». Le raccomandazioni di Galileo non valsero contro l’ira domenicana. Campanella non riuscì, e la
ragione è detta da Baccio Valori:
«Procurandosi oggi in Roma per alcuni proibire la filosofia
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
del Telesio, con colore che la pregiudichi alla teologia scolastica fondata in Aristotile da lui così riprovato, corre qualche risico conseguente [Tommaso Campanella] della medesima scuola, e per avventura il più terribile per eccellenza de’ suoi
concetti, che veramente sono e alti e nuovi.»
Campanella aveva allora ventiquattro anni. L’indomabile giovane si vendicò, scrivendo una nuova difesa
di Telesio. Aveva già scritto un trattato De sphaera Aristarchi, dove sostiene l’opinione copernicana del moto
della terra. Vagheggiava una scienza universale, col titolo De universitate rerum, che diventò più tardi la sua
Philosophia realis. A lui dovea parere molto modesto
Galileo, che lasciava da banda teologia e metafisica ed
ogni costruzione universale, contento ad esplorar la natura ne’ suoi particolari. E gli scriveva: «Invero non si
può filosofare, senza un vero accertato sistema della costruzione de’ mondi, quale da lei aspettiamo: e già tutte
le cose sono poste in dubbio, tanto che non sapemo se il
parlare è parlare». Domandava egli a Galileo una riforma dell’astronomia e della matematica sublime, una vera filosofia naturale. «Scriva pel primo» diceva «che
questa filosofia è d’Italia, da Filolao e Timeo in parte, e
che Copernico la rubò da’ predetti e dal ferrarese suo
maestro; perchè è gran vergogna che ci vincan le nazioni
che noi avemo di selvagge fatte domestiche». Ma Galileo rimase fermo nella sua via. Anche lui aveva i suoi
pensieri e le sue ipotesi; ma gli parea che il vero filosofo
naturale dovesse lasciare il verisimile, e attenersi a ciò
che è incontrastabilmente vero. E rispondea a Campanella ch’ei non volea «per alcun modo, con cento e più
proposizioni apparenti delle cose naturali, screditare e
perdere il vanto di dieci o dodici sole da lui ritrovate, e
che sapeva per dimostrazione esser vere». Stavano a
fronte la saviezza fiorentina e l’immaginazione napoletana, o, per dir meglio, due culture, la cultura toscana, già
chiusa in sè e matura, e veramente positiva, e la cultura
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
meridionale, ancor giovane e speculativa, e in tutta l’impazienza e l’abbondanza della giovanezza. In Galileo si
sente Machiavelli; e in Campanella si sente Bruno. Vedi
la differenza anche nello scrivere. Chi legge le lettere, i
trattati, i dialoghi di Galileo, vi trova subito l’impronta
della coltura toscana nella sua maturità, uno stile tutto
cosa e tutto pensiero, scevro di ogni pretensione e di
ogni maniera, in quella forma diretta e propria, in che è
l’ultima perfezione della prosa. Usa i modi servili del
tempo senza servilità, anzi tra’ suoi baciamano penetra
un’aria di dignità e di semplicità, che lo tiene alto su’
suoi protettori. Non cerca eleganza, nè vezzi, severo e
schietto, come uomo intento alla sostanza delle cose, e
incurante di ogni lenocinio. Ma se causa le esagerazioni
e gli artifici letterari, non ha la forza di rinnovare quella
forma convenzionale, divenuta modello. Avvolto in quel
fraseggiare d’uso, frondoso e monotono, trovi concetti
nuovi e arditi in una forma petrificata dall’abitudine,
pure eletta, castigata, perspicua, di un perfetto buon gusto. Al contrario in Bruno e in Campanella la forma è
scorretta, rozza, disuguale, senza fisonomia; ma ne’ suoi
balzi e nelle sue disuguaglianze, viva, mobile, nata dalle
cose. Ivi ti par di avere innanzi un bel lago, anzi che acqua corrente; non una formazione organica e conforme
al contenuto, ma una forma già fissata innanzi e riprodotta, spesso priva di movimenti interni, sola esteriorità:
qui vedi una lingua ancora mobile e in formazione, con
elementi già nuovi e moderni. Alcune pagine di Bruno
sembrano scritte oggi.
Ma saviezza fiorentina e immaginazione napoletana
erano del pari sospette a Chiesa e Spagna. Il libro della
natura era libro proibito, e chi vi leggeva era eretico o
ateo. Prima ci capitò Campanella. Fu a Venezia, a Padova, a Bologna, a Roma, co’ suoi manoscritti appresso, e
scrivendo sempre per sè e per altri, in verso e in prosa,
in latino e in italiano, trattati, orazioni, discorsi, dispute.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
A Bologna gli furono rubati i manoscritti. E che importa? Rifaceva, rinnovava, con una vena inesauribile. Venuto in sospetto a Roma, torna a Napoli, e va a prender
fiato a Stilo sua patria. Ivi sperava riposo; ma «accadde a
me quello che dice Salomone: quando l’uomo avrà finito, allora comincerà; quando riposerà, sarà affaticato».
Ivi cominciarono i suoi guai. Avvolto in una cospirazione, fu come reo di maestà condotto nelle prigioni di Napoli. Chiarito innocente di un’accusa, se ne suscitava
un’altra, perchè «gl’iniqui non cercavano il delitto, ma
farmi comparir delinquente». – Come sai tu le lettere, se
non le imparasti mai? Forse hai addosso il demonio. –
«Ma io – rispose il prigioniero – ho consumato più
d’olio che voi di vino.» – Lo si fece autore del libro De
tribus impostoribus, Mose, Christo et Mahumed, stampato trent’anni prima ch’ei nascesse. Fu detto che voleva
fondar la repubblica con l’aiuto de’ turchi, e che era un
eretico, e aveva dottrina pericolosa, e non credeva a Dio.
Invano scrisse Della monarchia, e l’Ateismo vinto, e la
Disputa antiluterana. Fu condannato da Roma e da Spagna, ribelle ed eretico, e tenuto in prigione ventisette anni, sottoposto alla tortura sette volte.
«Mi fur rotte le vene e le arterie; e il cruciato dell’eculeo mi
lacerò le ossa..., e la terra bevve dieci libbre del mio sangue...:
risanato dopo sei mesi, in una fossa fui seppellito, ove non è nè
luce, nè aria, ma fetore e umidità e notte e freddo perpetuo. »
Dopo dodici anni di tali martìri fa questo triste inventario de’ suoi mali:
Sei e sei anni che in pena dispenso
l’afflizion d’ogni senso,
le membra sette volte tormentate,
le bestemmie e le favole de’ sciocchi,
il sol negato agli occhi,
i nervi stratti, l’ossa scontinuate,
le polpe lacerate,
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
i guai dove mi corco,
li ferri, il sangue sparso e il timor crudo
e il cibo poco e sporco.
Fra tanti tormenti scriveva, scriveva sempre, versi e prose.
I tempi si facevano più scuri. Copernico era uomo
piissimo, chiuso ne’ suoi studi matematici; era un matematico, non un filosofo, dicea Bruno, che di quel sistema avea saputo fare un così terribile uso col suo ingegno
libero e speculativo. Il sistema era presentato come una
pura ipotesi e spiegazione de’ fenomeni celesti e naturali, e i filosofi avevano sempre cura di aggiungere: «salva
la fede». Così il libro di Copernico, dedicato a Paolo terzo, fu tenuto innocuo per ottanta anni. Ma la sua dottrina si diffondeva celeremente, propugnata da Bruno, da
Campanella, da Galileo e da Cartesio, che si preparava a
farne una dimostrazione matematica. Il libro di Copernico parve allora cosa eretica, e fu condannato, essendo
cosa più facile scomunicare che confutare. Cartesio pose
a dormire la sua dimostrazione. Il povero Galileo, processato e torturato, dovette confessare che «Terra stat et
in aeternum stabit», ancorchè la sua coscienza rispondesse: – Eppur si muove. – E la sua scrittura sulla mobilità della terra mandò al Granduca con queste parole, ritratto de’ tempi:
«Perchè io so quanto convenga obbedire e credere alle determinazioni de’ superiori, come quelli che sono scorti da più
alte cognizioni, alle quali la bassezza del mio ingegno per se
stesso non arriva, reputo questa presente scrittura che gli mando, come quella che è fondata sulla mobilità della terra, ovvero
che è uno degli argomenti che io produceva in sostegno di essa
mobilità, la reputo, dico, come una poesia, ovvero un sogno, e
per tale la riceva l’Altezza Vostra.»
Altrove la chiama una «chimera», un «capriccio matematico», e nasconde la verità, come fosse un delitto o
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una vergogna. Di quest’accusa e di questo processo
giunse notizia a Tommaso Campanella, e fra’ tormenti
del carcere scrisse l’apologia di Galileo.
Galileo fu lasciato vivere solitario in Arcetri, già rifugio del Guicciardini, dove i dispiaceri e le malattie prima gli tolsero la vista e poi la vita. Morì nel 1642, l’anno
stesso che nacque Newton. L’anno dopo Torricelli, suo
allievo, trovava il barometro. Tre anni prima moriva
Campanella in Francia dov’erasi rifuggito, e dove potè
pubblicare la sua filosofia.
A Galileo chiusero gli occhi i discepoli. Le sue scoperte ed osservazioni diedero un impulso straordinario
alle scienze, e formarono attorno a lui una scuola di filosofi naturali, Castelli, Cavalieri, Torricelli, Borelli, Viviani, illustri non solo per valore scientifico, ma per bontà
di scrivere. Veniva il mondo, di cui erano stati precursori incompresi e perseguitati Alberto Magno e Ruggiero
Bacone: Galileo ripigliava la bandiera con miglior fortuna. E l’Italia, maestra di Europa nelle lettere e nelle arti,
aveva ancora il primato nelle scienze positive, o, come
dicevasi, nella «filosofia naturale». Qui venivano ad imparare gli stranieri; qui Copernico imparava il moto della terra, e qui imparava Harvey la circolazione del sangue. Qui sorgeva l’accademia del Cimento, dove
«provando e riprovando» si studiava la natura. Geografia, astronomia, anatomia, medicina, botanica, ottica,
meccanica, geometria, algebra ebbero qui i loro primi
cultori e propagatori. Tra gli scrittori giova mentovare
Francesco Redi, in cui fa la sua ultima comparsa il toscano, già finito e chiuso in sè, e Lorenzo Magalotti, di una
limpidezza già vicina alla forma moderna.
Altro fu il fato del Campanella. Come Bruno, è un naturalista, e crede che la filosofia non si possa fondare
che su’ fatti. Onde Galileo tirava questa conseguenza,
che dunque bisognava prima studiare i fatti. In tanta
scarsezza di fatti naturali, morali, sociali ed economici,
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in tante lacune delle scienze positive filosofare significava foggiarsi un mondo a modo degli antichi filosofi greci, con l’immaginazione divinatrice, ed avere per risultato l’ipotetico e il probabile, anzi che il certo e il vero.
Questo, pensava Galileo, non è scienza. Pure è chiaro
che una certa idea del mondo l’avevano anche i filosofi
naturali, e che quel medesimo porre le fondamenta della
scienza sull’osservazione, e tagliarne fuori le credenze e
le fantasie, era già mettere in vista un mondo metafisico
tutto nuovo, il naturalismo, la natura fatta centro di gravità dello scibile a spese del Dio astratto, o, per parlare
secondo quei tempi, Dio fatto visibile e conoscibile nella
natura, un Dio intimo e vivo. Questo era il significato
stesso di quel movimento che tirava gli spiriti dalle
astrazioni scolastiche alla investigazione de’ fatti naturali; e Bruno e Campanella non fecero che dare a quel movimento la sua coscienza metafisica e fondarvi sopra tutta una filosofia. Se necessario fu Galileo, non fu meno
necessario Bruno e Campanella. Un nuovo mondo si
formava, una nuova filosofia era in vista all’orizzonte
con lineamenti abbozzati appena e vacillanti. Era quella
sintesi poetica e provvisoria, preludio della scienza, il
presentimento e la divinazione dell’ultima sintesi, risultato di una lunga analisi, e corona della scienza. Quella
prima sintesi te la dànno Bruno e Campanella, appassionatissimi degli antichi filosofi greci, a cui rassomigliavano.
È una sintesi inorganica e contraddittoria. E la contraddizione è ancora più accentuata in Campanella che
in Bruno. Trovi in lui scienze occulte e scienze positive,
soprannaturale e naturale, medio evo e Rinascimento,
tradizione e ribellione, assolutismo e libertà, cattolicismo e razionalismo, e mentre combatte, come Bruno, le
credenze e le fantasie, nessuno più di lui dommatizza e
fantastica. Pongono in opera tutto quel materiale che
hanno innanzi, mancando ancora quel lavoro di elimina-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
zione e di analisi, senza il quale è impossibile la composizione. Hanno fede nell’ingegno, e si mettono all’opera
con l’ardore di una speciale vocazione, si sentono attirati da una forza fatale verso quelle alte regioni, verso l’infinito o il divino, a rischio di perdervisi. Ciò che ispira a
Bruno, o all’anonimo autore, questo sublime sonetto:
Poi che spiegate ho l’ali al bel desio
quanto più sott’il piè l’aria mi scorgo
più le veloci penne all’aria porgo,
e spregio il mondo e verso il ciel m’invio.
Nè del figliuol di Dedalo il fin rio
fa che giù pieghi, anzi via più risorgo:
ch’i’ cadrò morto a terra, ben mi accorgo;
ma qual vita pareggia al viver mio?
La voce del mio cor per l’aria sento:
– Ove mi porti, temerario? China,
chè raro è senza duol troppo ardimento.
– Non temer – rispond’io – l’alta ruina:
fendi sicur le nubi, e muor’ contento,
se il ciel si illustre morte ne destina. –
Anche Campanella è poeta, e si sente la stessa vocazione. Si chiama «luce tra l’universale ignoranza», «fabbro
di un mondo nuovo», «Prometeo che rapisce il fuoco
sacro a Giove»:
Con vanni in terra oppressi al ciel men’ volo
in mesta carne d’animo giocondo;
e se talor m’abbassa il grave pondo,
l’ale pur m’alzan sopra il duro suolo.
Campanella avea vivo il sentimento di un mondo nuovo
che si andava formando, e ci vedea in fondo, ultimo termine, una rediviva età dell’oro, l’attuazione del divino
sulla terra, il regno di Dio, invocato nel «paternostro»,
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
quel mondo della pace e della giustizia appresso al quale
sospirava Dante e molti nobili intelletti Bruno rimane
nelle generalità metafisiche. Campanella abbraccia l’universo nelle sue più varie apparizioni, e ti delinea tutto
quel mondo ideale, di cui spera l’effettuazione.
Nel suo sistema trovi complicati e combinati senza intima fusione tutti gl’indirizzi percorsi dalla moderna filosofia. Il punto di partenza è la coscienza di sè, «io, che
penso, sono», divenuto la base del sistema cartesiano.
Questa è la sola cognizione innata, occulta: tutto il resto
è cognizione acquisita per mezzo de’ sensi. Qui si sviluppa il sensismo di Telesio non solo come metodo, ma
come contenuto. Tutte le cose sono animate; il mondo
stesso è «animal grande e perfetto». In ciascuna cosa è la
divina Trinità, i tre princìpi o «primalità», com’egli dice,
potenza, sapienza e amore. Ciascuna cosa che è, può essere: ama il suo essere, e lo ama perchè lo conosce, ne ha
una certa notizia. Perciò tutte le cose hanno senso. Lo
spirito stesso è carne. L’animale pensa come l’uomo; ha
fino la facoltà dell’universale. Ci si vede in germe Locke
e tutto il sensismo moderno. Ma ci è una facoltà propria
dell’uomo, e negata all’animale, il sentimento religioso.
Perciò, quando il corpo è formato, vi entra l’anima, che
esce «fanciulla dalle mani di Dio», come dice Dante.
L’anima è la facoltà del divino, o, come si direbbe oggi,
dell’assoluto. Ella ti dà la contemplazione di Dio. Non è
ragione o dialettica questa facoltà dell’assoluto, e nemmeno discorso o processo intellettivo (ciò che entra nella mente o visione di Bruno) ma è intuito, estasi, fede,
un ponte fatto alla rivelazione e alla teologia, uno studio
di conciliazione tra il medio evo e il mondo moderno.
Qui vedi spuntare la moderna filosofia dell’assoluto nel
suo doppio indirizzo, razionalista e neocattolico. Tutte
le idee e tutti gl’indirizzi, che anche oggi agitano le coscienze, fermentano nel suo cervello.
Come Bruno, Campanella non ha il senso del reale e
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del naturale; e neppure ha il senso psicologico, ancorchè
parli spesso di coscienza e di esperienza, e le faccia basi
del suo filosofare. Aveva al contrario quella seconda vista propria degli uomini superiori, facoltà da lui non
scrutata, non compresa e non disciplinata, ch’egli
confonde con l’estasi e col puro intuito, e che lo gitta in
braccio alla teologia, al soprannaturale e alle scienze occulte. Cerca una conciliazione tra’ due uomini che pugnavano in lui, l’uomo di Telesio e l’uomo di san Tommaso, e vi logora le sue forze, senza riuscire ad altro che
a mettere in maggior lume la contraddizione. Perciò il
suo metodo rimane scolastico, cumulo di argomenti
astratti, e la sua filosofia partendo da Telesio riesce a san
Tommaso. Attendendo da Galileo la costruzione del
mondo, provvisoriamente crede all’astrologia e alla magia, e oggi gli spiritisti e i magnetisti lo chiamano loro
precursore.
Nelle applicazioni hai lo stesso uomo. Il mondo è atto
della volontà di Dio: atto conforme al disegno o all’idea
del mondo preordinato nella sua mente, perciò conforme alla ragione. Dio dunque governa il mondo, e per esso il papa che lo rappresenta in terra, e il cui braccio è
l’imperatore. Qui siamo con san Tommaso nel più puro
medio evo, ancora più indietro di Dante e di Machiavelli, perchè l’elemento laico è sottoposto all’ecclesiastico.
E si concepisce come il nostro filosofo se la prenda fra
tutti col Machiavelli, uomo «senz’alcuna specie di scienza e di filosofia, semplice storico o empirico», che voleva
fare della religione uno strumento dello Stato. Ma Campanella non si accorge ch’egli è più Machiavelli del Machiavelli, perchè nessuno ha spinto così avanti l’annichilamento dell’individuo e l’onnipotenza dello Stato nella
sua doppia forma, ecclesiastica e laica. In quel tempo
che la monarchia assoluta si sviluppava nella Spagna e
nella Francia col favore e l’appoggio del papato, egli era
la voce dell’assolutismo europeo, e ci mettea una sola
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
condizione: che quell’assolutismo fosse il potere esecutivo del papa, il braccio del papato. Hai il vecchio quadro
del medio evo, con tinte ancora più decise. Egli dice a
Filippo: – I re sieno tuoi sudditi, e la terra sia tua, a patto che tu sii veramente «il cattolico», primo suddito della Chiesa. – Questa è la carta di alleanza fra il trono e
l’altare. L’Italia ha perduto l’imperio del mondo, nè ci si
può più pensare, perchè il passato non torna più; ma
l’Italia si consolerà, perchè ha nel suo seno il papato, e
per esso dominerà ancora il mondo. Che cosa è l’individuo in questo sistema? Nulla. Egli ha doveri, non ha
dritti. Non ha il dritto di scegliersi la sua donna, di
crearsi la sua proprietà, di educare ed istruire la sua prole, di mangiare, di dormire, di vivere a suo gusto, di esaminare, discutere, accettare o rigettare: non può dire: –
Questo è mio –; e non può dire: – No. – Il dritto è nella
società, e per essa nel papa e nell’imperatore. Hai per risultato il comunismo, l’assolutismo della società e l’ubbidienza passiva dell’individuo. Il comunismo è in fondo a tutte queste teorie di monarchia universale e
assoluta, di dritto divino, e Campanella va sino in fondo.
Il che sempre avviene quando l’unità è posta fuori
dell’umanità in una volontà a lei estrinseca, e quando
l’unità rimane astratta, e tiene non in sè, ma dirimpetto a
sè il vario e il molteplice. In questa unità va a naufragare
ogni particolare, l’individuo, la famiglia, la nazione. Or
questa è la filosofia sua, questa è la sua «città del sole»,
la sua rediviva età dell’oro. Il quadro è vecchio, ma lo
spirito è nuovo. Perchè Campanella è un riformatore,
vuole il papa sovrano, ma vuole che il sovrano sia ragione non solo di nome ma di fatto, perchè la ragione governa il mondo. Dio è il Senno eterno; il sovrano dee essere anche lui il sapientissimo di tutti. Non è re chi
regge, ma chi più sa. Il vero sovrano è la scienza. E l’obbiettivo della scienza è il progresso e il miglioramento
dell’uomo. Si maraviglia come si studi a migliorare la
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
razza cavallina o bovina, e si lasci al caso e al capriccio
individuale la razza umana. Egli ha fede nel miglioramento non solo morale, ma fisico dell’uomo, per mezzo
della scienza, applicata da un governo intelligente e paterno. E suggerisce provvedimenti sociali, politici, etici,
economici, che sono un primo schizzo di scienza sociale
nelle sue varie diramazioni ancora confuse, guidato da
una rettitudine e buon senso naturale, con uno sguardo
delle cose non nella loro degenerazione, «come fecero
Aristotile e Machiavelli», ma nella loro origine e purezza
natia, «come fecero Platone e gli stoici». E balzan fuori
idee, utopie, ipotesi, speranze, aforismi, che sono in parte veri presentimenti e divinazioni del mondo nuovo.
Con tante novità in capo, la società in mezzo a cui si
trovava non gli dovea parere una bella cosa. Accetta le
istituzioni, ma a patto che le si trasformino e diventino
istrumento di rigenerazione. Vuole un papato ed un monarcato progressista; ed è chiaro che a Filippo di Spagna
poco garbasse trar di prigione un così pericoloso alleato,
un nuovo marchese di Posa.
Accanto alla sua ricostruzione ci è dunque un elemento negativo, una critica della società, com’era costituita. Il suo punto di mira sono sofisti, ipocriti e tiranni,
come contraffattori e falsificatori delle tre primalità, sapienza, amore e potenza, «di tre dive eminenze falsatori»:
Io nacqui a debellar tre mali estremi,
tirannide, sofismi, ipocrisia...
che nel cieco amor proprio, figlio degno
d’ignoranza, radice e fomento hanno:
dunque a diveller l’ignoranza io vegno.
Dal qual concetto nasce un magnifico sonetto sulla storia del mondo, foggiata dall’amor proprio:
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Credulo il proprio amor fe’ l’uom pensare
non aver gli elementi nè le stelle
(benchè fusser di noi più forti e belle)
senso ed amor, ma sol per noi girare:
poi tutte genti barbare ed ignare,
fuor che la nostra, e Dio non mirar quelle:
poi il restringemmo a que’ di nostre celle;
sè solo alfine ognun venne ad amare,
e per non travagliarsi il saper schiva;
poi visto il mondo a’ suoi voti diverso,
nega la provvidenza, o che Dio viva.
Qui stima senno le astuzie: e perverso,
per dominar fa nuovi dèi, poi arriva
a predicarsi autor dell’universo.
Se tutt’i mali sono frutto dell’ignoranza, si comprende il
suo entusiasmo per la scienza e per la sua missione. Il savio è invitto, perchè vince, anche se tu l’uccidi:
S’e’ vive, perdi, e s’ei muore, esce un lampo
di deità dal corpo per te scisso,
che le tenebre tue non han più scampo.
I guai più spandono suo nome e gloria, e ucciso è adorato per santo; nè è sventura eh’ei sia nato di vil progenie e
patria, perchè illustra egli le sue sorti. Più è calpesto, e
più s’innalza:
E il fuoco più soffiato, più s’accende:
poi vola in alto e di stelle s’infiora.
La sua vita è antica quanto il mondo:
Ben seimila anni in tutto ’l mondo io vissi:
fede ne fan le istorie delle genti,
ch’io manifesto agli uomini presenti
co’ libri filosofici ch’io scrissi.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Il mondo è un teatro, dove le anime mascherate de’ corpi
di scena in scena van, di coro in coro,
si veston di letizia e di martoro,
dal comico fatal libro ordinate.
In questa commedia universale l’uomo spesso segue più
il caso che la ragione:
chè gli empi spesso fur canonizzati,
gli santi uccisi, ed i peggior tra noi
principi finti contro i veri armati.
Principi veri sono i savi:
Neron fu re per sorte in apparenza,
Socrate per natura in veritate...
Non nasce l’uom con la corona in testa,
come il re delle bestie...
E se non fossero i savi, che sarebbe il mondo?
Se a’ lupi i savi, che ’l mondo riprende,
fosser d’accordo, e’ tutto bestia fòra.
La vera nobiltà nasce non dal sangue e non dalla ricchezza:
In noi dal senno e dal valor riceve
esser la nobiltade, e frutta e cresce
col bene oprare...
Il savio è re, è nobile; il savio è libero. La plebe è serva
per la sua ignoranza:
Il popolo è una bestia varia e grossa
che ignora le sue forze...
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Tutto è suo, quanto sta fra cielo e terra:
ma nol conosce; e se qualche persona
di ciò l’avvisa, e’ l’uccide ed atterra.
Quest’apoteosi della scienza è congiunta con un vivo
sentimento del divino, anzi la scienza non è che il divino, il senno eterno, che comunica alla natura i suoi attributi o primalità, la potenza, la sapienza e la bontà, della
quale segno esteriore è la bellezza. Tale era la natura
nell’età dell’oro, e tale ritornerà:
Se fu nel mondo l’aurea età felice,
ben essere potrà più ch’una volta;
chè si ravviva ogni cosa sepolta,
tornando il giro ov’ebbe la radice...
Se in fatti di mio e tuo sia il mondo privo
nell’util, nel giocondo e nell’onesto,
cangiarsi in paradiso il veggo e scrivo;
e ’l cieco amore in occhiuto e modesto,
l’astuzia ed ignoranza in saper vivo,
e ’n fratellanza l’imperio funesto.
Base dell’età dell’oro è la fratellanza e uguaglianza umana, l’amor comune sostituito all’amor proprio:
... chi all’amor del comun Padre ascende,
tutti gli uomini stima per fratelli,
e con Dio di lor beni gioia prende.
Buon Francesco, che i pesci anche e gli uccelli
«frati appelli»; oh beato chi ciò intende!
È ciò che direbbesi oggi «democrazia cristiana», un ritorno alla Chiesa primitiva di Lino e di Callisto, a’ puri
tempi evangelici, vagheggiati da Dante e da Campanella,
quando si mangiava in carità, e non ci era ricco nè povero, non mio e tuo. Avvezzo a guardare le cose nella loro
origine e non nella loro degenerazione, il sogno di Cam-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
panella è che il mondo «nel suo giro torni là ov’ebbe radice». Il progresso è la ristaurazione del buon tempo antico. Bruno spregia l’età dell’oro, stato d’innocenza, alla
quale contrappone la virtù. Innocenza è ignoranza, virtù
è sapienza. Ed è sapienza non infusa e comunicata dal di
fuori, ma prodotto della libera attività individuale. In
questo sistema la libertà è sostanziale; l’ideale è il progresso per mezzo della libertà. In questi due grandi italiani spuntano già le due vie dello spirito moderno, vedi
il razionalista e il neocattolico. L’uno volge le spalle al
passato, l’altro cerca di trasformarlo e farsene leva per il
progresso
Attendendo l’età dell’oro, Campanella vede il mondo
nella sua degenerazione, grazie a’ tiranni, a’ sofisti e
agl’ipocriti. Tra’ sofisti pone i poeti, seminatori di menzogne:
In superbia il valor, la santitate
passò in ipocrisia, le gentilezze
in cerimonie, e ’l senno in sottigliezze,
l’amor in zelo, e ’n liscio la beltate,
mercè vostra, poeti, che cantate
finti eroi, infami ardor, bugie e sciocchezze,
non le virtù, gli arcani e le grandezze
di Dio, come facea la prisca etate.
Altrove li rampogna che, in luogo di cantare Colombo e
gli alti fatti moderni, stieno impaludati nelle favole antiche. Nè gli è caro che sciupino l’ingegno in argomenti
futili. Bellezza è segno del bene: bella ogni cosa è dove
serve e quando, e brutta dov’è inutile, o mal serve, e più
s’annoia:
Il bianco, che del nero è ognor più bello,
più brutto è nel capello...
pur bello appar, se prudenza rassembra.
Belle in Socrate son le strane membra,
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
note d’ingegno nuovo; ma in Aglauro
sarian laide: e negli occhi il color giallo,
di morbo indicio, e brutto, è bel nell’auro,
ch’ivi dinota finezza, e non fallo.
Ci s’intravvede la nuova critica, che richiama gli spiriti
dalle forme alle sostanze, dalle parole alle cose, dal di
fuori al di dentro. Di che esempio è lui stesso, che scrive
cose nuove e alte nel più assoluto disprezzo della forma.
La sua poesia nervosa, rilevata, succosa, e insieme rozza
e aspra, è l’antitesi di quella letteratura vuota, sofistica, e
leziosa, venuta su col Marino.
Campanella scrisse infiniti volumi, e de omnibus rebus. Nessuna parte dello scibile gli è ignota, scienze occulte e naturali, teologia, metafisica, astronomia, fisica,
fisiologia. È un primo schizzo di enciclopedia, un primo
albero della scienza. Dovunque fissa lo sguardo, vede o
intravede cose nuove. Notabile è soprattutto l’interesse
che prende per l’educazione e il benessere del popolo.
La scienza fino allora è stata aristocratica, religiosa e politica, rimasta nelle alte cime, più intenta al meccanismo
sociale che al miglioramento dell’uomo. In lui si vede
accentuata questa tendenza, che i mutamenti politici sono vani, se non hanno per base l’istruzione e la felicità
delle classi più numerose. A questo scopo si riferiscono i
suoi più bei concetti: la riforma delle imposte, sì che
non gravassero principalmente sugli artigiani e i villani,
toccando appena i cittadini o borghesi, e niente i nobili;
l’imposta sul lusso e su’ piaceri; i ricoveri per gli invalidi;
gli asili per le figliuole de’ soldati; i prestiti gratuiti a’ poveri sopra pegni, le banche popolari, gli impieghi accessibili a tutti, un codice uniforme, l’uniformità delle monete, l’incoraggiamento delle industrie nazionali, «più
proficue che le miniere». Lasciare le discussioni astratte,
le sottigliezze teologiche, malattia del tempo, e volgersi
alla storia, alla geografia, allo studio del reale per migliorare le condizioni sociali, questa è l’ultima parola di
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Campanella. La prima opera del filosofo, egli dice, è
comporre la storia de’ fatti. Ci è già la nuova società che
si andava formando sulle rovine del regime feudale. Ci è
tutto un rinnovamento sociale, accompagnato, quanto a’
suoi procedimenti, da questo motto profondo: che i moti umani durevoli «son fatti prima dalla lingua e poi dalla spada»; o, in altri termini, che la forza non può fondare niente di durevole, quando non sia preceduta e
accompagnata dal pensiero.
Ugual soffio spirava da Venezia. Centro già di lettere
e di coltura con Pietro Bembo, ora diveniva il centro italiano del libero pensiero. Celebre era la scuola materialista di Padova. La stessa indipendenza si sviluppava in
materia politica. Di là all’Italia serva giungevano i liberi
accenti di Paolo Paruta. Dal Machiavelli in poi pullulavano scritti politici sotto i nomi di Tesoro politico, Principe regnante, Segretario, Chiave del gabinetto, Ambasciatore, Ragion di Stato, guazzabuglio di luoghi comuni
e di erudizione indigesta. I fatti più tristi vi sono giustificati, la notte di san Bartolomeo e le stragi del duca d’Alba. Il che non toglie che tutti non se la prendano col
Machiavelli, accusandolo e insieme rubandogli i concetti. Fra gli altri è degno di nota il Botero nella sua Ragion
di Stato, dove combatte il Machiavelli, e segue i suoi precetti, applicandoli contro i novatori e gli eretici. Quel libro è il codice de’ conservatori. A lui sembra che tutto
sta benissimo come sta, e che non rimane che a prender
guardia contro le novità: «bonum est sic esse». Nacque
nel 1540, lo stesso anno che nasceva Paolo Paruta, il più
vicino di spirito e di senno a Nicolò Machiavelli. Mentre
l’Italia sonnacchiava tra l’assolutismo papale e spagnuolo, e si fondavano in Europa le monarchie assolute, lo
storico veneto scriveva che «tolta la libertà, ogni altro
bene è per nulla, anzi la stessa virtù si rimane oziosa e di
poco pregio»; che il vero monarca è la legge; e che «chi
commette il governo della città alla legge, lo raccoman-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
da ad un Dio; chi lo dà in mano all’uomo, lo lascia in potere di una fiera bestia». «Nascere e vivere in città libera», è per lui l’ideale della felicità. Ne’ suoi Discorsi politici trovi il successore di Machiavelli e il precursore di
Montesquieu, il senso pratico veneziano e l’acume fiorentino. Il sentimento politico era in lui contrastato dal
sentimento religioso. Il dispotismo papale e spagnuolo,
base della restaurazione cattolica, parevagli minaccioso
alla libertà veneziana, e non guardava senza speranza nel
moto germanico, dove gli pareva di trovare il contrappeso. La contraddizione era più profonda nella sua intelligenza, dove ragione e fede contendevano senza possibilità di conciliazione. Nel suo Soliloquio s’intravedono
quegli strazi interiori, che amareggiarono ancora i primi
anni del Tasso. La qual contraddizione non risoluta lo
tiene in una certa mezzanità di spirito, e gli toglie quella
fisonomia di originalità e di sicurezza, propria degli uomini nuovi. Non altre erano le condizioni morali dello
spirito veneto in quel tempo di transizione. Erano buoni
cattolici, ma gelosi della loro libertà, avversi alla Curia e
soprattutto a’ gesuiti, già temuti per la loro abile ingerenza nelle faccende politiche, nè erano disposti a tener
vangelo tutte le massime della Chiesa, specialmente in
fatto di disciplina. Con queste disposizioni gli animi doveano essere accessibili alle dottrine della Riforma, nè
senza speranza i luterani aveano scelto Venezia come loro base di operazione per la diffusione dello scisma in
Italia. Sorsero molti opuscoli e trattati in favore e contro; nè le dispute religiose poterono esser frenate
dall’Inquisizione, che in città così difficile procedea mite
e rispettiva. Alle contensioni religiose si mescolavano
contenzioni di giurisdizione tra il governo e il papa, per
le quali non dubitò Paolo V di fulminare l’interdetto su
tutta la città, che sortì un effetto contrario al suo intento, rese ancora più viva e più tenace la lotta.
Il personaggio, intorno a cui si raccoglie tutto questo
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
movimento, è Paolo Sarpi, l’amico di Galileo e di Giambattista Porta, e della stessa scuola. Teologo, filosofo e
canonista sommo, non era meno versato nelle discipline
naturali, fisica, astronomia, architettura, geometria, algebra, meccanica, anatomia; a lui si attribuisce la scoperta della circolazione del sangue. Mescolato nella vita
attiva, non specula, come Bruno e Campanella, e non inventa, come il Galileo, ma scende nella lotta tutto armato, e mette le sue cognizioni in servigio del suo patriottismo. Sceglie le sue armi con la sagacia dell’uomo
politico, anzi che con la passione del filosofo e del riformatore; perchè il suo scopo non è puramente filosofico
o scientifico, ma è pratico, indirizzato a raggiungere certi effetti. Mira a interessare nella lotta i principi, come
facevano i protestanti, sostenendo la loro indipendenza
verso il potere ecclesiastico. Continuando Dante e Machiavelli, nega al papa ogni potestà su’ principi, e vuole
al contrario ricondurre i chierici sotto il dritto comune,
non altrimenti che semplici cittadini. Emancipare lo Stato, secolarizzarlo, assicurargli la sua libertà dirimpetto
alla corte di Roma, questo era un terreno comune, dove
spesso s’incontravano principi e riformatori. Paolo Sarpi
ebbe il buon senso di mantenervisi, con una chiarezza e
fermezza di scopo assai rara in scrittore italiano. D’ingegno sveltissimo e di amplissima coltura, non lascia tralucere delle sue idee se non quello solo che può avere un
effetto pratico a quel tempo e in quella società, usando
una moderazione di concetti e di forme più terribile che
non l’aperta violenza. Taglia nel vivo con un’aria d’ingenuità e di semplicità, come chi ti faccia una carezza. Cinque volte si tentò di ammazzarlo; e all’ultima, colpito dal
ferro assassino, esclamò: – Conosco lo stile della romana
curia. –
La sua Storia del Concilio di Trento è il lavoro più serio che siasi allora fatto in Italia. Quel concilio era la base della restaurazione cattolica, o piuttosto reazione, e
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
delle pretese della corte romana. Vi fu consacrato il potere assoluto del papa e la sua supremazia sul potere laicale. Ivi aveano radice i diritti giurisdizionali, che curia e
gesuiti cercavano di far valere negli Stati, concitando
contro di sè non solo i protestanti, ma i principi cattolici. Era il medio evo rammodernato nella superficie, di
apparenze più corrette e meno rozze. Scrivere la storia
di quel concilio, e dimostrare la sua mondanità, cioè a
dire i fini, le passioni e gl’interessi mondani, che resero
possibili quei decreti, e prevalenti le opinioni estreme e
violente, era un attaccare il male nella sua base. A questa
impresa si accinse il Sarpi. E se la passione politica fosse
in lui soprabbondata, tirandolo a violenza d’idee e di
espressioni, e a volontarie alterazioni e mutilazioni di
fatti, il suo scopo sarebbe mancato. La sua forza è nella
sua moderazione e nella sua sincerità. Nè questo egli fa
solo per sagacia di uomo politico, ma per naturale probità e per serietà di storico e letterato. La storia nelle sue
mani non è solo un istrumento politico: è un sacro ufficio, che egli non sa prostituire alle passioni contemporanee, e al quale si prepara con ogni maniera di studi e
d’investigazioni. E qui è l’interesse di questo libro. Ha
voluto scrivere una storia imparziale con sincerità e gravità di storico, e riesce parzialissimo, perchè l’uomo con
le sue passioni, con le sue simpatie e antipatie, co’ suoi
fini politici, con le sue opinioni traspare da ogni parte e
si fa valere. La parzialità non è volontaria, e non è nella
materialità de’ fatti, ma è nello spirito nuovo che vi penetra, non solo nella sua generalità dottrinale, ma nelle
sue più concrete determinazioni politiche ed etiche.
Non ci è autorità che tenga; Sarpi studia tutto, sente tutti; ma decide lui. L’autorità legittima è nella sua ragione.
Il suo ideale è la Chiesa primitiva e evangelica, sgombra
di ogni temporalità, e non di altro sollecita che d’interessi spirituali. Condanna soprattutto la gerarchia, «nata
di ambizione papale e d’ignoranza de’ principi». Nè per
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
questo fra Paolo si crede men cattolico del papa, anzi è
lui che vuole una vera restaurazione cattolica, riconducendo la religione nella prisca sincerità e bontà, e rendendo possibile quella conciliazione fra tutte le confessioni, che dovea essere procurata, e fu impedita dal
Concilio. Perciò chiama il Concilio l’«Iliade del secolo»
per i mali effetti che ne uscirono, e la sua opera giudica
non una riforma, ma una «difformazione». Qual era la
riforma da lui desiderata, traspare da’ concetti che attribuisce a quel buon papa di Adriano sesto, «uomo germano, e pertanto sincero, che non trattava con arti e per
fini occulti», il quale confessava il male esser nato dagli
abusi e dalle usurpazioni della monarchia romana, e
prometteva piena riforma, «quando anche avesse dovuto ridursi senza alcun dominio temporale, e anco alla vita apostolica».
Grande è in questo libro l’armonia tra il contenuto e
la forma. Il concetto fondamentale del contenuto è questo, che come la verità è nella sostanza delle cose, non
nei loro accidenti e apparenze, così la religione ha la sua
essenza nella bontà delle opere, e non nella osservanza
delle forme o nelle concessioni e grazie pontificie, e parimente non è la diligente narrazione de’ peccati, ma il
proposito di mutar vita, che assicura efficacia alla confessione. Questo è lo stesso concetto dello spirito nuovo,
che, già adulto, dalla moltiplicità delle forme e degli accidenti saliva all’unità e alla sostanza delle cose. È lo spirito che animava Machiavelli, Bruno, Campanella e Galileo e Sarpi, e che in questa Storia penetra anche nella
forma letteraria. Perchè qui la forma non è niente per sè,
e non è altro che la cosa stessa, liberata da ogni elemento fantastico e rettorico, è il positivo e il reale, proprio
l’opposto della letteratura in voga. Il Pallavicino, che
per commissione della Curia scrisse una storia del Concilio in confutazione di questa, dice: «Il fuoco delle ribellioni non si smorza se non o col gielo del terrore o
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
con la pioggia del sangue». Dice cosa gravissima con lo
spirito distratto dalla forma, cercando metafore. Qui la
forma non è espressione, ma ostacolo; nè da questi lisci
può venire la grave impressione che pur dee fare sullo
spirito un pensiero così feroce, base dell’Inquisizione.
Sarpi fa dire il medesimo a papa Adriano; nella forma vi
penetra una energia e una precisione di colorito, che ti
rende la cosa nella sua crudeltà e insieme nella sua ragionevolezza. Ci è la cosa come sentimento e come idea.
«Se non potranno con le dolcezze – dice Adriano a’ principi
tedeschi – ridur Martino e i suoi seguaci nella dritta via, vengano a’ rimedi aspri e di fuoco, per risecare dal corpo i membri
morti.»
Si vede nel Pallavicino la vanità della forma nella indifferenza del contenuto; si vede nel Sarpi l’importanza del
contenuto nella indifferenza della forma, una forma che
è il contenuto stesso nel suo significato e nella sua impressione. Trovi in lui una elevatezza d’ingegno, che gli
fa spregiare i lenocini e gli artifizi letterari, una viva
preoccupazione delle cose, una chiarezza intellettiva accompagnata con un vigore straordinario d’analisi, e quel
senso della misura e del reale che lo tien sempre nel vivo
e nel vero. Aggiungi l’assoluta padronanza della materia,
la conoscenza de’ più intimi secreti del cuore umano, la
chiara intuizione del suo secolo e della società in mezzo
a cui viveva ne’ suoi umori, nelle sue tendenze e ne’ suoi
interessi, e si può comprendere come sia venuta fuori
una prosa così seria e così positiva. L’attenzione volta al
di dentro, e non curante della superficie, ti forma un’ossatura solida, una viva logica, maravigliosa per precisione e rilievo, ma scabra e ruvida.
Manca a questa prosa quell’ultima finitezza, che viene
dalla grazia, dalla eleganza, dalle qualità musicali. È il
difetto della sua qualità più spiccato in lui, non toscano
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
e con l’orecchio educato più alla gravità latina che alla
sveltezza del dialetto natio.
Machiavelli, Bruno, Campanella, Galileo, Sarpi non
erano esseri solitari. Erano il risultato de’ tempi nuovi,
gli astri maggiori, intorno a cui si movevano schiere di
uomini liberi, animati dallo stesso spirito. Cosa volevano? Cercare l’essere dietro il parere, come dicea Machiavelli; cercare lo spirito attraverso alle forme, come
dicea la Riforma; cercare il reale e il positivo, e non ne’
libri, ma nello studio diretto delle cose, come dicea Galileo; o, come diceano Bruno e Campanella, cercare
l’uno attraverso il molteplice, cercare il divino nella natura. Sono formole diverse di uno stesso concetto. Riformati e filosofi nelle loro tendenze s’incontravano su di
un terreno comune. Camminavano con disugual passo;
molti erano innanzi troppo; altri restavano a mezza via;
ma per tutti la via era quella. Volevano squarciar le forme addensate dalla superstizione e dalla fantasia e fatte
venerabili, e guardare le cose svelate nella loro sostanza
o realtà, guardarle col proprio sguardo, col lume naturale. La lotta contro Aristotile e gli scolastici, contro le forme e le dottrine ecclesiastiche, contro le «intrusioni
umane» nella Chiesa, contro i simboli, le fantasie, i dogmi, il soprannaturale, era il lato negativo di questo movimento. Lato positivo era il reale, come metodo e come
contenuto: l’uomo e la natura studiati direttamente
dall’intelletto, prendendo per base l’esperienza e l’osservazione. Paolo Sarpi trasportava la lotta dalle generalità
filosofiche in mezzo agl’interessi, dove potea aver favorevoli i principi e i popoli: perciò fu più temuto, ed ebbe
più influenza.
Se la ristaurazione cattolica fosse stata vera e ragionevole restaurazione, cioè a dire conciliazione, come volea
il Sarpi, e come fantasticava il Campanella, si sarebbe assimilato il nuovo in ciò che era pratico e compatibile.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Ma la storia non si fa co’ «se», nè col senno di poi. Il
movimento era ancora nella sua forma istintiva, nel suo
stato violento e contraddittorio. D’altra parte la Chiesa
più che da sentimenti e convinzioni religiose era mossa
da interessi mondani e da passioni politiche. Perciò la
restaurazione si chiarì un’aperta reazione. Nessuno di
queste condizioni morbose ha avuto una intelligenza più
chiara che Paolo Sarpi. Ecco alcuni brani delle sue pitture:
«Le pene canoniche erano andate in disuso, perchè, mancato il fervore antico, non si potevano più sopportare... Il presente secolo non era simile a’ passati, ne’ quali tutte le deliberazioni della Chiesa erano ricevute senza pensarci più oltre, là dove
nel presente ognuno vuol farsi giudice ed esaminar le ragioni...
Il rimedio è appropriato al male, ma supera le forze del corpo
infermo, ed in luogo di guarirlo sarebbe per condurlo a morte
e pensando di riacquistar la Germania, farebbe perdere l’Italia,
ed alienare quella maggiormente.»
Così parlava il cardinale Pucci, per dissuadere Adriano
sesto, che voleva a forza di pene canoniche sradicare le
idee nuove, e ricondurre
«l’aureo secolo della Chiesa primitiva, nel quale i prelati
avevano assoluto governo sopra i fedeli, non per altro se non
perchè erano tenuti in continuo esercizio colle penitenze; dove
ne’ tempi che corrono, fatti oziosi, vogliono scuotersi dall’ubbidienza».
Del qual parere era anche il cardinale fra Tommaso da
Gaeta, a cui il Sarpi fa dire:
«Il popolo germanico, che sepolto nell’ozio presta orecchio
a Martino che predica la libertà cristiana, se fosse con penitenze tenuto in freno, non penserebbe a questa novità.»
Oltre a questo rimedio delle penitenze, il buono Adria-
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no voleva una seria riforma, quando anche dovesse lasciare il potere temporale. Ma contro gli ragiona il cardinale Soderino in questo modo:
«Non esservi speranza di confondere ed estirpare i luterani
colla correzione de’ costumi della Corte; anzi questo essere un
mezzo di aumentare a loro molto più il credito. Imperocchè la
plebe, che sempre giudica dagli eventi, quando per l’emenda
seguita resterà certificata che con ragione il governo pontificio
era ripreso in qualche parte, si persuaderà facilmente che anco
le altre novità proposte abbiano buoni fondamenti... In tutte le
cose umane avviene che il ricevere soddisfazione in alcune richieste dà pretensione di procacciarne altre e di stimare che
sieno dovute. Nissuna cosa far perire un governo maggiormente che il mutare i modi di reggerlo; l’aprire vie nuove e non
usate essere un esporsi a gravi pericoli, e sicurissima cosa essere camminare per li vestigi de’ santi pontefici. Nissuno avere
mai estinto l’eresie con le riforme, ma con le crociate e con eccitare i prencipi e popoli all’estirpazione di quelle.»
Quel bravo cardinale ammette che ci è del cattivo; ma
non bisogna toccarvi, per non dar ragione agli avversari.
E all’ultimo riserba il più prezioso, la ragione più efficace:
«Nissuna riforma potersi fare, la quale non diminuisca notabilmente l’entrate ecclesiastiche; le quali avendo quattro fonti,
uno temporale, le rendite dello Stato ecclesiastico, gli altri spirituali, le indulgenze, le dispense e la collazione de’ beneficii,
non si può otturare alcuno di questi che le entrate non restino
troncate in un quarto.»
Adriano conchiuse che farebbe le riforme passo a
passo: il qual sistema moderato non piacque a’ tedeschi,
i quali rispondevano motteggiando che da un passo
all’altro sarebbe corso un secolo. Si può immaginare
quale impressione dovessero fare su’ contemporanei
queste rivelazioni di Paolo Sarpi, che metteva in tanta
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
evidenza i motivi mondani e politici della ristaurazione
cattolica.
La quale, essendo aperta reazione, fondavasi sopra
idee e tendenze affatto opposte alle altre. Questi proclamavano l’indipendenza e la forza della ragione, quelli la
sua incompetenza e la sua debolezza. Questi celebravano la coltura e la scienza, quelli stavano con la pura fede,
co’ poveri di spirito e con i semplici di cuore. Gli uni si
fondavano sull’esperienza e sull’osservazione; gli altri
sulla rivelazione e sull’autorità di Aristotile, degli scolastici, de’ santi Padri e de’ dottori. Gli uni facevano centro de’ loro studi la natura e l’uomo; gli altri sottilizzavano sugli attributi di Dio, sulla predestinazione e sulla
grazia. Gli uni volevano togliere alla Chiesa ogni temporalità, e semplicizzare le forme ed il culto; gli altri volevano mantenere inviolate tutte le forme, anche le assurde e le grottesche, e non che rinunziare al temporale, ma
volevano dilatare la loro ingerenza e il loro dominio,
prendendo a base il potere assoluto del papa e la sua supremazia anche nelle cose temporali. Fin d’allora valse il
motto: «Aut sint ut sunt, aut non sint»; o vivere così, o
morire.
Questa reazione così cieca sarebbe durata poco, se
non fosse stata sorretta dalla tenace abilità de’ gesuiti, la
milizia del papa. I quali, doma l’aperta ribellione co’ terrori dell’Inquisizione, vollero guadagnare alla restaurazione anche le volontà e le coscienze, mostrando in questo assunto una conoscenza degli uomini e del secolo e
un’arte di governo, che li resero degni continuatori della
politica medicea. Persuasi che governa il mondo chi più
sa, coltivarono gli studi e si sforzarono di mantenere il
primato del clero nella coltura. Non potendo estirpare
in tutto il nuovo, accettarono la superficie, e vestirono la
società a nuovo per meglio conservare il vecchio. Presero dunque aria di uomini colti e liberali, scossero da sè
la polvere scolastica, e per meglio vincere il laicato pre-
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sero ne’ modi e ne’ tratti apparenze più laicali che fratesche, confidandosi di abbatterlo con le sue armi. Divenuti amici e protettori de’ letterati e fautori della coltura, apersero scuole e convitti, e presero nelle loro mani
l’istruzione e l’educazione pubblica. Non mancarono i
teatrini, le commedie, le accademie, altre imitazioni degli usi laicali. La superficie era la stessa, lo spirito era diverso. Perchè, dove gli uomini nuovi miravano a tirare
l’attenzione dal di fuori al di dentro, dagli accidenti e
dagli accessorii al sostanziale, dalle forme allo spirito,
essi miravano a coltivare la memoria, ad allettare i sensi
e l’immaginazione più che l’intelletto, a trattenere l’attenzione sulla superficie, sì che l’intelligenza fra tante
cognizioni empiriche rimaneva passiva e vuota: onde
usciva una coltura mezzana e superficiale, più simile ad
erudizione che a scienza. Al che si accomodava facilmente la tempra fiacca de’ più, contenti di quello spolvero, che dava loro un’aria di nuovo, l’aria del secolo e
così a buon mercato. I gesuiti vennero in moda, sfogandosi i mali umori del secolo sopra gli altri ordini religiosi, come restii ad ogni novità. Il loro successo fu grande,
perchè in luogo di alzare gli uomini alla scienza, abbassarono la scienza agli uomini, lasciando le plebi
nell’ignoranza e le altre classi in quella mezza istruzione,
che è peggiore dell’ignoranza. Parimente, non potendo
alzare gli uomini alla purità del Vangelo, abbassarono il
Vangelo alla fiacchezza degli uomini, e costruirono una
morale a uso del secolo, piena di scappatoie, di casi, di
distinzioni, un compromesso tra la coscienza e il vizio,
o, come si disse, una doppia coscienza. E nacque la dottrina del «probabilismo», secondo la quale un «doctor
gravis» rende probabile un’opinione, e l’opinione probabile basta alla giustificazione di qualsiasi azione, nè
può un confessore ricusarsi di assolvere chi abbia operato secondo un’opinione probabile. Un giudice, dice un
dottore, può decidere la causa a favore dell’amico, se-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
guendo un’opinione probabile, ancorchè contraria alla
sua coscienza. Un medico, dice un altro dottore, può
con lo stesso criterio dare una medicina, ancorchè egli
opini che farà danno. Richiedono sola cautela che non ci
sia scandalo, e non già perchè la cosa sia in sè cattiva, ma
per il pregiudizio che ne può venire.
Questa morale rilassata era favorita da un’altra teoria,
«directio intentionis», formulata a questo modo, che
un’azione cattiva sia lecita quando il fine sia lecito. È la
massima che il fine giustifica i mezzi, applicata non solo
alle azioni politiche, ma alla vita privata. Non è peccato
annegare in un fiume un fanciullo eretico, per battezzarlo. Uccidi il corpo, ma salvi l’anima. Non è peccato uccidere la donna, che ti ha venduto l’onore, quando puoi
temere che svelando il fatto noccia alla tua riputazione.
E all’ultimo viene la dottrina «reservatio et restrictio
mentalis». Il giuramento non ti lega, se tu usi parole a
doppio senso, rimanendo a te l’interpretazione, o se aggiungi a bassa voce qualche parola che ne muti il senso.
Non è bugia, dice un dottore, usare parole doppie che
tu prendi in un senso, ancorchè gli altri le prendano in
un senso opposto. E non è bugia dire una cosa falsa,
quando nel tuo pensiero intendi altro. Hai ammazzato il
padre; pure puoi dire francamente: – Non l’ho ammazzato –, quando dentro di te pensi a un altro che realmente non hai ammazzato, o ci aggiungi qualche riserva
mentale, come: – Prima ch’egli nascesse, non l’ammazzai di certo. – Questa scaltrezza, aggiunge il dottore, è di
grande utilità, porgendoti modo di nascondere senza
bugia quello che hai a nascondere.
Vedi quante scappatoie! E ce n’era per tutt’i casi. In
quell’arsenale trovi come puoi senza peccato non andare
talora a messa, o spendervi poco tempo, o durante la
messa conversare, o andando a messa guardare le donne
con desidèri amorosi. Se vuoi rimanere in buon concetto presso il tuo confessore, scegli un altro, quando abbi
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
commesso qualche peccato grave. E se ti pesa il dirlo,
usa parole doppie, o fa una confessione generale per gittarlo così alla rinfusa nella moltitudine de’ peccati vecchi.
Ciascuno immagina, con quella facile scienza, con
quella più facile morale, che seguito e che favore dovettero avere i gesuiti, maestri, confessori, predicatori, missionari, scrittori, uomini di mondo e di chiesa. Seppero
conoscere il secolo, e lo dominarono. E mantennero il
dominio con l’energia e la logica della loro volontà. Salirono a tanta potenza che ingelosirono i principi, e posero talora in sospetto anche i papi. Prendendo a base
l’ubbidienza passiva, di modo che l’uomo dirimpetto al
suo superiore fosse «perinde ac cadaver», stabilirono la
monarchia assoluta. Ma volevano che il papa dominasse
i principi, e volevano loro dominare il papa.
I principi si difendevano, offendendo, e cercando fino un sostegno nelle idee nuove. Così Paolo Sarpi difendeva la libertà di Venezia. La lotta era disuguale, perchè
alle armi spirituali era scemata la riputazione, e i principi avevano guadagnata tutta quella forza, ch’era mancata a’ feudi ed a’ comuni. I gesuiti allora, non trasandando le armi puramente ecclesiastiche, operarono
principalmente come un corpo politico, e seppero maneggiare le armi mondane con una tenacità uguale alla
destrezza. Presero aria di democratici, e cercarono forza
ne’ popoli contro i principi. Fin dal 1562 Lainez, il secondo generale de’ gesuiti, sosteneva nel Concilio di
Trento che la Chiesa ha le sue leggi da Dio, ma la società
ha il dritto di scegliersi essa il suo governo. Il cardinale
Bellarmino sostiene che il potere politico è da Dio; ma il
dritto divino è non ne’ singoli uomini, ma nella intera
società, non ci essendo nessuna buona ragione che uno
o molti debbano comandare agli altri; che monarchia,
aristocrazia, repubblica sono forme che derivano dalla
natura dell’uomo; e che perciò, quando ci è alcuna legit-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
tima ragione, può il popolo mutare la sua forma di governo, come fecero i romani. Ecco già spuntare la «sovranità del popolo», e il «dritto dell’insurrezione». Mariana vuole la monarchia, ma a patto che ubbidisca al
consiglio de’ migliori cittadini raccolti in senato. Era
spagnuolo, e scriveva sotto Filippo terzo, che tenea
Campanella nelle prigioni di Napoli. Non ammette il
dritto ereditario, «nato dalla troppa possanza de’ re e
dalla servilità de’ popoli», e causa di tanti mali, non ci
essendo niente più mostruoso che «commettere le sorti
di un popolo a fanciulli ancora in culla e al capriccio di
una donna». Re che offende i dritti de’ popoli e disprezza la religione è come una bestia feroce, e «ciascuno gli
può metter le mani addosso». I dritti di successione non
possono esser mutati che col consenso del popolo; perchè «dal popolo viene il dritto della signoria». Il re ha il
suo potere dal popolo; perciò «non è signore dello Stato
o de’ singoli individui, ma un primo magistrato, pagato
da’ cittadini». Il re non può da solo porre le tasse, fare
leggi, scegliersi il successore; perchè «le son cose che interessano non solo il re, ma anche il popolo». Il re è sottoposto alle leggi, e quando le viola, il popolo ha il dritto
«di deporlo e punirlo con la morte». Queste erano le risposte che davano a’ principi i gesuiti. Ma erano armi a
doppio taglio. Perchè si potea loro rispondere che se il
dritto di signoria è non ne’ singoli individui, ma nella
universalità de’ cittadini, quel dritto nelle faccende ecclesiastiche è non nel papa, ma nella Chiesa o universalità de’ fedeli, e per essa nel concilio, che può perciò deporre e anche punire il papa. Che cosa diveniva allora il
loro papa, il vicario di Dio? Essi erano repubblicani dirimpetto allo Stato, ed assolutisti dirimpetto alla Chiesa.
E, per dire la verità, si mostravano repubblicani per meglio dominare i principi, ed erano assolutisti per avere
tutto il potere nelle loro mani. Nè voglio dir già che i loro scrittori erano di mala fede, anzi moltissimi erano sin-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ceri, credenti e patrioti, primo fra tutti Mariana. Parlo
de’ capi, più uomini politici che uomini di fede.
Dicono che corruppero e infiacchirono i popoli. Il
che è così poco giusto, come dire che Marino corruppe
il gusto. Furono effetto e causa. Furono il cattolicismo
rammodernato, accomodato possibilmente a’ nuovi
tempi per meglio conservarlo nella sua sostanza; furono
l’intelletto che succede alla fede e all’immaginazione, e
si affida più nell’arte del governo che nelle passioni e
nella violenza, l’intelletto spinto sino alla sua ultima depravazione, sofistico e seicentistico; nacquero da quello
stesso spirito che portò sulla scena del mondo Machiavelli. Perciò furono un progresso, un naturale portato
della storia. La loro responsabilità è questa, che, trovando nel secolo fiacchezza e ignoranza, non lavorarono a
combatterla per migliorare l’uomo, anzi la favorirono e
se ne fecero piedistallo. Torto di tutte le reazioni. Vollero una coltura con licenza de’ superiori, e stretta in pochi. E quando la coltura, rotte le dighe, si diffuse, finì il
loro regno.
La diffusione della coltura era visibile in Italia. E non
parlo solo delle scienze esatte e naturali, dove i gesuiti si
mostrarono valentissimi, seguendo anche loro la via
aperta da Galileo, ma pur delle scienze storiche e sociali.
L’abbondanza dell’oro per la scoperta dell’America e la
crisi monetaria die’ occasione a’ primi scritti di economia, il Discorso sopra le monete e la vera proporzione fra
l’oro e l’argento di Gaspare Scaruffi, che propugnava,
come Campanella, l’uniformità monetaria; e il trattato
sulle Cause che possono fare abbondare i regni di oro e
d’argento di Antonio Serra di Cosenza, scritto alla Vicaria, dove l’autore, come complice di Campanella, era tenuto prigione. Moltiplicarono i trattati di giurisprudenza, massime nella seconda metà del secolo. Alberico
Centile nel suo libro De iure belli fa già presentire Grozio, e gli è vicino per forza speculativa Alessandro Tura-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
mini, che scrisse De Pandectis. Tra gl’interpreti del dritto romano sono degni di nota l’Alciato, l’Averani, il Farinaccio, il Fabro. Fondatori della storia del dritto furono il «gran» Carlo Sigonio, come lo chiama Vico, e il
Panciroli, maestro del Tasso.
Pubblicarono lavori non dispregevoli di cronologia
l’Allacci, il Riccioli, il Vecchietti. Comparivano storie
venete, napolitane, piemontesi, pisane, il Nani, il Garzoni, il Summonte, il Capecelatro, il Tesauro, il Roncioni:
cronache più che storie, volgari di sentimento e di stile.
In Roma naturalmente si sviluppava l’archeologia. Il Fabretti di Urbino scrivea degli Acquidotti romani e della
Colonna traiana, e pubblicava in otto serie quattrocentotrenta iscrizioni dottamente illustrate. Moltiplicavano le
compilazioni, le raccolte, come sussidio agli studiosi. Il
Zilioli scrisse l’Indice di tutt’i libri di dritto pontificio e
cesareo, e il Ziletti in ventotto volumi il trattato Iuris universi. Avevi già annali, giornali, biblioteche, cataloghi, e
simili mezzi di diffusione. Vittorio Siri aveva pubblicato
il Mercurio politico e le Memorie recondite, l’Avogadro il
Mercurio veridico. Il Nazzari cominciò a Roma nel 1668,
il Giornale de’ letterati, e il Cinelli pubblicava la Biblioteca volante, una specie di storia letteraria. Comparivano
gli Annali del Baronio, le Vite de’ pàpi e cardinali del
Ciacconio, la Storia generale de’ concili di monsignor
Battaglini, la Storia delle eresie del Bernini, la Napoli sacra di Cesare Caracciolo e la Sicilia sacra del Pirro, liste e
notizie di vescovi, la Miscellanea italica erudita del padre
Roberti, la Bibliotheca selecta e l’Apparatus sacer del gesuita Possevino, il Mappamondo storico del padre Foresti, continuato da Apostolo Zeno, un primo tentativo di
storia universale. Aggiungi relazioni come la Descrizione
della Moscovia del Possevino, i viaggi del Carreri napolitano, che nel 1698 compì a piedi il giro del mondo, la
Relazione dello Zani bolognese, che fu in Moscovia, le
Lettere del Negri da Ravenna, che giunse fino al capo
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Nord, la descrizione delle Indie del fiorentino Sassetti,
che primo die’ notizia della lingua sanscrita. Si conoscea
meglio il mondo, e meglio i popoli stranieri. Pietro Maffei da Bergamo scrivea in elegante latino delle Indie
orientali, il Falletti ferrarese della Lega di Smalcalda, il
Bentivoglio in lingua artificiata e falsamente elegante
delle Guerre di Fiandra, il Davila con semplicità trascurata delle Guerre civili di Francia, il padre Strada prolissamente delle cose belgiche. A questa coltura empirica e
di mera erudizione partecipavano tutti, laici e chierici,
uomini nuovi e uomini vecchi, e i gesuiti vi si mostravano operosissimi: si pensava poco, ma s’imparava molto e
da molti. La coltura guadagnava di estensione, ma perdeva di profondità. Chi avesse allora guardata l’Italia
con occhio plebeo, potea dirla una terra felice. Rivoluzione e guerra aveano abbandonato le sue contrade: piena pace, tranquilli gli spiriti, in riposo il cervello. Le piccole cose vi erano avvenimenti: l’Inghilterra aveva
Cromwell, ella avea Masaniello. L’Europa camminava
senza di lei e fuori di lei, tra guerre e rivoluzioni nelle
quali si elaborava e si accelerava la nuova civiltà. Lei giaceva beata in quel dolce ozio idillico, che era il sospiro e
la musa de’ suoi poeti. Dalle guerre di Alemagna usciva
la libertà di coscienza, dalle rivoluzioni inglesi usciva la
libertà politica, dalle guerre civili di Francia usciva la
potente unità francese e il secolo d’oro, la monarchia di
Carlo quinto e di Filippo secondo si andava ad infrangere contro la piccola nazionalità olandese. L’Italia assisteva a questi grandi avvenimenti senza comprenderli. Davila e Bentivoglio ci pescavano intrighi e fattarelli
curiosi, la parte teatrale. E sì che tra quegli avvenimenti
ci erano pure grandi attori italiani, Caterina de’ Medici,
Mazzarino, Eugenio di Savoia, Montecuccoli, il cui trattato della guerra è una delle opere più serie scritte a quel
tempo. Si combatteva non solo con la spada, ma con la
penna: le quistioni più astratte interessavano ed infiam-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
mavano le moltitudini; dall’attrito scintillavano nuovi
problemi e nuove soluzioni; era una generale fermentazione d’idee e di cose. Ciò che fermentava nel cervello
solitario di Bruno e di Campanella, fluttuante, contraddittorio, lì era pensiero, stimolato dalla passione, affinato dalla lotta, pronto all’applicazione, in un gran teatro,
fra tanta eco, con una chiarezza e precisione di contorni,
come fosse già cosa. Questa chiarezza è già intera in Bacone e in Cartesio, dove il mondo moderno si scioglie da
tutti gli elementi scolastici e mistici, da tutti i preconcetti, e si afferma in forme nette e recise. Perciò Galileo,
Bacone, Cartesio sono i veri padri del mondo moderno,
la coscienza della nuova scienza. Il metodo, che Galileo
applicava alle scienze naturali, diviene nelle mani di Bacone il metodo universale e assoluto, la via della verità in
tutte le sue applicazioni: l’induzione caccia via il sillogismo, e l’esperienza mette in fuga il soprannaturale. Cartesio col suo «de omnibus dubitandum» riassume il lato
negativo del nuovo movimento, togliendo ogni valore
all’autorità e alla tradizione – e col suo «cogito, ergo
sum» pone la prima pietra alla costruzione dell’edificio,
inizia l’affermazione. Come la Riforma, così Cartesio pone a fondamento della coscienza il senso individuale; e
come Galileo stabilisce il mondo naturale su’ fatti, così
egli stabilisce il mondo metafisico su di un fatto, «io
penso». All’esperienza esterna si aggiunge l’esperienza
interna, l’analisi psicologica. L’ente, ch’era il primo filosofico, qui è un prodotto della coscienza, un «ergo».
L’evidenza innanzi a’ sensi e innanzi alla coscienza, il
senso interno, è il criterio della verità. Cartesio, che era
un matematico, introduce nella filosofia la forma geometrica, credendo che in virtù della forma entrasse nel
mondo metafisico quella evidenza ch’era nel mondo matematico. Era un’illusione, il cui benefizio fu di cacciar
via definitivamente le forme scolastiche e aprire la strada a quella forma naturale di discorso, di cui Machiavel-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
li avea dato esempio, ed egli medesimo nel suo ammirabile Metodo. Queste idee non erano nuove in Italia, anzi
erano volgari a tutti gli uomini nuovi; ma, naufragate in
vaste sintesi immature e senza eco, rimanevano sterili.
Qui le vedi a posto, staccate, rilevate, formulate con
chiarezza ed energia, e parvero una rivelazione. D’altra
parte Cartesio ebbe cura di non rompere con la fede, e
di accentuare la natura spirituale dell’anima e la sua distinzione dal corpo, base della dottrina cristiana, sì che
dicea parergli meno sicura l’esistenza del corpo che
quella dello spirito; oltre a ciò, con le sue idee innate lasciava aperto un varco alla teologia e al soprannaturale.
Così egli ti dava la prima filosofia nuova che sembrasse
conciliabile con la religione, in un tempo che per l’infanzia della critica e della coscienza non era facile pesare
tutte le sue conseguenze. Perciò, come la Riforma religiosa, la sua riforma filosofica ebbe un gran successo;
perchè le riforme efficaci son quelle che prendono una
forma meno lontana dal passato e dallo stato reale degli
spiriti. Aggiungi la sua superficialità, l’estrema chiarezza, la forma accessibile, quel presentar poche idee e nette innanzi alle moltitudini: si rivelava già lo spirito francese volgarizzatore e popolare. La conseguenza naturale
della riforma era questa, che l’uomo rientrava in grembo
della natura, diveniva una parte della storia naturale.
Posto che la filosofia ha la sua base nella coscienza, lo
studio della coscienza o de’ fatti psicologici diveniva la
condizione preliminare di ogni metafisica, come lo studio della natura diveniva l’antecedente di ogni cosmologia. Il mondo usciva dalle astrazioni degli universali ed
entrava in uno studio serio dell’uomo e della natura, nello studio del reale. Per questa via modesta e concludente si era messo Galileo; di là uscivano i grandi progressi
delle scienze positive. Cartesio applicava alla metafisica
gli stessi procedimenti della filosofia naturale, togliendola di mezzo al soprannaturale, al fantastico, all’ipote-
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tico, e dandole una base sicura nell’esperienza e nell’osservazione. Ma i fatti psicologici erano ancora troppo
scarsi e superficiali, perchè ne potesse uscire una soluzione de’ problemi metafisici, e l’Europa era ancora
troppo giovane, troppo impregnata di teologia e di metafisica, di misteri e di forze occulte, perchè potesse aver
la pazienza di studiare i dati de’ problemi prima di accingersi a risolverli. Le «idee innate» e i «vortici» di Cartesio, la «visione di Dio» di Malebranche, la «sostanza
unica» di Spinosa, l’«armonia prestabilita» di Leibnizio
erano teodicee ipotetiche e provvisorie, che appagavano
il pensiero moderno abbandonato a se stesso, e attestavano il suo vigore speculativo. Ma l’impulso era dato, e
fra quelle immaginazioni progrediva la storia naturale
dell’intelletto umano, la scienza dell’uomo. Le meditazioni di Cartesio, i maravigliosi capitoli di Malebranche
sull’immaginazione e sulle passioni, i Pensieri di Pascal,
dove l’uomo in presenza di se stesso si sente ancora un
enigma, preludevano al Saggio sull’intelletto umano di
Giovanni Locke, l’erede di Bacone, di una grandezza
eguale alla sua modestia. Ivi la riforma cartesiana aveva
la sua ultima espressione, il suo punto di fermata; ivi la
filosofia trovava il suo Galileo, realizzava l’ideale del suo
risorgimento, al quale fra molti ostacoli tendevano gli
uomini nuovi, acquistava la sua base positiva, fondata
sull’esperienza e sull’osservazione, sulla «cosa effettuale», come dicea Machiavelli, e col «lume naturale», come dicea Bruno, con la scorta dell’occhio del corpo e
della mente, come dicea Galileo, e leggendo nel libro
della natura, come dicea Campanella. Cadevano insieme
forme scolastiche e forme geometriche; la filosofia usciva dal suo tempo eroico ed entrava nella sua età umana;
agli oracoli dottrinali succedevano forme popolari, e vi
si affinavano le moderne lingue. La semplicità, la chiarezza, l’ordine, la naturalezza divenivano le qualità essenziali della forma, e n’era un primo e stupendo esem-
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pio il Saggio di Locke. Così la filosofia nella sua linea divergente dalla teologia giungeva sino all’opposto, dal soprannaturale e dal soprasensibile giungeva al puro naturale ed al puro sensibile, giungeva al motto: «Niente è
nell’intelletto che non sia stato prima nel senso». E non
era già un concetto astratto e solitario, era lo spirito
nuovo, penetrato in tutto lo scibile, e che ora, come ultimo risultato, faceva la sua apparizione in filosofia. Anche la morale si emancipava dal precetto divino o ecclesiastico, e cercava la sua base nella natura dell’uomo, e
non dell’uomo quale l’avea formato la società, ma
nell’integrità e verginità del suo essere. Comparve un
dritto naturale, come era comparsa una filosofia naturale; ed entrano in iscena Grozio, Hobbes, Puffendorfio.
A quel modo che Campanella e Sarpi con tutti i riformati vagheggiavano la Chiesa primitiva nella purità delle
sue istituzioni, e in nome di quella attaccavano come alterazione e falsificazione l’opera posteriore de’ papi, i filosofi vagheggiavano l’uomo primitivo, nello stato di natura, e combattevano tutte le istituzioni sociali, che non
erano di accordo con quello. Il movimento religioso diveniva anche politico e sociale; l’idea era una, che si sentiva ora abbastanza forte per dilatare le sue conseguenze
anche negli ordini politici. Sorge uno spirito di critica e
d’investigazione, che non tien conto di nessun’autorità e
tradizione, e fa valere il suo scetticismo in tutti i fatti e i
princìpi tenuti fino a quel punto indiscutibili, come un
assioma. Bayle è là, con la sua ironia, col suo dubbio
universale. Come Locke realizzava il «cogito», egli realizzava il «de omnibus dubitandum». E chi paragoni il
suo Dizionario con le Raccolte italiane, può vedere
dov’era la vita e dov’era la morte.
Che faceva l’Italia innanzi a quel colossale movimento di
cose e d’idee? L’Italia creava l’Arcadia. Era il vero prodotto della sua esistenza individuale e morale. I suoi
poeti rappresentavano l’età dell’oro, e in quella nullità
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
della vita presente fabbricavano temi astratti e insipidi
amori tra pastori e pastorelle. I suoi scienziati, lasciando
correre il mondo per la sua china, si occupavano del
mondo antico e scrutavano in tutti i versi le reliquie di
Roma e di Atene; e poichè le idee erano date e non discutibili, si occupavano de’ fatti, e non potendo essere
autori, erano interpreti, comentatori ed eruditi. Letteratura e scienza erano Arcadia, centro Cristina di Svezia,
povera donna, che non comprendendo i grandi avvenimenti, de’ quali erano stati tanta parte i suoi Gustavo e
Carlo, si era rifuggita a Roma co’ suoi tesori, e si sentiva
tanto felice tra quegli arcadi, ch’ella proteggeva, e che
con dolce ricambio chiamavano lei «immortale e divina». Felice Cristina! E felice Italia!
L’inferiorità intellettuale degli italiani era già un fatto
noto nella dotta Europa, e ne attribuivano la cagione al
mal governo papale-spagnuolo. Gli stessi italiani aveano
oramai coscienza della loro decadenza, e non avvezzi
più a pensare col capo proprio, attendevano con avidità
le idee oltramontane, e mendicavano elogi da’ forestieri.
Giovanni Leclerc scriveva anno per anno la sua Biblioteca, una specie d’inventario ragionato delle opere nuove.
E come si tenea fortunato quell’italiano, che potea averci là dentro un posticino! La lingua francese era divenuta quasi comune, e prendeva il posto della latina. Un
movimento d’importazione c’era, lento, e impedito da
molti ostacoli, e vivamente combattuto nelle accademie
e nelle scuole, dove regnava Suarez e Alvarez, tra interpreti e comentatori. La Fisica di Cartesio penetrò in Napoli settanta anni dopo la sua morte, e quando già era
dimenticata in Francia, e non si aveva ancora notizia del
suo Metodo e delle sue Meditazioni. Grozio girava per le
mani di pochi. Di Spinosa e di Hobbes il solo nome faceva orrore. Di Giovanni Locke appena qualche sentore. Un movimento si annunziava negli spiriti, quel non
so che di vago, quel bisogno di cose nuove che testimo-
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nia il ritorno della vita. Pareva che il cervello, dopo lungo sonno, si svegliasse. I renatisti penetravano nelle
scuole co’ loro «metodi strepitosi», come li chiamava
Vico, promettitori di scienza facile e sicura. Definizioni,
assiomi, problemi, teoremi, scolii, postulati cacciavano
di sede sillogismi, entimemi e soriti. Il «quod erat demonstrandum» succedeva all’«ergo». Chiamavano «pedanti» i peripatetici, e questi chiamavano loro «ciarlatani». Sempre così. Il vecchio è detto «pedanteria», ed il
nuovo «ciarlataneria». E qualche cosa di vero c’è. Perchè il vecchio nella sua decrepitezza e stagnazione ha del
pedante, e il nuovo nella sua giovanile esagerazione ha
del ciarlatano. Ciascuno ha il suo lato debole, che non
può nascondere all’occhio acuto e appassionato dell’avversario.
La riforma cartesiana in Italia non produsse alcun serio progresso scientifico, com’è d’ogni scienza importata
e non uscita da una lenta elaborazione dello spirito nazionale. Fu utile come mezzo di diffusione delle idee
nuove. Le quali, cacciate d’Italia co’ roghi, con gli esili,
con le torture e coi pugnali, vi rientrarono sotto la protezione delle idee cristiane. La riforma era detta il «platonismo cartesiano», ed aveva aria di ribenedire la religione in nome della filosofia. L’Inquisizione, in quel
movimento rapidissimo d’idee, preoccupata di Spinosa,
aperto nemico, lasciava passare il nuovo Platone, che almeno non toccava i dogmi. I peripatetici invocarono
l’Inquisizione contro i novatori, e i novatori rispondevano proclamando Aristotile nemico della religione. Così
il movimento ricominciava in Italia, col permesso o almeno la tolleranza di Roma. Ed era movimento arcadico, confinato nelle astrattezze e rispettoso verso tutte le
istituzioni. Il movimento rimaneva superficiale; ma si
diffondeva, guadagnava gli animi alle novità, sopraffaceva i peripatetici, s’infiltrava nella nuova generazione, la
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metteva in comunione coll’Europa, preparava la trasformazione dello spirito nazionale.
Il serio movimento scientifico usciva di là, dove s’era
arrestato, dal seno stesso dell’erudizione. Lo studio del
passato era come una ginnastica intellettuale, dove lo
spirito ripigliava le sue forze. Alle raccolte successero le
illustrazioni. E vi si sviluppò uno spirito d’investigazione, di osservazione, di comparazione, dal quale usciva
naturalmente il dubbio e la discussione. Lo spirito nuovo inseguiva gli eruditi tra quegli antichi monumenti.
Già non erano più semplici eruditi, erano critici. In Europa la critica usciva dal libero esame e dalla ribellione:
era roba eretica. In Italia era parte di Arcadia, un esercizio intellettuale sul passato, e li lasciavano fare. Il critico
di Europa era Bayle; il critico d’Italia era Muratori. Le
sue vaste e diligenti raccolte, Rerum italicarum scriptores, Antiquitates medii aevi, Annali d’Italia, Novus thesaurus inscriptionum, la Verona illustrata e la Storia diplomatica di Scipione Maffei, le Illustrazioni del Fabretti
segnano già questo periodo, dove la scienza è ancora
erudizione, e nella erudizione si sviluppa la critica. Non
è ancora filosofia, ma è già buon senso, fortificato dalla
diligenza della ricerca, e dalla pazienza dell’osservazione. Muratori è assai vicino a Galileo per il suo spirito
positivo e modesto, e pel giusto criterio. E anche egli
osò. Osò combattere il potere temporale, osò porre in
guardia gl’italiani contro gli errori e le illusioni della fantasia. Se non gliene venne condanna, fu tolleranza intelligente di Benedetto decimoquarto, il quale disse che «le
opere degli uomini grandi non si proibiscono», e che la
quistione del potere temporale «era materia non dogmatica nè di disciplina».
Anche il Maffei parve incredulo al Tartarotti, perchè negava la magia, e parve eretico al padre Concina, perchè
scrivea De’ teatri antichi e moderni; ma quel buon papa
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decretò «non doversi abolire i teatri, bensì cercare che le
rappresentazioni siano al più possibile oneste e probe».
L’Italia papale era più papista del papa.
Un arcade era pure Gian Vincenzo Gravina, tutto
Grecia e Roma, tutto papato e impero, fra testi e comenti, con le spalle vòlte all’Europa. Dommatico e assoluto,
sentenzia e poco discute, in istile monotono e plumbeo.
È ancora il pedante italiano, sepolto sotto il peso della
sua dottrina, senza ispirazione, nè originalità, e così vuoto di sentimento, come d’immaginazione. Pure già senti
che siamo verso la fine del secolo. Già non hai più innanzi l’erudito che raccoglie e discute testi, ma il critico
che si vale della storia e della filosofia per illustrare la
giurisprudenza, e si alza ad un concetto del dritto, e ne
cerca il principio generatore. Anche la sua Ragion poetica, se non mostra gusto e sentimento dell’arte, colpa non
sua, esce da’ limiti empirici della pura erudizione, e ti dà
riflessioni d’un carattere generale.
Ecco un altro uomo d’ingegno, Francesco Bianchini,
veronese. A che pensa costui? Pensa agli assiri, a’ medi e
a’ troiani. Non raccoglie, ma pensa, cioè a dire scruta,
paragona, giudica, congettura, arzigogola e costruisce. I
monumenti non rimangono più lettera morta: parlano,
illustrano la cronologia e la storia. Per mezzo di essi si
stabiliscono le date, le epoche, i costumi, i pensieri, i
simboli, si rifà il mondo preistorico. In questa geologia
della storia i fatti e gli uomini vacillano, si assottigliano,
diventano favole, e le favole diventano idee. Comparve
la sua Storia nel 1697, Vico aveva ventinove anni.
L’erudizione generava dunque la critica. In Italia si
svegliava il senso storico e il senso filosofico. E si svegliava non sul vivo, ma sul morto, nello studio del passato. Questo era il carattere del suo progresso scientifico.
Quelli che si occupavano del presente a loro rischio,
erano cervelli spostati. E tra questi cervelli balzani c’era
il milanese Gregorio Leti, che pose in luce la cronaca
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
scandalosa dell’età in uno stile che vuol essere europeo e
non è italiano, e Ferrante Pallavicino nel suo Corriere
svaligiato, una specie di satira-omnibus, dove ce n’è per
tutti. In quel vacuo dell’esistenza sciupavano l’ingegno
in argomenti grotteschi, e in forme che parevano ingegnose ed erano freddure, un seicentismo arcadico. Il canonico Garzoni scrivea il Teatro de’ cervelli mondani,
L’Ospedale de’ pazzi incurabili, la Sinagoga degl’ignoranti, il Serraglio degli stupori del mondo. Sono discorsi accademici, infarciti d’erudizione indigesta, più curiosa
che soda. I quali erano la vera piaga d’Italia, e attestavano una coltura verbosa e pedantesca senz’alcuna serietà
di scopo e di mezzi. Il più noto di questi dotti, e ce
n’erano moltissimi, è Anton Maria Salvini, cervello ingombro, cuore fiacco e immaginazione povera, vita vuota. E volle tradurre Omero.
Fra tanta erudizione cresceva Vico. Studiò la filosofia
in Suarez, la grammatica in Alvarez, il dritto in Vulteio.
Pedagogo in casa della Rocca in Vatolla, un paesello nel
Cilento, si chiuse per nove anni nella biblioteca del convento, e vi si formò come Campanella. Quando, compiuto il suo ufficio, tornò in Napoli, era già un uomo
dotto, come poteva essere un italiano, e ce n’erano parecchi anche tra’ gesuiti. Era il tempo del Muratori, del
Fontanini, dell’abate Conti, del Maffei, del Salvini.
«dottissimo, eruditissimo» era Lionardo da Capua, e
Tommaso Cornelio «latinissimo»: così li qualifica Vico.
Il quale conosceva a fondo il mondo greco e latino, Aristotile e Platone con tutta la serie degl’interpreti fino a
quel tempo; ammirava nel Cinquecento quello stesso
mondo redivivo ne’ Ficini, ne’ Pico, ne’ Mattei Acquaviva, ne’ Patrizi, ne’ Piccolomini, ne’ Mazzoni; di letteratura, di archeologia, di giurisprudenza peritissimo; il
medio evo gli era giunto con la scolastica e con Aristotile, il Cinquecento con Platone e Cicerone; de’ fatti europei sapeva quanto era possibile in Italia. Era un dotto
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del Rinnovamento, che scoteva da sè la polvere del medio evo e cercava la vita e la verità nel mondo antico. Il
suo sapere era erudizione, la forma del suo pensiero era
latina, e il suo contenuto ordinario era il dritto romano.
Avvocato senza clienti, fece il letterato e il maestro di
scuola. Passati erano i bei tempi di Pietro Aretino. La
letteratura senza l’insegnamento era povera e nuda, come la filosofia. Andava per le case insegnando, facea
canzoni, dissertazioni, orazioni, vite, a occasione o a richiesta. Lo conobbe don Giuseppe Lucina, «uomo di
una immensa erudizione greca, latina e toscana in tutte
le spezie del sapere umano e divino», e lo fe’ conoscere a
don Niccolò Caravita, un avvocato primario e «gran favoreggiatore de’ letterati». Vico, parte merito, parte
protezione, fu professore di rettorica all’università. Vita
semplice e ordinaria, dal 1668 al 1744. Vita accademica,
tranquilla, di erudito italiano, formatosi nelle biblioteche e fuori del mondo, rimasto abbarbicato al suolo della patria. Il movimento europeo gli giunse a traverso la
sua biblioteca, e gli giunse nella forma più antipatica a’
suoi studi e al suo genio. Gli venne addosso la fisica di
Gassendi, e poi la fisica di Boyle, e poi la fisica di Cartesio. – La gran novità – pensava il nostro erudito. – Ma
l’hanno già detto, questo, Epicuro e Lucrezio. – E per
capire Gassendi si pose a studiare Lucrezio. Ma la novità piacque. – Fisica, fisica vuol essere, – diceva la nuova generazione – macchine; non più logica scolastica,
ma Euclide; sperimenti, matematiche; la metafisica bisogna lasciarla ai frati. – Che diveniva Vico con la sua erudizione e col suo dritto romano? Reagì, e cercò la fisica
non con le macchine e con gli sperimenti, ma ne’ suoi
studi di erudito. Le scienze positive entravano appena
nel gran quadro della sua cultura, e di matematiche sapeva non oltre di Euclide, stimando «alle menti già dalla
metafisica fatte universali non... agevole quello studio
proprio degli ingegni minuti». Cercò dunque la fisica
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fuori delle matematiche e fuori delle scienze sperimentali, la cercò fra i tesori della sua erudizione, e la trovò nei
«numeri» di Pitagora, ne’ «punti» di Zenone, nelle
«idee divine» di Platone, nell’antichissima sapienza italica. L’Europa aveva Newton e Leibnizio; e a Napoli si
stampava De antiquissima italorum sapientia. Erano due
colture, due mondi scientifici che si urtavano. Da una
parte era il pensiero creatore, che faceva la storia moderna, dall’altra il pensiero critico che meditava sulla
storia passata. Chiuso nella sua erudizione, segregato
nella sua biblioteca dal mondo de’ vivi, quando Vico
tornò in Napoli, trovò nuova cagione di maraviglia.
L’aveva lasciata tutto fisica; la trovava tutto metafisica.
Le Meditazioni e il Metodo di Cartesio avevano prodotto
la nuova mania. Vico sentì disgusto per una città che
cangiava opinione da un dì all’altro «come moda di vesti». E vi si sentì straniero, e vi stette per alcun tempo
straniero e sconosciuto. Vedeva il movimento attraverso
i suoi studi e i suoi preconcetti.
Quelle fisiche atomistiche gli pareva non poter condurre che all’ateismo e alla morale del piacere, e le accusava di falsa posizione, perchè l’atomo, il loro principio,
era corpo già formato, perciò era principiato e non il
principio, e andava cercando il principio al di là
dell’atomo, ne’ numeri e ne’ punti. Soffiava in lui lo stesso spirito di Bruno e di Campanella. Si sentiva concittadino di Pitagora e discepolo dell’antica sapienza italica.
Quanto al metodo geometrico, rifiutava di ammetterlo
come una panacea universale: era buono in certi casi, e
si potea usarlo senza quel lusso di forme esteriori, dove
vedea ambizione, pretensione e ciarlataneria. Il «cogito»gli pareva così poco serio, come l’atomo. Era
anch’esso principiato e non principio; dava fenomeni,
non dava la scienza. Giudicava Cartesio uomo ambiziosissimo ed anche un po’ impostore, e quel suo «metodo», dove, annullando la scienza con la bacchetta magi-
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ca del suo «cogito», la fa ricomparire a un tratto, gli pareva un artificio rettorico. Quel suo de omnibus dubitandum lo scandalizzava. Quella tavola rasa di tutto il passato, quel disprezzo di ogni tradizione, di ogni autorità,
di ogni erudizione, lo feriva nei suoi studi, nella sua credenza e nella sua vita intellettuale, e si difendeva con vigore, come si difende dal masnadiero la roba e la vita.
La diffusione della coltura, la moltiplicità dei libri, quei
metodi strepitosi abbreviativi, quella superficialità di
studi con tanta audacia di giudizi, fenomeni naturali di
ogni transizione, quando un mondo se ne va e un altro
viene, movevano la sua collera. Avvezzo ai severi e
profondi studi, a pensare co’ sapienti ed a scrivere pei
sapienti, gli spiacea quella tendenza a vulgarizzare la
scienza, quella rapida propagazione d’idee superficiali e
cattive. E se la pigliava con la stampa. Si gloriava di non
appartenere a nessuna setta. E lì era il suo punto debole.
Posto tra due secoli, in quel conflitto di due mondi che
si davano le ultime battaglie, non era nè con gli uni, nè
con gli altri, e le cantava a tutti e due. Era troppo innanzi pe’ peripatetici, pe’ gesuiti e per gli eruditi; era troppo
indietro per gli altri. Questi trovavano ridicoli i suoi
«punti metafisici»; quelli trovavano avventate le sue etimologie e sospetta la sua erudizione. Era da solo un terzo partito, come si direbbe oggi, la ragione serena e superiore, che nota le lacune, le contraddizioni e le
esagerazioni, ma ragione ancora disarmata, solitaria,
senza seguaci, fuori degl’interessi e delle passioni, perciò
in quel fervore della lotta appena avvertita e di nessuna
efficacia. Se dietro al critico ci fosse stato l’uomo, un po’
di quello spirito propagatore e apostolico di Bruno e
Campanella, sarebbe stato vittima degli uni e degli altri.
Ma era un filosofo inoffensivo, tutto cattedra, casa e studio, e guerreggiava contro i libri, rispettosissimo verso
gli uomini. Oltrechè le sue ubbie rimanevano nelle altissime regioni della filosofia e della erudizione, dove po-
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chi potevano seguirlo, e fu lasciato vivere fra le nubi, stimato per la sua dottrina, venerato per la sua pietà e
bontà. Conscio e scontento della sua solitudine, vi si
ostinò, benedicendo «non aver lui avuto maestro nelle
cui parole avesse giurato», e ringraziando «quelle selve,
fra le quali dal suo buon genio guidato, aveva fatto il
maggior corso de’ suoi studi». Il latino veniva in fastidio, ed egli pose da canto greco e toscano, e fu tutto latino. Veniva in moda il francese: e’ non volle apprendere
il francese. La letteratura tendeva al nuovo, ed egli accusava questa letteratura «non... animata dalla sapienza
greca..., o invigorita dalla grandezza romana». Nella medicina era con Galeno contro i moderni, divenuti scettici «per le spesse mutazioni de’ sistemi di fisica». Nel
dritto biasimava gli eruditi moderni, e se ne stava con gli
antichi interpreti. Vantavano l’evidenza delle matematiche; ed egli se ne stava tra’ misteri della metafisica. Predicavano la ragione individuale, ed egli le opponeva la
tradizione, la voce del genere umano. Gli uomini popolari, i progressisti di quel tempo, erano Lionardo di Capua, Cornelio, Doria, Calopreso, che stavano con le idee
nuove, con lo spirito del secolo. Lui era un retrivo, con
tanto di coda, come si direbbe oggi. La coltura europea
e la coltura italiana s’incontravano per la prima volta,
l’una maestra, l’altra ancella. Vico resisteva. Era vanità
di pedante? era fierezza di grande uomo? Resisteva a
Cartesio, a Malebranche, a Pascal, i cui Pensieri erano
«lumi sparsi», a Grozio, a Puffendorfio, a Locke, il cui
Saggio era la «metafisica del senso». Resisteva, ma li studiava più che non facessero i novatori. Resisteva come
chi sente la sua forza e non si lascia sopraffare. Accettava i problemi, combattea le soluzioni, e le cercava per le
vie sue, co’ suoi metodi e coi suoi studi. Era la resistenza
della coltura italiana, che non si lasciava assorbire, e stava chiusa nel suo passato, ma resistenza del genio, che
cercando nel passato trovava il mondo moderno. Era il
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retrivo che guardando indietro e andando per la sua via,
si trova da ultimo in prima fila, innanzi a tutti quelli che
lo precedevano. Questa era la resistenza di Vico. Era un
moderno, e si sentiva e si credeva antico, e resistendo allo spirito nuovo, riceveva quello entro di sè.
Bacone gli aveva fatta una grande impressione. Era il
suo uomo, dopo Platone e Tacito. Quel suo libro, De
augumentis scientiarum, gli faceva dire: – Roma e Grecia
non hanno avuto un Bacone. – Trovava in lui congiunto
il senso ideale di Platone, il senso pratico di Tacito, la
«sapienza riposta» dell’uno, la sapienza volgare dell’altro. E poi, gli apriva nuovi orizzonti. Avea studiato tanto, e la sua scienza non era più un libro chiuso, ci era
tanto da aggiungere, tanto da riformare. Voleva egli pure conferire del suo «nella somma che costituisce l’universal repubblica delle lettere». Non è più un erudito
immobilizzato nel passato, è un riformatore, un investigante. Critica, dubita, esamina, approfondisce. Sente il
morso dello spirito nuovo. Ne’ suoi studi dell’antica sapienza italica, vedi già il disdegno delle «etimologie
grammaticali», il dispregio dell’erudizione volgare, l’uomo che tenta nuove vie, intravvede nuovi orizzonti, cerca tra i particolari le alte generalità.
Più tardi gli capitò Grozio. E divenne il suo «quarto
autore». Grozio gli completa Bacone. Costui vide «tutto
il saper umano e divino doversi supplire in ciò che non
ha, ed emendare in ciò che ha; ma intorno alle leggi...,
non s’innalzò troppo all’universo delle città ed alla scorsa di tutt’i tempi, nè alla distesa di tutte le nazioni».
Grozio gli dà un dritto universale, in cui «è sistemata
tutta la filosofia e teologia». Il comentatore del dritto romano si sente alzare a filosofo. Cerca una filosofia del
dritto con Grozio, e si fa il suo annotatore: poi riflette
che è un eretico, e lascia stare.
La materia della sua coltura è sempre quella, dritto
romano, storia romana, antichità. La sua fisica è pitago-
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rica, la sua metafisica è platonica, conciliata con la sua
fede. Base della sua filosofia e l’ente, l’uno, Dio. Tutto
viene da Dio, tutto torna a Dio, l’«unum
simplicissimum» di Ficino. L’uomo e la natura sono le
sue ombre, i suoi fenomeni. La scienza è conoscere Dio,
«perdere se stesso» in Dio. E vien su il Dio di Campanella, l’eterno lume, il senno eterno, con le sue primalità,
«nosse, velle, posse». Fin qui Vico è un luogo comune.
La sua erudizione e la sua filosofia camminano in linea
parallela, e non s’incontrano. Manca l’attrito. Ci è l’ascetico, il teologo, il platonico, l’erudito, ci è l’italiano di
quel tempo nello stato ordinario delle sue credenze e
della sua cultura.
Dentro a questa cultura e contro a queste credenze
venne ad urtare Cartesio. – La cultura non ha valore; del
passato bisogna far tavola. Datemi materia e moto, ed io
farò il mondo. Il vero te lo dà la coscienza ed il senso. –
Cosa diveniva l’erudizione di Vico, la fisica di Vico, la
metafisica di Vico? Cosa divenivano le «idee divine» di
Platone? E il «simplicissimum» di Ficino cosa diveniva?
E il dritto romano, la storia, la tradizione, la filologia, la
poesia, la rettorica, non era più buona a nulla? Nella
violenta contraddizione Vico sviluppò le sue forze. Uscì
del vago e del comune, trovò un terreno, un problema,
un avversario. La sua erudizione si spiritualizzava. La
sua filosofia si concretava. E si compivano l’una nell’altra.
Già non si perde negli accessorii; vede e investe subito la dottrina avversaria nella sua base. Vuole atterrare
Cartesio, e con lo stesso colpo atterra tutta la nuova
scienza, e non andando indietro, ma andando più avanti. La sua confutazione di Cartesio è completa, è l’ultima
parola della critica. Ma la sua critica non è solo negativa:
è creatrice; la negazione si risolve in un’affermazione più
vasta, che tirasi appresso, come frammenti di verità, le
nuove dottrine, e le alloga, le mette a posto. La nuova
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
scienza, la scienza degli uomini nuovi, trova nella Scienza nuova il suo limite, e perciò la sua verità.
La nuova scienza, uscita da lotta religiosa e politica, è
in uno stato di guerra contro il passato, e lo combatte
sotto tutte le sue forme. La tradizione, l’autorità, la fede
è il suo nemico, e cerca riparo nella forza e nell’indipendenza della ragione individuale; gli «universali», gli «enti», le «quiddità» lo infastidiscono della metafisica, e
cerca la sua base nella psicologia, nella coscienza; il soprannaturale, il sopramondano offende il suo intelletto
adulto, e vi oppone lo studio diretto della natura, la fisica nel suo senso più generale, le scienze positive; al gergo scolastico cerca un antidoto nella precisione delle
matematiche, nel metodo geometrico; ai misteri, alle cabale, alle scienze occulte, alle astrazioni oppone l’esperienza rischiarata dall’osservazione, la percezione chiara
e distinta, l’evidenza della coscienza e del senso; alla società in quello stato di corruzione oppone l’uomo integro e primitivo, la natura dell’uomo, dalla quale cava i
princìpi della morale e del dritto. Questo è lo spirito
della nuova scienza: naturalismo e umanismo, fisica e
psicologia. Cartesio in maschera di Platone porta la bandiera.
Ma non inganna Vico, che gli strappa la maschera. –
Tu non sei che un epicureo. La tua fisica è atomistica, la
tua metafisica è sensista, il tuo trattato Delle passioni par
fatto più per i medici che per i filosofi; segui la morale
del piacere. – Combattendo Cartesio, la quistione gli si
allarga, attinge nella sua essenza tutto il nuovo movimento. Anch’esso è un’astrazione. È un’ideologia empirica, idea vuota, e vuoto fatto. L’importante non è di dire «io penso» (la grande novità!), ma è di spiegare come
il pensiero si fa. L’importante non è di osservare il fatto,
ma di esaminare come il fatto si fa. Il vero non è nella
sua immobilità, ma nel suo divenire, nel suo «farsi».
L’idea è vera, colta nel suo farsi. Il pensiero è moto che
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va da un termine all’altro, è idea che si fa, si realizza come natura, e ritorna idea, si ripensa, si riconosce nel fatto. Perciò «verum et factum», vero e fatto sono convertibili, nel fatto vive il vero, il fatto è pensiero, è scienza; la
storia è una scienza, e come ci è una logica per il moto
delle idee, ci è anche una logica per il moto de’ fatti, una
«storia ideale eterna, sulla quale corrono le storie di tutte le nazioni».
Ecco ribenedetta tradizione, autorità e fede; ecco filologia, storia, poesia, mitologia, tutta l’erudizione rientrata in grembo della scienza. La storia è fatta dall’uomo,
come le matematiche, e perciò è scienza non meno di
quelle. È il pensiero che fa quello che pensa, è la «metafisica della mente umana», la sua «costanza», il suo processo di formazione secondo le leggi fisse del pensiero
umano. Perciò la sua base non è nella coscienza individuale, ma nella coscienza del genere umano, nella ragione universale. I nuovi filosofi vogliono rifare il mondo
coi loro princìpi assoluti, co’ loro dritti universali. Ma
non sono i filosofi che fanno la storia, e il mondo non si
rifà con le astrazioni. Per rifare la società non basta condannarla: bisogna studiarla e comprenderla. E questo fa
la «Scienza nuova».
A Vico non basta porre le basi; mette mano alla costruzione. Se la storia ha la sua costanza scientifica, se è
fatta dal pensiero, com’e fatta? Qual è il suo processo di
formazione? Che la storia sia una scienza, non era cosa
nuova nella filosofia italiana. Alla storia formata dall’arbitrio divino e dal caso Machiavelli avea già contrapposta la «forza delle cose», lo spirito della storia eterno e
immutabile. L’«intelletto universale» di Bruno, la «ragione che governa il mondo» di Campanella rientrano
nella stessa idea. Platone con le sue «idee divine» porgeva già il filo a Vico. L’importante era di eseguire il problema, il cui dato era già posto, era il trovar le leggi di
questo spirito della storia, era il «probare per causas», il
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generare la storia come l’uomo genera le matematiche, il
fare la storia della storia, ciò che era fare una scienza
nuova. Di questa storia ideale egli «ritrova le guise dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana», cerca la base nella natura dell’uomo, doppio com’è,
spirito e corpo. È una psicologia applicata alla storia.
Stabilisce alcuni canoni psicologici, ch’egli chiama «degnità», o «princìpi». Il concetto è questo: che l’uomo,
come essere naturale, opera per istinti, sotto la pressura
dei suoi bisogni, interessi e passioni; ma ivi appunto si
sviluppa come essere pensante, come Mente, sì che nelle
sue opere più grossolane e corpulente ce n’è come
un’immagine velata, il sentore. La quale immagine si fa
più chiara, secondo che «la mente più si spiega», insino
a che il pensiero si manifesta nella sua propria forma,
opera come riflessione o filosofia. Questo, che è il corso
naturale della vita individuale, è anche il corso naturale
e la storia di tutte le nazioni, quando non ci sia interruzione o deviazione per violenza di casi estrinseca, come
fu per Numanzia oppressa nel suo fiorire da’ romani.
Perciò nelle nazioni ci è tre età, la divina, l’eroica e la
umana. Precede lo stato selvaggio o di mera barbarie,
dove l’uomo è servo del corpo, e come una «fiera vagante nella gran selva della terra». La libertà è il «tenere in
freno i moti della concupiscenza, che viene dal corpo, e
dar loro altra direzione, che viene dalla mente ed è propria dell’uomo». Secondo che la mente si spiega, o si fa
più intelligente, si sviluppa la libertà, prevale la ragione
o l’«umanità». La prima età ragionevole o socievole,
l’età divina, sorse co’ matrimoni e l’agricoltura, quando,
«a’ primi fulmini dopo l’universal diluvio», gli uomini
«si umiliarono ad una forza superiore che immaginarono essere Giove, e tutte le umane utilità e tutti gli aiuti
porti nelle loro necessità immaginarono essere dei». Allora, rinunziando alla vaga venere, ebbero certe mogli,
certi figli e certe dimore, sorsero le famiglie governate
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
da’ padri con «famigliari imperii ciclopici». In questi regni famigliari, divenuti sicuro asilo contro i selvaggi o
vaganti, riparavano i deboli e gli oppressi, che furono ricevuti in protezione, come clienti o famoli. Così si ampliarono i regni famigliari, e si spiegarono le «repubbliche erculee» sopra ordini naturalmente migliori per
virtù eroiche, la pietà verso gl’iddii, la prudenza, o il
consigliarsi co’ divini auspìci, la temperanza, onde i concubiti umani e pudichi co’ divini auspìci, la fortezza, uccider fiere, domar terreni, la magnanimità, il soccorrere
a’ deboli e a’ pericolanti. In questi primi ordini naturali
comincia la libertà, e il primo spiegarsi della mente.
Nacque la corruzione. I padri, lasciati grandi per la religione e virtù de’ loro maggiori e per le fatiche de’ clienti,
tralignarono, uscirono dall’ordine naturale, che è quello
della giustizia, abusarono delle leggi di protezione e di
tutela, tiranneggiarono: indi la ribellione de’ clienti. Allora padri delle famiglie si unirono con le loro attinenze
in ordini contro di quelli, e per pacificarli, con la prima
legge agraria concessero il «dominio bonitario», ritenendosi essi il «dominio ottimo», o «sovrano famigliare»:
onde nacquero le prime città sopra «ordini regnanti di
nobili», e l’«ordine civile». Finirono i regni divini: cominciarono gli eroici. La religione fu custodita negli ordini eroici, e perciò gli auspìci e i matrimoni, e per essa
religione furono de’ soli eroi tutt’i diritti e tutte le ragioni civili. Ma «spiegandosi le umane menti», i plebei intesero essere di egual natura umana co’ nobili, e vollero
entrare anch’essi negli ordini civili delle città, essere sovrani nelle città. Finisce l’età eroica, comincia l’età umana, l’età della eguaglianza, la «repubblica popolare», dove comandano gli ottimi non per nascita, ma per virtù.
In questo stato della mente agli uomini non è più necessario fare le azioni virtuose per «sensi di religione», perchè la filosofia fa intendere le «virtù nella loro idea»; in
forza della quale riflessione, quando anche gli uomini
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non abbiano virtù, almeno si vergognano de’ vizi. Nasce
la filosofia e l’eloquenza, insino a che l’una è corrotta
dagli scettici, l’altra da’ sofisti. Allora, corrompendosi
gli stati popolari, viene l’anarchia, il totale disordine, la
peggiore delle tirannidi, che è la sfrenata libertà de’ popoli liberi. I quali o cadono in servitù di un monarca,
che rechi in sua mano tutti gli ordini e tutte le leggi con
la forza delle armi; o diventano schiavi per «diritto natural delle genti», conquistati con armi da nazioni migliori,
essendo giusto che chi non sa governarsi da sè si lasci
governare da altri che il possa, e che nel mondo governino sempre i migliori; o, abbandonati a sè, in quella folla
di corpi vivendo in una solitudine d’animi e di voleri, seguendo ognuno il suo piacere e capriccio, con disperate
guerre civili vanno a fare selve delle città, e delle selve
covili d’uomini, e in lunghi secoli di barbarie vanno ad
«irrugginire le malnate sottigliezze degl’ingegni maliziosi». Con questa «barbarie della riflessione» si ritorna allo stato selvaggio, alla «barbarie del senso», e ricomincia
con lo stess’ordine una nuova storia, si rifà lo stesso corso.
Questa è la «storia ideale eterna», la logica della storia, applicabile a tutte le storie particolari. È in fondo la
storia della mente nel suo spiegarsi, come dice Vico, dallo stato di senso, in cui è come dispersa, sino allo stato
di riflessione, in cui si riconosce e si afferma. L’operazione con la quale l’intelletto giunge alla verità è la stessa
operazione con la quale l’intelletto fa la storia. Locke
aveva il suo complemento in Vico. La teoria della conoscenza aveva il suo riscontro nella teoria della storia. Era
una nuova applicazione della psicologia. Gli uomini
operano secondo i loro impulsi e fini particolari; ma «i
risultati sono superiori a’ loro fini», sono risultati mentali, il successivo progredire della mente nel suo spiegarsi. Perciò le passioni, gl’interessi, gli accidenti, i fini particolari sono non la storia, ma le occasioni, e
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gl’istrumenti della storia; perciò una scienza della storia
è possibile. Machiavelli e Hobbes ti dànno la storia occasionale, non la storia finale e sostanziale. La loro storia
è vera, ma non è intera, è frammento di verità. La verità
è nella totalità, nel vedere «cuncta ea, quae in re insunt,
ad rem sunt affecta», l’idea nella pienezza del suo contenuto e delle sue attinenze. Machiavelli è non meno di
Vico un profondo osservatore de’ fatti psicologici, è un
ritrattista, ma non è un metafisico. La psicologia di Vico
entra già nelle regioni della metafisica, ti dà le prime linee della nuova metafisica, fondata non sull’immobilità
dell’ente guardato nei suoi attributi, ma sul suo moto o
divenire; perciò non descrizione o dimostrazione, come
te la dava Aristotile e Platone, ma vero dramma, la storia
dello spirito nel mondo. In questo dramma tutto ha la
sua spiegazione, tutto è allogato, la guerra, la conquista,
la rivoluzione, la tirannide, l’errore, la passione, il male,
il dolore, fatti necessari e strumenti del progresso. Ciascuna età storica ha la sua guisa di nascere e di vivere, la
sua natura, onde procede la forza delle cose, la sapienza
volgare del genere umano, il senso comune delle genti,
la forza collettiva. Non è l’individuo, è questa forza collettiva, che fa la storia; e spesso i più celebrati individui
non sono che simboli e immagini, «caratteri poetici» di
quella forza, come Zoroastro, Ercole, Omero, Solone.
Cerchi un individuo, e trovi un popolo; cerchi un fatto,
e trovi un’idea. Fabbro della storia è «l’umano arbitrio
regolato con la sapienza volgare».
Rimaneva a dare la dimostrazione di questa storia
ideale: dimostrare cioè che tutte le storie particolari sono, secondo quella, regolate da uno stesso corso d’idee,
ubbidienti a un solo tipo. La prova poteva cercarla a
priori nella logica stessa dello spirito nel suo spiegarsi.
Lo spirito si estrinseca in conformità della sua natura, in
che è la sua logica, la legge del suo divenire, e quel divenire è appunto la storia. Ma Vico, appena adombrate le
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prime linee della nuova metafisica, si arresta sulla soglia,
e ritorna erudito, e cerca la prova a posteriori, consultando tutte le storie, e cercando in tutte il suo corso, il suo
sistema, e non solo nelle grandi linee, ma ne’ più minuti
accidenti. Impresa titanica di erudizione e critica italiana. E s’immerge tra’ «rottami dell’antichità», e raccoglie
i minimi frammenti, e li anima: «intus legit», li fa corpi
interi, ricostituisce la storia reale a immagine della sua
storia ideale. È il mondo guardato da un nuovo orizzonte, ricreato dalla critica e dalla filosofia, e con la sua originalità scolpita in quella potente forma, lapidaria e metaforica, come una legge delle dodici tavole. Cerca tra
quei rottami la prova della «scienza nuova», e scopre
per via nuove scienze. Lingua, mitologia, poesia, giurisprudenza, religioni, culti, arti, costumi, industrie, commercio, non sono fatti arbitrari, sono fatti dello spirito,
le scienze della sua Scienza. Cronologia, geografia, fisica, cosmografia, astronomia, tutto si rinnova sotto questa nuova critica. Ad ogni passo senti il grido trionfale
del gran creatore: – Ecco una nuova scoperta! – Alla
metafisica della mente umana, filosofia dell’umanità o
delle idee umane, onde scaturisce una giurisprudenza,
una morale e una politica del genere umano, corrisponde la logica, «fas gentium», una scienza dell’espressione
di esse idee, la filologia. Ecco dunque una scienza delle
lingue e de’ miti e delle forme poetiche, una lingua del
genere umano, una teoria dell’espressione ne’ miti, ne’
versi, nel canto, nelle arti. E come teoria e scienza non è
che «natura delle cose», e la natura delle cose è nelle
«guise di lor nascimenti»; l’uomo ardito, sgombro lo
spirito d’ogni idea anticipata e fidato al solo suo intendere; si addentra nelle origini dell’umanità, guaste dalla
doppia «boria» «delle nazioni e de’ dotti», e tu assisti alla prima formazione delle società, de’ governi, delle leggi, de’ costumi, delle lingue, vedi nascere la storia di entro la mente umana, e svilupparsi logicamente da’ suoi
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elementi o princìpi, «religione, nozze, sepolture», svilupparsi sotto tutte le forme, come governo, come legge,
come costume, come religione, come arte, come scienza,
come fatto, come parola. La sua grande erudizione gli
porge infiniti materiali, che interpreta, spiega, alloga, dispone, secondo i bisogni della sua costruzione, audace
nelle etimologie, acuto nelle interpretazioni e ne’ confronti, sicurissimo ne’ suoi procedimenti e nelle sue conclusioni, e con l’aria di chi scopre ad ogni tratto nuovi
mondi, tenendo sotto i piedi le tradizioni e le storie volgari. Così è nata questa prima storia dell’umanità, una
specie di Divina Commedia, che dalla «gran selva della
terra» per l’inferno del puro sensibile si va realizzando
tra via sino all’età umana della riflessione o della filosofia; irta di forme, di miti, di etimologie, di simboli, di allegorie, e non meno grande che quella; pregna di presentimenti, di divinazioni, d’idee scientifiche, di veri e di
scoperte: opera di una fantasia concitata dall’ingegno filosofico e fortificata dall’erudizione, che ha tutta l’aria
di una grande rivelazione.
È la Divina Commedia della scienza, la vasta sintesi,
che riassume il passato e apre l’avvenire, tutta ancora ingombra di vecchi frantumi dominati da uno spirito nuovo. Platonico e cristiano, continuatore di Ficino e di Pico, uno di spirito con Torquato Tasso, Vico non
comprende la Riforma, e non i tempi nuovi, e vuol concordare la sua filosofia con la teologia, e la sua erudizione con la filosofia, costruire un’armonia sociale come
un’armonia provvidenziale. La sua metafisica ha sotto i
pie il globo, e gli occhi estatici in su verso l’occhio della
provvidenza, onde le piovono i raggi delle divine idee.
Vuole la ragione, ma vuole anche l’autorità, e non certo
degli «addottrinati», ma del genere umano; vuole la fede
e la tradizione; anzi fede e tradizione non sono che essa
medesima la ragione, «sapienza volgare». Tale era l’uomo formato nella biblioteca di un convento; ma, entran-
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do nel mondo de’ viventi, lo spirito nuovo l’incalza, e
combattendo Cartesio, subisce l’influenza di Cartesio.
Era impossibile che un uomo d’ingegno non dovesse
sentirsi trasformare al contatto dell’ingegno. Tutto dietro a costruir la sua scienza, gli si affaccia il «de omnibus
dubitandum» ed il «cogito»:
«... in meditando i princìpi di questa Scienza, dobbiamo...
ridurci in uno stato di una somma ignoranza di tutta l’umana e
divina erudizione, come se per questa ricerca non vi fussero
mai stati per noi nè filosofi, nè filologi, e chi si vuol profittare,
egli in tale stato si dee ridurre, perché nel meditarvi non ne sia
egli turbato e distolto dalle comuni invecchiate anticipazioni.»
Parole auree, che sembrano tolte da una pagina del
Metodo. E in questa ignoranza cartesiana, qual è l’«unica verità», che fra tante dubbiezze non si può mettere in
dubbio, ed è perciò la «prima di siffatta Scienza»? È il
«cogito», è la mente umana.
«Poiché... il mondo delle gentili nazioni... è stato... fatto dagli uomini, i di lui princìpi si debbono ritruovare dentro la natura della nostra mente umana e nella forza del nostro intendere.»
La provvidenza e la metafisica, che guarda in lei, sono
nel gran quadro un semplice antecedente, o, com’egli
dice, un’«anticipazione», un convenuto e non dimostrato: il quadro è la mente umana nella natura e nell’ordine
della sua esplicazione, la mente umana delle nazioni, la
storia delle umane idee. La provvidenza regola il mondo, assistendo il libero arbitrio con la sua grazia, ed oltrepassando ne’ suoi risultati i fini particolari degli uomini; ma questi risultati provvidenziali non sono più
miracolo, sono scienza umana, sono lo «schiarire delle
idee», lo «spiegarsi della mente». Come Bruno, Vico
canta la provvidenza e narra l’uomo: non è più teologia,
è psicologia. Provvidenza e metafisica sono di lontano,
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come sole o cielo, nello sfondo del quadro: il quadro è
l’uomo, e la sua luce, la sua scienza è in lui stesso, nella
sua mente. La base di questa scienza è moderna, ci è
Cartesio col suo scetticismo e col suo «cogito». Ben talora, portato dall’alto ingegno speculativo, spicca il volo
verso la teologia e la metafisica, ma Cartesio è là che lo
richiama, e lo tiene stretto ne’ fatti psicologici. Nel quale
studio del processo della mente negl’individui e ne’ popoli fa osservazioni così profonde e insieme così giuste,
che ben si sente il contemporaneo di Malebranche, di
Pascal, di Locke, di Leibnizio, il più affine al suo spirito,
e ch’egli chiama «il primo ingegno del secolo». Nè solo
è moderno nella base, ma nelle conclusioni, mostrando
nell’ultimo spiegarsi della mente vittoriosi i princìpi de’
nuovi filosofi. Perchè corona della sua epopea storica è
lo spiritualizzarsi delle forme, il trionfo della filosofia, o
della mente nella sua «riflessione», la fine delle aristocrazie, e perciò de’ feudi e della servitù, la libertà e
l’uguaglianza di tutte le classi, come stato delle società
«ingentilite e umane», come ultimo risultato della coltura. È la teocrazia e l’aristocrazia conquise dalla democrazia per il naturale spiegarsi della mente, è l’affermazione e la glorificazione dello spirito nuovo. Ma qui
appunto Vico se ne spicca e rimane solo in mezzo al suo
secolo. Posto tra il mondo della sua biblioteca, biblicoteologico-platonico, e il mondo naturale di Cartesio e di
Grozio, due assoluti, e impenetrabili come due solidi, e
che si scomunicavano l’un l’altro, cerca la conciliazione
in un mondo superiore, l’idea mobilizzata o storica, e in
una scienza superiore, la critica, l’idea analizzata e giustificata ne’ momenti della sua esistenza, la scienza uscita dall’assolutezza e rigidità del suo dommatismo, e mobilizzata come il suo contenuto. La critica è rifare con la
riflessione quello che la mente ha fatto nella sua spontaneità. È la mente «spiegata e schiarita», che si riflette
sulla sua opera e vi trova se stessa nella sua identità e
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nella sua continuità; è la coscienza dell’umanità. In questo mondo superiore tutto si move e tutto si riconcilia e
si giustifica; i princìpi, che i nuovi filosofi predicavano
assoluti e perciò applicabili in ogni tempo e in ogni luogo, e co’ quali dannavano tutto il passato, si riferiscono a
stati sociali di certe epoche e di certi luoghi; ed i princìpi
contrari, appunto perchè in certi tempi hanno governato il mondo e sono stati «comportevoli», sono veri anch’essi, come anticipazioni e vestigi de’ princìpi nuovi.
Perciò il criterio della verità non è l’idea in sè, ma l’idea
come si fa o si manifesta nella storia della mente, il senso
comune del genere umano, ciò ch’egli chiama la «filosofia dell’autorità». Qui Vico avea contro di sè Platone e
Grozio, il passato e il presente. La malattia del secolo
era appunto la condanna del passato in nome di princìpi
astratti, come il passato condannava esso in nome di altri princìpi astratti. Vico era come chi, vivuto solitario
nel suo gabinetto, scenda in piazza d’improvviso, e vegga gli uomini concitati, co’ pugni tesi, pronti a venire alle mani. A lui quegli uomini debbono sembrare de’ pazzi da catena. – A che tanto furore contro il passato? Il
quale, appunto perchè è stato, ha avuto la sua ragion
d’essere. E poniamo pure sia tutto cattivo, credete di
poter distruggere con la forza l’opera di molti secoli? I
vostri princìpi! Ma credete voi che la storia si fa da’ filosofi e co’ princìpi? La vostra ragione! Ma ci è anche la
ragione degli altri, uomini come voi, e che sanno ragionare al pari di voi. E poi, un po’ di rispetto, io credo, si
dee pure all’autorità. E non parlo di tanti dottori, ne’
quali non avete fede: parlo dell’autorità del genere umano, al quale, se uomini siete non potete negar fede. Un
po’ meno di ragione, e un po’ più di senso comune. –
Un discorso simile sarebbe parsa una stranezza a quegli
uomini pieni di odio e di fede. E qualcuno poteva rispondergli: – Fàtti in là, e sta’ fra le tue nuvole, e non venire fra gli uomini, chè non te ne intendi. Il passato tu lo
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hai studiato su’ libri: è la tua erudizione. Ma il passato è
per noi cosa reale, di cui sentiamo le punture ad ogni
nostro passo. Il fuoco ci scotta, e tu ci vuoi provare che,
perchè è, ha la sua ragion di essere. Lascia prima che noi
lo spengiamo, e poi ci parla della sua natura. Quando ci
avremo tolto di dosso codesto passato, nostro martirio e
de’ padri nostri, forse allora potremo essere giusti anche
noi e gustar la tua critica. – Vico rimase solo nel secolo
battagliero; e quando la lotta ebbe fine si alzò come iride
di pace la sua immagine su’ combattenti, e comunicò la
parola del nuovo secolo: «critica». Non più dommatismo, non più scetticismo: critica. Nè altro è la storia di
Vico che una critica dell’umanità: l’idea vivente fatta
storia e, nel suo eterno peregrinaggio seguita, compresa,
giustificata in tutt’i momenti della sua vita. I princìpi,
come gl’individui e come la società, nascono, crescono e
muoiono, o piuttosto, poichè niente muore, si trasformano, pigliando forme sempre più ragionevoli, più
conformi alla mente, più ideali. Indi la necessità del progresso, insita nella stessa natura della mente, la sua fatalità. La teoria del progresso è per Vico come la terra
promessa. La vede, la formula, stabilisce la sua base,
traccia il suo cammino, diresti che l’indica col dito, e
quando non gli resta a fare che un passo per giungervi,
la gli fugge dinanzi, e riman chiuso nel suo cerchio e non
sa uscirne. Poneva le premesse e gli fuggiva la conseguenza. Gli è perchè, profondo conoscitore del mondo
greco-romano, non seppe spiegarsi il medio evo, e non
comprese i tempi suoi, parendogli indizio di decadenza
e di dissoluzione quella vasta agitazione religiosa e politica, in cui era la crisi e la salute. D’altra parte lui, che
negava l’esistenza di Omero, non osò sottoporre alla sua
critica il mito di Adamo e le tradizioni bibliche e il dogma della provvidenza e la missione del cristianesimo, lasciando grandi ombre nelle sue pitture. Vedi la coscienza moderna rilucere nel mondo pagano, ardita nelle sue
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negazioni e nelle sue spiegazioni, e, quando sta per entrare nel mondo inquieto e appassionato de’ vivi, chiudere gli occhi per non vedere. Ciò che è proprio de’
grandi pensatori; aprire le grandi vie, stabilire le grandi
premesse, e lasciare a’ discepoli le facili conseguenze.
Come Cartesio, Vico non indovinò i formidabili effetti
che doveano uscire dalle sue speculazioni. Cartesio
avrebbe rinnegati per suoi Spinosa e Locke, e Vico Condorcet, Herder ed Hegel. Poichè si occupa più degli antichi che de’ moderni, più de’ morti che de’ vivi, i vivi lo
dimenticarono. La sua Scienza parve più una curiosa
stranezza di erudito, che una profonda meditazione di
filosofo, e non fu presa sul serio.
Intanto il secolo camminava con passo sempre più celere, tirando le conseguenze dalle premesse poste nel secolo decimosettimo. La scienza si faceva pratica, e scendeva in mezzo al popolo. Non s’investigava più: si
applicava, e si divulgava. La forma usciva dalla calma
scientifica, e diveniva letteraria; le lingue volgari cacciavano via gli ultimi avanzi del latino. Il trattato e la dissertazione divenivano memorie, lettere, racconti, articoli,
dialoghi, aneddoti; forme scolastiche e forme geometriche davano luogo al discorso naturale, imitatore del linguaggio parlato. La scienza prendeva aria di conversazione, anche negli scrittori più solenni come Buffon e
Montesquieu, conversazione di uomini colti in sale eleganti. Per dirla con Vico, la «sapienza riposta» diveniva
«sapienza volgare», e, scendendo nella vita, prendeva le
passioni e gli abiti della vita: ora amabile e spiritosa, come in Fontenelle, ora limpida, scorrevole, facile, come
in Condillac e in Elvezio; ora rettorica e sentimentale,
come in Diderot. Il «dritto naturale» di Grozio generava
il Contratto sociale, la società era dannata in nome della
natura, e l’erudita dissertazione di Grozio ruggiva nella
forma ardente e appassionata di Rousseau. Lo scettici-
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smo un po’ impacciato di Bayle, velato fra tante cautele
oratorie, si apriva alla schietta e gioiosa malizia di Voltaire. L’erudizione e la dimostrazione gittavano le loro
armi pesanti e divenivano un amabile senso comune. La
scienza diveniva letteratura, e la letteratura a sua volta
non era più serena contemplazione, era un’arma puntata
contro il passato. Tragedie, commedie, romanzi, storie,
dialoghi, tutto era pensiero militante che dalle alte cime
della speculazione scendeva in piazza tra gli uomini, e si
propagava a tutte le classi e si applicava a tutte le quistioni. Le sue forme, filosofia, arte, critica, filologia, erano macchine di guerra e la macchina più formidabile fu
l’Enciclopedia. Condorcet proclamava il progresso. Diderot proclamava l’ideale. Elvezio proclamava la natura.
Rousseau proclamava i dritti dell’uomo. Voltaire proclamava il regno del senso comune. Vattel proclamava il
dritto di resistenza. Smith glorificava il lavoro libero.
Blackstone rivelava la Carta inglese. Franklin annunziava la nuova «carta» all’Europa. La società sembrava un
caos, dove la filosofia dovea portare l’ordine e la luce.
Una nuova coscienza si formava negli uomini, una nuova fede. Riformare secondo la scienza istituzioni, governi, leggi e costumi, era l’ideale di tutti, era la missione
della filosofia. I filosofi acquistarono quella importanza
che ebbero al secolo decimosesto i letterati. Maggiore
era la fede in questo avvenire filosofico, e più viva era la
passione contro il presente. Tutto era male, e il male era
stato tutto opera maliziosa di preti e di re, nell’ignoranza
de’ popoli. «Superstizione», «pregiudizio», «oppressione» erano le parole, che riassumevano innanzi alle moltitudini tutto il passato. «Libertà, uguaglianza, fraternità
umana» erano il verbo, che riassumeva l’avvenire. Tutto
il moto scientifico dal secolo decimosesto in qua aveva
acquistata la semplicità di un catechismo. La rivoluzione
era già nella mente.
Che cosa era la rivoluzione? Era il Rinnovamento che
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
si scioglieva da ogni involucro classico e teologico, e acquistava coscienza di sè, si sentiva tempo moderno. Era
il libero pensiero che si ribellava alla teologia. Era la natura che si ribellava alla forza occulta, e cercava ne’ fatti
la sua base. Era l’uomo che cercava nella sua natura i
suoi dritti e il suo avvenire. Era una nuova forza, il popolo, che sorgeva sulle rovine del papato e dell’impero.
Era una nuova classe, la borghesia, che cercava il suo
posto nella società sulle rovine del clero e dell’aristocrazia. Era la nuova «carta», non venuta da concessioni divine o umane, ma trovata dall’uomo nel fondo della sua
coscienza, e proclamata in quella immortale Dichiarazione de’ dritti dell’uomo. Era la libertà del pensiero, della
parola, della proprietà e del lavoro, l’eguaglianza de’
dritti e de’ doveri. Era la fine de’ tempi divini ed eroici e
feudali, il rivelarsi di quella «età umana», così ammirabilmente descritta da Vico. Il medio evo finiva: cominciava l’evo moderno.
E che cosa era questa vecchia società, soprapposta a
tutto il resto? Ci era alla cima il papato assoluto e la monarchia assoluta, che si pretendevano amendue di dritto
divino, ed erano stampati sullo stesso modello. Il papato
pretendea ancora al dominio universale, ma in parola e
conscio della scemata possanza. Pur si facea valere mediante i gesuiti, e mantenea vigorosamente la sua influenza e la sua giurisdizione in tutti gli Stati. Come re, il
papa governava in modi così assoluti come tutti i monarchi. L’assolutismo dominava in tutta Europa. Quello
che era la corte romana al Cinquecento, erano allora tutte le corti: scostumatezza, dissipazione, ignoranza. I
conventi screditati, chiamati «covi del vizio», «asilo
dell’ozio e dell’ignoranza». Il clero, scemato di coltura e
di riputazione, aumentato di numero e di ricchezza. I
vescovi, adulatori in corte, tiranni nelle diocesi, signori
feudali. I nobili, a’ piedi del trono, e co’ piedi sopra i
vassalli. Altare e trono, appoggiati sul clero e sulla no-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
biltà: lì era la libertà, lì era il dritto; tutto il resto era poco o meno che cosa, e valeva assai poco. La fonte del
dritto era nella concessione papale o sovrana: era investitura, privilegio, immunità, esenzione. Le leggi erano
un caos. Leggi romane, longobarde, canoniche, feudali,
usi, costumanze. Un altro caos erano le imposte. Ce
n’erano del papa, del clero, de’ baroni, del re, sotto molti nomi e molte forme. Che cosa era il popolo? Materia
«taillable et corvèable a merci». Nessuna sicurezza per le
proprietà e le persone, nessuna protezione nelle leggi,
nessuna guarentigia nei giudizi, secrete le procedure,
sproporzionate e arbitrarie le pene. Si può dire di quella
vecchia società quello che allora già si diceva della proprietà feudale. Era manomorta, l’uomo così immobilizzato, come la terra. La palude non era solo nel territorio,
era nel cervello.
Dirimpetto a queste classi privilegiate, cristallizzate
dal dommatismo, cioè a dire da un complesso d’idee
ammesse per tradizione e fuori di ogni discussione, sorgeva lo scetticismo della borghesia, che tutto ponea in
dubbio, di tutto facea discussione. La borghesia faceva
in grandi proporzioni quello che prima compirono i comuni italiani. Era il «medio ceto», avvocati, medici, architetti, letterati, artisti, scienziati, professori, prevalenti
già di coltura, che non si contentavano più di rappresentanze nominali, e volevano il loro posto nella società.
Non è già che si affermassero anch’essi come classe, e
volessero privilegi. Volevano libertà per tutti, uguaglianza di dritti e doveri, parlavano in nome di tutto il popolo. Qui era il progresso. Ma nel fatto erano essi la classe
predestinata, e in buona fede, parlando per tutti, lavoravano per sè. La loro arma di guerra era lo scetticismo.
Alla fede e all’autorità opponevano il dubbio e l’esame.
Oggi è moda declamare contro lo scetticismo. Pure non
dobbiamo dimenticare che di là uscì l’emancipazione
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
del pensiero umano. Esso cancellò l’intolleranza religiosa, la credulità scientifica, e la servilità politica.
Il movimento, che usciva dalle fila della borghesia,
non era solo popolare, cioè nelle sue idee e nelle sue tendenze comune a tutte le classi, ma era ancora cosmopolitico, o, come si dice oggi, «internazionale». L’accento
era umano, più che nazionale. L’America e l’Europa si
abbracciavano in un linguaggio che esprimeva idee e
speranze comuni; lo svizzero, l’olandese, il francese, il
tedesco, l’inglese parevano nati nello stesso paese, educati alle stesse idee. Il movimento era universale nel suo
obbiettivo e nel suo contenuto. L’obbiettivo erano tutte
le classi e tutte le nazioni. Il contenuto era non solo una
riforma religiosa, politica, morale e civile, ma un radicale mutamento nelle stesse condizioni economiche della
società, ciò che oggi direbbesi «riforma sociale», correndo nel suo lirismo sino alla comunione de’ beni. Nato
dal costante lavoro di tre secoli, il movimento per la sua
universalità contenea in idea o in germe tutta la storia
futura del mondo pel corso di molti secoli. Pure, ciò che
era appena un principio, sembrava esser la fine: tanto
parea cosa facile effettuare di un colpo tutto il programma.
Dove il movimento si mostrava più energico e concentrato, e di natura assolutamente cosmopolitica, era in
Francia. Ed essendo la lingua francese già molto divulgata, la propaganda era irresistibile. Nelle altre nazioni
appariva appena, e nelle sue forme più modeste.
La forma più temperata di questo movimento era
l’antica lotta tra papato e impero, divenuta lotta giurisdizionale tra la corte romana e le monarchie. In questo
terreno i novatori avevano per sè i principi, e all’ombra
loro spandevano le nuove idee. I giureconsulti stavano
per antica tradizione coi principi, e difendevano i loro
dritti contro la Chiesa con una dottrina ed un acume
non scevro di sottigliezza sofistica: erano i liberali di
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
quel tempo, e fu loro opera che le nuove idee si dilatassero nella classe colta. Nel campo avverso erano i gesuiti, inframmettenti, intolleranti, che invelenivano la lotta
e ne allargavano le proporzioni. Erano essi lo sprone che
stuzzicava l’ingegno. In quel contrasto si formò Paolo
Sarpi; da quel contrasto uscirono le Provinciali di Pascal, e il giansenismo e la scuola di Portoreale e le libertà
gallicane, preludi di quel movimento, che prendeva allora in Francia proporzioni così vaste. Ma in Italia il movimento iniziato con tanta larghezza e ardire nel Cinquecento, arrestato e snaturato dalla reazione trentina, si
manteneva ancora in quella forma, era lotta giurisdizionale tra papa e principi. Il pensiero era ito molto innanzi, ma in pochi o tra pochi: ci erano fantasie solitarie;
mancava l’eco, non ci era ancora la moltitudine. Ma il
movimento in quella forma così circoscritta guadagnava
terreno, e costituiva un vero partito politico, intorno al
quale stava schierata tutta la borghesia. Era un liberalismo a buon mercato, via a fortuna e favori principeschi,
quando rimaneva in quei limiti, e, attaccando curia e gesuiti, si mostrava riverente al papa e alla Chiesa. In Napoli la coltura avea preso questo aspetto, e mentre il
buon Vico fantasticava una storia dell’umanità e andava
col pensiero così lungi, fervea la lotta giurisdizionale,
dov’erano principali attori giureconsulti eminenti, Capasso, D’Andrea, D’Aulisio, Argento, Pietro Giannone.
I gesuiti cercavano appoggio nell’ignoranza popolare, e
li predicavano empi e nemici del papa. L’avevano principalmente contro il Giannone, e tanto gli aizzarono
contro il minuto popolo, che fu più volte a rischio della
vita. Scomunicato dall’arcivescovo, per aver lasciato
stampar la sua Storia senza il suo permesso, riparò a
Vienna, nè osò più tornare a Napoli, ancorchè l’arcivescovo ci avesse avuto torto, e fosse stata ritrattata la scomunica. I giureconsulti sostenevano bastare per la stampa la licenza regia, non avere alcun valore la proibizione
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ecclesiastica, ed essere invalide le scomuniche senza fondamento di ragione. Era il libero esame applicato alla
giurisdizione e agli atti ecclesiastici. E ci era sotto altro,
lo spirito laico che si ridestava, e lo spirito borghese che
si annunziava, il medio ceto, che all’ombra del principe,
interessato anche lui nella lotta, si facea valere così contro la nobiltà, come e più contro il clero.
Da questa lotta uscì la Storia civile del regno di Napoli,
e più tardi il Triregno, di Pietro Giannone. La Storia per
la sua universalità fu tradotta in molte lingue, riguardando principalmente la quistione giurisdizionale, ardente
in tutti gli Stati cattolici. Giannone lasciò gli argomenti e
venne a’ fatti, prendendo il potere temporale fino nelle
origini, e seguendolo ne’ suoi ingrandimenti e nelle sue
usurpazioni. È una requisitoria, tanto più formidabile,
quanto maggiore è la calma dell’esposizione istorica e
l’imparzialità continuamente ostentata dell’erudizione e
della dottrina. Non mancano sarcasmi e punture, ma
protesta sempre che è contro gli abusi e le esorbitanze, e
affetta il maggior rispetto verso le istituzioni. Vedi prominente l’universalità della Chiesa, tutta la comunione
dei fedeli, insino a che sorge usurpatore l’episcopato, assorbito a sua volta dal papato. Il concetto è questo, che
il dritto è nella universalità de’ fedeli: è la democrazia
applicata alla Chiesa. Ma il concetto democratico è annacquato in quest’altro, che i principi, come capi della
società laica, hanno ereditato i suoi dritti. Il popolo sparisce, ed entra in iscena Cesare con quel famoso motto:
«Date a Cesare quel che è di Cesare». I gesuiti ritorcevano l’argomento, sostenendo che la fonte del dritto non è
ne’ principi, ma ne’ popoli. Così democratizzavano i gesuiti per difendere il papato, e democratizzavano i giannonisti per combattere il papato. Erano inconseguenti
gli uni e gli altri, e la vera conseguenza doveva tirarla il
popolo contro il papato e la monarchia assoluta. S’immagini quale propaganda inconscia facevano. Era facile
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
conchiudere, che se la fonte del dritto è nel popolo, sovrana legittima è la democrazia, l’universalità de’ fedeli e
l’universalità de’ cittadini. Il vero padrone mettea il capo fuori, salutando gesuiti e giannonisti come suoi precursori, benemeriti tutti e due, perchè lavoravano gli uni
a scalzare il principato assoluto, gli altri a scalzare il papato assoluto. Erano «istrumenti della provvidenza»,
avrebbe dettoVico, la quale tirava dall’opera loro risultati superiori a’ loro fini.
Si era sempre parlato dell’età primitiva della Chiesa.
Una immagine confusa ne rimanea alle moltitudini, come dell’età dell’oro Dante, Machiavelli, Sarpi, Campanella richiamavano la Chiesa a quei tempi evangelici, più
conformi alla purità del Vangelo. Quello era anche il cavallo di battaglia per gli eretici. Ecco quella età divenuta
storia particolareggiata, accertata e in buono e chiaro
volgare nelle pagine del Giannone. I primi tre secoli della Chiesa sono descritti coll’immaginazione vòlta alla
Chiesa di quel tempo. Scrittore e lettore facevano il paragone. Di mezzo alla narrazione germogliava l’allusione, la confutazione, l’epigramma. Allora la gerarchia era
molto semplice, e non ci erano che vescovi, preti, e diaconi, e i preti non erano soggetti a’ vescovi, ma erano il
loro senato, i loro consiglieri, e alla cima non ci era nessuno che comandasse: comandava il sinodo, l’assemblea
de’ vescovi. La legge era la sacra Scrittura; i provvedimenti presi nei sinodi erano semplici regolamenti per
l’amministrazione delle chiese, e non ci era la ragion canonica,
«la quale, col lungo correr degli anni, emula della ragion civile, maneggiata da’ romani pontefici, ardì non pur pareggiare,
ma interamente sottomettersi le leggi civili».
La Chiesa non avea alcuna giurisdizione: la sua giustizia era chiamata «notio», «iudicium», «audientia», non
«iurisdictio»; ed era censura di costumi, e arbitrato vo-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
lontario. Clero e popolo eleggevano i vescovi, e anche
nell’elezione de’ preti e de’ diaconi clero e popolo vi
avevano lor parte. La Chiesa vivea di offerte volontarie,
non avea stabili, e non decime Ciò che soverchiava, si
dava a’ poveri. Tale era la Chiesa primitiva:
«ma assai mostruosa e con più strane forme sarà mirata
nell’età meno a noi lontane, quando, non bastandole d’avere in
tante guise trasformato lo stato civile e temporale de’ principi,
tentò anche di sottoporre interamente l’imperio al sacerdozio.»
I monaci erano pochi, solitari, e religiosi, ma la corruzione venne subito, e
« non senza stupore scorgerassi come in queste nostre provincie abbiano potuto germogliar tanti e sì vari ordini, fondandovi sì numerosi e magnifici monasteri, che ormai occupano la
maggior parte della repubblica e de’ nostri averi, formando un
corpo tanto considerabile, che ha potuto mutar lo stato civile e
temporale di questo nostro reame.»
Come non avea la Chiesa giustizia contenziosa nè giurisdizione, così non avea foro, nè territorio; perchè ciò
«non dipende dalle chiavi, nè è di diritto divino, ma più
tosto di diritto umano e positivo, procedendo dalla concessione o permissione de’ principi temporali, ai quali
solamente «Dio ha dato in mano la giustizia», come dice
il Salmista: «Deus iudicium suum regi dedit». Nè avea
potere d’imponer pene afflittive di corpo, d’esilio, e
molto meno di mutilazione di membra o di morte; e ne’
delitti più gravi di eresia toccava a’ principi di punire
con temporali pene i delinquenti. Degli abusi della
Chiesa spettava il rimedio a’ principi, che facevano leggi
per porvi un freno, specialmente per gli acquisti de’ beni temporali; e «i padri della Chiesa», come sant’Ambrogio e san Girolamo, «non si dolevano di tali leggi, nè
che i principi non potessero stabilirle, nè lor passò mai
per pensiero che per ciò si fosse offesa l’immunità o li-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
bertà della Chiesa». Federico secondo proibì l’acquisto
de’ beni stabili alle chiese, monasteri, templari ed altri
luoghi religiosi.
«Ma essendosi nel tempo degli Angioini introdotte presso
di noi altre massime, che persuasero non potere il principe rimediare a questi abusi, e riputata perciò la costituzione di Federico empia ed ingiuriosa all’immunità delle chiese si ritornò
a’ disordini di prima. E se la cosa fosse stata ristretta a que’ termini, sarebbe stata comportabile; ma da poi si videro le chiese
e i monasteri abbondare di tanti stati e ricchezze, ed in tanto
numero, che piccola fatica resta loro d’assorbire quel poco ch’è
rimaso in potere de’ secolari.»
Il potere temporale «appartiene allo Stato in corpo»;
ma i principi hanno guadagnata e ottenuta la signoria in
tutt’i paesi del mondo. E, se il romano pontefice e i prelati della Chiesa hanno «potere temporale», non è già
«perchè fosse stato prodotto dalla sovranità spirituale, e fosse una delle sue appartenenze necessarie, ma si è da loro acquistato di volta in volta per titoli umani, per concessioni di principi, o per prescrizioni legittime, non già apostolico iure, come
dice san Bernardo: «Nec enim ille tibi dare quod non habebat,
potuit».
Questo quadro della Chiesa primitiva accompagnato
con tali riscontri ti dà come in iscorcio tutto il processo
della storia. La lotta tra le leggi canoniche e le civili è come il centro di un vasto ordito, che abbraccia tutta la
storia della legislazione, illuminata dalla storia de’ governi e delle mutazioni politiche. Vico e Giannone erano
contemporanei. Giannone era di otto anni più giovane.
Ma non parlano l’uno dell’altro, come non si conoscessero. Pure lavoravano su di un fondo comune, le leggi, e
riuscivano per diversa via alle stesse conclusioni. L’uno
era il filosofo, l’altro lo storico del mondo civile. Tutti e
due avvocati mediocri, profondi giureconsulti. Vico si
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
tenea alto nelle sue speculazioni filosofiche e nelle sue
origini, e non scendeva in mezzo agl’interessi e alle passioni, e passò inosservato. Ma grandissima fu la fama e
l’influenza dell’altro, perchè scende nelle quistioni più
delicate di quel tempo, ed è scrittore militante, animato
dallo stesso spirito de’ combattenti. Parla ardito, e già
con quel motteggio, che era proprio del secolo: sente
dietro di sè tutta la sua classe, e tutti gli uomini colti. La
persecuzione fece di lui un eroe, lo confermò nella sua
via, lo spinse fino al Triregno, la più radicale negazione
del papato e dello spiritualismo religioso, a volerne giudicare da’ sunti. Il manoscritto fu seppellito negli archivi
dell’Inquisizione. Il suo motto era: – Bisogna demolire il
regno celeste –. Non gli basta più la polizia ecclesiastica:
vuole colpire il papato nella sua radice, rompendo il legame che stringe gli uomini al cielo. Fa perciò una storia
del regno celeste, come prima avea fatto una storia delle
leggi ecclesiastiche; e, come questa è il centro di un quadro più vasto, quella è il centro di un quadro che abbraccia tutta l’umanità. Mostrare i dogmi nella loro origine, nelle loro alterazioni, nella loro negazione,
scuotere la fede nel dogma della risurrezione degli uomini: questo fa con grande erudizione e con sottili considerazioni. Ma l’ambiente in Italia non era ancora tale,
che vi potessero trovar favore idee così radicali, elaborate a Vienna e a Ginevra. La coltura avea sviluppato l’ingegno, ma non avea ancora formato il carattere. In
Giannone stesso l’uomo era inferiore allo scrittore. Nè i
tempi erano così feroci nella persecuzione, e così assoluti nella proibizione, che rendessero possibili le disperate
resistenze sino al martirio. Ci era una mezza libertà, e
perciò una mezza opposizione. Ci era il liberalismo del
medio ceto, rivolto contro i baroni e i chierici, favorito
dal sovrano, e perciò in certi limiti cortigiano, ipocrita,
e, come si dice oggi, in guanti gialli. Un saggio delle idee
di quel tempo e di questo modo di opposizione ce lo dà
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il seguente brano di uno scrittore napolitano di quella
età:
«La giusta idea che fossero i chierici ministri del regno del
cielo gli aveva esentati da tutt’i pesi del regno della terra; e la
cura destinata loro delle anime e del culto divino gli ha oltre
misura arricchiti di beni e privilegi in questo mondo. Non è già
nostra intenzione di diminuire in nulla la vantaggiosa opinione
del clero presso il popolo: quEi ministri della religione li rispettiamo nel fondo del cuore. La religione è una delle prime
leggi fondamentali dello Stato; e il senso di tali leggi non deve
mai formare l’oggetto della discussione del semplice cittadino.
Al consiglio del sovrano appartiene il decidere delle loro inutilità e vantaggi; siccome la sua suprema potestà ne crea o depone i ministri, ne fissa o sospende l’esercizio, i riti, le funzioni,
ne spiega o vela le dottrine, o le vendica, altera ed abroga,
conformemente a’ lumi che su di ciò la divinità, di cui è il rappresentante, gl’ispira. Dico la «divinità», perchè altrimenti che
significherebbe quel «Dei gratia rex»? Ascoltare e ubbidire, ecco in questo caso il dovere del suddito. Ma la religione, e soprattutto la vera religione, ordina agli uomini di amarsi, vuole
che ciaschedun popolo abbia le migliori leggi politiche, le migliori leggi civili. Ella impone a’ suoi ministri l’osservanza di
queste leggi. Essi devono dare l’esempio: la loro condotta è la
base della purità delle coscienze de’ popoli. Ma, parlando a
cuore aperto, hanno eglino da più secoli mai dato, o danno tuttora un tale esempio? Le loro immunità personali, l’esenzione
de’ loro beni da’ tributi, le giurisdizioni usurpate, gl’immensi
acquisti sorpresi, la maniera rigogliosa con la quale hanno sempre sostenuto tali giurisdizioni ed acquisti, le dottrine bizzarre
da loro insegnate a tal fine, e tanti altri loro pretesi privilegi,
dritti e riguardi non sono nel fondo tante manifeste infrazioni
delle leggi politiche e civili? Essi sono troppo ragionevoli onde
volere sottrarsi all’evidenza di questo argomento. Noi non parliamo a’ sacerdoti di Cibele o di Bacco, e molto meno ai preti
di Hume e di Rousseau: noi ci lusinghiamo di ragionare co’ ministri della vera religione, e fra questi soprattutto con quei
d’Italia, li quali si son quasi sempre distinti per l’affabilità e
dolcezza del loro carattere, non meno che per l’aborrimento
pel bigottismo e l’intolleranza. Non vi ha una contea, baronia o
altro simile feudo, non vi ha una rendita stabile e fissa, un’abitazione comoda e decorosa destinata a compensare i sudori di
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
un ministro di Stato, di un presidente, di un consigliere o di un
generale; dove tanti guardiani, priori, vescovi ed abati possedono sotto questo titolo de’ pingui feudi e rendite fisse intatte da’
pesi de’ sovrani ed intangibili, e le loro abitazioni fanno scorno
a quelle de’ principi. I frati, comechè giurino solennemente di
osservare una maggior povertà del clero secolare, sono andati
più oltre nell’accumulare, e han tolto a’ poveri secolari i mezzi
da potere sussistere. In coscienza potrebbono essi occupare
nell’università le cattedre, nella Corte le cariche, nelle parrocchie i pulpiti, e fino nelle case l’intendenza degli affari domestici? Potrebbero senz’arrossire far da speziale, da mercante e da
banchiere? In quanto al loro numero, è divenuto così eccessivo, che, se i principi non vi mettono presto rimedio, il loro vortice inghiottirà l’intiero Stato. Onde viene che il minimo villaggio d’Italia debba esser retto da cinquanta o sessanta preti,
senza contare gl’iniziati di altro rango. Le città vi pullulano di
campanili e i conventi fanno ombra al sole. Vi ha in qualcheduna di esse venticinque conventi di frati o suore di san Domenico, sette collegi di gesuiti, altrettante case di teatini, una ventina o trentina di monasteri di frati francescani, forse cinquanta
altri di diversi ordini religiosi di ambi i sessi, e più di quattro o
cinquecento altre chiese e cappelle di minor conto; ma non vi
sono all’incontro che trentasei smilze parrocchie, verun osservatorio astronomico, verun’accademia di pittura, di scoltura,
di architettura, di chirurgia, di agricoltura e di altre arti e scienze, veruna buona fabbrica di panni o di tele, veruna buona manifattura di seta o di cotone, veruna biblioteca appartenente al
pubblico, verun orto botanico o gabinetto di curiosità naturali
o teatro anatomico, veruna cura per rendere i porti netti, le
strade comode ed agiate, gli alberghi propri e le città illuminate, il commercio più vivo. Pensano i chierici di dover sempre
sentire i comodi della società senza mai sentirne alcun peso?
che la bilancia penderà sempre a lor favore? che non vi sarà
mai da sperar l’equilibrio?»
Pittura viva di quel tempo nelle sue idee e nel suo linguaggio Si sente a mille miglia il laico, il borghese e l’avvocato. Il sovrano è per lui l’infallibile. Dovere del suddito è «ascoltare» e «ubbidire». Rispetta la religione; ha
il maggiore ossequio verso i suoi ministri; li accarezza
anche; e fra tante dolcezze che botte da orbo! Il suo di-
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spetto è che quelli sieno così ricchi; e lui, cioè loro, fra
tante strettezze. Se anche loro avessero un feudo, passi.
Ci si vede l’effetto della coltura. Il confronto fra tante
chiese e conventi, e tanta negligenza di scienze, arti, industrie e commerci, è eloquente. Si sente il progresso
dello spirito con un carattere ancora volgare. L’animo è
ancora servile, lo spirito si è emancipato. Tali erano i
giureconsulti, da’ quali usciva il movimento liberale, in
quella forma un po’ grottesca, tra l’insolenza verso il
prete e la servilità verso il sovrano. Pure, teneri com’erano delle leggi, doveano essere portati naturalmente, per
necessità della loro professione, a combattere l’arbitrio
non solo ne’ chierici, ma anche ne’ laici, e a promovere
una monarchia non più assoluta, ma legale, se non liberale. Questa tendenza è già manifesta in Giannone.
Adora le leggi romane, ma adora innanzi tutto la legge,
ed è inesorabile verso l’arbitrio:
«Fin da’ primi tempi – egli dice – della repubblica niente altro bramavasi dalla licenziosa gioventù romana, salvo che non
esser governati dalle leggi, ma che dovesse al re ogni cosa rimettersi ed al suo arbitrio, Né ciò per altra ragione se non per
quella che... vien rapportata da Livio: «Regem hominem esse, a
quo impetres, ubi ius, ubi iniuria opus sit. Leges rem surdam,
inexorabilem esse». Sentimenti pur troppo licenziosi e dannevoli. Meglio sarà che nella repubblica abbondino le leggi, che
rimetter tutto all’arbitrio de’ magistrati.»
Così la quistione ecclesiastica si allargava, e diveniva
quistione legale, combattere l’arbitrio sotto ogni forma.
Le usurpazioni de’ nobili e de’ chierici erano contrastate
come illegittime, contrarie alle leggi politiche e civili. E
del pari erano biasimati gli atti arbitrari nelle autorità secolari, e anche nel monarca. In questo pendio si andava
molto innanzi. Arbitrio erano non solo gli atti fuori delle
leggi, ma le leggi stesse non conformi a giustizia ed
equità. Gli scrittori cominciarono a notare tutt’i disordini e abusi nelle leggi civili e criminali, e i principi lascia-
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vano dire, perchè non si toccava della forma de’ governi,
nè era messa in dubbio la loro potestà, anzi si facea loro
appello per isradicare gli abusi. Il moto liberale in Italia
non veniva dalla filosofia o da «ragioni metafisiche», come dicea Giannone, ma da un intimo sentimento di legalità e di giustizia. Al Cinquecento il motto de’ riformatori era la «corruttela de’ costumi». Allora fu
l’«ingiustizia delle leggi». Quel moto era religioso ed etico, questo era politico, quello stesso moto sviluppato
nelle sue premesse e allargato nelle sue conseguenze.
Il movimento, rimasto in gran parte speculativo e senza immediate applicazioni in Bruno, in Campanella, in
Vico, quasi ancora un’utopia, allargandosi nella classe
colta, si concretava nello scopo e ne’ mezzi, per opera
principalmente de’ giureconsulti. Scopo era combattere
i privilegi ecclesiastici e feudali in nome dell’eguaglianza, combattere l’arbitrio in nome della legge, e riformare
la legge in nome della giustizia e dell’equità. La leva era
il principato civile, elemento laico, legale e riformatore,
sul quale si appoggiavano le speranze de’ novatori. Le
idee erano sviluppate con grande erudizione, con molta
sottigliezza d’interpretazioni e di argomentazioni, come
di gente avvezzata alle dispute forensi. In Germania il
movimento era appena spuntato, rimasto nelle alte regioni della speculazione. Il sensismo di Locke avea generato lo scetticismo di Hume, e n’era nata una nuova
speculazione sull’intelletto umano, una filosofia o una
critica dell’intelletto, del quale Locke avea scritta la storia. Kant e poi Fichte concentravano lo spirito in quegli
ardui problemi, e attendevano a gittare profonde le radici prima di alzare l’albero; pensavano alla base, sulla
quale dovea sorgere la civiltà nazionale. Di questi filosofi in Italia era appena penetrato Locke, e in una traduzione mutilata dalla censura. Il movimento, come si andava sviluppando nell’Inghilterra e in Germania, aveva
appena qualche eco in Italia, anzi anche colà penava a
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farsi via, dominato dagl’influssi francesi. La Francia era
la grande volgarizzatrice delle idee dal secolo anteriore
elaborate: era non la dimostrazione, ma l’epilogo; non la
ricerca, ma la formola; non la speculazione, ma l’applicazione; la scienza già assodata ne’ suoi princìpi e divenuta catechismo, in una forma letteraria e popolare, che
rendeva la propaganda irresistibile. La negazione giungeva all’ultima sua efficacia nell’ironia bonaria di Voltaire, con tanto buon senso sotto tanta malizia. L’affermazione giungeva alla precisione di un catechismo in
Rousseau, che combatteva quella società convenzionale
in nome della società naturale, dalla quale scaturivano i
dritti dell’uomo, il suffragio universale e la sovranità del
popolo. Già la sua non era quasi più una speculazione
filosofica: era una bibbia, filosofia divenuta sentimento,
e calata nell’immaginazione. Montesquieu sollevava i
più ardui problemi di politica e di legislazione, in una
forma incisiva, la quale, più che scienza, era sapienza
condensata e formolata. Intorno a questi centri si aggruppavano gli enciclopedisti, e una moltitudine di
scrittori diversi d’ingegno e di coltura, ma tenuti tutti a
quel tempo grandi uomini. Ben presto non ci fu più uomo colto in Italia che non li leggesse avidamente.
Abbondarono i «filosofi», i «filantropi» e gli «spiriti
forti», i nuovi nomi de’ liberali o degli uomini nuovi, o
novatori. I filosofi erano filantropi o amici dell’uomo, o
umanitari, e insieme spiriti forti o liberi pensatori, che in
nome della ragione o della scienza condannavano tutto
ciò che nelle idee o ne’ fatti se ne allontanava. La loro
azione pubblica era avvalorata dalle associazioni secrete
de’ franchi muratori, mossi dagli stessi fini e dagli stessi
sentimenti. Emancipare il pensiero e l’azione da ogni
ostacolo esteriore, religioso o sociale, uguagliare giuridicamente le classi, provvedere all’istruzione e al benessere delle classi inferiori, queste erano le basi del nuovo
edificio che si voleva costruire. Credevasi che tutto que-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
sto si potesse ottenere con articoli di leggi, a quel modo
che avevano fatto Solone, Licurgo, Numa. E blandivano
i sovrani, e li predicavano istrumenti provvidenziali per
il rinnovamento del mondo. Si formò una pubblica opinione, il cui centro era Parigi, la cui voce erano i filosofi.
Seguire la pubblica opinione, fare alcune riforme secondo i dettami de’ filosofi era un mezzo di governo, un
modo di acquistarsi fama e popolarità a buon mercato,
come era nel secolo decimosesto il proteggere letterati e
artisti. Il gran delitto del secolo, il violento attentato alla
nazionalità polacca rimase seppellito sotto quel nembo
di fiori che i filosofi sparsero sulla memoria di Elisabetta
e Caterina seconda, di Maria Teresa e Giuseppe secondo e di Federico secondo, i cortigiani e i corteggiati di
Voltaire, di D’Alembert, di Raynal, e degli enciclopedisti. Nè voglio già dire che fossero riformatori solo per
calcolo: chè sarebbe calunniare la natura umana. Riforme benefiche, e non pericolose alla loro autorità, anzi
buone a rafforzarla, le facevano volentieri, cospirando
insieme l’utile proprio e l’interesse pubblico: il calcolo si
accompagnava col desiderio del bene, col piacere delle
lodi, e con l’intima persuasione, imbevuti com’erano
delle stesse idee. Il simile avveniva in Italia. I principi
gareggiarono nelle riforme, Carlo terzo e Ferdinando
quarto, Maria Teresa e Giuseppe secondo, Leopoldo,
Carlo Emmanuele, e fino papa Ganganelli, che alla pubblica opinione offerse in olocausto i gesuiti. I filosofi,
domandando in nome della libertà e della uguaglianza
l’abolizione di tutt’i privilegi feudali, ecclesiastici, comunali, provinciali, e di ogni distinzione di classi, o di ordini sociali, avevano seco i principi, che lottavano appunto
da gran tempo per conseguire questo scopo, fondando il
loro potere assoluto sulla soppressione di ogni libertà o
privilegio locale. Fin qui filosofia e monarchia assoluta
andavano di conserva. Lo stesso accordo era per le riforme economiche, amministrative e giuridiche, come sem-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
plicizzare le imposte, unificare le leggi, svincolare la proprietà, promovere l’industria e il commercio e l’agricoltura, assicurare contro l’arbitrio la vita e le sostanze de’
cittadini. I principi ci stavano, e qual più, qual meno
erano innanzi in quella via. Pensavano che, fiaccato il
clero e la nobiltà, sciolte le maestranze, rimosse tutte le
resistenze locali, sarebbe rimasta nelle loro mani la signoria assoluta, assicurata da’ due nuovi ordigni che
succedevano a quella compagine disfatta del medio evo,
la burocrazia e l’esercito. E non pensavano che i princìpi
da cui movevano quelle riforme, e che costituivano la
pubblica opinione, menavano a conseguenze più lontane, essendo impossibile che abolendo i privilegi rimanesse salvo il privilegio più mostruoso, ch’era la monarchia assoluta e di dritto divino, e che, frenando l’arbitrio
ne’ preti, ne’ baroni e ne’ magistrati, potessero essi governare a lungo co’ biglietti regi e i motupropri. Erano
conseguenze inevitabili, che presto o tardi avrebbero
condotta la rivoluzione anche se la Francia non ne avesse dato l’esempio. Ma per allora nessuno ci badava, e si
procedeva allegramente nelle riforme, persuasi tutti che
bastassero ministri «illuminati» e principi «paterni» per
potere pacificamente e per gradi rinnovare la società.
Gli scrittori non impediti, anzi incoraggiati e protetti, lasciavano le speculazioni astratte, e trattavano i problemi
più delicati e di applicazione immediata con quella sicurezza che veniva e dall’applauso pubblico e dalla benevolenza de’ principi, «direttori della pubblica felicità».
Beccaria dice:
«I grandi monarchi, i benefattori dell’umanità, che ci reggono, amano le verità esposte dall’oscuro filosofo,... e i disordini
presenti... sono la satira e il rimprovero delle passate età, non
già di questo secolo e de’ suoi legislatori.»
E Filangieri con entusiasmo meridionale così con-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
chiude il libro secondo della sua Scienza della legislazione:
«Il filosofo dee essere l’apostolo della verità e non l’inventore de’ sistemi. Il dire che «tutto si è detto» è il linguaggio di coloro che non sanno cosa alcuna produrre, o che non hanno il
coraggio di farlo. Finchè i mali che opprimono l’umanità non
saranno guariti; finchè gli errori e i pregiudizi che li perpetuano troveranno de’ partigiani; finchè la verità conosciuta da pochi uomini privilegiati sarà nascosta alla maggior parte del genere umano; finchè apparirà lontana da’ troni; il dovere del
filosofo è di predicarla, di sostenerla, di promuoverla, d’illustrarla. Se i lumi ch’egli sparge non sono utili pel suo secolo e
per la sua patria, lo saranno sicuramente per un altro paese.
Cittadino di tutti i luoghi, contemporaneo di tutte le età, l’universo è la sua patria, la terra è la sua scuola, i suoi contemporanei e i suoi posteri sono i suoi discepoli.»
La filosofia è già oltrepassata. Non la si dimostra più,
è un antecedente generalmente ammesso. Lo scopo non
è fare una filosofia, inventare un sistema. Lo scopo è un
apostolato, propagare e illustrare la filosofia, cioè la verità conosciuta da pochi uomini privilegiati. È la verità
annunziata con tuono di oracolo, col calore della fede,
come facevano gli apostoli. È una nuova religione. Ritorna Dio tra gli uomini. Si rifà la coscienza. Rinasce
l’uomo interiore. E rinasce la letteratura. La nuova
scienza già non è più scienza: è letteratura.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
XX
LA NUOVA LETTERATURA
L’ uomo che rappresenta lo stato di transizione tra la
vecchia e la nuova letteratura è Metastasio. L’antica letteratura, non essendo oramai più che forma cantabile e
musicabile, ha come ultima espressione il dramma in
musica, dove non è più fine, ma mezzo: è melodia, e serve alla musica. Ma non vi si rassegna, e vuol conservare
la sua importanza, rimanere letteratura. Quest’ultima
forma della vecchia letteratura è Metastasio.
La sua vita si stende dal 1698 al 1782. Vincenzo Gravina che l’educò, a quel modo che richiamava lo studio
delle leggi alle fonti romane illustrandole, e tentando
una prima filosofia del dritto, voleva ritirare l’arte alla
greca semplicità, purgandola della corruzione seicentistica, e scrisse tragedie a modo di Sofocle, e tentò una
teoria dell’arte che chiamò Ragion poetica. Il buon uomo
vedea il male, ma non le sue cause e non i suoi rimedi.
La semplicità è la forma della vera grandezza, di una
grandezza inconscia e divenuta natura. Niente era più
contrario al secolo, manierato e pretensioso al di fuori,
vacuo al di dentro. Per combattere il manierismo, Gravina soppresse il colorito e vi supplì con la copia delle
sentenze morali e filosofiche. L’intenzione era buona;
parea volesse dire: – Cose e non parole –. Nè altra è la
tendenza della sua Ragion poetica, dove il vero è rappresentato come sostanza dell’arte, e il vero ignudo, non
«condito in molli versi». Così, volendo esser semplice,
riuscì arido. La teoria non era nuova, anzi era la vecchia
teoria di Dante ringiovanita dal Tasso; ma parve nuova
in un tempo che lo sforzo dell’ingegno era tutto intorno
alla frase. Metastasio fu educato secondo queste idee. Il
severo pedagogo gli proibì la lettura del Tasso e de’ poeti posteriori, lo ammaestrò di buon’ora nel greco e nel
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
latino, e lo volse allo studio delle leggi, vagheggiando se
stesso redivivo in un Metastasio giureconsulto e letterato. Ma il giovine era poeta nato. E morto il Gravina, si
gettò avidamente sul frutto proibito, e la Gerusalemme
Liberata, l’Aminta, il Pastorfido, soprattutto l’Adone, furono il suo cibo. Quella prima educazione classica non
gli fu inutile, perchè lo avvezzò alla naturalezza e alla
semplicità, e lo nutrì di buoni esempi e di solida dottrina. Ma, lasciato a sè medesimo, si sviluppò in lui, come
in tutti quelli che hanno ingegno, il senso della vita contemporanea. Il maestro volea farne un tragico a uso greco, o piuttosto a uso suo. Ma la tragedia non era la sua
vocazione, e l’autore del Giustino preferì Ovidio a Sofocle, e, come era moda, fece la sua comparsa trionfale in
Arcadia con sonetti, canzonette, idilli, i cui eroi d’obbligo erano Cloe, Nice, Fille, Tirsi, Irene e Titiro. Il Sogno
della gloria è l’ultimo lavoro a uso Gravina, ammassato
di sentenze che sono luoghi comuni, e pieno di reminiscenze classiche e dantesche. Il Ritorno della primavera,
scritto l’anno appresso, 1719, ti mostra già i vestigi
dell’Aminta e dell’Adone, facilmente impressi in
quell’anima ricca di armonie e d’immagini. L’ideale del
tempo era l’idillio, il riposo e l’innocenza della vita campestre, in antitesi alla vita sociale, così come l’avevano
sviluppato il Tasso, il Guarini e il Marino. L’idillio era
un certo equilibrio interiore, uno stato di pace e di soddisfazione a cui il dolore serviva come di salsa. L’Arcadia, volendo riformare il gusto, avea tolto all’idillio quella tensione intellettuale che si chiamava il «seicentismo»,
sì che la forma era rimasta una pura effusione musicale
dell’anima beatamente oziosa, cullata da molli cadenze
tra l’elegiaco e il voluttuoso: ciò che dicevasi «melodia».
La musica penetrava già in questa forma così apparecchiata a riceverla, e la canzone diveniva la canzonetta la
cantata e l’arietta, e il dramma pastorale diveniva il
dramma in musica. Le canzonette del Rolli erano in
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
molta voga, ma già si disputava quale ne facesse di migliori, o il Metastasio o il Rolli. Sciupata l’eredità del
Gravina, il nostro Metastasio, visto che l’Arcadia non gli
dava pane, ricordò i consigli del maestro, e andò a Napoli col proposito di far l’avvocato. Ma Napoli era già il
paese della musica e del canto. E le sue arringhe furono
cantate ed epitalami. In occasione di nozze prima si scrivevano sonetti e canzoni: allora erano in voga epitalami,
cantate e feste teatrali. Il Metastasio fu poeta di nozze, e
restano di lui tre epitalami, storie mitologiche e idilliche,
dove è visibile l’imitazione del Tasso e del Marino. Canta le nozze di Antonio Pignatelli e Anna de’ Sangro, evocando gli amori di Venere e Marte, a’ quali intreccia gli
amori degli sposi, e naturalmente Anna è Venere, e Antonio è Marte. Vi trovi il monte dell’Amore, che ricorda
il giardino di Armida, e tutto il vecchio repertorio mitologico, immagini e concetti. Ecco come descrive Anna:
Se in giro in liete danze il passo mena,
se tace o ride, o se favella o canta,
porta in ogni suo moto Amore accolto,
Pallade in seno e Citerea nel volto.
Vicino al lato suo siedono al paro
con la dolce consorte il genitore,
coppia gentil d’illustre sangue e chiaro,
vivi esempli di senno e di valore:
alme che prima in ciel si vagheggiaro,
e poi quaggiù le ricongiunse Amore:
e dier tal frutto, che non vede il sole
più nobil pianta e più leggiadra prole.
Sono ottave mediocrissime e poco limate, ma dove già
trovi facilità di verso e di rima e molta chiarezza. Un’ottava, dove descrive Anna che canta, rivela nell’evidenza
e nel brio del colorito una certa genialità:
La voce pria nel molle petto accolta,
con maestra ragion spigne o sospende;
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ora in rapide fughe e in groppi avvolta,
velocissimamente in alto ascende;
ora in placido corso e più disciolta,
soavissimamente in giù discende;
i momenti misura, annoda e parte,
e talor sembra fallo, ed è tutt’arte.
Qui lascia le solite generalità, entra nel vivo de’ particolari, e vi mostra la forza di chi sa già tutto dire e nel modo più felice. Gli epitalami non sono in fondo che idilli,
col solito macchinismo, Amore, Venere, Marte, Diana,
Minerva, Vulcano. Nè altro sono le prime sue azioni teatrali, rappresentate in Napoli, come la Galatea, l’Endimione, gli Orti Esperidi, l’Angelica. Diamo un’occhiata
all’Angelica. Di rincontro a’ protagonisti, Angelica e Orlando, stanno Licori e Tirsi. C’è il solito antagonismo tra
la città e la campagna, la scaltrezza di Angelica e l’ingenuità di Licori: onde nasce un intrighetto che riesce nel
più schietto comico. Le furie di Orlando non possono
turbare la pace idillica diffusa su tutto il quadro, e lo
stesso Orlando finisce idillicamente:
Torna, torna ad amarmi e ti perdono.
Aurette leggiere
che intorno volate,
tacete, fermate,
chè torna il mio ben.
Angelica lascia per sempre quegli ameni soggiorni con
quest’arietta:
Io dico all’antro – Addio! –
ma quello al pianto mio
sento che, mormorando:
– Addio! – risponde.
Sospiro, e i miei sospiri
ne’ replicati giri
Zeffiro rende a me
da quelle fronde.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
La canzonetta di Licori, penetrata di una malinconia
dolce e molle, è già canto e musica, una pura esalazione
melodica, una espressione sentimentale rigirata in se
stessa, come un ritornello:
Ombre amene,
amiche piante,
il mio bene,
il caro amante
chi mi dice ove ne andò?
Zeffiretto lusinghiero
a lui vola messaggiero.
di’ che torni e che mi renda
quella pace che non ho.
Concetti e immagini oramai comunissime, senza più alcun valore letterario, e rimaste interessanti solo come
combinazioni melodiche. L’effetto non è nelle idee, ma
in quel canto di due amanti a una certa lontananza e nascosti tra le fronde; perchè, mentre Licori cerca Tirsi,
Tirsi cerca Licori con la stessa melodia:
La mia bella
pastorella,
chi mi dice ove ne andò?
È notabile che in questa cheta atmosfera idillica penetra
una cert’aria di buffo, un certo movimento vivace e allegro, come è la dichiarazione amorosa di Licori a Orlando, ascoltatore non visto Tirsi.
La Bulgarelli, celebre cantante, che negli Orti Esperidi rappresentava la parte di Venere, prese interesse al
giovane autore, e lo addestrò in tutt’i misteri del teatro.
Il maestro Porpora gl’insegnò la musica. Questa fu la seconda educazione di Metastasio, corrispondente alla sua
vocazione. Roma ne avea fatto un arcade. Napoli ne fece
un poeta. La Didone abbandonata, scritta sotto l’ispira-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
zione e la guida della Bulgarelli, fissò l’opinione, e Metastasio prese posto d’un tratto accanto ad Apostolo Zeno, che tenea il primato, poeta cesareo alla corte di
Vienna. Più tardi, a proposta dello stesso Zeno, occupò
egli quell’ufficio, e menò a Vienna vita pacifica e agiata,
universalmente stimato, e tenuto senza contrasto principe della poesia melodrammatica. La sua vita fu un idillio, e se questo è felicità, visse felicissimo sino alla tarda
età di ottantaquattro anni. Vivo ancora, fu divinizzato.
Lo chiamarono il «divino Metastasio».
Se guardiamo al meccanismo, il suo dramma è congegnato a quel modo che avea già mostrato Apostolo Zeno. Ma il meccanismo non è che la semplice ossatura.
Metastasio spirò in quello scheletro le grazie e le veneri
di una vita lieta e armoniosa. E fu il poeta del melodramma, di cui lo Zeno era stato l’architetto.
La sua idea fissa fu di costruire il melodramma come
una tragedia, tale cioè che anche senz’accompagnamento musicale avesse il suo effetto. E la sua ambizione fu di
lasciare le basse regioni dell’idillio e del buffo, e tentare i
più alti e nobili argomenti del «genere tragico», come se
la nobiltà fosse nell’argomento. Questo si vede già nella
Didone e nel Catone in Utica. Più tardi volle gareggiare
co’ grandi poeti francesi, e il Cinna di Corneille ebbe il
suo riscontro nella Clemenza di Tito, e l’Atalia di Racine
nel Gioas. Su questa via porse il fianco alla critica, e sorsero dispute se e fino a qual punto i suoi drammi fossero
tragedie. Ed ecco in mezzo l’inevitabile Aristotele e le
famose quistioni delle unità drammatiche. Metastasio si
mescolò nella contesa, e nell’Estratto dell’«Arte poetica»
di Aristotile addusse indirettamente argomenti in suo favore. La critica era ancora così impastoiata nell’esterno
meccanismo, che molti seriamente domandarono come
potesse esser tragedia un dramma, che aveva soli tre atti.
A Metastasio pareva quasi una degradazione scendere
dall’alto seggio di poeta tragico, ed essere rilegato fra’
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
melodrammatici. Pregiudizio instillatogli dal Gravina,
che non vedea di là dalla tragedia classica. La Merope
del Maffei, che allora levava molto rumore, l’offuscava,
e nol lasciava dormire la gloria di Corneille e di Racine.
Ranieri de’ Calsabigi, celebre per la polemica ch’ebbe
poi con Alfieri intorno al Filippo, sosteneva che quei
drammi fossero proprie e vere tragedie. E nella medaglia, che dopo la sua morte i Martinez fecero incidere in
suo onore, si leggeva questo motto: «Sophocli Italo». Ma
il pubblico, che lo idolatrava, si ostinò a chiamare le sue
opere teatrali non tragedie, e neppur melodrammi, ma
drammi, come quelli che avevano un valore in sè, anche
fuori della musica. E il pubblico avea ragione. Sono una
poesia già penetrata e trasformata dalla musica, ma che
si fa ancora valere come poesia. Stato di transizione, che
dà una fisonomia al nostro «Sofocle». Più tardi, quei
drammi, come letteratura paiono troppo musicali, e ne
nasce la reazione di Alfieri; come musica paiono troppo
letterari, e ne nasce la reazione del melodramma in due
atti. Si potrebbe conchiudere che perciò appunto quei
drammi sono cosa imperfetta, troppo musicali come
poesia, e troppo poetici come musica: perciò abbandonati dalla musica, e offuscati dalla nuova letteratura. Il
che avviene facilmente a chi sta tra due e non ha chiara
coscienza di quello che vuol fare.
Pure è certo che quei drammi ebbero al lor tempo un
successo maraviglioso, e che anche oggi, in una società
così profondamente mutata, producono il loro effetto. È
noto l’entusiasmo di Rousseau e l’ammirazione di Voltaire per questo poeta. In Italia i critici, dopo un breve
armeggiare, gli s’inchinarono, tratti dall’onda popolare.
Certi luoghi, che fanno sorridere il critico, movono oggi
ancora il popolo, gli tirano applausi. Nessun poeta è stato così popolare, come il Metastasio, nessuno è penetrato così intimamente nello spirito delle moltitudini. Ci è
dunque ne’ suoi drammi un valore assoluto, superiore
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
alle occasioni, resistente alla stessa critica dissolvente del
secolo decimonono.
Gli è che quella sua oscura coscienza, quel distacco
tra quello che vuol fare e quello che fa, quella poesia che
non è ancora musica e non è più poesia, è non capriccio,
pregiudizio o pedanteria individuale, ma la forma stessa
del suo genio e del suo tempo. Perciò non è costruzione
artificiosa, come la tragedia del Gravina o il poema del
Trissino, ma è composizione piena di vita, che nella sua
spontaneità produce risultati superiori alle intenzioni
del compositore. Ciò ch’egli vi mette con intenzione e
con coscienza, non è il pregio, ma il difetto del lavoro. E
intorno a questo difetto arzigogolavano lui e i critici.
Se vogliamo gustarlo, facciamo come il popolo. Non
domandiamo cosa ha voluto fare, ma cosa ha fatto, e abbandoniamoci alla schiettezza delle nostre impressioni.
Anche il critico, se vuol ben giudicare, dee abbandonarsi alla sua spontaneità, come l’artista.
Prendiamo il primo suo dramma, la Didone. Volea fare una tragedia. Studiò l’argomento in Virgilio, e più in
Ovidio. Ma andate a fare una tragedia con quell’uomo e
con quella società. Non capiva che a quella società e a
lui stesso mancava la stoffa da cui può uscire una tragedia. Fare una tragedia con la Bulgarelli consigliera, con
maestro Porpora direttore, con quel Sarro compositore,
e col pubblico dell’Angelica e degli Orti Esperidi, e in
presenza della sua anima elegiaca, idillica, melodica, impressionabile e superficiale, come il suo pubblico! Ne
uscì non una tragedia, che sarebbe stata una pedanteria
nata morta, ma un capolavoro, tutto caldo della vita che
era in lui e intorno a lui, e che anche oggi si legge con
avidità da un capo all’altro. La Didone virgiliana è sfumata. Le reminiscenze classiche sono soverchiate da impressioni fresche e contemporanee. Sotto nome di «Didone» qui vedi l’Armida del Tasso, messa in musica. La
donna olimpica o paradisiaca cede il posto alla donna
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
terrena, come l’ha abbozzata il Tasso in questa tra le sue
creature la più popolare, dalla quale scappan fuori i più
vari e concitati moti della passione femminile, le sue
smanie e le sue furie. Ma è un’Armida col comento della
Bulgarelli, alla cui ispirazione appartengono i movimenti comici penetrati in questa natura appassionata, com’è
nella scena della gelosia, applauditissima alla rappresentazione. Una Didone così fatta non ha niente di classico,
qui non ci è Virgilio, e non Sofocle: tutto è vivo, tutto è
contemporaneo. La passione non ha semplicità e non ha
misura, e nella sua violenza rompe ogni freno, perde
ogni decoro. Se in Didone fosse eminente il patriottismo, il pudore, la dignità di regina, l’amore de’ suoi, la
pietà verso gl’iddii, se in lei fosse più accentuata l’eroina, il contrasto sarebbe drammatico, altamente tragico.
Ma l’eroina c’è a parole, e la donna è tutto: la passione,
unica dominatrice, diviene come una pazzia del cuore,
cinica e sfrontata sino al grottesco, e scende dritta la scala della vita sino alle più basse regioni della commedia.
Al buon Pindemonte danno fastidio alcuni tratti comici,
e non vede che sotto forme tragiche la situazione è sostanzialmente comica sicchè, se in ultimo Enea si potesse rappattumare con l’amata, sarebbe il dramma, con
lievi mutazioni, una vera commedia. E non già una commedia costruita artificialmente, ma colta dal vero, perchè è la donna come poteva essere concepita in quel
tempo, ispirata dalla Bulgarelli e da quel pubblico
nell’anima conforme del poeta, e contro le sue intenzioni, e senza sua coscienza.
A Metastasio, che voleva fare una tragedia, dire che aveva partorito una commedia in forma tragica, sarebbe
stato come dire una bestemmia. Il comico è in quei sì e
no della passione, in quei movimenti subitanei, irrefrenabili, che scoppiano improvvisi e contro l’aspettazione,
nell’irragionevole, spinto sino all’assurdo, negl’intrighi e
nelle scaltrezze, di bassa lega, più da donnetta che da re-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
gina, e tutto così a proposito, così naturale, con tanta vivacità, che il pubblico ride e applaude, come volesse dire: – È vero. – Fu per il poeta un trionfo. Alcuni motti
rimasero proverbiali, come:
Temerario! Ch’ei venga!
Quando allora allora avea detto:
mai più non mi vedrà quell’alma rea.
O come:
Passato è il tempo, Enea,
che Dido a te pensò.
La sua sortita contro Arbace, quasi nello stesso punto
che gli aveva promessa la sua mano, quel cacciar via da
sè Osmida e Selene nella cecità del suo furore, le sue
credulità, le sue dissimulazioni, le sue astuzie, tutto ciò è
tanto più comico, quanto è meno intenzionale, contemperato co’ moti più variati di un’anima impressionabile
e subitanea: sdegni che son tenerezze, e minacce che sono carezze. C’è della Lisetta e della Colombina sotto
quel regio manto. E tutto il quadro è conforme. Iarba
con le sue vanterie e le sue pose rasenta il bravo della
commedia popolare; Selene, ch’è l’«Anna, soror mea»,
rappresenta la parte della «patita», con molta insipidezza; e il pio Enea nella sua parte di amoroso attinge il più
alto comico, massime quando Didone lo costringe a tenerle la candela. Il nodo stesso dell’azione ha l’aria di un
intrigo di bassa commedia, co’ suoi equivoci e i suoi incontri fortuiti.
La Didone fece il giro de’ teatri italiani. E dappertutto
piacque. Metastasio indovinava il suo pubblico, e trovava se stesso. Quel suo dramma, a superficie tragica, a
fondo comico, coglieva la vita italiana nel più intimo,
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quel suo contrasto tra il grandioso del di fuori e la vacuità del di dentro. Il tragico non era elevazione
dell’anima, ma una semplice fonte del maraviglioso, così
piacevole alla plebe, come incendii, duelli, suicidii. Il comico riconduceva quelle magnifiche apparenze di una
vita fantastica nella prosaica e volgare realtà, piccoli intrighi, amori pettegoli, stizze, braverie. Concordare elementi così disparati, fondere insieme fantastico e reale,
tragico e comico, sembra poco meno che impossibile:
pure qui è fatto con una facilità piena di brio e senz’alcuna coscienza, com’è la vita nella sua spontaneità. L’illusione è perfetta. Una vita così fatta pare un’assurdità:
pure è là, fresca, giovane, vivace, armonica, e t’investe e
ti trascina. Il povero Metastasio, inconscio del grande
miracolo, si difendeva con Aristotile e con Orazio; alle
vecchie critiche si aggiunsero le nuove. Oggi la ragione e
l’estetica condannano quella vita, come convenzionale e
incoerente. Ma essa è là, nella sua giovanezza immortale,
e le basta rispondere: – Io vivo. – E, se l’estetica non
l’intende, tanto peggio per l’estetica.
Metastasio aveva tutte le qualità per produrre quella
vita. Brav’uomo, buon cristiano, nel suo mondo interiore ci erano tutte le virtù, ma in quel modo tradizionale e
abituale ch’era possibile allora, senza fede, senza energia, senza elevatezza d’animo, perciò senza musica e senza poesia. Così erano Vico e Muratori, bonissima gente,
ma senza quella fiamma interiore, dove si scalda il genio
del filosofo e del poeta. Erano personaggi idillici, veneranda immagine di una società tranquilla e prosaica. Vico agitava i più grandi problemi sociali con la calma di
un erudito. E si comprende come la poesia si cercasse in
quel tempo fuori della società, nell’età dell’oro e nella
vita pastorale. Ma nessuno può fuggire alla vita che lo
circonda. Patria, religione, onore, amore, libertà operavano in quella vita posticcia, come in quella pacifica società, con perfetto riposo ed equilibrio dell’anima. Me-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
tastasio, che cercava la tragedia con la testa, era per il carattere un arcade, tutto Nice e Tirsi, tutto sospiri e tenerezze. Da questa natura idillica poteva uscire l’elegia,
non la tragedia. Aveva, come il Tasso, grande sensibilità,
molta facilità di lacrime, ma superficiale sensibilità, che
poteva increspare, non turbare il suo mondo sereno.
Non si può dir che la sua sensibilità fosse malinconia, la
quale richiede una certa durata e consistenza: era emozione nata da subitanei moti interni, e che passava con
quella stessa facilità che veniva. Questo difetto di analisi
e di profondità nel sentimento manteneva al suo mondo
il carattere idillico, non lo trasformava, ma lo accentuava e lo coloriva nel suo movimento; perchè l’idillio senza
elegia è insipido. Una immaginazione non penetrata dalla serietà di un mondo interiore, appena ventilata dal
sentimento, scorre leggiera su questo mondo idillico, e
vi annoda e snoda una folla di accidenti, che gli danno
varietà e vivacità. Sembrano sogni che svaniscono appena formati, ma con tale chiarezza plastica ne’ sentimenti
e nelle immagini, che vi prendi la più viva partecipazione. Il poeta vi s’intenerisce, vi si trastulla, vi si dimentica:
Sogni e favole io fingo; e pure in carte
mentre favole e sogni orno e disegno,
in lor, folle ch’io son, prendo tal parte,
che del mal che inventai piango e mi sdegno.
Di sogni e favole ce n’era tutto un arsenale nelle nostre infinite commedie e novelle, dove attingevano anche i forestieri, e dove attinge Metastasio. Ciò a cui mira
è sorprendere, fare un colpo di scena, guidato dalla sua
grand’esperienza del teatro e del pubblico. Ingegno svegliato e rapido, non perde mai di vista lo scopo, non
s’indugia per via, divora lo spazio, sopprime, aggruppa,
combina, producendo effetti subitanei e perciò irresistibili. Combinazioni drammatiche, che appunto perchè
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mirano a uno scopo meramente teatrale, mancano di serietà interiore, e spesso hanno aria d’intrighi comici, con
que’ viluppi, con quegli equivoci, con quei parallelismi.
Nè solo il comico è nella logica stessa di quelle combinazioni, ma nella natura de’ fatti, che spesso sono episodi
della vita comune nella sua forma più pettegola e civettuola. Così un eroico puramente idillico andava a finire
ne’ bassi fondi della commedia. Cesare sonava il violino
e faceva all’amore. Tale era Metastasio, e tale era il suo
tempo, idillico, elegiaco e comico, vita volgare in abito
eroico, vellicata dalle emozioni dell’elegia e idealizzata
nell’idillio.
Si può ora comprendere il meccanismo del dramma
metastasiano. Sta in cima l’eroe o l’eroina, Zenobia o Issipile, Temistocle o Tito. L’eroe ha tutte le perfezioni
che la poesia ha collocate nell’età dell’oro, e sveglia
l’eroismo intorno a sè, rende eroici anche i personaggi
secondari. Più l’età è prosaica, più esagerato è l’eroismo,
abbandonato a una immaginazione libera, che ingrandisce le proporzioni a arbitrio, con non altro scopo che di
eccitare la maraviglia. Il maraviglioso è in questo, che
l’eroe è un’antitesi accentuata e romorosa alla vita comune, offrendo in olocausto alla virtù tutt’i sentimenti
umani, come Abramo pronto a uccidere il figlio. Così
Enea abbandona Didone per seguire la gloria, Temistocle e Regolo vanno incontro a morte per amor della patria, Catone si uccide per la libertà, Megacle offre la vita
per l’amico, e Argene per l’amato. Questa forza di soffocare i sentimenti umani e naturali, che regolano la vita
comune, era detta «generosità» o «magnanimità», «forza» o «grandezza di animo», com’è il perdono delle offese, il sacrificio dell’amore, o della vita. Situazione tragica se mai ce ne fu, anzi il fondamento della tragedia.
Ma qui rimane per lo più elegiaca, feconda di emozioni
superficiali, momentanee e variate, che in ultimo sgombrano a un tratto e lasciano il cielo sereno. La generosità
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degli uni provoca la generosità degli altri, l’eroismo opera come corrente elettrica, guadagna tutt’i personaggi, e
tutto si accomoda come nel migliore de’ mondi, tutti
eroi e tutti contenti. Di questa superficialità che resta
ne’ confini dell’idillio e dell’elegia, e di rado si alza alla
commozione tragica, la ragione è questa, che la virtù vi è
rappresentata non come il sentimento di un dovere preciso e obbligatorio per tutti, corrispondente alla vita
pratica, ma come un fatto maraviglioso, che per la sua
straordinarietà tolga il pubblico alla contemplazione
della vita comune. Perciò è una virtù da teatro, un eroismo da scena. Più le combinazioni sono straordinarie,
più le proporzioni sono ingrandite, e più cresce l’effetto.
I personaggi posano, si mettono in vista, sentenziano, si
atteggiano, come volessero dire: – Attenti! Ora viene il
miracolo. – Temistocle dice:
... ... Sentimi, o Serse;
Lisimaco, m’ascolta; udite, o voi,
popoli spettatori,
di Temistocle i sensi; e ognun ne sia
testimonio e custode.
In questo meccanismo trovi sempre la collisione, il contrasto tra l’eroismo e la natura. L’eroismo ha la sua sublimità nello splendore delle sentenze. La natura ha il
suo patetico nelle tenere effusioni dei sentimenti. Ne nasce un urto vivace di sentimenti e di sentenze, con alterna vittoria e con crescente sospensione, come nel soliloquio di Tito; insino a che natura ed eroismo fanno la
loro riconciliazione in un modo così inaspettato e straordinario, com’è tutto l’intrigo. Tito fa condurre Sesto
all’arena, deliberato già di perdonargli: non basta la
virtù, vuole lo spettacolo e la sorpresa. Questa, che a noi
pare una moralità da scena, era a quel tempo una moralità convenuta, ammessa in teoria, ammirata, applaudita,
a quel modo che le romane battevano le mani ai gladia-
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tori che morivano per i loro begli occhi. Si direbbe che
Tito facesse il possibile per meritarsi gli applausi del
pubblico. Appunto perchè questo eroismo non aveva
una vera serietà di motivi interni e non veniva dalla coscienza, quel mondo atteggiato all’eroica aveva del comico, ed era possibile che vi penetrasse senza stonatura
la società contemporanea nelle sue parti anche buffe e
volgari. Prendiamo l’Adriano. Vincitore de’ Parti, proclamato imperatore, Adriano si trova in una delle situazioni più strazianti, promesso sposo di Sabina, amante
di Emirena figlia del suo nemico, e rivale di Farnaspe,
l’amato di Emirena. Situazione molto avviluppata, e che
diviene intricatissima per opera di un quarto personaggio, Aquilio, confidente di Adriano, amante secreto di
Sabina, e che perciò fomenta la passione del suo padrone. Emirena per salvare il padre offre la mano ad Adriano. La generosità di Emirena eccita la generosità di Sabina, che scioglie Adriano dalla data fede. La generosità
di Sabina eccita la generosità di Adriano, che libera il
padre di Emirena, rende costei al suo amato, e sposa Sabina. E tutti felici, e il coro intuona le lodi di Adriano.
Ma guardiamo in fondo a questi personaggi eroici.
Adriano è una buona natura d’uomo, tutt’altro che eroica, voltato in qua e in là dalle impressioni, mobile, superficiale, credulo, in somma un buon uomo che rasenta
l’imbecille. Non è lui che opera: egli è il paziente, anzi
che l’agente del melodramma, e come colui che dà ragione a chi ultimo parla, dà sempre ragione all’ultima
impressione. Si trova eroe per occasione, un eroe così
equivoco, che impedisce ad Emirena di baciargli la mano, tremando di una nuova impressione. Maggiori pretensioni all’eroismo ha Osroa, il re de’ Parti, reminiscenza di Iarba. Un patriota, che appicca l’incendio alla
reggia, che uccide un creduto Adriano, che è condannato a morte, che supplica la figlia di ucciderlo, sarebbe un
carattere interessantissimo, se nel pubblico e nel poeta
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ci fosse il senso del patriottismo. Ma Osroa ha più
dell’avventuriere che dell’eroe, e di un avventuriere
sciocco e avventato, che non sa proporzionare i mezzi
allo scopo, e nelle situazioni più appassionate della vita
discute, sentenzia. A Emirena, la sua figlia, che ricusa di
ucciderlo, risponde:
Non è ver che sia la morte
il peggior di tutt’i mali:
è il sollievo de’ mortali
che son stanchi di soffrir.
È una caricatura di Iago, un basso e sciocco intrigante
da commedia. Sabina, Emirena, Farnaspe sono nature
superficialissime, incalzate dagli avvenimenti, senza intima energia negli affetti, e tratte ad atti generosi per impeti subitanei. Se dunque ci approfondiamo in questo
mondo eroico, vediamo con quanta facilità si sdrucciola
nel comico e come, sotto un contrasto apparente, in verità questa vita eroica è in se stessa di quella mezzanità,
che può accogliere nel suo seno il volgare e il buffo della
società contemporanea. Di tal natura è la scena in cui
Emirena finge di non riconoscere il suo innamorato, che
rimane lì stupido e col naso allungato; o l’altra in cui
Aquilio insegna ad Emirena l’arte della cortigiana, ed
Emirena, botta e risposta, gli fa il ritratto del cortigiano;
o quando Adriano si fa menare pel naso da Osroa, o
l’arrivo improvviso di Sabina da Roma, e l’imbarazzo di
Adriano, o quando Adriano giura di non vedere più
Emirena, e gli si annunzia: – Vieni Emirena. – Tutto
questo, che in fondo è comico, non è sviluppato comicamente, nè c’è l’intenzione comica; perciò non c’è stonatura: è la società contemporanea nel suo spirito, nella
sua volgarità e mezzanità, vestita di apparenze eroiche.
Se Metastasio avesse il senso dell’eroico, e lo rappresentasse seriamente e profondamente, la mescolanza sarebbe insopportabile, anzi mescolanza non ci sarebbe; ma
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concepisce l’eroico come era concepito e sentito in quella volgarità contemporanea. Il poeta è in perfetta buona
fede; non sente ciò che di basso e di triviale è sotto
quell’apparato eroico, uno di spirito e di carattere col
suo pubblico. Ben ne ha una coscienza confusa, e non è
proprio contento, e tenta talora alcun che di più elevato,
come nel Regolo e nel Gioas, senza riuscirvi: si scopre
l’antico Adamo. E fu ventura, perchè così non ci die’ costruzioni artificiose e imitazioni aliene dalla sua natura,
ma riuscì artista originale e geniale, l’artista indimenticabile di quella società.
Questa vita così assurda nella sua profondità ha tutta
l’illusione del vero nella sua superficie. Approfondire i
sentimenti, sviluppare i caratteri, graduare le situazioni
sarebbe una falsificazione. La superficialità è la sua condizione di esistenza. È una vita, di cui vedi le punte e
ignori tutto il processo di formazione, una specie di vita
a vapore, che nella rapida corsa divora spazi infiniti e
non ti mostra che i punti di arrivo. Sbucciano sentimenti e situazioni così di un tratto, e spesso ti trovi di un balzo da un estremo all’altro. Sei in un continuo flutto
d’impressioni variatissime, di poca durata e consistenza,
libate appena, con sentimenti vivacissimi, penetranti gli
uni negli altri, come onde tempestose. Scusano questa
superficialità con la musica, quasi che la musica potesse
o compiere, o sviluppare, o approfondire i sentimenti;
ma la musica metastasiana non era se non il prolungamento e l’eco del sentimento, il semplice trillo della poesia, il suo accompagnamento, perchè quella poesia è già
in sè musica e canto. Una vita così superficiale non può
essere che esteriore. È vita per lo più descritta, come già
si vede nel Guarini e nel Marino. I personaggi nella
maggior violenza de’ loro sentimenti si descrivono, si
analizzano, com’è proprio di una società adulta, in cui la
riflessione e la critica ti segue nel momento stesso
dell’azione. Ti trovi nel più acuto della concitazione; e
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quando alla fine ti aspetti quasi un delirio, ti sopraggiunge un’analisi, una sentenza, un paragone, una descrizione psicologica. Licida snuda il brando; vuole uccidere il suo offensore; poi lo volge in sè, e si arresta, e fa
la sua analisi:
Rabbia, vendetta,
tenerezza, amicizia,
pentimento, pietà, vergogna, amore
mi trafiggono a gara. Ah chi mai vide
anima lacerata
da tanti affetti e sì contrari. Io stesso
non so come si possa
minacciando tremare, arder gelando,
piangere in mezzo all’ire,
bramar la morte e non saper morire.
Il drammatico va a riuscire in un sonetto petrarchesco.
Aristea così si descrive a Megacle:
Caro, son tua così,
che per virtù d’amor
i moti del tuo cor
risento anch’io.
Mi dolgo al tuo dolor,
gioisco al tuo gioir,
ed ogni tuo desir
diventa il mio.
E Megacle, seguendo l’amico Licida nella sua sventura,
esce in questo bel paragone:
Come dell’oro il fuoco
scopre le masse impure,
scoprono le sventure
de’ falsi amici il cor.
Questi riposi musicali sono come l’arpa di David, che
calmava le furie di Saul: rinfrescano l’anima e la tengono
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in equilibrio fra passioni così concitate. E sono sopportabili, appunto perchè mescolati co’ moti più vivaci, con
la più impetuosa spontaneità del sentimento, offrendoti
lo spettacolo della vita nelle sue più varie apparenze. Argene che sfida la morte per salvare l’amato, e si sente alzare su di sè, come invasata da un iddio, è sublime:
Fiamma ignota nell’alma mi scende;
sento il nume; m’inspira, mi accende,
di me stessa mi rende maggior.
Ferri, bende, bipenni, ritorte,
pallid ’ombre, compagne di morte,
già vi guardo, ma senza terror.
Commovente è la gioia quasi delirante di Aristea nel rivedere l’amato. Di un elegiaco ineffabile è il cànto di Timante, quando la madre gli presenta il suo bambino:
Misero pargoletto,
il tuo destin non sai.
Ah! Non gli dite mai
qual era il genitor.
Come in un punto, o Dio,
tutto cambiò d’aspetto!
Voi foste il mio diletto,
voi siete il mio terror.
Alcuni motti tenerissimi sono rimasti proverbiali, come:
Ne’ giorni tuoi felici ricordati di me.
Questa vita nei suoi moti alterni di spontaneità e di riflessione così equilibrata, essendo superficiale ed esteriore, ha per suo carattere la chiarezza, è visibile e plastica. Le gradazioni più fine, i concetti più difficili sono
resi con una estrema precisione di contorni, e perciò
non hanno riverbero: appagano e saziano lo sguardo, lo
tengono sulla superficie, non lo gittano nel profondo.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Questa chiarezza metastasiana, tanto vantata e così popolare perchè il popolo è tutto superficie, è la forma
nell’ultimo stadio della sua vita, quando a forza di precisione diviene massiccia e densa come il marmo. La vecchia letteratura vi raggiunge l’ultima perfezione;
l’espressione perde ogni trasparenza, e non è che se stessa e sola, e vi si appaga, come un infinito. Stato di petrificazione, che oggi dicesi «letteratura popolare», come
se la letteratura debba scendere al popolo, e non il popolo debba salire a lei. Metastasio vi spiega un talento
miracoloso. Quella vecchia forma prima di morire manda gli ultimi splendori. La chiarezza non è in lui superficie morta, ma è la vita nella sua superficie, paga e contenta della sua esteriorità, con una facilità e una rapidità,
con un giuoco pieno di grazia e di brio. Il periodo perde
i suoi giri, la parola perde le sue sinuosità, liscia, scorrevole, misurata come una danza, accentuata come un
canto, melodiosa come una musica. Le impressioni che
te ne vengono, sono vivaci, ma labili, e ti lasciano contento, ma vuoto, come dopo una festa brillante che ti ha
divertito, e a cui non pensi più.
Il mondo metastasiano può parere assurdo innanzi alla filosofia, come innanzi alla filosofia pareva assurda la
società ch’esso rappresentava. Come arte, niente è più
vero per coerenza, per armonia, per interna vivacità. È il
ritratto più finito di una società vicina a sciogliersi, le cui
istituzioni erano ancora eroiche e feudali, materia vuota
dello spirito che un tempo l’animò, e che sotto quelle
apparenze eroiche era assonnata, spensierata, infemminita, idillica, elegiaca e plebea. Guardatela. Essa è tutta
profumata, incipriata, col suo codino, col suo spadino,
cascante, vezzosa, sensitiva come una donna, tutta «idolo mio», «mio bene», e «vita mia». La poesia di Metastasio l’accompagna con la sua declamazione, con la sua
cantilena; la parola non ha più niente a dirle; essa è il
luogo comune, che acquista valore trasformata in trillo,
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con le sue fughe e le sue volate, co’ suoi bassi e i suoi
acuti; non è più un’idea, è un suono raddolcito dagli accenti, dondolato dalle rime, attenuato in quei versetti,
ridotto un sospiro. Una poesia che cerca i suoi mezzi
fuori di sè, che cerca i motivi e i suoi pensieri nella musica, abdica già, pronunzia la sua morte. Ben presto Metastasio sembra troppo poeta al maestro di musica, nè il
pubblico sa più che farsi della parola, e non domanda
cosa dice, ma come suona. La parola, dopo di avere tanto abusato di sè, non val più nulla, e la stessa parola metastasiana, così leggiera, così rapida, non può essere sopportata. La parola è la nota, e i nuovi poeti si chiamano
Pergolese, Cimarosa, Paisiello. Così terminava il periodo musicale della vecchia letteratura, iniziato nel Tasso,
sviluppato nel Guarini e nel Marino, giunto alla sua crisi
in Pietro Metastasio. Oramai si viene a questo, che prima si fa la musica, e poi Giuseppe secondo dice al suo
nuovo poeta cesareo, all’abate Casti: – Ora fatemi le parole. –
In seno a questa società in dissoluzione si formava laboriosamente la nuova società. E che ce ne fosse la forza, si vedeva da questo: che non teneva più gran conto
della forma letteraria, stata suo idolo, e che cercava nuove impressioni nel canto e nella musica. Il letterato, che
aveva rappresentata una parte così importante, cade in
discredito. I nuovi astri sono Farinello e Caffarello, Piccinni, Leo, Iommelli. La musica ha un’azione benefica
sulla forma letteraria, costringendola ad abbreviare i
suoi periodi, a sopprimere il suo cerimoniale e la sua solennità, i suoi aggettivi, i suoi ripieni, le sue perifrasi, i
suoi sinonimi, i suoi parallelismi, le sue trasposizioni,
tutte le sue dotte inutilità, e a prendere un’aria più spedita e andante. Gli orecchi, avvezzi alla rapidità musicale non possono più sopportare i periodi accademici e le
tirate rettoriche. E se Metastasio è chiamato «divino», è
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per la musicalità della sua poesia, per la chiarezza, il brio
e la rapidità dell’espressione. Il pubblico abbandonando
la letteratura, la letteratura è costretta a seguire il pubblico. E il pubblico non è più l’accademia, ancorchè di
accademie fosse ancora grande il numero, prima l’Arcadia. E non è più la corte, ancorchè i principi avessero
ancora intorno istrioni e giullari sotto nome di «poeti».
La coltura si è distesa, i godimenti dello spirito sono più
variati: i periodi e le frasi non bastano più. Compariscono sulla scena filosofi e filantropi, giureconsulti, avvocati e scienziati, musici e cantanti. La parola acquista valore nell’ugola e nella nota, ed è più interessante nelle
pagine di Beccaria, o di Galiani, che ne’ libri letterari.
Oramai non si dice più «letterato», si dice «bell’ingegno» o «bello spirito». Il «letterato» diviene sinonimo di
parolaio, e la parola come parola è merce scadente. La
parola non può ricuperare la sua importanza, se non rifacendosi il sangue, ricostituendo in sè l’idea, la serietà
di un contenuto. E questo volea dire il motto che era già
in tutte le labbra: «Cose e non parole».
Già nella critica vedi i segni di questa grande rigenerazione. Rimasta fino allora nel vuoto meccanismo e tra
regole convenzionali, la critica si mette in istato di ribellione, spezza audacemente i suoi idoli. Mentre ferveva la
lotta giurisdizionale tra papa e principi, e i filosofi combattevano il passato nelle sue idee e nelle sue istituzioni,
essa apre il fuoco contro la vecchia letteratura, battezzandola senz’altro «pedanteria». L’obbiettivo de’ filosofi e de’ critici era comune. Combattevano entrambi la
forma vacua, gli uni nelle istituzioni, gli altri nell’espressione letteraria, ancorchè senza intesa.
E come i filosofi, così i critici erano avvalorati e riscaldati nella loro lotta dagli esempi francesi e inglesi. Il Baretti veniva da Londra tutto Shakespeare; l’Algarotti, il
Bettinelli, il Cesarotti, il Beccaria, il Verri erano in comunione intima con Voltaire e con gli enciclopedisti.
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Locke, Condillac, Dumarsais avevano allargate le idee, e
introdotto il gusto delle grammatiche ragionate e delle
rettoriche filosofiche. Si vede la loro influenza nella Filosofia delle lingue del Cesarotti e nello Stile del Beccaria.
Cosa dovea parere il Crescimbeni, o il Mazzuchelli, o il
Quadrio, cosa lo stesso Tiraboschi, il Muratori della nostra letteratura, dirimpetto a questi uomini, che pretendevano ridurre a scienza ciò che fino allora era sembrato
non altro che uso e regola? E non si contentarono i critici de’ trattati e de’ ragionamenti, ma vollero accostarsi
un po’ più al pubblico, usando forme spigliate e correnti, che preludevano ai nostri giornali. Tali erano le Lettere virgiliane del Bettinelli, la Difesa del Gozzi, la Frusta
letteraria, il Caffè, l’Osservatore. Così la nuova critica dava a un tempo l’esempio di una nuova letteratura, gittando in circolazione molte idee nuove in una forma rapida, nutrita, spiritosa, vicina alla conversazione, in una
forma che prendea dalla logica il suo organismo e dal
popolo il suo tuono. Certo questi critici non si accordavano fra loro, anzi si combattevano, come facevano anche i filosofi; ma erano tutti animati dalla stessa tendenza, uno era lo spirito. E lo spirito era l’emancipazione
dalle regole o dall’autorità, la reazione contro il grammaticale, il rettorico, l’arcadico e l’accademico, e, come
in tutte le altre cose, così anche qui non ammettere altro
giudice che la logica e la natura. Secondo il solito la critica passò il segno, e nella sua foga contro le superstizioni letterarie toccò anche il sacro Dante: onde venne la
bella Difesa che ne scrisse Gaspare Gozzi. Ma la critica
veniva dalla testa, e non aveva radice nell’educazione
letteraria ch’era stata anzi tutto l’opposto. Il che spiega
come i critici, giudici ingegnosi de’ vivi e de’ morti, volendo essere scrittori, facevano mala prova, dando un
po’ di ragione a’ retori e a’ grammatici, i quali, chiamati
da loro «pedanti», chiamavano loro «barbari». Posti tra
il vecchio, che censuravano, ed un nuovo modo di scri-
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vere, chiaro nella loro testa, ma affatto personale, estraneo allo spirito nazionale, e non preparato, anzi contraddetto nella loro istruzione, si gittarono alla maniera
francese, sconvolsero frasi, costrutti, vocaboli, e, come
fu detto poi, «imbarbarirono la lingua». Gaspare Gozzi
tenne una via mezzana, e facendo buona accoglienza in
gran parte alle nuove idee, non accettò sotto nome di libertà la licenza, e si studiò di tenersi in bilico tra quella
pedanteria e quella barbarie, usando un modo di scrivere corretto, puro, classico, e insieme disinvolto. Ma il
buon Gozzi, misurato, elegante, savio, rimase solo, come avviene a’ troppo savi nel fervore della lotta, quando
la via di mezzo non è ancora possibile, standosi di fronte
avversari appassionati, confidenti nella loro forza e disposti a nessuna concessione. Stavano nell’un campo i
puristi, che non potendo invocare l’uso toscano, intorbidato anch’esso dall’imitazione straniera, invocavano la
Crusca e i classici, e, come non era potuta più tollerare
la prolissità vacua del Cinquecento, rimettevano in moda il Trecento, quale esempio di scrivere semplice, conciso e succoso; onde venne quel motto felice: «Il Trecento diceva, il Cinquecento chiacchierava». Costoro
erano, il maggior numero, cruscanti, arcadi, accademici,
puri letterati, tutti brava gente, che avevano in sospetto
ogni novità, e non volevano essere turbati nelle loro abitudini. Nell’altro campo erano i filosofi, che non riconoscevano autorità di sorta e tanto meno quella della Crusca; che invocavano la loro ragione, e vagheggiavano
una nuova Italia così in letteratura, come nelle istituzioni e in tutti gli ordini sociali. I critici rappresentavano la
parte della filosofia nelle lettere, senza occuparsi di politica; anzi spesso la loro insolenza letteraria era mantello
alla loro servilità politica, come fu del gesuita Bettinelli e
del Cesarotti. In prima fila tra’ contendenti erano l’abate
Cesari e l’abate Cesarotti. Il Cesari nella sua superstizione verso i classici cancellò in sè ogni vestigio dell’uomo
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moderno. Il Cesarotti, di molto più spirito e coltura,
nella sua irreligione verso gli antichi andò così oltre, che
volle fare il pedagogo a Omero e Demostene, e andò in
cerca di una nuova mitologia nelle selve calidonie.
Quando comparve l’Ossian, girò la testa a tutti: tanto
eran sazii di classicismo. Il bardo scozzese fu per qualche tempo in moda, e Omero stesso si vide minacciato
nel suo trono. Si sentiva che il vecchio contenuto se ne
andava insieme con la vecchia società, e in quel vuoto
ogni novità era la benvenuta. Quei versi armoniosi e liquidi in tanto cozzo di spade scintillanti tra le nebbie fecero dimenticare i Frugoni, gli Algarotti e i Bettinelli.
Cominciava una reazione contro l’idillio, espressione di
una società sonnolenta e annoiata in grembo a Galatea e
a Clori, e piacevano quei figli della spada, quelle nebbie
e quelle selve, e quei signori de’ brandi, e quelle vergini
della neve. Gli arcadi si scandalizzavano; ma il pubblico
applaudiva. Per vincere Cesarotti non bastava gridargli
la croce: bisognava fare e piacere al pubblico. Ora l’attività intellettuale era tutta dal canto de’ novatori: chi aveva un po’ d’ingegno, «si gittava al moderno», come si diceva, nelle dottrine e nel modo di scrivere, e si
acquistava nome di «bello spirito», dispregiando i classici, come di «spirito forte», dispregiando le credenze. La
vecchia letteratura, come la vecchia credenza, era detta
pregiudizio, e combattere il pregiudizio era la divisa del
secolo illuminato, del secolo della filosofia e della coltura. Chi ricorda l’entusiasmo letterario del Rinascimento,
può avere un giusto concetto di questo entusiasmo filosofico del secolo decimottavo. I fenomeni erano i medesimi. Allora si chiamava «barbarie» il medio evo; ora si
chiama «barbarie» medio evo e Rinascimento. Lo stesso
impeto negativo e polemico è ne’ due movimenti, foriero di guerre e di rivoluzioni. E ci erano le stesse idee,
maturate e sviluppate oltralpe, strozzate presso di noi e
rivenuteci dal di fuori. Anzi il movimento non è che un
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solo, prolungatosi per due secoli con diverse vicissitudini nelle varie nazioni, procedente sempre attraverso alle
più sanguinose resistenze, e ora accentrato e condensato
sotto nome di «filosofia», fatto della letteratura suo
istrumento. Questo volea dire il motto: «Cose e non parole». Volea dire che la letteratura, stata trastullo d’immaginazione, senza alcuna serietà di contenuto, e divenuta perfino un semplice giuoco di frasi, dovea
acquistare un contenuto, essere l’espressione diretta e
naturale del pensiero e del sentimento, della mente e del
cuore: onde nacque più tardi il barbaro vocabolo «cormentalismo». Messa la sostanza nel contenuto,
quell’ideale della forma perfetta, gloria del Rinascimento, e rimasto visibile nelle stesse opere della decadenza,
come nel Pastor fido, nell’Adone, nel dramma di Metastasio, cesse il posto alla forma naturale, non convenzionale, non manifatturata, non tradizionale, non classica,
ma nata col pensiero e sua espressione immediata. Perciò il Cesarotti, rispondendo al libro del conte Napione
Sull’uso e su’ pregi della lingua italiana, sostenea nel suo
Saggio sulla filosofia delle lingue che la lingua non è un
fatto arbitrario, e regolato unicamente dall’uso e dall’autorità, ma che ha in sè la sua ragion d’essere; che la sua
ragion d’essere è nel pensiero, e quella parola è migliore
che meglio renda il pensiero, ancorchè non sia toscana e
non classica, e sia del dialetto, o addirittura forestiera
con inflessione italiana. Cosa era quel Saggio? Era
l’emancipazione della lingua dall’autorità e dall’uso in
nome della filosofia e della ragione, come si volea in tutte le istituzioni sociali; era la ragione, il senso logico, che
penetrava nella grammatica e nel vocabolario; era lo spirito moderno, che violava quelle forme consacrate e fossili, logore per lungo uso, e dava loro un’aria cosmopolitica, l’aria filosofica, a scapito del colore locale e
nazionale. Aggiungendo l’esempio al precetto, il Cesarotti pigliò tutte le parole che gli venivano innanzi, senza
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domandar loro onde venivano, e, come era uomo d’ingegno, e avea mente chiara e spirito vivace, formò di tutti gli elementi stranieri e indigeni della conversazione
italiana una lingua animata, armonica, vicina al linguaggio parlato, intelligibile dall’un capo all’altro d’Italia.
Gli scrittori, intenti più alle cose che alle parole, e stufi
di quella forma in gran parte latina che si chiamava «letteraria», screditata per la sua vacuità e insipidezza, si attennero senza più all’italiano corrente e locale, così
com’era, mescolato di dialetto e avvivato da vocaboli e
frasi e costruzioni francesi: lingua corrispondente allo
stato della coltura. Così si scriveva nelle parti settentrionali e meridionali d’Italia, a Venezia, a Padova, a Milano, a Torino, a Napoli: così scrivevano Baretti, Beccaria,
Verri, Gioia, Galiani, Galanti, Filangieri, Delfico, Mario
Pagano. Resistenza ci era, massime a Firenze, patria della Crusca, e a Roma, patria dell’Arcadia: schiamazzi di
letterati e di accademici abbandonati dal pubblico. Lo
stesso era per lo stile. Si cercavano le qualità opposte a
quelle che costituivano la forma letteraria. Si voleva rapidità, naturalezza e brio. Tutto ciò che era finimento,
ornamento, riempitura, eleganza, fu tagliato via come un
ingombro. Non si mirò più ad una perfezione ideale della forma, ma all’effetto, a produrre impressioni sul lettore, tenendo deste e in moto le sue facoltà intellettive. I
secreti dello stile furono chiesti alla psicologia, a uno
studio de’ sentimenti e delle impressioni, base del Trattato dello stile del Beccaria. Al vuoto meccanismo, dottamente artificioso, solletico dell’orecchio, detto «stile
classico», e ridotto oramai un frasario pesante e noioso,
succedeva un modo di scrivere alla buona e al naturale,
vispo, rotto, ineguale, pieno di movimenti, imitazione
del linguaggio parlato. Tipo dell’uno era il trattato; tipo
dell’altro era la gazzetta. Il principio da cui derivava
quella rivoluzione letteraria, era l’imitazione della natura, o, come si direbbe, il realismo nella sua verità e nella
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
sua semplicità, reazione alla declamazione e alla rettorica, a quella maniera convenzionale, che si decorava col
nome d’«ideale» o di «forma perfetta». La vecchia letteratura era assalita non solo nella sua lingua e nel suo stile, ma ancora nel suo contenuto. L’eroico, l’idillico,
l’elegiaco, che ancora animava quelle liriche, quelle prediche, quelle orazioni, quelle tragedie, non attecchiva
più, se n’era sazii sino al disgusto. L’eroico era esagerazione; l’idillio era noia; l’elegia era insipidezza; pastori e
pastorelle, eroi romani e greci, erano giudicati un mondo convenzionale, già consumato come letteratura, buono al più a esser messo in musica, come facea Metastasio. Si volea rinnovare l’aria, rinfrescare le impressioni,
si cercava un nuovo contenuto, un’altra società, un altro
uomo, altri costumi. Vennero in moda i turchi, i cinesi, i
persiani. Si divoravano le Lettere persiane di Montesquieu. L’Ossian era preferito all’Iliade. Comparve l’uomo naturale, l’uomo selvaggio, l’uomo di Hobbes e di
Grozio, l’uomo che fa da sè, Robinson Crusoè. Il cavaliere errante divenne il borghese avventuriere, tipo Gil
Blas. E ci fu anche la donna errante, la filosofessa, la
«lionne» di oggi, che stimava pregiudizio ogni costume
e decoro femminile. Ci fu l’uomo collocato in società, in
lotta con essa in nome delle leggi naturali, e spesso sua
vittima, come donne maritate o monacate a forza o sedotte, figli naturali calpestati da’ legittimi, poveri oppressi dai ricchi, scienza soverchiata da ciarlatani, le Clarisse, le Pamele, gli Emilii, i Chatterton. Questo nuovo
contenuto, conforme al pensiero filosofico che allora investiva la vecchia società in tutte le sue direzioni, veniva
fuori in romanzi, novelle, lettere, tragedie, commedie,
una specie di repertorio francese, che faceva il giro
d’Italia. Il concetto fondamentale era la legge di natura
in contrasto con la legge scritta, la proclamazione sotto
tutte le forme de’ dritti dell’uomo dirimpetto la società
che li violava. I capiscuola erano Rousseau, Voltaire, Di-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
derot. Seguiva la turba. Tra questi Mercier ebbe molto
séguito in Italia, e vi furono rappresentati i suoi drammi:
il Disertore, l’Amor Familiare, il Jevenal, l’Indigente. Nel
Disertore hai un giovine virtuoso e amabile, che per soccorrere il padre e per amore lascia il suo reggimento, ed
è dannato a morte: è il grido della natura contro la legge
scritta. Nell’Amor familiare è descritta con vivi colori
l’oppressione degli eretici ne’ paesi cattolici. Jeneval è il
contrario della Clarissa: è un don Giovanni femmina,
una Rosalia, che seduce il giovine e inesperto Jeneval fino al delitto. Nell’Indigente è vivo il contrasto tra il ricco
ozioso, libidinoso, corteggiato e potente, che fa mercato
di tutto, anche del matrimonio; e il povero operoso e
virtuoso, disprezzato e oppresso. A contenuto nuovo
nomi nuovi. Commedia e tragedia parve l’uomo mutilato
e ingrandito, veduto da un punto solo ed oltre il naturale. La critica da’ bassi fondi della lingua e dello stile si alzava al concetto dell’arte, alla sua materia e alla sua forma, al suo scopo e a’ suoi mezzi. Iniziatore di quest’alta
critica, che fu detta «estetica», era Diderot. Da lui usciva l’affermazione dell’ideale nella piena realtà della natura, che è il concetto fondamentale della filosofia
dell’arte. L’ideale scendeva dal suo piedistallo olimpico,
e non era più un di là, si mescolava tra gli uomini, partecipava alle grandezze e alle miserie della vita; non era un
iddio sotto nome di uomo, era l’uomo; non era tragedia
e non commedia, era il dramma. La poesia era storia, come la storia era poesia. L’ideale era la stessa realtà, non
mutilata, non ingrandita, non trasformata, non scelta;
ma piena, concreta, naturale, in tutte le sue varietà, la
realtà vivente. La tragedia ammetteva il riso, e la commedia ammetteva la lacrima; s’inventò la «commedia lacrimosa», e la «tragedia borghese». Il nuovo ideale non
era l’idillio o l’eroe de’ tempi feudali: era il semplice
borghese in lotta con la vita e con la società, e che sente
della lotta tutt’i dolori e le passioni. Come il bambino
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entra nel mondo tra le lacrime, così l’ideale uscendo dalla sua astrazione serena entrava nella vita lacrimoso, era
patetico e sentimentale. Le Notti di Young ispiravano
ad Alessandro Verri le Notti romane. Rousseau col suo
sentimentalismo rettorico faceva una impressione così
profonda, come col suo naturalismo filosofico. Questi
concetti e questi lavori, frutto di una lunga elaborazione
presso i francesi, giungevano a noi tutt’in una volta, come una inondazione, destando l’entusiasmo degli uni, le
collere degli altri. Le quistioni di lingua e di stile si elevavano, divenivano quistioni intorno allo stesso contenuto dell’arte: in breve tempo la critica meccanica diveniva psicologica, e la critica psicologica si alzava
all’estetica. La vecchia letteratura, combattuta ne’ suoi
mezzi tecnici, era ancora contraddetta nella sua sostanza, nel suo contenuto. Ritrarre dal vero era la demolizione dell’eroico, com’era concepito e praticato fra noi: cosa divenivano gli eroi di Metastasio? Il patetico e il
sentimentale era la condanna di quegl’ideali oziosi, sereni, noiosi, che costituivano l’idillio: cosa diveniva l’Arcadia? Il teatro, si diceva, non è un passatempo, è una
scuola di nobili sentimenti e di forti passioni: cosa divenivano le commedie a soggetto? Tutto era riforma.
L’abate Genovesi, Verri, Galiani davano addosso al vecchio sistema economico; la vecchia legislazione era combattuta da Beccaria; tutti gli ordini sociali erano in quistione; Filangieri, andando alla base, proponeva la
riforma dell’istruzione e dell’educazione nazionale;
principi e ministri, sospinti dalla opinione, iniziavano
riforme in tutt’i rami dell’azienda pubblica. La vecchia
letteratura non poteva durare così: ci voleva anche per
lei la riforma. Già non produceva più, non destava più
l’attenzione: tutto era canto e musica, tutto era filosofia.
Si concepisce in questo stato degli spiriti il maraviglioso
successo de’ romanzi e delle commedie dell’abate Chiari, che per sostentare la vita adulava il pubblico e gli of-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
friva quell’imbandigione che più desiderava. Sarebbe interessante un’analisi delle infinite opere, già tutte dimenticate, del Chiari, perchè mostrerebbe qual era il genio del tempo. Donne erranti, filosofesse, gigantesse,
figli naturali, ratti di monache, scontri notturni, finestre
scalate, avvenimenti mostruosi, caratteri impossibili, un
eroico patetico e un patetico sdolcinato, una filosofia
messa in rettorica, un impasto di vecchio e di nuovo, di
ciò che il nuovo avea di più stravagante, e di ciò che il
vecchio avea di più volgare: questo era il cibo imbandito
dal Chiari. Il Martelli aveva inventato il verso alla francese, come prima si era inventato il verso alla latina. Parve cosa stupenda al Chiari, e ne fece molto uso, e fino la
Genesi voltò in versi martelliani. Questo impiastricciatore del Chiari è l’immagine di un tempo, che la vecchia
letteratura se ne andava, e la nuova fermentava appena
in quella prima confusione delle menti; sicchè egli ha
tutt’i difetti del vecchio e tutte le stranezze del nuovo.
Ben presto si trovò fra’ piedi Carlo Goldoni, costretto
dalle stesse necessità della vita a servire e compiacere al
pubblico. Per qualche tempo si accapigliarono i partigiani del Chiari e del Goldoni. E tra’ due contendenti
sorse un terzo, che die’ addosso all’uno e all’altro: dico
Carlo Gozzi, fratello di Gaspare. Uscì a Parigi la Tartana degl’influssi, caricatura di due comici:
Il primo si chiamava «Originale»,
ed il secondo «Saccheggio» s’appella...
I partigiani ogni giorno crescevano,
chi vuole Originale e chi Saccheggio;
tutto il paese a romore mettevano...
Il parlar mozzo e lo stare intra due
niente vale per trarsi di tedio:...
dir bisognava: – Saccheggio è migliore, –
ovvero: – Originale è più dottore. –
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Gozzi avea maggior coltura del Chiari e del Goldoni,
era d’ingegno svegliatissimo, avea fatto buoni studi, come il fratello, apparteneva all’accademia de’ Granelleschi, che si proponeva di ristaurare la buona lingua, della quale quei due si mostravano ignorantissimi. Tutto
quel mondo nuovo letterario, predicato con tanta iattanza e venuto fuori con tanta stravaganza, non gli parea
una riforma, gli parea una corruzione, e non solo letteraria, ma religiosa, politica e civile:
Usciti son certi autorevol dotti,
con un tremuoto di nuova scienza,
che han tutti gli scrittori mal condotti.
Tratto il lor, di saper non ci è semenza,
dicono che gli autor morti fur cotti,
e condannano i vivi all’astinenza...
Leggonsi certe nuove «Marianne»,
certi «baron», certe «marchese» impresse,
certe fraschette buse come canne,
e le battezzan poi «filosofesse»,
che il mal costume introducono a spanne:
credo il dimonio al torchio le mettesse.
Chi dice: – Egli è un comporre alla francese. –
Certo è peggior del mal di quel paese.
La sua Marfisa è una caricatura de’ nuovi romanzi, alla
maniera del Chiari. Carlo magno e i paladini diventano
oziosi e vagabondi; Bradamante una spigolistra casalinga; Marfisa, l’eroina, guasta da’ libri nuovi, vaporosa,
sentimentale, isterica, bizzarra, e finisce tisica e pinzochera. La mira era alle donne del Chiari e de’ romanzi in
voga. Gli parea che quel predicar continuo «dritti naturali», «leggi naturali», «religione naturale», «uguaglianza», «fratellanza», dovesse render gli uomini cattivi sudditi, ammaestrandoli di troppe cose, e avvezzandoli a
guardare con invidia al di sopra della loro condizione.
Questo pericolo era più grave, quando massime tali fos-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
sero predicate in teatro, che non era una scola, ma un
passatempo; e invocava contro i predicatori di così nuova morale la severità dei governi. Il povero Chiari non ci
capiva nulla. Goldoni, che era un puro artista, come il
Metastasio, buon uomo e pacifico, e che di tutto quel
movimento del secolo non vedeva che la parte letteraria,
dovea trasecolare a sentirsi dipingere poco meno che un
ribelle, un nemico della società. Vi si mescolarono gl’interessi delle compagnie comiche, che si disputavano furiosamente gli scarsi guadagni. Gozzi difendeva la compagnia Sacchi, tornata di Vienna, e trovato il suo posto
preso dalle compagnie Chiari e Goldoni. Il Sacchi era
l’ultimo di quei valenti improvvisatori comici, che giravano l’Europa e mantenevano la riputazione della commedia italiana a Vienna, a Parigi, a Londra. Musici, cantanti e improvvisatori erano la merce italiana che ancora
avea corso di là dalle Alpi. La commedia a soggetto, alzatasi sulle rovine delle commedie letterarie, accademiche e noiose, era padrona del campo a Roma, a Napoli,
a Bologna, a Milano, a Venezia. Era della vecchia letteratura il solo genere vivo ancora, considerato gloria speciale d’Italia, e solo che ricordasse ancora in Europa
l’arte italiana. Gli attori venuti in qualche fama andavano a Parigi, dov’erano meglio retribuiti. Ma, come a Parigi Molière fondava la commedia francese, combattendo le commedie a soggetto italiane; così a Venezia
Goldoni, vagheggiando a sua volta una riforma della
commedia, l’avea forte con le maschere e con le commedie a soggetto. Questo pareva al Gozzi quasi un delitto
di lesa-nazione, un attentato ad una gloria italiana. La
contesa oggi sembra ridicola, e pare che potevano vivere
in buon’amicizia l’uno e l’altro genere. Ma ci era la passione, e ci era l’interesse, e i sangui si scaldarono, e molte furono le dispute, insino a che Goldoni, cedendo il
campo, andò a Parigi. La sua fama s’ingrandì, e impose
silenzio al Baretti e rispetto al Gozzi, soprattutto quan-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
do Voltaire lo ebbe messo accanto a Molière. Da tutto
quell’arruffio non uscì alcun progresso notabile di critica, essendo i Ragionamenti del Gozzi pieni più di bile
che di giudizio, e vuote e confuse generalità, come di
uomo che non conosca con precisione il valore de’ vocaboli e delle quistioni. Ma ne uscirono i primi tentativi
della nuova letteratura, le commedie del Goldoni e le
fiabe del Gozzi, la commedia borghese e la commedia
popolana.
Carlo Goldoni era, come Metastasio, artista nato. Di
tutti e due se ne volea fare degli avvocati. Anzi Goldoni
fece l’avvocato con qualche successo. Ma alla prima occasione correva appresso agli attori, insino a che il natural genio vinse. Tentò parecchi generi, prima di trovare
se stesso. Zeno e Metastasio erano le due celebrità del
tempo; il dramma in musica era alla moda. Scrisse
l’Amalasunta, il Gustavo, l’Oronte, più tardi il Festino e
qualche altro melodramma buffo; scrisse anche tragedie,
la Rosmonda, la Griselda, l’Enrico, e tragicommedie, come il Rinaldo. Poeta stipendiato di compagnie comiche,
costretto in ciascuna stagione teatrale di dare parecchie
opere nuove, e in una stagione ne die’ sedici, saccheggiò, raffazzonò, tolse di qua e di là ne’ repertori italiani e
francesi, e anche ne’ romanzi. Non ci era ancora il poeta, ci era il mestierante; ci era Chiari, non ci era ancora
Goldoni. Trattava ogni maniera di argomento secondo il
gusto pubblico, commedie sentimentali, commedie romanzesche, come la Pamela, Zelinda e Lindoro, la Peruviana, la Bella selvaggia, la Bella georgiana, la Dalmatina,
la Scozzese, l’Incognita, l’Ircana, raffazzonamenti la più
parte e imitazioni francesi. Scrisse anche commedie a
soggetto, come il Figlio di Arlecchino perduto e ritrovato,
le Trentadue disgrazie di Arlecchino. Si rivelò a se stesso
e al pubblico nella Vedova scaltra. Cominciarono le critiche, e cominciò lui ad avere una coscienza d’artista. La
vecchia letteratura ondeggiava tra il seicentismo e l’arca-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
dico, il gonfio e il volgare. Goldoni nelle sue Memorie
dice:
«I miei compatriotti erano accostumati da lungo tempo alle
farse triviali e agli spettacoli giganteschi. La mia versificazione
non è mai stata di stil sublime; ma ecco appunto quel che bisognava per ridurre a poco a poco nella ragione un pubblico accostumato alle iperboli, alle antitesi, ed al ridicolo del gigantesco e romanzesco.»
Per sua ventura gli capitò una buona compagnia.
«– Ora, – diceva io a me medesimo – ora sto bene, e posso
lasciare il campo libero alla mia fantasia. Ho lavorato quanto
basta sopra vecchi soggetti. Avendo presentemente attori che
promettono molto, convien creare, conviene inventare. Ecco
forse il momento di tentare quella riforma, che ho in vista da
così lungo tempo. Convien trattare soggetti di carattere: essi
sono la sorgente della buona commedia; ed è appunto con
questi che il gran Molière diede principio alla sua carriera, e
pervenne a quel grado di perfezione, che gli antichi ci avevano
soltanto indicato, e che i moderni non hanno ancor potuto
eguagliare. –»
Goldoni conosceva pochissimo Plauto e Terenzio; faceva di cappello a Orazio e Aristotile; rispettava per tradizione le regole; ma dice: «Non ho mai sacrificata una
commedia che poteva esser buona ad un pregiudizio
che la poteva render cattiva». Ciò che chiama «pregiudizio» è l’unità di luogo. La sua scarsa coltura classica
avea questo di buono: che tenea il suo spirito sgombro
da ogni elemento che non fosse moderno e contemporaneo. Ciò ch’egli vagheggia non è la commedia dotta, regolata, letteraria, alla latina o alla toscana, di cui ultimo
esempio dava il Fagiuoli; ma la buona commedia,
com’egli la concepiva: «La commedia essendo stata la
mia tendenza, la buona commedia dee esser la mia meta.» E il suo concetto della buona commedia è questo:
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
«Tutta l’applicazione che ho messa nella costruzione
delle mie commedie, è stata quella di non guastar la natura». Carattere idillico, superiore a’ pettegolezzi e alle
invidiuzze provinciali del letterato italiano, pigliandosi
la buona e la cattiva fortuna con eguaglianza d’animo,
quest’uomo che visse i suoi bravi ottantasei anni e morì
a Parigi pochi anni dopo il Metastasio, morto a Vienna,
dice di sè:
«Il morale da me è analogo al fisico; non temo nè il freddo
nè il caldo e non mi lascio infiammar dalla collera, nè ubbriacar dalla gioia.»
Con questo temperamento più di spettatore che di attore, mentre gli altri operavano, Goldoni osservava e li
coglieva sul fatto. La natura bene osservata gli pareva
più ricca che tutte le combinazioni della fantasia. L’arte
per lui era natura, era ritrarre dal vero. E riuscì il Galileo
della nuova letteratura. Il suo telescopio fu l’intuizione
netta e pronta del reale, guidata dal buon senso. Come
Galileo proscrisse dalla scienza le forze occulte, l’ipotetico, il congetturale, il soprannaturale, così egli volea
proscrivere dall’arte il fantastico, il gigantesco, il declamatorio e il rettorico. Ciò che Molière avea fatto in
Francia, lui voleva tentare in Italia, la terra classica
dell’accademia e della rettorica. La riforma era più importante che non apparisse; perchè, riguardando specialmente la commedia, avea a base un principio universale dell’arte, cioè il naturale nell’arte, in opposizione
alla maniera e al convenzionale. Goldoni avea da natura
tutte le qualità che si richiedevano al difficile assunto: finezza di osservazione e spirito inventivo, misura e giustezza nella concezione, calore e brio nella esecuzione.
La Mandragola, capitatagli ch’era giovanissimo, gli avea
fatta molta impressione. Il Misantropo, l’Avaro, il Tartufo, le Preziose, e simili commedie di Molière compirono la sua educazione. Il fondamento della commedia ita-
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liana era l’intreccio; la buona commedia, come la concepiva lui, dovea avere a fondamento il carattere. – Voi
avete la commedia d’intreccio; io voglio darvi la commedia di carattere – diceva Goldoni. E commedia di carattere era tirare l’effetto non dalla moltiplicità di avvenimenti straordinari, ma dallo svolgimento di un carattere
nelle situazioni anche più ordinarie della vita. Era
tutt’un altro sistema, e non solo nella commedia, ma nello scopo e ne’ mezzi dell’arte. Il protagonista nel primo
sistema è il caso o l’accidente, le cui bizzarre combinazioni generano il maraviglioso. Gli uomini ci stanno come figure o comparse, appena schizzati, avvolti nel turbine degli avvenimenti. La vita è nella superficie:
l’interno è occulto. In questa superficialità ottusa si era
consunta la vecchia letteratura, ed, esaurite tutte le forme del maraviglioso, non bastava più a conseguire l’effetto con mezzi propri, senza il sussidio del canto, della
musica, del ballo, della mimica, della declamazione. La
parola non era più il principale: era l’accessorio, il semplice tema, l’occasione. Anche la commedia si credea
inetta a conseguire il suo effetto senza il sussidio delle
maschere, senza quell’improvviso de’ lazzi degli Arlecchini, de’ Truffaldini, de’ Brighella e de’ Pantaloni. Ora
l’idea fissa di Goldoni era che la commedia potea per sè
sola interessare il pubblico, e che non le era necessario a
ciò lo spettacoloso, il gigantesco, il maraviglioso in maschera e senza maschera. La sua riforma era in fondo la
restaurazione della parola, la restituzione della letteratura nel suo posto e nella sua importanza, la nuova letteratura. E vide chiaramente che a ristaurare la parola bisognava non lavorare intorno alla parola, ma intorno al
suo contenuto, rifare il mondo organico o interiore
dell’espressione. Questo vide nella commedia, e mirò a
instaurarvi non gli elementi formali e meccanici, ma l’interno organismo, sopra questo concetto, che la vita non
è il gioco del caso o di un potere occulto, ma è quale ce
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la facciamo noi, l’opera della nostra mente e della nostra
volontà. Concetto del Machiavelli, dal quale usciva la
Mandragola. Perciò il protagonista è l’uomo, con le sue
virtù e le sue debolezze, che crea o regola gli avvenimenti, o cede in balìa di quelli. Manca a Goldoni non la
chiarezza, ma l’audacia della riforma, obbligato spesso a
concessioni e a mezzi termini per contentare il pubblico,
la compagnia e gli avversari. E, come era il suo carattere,
vinse talora più con la pazienza o la destrezza, che con la
risoluta tenacità de’ propositi. Di queste concessioni
trovi i vestigi nelle sue migliori commedie, dove non rifiuta certi mezzi volgari e grossolani di ottenere gli applausi della platea. E mi spiego come insino all’ultimo
continuò nel romanzesco, nel sentimentale e nell’arlecchinesco: le necessità del mestiere contrastavano alle
aspirazioni dell’artista. D’altra parte, intento all’interno
organismo della commedia, neglesse troppo l’espressione, e per volerla naturale la fece volgare, sì che le sue
concezioni si staccano vigorose da una forma più simile
a pietra grezza che a marmo. Ciò che in lui rimane è
quel mondo interno della commedia, tolto dal vero e
perfettamente sviluppato nelle situazioni e nel dialogo.
Il centro del suo mondo comico è il carattere. E questo
non è concepito da lui come un aggregato di qualità
astratte, ma è còlto nella pienezza della vita reale, con
tutti gli accessorii. Base è la società veneziana nella sua
mezzanità, più vicina al popolo che alle classi elevate:
ciò che dà più presa al comico per quei moti improvvisi,
ineducati, indisciplinati, che son propri della classe popolana, alla quale si accostava molto la borghesia veneta,
non giunta ancora a quel raffinamento e delicatezza di
forme, che sono come l’aria della civiltà. I caratteri, come il maldicente, il bugiardo, l’avaro, l’adulatore, il cavalier servente, inviluppati in quest’atmosfera, escono
fuori vivi, coloriti, originali, nuovi, vi contraggono la
forma della loro esistenza. Ci è nel loro impasto del
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grossolano e dell’improvviso; anzi qui è la fonte del comico. Cadendo in nature di uomini non disciplinate
dall’educazione, paion fuori in modo subitaneo, e senza
freno o ritegno o riguardo, in tutta la loro forza primigenia, e producono con quella loro improvvisa grossolanità la più schietta allegria, tipo il Burbero benefico. Non
essendo concezioni subbiettive e astratte, ma studiate
dal vero e colte nel movimento della vita, il comico non
si sviluppa per via di motti, riflessioni e descrizioni (ciò
che dicesi propriamente «spirito», e appartiene a una
società più colta e raffinata) ma erompe nella brusca vivacità delle situazioni e dei contrasti. Il Goldoni è felicissimo a trovare situazioni tali che il carattere vi possa
sviluppare tutte le sue forze. La situazione è per lo più
unica, semplice, naturalissima, sobriamente variata,
messa in rilievo da qualche contrasto, di rado complicata o inviluppata, graduata con un crescendo di movimenti drammatici, e ti porta rapidamente alla fine tra la
più viva allegria. Indi viene la superiorità del suo dialogo, che è azione parlata, di rado interrotta o raffreddata
per soverchio uso di riflessioni e di sentenze. La situazione non è mai perduta di vista, non digressioni, non
deviazioni, rari intermezzi o episodi; nessuna parte troppo accarezzata o rilevata; onde è che l’interesse è nell’insieme, e di rado se ne stacca un personaggio, una scena,
un motto. Tutto è collegato saldamente con tutto: la situazione è il carattere stesso in posizione, nelle sue determinazioni; l’azione è la stessa situazione nel suo sviluppo; il dialogo è la stessa azione ne’ suoi movimenti.
Questo mondo poetico ha il difetto delle sue qualità:
nella sua grossolanità è superficiale, e nella sua naturalezza è volgare. In quel suo correre diritto e rapido il
poeta non medita, non si raccoglie, non approfondisce;
sta tutto al di fuori, gioioso e spensierato, indifferente al
suo contenuto, e intento a caricarlo quasi per suo passatempo, e con l’aria più ingenua, senza ombra di malizia
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e di mordacità: onde la forma del suo comico è caricatura allegra e smaliziata, che di rado giunge all’ironia. Nel
suo studio del naturale e del vero trascura troppo il rilievo, e, se ha il brio del linguaggio parlato, ne ha pure la
negligenza; per fuggire la rettorica, casca nel volgare.
Gli manca quella divina malinconia, che è l’idealità del
poeta comico e lo tiene al di sopra del suo mondo, come
fosse la sua creatura che accarezza con lo sguardo e non
la lascia che non le abbia data l’ultima finitezza. Attribuiscono il difetto alla sua ignoranza della lingua ed alla
soverchia fretta; il che, se vale a scusare le sue scorrezioni, non è bastante a spiegare il crudo e lo sciacquo del
suo colorito.
La nuova letteratura fa la sua prima apparizione nella
commedia del Goldoni, annunziandosi come una ristaurazione del vero e del naturale nell’arte. Se la vecchia
letteratura cercava ottenere i suoi effetti, scostandosi
possibilmente dal reale, e correndo appresso allo straordinario o al maraviglioso nel contenuto e nella forma, la
nuova cerca nel reale la sua base, e studia dal vero la natura e l’uomo. La maniera, il convenzionale, il rettorico,
l’accademico, l’arcadico, il meccanismo mitologico, il
meccanismo classico, l’imitazione, la reminiscenza, la citazione, tutto ciò che costituiva la forma letteraria, è
sbandito da questo mondo poetico, il cui centro è l’uomo, studiato come un fenomeno psicologico, ridotto alle sue proporzioni naturali, e calato in tutte le particolarità della vita reale. Vero è che la realtà è appena
lambita, e le sue profondità rimangono occulte. Ma la
via era quella, e in capo alla via trovi Goldoni.
A Carlo Gozzi parea che quel vero e quel naturale
fosse la tomba della poesia; e quando il successo del
Goldoni gl’impose rispetto, parlando pure con riguardo
dell’avversario, non potè risolversi ad accettare per buona la sua riforma. Il romanzesco, il gigantesco, l’arlecchinesco, o, in altri termini, il mirabile e il fantastico, gli
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parevano elementi essenziali della poesia; quel ritrarre
dal reale gli pareva una volgarità. D’altra parte non vedea senza rincrescimento assalita da ogni parte la commedia a soggetto, che gli sembrava una gloria italiana.
Dicevano che l’era oramai un vecchio repertorio, che
l’era ridotta a mero meccanismo, che l’era una scuola
d’immoralità, di scurrilità, roba da trivio, «goffe buffonate, fracidumi indecenti in un secolo illuminato». C’era
esagerazione nelle accuse, ma un fondamento di verità
c’era. La commedia improvvisa, dell’arte o a soggetto,
era isterilita, come tutt’i generi della vecchia letteratura,
e tutti quei lazzi che tanto divertivano erano con poca
varietà un vecchiume trasmesso da una generazione
all’altra: si viveva sul passato, i nuovi attori riproducevano gli antichi; la parte improvvisata era così poco nuova
e improvvisa, come la parte scritta. Piaceva più che la
commedia letteraria, perchè ci era sempre maggior comunione col pubblico; ma oramai quel Dottor bolognese e Truffaldino stancavano, come un professore che ripeta ogni anno lo stesso corso. I letterati e i fautori delle
commedie regolate ne pigliavano argomento per dichiarar guerra alle maschere e volevano proscrivere addirittura quel genere di commedia, «indecente in un secolo
illuminato». Gozzi che l’avea contro quei lumi, e vedea
di mal occhio tutte quelle novità che ci venivano d’oltralpe, se ne fece paladino, e scese in campo co’ ragionamenti e coll’esempio, scrivendo sotto nome di «fiabe»
commedie con le maschere, e perciò con una parte improvvisata, le quali ebbero successo grandissimo, e oggi
sono quasi dimenticate. Gozzi parea a quel tempo un retrivo, e Goldoni era il riformatore; pure avrei desiderato
a Goldoni un po’ di quella fibra rivoluzionaria ch’era in
quel retrivo: chè così sarebbe proceduto più ardito e
conseguente nella sua riforma. Il «taciturno solitario»
Gozzi, come lo chiamavano, era uomo d’ingegno; e perciò penetrato della vita contemporanea, e trasformato
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senza saperlo da quelle stesse idee nuove, che gli movevano la bile. Volendo ristaurare il vecchio, si chiarì novatore e riformatore, e correndo dietro alla commedia a
soggetto, s’incontrò nella commedia popolana, e ne fissò
la base. Grande confusione era nella sua testa, come si
vede da’ suoi ragionamenti; indi la sua debolezza. Goldoni sa quello che vuole, ha la chiarezza dello scopo e
dei mezzi, e va diritto e sicuro: perciò la sua influenza rimase grandissima. Ma Gozzi non ha chiaro lo scopo, e
vuole una cosa e fa un’altra, e procede a balzi, tirato da
varie correnti. Vuole favorire le maschere; vuole parodiare gli avversari; vuole rifare Pulci e Ariosto, ristaurando il fantastico; vuole toscaneggiare, e vuole insieme
essere popolare e corrente; vuol ricostruire il vecchio e
comparir nuovo. Fini transitorii, i quali poterono interessare i contemporanei, dargli vinta la causa nella polemica e nel teatro, e che oggi sono la parte morta del suo
lavoro. Queste intenzioni penetrano in tutta la composizione, come elementi perturbatori, e rimasti inconciliati.
Ciò che resta di lui è il concetto della commedia popolana, in opposizione alla commedia borghese. Le maschere, cioè certi caratteri o caricature tipiche del popolo,
come Tartaglia, Pantalone, Truffaldino, Brighella, Smeraldina, rimangono nella sua composizione come elementi di obbligo e convenzionali, accessorii spesso grotteschi e insipidi per rispetto al contenuto, innestati e
soprapposti. Il contenuto è il mondo poetico com’è concepito dal popolo, avido del maraviglioso e del misterioso, impressionabile, facile al riso e al pianto. La sua base
è il soprannaturale, nelle sue forme, miracolo, stregoneria, magia. Questo mondo dell’immaginazione tanto più
vivo, quanto meno l’intelletto è sviluppato, è la base naturale della poesia popolana sotto le sue diverse forme,
conti, novelle, romanzi, storie, commedie, farse. La vecchia letteratura se n’era impadronita; ma per demolirlo,
per gittarvi entro il sorriso incredulo della colta borghe-
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sia. Rifare questo mondo nella sua ingenuità, drammatizzare la fiaba o la fola, cercare ivi il sangue giovine e
nuovo della commedia a soggetto, questo osò Gozzi in
presenza di una borghesia scettica e nel secolo de’ lumi,
nel secolo degli «spiriti forti» e de’ «belli spiriti». E riuscì a interessarvi il pubblico, perchè quel mondo ha un
valore assoluto, e risponde a certe corde che, maneggiate da abile mano d’artista, suonano sempre nell’animo:
ciascuno ha entro di sè più o meno del fanciullo e del
popolo. E poichè il pubblico s’interessava ancora alla
commedia del Goldoni, se ne doveva conchiudere, se le
conclusioni ragionevoli fossero possibili in mezzo alla
disputa, che tutti e due i generi erano conformi al vero,
l’uno rappresentando la società borghese nella sua mezza coltura, e l’altro il popolo nelle sue credulità e ne’
suoi stupori. E tutti e due erano una riforma della commedia ne’ due suoi aspetti, la commedia dotta e la commedia improvvisa: era l’apparizione della nuova letteratura. Ma questo che fece Gozzi non era precisamente
quello che credeva di fare. Ci si messe per picca e per
occasione, disprezzava il pubblico che l’applaudiva, non
prendeva sul serio la sua opera, e perchè Goldoni imitava dal vero, s’innamorò lui del romanzesco e del fantastico. Ora l’arte non è un capriccio individuale, e perchè
Shakespeare ti piace, non ne viene che tu possa rifare
Shakespeare, quando anche avessi forza da ciò. L’arte,
come religione e filosofia, come istituzioni politiche ed
amministrative, è un fatto sociale, un risultato della coltura e della vita nazionale. Gozzi volea rifare un mondo
dell’immaginazione, quando egli medesimo segnava la
dissoluzione di quel mondo nella Marfisa, quando la
parte colta e intelligente della nazione era mossa da impulsi affatto contrari, e quando il popolo, ebete nella sua
miseria, stava come una massa inerte, e non dava segno
di vita letteraria. Se Gozzi fosse sceso in mezzo al popolo, e vi avesse attinte le sue ispirazioni, potea forse fare
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opera viva. Ma Gozzi era aristocratico, odiava tutte
quelle novità, che sentivano troppo di democrazia, e viveva co’ suoi Granelleschi in un ambiente puramente
letterario. Rimase perciò un letterato, non divenne un
poeta. Oltre a ciò, un fatto letterario in quel tempo non
potea sorgere di mezzo al popolo, divenuto acqua stagnante; un movimento c’era, e veniva dalla borghesia, e
con quelle tendenze si sviluppava la vita nazionale in
tutt’i suoi indirizzi. Creare un mondo d’immaginazione,
quando la guerra era appunto contro l’immaginazione
in nome della scienza e della filosofia, era un andare a ritroso. Gozzi nacque troppo presto. Venne il tempo che
la borghesia, spaventata da quelle esagerazioni che stomacavano Gozzi, si riafferrò a quel mondo soprannaturale, come a tavola di salute. Quello era il tempo di Gozzi; e Gozzi ci fu, e si chiamò Manzoni. Al suo tempo
Gozzi fu un elemento contraddittorio e perciò inconcludente; e la sua idea, altamente estetica in astratto, riuscì
un fatto letterario e artificiale. Volea ristorare l’antico,
odiava le novità, e senza saperlo le portava nel suo seno:
ond’è che tratta quel suo mondo dell’immaginazione a
quello stesso modo che il forense Goldoni rappresenta
la sua società borghese. Gli manca il chiaroscuro, gli
manca l’impressione e il sentimento del soprannaturale,
anzi il suo studio è di rappresentarlo con tutte le apparenze della naturalezza, come fosse un fatto vulgare e ordinario, a quel modo che andava predicando Goldoni.
Perciò il suo stile non ha rilievo, il suo colorito non ha
trasparenza, le sue tinte non sono fuse, e volendo esser
naturale spesso ti casca nell’insipido e nel volgare. La
naturalezza di questo mondo è nella ingenuità delle sue
impressioni, curiosità, maraviglia, sospensione, terrore,
collera, pianti, riso, com’è ne’ racconti delle società primitive. Questa ingenuità è perduta, la naturalezza di
Gozzi è negligenza e volgarità.
Quelle apparizioni non hanno per lui serietà, sono
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giochi e passatempi; perciò scherzi abborracciati, e senza alcun valore proprio, che, aiutati dalla mimica, da’
lazzi, dallo scenario, potevano produrre effetto nella
rappresentazione, e alla lettura piacciono, senza che ti
lascino nell’animo alcun vestigio. Il Baretti predicava in
lui un nuovo Shakespeare, e quando gli fallì alla prova,
se la prese con lui furiosamente, come l’avesse tradito, e
dovea prendersela con sè medesimo, che andava sognando un Shakespeare nel secolo decimottavo. Che avvenne? La commedia popolana ritornò nel suo pantano,
con le sue maschere, le sue indecenze e le sue volgarità,
e di Gozzi rimase una bella idea, presto dimenticata. La
società prendeva altra via, e seguiva Goldoni.
Il movimento a Venezia rimase puramente letterario.
C’era un centro toscaneggiante nell’accademia de’ Granelleschi, divenuta presto ridicola, della quale erano anima i fratelli Gozzi; e c’era dall’altra parte Goldoni con
intenzioni più alte, che attingevano l’organismo dell’arte. Il solo Carlo Gozzi presentì il significato politico del
movimento, e sonò la campana a stormo; ma nessuno rispose, perchè il nemico non si trovò. Goldoni anche a
Parigi non ci capiva nulla in quel vertiginoso rimescolio
d’idee, e Rousseau non era per lui che un fenomeno curioso, un magnifico carattere da commedia, qualche cosa come il «burbero benefico». Questa sua concentrazione in un punto solo e la sua perfetta innocenza in
tutto l’altro fu la sua forza e la sua debolezza. La sua
idea fissa, ch’era rappresentare dal vivo e dal vero e non
guastar la natura, era il principio rinnovatore della letteratura, negazione dell’Arcadia, ricostituzione del contenuto e della forma, incarnato in alcune commedie di
esecuzione più o meno perfetta, ma tutte indimenticabili per la chiarezza e la verità della concezione, delle situazioni e de’ caratteri: qui fu la sua forza. E la sua debolezza fu il carattere meramente letterario della sua
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riforma, che lo tiene nella superficie e gli fa produrre un
mondo locale e particolare, a cui la sua indifferenza religiosa, filosofica, politica, morale, sociale, la sua poca
coltura, la scarsezza de’ suoi motivi interni toglie rilievo
e vigore, toglie quella idealità, che viene da un significato generale e permanente. Cosa manca a Goldoni? Non
lo spirito, non la forza comica, non l’abilità tecnica: era
nato artista. Mancò a lui quello che a Metastasio: gli
mancò un mondo interiore della coscienza, operoso,
espansivo, appassionato, animato dalla fede e dal sentimento. Mancò a lui quello che mancava da più secoli a
tutti gl’italiani, e che rendeva insanabile la loro decadenza: la sincerità e la forza delle convinzioni. Ciò che attestava una possibile rigenerazione, era la riapparizione di
quel mondo interiore negli spiriti più eletti, che rimetteva in moto il cervello, e svegliava il sentimento. Il maggiore impulso veniva dal di fuori. Ma l’entusiasmo pubblico mostrava che ci era la materia atta a riceverlo, e
che l’Italia dopo lungo riposo si rimetteva in via. Nel
mezzodì l’attività speculativa da Telesio a Coco non
mancò mai, e vi si era formata una scuola liberale, che
avea per materia la quistione giurisdizionale, e si andava
allargando a tutte le utili riforme nell’assetto dello Stato:
quando le nuove idee vi si affacciarono, trovarono gli
spiriti educati e pronti a riceverle, e se ne fecero interpreti eloquenti ed efficaci Filangieri, Pagano e Galiani.
Vi si andava così elaborando un nuovo contenuto in una
forma piena di spirito e di movimento, spesso ingegnosa
e appassionata, filosofia volgarizzata, col linguaggio vivo
e spiritoso della gazzetta. Farse, tragedie, commedie,
orazioni, dissertazioni, prediche, trattati, sonetti, tutt’i
generi della vecchia letteratura continuavano la loro vita
solita e meccanica, senza alcun segno di movimento nel
loro interno organismo, imitazioni, raffazzonamenti,
contraffazioni, un mondo di convenzione accolto con
applausi di convenzione. Già Salvator Rosa aveva a suon
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di tromba mosso guerra alla declamazione e alla rettorica, senz’accorgersi che faceva della rettorica anche lui.
Un po’ di rettorica c’era pure in alcuno di quegli scrittori, massime in Filangieri, ma vivificata dalla novità e importanza delle cose, e da quello spirito moderno e contemporaneo che desta sempre la più viva
partecipazione. Il sentimento puramente letterario, errante in quelle provincie tra il voluttuoso, l’ingegnoso e
il sentimentale, ciò che vi rendea così popolari il Tasso e
il Marino, stagnato il movimento letterario, s’era trasformato nel sentimento musicale, e vi educava Metastasio,
e vi apparecchiava quella scuola immortale di maestri di
musica, che furono i veri padri di un’arte serbata a così
grandi destini. La musica sorgeva animata da quegli
stessi impulsi che non trovavano più soddisfazione nella
imputridita forma letteraria, sorgeva tutta melodia, piena di voluttà, di spirito e di sentimento. Mentre l’attività
speculativa e il sentimento musicale si andava sviluppando nel mezzogiorno d’Italia, e Goldoni tentava a Venezia la sua riforma della commedia, Milano diveniva il
centro intellettuale e politico della vita nuova, principali
motori Pietro Verri e Cesare Beccaria. A Venezia c’era
l’accademia de’ Granelleschi, a Milano c’era l’accademia
de’ Trasformati. Lì si concepiva la riforma, come una restaurazione degli studi classici, e si combatteva il Goldoni, ch’era il vero riformatore. Qui dominava sotto tutti
gli aspetti lo spirito nuovo, l’Enciclopedia vi era penetrata con tutto il corteggio degli scrittori francesi, vi si elaboravano non frasi, ma idee, e per maggior libertà si
usava non di rado il dialetto e non la lingua. Ci erano i
due Verri, il Beccaria, il Baretti, il Balestrieri, il Passeroni; ci era il fiore dell’intelligenza milanese. Si chiamavano i Trasformati, e si può dire che filosofia, legislazione,
economia, politica, morale, tutto lo scibile era già trasformato nelle loro menti, con più o meno di chiarezza e
di coscienza. La letteratura non potea sfuggire a questa
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trasformazione, e alla solennità classica succedeva una
forma svelta e naturale, e ne’ più briosa e sentimentale
alla francese. Si rideva a spese di Alessandro Bandiera,
che voleva insegnar lingua e stile al padre Segneri, da lui
tenuto non abbastanza boccaccevole, e di padre Branda,
che levava a cielo l’idioma toscano e scriveva vitupèri
del dialetto. Il Passeroni metteva in canzone quella vecchia società nella Vita di Cicerone e nelle Favole esopiane, e alla vuota turgidezza del Frugoni, ai lambicchi
dell’Algarotti, a’ lezii del Bettinelli, che erano i tre poeti
alla moda, opponeva quel suo scrivere andante, alla
buona, tutto buon senso e naturalezza. Bravissimo uomo, senza fiele, senza iniziativa, rideva saporitamente
della società, in mezzo alla quale viveva povero e contento. Metastasio, Goldoni e Passeroni erano della stessa pasta, idillici e puri letterati. Sono i tre poeti della
transizione. Vedi in loro già i segni di una nuova letteratura, una forma popolare, disinvolta, rapida, liquida,
chiara, disposta più alla negligenza che all’artificio. Ma è
sempre un giuoco di forma, alla quale manca altezza e
serietà di motivi; ci è il letterato, manca l’uomo. Senti in
questi riformatori il vecchio uomo italiano, di cui era
espressione letteraria l’arcade e l’accademico. Combattevano l’Arcadia, ed erano più o meno arcadi.
In questi tempi di nuove idee e di vecchi uomini nacque Giuseppe Parini, il 22 maggio del 1729. Venuto dal
contado in Milano, cominciò i soliti studi classici sotto i
barnabiti, e il padre Branda fu suo maestro di rettorica.
Il babbo volle farne un prete per nobilitare il casato; ma
sul più bello fu costretto per le strettezze domestiche a
troncare i suoi studi e a ingegnarsi per trarre innanzi la
vita. Fece il copista e il pedagogo, e ne’ dispregi e nella
miseria si temprò il suo carattere. Come Metastasio e come tutt’i poeti di quel tempo cominciò arcade, e le sue
prime rime le leggi in una raccolta di poesie a cura di
quegli accademici. Rivelò la sua personalità, combatten-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
do il padre Bandiera e il padre Branda, di cui era stato
un cattivo scolare. Pare che nella scuola facesse poco
profitto, impaziente soprattutto di quei giuochi di memoria, che erano allora la sostanza degli studi. Padrone
di sè, ne’ ritagli di tempo obbliava la sua miseria, conversando con Virgilio, Orazio, Dante, Ariosto e Berni. E
che cosa dovea parergli il padre Branda col suo toscano,
o il padre Bandiera co’ suoi periodi? Ma, se aveva a dispetto quella pedanteria, non gli rincresceva meno quel
francesizzare de’ più, divenuto moda nelle alte e basse
classi. Usando per il suo mestiere in case signorili, potè
studiare dappresso questa strana mescolanza di vecchio
e di nuovo, che costituiva allora la società italiana. Già
questo pigliar subito posizione, questo soprastare alla
lotta e schivarne tutte le esagerazioni mostra una spiccata personalità. Hai innanzi un carattere.
Parini era uomo più di meditazione che di azione.
Non aveva il gusto de’ piaceri, aveva pochi bisogni, e
nessuna cupidigia di onori e di ricchezze. La società non
avea presa su di lui: rimase indipendente e solitario,
inaccessibile alle tentazioni e a’ compromessi, e, come
Dante, fece parte da sè. Quel mondo nuovo, che fermentava negli spiriti, fondato sulla natura e sulla ragione, e in opposizione al fattizio e al convenzionale del secolo, giuntogli attraverso Plutarco e Dante più che per
influssi francesi, rimase in lui inalterato, puro di quelle
macchie e ombre che vi sovrappongono le vanità e le
passioni e gl’interessi mondani, perciò puro di esagerazioni e ostentazioni. Era in lui una interna misura,
quell’equilibrio delle facoltà, che è la sanità dell’anima,
quella compiuta possessione di se stesso, che è l’ideale
del savio, quella mente rettrice, che sta sopra alle passioni e alle immaginazioni, e le tiene nel giusto limite. La
sua forza è più morale che intellettuale; perchè la sua intelligenza si alza poco più su del luogo comune, ed è notabile più per giustezza e misura che per novità e
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profondità di concetti. Lo alza su’ contemporanei la sincerità e vivacità del suo senso morale, che gli dà un carattere quasi religioso, ed è la sua fede e la sua ispirazione. Rinasce in lui quella concordia dell’intendere e
dell’atto mediante l’amore, che Dante chiamava sapienza: rinasce l’uomo.
E l’uomo educa l’artista. Perchè Parini concepisce
l’arte allo stesso modo. Non è il puro letterato, chiuso
nella forma, indifferente al contenuto; anzi la sostanza
dell’arte è il contenuto, e l’artista è per lui l’uomo nella
sua integrità, che esprime tutto se stesso, il patriota, il
credente, il filosofo, l’amante, l’amico. La poesia ripiglia
il suo antico significato, ed è voce del mondo interiore,
chè non è poesia dove non è coscienza, la fede in un
mondo religioso, politico, morale, sociale. Perciò base
del poeta è l’uomo.
La poesia riacquista la serietà di un contenuto vivente
nella coscienza. E la forma si rimpolpa, si realizza, diviene essa medesima l’idea, armonia tra l’idea e l’espressione.
La base del contenuto è morale e politica, è la libertà,
l’uguaglianza, la patria, la dignità, cioè la corrispondenza tra il pensiero e l’azione. È il vecchio programma di
Machiavelli, divenuto europeo e tornato in Italia. La base della forma è la verità dell’espressione, la sua comunione diretta col contenuto, risecata ogni mediazione. È
la forma di Dante e di Machiavelli riverginata con esso il
contenuto.Il contenuto è lirico e satirico. È l’uomo nuovo in vecchia società.
L’uomo nuovo non è un concetto o un tipo d’immaginazione; ha tutte le condizioni della realtà, è esso medesimo il poeta. Protagonista di questo mondo lirico è
Giuseppe Parini, che canta se stesso, esprime le sue impressioni, si effonde, così com’è, nella ingenuità della
sua natura. Spariscono i temi astratti e fattizi di religione, di amore, di moralità. Tutto è contemporaneo e vivo
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e concreto, prodotto in mezzo al movimento de’ fatti e
delle impressioni. Il poeta, ritirato nella pace della natura e nella calma della mente, sta al di sopra del suo mondo, e sente le sue agitazioni, i suoi piaceri e le sue punture, ma non sì che giungano a turbare l’eguaglianza e la
serenità del suo animo. Ci è in questo uomo nuovo una
vena d’idillio e di filosofia, come di uomo solitario, più
spettatore che attore, avvezzo a vivere tranquillo con sè,
a conservare l’occhio puro e spassionato nel giudizio
delle cose. Ci è nel poeta un po’ del pedagogo, ammaestrando, librando con giusta misura i fatti umani. Ma il
pedagogo è trasfigurato nel poeta, e vi perde ogni lato
pedantesco e pretensioso. Il suo amore per la vita campestre non è misantropia, anzi è accompagnato con la
più tenera sollecitudine per l’umanità. La sua rigidità
pel decoro e l’onestà femminile è raddolcita da un vivo
sentimento della bellezza. La sua dignità è scevra di orgoglio, la sua severità è amabile, la sua virtù è pudica,
piena di grazia e di modestia. Ne’ suoi concetti e ne’
suoi sentimenti ci è sempre il limite, un’armonica temperanza, dov’è la sua perfezione intellettuale e morale di
uomo e di poeta. Quando leggi la Vita rustica, la Salubrità dell’aria, il Pericolo, la Musa, la Caduta e la sua Nice
e la sua Silvia, provi una soddisfazione più che estetica,
senti in te appagate tutte le tue facoltà.
La vecchia società è colta non nelle sue generalità rettoriche, come nel Rosa, nel Menzini e in altri satirici, ma
nella forma sostanziale della sua vecchiezza, che è la
pompa delle forme nella insipidezza del contenuto.
Quelle forme così magnifiche, alle quali si dà una importanza così capitale, sono un’ironia, messe allato al
contenuto. La Batracomiomachia è l’ironia dell’lliade, la
Moscheide è l’ironia dell’Orlando: sono forme epiche
applicate a un mondo plebeo. L’ironia è la forma delle
vecchie società, non ancora conscie della loro dissoluzione. È il vecchio che vuol farla da giovine, con tanta
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più ostentazione nelle apparenze quanto più meschina è
la sostanza. Questo è il concetto fondamentale del Giorno, fondato su di un’ironia che è nelle cose stesse, perciò
profonda e trista. Parini non vi aggiunge di suo che il rilievo, una solennità di esposizione che fa più vivo il contrasto. E perchè sente in quelle mentite forme negato se
stesso, la sua semplicità, la sua serietà, il suo senso morale, non ha forza di riderne e non gli esce dalla penna uno
scherzo o un capriccio. Ride di mala grazia, e sotto ci
senti il disgusto e il disprezzo. L’Italia avea riso abbastanza, e rideva ancora ne’ versi di Passeroni e di Goldoni. Qui il riso è alla superficie, sotto alla quale giace repressa e contenuta l’indignazione dell’uomo offeso. La
sua interna misura e pacatezza, la sua mente rettrice gli
dà la forza della repressione, sì che il sentimento di rado
erompe sulla superficie, e l’ironia di rado piglia la forma
del sarcasmo. L’ironia de’ nostri padri del Risorgimento
era allegra e scettica, come nel Boccaccio e nell’Ariosto,
perchè era rivendicazione intellettuale dirimpetto alle
assurdità teologiche e feudali, rivendicazione accompagnata con la dissoluzione morale: era l’ironia della scienza a spese dell’ignoranza, e l’ignoranza fa ridere. Ma qui
l’ironia è il risveglio della coscienza dirimpetto a una società destituita di ogni vita interiore; lì era l’ironia del
buon senso, qui è l’ironia del senso morale. Senti che rinasce l’uomo, e con esso la vita interiore.
La parola di quella vecchia società era a sua immagine, cascante, leziosa, vuota sonorità, travolta e seppellita
sotto la musica. Qui risuscita la parola. E vien fuori faticosa, martellata, ardua, pregna di sensi e di sottintesi. La
parola scopre l’ironia, perchè è in antitesi con quella società molle ed evirata che il poeta finge di celebrare.
Togliete ora l’ironia, fate salire sulla superficie in modo scoperto e provocante l’ira, il disgusto, il disprezzo,
tutti quei sentimenti che Parini con tanto sforzo dissimula sotto il suo riso, e avete Vittorio Alfieri. È l’uomo
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nuovo che si pone in atto di sfida in mezzo a’ contemporanei, statua gigantesca e solitaria col dito minaccioso.
Alfieri si rivelò tardi a se stesso, e per proprio impulso, e in opposizione alla società. Fino a ventisei anni
avea menata la vita solita di un signorotto italiano, tra
dissipazioni, viaggi, amori, cavalli, che non gli empivano
però la vita. De’ primi studi non gli era rimasto che
l’odio allo studio. Ricco, nobile, non ambiva nè onori,
nè ricchezze, nè uffici: viveva senz’altro scopo che di vivere. Vita vuota de’ ricchi signori, che se ne contentano,
e a cui guardano con invidia i men favoriti dalla fortuna.
Ma non se ne contentava Alfieri, e spesso era tristo, e fra
tanto inutile affaccendarsi sentiva la noia. Era malattia
italiana, propria di tutt’i popoli in decadenza, l’ozio interno, la vacuità di ogni mondo interiore. Alfieri aveva il
sentimento di quel vuoto, e quella sua vita puramente
esteriore era per lui noia mal dissimulata sotto il mondano rumore. Coloro che questa vita esteriore debbono
conquistarsela col sudore della fronte possono nel loro
travaglio trovare un certo lenitivo di quella noia. Ma natura e fortuna aveano data ad Alfieri tutta fatta quella vita; i suoi padri aveano lavorato per lui. Nato non a lavorare, ma a godere, le sue forze interne poderosissime,
soprattutto quella tenace energia di carattere, atta a vincere ogni resistenza, rimanevano inoperose, perchè tutto
piegava innanzi a lui, tutto gli era facile. Corse parecchie
volte tutta Europa; e non vi trovò altro piacere che il
correre, simulacro dell’interna irrequietezza non soddisfatta. Questo è ciò che dicesi «dissipazione», una vita
senza scopo e a caso, dove fra tanto moto rimangono
immobili le due forze proprie dell’uomo, il pensiero e
l’affetto. Se Alfieri fosse stato un cavallo, quel suo correre l’avrebbe contentato, come contenta moltissimi, che
pur si chiamano uomini. Ma si sentiva uomo, e stava tristo e annoiato, e non sapeva perchè. Il perchè era questo, che, nato gagliardissimo di pensiero e di affetto, non
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aveva trovato ancora un centro, intorno a cui raccogliere
ed esercitare quelle sue facoltà. Una passione si piglia facilmente in quell’ozio, e Alfieri ebbe i suoi amori e i suoi
disinganni, e gli parve allora di vivere. Ne’ momenti più
feroci della noia si gittò a’ libri. Di latino non intendeva
più nulla, e pochissimo d’italiano; parlava francese da
dieci anni. Leggendo per passatempo, tutto natura e
niente educazione, lo stile classico lo annoiava; Racine lo
faceva dormire, e gittò per la finestra un Galateo del Casa, intoppato in quel primo «conciossiachè». Si die’ a’
romanzi come i giovanetti alle Mille e una notte. Tutto il
suo piacere era di seguire il racconto e vederne la fine, e
gli dispiacque l’Ariosto per le sue interruzioni, e lesse
Metastasio saltando le ariette, e non potè leggere l’Henriade e l’Emilio per quel rettoricume, che gli toglieva la
vista del racconto. Aspettando i cavalli in Savona, gli capitò un Plutarco. Qui sentì qualche cosa di più che il
racconto, gli battè il cuore, quelle immagini colossali
non lo sbigottivano, anzi suscitarono la sua emulazione:
– Non potrei essere anch’io come loro? – E il potere
c’era, perchè le sue forze non erano da meno. Una notte,
assistendo l’amata nella sua infermità, sceneggiò una tragedia, la quale rappresentata poi a Torino ebbe grandi
applausi. – Perchè non potrei io essere scrittore tragico?
– Venutogli questo pensiero, ci si fermò. Secondo le opinioni di quel tempo, l’Italia era innanzi a tutte le nazioni
in ogni genere di scrivere; ma le mancava la tragedia.
Quest’era l’idea fissa di Gravina, e l’ambizione di Metastasio; a questo lavorarono il Trissino, il Tasso, il Maffei.
Ma la tragedia non c’era ancora, per sentenza di tutti. E
dare all’Italia la tragedia gli pareva il più alto scopo a cui
un italiano potesse tendere. Da’ suoi viaggi avea portata
ingrandita l’immagine dell’Italia, non trovato nulla comparabile a Roma, a Firenze, a Venezia, a Genova. Aggiungi la maestà dell’antica Roma, le memorie di una
grandezza non superata mai. E quantunque l’Italia a
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quei dì fosse tanto degenere, avea fermissima fede in
una Italia futura, che vagheggiava nel pensiero simile
all’antica. Di questa nuova Italia fondamento era il rifarvi la pianta «uomo», e gli parea che la tragedia, rappresentazione dell’eroico, fosse acconcia a ritrarvi questo
nuovo uomo, che gli ferveva nella mente, ed era lui stesso. Questi concetti erano del secolo, penetrati qua e là
nelle menti, e da lui bevuti insieme con gli altri. Ma divennero in lui passione, scopo unico e ultimo della vita,
e vi pose tutte le sue forze. Volle essere redentore d’Italia, il grande precursore di una nuova era, e, non potendo con l’opera, co’ versi. Così trovò alla vita un degno
scopo, che gli prometteva gloria, lo ingrandiva nella stima degli uomini e di se stesso. Lo scopo era difficilissimo, perchè tutto gli mancava ad ottenerlo. E la difficoltà
gli fu sprone, e glielo rese più caro. Vi spiegò quella sua
energia indomabile, esercitata fino allora ne’ cavalli e ne’
viaggi. Per «disfrancesizzarsi» e «intoscanirsi» visse il
più in Toscana, ristudiò il latino, si pose in capo i trecentisti, contento di «spensare per pensare», fece suoi
compagni indivisibili Dante, Petrarca, Ariosto e Tasso.
Copiò, postillò, tradusse, «s’inabissò nel vortice grammaticale», e, non guasto dalla scuola, e tutto lui, si fece
uno stile suo. Scrisse come viaggiava, correndo e in linea
retta: stava al principio e l’animo era già alla fine, divorando tutto lo spazio di mezzo. La parola gli sembra non
via, ma impedimento alla corsa, e sopprime, scorcia, traspone, abbrevia; una parola di più gli è una scottatura.
Fugge le frasi, le circonlocuzioni, le descrizioni, gli ornamenti, i trilli e le cantilene: fa antitesi a Metastasio. Tratta la parola come non fosse suono, e si diletta di lacerare
i ben costrutti orecchi italiani, e a quelli che strillano dà
la baia:
Mi trovan duro?
Anch’io lo so:
pensar li fo.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Taccia ho d’oscuro?
Mi schiarirà poi libertà.
All’Italia del Frugoni e del Metastasio dice ironicamente:
Io canterò d’amor soavemente:
molle udirete il flauticello mio
l’aure agitare armoniosamente
per lusingare il vostro eterno oblio.
Ciò che parevano i suoi versi e ciò che ne pare a lui, si
vede da questo epigramma contro i pedanti:
Vi paion strani?
«Saran toscani.»
Son duri duri,
disaccentati...
«Non son cantati.»
Stentati, oscuri,
irti, intralciati.. .
«Saran pensati.»
Pure Alfieri, discepolo di sè, non era ben sicuro del fatto
suo, e consultò Cesarotti, Parini, tutti quelli che andavano per la maggiore. Voleva un modello di verso tragico,
e un barlume ne vedeva nell’Ossian. Ma voleva l’impossibile, e in ultimo prese il miglior partito, fece da sè.
«Osa, contendi», gli diceva in un bel sonetto Parini. E
lui a sudare intorno a’ suoi versi, tormentandoli in mille
guise; ma
«Gira, volta, ei son francesi»
Gira, volta, ei son versi di Alfieri, energicamente individuali, «carme più aguzzo assai, che tondo». Questo ei
chiamava «stile tragico». La forma letteraria era vuota e
sonora cantilena. Lui, vi oppone questo stile, «pensato e
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
non cantato», energico sino alla durezza e pieno di senso. E non gli venne già da un preconcetto filosofico intorno all’arte, gli venne dalla sua natura: perciò in quelle
sue asprezze è vivo e originale.
I critici biasimavano lo stile e lodavano tutto il resto,
quasi lo stile fosse un fenomeno arbitrario e isolato. Non
vedevano l’intima connessione che è tra quello stile e
tutto il congegno della composizione. Perchè Alfieri, come sopprime periodi, ornamenti e frasi, con lo stesso
impeto sopprime confidenti, personaggi, episodi. Nasce
una forma nervosa, tesa, spesso convulsa, che risponde
al suo modo di concepire e di sentire: perciò non pedantesca, anzi viva, interessante, sincera e calda espressione
dell’anima. Se vogliamo conoscere il segreto di questa
forma, vediamo non com’è fatta, ma come è nata.
Alfieri cercò la tragedia non nel mondo vivo, ma nelle
tragedie apparse. Trovò definizioni e regole, e le accettò
per buone senza esame. Questo fu non il suo problema,
ma il dato o l’antecedente. Poste quelle definizioni e
quelle regole, il suo problema fu di recare a perfezione
la tragedia. Conosceva poco la tragedia greca; avea letto
Seneca; gli erano familiari le tragedie italiane e francesi.
Ma di queste appunto facea poca stima, come prolisse e
rettoriche, e confidava di far meglio. Posto che la tragedia sia rappresentazione dell’eroico, la concepì come un
conflitto di forze individuali, dove l’eroe soggiace alla
forza maggiore. In Metastasio la forza maggiore è essa
eroica, essa clemente e benefattrice: il mondo prodotto
dalla sua immaginazione musicale è un riso, un canto,
un inno, il mondo della misura e dell’armonia glorificato
e divinizzato. Qui la forza maggiore è la tirannide, o
l’oppressione, e la sua vittima è l’eroismo o la libertà; è il
mondo della violenza e della barbarie condannato e
marchiato a fuoco. Metastasio compiva un ciclo, Alfieri
ne cominciava un altro. I contemporanei disputavano
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
sullo stile dell’uno e dell’altro, e volevano somiglianza di
stile in tanta opposizione di concetto.
Ponendo la tragedia come conflitto di forze individuali, Alfieri rimaneva nel quadro delle tragedie francesi. Il secolo decimosettimo e decimottavo, come reazione al soprannaturale, cercavano di spiegare la storia con
mezzi umani e naturali, e rappresentavano come azione
de’ caratteri e delle passioni individuali quello che gli
antichi chiamavano il «destino», e Dante con tutto il
mondo cristiano chiamava «ordine provvidenziale». Un
concetto scientifico della storia era nato in Italia, dove il
destino e l’«ordine provvidenziale» si era trasformato
nella «natura delle cose» di Machiavelli, nello «spirito»
di Bruno, nella «ragione» di Campanella, nel «fato» di
Vico. Ma il concetto era rimasto nelle alte sfere dell’intelligenza, e appena avvertito, e fuori dell’arte. Shakespeare con la profonda genialità del suo spirito avea colto queste forze collettive e superiori che sono il fato
della storia. Ma lo spirito di Alfieri era superficiale, più
operativo che meditativo, più inteso alla rapidità e al calore del racconto, che a scrutarne le profondità. Rimase
dunque ne’ cancelli del secolo decimottavo. La tragedia
fu per lui lotta d’individui, e il fato storico fu la forza
maggiore o la tirannide, e la chiave della storia fu il tiranno. Più tardi, ispirato dalla Bibbia, gli lampeggiò innanzi il Saul e intravvide un ordine di cose superiore.
Ma il suo Dio inesorabile ci sta per figura rettorica ed
esiste più nell’opinione e nelle parole degli attori, che
nel nesso degli avvenimenti, tutti spiegati naturalmente.
E come un tiranno ci ha da essere, Dio è il tiranno, e tutto l’interesse è per Saul, i cui moti sono inconsci, e determinati più dalla malizia di Abner, che da malizia sua
propria. Il suo Saul è la Bibbia al rovescio, la riabilitazione di Saul, e i sacerdoti tinti di colore oscuro.
Or questo concetto era la negazione dell’Arcadia, anzi la sua aperta ed esagerata contraddizione. Al mondo
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
di Tasso, di Guarini, di Marino, di Metastasio succedeva
la tragedia, non accademica e letteraria, com’erano le
tragedie francesi e italiane, ma politica e sociale, fondata
su di una idea maneggiata allora in tutti gli aspetti dagli
scrittori; ed era questa, che la società apparteneva al più
forte, e che giustizia, virtù, verità, libertà giacevano sotto
l’oppressione di un doppio potere assoluto e irresponsabile, la tirannide regia e la tirannide papale, il trono e
l’altare. Più tardi Alfieri vi aggiunse la tirannide popolare. Or questa era tragedia viva, la tragedia del secolo sotto nomi antichi, la lotta di un pensiero adulto e civile
contro un assetto sociale ancor barbaro, fondato sulla
forza. Ma è tragedia di puro pensiero, rimasta in regioni
meramente speculative, non divenuta storia. Anzi la società tra quelle agitazioni speculative era ancora idillica
e rettorica, confidente in un progresso pacifico, concordi principi e popoli. A quello stato sociale corrispondea
la tragedia filosofica e accademica, com’era quella di
Voltaire. Alfieri vi aggiunse di suo se stesso. La tragedia
è lo sfogo lirico de’ suoi furori, de’ suoi odii, della tempesta che gli ruggìa dentro. In mezzo alla società imparruccata e incipriata, che gioiosamente declamava tirannide e libertà, egli prende sul serio la vita e non si
rassegna a vivere senza scopo, prende sul serio la morale, e vi conforma rigidamente i suoi atti, prende sul serio
la tirannide, e freme e si dibatte sotto alle sue strette, imprecando e minacciando, prende sul serio l’arte e vagheggia la perfezione. Le sue idee sono i suoi sentimenti;
i suoi princìpi sono le sue azioni. L’uomo nuovo che
sente in sè ha la coscienza orgogliosa della sua solitaria
grandezza, e della solitudine si fa piedistallo, e vi si drizza sopra col petto e colla fronte come statua ideale del
futuro italiano, come di «liber uomo esempio».
Giorno verrà, tornerà il giorno, in cui
redivivi omai gl’Itali staranno
in campo audaci...
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Al forte fianco sproni ardenti dui,
lor virtù prisca ed i miei carmi, avranno;
Onde in membrar ch’essi già fur, ch’io fui,
d ’irresistibil fiamma avvamperanno.
Gli odo già dirmi: – O vate nostro, in pravi
secoli nato, eppur create hai queste
sublimi età che profetando andavi.
Ci è dunque nella tragedia alfieriana uno spirito di vita,
che scolpisce le situazioni, infoca i sentimenti, fonde le
idee, empie del suo calore tutto il mondo circostante. Ci
è lì dentro l’uomo nuovo, solitario, sdegnoso verso i
contemporanei, e che pure s’impone a’ contemporanei,
sveglia l’attenzione e la simpatia. Gli è che, se quest’uomo nuovo non era ancora entrato ne’ costumi e ne’ caratteri, informava di sè tutta la cultura, era vivo negl’intelletti: una parentela c’era fra lo spirito di Alfieri e lo
spirito del secolo. Perchè dunque Alfieri si sente solo?
Perchè guarda con occhio di nemico il suo secolo? Gli è
per questo, che il nuovo uomo era in lui un modello puro, concretato nella sua potente individualità, divenuto
non solo la sua idea, ma la sua anima, tutta la vita, e che
lo vede nella pratica manomesso e contraddetto da quelli stessi, che pur con le parole lo glorificavano. Perciò
sente uno sdegno più vivo forse verso i democratici «facitori di libertà», che verso re e papi e preti, e fugge la
loro compagnia, «vergine di lingua, di orecchi e di occhi
persino»:
Non l’opra lor, ma il dir consuona al mio.
E muore tristo, maledicendo il secolo, e confidando nella posterità:
Ma non inulta l’ombra mia, nè muta
starassi, no: fia de’ tiranni scempio
la sempre viva mia voce temuta.
Nè lunge molto al mio cessar, d’ogni empio
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
veggio la vil possanza al suol caduta,
me forse altrui di liber uomo esempio.
Tutta la sua compassione è per Luigi XVI, e tutta la sua
indegnazione è per l’Assemblea nazionale, per quei
«profumati barbari», balbettanti «una qualche non lor
libera idea», per quei ribaldi fortunati, contro i quali gitta l’ultimo strale nel Misogallo:
Tiene ’l Ciel dai ribaldi, Alfier dai buoni.
Eccolo dunque quest’Alfieri solitario, che serba in sè inviolato e indiviso il suo modello, e se il cielo gli dà torto,
lui dà torto al cielo. Taciturno e malinconico per natura,
risospinto dalla società ancora più in se stesso, solo col
suo modello, rimane nel mondo vago e illimitato de’
sentimenti e de’ fantasmi, dove non ci è di concreto e di
compiuto che il suo individuo. Perciò i suoi fantasmi sono più simili a concetti logici che a cose effettuali, più a
generi e specie che ad individui. Non sono astrazioni,
come le chiamano. Potrebbero vuote astrazioni destare
un interesse così vivo? Anzi sono fantasmi appassionati,
ribollenti, sanguigni: non ci è vacuità, ci è congestione di
un sangue non ingenito e proprio, ma trasfuso e comunicato. Senti nella tragedia la solitudine dell’uomo, che
armeggia con se stesso e produce la sua propria sostanza. Non ama ciò che gli è estrinseco, la natura, la località, la personalità, e non l’intende e non la tollera, e la
stupra, lasciandovi le sue orme impresse. Il calore di una
potentissima individualità non gli basta a infonder la vita, e resta impotente alla generazione, perchè gli manca
l’amore, quel sentirsi due e cercar l’altro e obbliarsi in
quello. Impotenza per soverchio di attività, che gli toglie
la facoltà di ricevere le impressioni e riprodurle. L’occhio torbido della passione non guarda intorno, non si
assimila gli oggetti esterni. Alfieri è tutto passione, diresti quasi che voglia con un solo impeto mandar fuori il
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
vulcano che gli arde nel petto, non ha la pazienza e il riposo dell’artista, quel divino riso, col quale segue in tutti i suoi movimenti la sua creatura. Quel suo furore, del
quale si vanta, è il furore di Oreste, che gl’intorbida l’occhio, sì che investendo il drudo uccide la madre; e gli fa
scambiare i colori, abbozzare le immagini, appuntare i
sentimenti, dare al tutto un aspetto teso e nervoso. Indi
quella sceneggiatura e quello stile, quel sopprimere gradazioni, chiaroscuri, quel soverchio rilievo, quel dir
molto in poco, come si vanta, quella mutilazione e congestione, quell’abbreviazione tumultuosa della vita, quel
fondo oscuro e incolore della natura, quelle situazioni
strozzate, que’ personaggi in abbozzo, che più fremono,
e meno li comprendi. Di che aveva Alfieri un sentore
confuso, quando scriveva:
Nulla di quanto l’uom scienza chiama
per gli orecchi mai giunto erami al core:
ira, vendetta, libertade, amore
sonava io sol, come chi freme ed ama.
E così è. La sua tragedia freme ira, vendetta, libertà,
amore. Ma non basta fremere, o sonare, e l’attica dea,
che gli dice: – O dormi o crea –, ha torto: non chi dorme, ma chi studia e medita, è buono a creare. Non vale
cuore pieno, e «mente ignuda». Manca a lui la scienza
della vita, quello sguardo pacato e profondo, che t’inizia
nelle sue ombre e ne’ suoi misteri, e te ne porge tutte le
armonie. Perciò dalla concitata immaginazione escon
fuori punte arditissime, un certo addensamento di cose
e d’immagini, che par folgore, ma in cielo scarno e povero, com’è il «Pace» di Nerone, il celebre – Scegliesti? –
Ho scelto –, e il «Vivi, Emon, tel comando», e il «Fui
padre», e il «Ribelli tutti. – E ubbidiran pur tutti»: uno
stile a fazione di Tacito e di Machiavelli, con una ostentazione che scopre l’artificio, una vita a lampi e salti, più
dialogo che azione, e sotto forme brevi spesso prolissa e
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
stagnante. Si succedono sentimenti crudi, aguzzi, senza
riposi o passaggi, e accumulati con una tensione intellettuale di poca durata e che finisce nello scarno e nell’insipido. E si comprende perchè fra tanto calore la composizione riesce nel suo insieme fredda e monotona,
perchè in quell’esaltazione fittizia del discorso ti senti
nel vuoto, e perchè fra tanti motti e sentenze memorabili non ricordi un solo personaggio, uomo o donna che
sia. Non uno è rimasto vivo. E il difetto è maggiore negli
eroi, soprattutto ne’ rari casi che la forza è con loro e sono essi i vincitori. Le loro qualità eroiche, religione, patria, libertà, amore, si esalano in frasi generiche, e non
puoi mai coglierli nella loro intimità e nella loro attività.
Ci è il patriottismo, e non la patria; ci è l’amore, e non
l’amante; ci è la libertà, e manca l’uomo: sembrano personificazioni più che persone ne’ contrasti, nelle gradazioni, nella ricchezza della loro natura. Tali sono Carlo e
Isabella, Davide e Gionata, Icilio e Virginio, e i Bruti, gli
Agidi, i Timoleoni. Manca alla virtù ogni semplicità e
modestia, e nella concitata espressione senti la povertà
del contenuto. Maggior vita è ne’ personaggi tirannici o
colpevoli, dove Alfieri ha condensata tutta la sua bile, e
l’odio lo rende profondo. Uno de’ personaggi da lui meno stimati e più interessanti per ricchezza e profondità
di esecuzione è il suo Egisto nell’Agamennone; e la scena
dove l’iniquo con tanta abilità fa sorgere nella mente di
Clitennestra l’idea dell’assassinio, è degna di Shakespeare.
Alfieri è l’uomo nuovo in veste classica. Il patriottismo, la libertà, la dignità, l’inflessibilità, la morale, la coscienza del dritto, il sentimento del dovere, tutto questo
mondo interiore oscurato nella vita e nell’arte italiana gli
viene non da una viva coscienza del mondo moderno,
ma dallo studio dell’antico, congiunto col suo ferreo carattere personale. La sua Italia futura è l’antica Italia,
nella sua potenza e nella sua gloria, o, com’egli dice, «il
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
’sarà’ è l’’è stato’». Risvegliare negl’italiani la «virtù prisca», rendere i suoi carmi «sproni acuti» alle nuove generazioni, sì che ritornino degne di Roma, è il suo motivo lirico, che ha comune con Dante e col Petrarca.
L’alto motivo che ispirò il patriottismo de’ due antichi
toscani, divenuto a poco a poco un vecchiume rettorico
e messo in musica da Metastasio, ripiglia la sua serietà
nell’uomo nuovo che si andava formando in Italia, e di
cui Alfieri era l’espressione esagerata, a proporzioni epiche. Perchè Alfieri, realizzando in sè il tipo di Machiavelli, si avea formata un’anima politica: la patria era la
sua legge, la nazione il suo dio, la libertà la sua virtù; ed
erano idee povere di contenuto, forme libere e illimitate,
colossali come sono tutte le aspirazioni non ancora determinate e concretate nel loro urto con la vita pratica.
Se avesse rappresentato il cozzo fatalmente tragico delle
aspirazioni con la realtà, ne sarebbe uscito un alto
pathos, il vero motivo della tragedia moderna. Ma un
concetto così elevato del mondo era prematuro, e d’accordo col suo secolo Alfieri non vede di tutta quella
realtà che il fenomeno più grossolano, la forza maggiore
o il tiranno; e non lo studia e non lo comprende, ma
l’odia, come la vittima il carnefice; l’odia di quell’odio
feroce da giacobino, che non potendo spiegarsi e assimilarsi l’ostacolo taglia il nodo con la spada. Alfieri odiava
i giacobini; ma egli era un Robespierre poetico, e se i
giacobini avessero lette le sue tragedie, potevano dirgli:
– Maestro, da voi abbiamo imparato l’arte. – L’uomo
che glorificava il primo Bruto, uccisore de’ figli, e l’altro
Bruto, uccisore di Cesare padre suo, l’uomo che non
avea che parole di dispregio per Carlo primo, vittima de’
repubblicani inglesi, non aveva nulla a dire a coloro che
tagliarono la testa al decimosesto Luigi. Ridotte le forze
collettive e sociali a forza e arbitrio di un solo individuo,
era naturale che l’individuo prendesse grandezza epica e
colossale sotto il nome di tiranno, e che l’odio contro di
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
quello fosse proporzionato a quella grandezza. Ma in
questo caso, divenuta la tragedia un gioco di forze individuali, eliminato ogni elemento collettivo e superiore,
essa non può avere per base che la formazione artistica
dell’individuo. Se non che il nostro tragico è più preoccupato delle idee che mette in bocca a’ suoi eroi, che
della loro anima e della loro personalità. Il contenuto
politico e morale non è qui semplice stimolo e occasione
alla formazione artistica, ma è la sostanza, e invade e
guasta il lavoro dell’arte. Il qual fenomeno ho già notato
come caratteristico della nuova letteratura. Il contenuto
esce dalla sua secolare indifferenza, e si pone come esteriore e superiore all’arte, maneggiandola quasi suo istrumento, un mezzo di divulgarlo e infiammarne la coscienza, per modo che i carmi sieno «sproni acuti». Il
sentimento politico è troppo violento e impedisce l’ingenua e serena contemplazione. Più è vivo in Alfieri, e meno gli concede il godimento estetico. Perciò le sue concezioni, i suoi sentimenti, i suoi colori sono crudi e
disarmonici, e per dar troppo al contenuto toglie troppo
alla forma. Egli è la nuova letteratura nella più alta esagerazione delle sue qualità, più simile a violenta reazione
contro il passato, che a quella tranquilla affermazione di
sè, paga di un’ironia senza fiele, così nobile in Parini.
Nell’ironia pariniana senti un nuovo mondo affacciarsi
nel sicuro possesso di se stesso. Nel sarcasmo alfieriano
senti il ruggito di non lontane rivoluzioni. Nè ci volea
meno che quella esagerazione e quella violenza per colpire le torpide e vuote immaginazioni.
Gli effetti della tragedia alfieriana furono corrispondenti alle sue intenzioni. Essa infiammò il sentimento
politico e patriottico, accelerò la formazione di una coscienza nazionale, ristabilì la serietà di un mondo interiore nella vita e nell’arte. I suoi epigrammi, le sue sentenze, i suoi motti, le sue tirate divennero proverbiali,
fecero parte della pubblica educazione. Declamare ti-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
rannide e libertà venne in moda, spasso innocente allora, e più tardi, quando i tempi ingrossarono, dimostrazione politica piena di allusione a’ casi presenti. I contemporanei, applaudendo in teatro alle sue tirate, non
credevano che quelle massime dovessero impegnar la
coscienza, e trovavano lui che ci credeva selvatico ed eccentrico. Nè si maravigliavano della esagerazione; perchè l’esagerazione era da un pezzo la malattia dello spirito italiano, smarrito il senso della realtà e della misura.
Ma nelle nuove generazioni, travagliate da’ disinganni e
impedite nella loro espansione, quegl’ideali tragici così
vaghi e insieme così appassionati rispondevano allo stato della coscienza, e quei versi aguzzi e vibrati come un
pugnale, quei motti condensati come un catechismo, ebbero non poca parte a formare la mente ed il carattere.
La sua fama andò crescendo con la sua influenza, e ben
presto parve all’Italia di avere infine il suo gran tragico
pari a’ sommi. Ci era la tragedia, ma non c’era ancora il
verso tragico, a sentenza de’ letterati. Chiedevano qualche cosa di mezzo tra la durezza di Alfieri e la cantilena
di Metastasio. E quando fu rappresentato l’Aristodemo,
il problema parve sciolto. Vedevano in quella tragedia la
fierezza dantesca e la dolcezza virgiliana, «di Dante il
core e del suo duca il canto». E in verità di Dante e di
Virgilio qualche cosa era in Vincenzo Monti. Avea Dante nell’immaginazione e Virgilio nell’orecchio.
L’abate Monti, nato fra tanto fermento d’idee, ne ricevè l’impressione, come tutti gli uomini colti. Ma furono in lui più il portato della moda, che il frutto di ardente convinzione. Fu liberale sempre. E come non esser
liberale a quel tempo, quando anche i retrivi gridavano
«libertà», bene inteso la «vera libertà», come la chiamavano? E in nome della libertà glorificò tutt’i governi.
Quando era moda innocente declamare contro il tiranno, gittò sul teatro l’Aristodemo, che fece furore sotto gli
occhi del papa. Quando la rivoluzione francese s’insan-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
guinò, in nome della libertà combattè la licenza, e scrisse la Basvilliana. Ma il canto gli fu troncato nella gola
dalle vittorie di Napoleone, e allora in nome della libertà
cantò Napoleone, e in nome anche della libertà cantò
poi il governo austriaco. Le massime eran sempre quelle, applicate a tutt’i casi dal duttile ingegno. Il poeta faceva quello che i diplomatici. Erano le idee del tempo e
si torcevano a tutti gli avvenimenti. I suoi versi suonano
sempre «libertà», «giustizia», «patria», «virtù», «Italia».
E non è tutto ipocrisia. Dotato di una ricca immaginazione, ivi le idee pigliano calore e forma, sì che facciano
illusione a lui stesso e simulino realtà. Non aveva l’indipendenza sociale di Alfieri, e non la virile moralità di
Parini: era un buon uomo che avrebbe voluto conciliare
insieme idee vecchie e nuove, tutte le opinioni, e dovendo pur scegliere, si tenea stretto alla maggioranza, e non
gli piacea di fare il martire. Fu dunque il segretario
dell’opinione dominante, il poeta del buon successo.
Benefico, tollerante, sincero, buono amico, cortigiano
più per bisogno e per fiacchezza d’animo, che per malignità o perversità d’indole, se si fosse ritratto nella verità
della sua natura, potea da lui uscire un poeta. Orazio è
interessante perchè si dipinge qual è, scettico, cinico,
poltrone, patriota senza pericolo, epicureo. Monti raffredda perchè sotto la magnificenza di Achille senti la
meschinità di Tersite, e più alza la voce, e più piglia aria
dantesca, più ti lascia freddo. Ci è quel falso eroico, tutto di frase e d’immagine, qualità tradizionale della letteratura, e caro ad un popolo fiacco e immaginoso, che
aveva grandi le idee e piccolo il carattere. Monti era la
sua personificazione, e nessuno fu più applaudito. La
natura gli aveva largito le più alte qualità dell’artista, forza, grazia, affetto, armonia, facilità e brio di produzione.
Aggiungi la più consumata abilità tecnica, un’assoluta
padronanza della lingua e dell’elocuzione poetica. Ma
erano forze vuote, macchine potenti prive d’impulso.
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Mancava la serietà di un contenuto profondamente meditato e sentito, mancava il carattere, che è l’impulso
morale. Pure i suoi lavori, massime l’Iliade, saranno
sempre utili a studiarvi i misteri dell’arte e le finezze
dell’elocuzione. E la conclusione dello studio sarà, che
non basta l’artista quando manchi il poeta.
Monti, come Metastasio, fu divinizzato in vita. Ebbe
onori, titoli, forza, molto seguito. Un popolo così artistico, come l’italiano, ammirava quel suo magistero a freddo, quella facilità e quella felicità di armonie. Dopo la
sua morte ebbe gli elogi di Alessandro Manzoni e di Pietro Giordani. E l’esagerazione delle accuse rese cari
quegli elogi, quasi pio ufficio alla memoria di un uomo,
in cui era più da compatire che da biasimare.
Fondata la repubblica cisalpina, in quel primo fervore di libertà Monti fu censurato per la sua Basvilliana
con lo stesso furore che l’avevano applaudito.Un giovane scrisse la sua apologia. L’atto ardito piacque. E il giovane entrava nella vita tra la stima e la benevolenza pubblica. Parlo di Ugo Foscolo, formatosi alla scuola di
Plutarco, di Dante e di Alfieri.
L’Italia, secondo il solito, se la contendevano francesi
e tedeschi. Ritornava la storia, ma con altri impulsi. Non
si trattava più di dritti territoriali. La sete del dominio e
dell’influenza era dissimulata da motivi più nobili. Venivano in nome delle idee moderne. Gli uni gridavano «libertà e indipendenza nazionale»: dietro alle loro baionette ci era Voltaire e Rousseau. Gli altri, proclamatisi
prima difensori del papa e ristoratori del vecchio, finivano promettitori di vera libertà e di vera indipendenza.
Le idee marciavano appresso a’ soldati e penetravano
ne’ più umili strati della società. Propaganda a suon di
cannoni, che compì in pochi anni quello che avrebbe
chiesto un secolo. Il popolo italiano ne fu agitato ne’
suoi più intimi recessi: sorsero nuovi interessi, nuovi bi-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
sogni, altri costumi. E quando dopo il 1815 parve tutto
ritornato nel primo assetto, sotto a quella vecchia superficie fermentava un popolo profondamente trasformato
da uno spirito nuovo, che ebbe, come il vulcano, le sue
periodiche eruzioni, finchè non fu soddisfatto.
Quei grandi avvenimenti colsero l’Italia immatura e
impreparata. Non ancora vi si era formato uno spirito
nazionale, non aveva ancora una nuova personalità, un
consapevole possesso di se stessa. Il sole irradiava appena gli alti monti. Nella stessa borghesia, ch’era la classe
colta, trovavi una confusione d’idee vecchie e nuove,
niente di chiaro e ben definito, audacie ed utopie mescolate con pregiudizi e barbarie. Non erano sorti avvenimenti atti a stimolare le passioni, a formare i caratteri.
Privi d’iniziativa propria, aspettavano prima tutto da’
principi, poi tutto da’ forestieri. Fatti liberi e repubblicani senza merito loro, rimasero al sèguito de’ loro liberatori, come clientela messa lì per batter le mani e far la
corte al padrone magnanimo. E quando, passata la luna
di miele, il padrone ebbe i suoi capricci e prese aria di
conquistatore e d’invasore, gittarono le alte grida, e cominciò il disinganno.
I centri più attivi di questi avvenimenti furono Napoli
e Milano, colà dove le idee nuove si erano mostrate più
vive. Napoli, fatta repubblica e abbandonata poco poi a
se stessa, ebbe in pochi mesi la sua epopea. Felici voi,
Pagano, Cirillo, Conforti, Manthoné, cui il patibolo cinse d’immortale aureola! La loro morte valse più che i libri, e lasciò nel regno memorie e desidèri non potuti più
sradicare. Sfuggirono alla strage alcuni patrioti, che ripararono a Milano, e tra gli altri il Cuoco, che narrò gli
errori e le glorie della breve repubblica con una sagacia
aguzzata dall’esperienza politica. Milano divenne il convegno de’ più illustri patrioti. Metastasio e Goldoni, Filangieri e Beccaria erano morti da pochi anni. Bettinelli,
il Nestore, sopravviveva a se stesso. Alfieri, che ne’ primi
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entusiasmi avea cantata la liberazione dell’America e la
presa della Bastiglia, vedute le esorbitanze della rivoluzione, sdegnoso e vendicativo sfogava nel Misogallo, nelle Satire l’acre umore, e contraddetto dagli avvenimenti,
si seppelliva, come Parini, nel mondo antico, e studiando il greco, finiva la vita nel riso sarcastico di commedie
triste. Cesarotti, addormentato sugli allori, recitava dalla
cattedra lodi ufficiali e scriveva in verso panegirici insipidi. Pietro Verri, salito in ufficio, maturava con poca
speranza progetti e riforme. La vecchia generazione se
ne andava al suono dei poemi lirici di Vincenzo Monti,
professore, cavaliere, poeta di corte. I repubblicani a
Napoli e a Milano venivano gallonati nelle anticamere
regie. E non si sentì più una voce fiera, che ricordasse i
dolori e gli sdegni e le vergogne fra tanta pompa di feste
e tanto strepito di armi.
Comparve Iacopo Ortis. Era il primo grido del disinganno, uscito dal fondo della laguna veneta, come funebre preludio di più vasta tragedia. Il giovane autore aveva cominciato come Alfieri: si era abbandonato al
lirismo di una insperata libertà. Ma quasi nel tempo
stesso lui cantava l’eroe liberatore di Venezia, e l’eroe
mutatosi in traditore vendeva Venezia all’Austria. Da un
dì all’altro Ugo Foscolo si trovò senza patria, senza famiglia, senza le sue illusioni, ramingo. Sfogò il pieno
dell’anima nel suo Iacopo Ortis. La sostanza del libro è il
grido di Bruto: «O virtù, tu non sei che un nome vano».
Le sue illusioni, come foglie di autunno, cadono ad una
ad una, e la loro morte è la sua morte, è il suicidio. A
breve distanza hai l’ideale illimitato di Alfieri con tanta
fede, e l’ideale morto di Foscolo con tanta disperazione.
Siamo ancora nella gioventù, non ci è il limite. Illimitate
le speranze, illimitate le disperazioni. Patria, libertà, Italia, virtù, giustizia, gloria, scienza, amore, tutto questo
mondo interiore dopo sì lunga e dolorosa gestazione appena è fiorito, e già appassisce. La verità è illusione, il
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progresso è menzogna. Al primo riso della fortuna ci era
la follia delle speranze, al primo disinganno ci è la follia
delle disperazioni. Questo subitaneo trapasso di sentimenti illimitati al primo urto della realtà rivela quella
agitazione d’idee astratte ch’era in Italia, venuta da’ libri
e rimasta nel cervello, scompagnata dall’esperienza, e
non giunta ancora a temprare i caratteri. Trovi in questo
Iacopo un sentimento morboso, una esplosione giovanile e superficiale, più che l’espressione matura di un
mondo lungamente covato e meditato, una tendenza più
alla riflessione astratta, che alla formazione artistica, una
immaginazione povera e monotona in tanta esagerazione de’ sentimenti.
Il grido di Iacopo rimase sperduto fra il rumore degli
avvenimenti. Sorsero nuove speranze, si fabbricarono
nuove illusioni. Il romanzo, uscito anonimo, mutilato e
interpolato, pura speculazione libraria, destò curiosità,
fu il libro delle donne e de’ giovani, che vi pescavano un
frasario amoroso. Ma non vi si die’ importanza politica
nè letteraria, anzi molti, tratti da somiglianze superficiali, lo dissero imitazione del Werther. Il fatto è che non
rispondeva allo stato della pubblica opinione distratta
da così rapida vicenda di cose e di uomini, e quelle disperazioni erano contraddette dalle nuove speranze.
Foscolo si mescolò alla vita italiana e si sentì fiero della sua nuova patria, della patria di Dante e di Alfieri. Le
necessità della vita lo incalzavano. E ancora più, uno
spirito guerriero che gli ruggìa dentro e non trovava
espansione, una forza inquieta in ozio. Giovane, pieno
d’illusioni, appassionato, con tanto «furore di gloria»,
con tanto orgoglio al di dentro, con un grande desiderio
di fare, e di fare grandi cose, lui, educato da Plutarco,
stimolato da Alfieri, quell’ozio forzato lo gitta violentemente in sè, gli rode l’anima. È la malattia ch’egli chiama nel suo Ortis con una energia piena di verità «consunzione dell’anima». Lo vedi a Milano vagante,
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scontento, fremente, ora rinselvarsi, fantasticare, scrivere se stesso in verso, ora giocare, donneare, contendere,
far baccano. Gli balena innanzi il suicidio, ed ha appena
venti anni:
Non son chi fui, perì di noi gran parte:
questo che avanza è sol languore e pianto.
In questa malattia di languore s’intenerisce, pensa alla
madre, al fratello, alla sua lontana Zacinto, non senza
certi ribollimenti, che annunziano la vigoria di una forza
ròsa, non doma. Alfieri a venti anni si sfogava correndo
Europa, Foscolo si sfogava verseggiando. Le sue effusioni liriche sono la sua storia da’ sedici a’ venti anni. Ricomparisce in quei versi una intimità dolce e malinconica, di cui l’Italia avea perduta la memoria. E gli veniva
non solo dal Petrarca, ma dalla terra materna, dal suo
sentire greco, dalle «corde eolie maritate alla grave itala
cetra». Ecco versi, preludio di Giacomo Leopardi:
Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra: a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.
L’esercizio della vita guarì Foscolo. Soldato della repubblica, combattè a Cento, alla Trebbia, a Novi, a Genova.
La vita militare gli ritornò il sapore della vita. Nelle odi
A Luigia Pallavicini e All ’amica risanata trovi un mondo
musicale e voluttuoso, dove l’anima guarita e gioiosa si
espande nella varietà della vita. La sua fama gli dà il gusto delle lettere e della poesia; traduce la Chioma di Berenice e vi appone un comento, dove fa sfoggio di una
erudizione peregrina; tenta una traduzione dell’Iliade,
emulo di Monti; scrive un’orazione pei comizi di Lione,
con pomposo artificio di stile e con gravità e arditezza
d’idee.
I Sepolcri stabilirono la sua riputazione e lo alzarono
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accanto a’ sommi. Fu chiamato per antonomasia «l’autore de’ Sepolcri». E in verità, questo carme è la prima
voce lirica della nuova letteratura, l’affermazione della
coscienza rifatta, dell’uomo nuovo.
Una legge della repubblica prescriveva l’uguaglianza
de’ sepolcri, l’uguaglianza degli uomini innanzi alla
morte. Quel fasto de’ sepolcri sembrava privilegio de’
nobili e de’ ricchi, e combattevano il privilegio, la distinzione delle classi, anche in quella forma. – Parini dunque giacerà nella fossa comune accanto al ladro, – pensava Foscolo. Questa logica rivoluzionaria spinta fino
agli ultimi corollari gli offuscava la poesia della vita, lo
riconduceva nel mondo naturale e ferino, non ancora
abitato dall’uomo. Nè gli entrava quel trattar l’uomo come un puro animale. Sentiva in sè offeso il poeta e l’uomo. Mancava l’idea religiosa che abbellisce la morte e
mostra il paradiso sotto le oscure volte dell’obblio. Ma
vivo era il senso dell’umanità nel suo progresso e ne’
suoi fini, collegata con la famiglia, con la patria, con la
libertà, con la gloria Di là cava Foscolo le sue armonie,
una nuova religione de’ sepolcri: il sublime di un mondo
naturale e ferino della morte è trasformato da’ sentimenti più delicati dell’umanità in un pantheon vivente, perchè opera ancora su’ vivi, desta ricordanze e illusioni,
accende a nobili fatti. Sono illusioni, senza dubbio; ma
sono le illusioni dell’umanità, eterne quanto essa, parte
della sua storia. Il carme è una storia dell’umanità da un
punto di vista nuovo, una storia de’ vivi costruita da’
morti. Senti un’ispirazione vichiana in questo mondo,
che dagli oscuri formidabili inizi naturali e ferini la religione de’ sepolcri alza a stato umano e civile, educatrice
di Grecia e d’Italia; il doppio mondo caro a Foscolo, che
unisce in una sola contemplazione Ilio e Santa Croce. La
storia è antica, ma il prospetto è nuovo, e ne nasce originalità di forme e di colori. Ci è qui fuso inferno e paradiso, la vasta ombra gotica del nulla e dell’infinito, e i sen-
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timenti teneri e delicati di un cuore d’uomo, il tutto in
una forma solenne e quasi religiosa come di un inno alla
divinità.
La Rivoluzione sotto l’orrore de’ suoi eccessi rifaceva
già la sua via. Sopravvenivano idee più temperate; si sentiva il bisogno di una restaurazione religiosa e morale. Il
carme di Foscolo facea vibrare queste nuove corde. La
Musa non è più Alfieri. Si accostavano i tempi di Vico.
Declamare contro i preti e contro la superstizione era
il tono del secolo. Aggiungi i tiranni, i nobili, i privilegi, i
monopoli. Si combatteva in nome della filosofia, della libertà, dell’economia pubblica. Qui il tono è altro.
Non può credere il poeta all’immortalità dell’anima;
pure vorrebbe crederci. Sarà una illusione, ma è crudeltà togliere illusioni che ci rendono felici, che ci abbelliscono la vita. Così la via è aperta ad un ritorno delle
idee religiose, non in nome della verità, ma in nome
dell’umanità e della poesia. Senti già Châteaubriand.
Ma se «purtroppo» è vero che il tempo traveste ogni
cosa, che la materia solo è immortale, e le forme periscono, non è vero che la morte dell’uomo sia il nulla. Il poeta gli fabbrica una nuova immortalità. Restano di lui gli
scritti, le idee, le geste, la memoria; la Musa anima il silenzio delle urne, e i viventi vi cercano ispirazioni e
conforti. La pietà de’ defunti è la religione dell’umanità,
ove non si voglia che ricaschi nello stato ferino. Non vogliamo credere a un essere superiore, dispensatore del
premio e della pena: sia pure, anzi pur troppo è così:
«vero è ben, Pindemonte!». Ma, uomini, possiamo noi
rifiutar fede all’umanità? e vogliamo proprio togliere alla vita tutte le sue illusioni, tutta la sua poesia? Foscolo
protesta come uomo e come poeta. È in lui sempre il secolo decimottavo, ma il secolo andato troppo innanzi
nel suo lavoro di demolizione, e che si arretra, cercando
un punto di fermata ne’ sentimenti umani, via a’ sentimenti religiosi.
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Queste cose Foscolo non le pensa solo, le sente. Ci
era già il patriota, il liber uomo: qui apparisce l’uomo
nella sua intimità, ne’ delicati sentimenti della sua natura civile. L’uomo nuovo s’integra, il mondo interiore
della coscienza si aggiunge nuovi elementi. Ed è da questa profondità di sentire che sono uscite le più belle ispirazioni della lirica italiana, il lamento di Cassandra, le
impressioni di Maratona, l’apoteosi di Santa Croce. Il
punto di vista è così elevato che lo spettacolo d’Italia caduta così giù, materia di tanta rettorica, lo trova rassegnato e meditativo sulle alterne vicende delle umane
sorti. Ci è vista di filosofo, cuore d’uomo e ispirazione di
poeta.
Quando comparvero i Sepolcri, fu come si fosse tócca
una corda che vibrava in tutt’i cuori. E non fu minore
l’impressione su’ letterati.
La nuova letteratura si era annunziata con la soppressione della rima. Alla terzina e all’ottava succedeva il
verso sciolto. Era una reazione contro la cadenza e la
cantilena. La nuova parola, confidente nella serietà del
suo contenuto, non pur sopprimeva la musica, ma la rima: bastava ella sola a se stessa. Foscolo qui sopprime
anche la strofa, e non era già una tragedia o un poema,
era una composizione lirica, alla quale egli osa togliere
tutt’i mezzi cantabili e musicali della metrica. Qui è pensiero nudo, acceso nella immaginazione, e prorompente,
caldo di se stesso, con le sue consonanze e le sue armonie interne. Il verso, domato da tenace lavoro, rotte le
forme tradizionali e meccaniche, vien fuori spezzato in
sè, con nuove tessiture e nuovi suoni, e non è artificio, è
voce di dentro, è la musica delle cose, la grande maniera
di Dante. Anche il genere parve nuovo. Al sonetto e alla
canzone succedeva il carme, forma libera di ogni esterno
meccanismo. Era il poema lirico del mondo morale e religioso, l’elevazione dell’anima nelle alte sfere dell’umanità e della storia, una ricostruzione della coscienza o
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dell’uomo interiore al di sopra delle passioni contemporanee, era l’uomo intero, nella esteriorità della sua vita
di patriota e di cittadino e nella intimità de’ suoi affetti
privati, era l’aurora di un nuovo secolo. Il carme preludeva all’inno. Foscolo batteva alle porte del secolo decimonono.
Entrato in questa via, mette mano ad altri carmi, l’Alceo, la Sventura, l’Oceano. Ma non trova più la prima
ispirazione: compone a freddo, letterariamente, gli escono frammenti, niente giunge a maturità. Comparvero ultime le Grazie. Lavoro finissimo di artista, ma il poeta
quasi non ci è più.
Rimane un Foscolo in prosa. Hai innanzi la sua Prolusione, le sue lezioni, i suoi scritti critici. Non è prosa
francese e non toscana, voglio dire che vi desideri la grazia e la vivezza toscana, e la logica e il brio francese. È
una prosa personale, ancora in formazione, piena di reminiscenze latine e oratorie, con una tendenza alla maestà e alla forza. Mostra più calore d’immaginazione che
vigore d’intelletto.
Il concetto dominante di questa prosa è l’uomo soprapposto al letterato. Foscolo ti dà la formola della
nuova letteratura. La sua forza non è al di fuori, ma al di
dentro, nella coscienza dello scrittore, nel suo mondo
interiore. Dante e Petrarca visti da questo aspetto risplendono di nuova luce. Lo stile si scioglie dall’elocuzione e da ogni artificio tecnico, e s’interna nel pensiero
e nel sentimento. Lo stesso Beccaria è oltrepassato. Ci
avviciniamo all’estetica. Non ci è ancora la scienza, ma
ce n’è il gusto e la tendenza.
E ci è ancora di più. Vi rinasce il gusto delle investigazioni filologiche e storiche, tenute in tanto disprezzo da
un secolo che faceva tavola di tutto il passato. L’Italia vi
ripiglia le sue tradizioni, e si ricongiunge a Vico e Muratori.
Foscolo apriva la via al nuovo secolo. E non è dubbio
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che se il progresso umano avvenisse non in modo tumultuario, ma in modo logico e pacifico, l’ultimo scrittore
del secolo decimottavo sarebbe stato anche il primo
scrittore del secolo decimonono, il capo della nuova
scuola. Ma quel progresso vestiva aspetto di reazione, e
in quella sua forma negativa e violenta offendeva le idee
e le forme di un secolo, del quale Foscolo si sentiva
complice. Gli spiaceva soprattutto la guerra mossa alle
forme mitologiche. Sentiva in quelle negazioni negato se
stesso. E quando avea già moderate molte sue opinioni
religiose e politiche, e s’era fatto della vita un concetto
più reale, e s’era spogliata gran parte delle sue illusioni,
quando stava già con l’un piè nel nuovo secolo; calunniato, disconosciuto, dimenticato, nel continuo flutto
delle sue contraddizioni finì tristo, lanciando al nuovo
secolo, come una sfida le sue Grazie, l’ultimo fiore del
classicismo italiano.
Foscolo morì nel 1827. E già si erano levati sull’orizzonte Pellico, Manzoni, Grossi, Berchet. Comparsa era
la scuola romantica l’audace scuola boreale.
Il 1815 è una data memorabile, come quella del Concilio di Trento. Segna la manifestazione officiale di una
reazione non solo politica, ma filosofica e letteraria, iniziata già negli spiriti, come se ne veggono le orme anche
ne’ Sepolcri, e consacrata nel 18 brumaio. La reazione fu
così rapida e violenta come la rivoluzione. Invano Bonaparte tentò di arrestarla, facendo delle concessioni, e
cercando nelle idee medie una conciliazione. Il movimento impresso giunse a tale, che tutti gli attori della rivoluzione furono mescolati in una comune condanna,
giacobini e girondini, Robespierre e Danton, Marat e
Napoleone. Il «terrore bianco» successe al «rosso».
Venne in moda un nuovo vocabolario filosofico, letterario, politico. I due nemici erano il materialismo e lo
scetticismo, e vi sorse contro lo spiritualismo portato si-
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no all’idealismo e al misticismo. Al dritto di natura si
oppose il dritto divino, alla sovranità popolare la legittimità, a’ dritti individuali lo Stato, alla libertà l’autorità o
l’ordine. Il medio evo ritornò a galla, glorificato come la
culla dello spirito moderno, e fu corso e ricorso dal pensiero in tutt’i suoi indirizzi. Il cristianesimo, bersaglio fino a quel punto di tutti gli strali, divenne il centro di
ogni investigazione filosofica e la bandiera di ogni progresso sociale e civile; i classici furono per istrazio chiamati «pagani», e le dottrine liberali furono qualificate
senz’altro pretto paganesimo; gli ordini monastici furono dichiarati benefattori della civiltà, e il papato potente
fattore di libertà e di progresso. Mutarono i criteri
dell’arte. Ci fu un’arte pagana, e un’arte cristiana, di cui
fu cercata la più alta espressione nel gotico, nelle ombre,
ne’ misteri, nel vago e nell’indefinito, in un di là che fu
chiamato «l’ideale», in un’aspirazione all’infinito, non
capace di soddisfazione, perciò malinconica: la malinconia fu battezzata, e detta qualità «cristiana», il sensualismo, il materialismo, il plastico divenne il carattere
dell’arte «pagana»: sorse il genere cristiano «romantico»
in opposizione al genere «classico». «Religione», «fede», «cristianesimo», «l’ideale», «l’infinito», lo «spirito», «il trono e l’altare», «la pace e l’ordine» furono le
prime parole del nuovo secolo. La contraddizione era
spiccata. A Voltaire e Rousseau succedeva Châteaubriand, Staël, Lamartine, Victor Hugo, Lamennais. E
proprio nel 1815 uscivano in luce gl’Inni sacri del giovane Manzoni. Storia, letteratura, filosofia, critica, arte,
giurisprudenza, medicina, tutto prese quel colore. Avevamo un neoguelfismo, il medio evo si drizzava minaccioso e vendicativo contro tutto il Rinascimento.
Il movimento non era già fittizio e artificiale, sostenuto da penne salariate, promosso dalle polizie, suscitato
da passioni e interessi temporanei. Era un serio movimento dello spirito, secondo le eterne leggi della storia,
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al quale partecipavano gl’ingegni più eminenti e liberi
del nuovo secolo. Movimento esagerato senza dubbio
ne’ suoi inizi, perchè mirava non solo a spiegare, ma a
glorificare il passato, a cancellare dalla storia i secoli, a
proporre come modello il medio evo. Ma l’una esagerazione chiamava l’altra. La dea Ragione e la comunione
de’ beni avea per risposta l’apoteosi del carnefice e la legittimità dell’Inquisizione.
Ma l’esagerazione fu di corta durata, e la reazione fallì ne’ suoi tentativi di ricomposizione radicale alla medio
evo. Avea contro di sè infiniti nuovi interessi venuti su
con la Rivoluzione, interessi materiali, morali, intellettuali. D’altra parte il nuovo ordine di cose favoriva in
gran parte la monarchia, che avea pure contribuito a
promuoverlo. Non era interesse de’ principi restaurare
le maestranze, le libertà municipali, le classi privilegiate,
tutte quelle forze collettive sparite nella valanga rivoluzionaria, nelle quali essi vedevano un freno al loro potere assoluto. Rimase dunque in piedi quasi dappertutto e
quasi intero l’assetto economico-sociale consacrato da’
nuovi codici, e la monarchia assoluta uscì più forte dalla
burrasca. Perchè il clero e la nobiltà, un giorno suoi rivali, divennero i suoi protetti e i suoi servitori sotto titoli
pomposi, e scomparse le forze collettive naturali, potè
con facilità riordinare la società sopra aggregazioni artificiali necessariamente sottomesse alla volontà sovrana,
burocrazia, esercito e clero. La burocrazia interessava
alla conservazione dello Stato la borghesia, che si dava
alla caccia degl’impieghi, e centralizzando gli affari sopprimeva ogni libertà e movimento locale, e teneva nella
sua dipendenza provincie e comuni. Una moltitudine
d’impiegati invasero lo Stato come cavallette, ciascuno
esercitando per suo conto una parte del potere assoluto,
di cui era istrumento. L’esercito, divenuto permanente,
anzi una istituzione dello Stato, fu ordinato a modo di
casta, contrapposto ai cittadini, evirato dall’ubbidienza
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passiva, e avvezzo a ufficio più di gendarme che di soldato. Il clero, stretta l’alleanza fra il trono e l’altare, si
recò in mano l’educazione pubblica, vigilò scuole, libri,
teatri, accademie, osteggiò tutte le idee nuove, mantenne l’ignoranza nelle moltitudini, trattò la coltura come
sua nemica. Motrice della gran mole era la polizia, penetrata in tutte queste aggregazioni governative, divenuto
spia l’impiegato, il soldato e il prete. Ne uscì una corruzione organizzata, chiamata «governo», o in forma assoluta, o in maschera costituzionale.
Una reazione così fatta era in una contraddizione violenta con tutte le idee moderne, e non potea durare. Sopravvennero i moti di Spagna, di Napoli, di Torino, di
Parigi, delle Romagne; Grecia e Belgio conquistavano la
loro autonomia. Il sentimento nazionale si svegliava insieme col sentimento liberale. E il secolo decimottavo ripigliava il suo cammino co’ suoi dritti individuali, co’
suoi princìpi d’eguaglianza, con la sua «carta» dell’Ottantanove. I principi legittimi caddero. La monarchia
per vivere si trasformò, si ammodernò, prese abiti borghesi, divise il suo potere con le classi colte. E soddisfatta la borghesia, soddisfatti tutti. Il terzo stato era niente;
il terzo stato fu tutto.
Su questo compromesso visse l’Europa lunghi anni.
Le istituzioni costituzionali si allargarono. Il censo e la
capacità apersero la via a’ più alti uffici, rotte tutte le
barriere artificiali. Continuò la guerra più aspra al feudalismo, alla manomorta, a’ privilegi. La borghesia trovò
largo pascolo alla sua attività e alla sua ambizione ne’
parlamenti, ne’ consigli comunali e provinciali, nella
guardia nazionale, nel giurì, nelle accademie, nelle scuole sottratte al clero. Le industrie e i commerci si svilupparono; si apersero altre fonti alla ricchezza. Un nuovo
nome segnava la nuova potenza venuta su. Non si diceva
più «aristocrazia», si diceva «bancocrazia», alimentata
dalla libera concorrenza. Chi aveva più forza, vinceva e
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dominava, forza di censo, d’ingegno e di lavoro. L’attività intellettuale, stimolata in tutti i versi, fra tanta pubblica prosperità faceva miracoli. All’ombra della pace e
della libertà fiorivano le scienze e le lettere. Anche dove
gli ordini costituzionali non poterono vincere, come in
Italia, la reazione allentò i suoi freni, la borghesia ebbe
una parte più larga alle pubbliche faccende, e vi s’introdusse un modo di vivere meno incivile. A poco a poco il
vecchio si accostumava a vivere accanto al nuovo; il dritto divino e la volontà del popolo si associavano nelle leggi e negli scritti, formola del compromesso sul quale riposava il nuovo edificio; e venne tempo che una
conciliazione parve possibile non solo fra il monarcato e
il popolo, ma fra il papato e la libertà.
Adunque, sedati i primi bollori, quel movimento che
aveva aria di reazione, era in fondo la stessa Rivoluzione,
che ammaestrata dalla esperienza moderava e disciplinava se stessa. I disinganni, le rovine, tanti eccessi, un ideale così puro, così lusinghiero, profanato al suo primo
contatto col reale, tutto questo dovea fare una grande
impressione sugli spiriti e renderli meditativi. La reazione era il passato ancora vivo nelle moltitudini, assalito
con una violenza, che tirava in suo favore anche gl’indifferenti, e che ora rialzava il capo con superbia di vincitore. L’esperienza ammaestrò che il passato non si distrugge con un decreto, e che si richiedono secoli per
cancellare dalla storia l’opera de’ secoli. E ammaestrò
pure che la forza allora edifica solidamente quando sia
preceduta dalla persuasione, secondo quel motto di
Campanella che «le lingue precedono le spade». Evidentemente la Rivoluzione aveva errato, esagerato le sue
idee e le sue forze, ed ora si rimetteva in via con minor
passione, ma con maggior senso del reale, confidando
più nella scienza che nell’entusiasmo. Che cosa fu dunque il movimento del secolo decimonono, sbolliti i primi furori di reazione? Fu lo stesso spirito del secolo de-
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cimottavo, che dallo stato spontaneo e istintivo passava
nello stadio della riflessione, e rettificava le posizioni, riduceva le esagerazioni, acquistava il senso della misura e
della realtà, creava la scienza della rivoluzione. Fu lo spirito nuovo che giungeva alla coscienza di sè e prendeva
il suo posto nella storia. Châteaubriand, Lamartine, Victor Hugo Lamennais, Manzoni, Grossi, Pellico erano liberali non meno di Voltaire e Rousseau, di Alfieri e Foscolo. Sono anch’essi figli del secolo decimosettimo e
decimottavo, il loro programma è sempre la «carta»
dell’Ottantanove, il «credo» è sempre «libertà, patria,
uguaglianza, dritti dell’uomo». Il sentimento religioso,
troppo offeso si vendica, offende a sua volta; pure non
può sottrarsi alle strette della Rivoluzione. Risorge, ma
impressionato dello spirito nuovo, col programma del
secolo decimottavo. Ciò a cui mirano i neo-cattolici non
è di negare quel programma, come fanno i puri reazionari, co’ gesuiti in testa, ma è di conciliarlo col sentimento religioso, di dimostrare anzi che quello è appunto
il programma del cristianesimo nella purezza delle sue
origini. È la vecchia tesi di Paolo Sarpi, ripigliata e sostenuta con maggior splendore di parola e di scienza. La
Rivoluzione è costretta a rispettare il sentimento religioso, a discutere il cristianesimo, a riconoscere la sua importanza e la sua missione nella storia; ma d’altra parte il
cristianesimo ha bisogno per suo passaporto del secolo
decimottavo, e prende quel linguaggio e quelle idee, e
odi parlare di una «democrazia cristiana» e di un «Cristo democratico», a quel modo che i liberali trasferiscono a significato politico parole scritturali, come l’«apostolato delle idee», il «martirio patriottico», la «missione
sociale», la «religione del dovere». La rivoluzione, scettica e materialista, prende per sua bandiera: «Dio e popolo», e la religione, dommatica e ascetica, si fa valere
come poesia e come morale, e lascia le altezze del soprannaturale e s’impregna di umanismo e di naturali-
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smo, si avvicina alla scienza prende una forma filosofica.
Lo spirito nuovo raccoglie in sè gli elementi vecchi, ma
trasformandoli, assimilandoli a sè, e in quel lavoro trasforma anche se stesso, si realizza ancora più. Questo è il
senso del gran movimento uscito dalla reazione del secolo decimonono, di una reazione mutata subito in conciliazione. E la sua forma politica è la monarchia per la
grazia di Dio e per la volontà del popolo.
La base teorica di questa conciliazione è un nuovo
concetto della verità, rappresentata non come un assoluto immobile a priori, ma come un divenire ideale, cioè a
dire secondo le leggi dell’intelligenza e dello spirito. Onde nasceva l’identità dell’ideale e del reale, dello spirito
e della natura, o, come disse Vico, la «conversione del
vero col certo». Il qual concetto da una parte ridonava
ai fatti una importanza che era contrastata da Cartesio in
qua, li allogava, li legittimava, li spiritualizzava, dava a
quelli un significato e uno scopo, creava la filosofia della
storia; d’altra parte realizzava il divino, togliendolo alle
strettezze mistiche e ascetiche del soprannaturale, e
umanizzandolo. Il concetto adunque era in fondo radicalmente rivoluzionario, in opposizione ricisa col medio
evo, e con lo scolasticismo, quantunque apparisca una
reazione a tutto ciò che di troppo esclusivo e assoluto
era nel secolo decimottavo. Sicchè quel movimento in
apparenza reazionario dovea condurre a un nuovo sviluppo della Rivoluzione su di una base più solida e razionale.
Il primo periodo del movimento fu detto «romantico», in opposizione al classicismo. Ebbe per contenuto
il cristianesimo e il medio evo, come le vere fonti della
vita moderna, il suo tempo eroico, mitico e poetico. Il
Rinascimento fu chiamato «paganesimo», e quell’età
che il Rinascimento chiamava «barbarie», risorse cinta
di nuova aureola. Parve agli uomini rivedere dopo lunga
assenza Dio e i santi e la Vergine e quei cavalieri vestiti
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di ferro e i tempi e le torri e i crociati. Le forme bibliche
oscurarono i colori classici: il gotico, il vaporoso, l’indefinito, il sentimentale liquefecero le immagini, riempirono di ombre e di visioni le fantasie. Ne uscì nuovo contenuto e nuova forma. Il papato divenne centro di
questo antico poema ringiovanito, il cui storico era Carlo Troya, e l’artista Luigi Tosti: Bonifacio ottavo e Gregorio settimo ebbero ragione contro Dante e Federico
secondo. Cronisti e trovatori furono disseppelliti; l’Europa ricostruiva pietosamente le sue memorie, e vi s’internava, vi s’immedesimava, ricreava quelle immagini e
quei sentimenti. Ciascun popolo si riannodava alle sue
tradizioni, vi cercava i titoli della sua esistenza e del suo
posto nel mondo, la legittimità delle sue aspirazioni. Alle antichità greche e romane successero le antichità nazionali, penetrate e collegate da uno spirito superiore e
unificatore, dallo spirito cattolico. Si svegliava l’immaginazione, animata dall’orgoglio nazionale e da un entusiasmo religioso spinto sino al misticismo; e dal lungo
torpore usciva più vivace il senso metafisico e il senso
poetico. Risorge l’alta filosofia e l’alta poesia. Lirica e
musica, poemi filosofici e storici sono le voci di questo
ricorso.
Ma il romanticismo, come il classicismo, erano forme
sotto alle quali si manifestava lo spirito moderno. Foscolo e Parini nel loro classicismo erano moderni, e moderni erano nel loro romanticismo Manzoni e Pellico. Invano cerchi il candore e la semplicità dello spirito
religioso: è un passato rifatto e trasformato da immaginazione moderna, nella quale ha lasciato i suoi vestigi il
secolo decimottavo. Non ci sono più le passioni ardenti
e astiose di quel secolo, ma ci sono le sue idee, la tolleranza, la libertà, la fraternità umana, consacrata da una
religione di pace e di amore, purificata e restituita nella
sua verginità, nella purezza delle sue origini e de’ suoi
motivi. Una reazione così fatta già non è più reazione, è
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
conciliazione, è la rivoluzione stessa vinta, che non minaccia più, e lascia il sarcasmo, l’ironia, l’ingiuria, e trasformatasi in apostolato evangelico prende abito umile e
supplichevole dirimpetto agli oppressori, e fa suo il pergamo, fa suo Dio e Cristo, e la Bibbia diviene l’«ultima
parola di un credente». Lo spirito non rimane nelle vette del soprannaturale e nelle generalità del dogma. Oramai conscio di sè, plasma il divino a sua immagine, lo
colloca e lo accompagna nella storia. La «divina Commedia» è capovolta: non è l’umano che s’india, è il divino che si umanizza. Il divino rinasce, ma senti che già innanzi è nato Bruno, Campanella e Vico.
La stella di Monti scintillava ancora cinta di astri minori;
Foscolo solitario meditava le Grazie; Romagnosi tramandava alla nuova generazione il pensiero del gran secolo vinto. E proprio nel 1815, tra il rumore de’ grandi
avvenimenti, usciva in luce un libriccino, intitolato Inni,
al quale nessuno badò. Foscolo chiudeva il suo secolo
co’ Carmi; Manzoni apriva il suo con gl’Inni. Il Natale,
la Passione, la Risurrezione, la Pentecoste erano le prime
voci del secolo decimonono. Natali, Marie e Gesù ce
n’erano infiniti nella vecchia letteratura, materia insipida di canzoni e sonetti, tutti dimenticati. Mancata era
l’ispirazione, da cui uscirono gl’inni de’ santi padri e i
canti religiosi di Dante e del Petrarca e i quadri e le statue e i templi de’ nostri antichi artisti. Su quella sacra
materia era passato il Seicento e l’Arcadia, insino a che
disparve sotto il riso motteggiatore del secolo decimottavo. Ora la poesia faceva anche lei il suo «concordato».
Ricompariva quella vecchia materia, ringiovanita da una
nuova ispirazione.
Ciò che move il poeta non è la santità e il misterioso
del dogma. Non riceve il soprannaturale con raccoglimento, con semplicità di credente. Mira a trasportarlo
nell’immaginazione, e, se posso dir così, a naturalizzarlo.
Non è più un «credo», è un motivo artistico. Diresti che
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innanzi al giovine poeta ci sia il ghigno di Alfieri e di Foscolo, e che non si attenti di presentare a’ contemporanei le disusate immagini, se non pomposamente decorate. Non gli basta che sieno sante; vuole che sieno belle.
L’idea cristiana ritorna innanzi tutto come arte, anzi come la sostanza dell’arte moderna, chiamata «romantica». La critica entrava già per questa via, e fin d’allora
sentivi parlare di «classico» e di «romantico», di «plastico» e di «sentimentale» di «finito» e d’«infinito». L’inno
era poesia essenzialmente religiosa, la poesia dell’infinito e del soprannaturale. Sorgea come sfida a’ classici per
la materia e per la forma. Pure il poeta, volendo esser romantico, rimane classico. Invano si arrampica tra le nubi
del Sinai; non ci regge, ha bisogno di toccar terra; il suo
spirito non riceve se non ciò che è chiaro, plastico, determinato, armonioso; le sue forme sono descrittive, rettoriche e letterarie, pur vigorose e piene di effetto, perchè animate da immaginazione fresca in materia nuova.
Vi senti lo spirito nuovo, che in quel ritorno delle idee
religiose non abdica, e penetra in quelle idee e se le assimila, e vi cerca e vi trova se stesso. Perchè la base ideale
di quegl’Inni è sostanzialmente democratica, è l’idea del
secolo battezzata e consacrata sotto il nome d’«idea cristiana», l’eguaglianza degli uomini tutti fratelli in Cristo
la riprovazione degli oppressori e la glorificazione degli
oppressi; è la famosa triade, «libertà, uguaglianza, fratellanza», vangelizzata; è il cristianesimo ricondotto alla
sua idealità e penetrato dallo spirito moderno. Onde nasce una rappresentazione pacata e soddisfatta, pittoresca nelle sue visioni, semplice e commovente ne’ suoi
sentimenti, come di un mondo ideale riconciliato e concorde, ove si armonizzano e si acquietano le dissonanze
del reale e i dolori della terra. Ivi è il Signore, che nel
suo dolore pensò a tutt’i figli d’Eva; ivi è Maria, nel cui
seno regale la femminetta depone la sua spregiata lacrima; ivi è lo Spirito, che scende, aura consolatrice ne’
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languidi pensieri dell’infelice; ivi è il regno della pace,
che il mondo irride, ma che non può rapire; il povero,
sollevando le ciglia al cielo «che è suo», volge i lamenti
in giubilo, pensando a cui somiglia.
In questa ricostruzione di un mondo celeste accanto a
una lirica di pace e di perdono, alta sulle collere e sulle
cupidigie mondane, si sviluppa l’epica, quel veder le cose umane dal di sopra con l’occhio dell’altro mondo.
Questa novità di contenuto, di forma e di sentimento
rende altamente originale il Cinque maggio, composizione epica in forme liriche. L’individuo, grande ch’ei sia,
non è che un’«orma del Creatore», un istrumento «fatale». La gloria terrena, posto pure che sia vera gloria, non
è in cielo che «silenzio e tenebre». Sul mondano rumore
sta la pace di Dio. È lui che atterra e suscita, che affanna
e consola. La sua mano toglie l’uomo alla disperazione,
e lo avvia pe’ floridi sentieri della speranza. Risorge il
«Deus ex machina», il concetto biblico dell’uomo e
dell’umanità. La storia è la volontà imperscrutabile di
Dio. Così vuole. A noi non resta che adorare il mistero o
il miracolo, «chinar la fronte». Meno comprendiamo gli
avvenimenti, e più siamo percossi di maraviglia, più sentiamo Dio, l’incomprensibile. La storia anche di ieri si
muta in leggenda, diviene poesia epica. Napoleone è un
gran miracolo, un’orma più vasta di Dio. A che fine?
Per quale missione? L’ignoriamo. È il secreto di Dio.
Così volle. Rimane della storia la parte popolare o leggendaria, quella che più colpisce le immaginazioni; le
battaglie, le vicende assidue, gli avvenimenti straordinari, le grandi catastrofi, le miracolose conversioni. Il motivo epico nasce non dall’altezza e moralità de’ fini, ma
dalla grandezza e potenza del genio, dallo sviluppo di
una forza che arieggia il soprannaturale. Sono nove strofe, di cui ciascuna per la vastità della prospettiva è quasi
un piccolo mondo, e te ne viene una impressione, come
da una piramide. A ciascuna strofa la statua muta di
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prospetto, ed è sempre colossale. L’occhio profondo e
rapido dell’ispirazione divora gli spazi, aggruppa gli anni, fonde gli avvenimenti, ti dà l’illusione dell’infinito.
Le proporzioni sono ingrandite da un lavoro tutto di
prospettiva nella maggior chiarezza e semplicità
dell’espressione. Le immagini, le impressioni, i sentimenti, le forme tra quella vastità di orizzonti ingrandiscono anche loro, acquistano audacia di colori e di dimensioni. Trovi condensata la vita del grande uomo
nelle sue geste, nella sua intimità, nella sua azione storica, ne’ suoi effetti su’ contemporanei, nella sua solitudine pensosa: immensa sintesi, dove precipitano gli avvenimenti e i secoli, come incalzati e attratti da una forza
superiore in quegli sdruccioli accavallantisi, appena frenati dalle rime.
Questo è il primo movimento, epico-lirico, del secolo
decimonono. Al macchinismo classico succede il macchinismo teologico. Ma non è mero macchinismo, semplice colorito o abbellimento. È un contenuto redivivo
nell’immaginazione che ricostruisce a sua immagine la
storia dell’umanità e il cuore dell’uomo. È Cristo smarrito e ritrovato al di dentro di noi. Ritorna la provvidenza
nel mondo, ricomparisce il miracolo nella storia, rifioriscono la speranza e la preghiera, il cuore si raddolcisce,
si apre a sentimenti miti: su’ disinganni e sulle discordie
mondane spira un alito di perdono e di pace. Ciò che intravedeva Foscolo, disegnò Manzoni con un entusiasmo
giovanile, riflesso di quell’entusiasmo religioso, che accompagnava a Roma il papa reduce, ispirava ad Alessandro la federazione cristiana, prometteva agli uomini
stanchi un’era novella di pace e riposo. La nuova generazione sorgeva tra queste illusioni, e mentre il vecchio
Foscolo fantasticava un paradiso delle Grazie, allegorizzando con colori antichi cose moderne, Manzoni ricostruiva l’ideale del paradiso cristiano e lo riconciliava
con lo spirito moderno. La mitologia se ne va, e resta il
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classicismo; il secolo decimottavo è rinnegato, e restano
le sue idee. Mutata è la cornice, il quadro è lo stesso.
Guardate il Cinque maggio. La cornice è una illuminazione artistica, una bell’opera d’immaginazione, da cui
non esce alcuna seria impressione religiosa. Il quadro è
la storia di un genio rifatta dal genio. L’interesse non è
nella cornice è nel quadro.
Ben presto il movimento teologico diviene prettamente filosofico. Dio è l’assoluto, l’idea; Cristo è l’idea
in quanto è realizzata, l’idea naturalizzata; lo Spirito è
l’idea riflessa e consapevole il Verbo; la trinità teologica
diviene la base di una trinità filosofica. Il Dio teologico è
l’essere nel suo immediato, il nulla, un Dio astratto e
formale, vuoto di contenuto. Dio nella sua verità è lo
spirito che riconosce se stesso nella natura. Logica, natura, spirito, sono i tre momenti della sua esistenza, la
sua storia, una storia dove niente è incomprensibile e arbitrario, tutto è ragionevole e fatale. Ciò che è stato, dovea essere. La schiavitù, la guerra, la conquista, le rivoluzioni, i colpi di Stato non sono fatti arbitrari, sono
fenomeni necessari dello spirito nella sua esplicazione.
Lo spirito ha le sue leggi, come la natura; la storia del
mondo è la sua storia, è logica viva, e si può determinare
a priori. Religione, arte, filosofia, dritto, sono manifestazioni dello spirito, momenti della sua esplicazione.
Niente si ripete, niente muore: tutto si trasforma in un
progresso assiduo, che è lo spiritualizzarsi dell’idea, una
coscienza sempre più chiara di sè, una maggiore realtà.
In queste idee codificate da Hegel ricordi Machiavelli, Bruno, Campanella, soprattutto Vico. Ma è un Vico a
priori. Quelle leggi, che egli traeva da’ fatti sociali, ora si
cercano a priori nella natura stessa dello spirito. Nasce
un’appendice della Scienza nuova, la sua metafisica sotto
nome di «logica», compariscono vere teogonie, o epopee filosofiche, con le loro ramificazioni. Hai la filosofia
delle religioni, la storia della filosofia, la filosofia dell’ar-
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te, la filosofia del dritto, la filosofia della storia, illuminate dall’astro maggiore, la logica, o, come dice Vico, la
«metafisica». Tutto il contenuto scientifico è rinnovato.
E non solo nell’ordine morale, ma nell’ordine fisico. Hai
una filosofia della natura, come una filosofia dello spirito. Anzi non sono che una sola e medesima filosofia,
momenti dell’Idea nella sua manifestazione.
Il misticismo, fondato sull’imperscrutabile arbitrio di
Dio e alimentato dal sentimento, dà luogo a questo idealismo panteistico. Il sistema piace alla colta borghesia,
perchè da una parte, rigettando il misticismo, prende un
aspetto laicale e scientifico, e dall’altra, rigettando il materialismo, condanna i moti rivoluzionari, come esplosioni plebee di forze brute. Piace il concetto di un progresso inoppugnabile, fondato sullo sviluppo pacifico
della coltura: alla parola «rivoluzione» succede la parola
«evoluzione». Non si dice più «libertà», si dice «civiltà»,
«progresso», «coltura». Sembra trovato oramai il punto,
ove s’accordano autorità e libertà, Stato e individuo, religione e filosofia, passato e avvenire. Anche le idee fanno la loro pace, come le nazioni. E il sistema diviene ufficiale sotto nome di «ecletismo». La rivoluzione gitta
via il suo abito rosso, e si fa cristiana e moderata sotto il
vessillo tricolore, vagheggiando, come ultimo punto di
fermata, le forme costituzionali, e tenendo a pari distanza i clericali col loro misticismo, e i rivoluzionari col loro
materialismo. Queste idee facevano il giro di Europa e
divennero il «credo» delle classi colte. La parte liberale
si costituì come un centro tra una dritta clericale e una
sinistra rivoluzionaria, che essa chiamava i «partiti estremi». Luigi Filippo realizzò questo ideale della borghesia, e l’ecletismo lo consacrò. Sembrò dopo lunga gestazione creato il mondo. Il problema era sciolto, il
bandolo era trovato. Dio si poteva riposare. Chiusa oramai era la porta alla reazione e alla rivoluzione. Regnava
il progresso pacifico e legale, governava la borghesia sot-
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to nome di «partito liberale-moderato». Teneva in iscacco la dritta, perchè, se combatteva i gesuiti e gli oltramontani, onorava il cristianesimo, divenuto nel nuovo
sistema l’idea rifiessa e consapevole, lo spirito che riconosce se stesso. Non credeva al soprannaturale, ma lo
spiegava e lo rispettava; non credeva a un Cristo divino,
ma alzava alle stelle il Cristo umano; e della religione
parlava con unzione, e con riverenza de’ ministri di Dio.
Così tirava dalla sua i cristiani liberali e patrioti, e non
urtava le plebi. E teneva a un tempo in iscacco la sinistra
rivoluzionaria, perchè se respingeva i suoi metodi, se
condannava le sue impazienze e le sue violenze, accettava in astratto le sue idee, confidando più nell’opera lenta, ma sicura, dell’istruzione e dell’educazione, che nella
forza brutale. Per queste vie la rivoluzione sotto aspetto
di conciliazione si rendeva accettabile a’ più, e si rimetteva in cammino.
Tra queste idee si formò la nuova critica letteraria. Rimasta fra le vuote forme rettoriche empirica e tradizionale, anch’ella gridò «libertà» nel secolo scorso, e, perduto il rispetto alle regole e all’autorità, acquistò una
certa indipendenza di giudizio, illuminata ne’ migliori
dal buon senso e dal buon gusto. L’attenzione dall’esterno meccanismo si volse alla forza produttiva, cercando i
motivi e il significato della composizione nelle qualità
dello scrittore; l’arte ebbe il suo «cogito» e trovò la sua
formola nel motto: «Lo stile è l’uomo». Ma era una critica d’impressioni più che di giudizi, di osservazioni più
che di princìpi. Con la nuova filosofia il bello prese posto accanto al vero e al buono, acquistò una base scientifica nella logica, divenne una manifestazione dell’idea,
come la religione, il dritto, la storia: avemmo una filosofia dell’arte, l’estetica. Stabilito un corso ideale della
umanità, l’arte entrò nel sistema allo stesso modo che
tutte le altre manifestazioni dello spirito, e prese dalla
qualità dell’idea la sua essenza e il suo carattere. Materia
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principale della critica fu l’idea col suo contenuto: le
qualità formali ebbero il secondo luogo. Avemmo l’idea
«orientale», l’idea «pagana» o «classica», l’idea «cristiana» o «romantica» nella religione, nella filosofia, nello
Stato, nell’arte, in tutte le forme dell’attività sociale, uno
sviluppo storico a priori, secondo la logica o le leggi dello spirito. La filosofia dell’idea divenne un antecedente
obbligato di ogni trattato di estetica, come di ogni ramo
dello scibile; e il problema fondamentale dell’arte fu cercare l’idea in ogni lavoro dell’immaginazione, e misurarlo secondo quella. Rivenne su il concetto cristiano-platonico dell’arte, espresso da Dante, ristaurato dal Tasso.
La poesia fu il vero «sotto il velo della favola ascoso», o
il «vero condito in molli versi». Divenuta la favola un
velo dell’idea, ritornavano in onore le forme mitiche e
allegoriche, e le concezioni artistiche si trasformavano in
costruzioni ideali: la Divina Commedia, materia d’infiniti comenti filosofici, aveva il suo riscontro nel Faust.
Venne in moda un certo filosofismo nell’arte anche
presso i migliori, anche presso Schiller. E non solo la filosofia, ma anche la storia divenne il frontispizio obbligato della critica, trattandosi di coglier l’idea non nella
sua astrattezza, ma nel suo contenuto, nelle sue apparizioni storiche. Sorsero investigazioni accuratissime sulle
idee, sulle istituzioni, su’ costumi, sulle tendenze dei secoli a cui si riferivano le opere d’arte, sulla formazione
successiva della materia artistica; al motto antico: «Lo
stile è l’uomo», successe quest’altro: «La letteratura è
l’espressione della società». Ne uscì un doppio impulso:
sintetico e analitico. Posto che la storia non sia una successione empirica e arbitraria di fatti, ma la manifestazione progressiva e razionale dell’idea, una dialettica vivente, gli spiriti si affrettarono alla sintesi, e costruirono
vere epopee storiche secondo una logica preordinata. La
storia del mondo fu rifatta, la via aperta da Vico fu corsa
e ricorsa dal genio metafisico, e in tutte le direzioni: reli-
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gioni, arti, filosofie, istituzioni politiche, leggi, la vita intellettuale, morale e materiale de’ popoli. Questo fu il
momento epico di tutte le scienze; nessuna potè sottrarsi al bagliore dell’idea; il mondo naturale fu costruito allo stesso modo che il mondo morale. Ma queste sintesi
frettolose, queste soluzioni spesso arrischiate de’ problemi più delicati urtavano alcuna volta co’ dati positivi
della storia e delle singole scienze, ed erano troppo visibili le lacune, i raccozzamenti disparati, le interpretazioni forzate, gli artifici involontari. Accanto a quelle vaste
costruzioni ideali sorse la paziente analisi; il metodo di
Vico parve più lungo e più arduo, ma più sicuro, e si ricominciò il lavoro a posteriori, ingolfandosi lo spirito
nelle più minute ricerche in tutt’i rami dello scibile. Il
movimento di erudizione e d’investigazione, interrotto
in Italia dalla invasione delle teorie cartesiane e da’ sistemi assoluti del secolo decimottavo, tutti di un pezzo,
tutti ragionamento, con superbo disdegno di citazioni,
di esempli, di ogni autorità dottrinale, quasi avanzo della scolastica, ora ripigliava con maggior forza in tutta la
colta Europa, massime in Germania: ritornavano i Galilei, i Muratori e i Vico, si sviluppava lo spirito di osservazione e il senso storico, si aggrandiva il campo delle
scienze, e dal gran tronco del sapere uscivano nuovi rami, soprattutto nelle scienze naturali, nelle scienze sociali e nelle discipline filologiche. La materia della coltura,
stata prima poco più che greco-romana, guadagnò di
estensione e di profondità. Abbracciò l’Oriente, il medio evo, il Rinascimento. È con tale attività di ricerca e
di scoperta, che lo scibile ne fu rinnovato.
Stavano dunque di fronte due tendenze: l’una ideale,
l’altra storica. Gli uni procedevano per via di categorie e
di costruzioni; gli altri per via di osservazioni e d’induzioni. E spesso s’incontravano. La scuola ontologica teneva molto conto dei fatti, e proclamava che il vero
ideale è storia, è l’idea realizzata. Non rimaneva perciò
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al di sopra della storia nel regno de’ princìpi assoluti e
immobili; anzi la sua metafisica non è altro che un progressivo divenire, la storia. Parimente la scuola storica
era tutt’altro che empirica, ed usciva dalla cerchia de’
fatti, ed aveva anch’essa i suoi preconcetti e le sue conietture. La più audace speculazione si maritava con la
più paziente investigazione. Le due forze unite, ora parallele, ora in urto, ora di conserva, posero in moto tutte
le facoltà dello spirito, e produssero miracoli nelle teorie
e nelle applicazioni. Al secolo de’ lumi succedette il secolo del progresso. Il genio di Vico fu il genio del secolo. E accanto a lui risorsero con fama europea Bruno e
Campanella. Il secolo riverì ne’ tre grandi italiani i suoi
padri, il suo presentimento. E la Scienza nuova fu la sua
Bibbia, la sua leva intellettuale e morale. Ivi trovavano
condensate tutte le forze del secolo: la speculazione,
l’immaginazione, l’erudizione. Di là partiva quell’alta
imparzialità di filosofo e di storico, quella giustizia distributiva ne’ giudizi, che fu la virtù del secolo. Passato e
presente si riconciliarono, pigliando ciascuno il suo posto nel corso fatale della storia. E contro al fato non val
collera, non giova dar di cozzo. Il dommatismo con la
sua infallibilità e lo scetticismo con la sua ironia cessero
il posto alla critica, quella vista superiore dello spirito
consapevole, che riconosce se stesso nel mondo, e non si
adira contro se stesso.
La letteratura non potea sottrarsi a questo movimento. Filosofia e storia diventano l’antecedente della critica
letteraria. L’opera d’arte non è considerata più come il
prodotto arbitrario e subiettivo dell’ingegno nell’immutabilità delle regole e degli esempi, ma come un prodotto più o meno inconscio dello spirito del mondo in un
dato momento della sua esistenza. L’ingegno è l’espressione condensata e sublimata delle forze collettive, il cui
complesso costituisce l’individualità di una società o di
un secolo. L’idea gli è data con esso il contenuto; la tro-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
va intorno a sè, nella società dove è nato, dove ha ricevuto la sua istruzione e la sua educazione. Vive della vita
comune contemporanea, salvo che di quella è in lui più
sviluppata l’intelligenza e il sentimento. La sua forza è di
unirvisi in ispirito, e questa unione spirituale dello scrittore e della sua materia è lo stile. La materia o il contenuto non gli può dunque essere indifferente; anzi è ivi
che dee cercare le sue ispirazioni e le sue regole. Mutato
il punto di vista, mutati i criteri. La letteratura del Rinascimento fu condannata come classica e convenzionale,
e l’uso della mitologia fu messo in ridicolo. Quegl’ideali
tutti di un pezzo, ch’erano decorati col nome di «classici», furono giudicati una contraffazione dell’ideale,
l’idea nella sua vuota astrazione, non nelle sue condizioni storiche, non nella varietà della sua esistenza. Cadde
la rettorica con le sue vuote forme, cadde la poetica con
le sue regole meccaniche e arbitrarie, rivenne su il vecchio motto di Goldoni: «Ritrarre dal vero, non guastar
la natura.» Il più vivo sentimento dell’ideale si accompagnò con la più paziente sollecitudine della verità storica.
L’epopea cesse il luogo al romanzo, la tragedia al dramma. E nella lirica brillarono in nuovi metri le ballate, le
romanze, le fantasie e gl’inni. La naturalezza, la semplicità, la forza, la profondità, l’affetto furono qualità stimate assai più che ogni dignità ed eleganza, come quelle
che sono intimamente connesse col contenuto. Dante,
Shakespeare, Calderon, Ariosto, reputati i più lontani
dal classicismo, divennero gli astri maggiori. Omero e la
Bibbia, i poemi primitivi e spontanei, teologici o nazionali, furono i prediletti. E spesso il rozzo cronista fu preferito all’elegante storico, e il canto popolare alla poesia
solenne. Il contenuto nella sua nativa integrità valse più
che ogni artificiosa trasformazione di tempi posteriori.
Furono sbanditi dalla storia tutti gli elementi fantastici e
poetici, tutte quelle pompe fattizie, che l’imitazione clas-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
sica vi aveva introdotto. E la poesia si accostò alla prosa,
imitò il linguaggio parlato e le forme popolari.
Tutto questo fu detto «romanticismo», «letteratura
de’ popoli moderni». La nuova parola fece fortuna. La
reazione ci vedeva un ritorno del medio evo e delle idee
religiose, una condanna dell’aborrito Rinascimento, soprattutto del più aborrito secolo decimottavo. I liberali,
non potendo pigliarsela co’ governi, se la pigliavano con
Aristotele e co’ classici e con la mitologia: piaceva essere
almeno in letteratura rivoluzionario e ribelle alle regole.
Il sistema era così vasto e vi si mescolavano idee e tendenze così diverse, che ciascuno potea vederlo con la
sua lente e pigliarvi ciò che gli era più comodo. I governi
lasciavan fare, contenti che le guerricciuole letterarie distraessero le menti dalla cosa pubblica. In Italia ricomparivano i soliti fenomeni della servitù: battaglie in favore e contro la Crusca, quistioni di lingua, diverbii
letterari, che finivano talora in denunzie politiche. La
Proposta e il Sermone all’Antonietta Costa erano i grandi
avvenimenti che succedevano alla battaglia di Waterloo.
L’Italia risonò di puristi e lassisti, di classici e romantici.
Il giornalismo, mancata la materia politica, vi cercò il
suo alimento. Il centro più vivace di quei moti letterari
era sempre Milano, dove erano più vicini e più potenti
gl’influssi francesi e germanici. Là s’inaugurava nel Caffè
il secolo decimottavo. E là s’inaugurava ora nel Conciliatore il secolo decimonono. Manzoni ricordava Beccaria,
e i Verri e i Baretti del nuovo secolo si chiamavano Silvio Pellico, Giovanni Berchet e gli ospiti di casa Manzoni, Tommaso Grossi e Massimo d’Azeglio, divenuto
sposo di Giulia Manzoni, e anello fra la Lombardia e il
Piemonte, dove sorgevano nello stesso giro d’idee Cesare Balbo e Vincenzo Gioberti. La vecchia generazione
s’intrecciava con la nuova. Vivevano ancora, memorie
del regno d’Italia, Foscolo, Monti, Giovanni e Ippolito
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
Pindemonte, Pietro Giordani. Dirimpetto a Melchiorre
Gioia vedevi Sismondi, italiano di mente e di cuore; e
mentre il vecchio Romagnosi scrivea la Scienza della Costituzione, il giovane Antonio Rosmini pubblicava il trattato Della origine delle idee. Spuntavano Camillo Ugoni,
Felice Bellotti, Andrea Maffei, il traduttore di Klopstock e di Schiller. Dirimpetto a’ poeti vedevi i critici,
dilettanti pure di poesia, Giovanni Torti, Ermes Visconti, Giovanni De Cristoforis, Samuele Biava. Nelle stesse
file militavano Carlo Porta, Niccolò Tommaseo, i fratelli
Cesare e Ignazio Cantù, e Maroncelli, e Confalonieri, e
altri minori.
Cosa volevano i romantici, che levavano così alto la
voce nel Conciliatore? Parlavano con audacia giovanile
della vecchia generazione, s’inchinavano appena al gran
padre Alighieri, vantavano gli scrittori stranieri soprattutto inglesi e tedeschi, non volevano mitologia, si beffavano delle tre unità, e delle regole si curavano poco, e
non curvavano il capo che innanzi alla ragione. Era il razionalismo o il libero pensiero applicato alla letteratura
da uomini che in religione predicavano fede e autorità. I
classici, al contrario, miscredenti e scettici nelle cose
della religione, erano qualificati superstiziosi in fatto di
letteratura. Nè parea ragionevole che Aristotele, detronizzato in filosofia, dovesse in letteratura rimanere sul
suo trono. La lotta fu viva tra il Conciliatore e la Biblioteca italiana, a cui tenea bordone la Gazzetta di Milano. Vi
si mescolavano ingenui e furfanti, scrittori coscienziosi e
mestieranti. E dopo molto contendere, fra tante esagerazioni di offese e di difese, si venne in tale confusione di
giudizi, che oggi stesso non si sa cosa era il romanticismo, e in che si distingueva sostanzialmente dal classicismo. Molti sostenevano che il Monti era un ingegno romantico sotto apparenze classiche, e altri che Manzoni
con pretensioni romantiche era in verità un classico. Si
cominciò a vedere chiaro, quando fu posta da parte la
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
parola «romanticismo», materia del litigio, e si badò alla
qualità della merce e non al suo nome. Al romanticismo,
importazione tedesca, si sostituì a poco a poco un altro
nome, letteratura nazionale e moderna. E su questo convennero tutti, romantici e classici. Il romanticismo rimase in Italia legato con le idee della prima origine germanica, diffuse dagli Schlegel e da’ Tieck, in quella forma
esagerata che prese in Francia, capo Victor Hugo. Respingevano il paganesimo, e riabilitavano il medio evo.
Rifiutavano la mitologia classica, e preconizzavano una
mitologia nordica. Volevano la libertà dell’arte, e negavano la libertà di coscienza. Rigettavano il plastico e il
semplice dell’ideale classico, e vi sostituivano il gotico, il
fantastico, l’indefinito e il lugubre. Surrogavano il fattizio e il convenzionale dell’imitazione classica con imitazioni fattizie e convenzionali di peggior gusto. E per fastidio del bello classico idolatravano il brutto. Una
superstizione cacciava l’altra. Ciò che era legittimo e naturale in Shakespeare e in Calderon, diveniva strano,
grossolano, artificiale in tanta distanza di tempi, in tanta
differenza di concepire e di sentire. Il romanticismo in
questa sua esagerazione tedesca e francese non attecchì
in Italia, e giunse appena a scalfire la superficie. I pochi
tentativi non valsero che a meglio accentuare la ripugnanza del genio italiano. E i romantici furono lieti,
quando poterono gittar via quel nome d’imprestito, fonte di tanti equivoci e litigi, e prendere un nome accettato
da tutti. Anche in Germania il romanticismo fu presto
attirato nelle alte regioni della filosofia, e, spogliatosi
quelle forme fantastiche e quel contenuto reazionario,
riuscì sotto nome di «letteratura moderna» nell’ecletismo, nella conciliazione di tutti gli elementi e di tutte le
forme sotto i princìpi superiori dell’estetica, o della filosofia dell’arte.
Pigliando il romanticismo in quel suo primo stadio,
quando si affermava come distinto, anzi in contraddizio-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ne col secolo scorso, e movea guerra ad Alfieri e proclamava una nuova riforma letteraria, il suo torto fu di non
accorgersi che esso era in sostanza non la contraddizione, ma la conseguenza di quel secolo appunto, contro il
quale armeggiava. In Germania l’idea romantica sorse in
opposizione all’imitazione francese così alla moda sotto
il gran Federico. Era una esagerazione, ma in quell’esagerazione si costituivano le prime basi di una letteratura
nazionale, dalla quale uscivano Schiller e Goethe. E fu
lavoro del secolo decimottavo. Schiller fu contemporaneo di Alfieri. Quando l’idea romantica s’affacciò in Italia, già in Germania era scaduta, trasformatasi in un concetto dell’arte filosofico e universale. Goethe era già alla
sua terza maniera, a quel suo spiritualismo panteistico,
che produceva il Faust. Il romanticismo veniva dunque
in Italia troppo tardi, come fu poi dell’eghelismo. parve
a noi un progresso ciò che in Germania la coltura aveva
già oltrepassato e assorbito. La riforma letteraria in Italia, tanto strombazzata, non cominciava, ma continuava.
Essa era cominciata nel secolo scorso. Era appunto la
nuova letteratura, inaugurata da Goldoni e Parini, al
tempo stesso che in Germania si gittavano le fondamenta della coltura tedesca. La differenza era questa, che la
Germania reagiva contro l’imitazione francese e acquistava coscienza della sua autonomia intellettuale; dove
l’Italia, associandosi alla coltura europea, reagiva contro
la sua solitudine e la sua stagnazione intellettuale. L’Italia entrava nel grembo della coltura europea, e vi prendea il suo posto, cacciando via da sè una parte di sè, il
seicentismo, l’Arcadia e l’accademia; la Germania al
contrario iniziava la sua riforma intellettuale, rimovendo
da sè la coltura francese, e riannodandosi alle sue tradizioni. L’influenza francese non fu che una breve deviazione nel movimento di continuità della vita tedesca,
movimento fortificato nella lotta d’indipendenza, e che
portò quel popolo nel secolo decimonono ad una chiara
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
coscienza della sua autonomia nazionale e della sua superiorità intellettuale. Perciò la riforma tedesca procedette armonica e pacata con passaggi chiari, con progresso rapido, con intima consonanza in tutt’i rami dello
scibile, non ricevendo ma dando l’impulso alla coltura
europea. Esclusiva ed esagerata nel principio sotto nome di «romanticismo», la sua coltura in breve tempo abbracciò tutti gli orizzonti, e conciliò tutti gli elementi
della storia in una vasta unità, della quale rimane monumento colossale la Divina Commedia della coltura moderna, il Faust. Ivi tutte le religioni e tutte le colture, tutti gli elementi e tutte le forme, si danno la mano e si
riconoscono partecipi del redivivo Pane, sottoposte alle
stesse leggi, spirito o natura, espressioni di una sola idea,
già inconsapevoli e nemiche, ora unificate dall’occhio
ironico della coscienza. Indi quella suprema indifferenza verso le forme, che fu detto lo «scetticismo» di
Goethe, ed era la serenità olimpica di una intelligenza
superiore, la tolleranza di tutte le differenze riconciliate
e armonizzate nel mondo superiore della filosofia e
dell’arte. Così il misticismo romantico si trasformava
nell’idealismo panteistico, l’idea cristiana nell’idea filosofica, il Cristo del Vangelo nel Cristo di Strauss, la teologia s’inabissava nella filosofia, il domma e il dubbio si
fondevano nella critica, e il famoso «cogito» trovava il
suo punto di arrivo e di fermata nella coscienza di sè,
come spirito del mondo morale e naturale: punto d’arrivo divenuto stagnante nel superficiale ecletismo francese.
Quando Manzoni, tutto ancora pieno di Alfieri, fu a
Parigi, ebbe le sue prime impressioni da quei circoli letterari che facevano opposizione all’Impero, e dove abitava lo spirito di Châteaubriand e madama di Staël. Di
là gli venne un riflesso della Germania, e si diede alla
storia di quella letteratura. Strinse relazioni con uomini
illustri delle due grandi nazioni; Cousin lo chiamava il
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suo «amico», Fauriel e Goethe mettevano su il giovine
poeta. Il suo orizzonte si allargò, vide nuovi mondi, e
reagì contro la sua educazione letteraria, contro le sue
adorazioni giovanili, contro Alfieri e Monti. A Milano,
caduto il regno d’Italia, le nuove idee raccolsero intorno
a sè i giovani, e Manzoni divenne il capo della scuola romantica. Così, mentre la Germania, percorso il ciclo filosofico e ideale della sua coltura, si travagliava intorno
all’applicazione in tutte le sue scienze sociali o naturali,
in Italia si disputava ancora de’ princìpi. Naturalmente,
nè Manzoni nè altri poteva assimilarsi tutto il movimento germanico, lavoro di un secolo, e non lo vedevano
che nella sua parte iniziale e superficiale. Ammiravano
Schiller, Goethe, Herder, Kant, Fichte, Schelling, ma
conoscevano assai meglio i nostri filosofi e letterati, e di
quelli veniva loro come un’eco, spesso per studi e giudizi di seconda mano, spesso per intramessa di scrittori
francesi. Rimasero essi dunque nella loro spontaneità,
ponendo le quistioni come le si ponevano in Italia, con
argomenti e metodi propri; e ne uscì un romanticismo
locale, puro di stravaganze ed esagerazioni forestiere,
accomodato allo stato della coltura, timido nelle innovazioni, e tenuto in freno dalle tradizioni letterarie e dal
carattere nazionale. Un romanticismo così fatto non era
che lo sviluppo della nuova letteratura sorta col Parini, e
rimaneva nelle sue forme e ne’ suoi colori prettamente
italiano.
In effetti, i punti sostanziali di questo romanticismo
concordano col movimento iniziato nel secolo scorso, e
non è maraviglia che la lotta continuata con tanto furore
e con tanta confusione finì nella piena indifferenza del
popolo italiano, che riconosceva se stesso nelle due
schiere. Volevano i romantici che l’Italia lasciasse i temi
classici? E già n’era venuto il fastidio, e avevi l’Ossian, il
Saul, la Ricciarda, il Bardo della selva nera. Volevano che
i personaggi fossero presi dal vero? E che le forme fosse-
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ro semplici e naturali? Ed ecco là Goldoni, che predicava il medesimo. Spregiavano la vuota forma? E sotto
questa bandiera avevano militato Parini, Alfieri e Foscolo, e appunto la risurrezione del contenuto, la ristorazione della coscienza era il carattere della nuova letteratura.
Cosa erano le tre unità e la mitologia, pomo della discordia, se non quistioni accessorie nella stessa famiglia? Fino un concetto del mondo meno assoluto e rigido, umano e anco religioso, intravedevi ne’ Sepolcri di Foscolo e
d’Ippolito Pindemonte. Adunque la scuola romantica,
se per il suo nome, per le sue relazioni, pe’ suoi studi, e
per le sue impressioni si legava a tradizioni tedesche e a
mode francesi, rimase nel fondo scuola italiana per il
suo accento, le sue aspirazioni, le sue forme, i suoi motivi; anzi fu la stessa scuola del secolo andato, che dopo le
grandi illusioni e i grandi disinganni ritornava a’ suoi
princìpi, alla naturalezza di Goldoni e alla temperanza
di Parini. Erano di quella scuola più i romantici, i quali
avevano aria di combatterla, che i classici, suoi eredi di
nome, ma eredi degeneri, appo i quali la sua vitalità si
mostrava esaurita nella pomposa vacuità di Monti e nel
purismo rettorico di Pietro Giordani. La scuola andava
visibilmente declinando sotto il regno d’Italia, e non
avendo più novità di contenuto, si girava in se stessa, divenuta sotto nome di «purismo» un gioco di frasi, intenta alla purità del Trecento e all’eleganza del Cinquecento. Ritornavano in voga i grammatici, i linguisti e i retori;
ripullulava sotto altro nome l’Arcadia e l’accademia. Così fu possibile la Storia americana di Carlo Botta, uscita a
Parigi quando appunto uscirono gl’Inni; e fu tal cosa
che gli stessi accademici della Crusca si sentirono oltrepassati e domandavano che lingua era quella. Furono i
romantici che, insorgendo contro la scuola, la rinsanguarono, e in aria di nemici furono i suoi veri eredi. Essi
le apersero nuovo contenuto e nuovo ideale, le spogliarono la sua vernice classica e mitologica, l’accostarono a
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forme semplici, naturali, popolari, sincere, libere da
ogni involucro artificiale e convenzionale, dalle esagerazioni rettoriche e accademiche, dalle vecchie abitudini
letterarie non ancor dome, di cui vedi le orme anche tra
gli sdegni di Alfieri e di Foscolo. Come, sotto forma di
reazione, essi erano la stessa rivoluzione, che moderandosi e disciplinandosi ripigliava le sue forze, tirando anche Dio al progresso e alla democrazia; così, sotto forma
di opposizione, essi erano la nuova letteratura di Goldoni e di Parini che si spogliava gli ultimi avanzi del vecchio, acquistava una coscienza più chiara delle sue tendenze, e, lasciando gl’ideali rigidi e assoluti, prendeva
terra, si accostava al reale.
Questo sentimento più vivo del reale era anche penetrato nel popolo italiano. Non era più il popolo accademico, che batteva le mani in teatro alla Virginia e all’Aristodemo e applaudiva all’Italia ne’ sonetti e nelle
canzoni. Vide la libertà sotto tutte le sue forme, nelle
sue illusioni, nelle sue promesse, ne’ suoi disinganni,
nelle sue esagerazioni. Il regno d’Italia, la spedizione di
Murat, le promesse degli alleati, la lotta d’indipendenza
della Spagna e della Germania, l’insorgere della Grecia
e del Belgio aguzzavano il sentimento nazionale: l’unità
d’Italia non era più un tema rettorico, era uno scopo serio, a cui si drizzavano le menti e le volontà. I più arditi e
impazienti cospiravano nelle società secrete, contro le
quali si ordinavano anche secretamente i sanfedisti. Fatto vecchio era questo. Ma il fatto nuovo era, che nella
grande maggioranza della gente istrutta si andava formando una coscienza politica, il senso del limite e del
possibile: la rettorica e la declamazione non avea più
presa sugli animi. La grandezza degli ostacoli rendea
modesti i desidèri, e tirava gli spiriti dalle astrazioni alla
misura dello scopo e alla convenienza de’ mezzi. La libertà trovava il suo limite nelle forme costituzionali, e il
sentimento nazionale nel concetto di una maggiore indi-
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pendenza verso gli stranieri. Una nuova parola venne su:
non si disse più rivoluzione, si disse «progresso». E fu il
maestoso cammino dell’idea nello spazio e nel tempo
verso un miglioramento indefinito della specie, morale e
naturale. Il progresso divenne la fede, la religione del secolo. Ed avea il suo lasciapassare, perchè cacciava quella
maledetta parola che era la «rivoluzione», e significava
la naturale evoluzione della storia, e condannava le violente mutazioni. Il progresso raccomandava pazienza a’
popoli, dimostrava compatibile ogni miglioramento con
ogni forma di governo, e si accordava con la filosofia cristiana, che predicava fiducia in Dio, preghiera e rassegnazione. Oltre a ciò, «libertà», «rivoluzione» indicavano scopi immediati e non tollerabili ai governi, dove
progresso nel suo senso vago abbracciava ogni miglioramento, e dava agio a’ principi di acquistarsi lode a buon
mercato, promovendo, non fosse altro, miglioramenti
speciali, che parevano innocui, com’erano le strade ferrate, l’illuminazione a gas, i telegrafi, la libertà del commercio, gli asili d’infanzia, i congressi scientifici, i comizi
agrarii. A poco a poco i liberali tornarono là ond’erano
partiti, e non potendo vincere i governi, li lusingarono,
sperarono riforme di principi, anche del papa, rifacevano i tempi di Tanucci, di Leopoldo, di Giuseppe, e rifacevano anche un po’ quell’arcadia. Certo, una teoria del
progresso, che se ne rimetteva a Dio e all’Idea, dovea
condurre a un fatalismo musulmano, e rendendo i popoli troppo facilmente appagabili, potea sfibrare i caratteri, trasformare il liberalismo in una nuova arcadia, come temea Giuseppe Mazzini, che vi contrapponeva la
Giovine Italia. Pure i moti repressi del Ventuno e del
Trentuno, i vari tentativi mazziniani mal riusciti, la politica del non intervento delle nazioni liberali, la potenza
riputata insuperabile dell’Austria, la forza e la severità
de’ governi, le fila spesso riannodate e spesso rotte, disponevano gli animi ad uno studio più attento de’ mezzi,
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
li piegavano a’ compromessi, fortificavano il senso politico, rendevano impopolare la dottrina del «tutto o
niente». Lo stesso Mazzini, ch’era all’avanguardia, avea
nel suo linguaggio e nelle sue formole quell’accento di
misticismo e di vaporoso idealismo che era penetrato
nella filosofia e nelle lettere, e che lo chiariva uomo del
secolo, e mostravasi anche lui disposto a tener conto
delle condizioni reali della pubblica opinione, e a sacrificarvi una parte del suo ideale. Così, rammorbidite le
passioni, confidenti nel progresso naturale delle cose, e
persuasi che anche sotto i cattivi governi si può promuovere la coltura e la pubblica educazione, i più smessero
l’azione diretta e si diedero agli studi: fiorirono le scienze, si sviluppò il senso artistico e il genio della musica e
del canto; la Taglioni e la Malibran, la Rachel e la Ristori, Rossini e Bellini, le dispute scientifiche e letterarie, i
romanzi francesi e italiani occupavano nella vita quel
posto che la politica lasciava vuoto. In breve spazio uscivano in luce il Carmagnola, l’Adelchi e i Promessi sposi,
la Pia del Sestini; la Fuggitiva, l’Ildegonda, i Crociati e il
Marco Visconti del Grossi, la Francesca da Rimini del
Pellico, la Margherita Pusterla del Cantù, l’Ettore Fieramosca e più tardi il Niccolò de’ Lapi di Massimo d’Azeglio. Ultime venivano con più solenne impressione le
Mie prigioni. Ciclo letterario che fu detto romantico, un
romanticismo italiano, che facea vibrare le corde più
soavi dell’uomo e del patriota, con quella misura, con
quell’ideale internato nella storia, con quella storia fremente d’intenzioni patriottiche, con quella intimità malinconica di sentimento, con quella finezza di analisi nella maggiore semplicità de’ motivi, che rivelava uno
spirito venuto a maturità e ne’ suoi ideali studioso del
reale. Con tinte più crude e con intenzioni più ardite
comparivano l’Arnaldo da Brescia e l’Assedio di Firenze.
Ciascuno sentiva sotto la scorza del medio evo palpitare le nostre aspirazioni: le minime allusioni, le più lon-
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tane somiglianze erano còlte a volo da un pubblico che
si sentiva uno con gli scrittori. Il romanticismo perdette
la serietà del suo contenuto; la parola stessa usciva di
moda. Il medio evo non fu più materia trattata con intenzioni storiche e positive. Fu l’involucro de’ nostri
ideali, l’espressione abbastanza trasparente delle nostre
speranze. Si sceglievano argomenti, che meglio rappresentassero il pensiero o il sentimento pubblico, come era
la Lega lombarda, trasformata in lotta italiana contro la
Germania. Massimo d’Azeglio, che segna il passaggio
dalla maniera principalmente artistica de’ romantici ad
una rappresentazione più svelatamente politica, volgeva
in mente un terzo romanzo, che dovea avere per materia
la Lega lombarda. Il pittore arieggiava allo scrittore.
Uscivano dal suo pennello la Sfida di Barletta, il Brindisi
di Francesco Ferruccio, la Battaglia di Gavinana, la Difesa
di Nizza, la Battaglia di Torino. Il medesimo era del misticismo. L’ispirazione artistica, da cui erano usciti gl’Inni e il Cinque maggio e l’Ermengarda, non fu più il quadro, fu l’accessorio, un semplice colore attaccaticcio
sopra un fondo estraneo, filosofico e politico. Vennero
gl’inni alle scienze, alle arti, gl’inni di guerra. Rimasero
madonne, angioli, santi e paradiso, a quel medesimo
modo che prima Pallade, Venere e Cupido, semplici ornamenti e macchine poetiche, estranee all’intimo spirito
della composizione, o puramente arcadiche. Dove la
poesia gitta via ogni involucro romantico e classico, è
ne’ versi del Berchet. E non poco vi contribuì lord Byron, vivuto lungo tempo in Venezia, di cui si sentono i
fieri accenti nell’Esule di Parga. Se Giovanni Berchet
fosse rimasto in Italia, probabilmente il suo genio sarebbe rimasto inviluppato nelle allusioni e nelle ombre del
romanticismo. Ma esule portava a Londra i dolori e i furori della patria tradita e vinta. Fu l’accento della collera
nazionale in una lirica, che, lasciate le generalità de’ so-
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netti e delle canzoni, s’innestò al dramma, e colse la vita
nelle più patetiche situazioni.
La voce possente di questa lirica drammatica giunse solitaria in un’Italia, dove i secondi fini della prudenza politica avevano rintuzzata la verità e virilità dell’espressione. Si era trovata una specie di modus vivendi, come si
direbbe oggi, una conciliazione provvisoria tra principi
e popoli. I freni si allentavano, ci era una maggiore libertà di scrivere, di parlare, di riunirsi, sempre in nome
del progresso, della coltura, della civiltà: gli avversari
erano detti «oscurantisti». I principi facevano bocca da
ridere; promettevano riforme; e sino il più restio, Ferdinando II, chiamava alle cattedre, alla magistratura, a’
ministeri uomini colti, e per bocca di monsignor Mazzetti annunziava un largo riordinamento degli studi.
Che si voleva più? I liberali, con quel senso squisito
dell’opportunità che ha ciascuno nell’interesse proprio,
inneggiavano a’ principi, stringevano la mano a’ preti, fino ridevano a’ gesuiti. Fu allora che apparve in Italia
un’opera stranissima, il Primato di Vincenzo Gioberti.
Ivi con molta facilità di eloquio, con grande apparato di
erudizione, con superbia e ricercatezza di formole si
proclamava il primato della civiltà italiana riannodata attraverso le glorie romane alle tradizioni italo-pelasgiche,
fondata sul papato restitutore della religione nella sua
purità, riconciliato con le idee moderne, e tendente
all’autocrazia dell’ingegno e al riscatto delle plebi. La
creazione sostituita al divenire egheliano rimetteva le
gambe al soprannaturale e alla rivelazione, tutto il Risorgimento era dichiarato eterodosso o acattolico, e il presente si ricongiungeva immediatamente col medio evo.
Era la conciliazione politica sublimata a filosofia, era la
filosofia costruita ad uso del popolo italiano. Frate Campanella pareva uscito dalla sua tomba. L’impressione fu
immensa. Sembrò che ci fosse alfine una filosofia italiana. Vi si vedevano conciliate tutte le opposizioni, il papa
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a braccetto co’ principi, i principi riamicati a’ popoli, Il
misticismo internato nel socialismo, Dio e progresso, gerarchia e democrazia, un bilanciere universale. Il movimento era visibilmente politico, non religioso e non filosofico. E ciò che ne uscì, non fu già nè una riforma
religiosa nè un movimento intellettuale, ma un moto politico, tenuto in piede dall’equivoco, e crollato al primo
urto de’ fatti. Questa era la faccia della società italiana.
Era un ambiente, nel quale anche i più fieri si accomodavano, non scontenti del presente, fiduciosi nell’avvenire: i liberali biascicavano «paternostri», e i gesuiti biascicavano «progresso e riforme». La situazione in fondo
era comica, e il poeta che seppe coglierne tutt’i segreti
fu Giuseppe Giusti. La Toscana, dopo una prodigiosa
produzione di tre secoli, non aveva più in mano l’indirizzo letterario d’Italia. Si era addormentata col riso del
Berni sul labbro. La Crusca l’aveva inventariata e imbalsamata. Resistè più che potè nel suo sonno, respingendo
da sè gl’impulsi del secolo decimottavo. Quando si sentì
il bisogno di una lingua meno accademica, prossima per
naturalezza e brio al linguaggio parlato, molti si diedero
al dialetto locale, altri si gittarono alle forme francesi, altri col padre Cesari a capo l’andavano pescando nel Trecento. Non veniva innanzi la soluzione più naturale: cercarla colà dove era parlata, cercarla in Toscana. La
rivoluzione avea ravvicinati gl’italiani, suscitati interessi,
idee, speranze comuni. Firenze, la città prediletta di Alfieri e di Foscolo, dopo il Ventuno vide nelle sue mura
accolti esuli illustri di altre parti d’Italia. Grazie al
Vieusseux, vi sorgeva un centro letterario in gara con
quello di Milano. Manzoni e D’Azeglio andavano pe’
colli di Pistoia raccattando voci e proverbi della lingua
viva. Gl’italiani si studiavano di comparire toscani; i toscani, come Niccolini e Guerrazzi, si studiavano di assimilarsi lo spirito italiano. Risorgeva in Firenze una vita
letteraria, dove l’elemento locale prima timido e come
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sopraffatto ripigliava la sua forza con la coscienza della
sua vitalità. Firenze riacquistava il suo posto nella coltura italiana per opera di Giuseppe Giusti. Sembrava un
contemporaneo di Lorenzo de’ Medici che gittasse una
occhiata ironica sulla società quale l’aveva fatta il secolo
decimonono. Quelle finezze politiche, quelle ipocrisie
dottrinali, quella mascherata universale, sotto la quale
ammiccavano le idee liberali gli «Arlecchini», i «Girella», gli «eroi da poltrona», furono materia di un riso non
privo di tristezza. Era Parini tradotto dal popolino di Firenze, con una grazia e una vivezza che dava l’ultimo
contorno alle immagini e le fissava nella memoria. Ciascun sistema d’idee medie nel suo studio di contentare e
conciliare gli estremi va a finire irreparabilmente nel comico. Tutto quell’equilibrio dottrinale così laboriosamente formato del secolo decimonono, tutta quella vasta sistemazione e conciliazione dello scibile in
costruzioni ideali, quel misticismo impregnato di metafisica, quella metafisica del divino e dell’assoluto declinante in teologia, quel volterianismo inverniciato d’acqua benedetta, tutto si dissolveva innanzi al ghigno di
Giuseppe Giusti.
Giacomo Leopardi segna il termine di questo periodo. La metafisica in lotta con la teologia si era esaurita in
questo tentativo di conciliazione. La moltiplicità de’ sistemi avea tolto credito alla stessa scienza. Sorgeva un
nuovo scetticismo che non colpiva più solo la religione o
il soprannaturale, colpiva la stessa ragione. La metafisica
era tenuta come una succursale della teologia. L’idea
sembrava un sostituto della provvidenza. Quelle filosofie della storia, delle religioni, dell’umanità, del dritto
avevano aria di costruzioni poetiche. La teoria del progresso o del fato storico nelle sue evoluzioni sembrava
una fantasmagoria. L’abuso degli elementi provvidenziali e collettivi conduceva diritto all’onnipotenza dello
Stato, al centralismo governativo. L’ecletismo pareva
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una stagnazione intellettuale, un mare morto. L’apoteosi
del successo rintuzzava il senso morale, incoraggiava
tutte le violenze. Quella conciliazione tra il vecchio ed il
nuovo, tollerata pure come temporanea necessità politica, sembrava in fondo una profanazione della scienza,
una fiacchezza morale. Il sistema non attecchiva più: cominciava la ribellione. Mancata era la fede nella rivelazione: mancava ora la fede nella stessa filosofia. Ricompariva ii mistero. Il filosofo sapeva quanto il pastore. Di
questo mistero fu l’eco Giacomo Leopardi nella solitudine del suo pensiero e del suo dolore. Il suo scetticismo
annunzia la dissoluzione di questo mondo teologico-metafisico, e inaugura il regno dell’arido vero, del reale. I
suoi Canti sono le più profonde e occulte voci di quella
transizione laboriosa che si chiamava «secolo decimonono». Ci si vede la vita interiore sviluppatissima. Ciò che
ha importanza, non è la brillante esteriorità di quel secolo del progresso, e non senza ironia vi si parla delle «sorti progressive» dell’umanità. Ciò che ha importanza è
l’esplorazione del proprio petto, il mondo interno, virtù,
libertà, amore, tutti gl’ideali della religione, della scienza
e della poesia, ombre e illusioni innanzi alla sua ragione
e che pur gli scaldano il cuore, e non vogliono morire. Il
mistero distrugge il suo mondo intellettuale, lascia inviolato il suo mondo morale. Questa vita tenace di un
mondo interno, malgrado la caduta di ogni mondo teologico e metafisico, è l’originalità di Leopardi, e dà al
suo scetticismo una impronta religiosa. Anzi è lo scetticismo di un quarto d’ora quello in cui vibra un così
energico sentimento del mondo morale. Ciascuno sente
lì dentro una nuova formazione.
L’istrumento di questa rinnovazione è la critica, covata e cresciuta nel seno stesso dell’ecletismo. Il secolo
sorto con tendenze ontologiche e ideali avea posto esso
medesimo il principio della sua dissoluzione: l’idea vivente, calata nel reale. Nel suo cammino il senso del rea-
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le si va sempre più sviluppando, e le scienze positive
prendono il di sopra, cacciando di nido tutte le costruzioni ideali e sistematiche. I nuovi dogmi perdono il credito. Rimane intatta la critica. Ricomincia il lavoro paziente dell’analisi. Ritorna a splendere sull’orizzonte
intellettuale Galileo accompagnato con Vico. La rivoluzione, arrestata e sistemata in organismi provvisori ripiglia la sua libertà, si riannoda all’Ottantanove, tira le
conseguenze. Comparisce il socialismo nell’ordine politico, il positivismo nell’ordine intellettuale. Il verbo non
è più solo «libertà», ma «giustizia», la parte fatta a tutti
gli elementi reali dell’esistenza, la democrazia non solo
giuridica ma effettiva. La letteratura si va anche essa trasformando. Rigetta le classi, le distinzioni, i privilegi. Il
brutto sta accanto al bello, o, per dir meglio, non c’è più
nè bello, nè brutto, non ideale, e non reale, non infinito,
e non finito. L’idea non si stacca, non soprastà al contenuto. Il contenuto non si spicca dalla forma. Non ci è
che una cosa, il vivente. Dal seno dell’idealismo comparisce il realismo nella scienza, nell’arte, nella storia. È
un’ultima eliminazione di elementi fantastici, mistici,
metafisici e rettorici. La nuova letteratura, rifatta la coscienza, acquistata una vita interiore, emancipata da involucri classici e romantici, eco della vita contemporanea universale e nazionale, come filosofia, come storia,
come arte, come critica, intenta a realizzare sempre più
il suo contenuto, si chiama oggi ed è la «letteratura moderna».
L’Italia, costretta a lottare tutto un secolo per acquistare l’indipendenza e le istituzioni liberali, rimasta in
un cerchio d’idee e di sentimenti troppo uniforme e generale, subordinato a’ suoi fini politici, assiste ora al disfacimento di tutto quel sistema teologico-metafisicopolitico, che ha dato quello che le potea dare.
L’ontologia con le sue brillanti sintesi avea soverchiate
le tendenze positive del secolo. Ora è visibilmente esau-
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rita, ripete se stessa, diviene accademica, perchè accademia e arcadia è la forma ultima delle dottrine stazionarie. Vedete Cousin col suo ecletismo dottrinario. Vedete
il Prati in Satana e le Grazie e nell’Armando. Vedete la
Storia universale di Cesare Cantù. Erede dell’ontologia è
la critica, nata con essa, non ancor libera di elementi
fantastici e dommatici attinti nel suo seno, come si vede
in Proudhon, in Renan, in Ferrari, ma con visibile tendenza meno a porre e a dimostrare che a investigare. La
paziente e modesta monografia prende il posto delle sintesi filosofiche e letterarie. I sistemi sono sospetti, le leggi sono accolte con diffidenza, i princìpi più inconcussi
sono messi nel crogiuolo, niente si ammette più, che non
esca da una serie di fatti accertati. Accertare un fatto desta più interesse che stabilire una legge. Le idee, i motti,
le formole, che un giorno destavano tante lotte e tante
passioni, sono un repertorio di convenzione, non rispondenti più allo stato reale dello spirito. C’è passato
sopra Giacomo Leopardi. Diresti che proprio appunto,
quando s’è formata l’Italia, si sia sformato il mondo intellettuale e politico da cui è nata. Parrebbe una dissoluzione, se non si disegnasse in modo vago ancora ma visibile un nuovo orizzonte. Una forza instancabile ci
sospinge, e, appena quietate certe aspirazioni, si affacciano le altre.
L’Italia è stata finora avviluppata come di una sfera
brillante, la sfera della libertà e della nazionalità, e ne è
nata una filosofia e una letteratura, la quale ha la sua leva fuori di lei, ancorchè intorno a lei. Ora si dee guardare in seno, dee cercare se stessa: la sfera dee svilupparsi e
concretarsi come sua vita interiore. L’ipocrisia religiosa,
la prevalenza delle necessità politiche, le abitudini accademiche, i lunghi ozi, le reminiscenze d’una servitù e abbiezione di parecchi secoli, gl’impulsi estranei soprapposti al suo libero sviluppo, hanno creata una coscienza
artificiale e vacillante, le tolgono ogni raccoglimento,
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
ogn’intimità. La sua vita è ancora esteriore e superficiale. Dee cercare se stessa, con vista chiara, sgombra da
ogni velo e da ogni involucro, guardando alla cosa effettuale, con lo spirito di Galileo, di Machiavelli. In questa
ricerca degli elementi reali della sua esistenza, lo spirito
italiano rifarà la sua coltura, ristaurerà il suo mondo morale, rinfrescherà le sue impressioni, troverà nella sua intimità nuove fonti d’ispirazione, la donna, la famiglia, la
natura, l’amore, la libertà, la patria, la scienza, la virtù,
non come idee brillanti, viste nello spazio, che gli girino
intorno, ma come oggetti concreti e familiari, divenuti il
suo contenuto.
Una letteratura simile suppone una seria preparazione di studi originali e diretti in tutt’i rami dello scibile,
guidati da una critica libera da preconcetti e paziente
esploratrice, e suppone pure una vita nazionale, pubblica e privata, lungamente sviluppata. Guardare in noi,
ne’ nostri costumi, nelle nostre idee, ne’ nostri pregiudizi, nelle nostre qualità buone e cattive, convertire il
mondo moderno in mondo nostro, studiandolo, assimilandocelo e trasformandolo, «esplorare il proprio petto»
secondo il motto testamentario di Giacomo Leopardi:
questa è la propedeutica alla letteratura nazionale moderna, della quale compariscono presso di noi piccoli
indizi con vaste ombre. Abbiamo il romanzo storico, ci
manca la storia e il romanzo. E ci manca il dramma. Da
Giuseppe Giusti non è uscita ancora la commedia. E da
Leopardi non è uscita ancora la lirica. C’incalza ancora
l’accademia, l’arcadia, il classicismo e il romanticismo.
Continua l’enfasi e la rettorica, argomento di poca serietà di studi e di vita. Viviamo molto sul nostro passato
e del lavoro altrui. Non ci è vita nostra e lavoro nostro.
E da’ nostri vanti s’intravede la coscienza della nostra
inferiorità. Il grande lavoro del secolo decimonono è al
suo termine. Assistiamo ad una nuova fermentazione
d’idee, nunzia di una nuova formazione. Già vediamo in
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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana
questo secolo disegnarsi il nuovo secolo. E questa volta
non dobbiamo trovarci alla coda, non a’ secondi posti.
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