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Gesu e suo popolo nella riflessione di Joseph Ratzinger

Nel 1969, un giovane teologo, già perito del Concilio, pubblica un libro dal titolo evocatore Il nuovo popolo di Dio 1 . Nello spiegare le conseguenze dell'approccio conciliare riguardante la relazione tra il clero e i laici, egli non affronta la questione del rapporto tra la Chiesa e Israele. Tuttavia questo titolo faceva emergere il paradosso del Concilio. Proprio mentre il Concilio incoraggiava ad adottare uno sguardo nuovo nei confronti del popolo ebraico e votava la dichiarazione Nostra Aetate, la descrizione della Chiesa come «nuovo popolo di Dio» vi era fortemente presente. Ora questa espressione rischiava di favorire la teologia detta della «sostituzione», secondo cui la Chiesa, «nuovo popolo», subentrava ormai al popolo ebraico, «antico» popolo di Dio.

GESÙ, IL SUO POPOLO E LA SUA FAMIGLIA NELLA RIFLESSIONE DI JOSEPH RATZINGER Marc Rastoin S.I. Nel 1969, un giovane teologo, già perito del Concilio, pubblica un libro dal titolo evocatore Il nuovo popolo di Dio1. Nello spiegare le conseguenze dell’approccio conciliare riguardante la relazione tra il clero e i laici, egli non afronta la questione del rapporto tra la Chiesa e Israele. Tuttavia questo titolo faceva emergere il paradosso del Concilio. Proprio mentre il Concilio incoraggiava ad adottare uno sguardo nuovo nei confronti del popolo ebraico e votava la dichiarazione Nostra Aetate, la descrizione della Chiesa come «nuovo popolo di Dio» vi era fortemente presente. Ora questa espressione rischiava di favorire la teologia detta della «sostituzione», secondo cui la Chiesa, «nuovo popolo», subentrava ormai al popolo ebraico, «antico» popolo di Dio. Tra questo libro e i due volumi Gesù di Nazaret (pubblicati rispettivamente nel 2007 e 2011) sono trascorsi quarant’anni. Il dialogo tra la Chiesa cattolica e i rappresentanti del giudaismo religioso vivente si è approfondito, malgrado tensioni occasionali reali. Da parte sua, la teologia ha cercato di comprendere di nuovo la relazione che lega il mistero della Chiesa a quello di Israele, e non può farlo se non elaborando anche un altro linguaggio su se stessa. La posta in gioco è alta. La teologia cattolica può elaborare un quadro teologico che le permetta di pensare la permanenza di Israele, di quell’Israele che vive e si sviluppa all’interno di un giudaismo vivente? Un giudaismo che ha soferto, nel corso della sua storia, 1. Cfr J. Ratzinger, Das neue Volk Gottes. Entwürfe zur Ekklesiologie, Düsseldorf, Patmos Verlag, 1969 (in it.: Il nuovo popolo di Dio. Questioni ecclesiologiche, Brescia, Queriniana, 1992). Nel 1986, come complemento del suo primo libro, l’autore riprese la questione in «L’ecclesiologia del Vaticano II», in J. Ratzinger, Chiesa, ecumenismo e politica, Cinisello Balsamo (Mi), Paoline, 1987, 9-32. © La Civiltà Cattolica 2014 IV 521-535 | 3948 (20 dicembre 2014) 521 ARTICOLO 522 innumerevoli prove nel mondo cristiano, e che ha subìto, all’interno della sua comunità più religiosa, un tentativo di sterminio che l’antigiudaismo cristiano europeo ha facilitato (nonostante le reali forme di solidarietà manifestate da molti cristiani sul campo). È su questo punto che i due volumi di Joseph Ratzinger (Benedetto XVI2) su Gesù sono appassionanti. In efetti egli sviluppa in modo coerente e potente un nuovo sguardo sul giudaismo. Uno sguardo che non si accontenta di parole di simpatia dette dall’esterno ma che non raggiungono il centro del mistero della Chiesa. Non si può parlare di Gesù senza evocare, da una parte, il suo rapporto con il suo popolo, e senza descrivere, d’altra parte, la comunità escatologica nuova che egli inaugura, chiamata Chiesa. In altre parole, la nuova relazione con Israele si deve poter esprimere con un linguaggio teologico a partire dal modo in cui la Chiesa comprende il proprio mistero (cfr Nostra aetate, n. 4). E questa teologia deve poter essere radicata nelle Scritture stesse. Ora, nel suo dittico, Joseph Ratzinger sviluppa due tematiche fondamentali che disegnano gli elementi di una teologia rinnovata del popolo di Israele. Nel primo volume, attraverso un lavoro semantico, colloca la Chiesa e Israele su due piani distinti. Parla raramente della Chiesa come «popolo di Dio», ma piuttosto come «famiglia dei igli di Dio». Qual è la posta in gioco teologica di questa formulazione, e come essa si radica nel ministero di Gesù? Israele e la Chiesa non sono realtà che possono essere messe in serie, che sono omogenee una all’altra. Questo non signiica, però, che non siano in relazione tra loro. La Chiesa inaugura una realtà nuova in cui il linguaggio in termini di «popolo» non è certamente falso, ma rimane parziale. Questa è la prima parte del lavoro teologico: esso si colloca nella prospettiva dell’autocomprensione della Chiesa. Nella seconda parte, si tratta piuttosto di dire ciò che è Israele e in che cosa il giudaismo ha il suo posto — un posto eminente e unico — nel disegno di Dio, qui e ora. Ratzinger si basa su un testo chiave, troppo dimenticato per secoli, i capitoli 9-11 della Lettera ai Romani. Ciò gli permette di de2. Trattandosi di un testo scritto dal teologo Ratzinger, utilizzeremo questo nome piuttosto che quello di Pontefice, come egli stesso ha suggerito. POPOLO D’ISRAELE E CHIESA NEL PENSIERO DI RATZINGER lineare alcuni elementi di una presentazione positiva del giudaismo, senza per questo cedere al politicamente corretto e senza introdurre modi di procedere più o meno sociologici nel dibattito teologico. Al contrario, egli si basa sul cuore del Nuovo Testamento — i Vangeli, da una parte, e Paolo, dall’altra — per sviluppare la sua visione teologica. Mette in evidenza che, nella storia del cristianesimo, anche se in rari casi, «in tutti gli ofuscamenti sono sempre riscontrabili avvii di una giusta comprensione [della missione della Chiesa]»3 e prende come esempio san Bernardo di Chiaravalle. La Chiesa: popolo o famiglia? Nel primo volume, è sorprendente vedere la forte prevalenza del termine «famiglia» per parlare della Chiesa. L’autore parla di «nuova famiglia di Gesù che si espande in tutti i popoli»4 e di «nuova famiglia di Gesù che egli raccoglie mediante il suo annuncio e il suo operare»5 o, in modo ancora più chiaro, di «nuova famiglia di Gesù, che poi sarà chiamata “Chiesa”»6. L’espressione «popolo di Dio» per parlare della Chiesa non è certamente assente, poiché appare anche nell’Introduzione, che si conclude con l’afermazione secondo cui «il popolo di Dio — la Chiesa — è il soggetto vivo della Scrittura»7. Ma la formula è poco utilizzata, anche se appare qualche volta: per esempio, nella discussione sui Dodici, «presentati come i capostipiti di questo popolo universale fondato sugli apostoli»8. Ricordiamo che il Concilio aveva di fatto utilizzato questa espressione in modo ricorrente nella Gaudium et spes (GS), evocando «la fede di tutto intero il popolo di Dio, riunito da Cristo» (n. 3; cfr nn. 11 [due volte], 44, 45, 88, 92). Analogamente, la Lumen gentium (LG) ha parlato del «nuovo popolo di Dio» (n. 9). La Chiesa come popolo è costituita da popoli, o da porzioni di 3. J. Ratzinger, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, vol. 2, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 2011, 56 (d’ora in poi GN 2). 4. Id., Gesù di Nazaret, vol. 1, Milano, Rizzoli, 2007, 144 (d’ora in poi GN 1). 5. Ivi, 1, 203. 6. Ivi, 1, 145. 7. Ivi, 1, 17. 8. Ivi, 1, 205. 523 ARTICOLO 524 altri popoli. LG 9 utilizza due termini per indicare il passaggio da plebs a populus: una plebe (plebs) lascia l’Egitto (cfr Es 12,38a), mentre un vero popolo (populus) è costituito ai piedi del monte Sinai. Tutti gli uomini sono igli di Dio in Adamo, ma sono tutti chiamati a essere igli di Dio in Cristo. Ratzinger lo esprime così: «In questo senso, già in virtù della creazione l’essere umano è in modo speciale “iglio” di Dio; Dio è il suo vero Padre»9. Per parlare di popolo, il riferimento neotestamentario più chiaro è 1 Pt 2,9-10, ma il termine non è centrale nell’ecclesiologia del Nuovo Testamento10. Ratzinger lo fa notare: «Il termine “popolo di Dio” appare sì nel Nuovo Testamento molto di frequente, ma solo in pochissimi posti (in fondo, soltanto due) indica la Chiesa, mentre il suo normale signiicato rinvia al popolo d’Israele»11. LG aferma solennemente, all’inizio del n. 13, che «tutti gli uomini sono chiamati a formare il nuovo popolo di Dio. Perciò questo popolo, restando uno e unico, si deve estendere a tutto il mondo e a tutti i secoli, ainché si adempia l’intenzione della volontà di Dio, il quale in principio ha creato la natura umana una, e vuole radunare insieme inine i suoi igli, che si erano dispersi». È chiaro, come indica il contesto, che questo popolo ha una natura del tutto speciale, perché riunisce uomini provenienti da tutti i popoli, e che appartenere a questo popolo non abolisce l’appartenenza ai popoli che costituiscono l’umanità. Infatti, questo popolo uno, questo corpo unico è, come per anticipazione, l’umanità una, di cui la Chiesa è il sacramento12. Il testo prosegue mettendo in rilievo che Cristo è stato inviato per essere il «capo del nuovo e universale popolo dei igli di Dio», e che «l’unico popolo di Dio è presente in tutte le nazioni della terra, poiché di mezzo a tutte le stirpi egli prende i suoi cittadini, cittadini di un regno che per sua natura non è della terra, ma del cielo». Questa nozione di un popolo universale è già di per sé paradossale, perché i popoli della terra si distinguono proprio tra loro sullo sfondo di un’umanità una. 9. Ivi, 1, 168. 10. Cfr J.-N. Aletti Essai sur l’ecclésiologie des Lettres de saint Paul, Paris, Gabalda, 2009. 11. Cfr J. Ratzinger, Chiesa, ecumenismo e politica, cit., 23. 12. Cfr GS 40. POPOLO D’ISRAELE E CHIESA NEL PENSIERO DI RATZINGER La preoccupazione del Concilio fu certamente quella di mettere in rilievo la comune identità battesimale di tutti i fedeli, come è segnalato nell’inciso di GS 92: «L’unico popolo di Dio, che si tratti dei pastori o degli altri fedeli cristiani». L’intenzione teologica del Concilio, nel sottolineare l’importanza di questo termine, non era quella di negare a Israele la qualità di popolo di Dio, ma quella di far risaltare l’uguaglianza fondamentale di tutti i battezzati. Questa preoccupazione la si ritrova espressa con forza nelle afermazioni di Papa Francesco, che ama parlare del «popolo fedele di Dio»13. Proprio come Ratzinger nei suoi due libri, il Concilio continua a qualiicare Israele come popolo. LG 9 aferma che Dio «si scelse quindi per sé il popolo israelita». E la Chiesa, talvolta qualiicata come «nuovo popolo di Dio», è un «popolo messianico», un popolo profondamente diverso dagli altri popoli. Il Concilio dispiega un fascio di immagini per parlare della Chiesa. Ognuna di esse illustra una sfaccettatura del mistero della Chiesa. Tutta l’umanità deve diventare questo popolo nuovo: «La Chiesa prega e lavora nello stesso tempo, ainché la pienezza del mondo intero passi nel popolo di Dio, corpo del Signore e tempio dello Spirito Santo» (LG 17). Ecco perché il Concilio usa anche l’immagine della famiglia: «Tutti, infatti, quanti siamo igli di Dio e costituiamo in Cristo una sola famiglia...» (LG 51). Le ambiguità dell’espressione «popolo di Dio» Questa presa di distanza da un uso esclusivo del termine «popolo di Dio» era già stata fatta notare da alcuni teologi14. Le parole di Ratzinger nel 1986 erano già chiare: dopo il Concilio «si possono osservare due tendenze fondamentali: da una parte, un riduzionismo, che mantiene dell’ecclesiologia conciliare ormai solo l’espressione “popolo di Dio”; dall’altra, una metamorfosi e una ampliicazione del suo signiicato nel senso di una sociologizzazione dell’idea di Chiesa»15. L’espressione può far prevalere il registro politico nel 13. Cfr Papa Francesco, Evangelii gaudium, nn. 96, 120, 125, 142, 144, 271, 274. 14. Cfr N. Aidan, The Thought of Benedict XVI: An Introduction to the Theology of Joseph Ratzinger, Bloomsbury Academic, 2005, 247-249. 15. J. Ratzinger, Chiesa, ecumenismo e politica, cit., 26. 525 ARTICOLO 526 parlare della Chiesa, mentre il lessico familiare (quello della fraternità) attraversa e unisce tutto il Nuovo Testamento. Notiamo che a Ratzinger — restando in ciò fedele alla lettera del Vaticano II che, fra le altre, usa questa espressione — accade di parlare della Chiesa come di un popolo. Si tratta spesso di contesti in cui immediatamente prima si è fatto riferimento al popolo d’Israele. Egli ne parla anche evocando san Francesco di Assisi, che «non aveva intenzione di fondare un Ordine religioso, ma voleva semplicemente radunare di nuovo il popolo di Dio»16. Per parlare della Chiesa, vengono usate anche altre espressioni: per esempio, «la comunità dei poveri di Gesù»17. In modo reciproco, l’autore utilizza il linguaggio di Israele per evocare la Chiesa. Essa è costituita, come Israele ai piedi del Sinai, per mezzo dell’ascolto della parola: «Così sulla base dell’ascolto della Parola si viene a formare un Israele più ampio, un Israele rinnovato, che non esclude o abolisce l’antico, ma lo oltrepassa aprendolo all’universale»18. La ricchezza delle metafore per parlare della Chiesa non deve essere sminuita, ed è una necessità teologica sottolineare l’inscrizione della Chiesa nell’humus biblico, ma è opportuno farlo avendo a cuore di non escludere da questo, neppure involontariamente, l’Israele di oggi. È proprio ciò che fa Ratzinger, il quale usa spesso il termine «popolo» per parlare di Israele. Che questo tema della Chiesa «famiglia» sia caro al cuore di Ratzinger lo si può dedurre anche dall’omelia battesimale dell’8 gennaio 2006, che ebbe una grande eco. Questa dimensione è sottolineata in dall’inizio: «Nel Battesimo ciascun bambino viene inserito in una compagnia di amici che non lo abbandonerà mai nella vita e nella morte, perché questa compagnia di amici è la famiglia di Dio, che porta in sé la promessa dell’eternità. Questa compagnia di amici, questa famiglia di Dio, nella quale adesso il bambino viene inserito, lo accompagnerà sempre»19. Egli prosegue: «La famiglia di Dio sarà 16. GN 1, 103. 17. Ivi, 1, 101. 18. Ivi, 1, 89 (cfr anche 126). 19. Cfr Benedetto XVI, Omelia nella Festa del Battesimo del Signore, 8 gennaio 2006, in http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2006/ documents/ (corsivi nostri). POPOLO D’ISRAELE E CHIESA NEL PENSIERO DI RATZINGER sempre presente e chi appartiene a questa famiglia non sarà mai solo, avrà sempre l’amicizia sicura di Colui che è la vita. […] Questa famiglia di Dio, questa compagnia di amici è eterna, perché è comunione con Colui che ha vinto la morte, che ha in mano le chiavi della vita. Essere nella compagnia, nella famiglia di Dio, signiica essere in comunione con Cristo». E in seguito riprende esplicitamente questa denominazione della Chiesa: «Questa è la ilosoia della vita, è la cultura della vita, che diviene concreta e praticabile e bella nella comunione con Cristo, il Dio vivente, che cammina con noi nella compagnia dei suoi amici, nella grande famiglia della Chiesa». La metafora familiare manifesta una ricchezza di signiicato che non soltanto rispetta maggiormente la speciicità dell’elezione di Israele, ma inoltre chiama, per così dire, la Chiesa a una qualità di comunione ancora più grande. Il mondo della famiglia è caratterizzato da un amore che non si fonda innanzitutto su una legislazione, necessaria in ogni ordine politico, pur non escludendola. Come Israele tende sempre a essere popolo di Dio senza riuscirvi completamente, così pure la Chiesa tende a essere questa famiglia di igli di Dio senza riuscirvi completamente. Tale idea era già stata espressa nel 1986: «A livello puramente empirico nessun popolo è “popolo di Dio”. […] Israele viene indicato con il termine “popolo di Dio”, in quanto si è rivolto al Signore, non semplicemente in se stesso, ma nell’atto della relazione e del superare se stesso, che lo rende ciò che egli, di per sé, non è». Avviene la stessa cosa per la Chiesa: «I cristiani non sono semplicemente popolo di Dio. Da un punto di vista empirico, essi sono un non-popolo, come ogni analisi sociologica può velocemente mostrare», e non possono diventarlo se non «con l’inserimento in Cristo». Si può dire lo stesso per la nozione di «famiglia di Dio»20. Il gioco delle metafore Il secondo volume conferma il primo nell’uso del vocabolario per parlare della Chiesa. È così che parla della «grande famiglia di 20. Cfr J. Ratzinger, Chiesa, ecumenismo e politica, cit., 23 s. 527 ARTICOLO 528 Dio»21, ovvero della «nuova famiglia di Dio»22. Ratzinger dice che tutta la preghiera sacerdotale di Gesù ha come obiettivo «l’uniicazione dei igli di Dio». In efetti — egli prosegue — «il raduno mira all’unità di tutti i credenti e rinvia così alla comunità della Chiesa e, certamente, al di là di essa alla deinitiva unità escatologica»23. La Chiesa è segno e primizia di questo Regno escatologico, di questa umanità unita in Dio, che è il termine del desiderio di Dio. Un’unità che non è data da una riduzione all’uniformità, ma da una comunione perfetta delle diverse particolarità. In questa stessa logica, Ratzinger forgia anche l’espressione signiicativa «Chiesa dei popoli del mondo»24, nella quale la Chiesa appare come una riunione dei popoli, un popolo, in qualche modo, elevato al quadrato. Egli denomina talvolta la Chiesa come «nuova comunità», abitata per l’appunto da «Ebrei e pagani»25, «la nuova comunità della Chiesa universale»26. Variando le metafore, egli si mostra in armonia con le diverse espressioni conciliari. Qualche giorno prima di lasciare il pontiicato, Ratzinger è tornato su questo argomento, nel suo discorso al clero romano: «Noi pagani, non siamo di per sé il Popolo di Dio, diventiamo igli di Abramo, e quindi Popolo di Dio, entrando in comunione con il Cristo, che è l’unico seme di Abramo. Ed entrando in comunione con Lui, essendo uno con Lui, siamo anche noi Popolo di Dio. Cioè: il concetto “Popolo di Dio” implica continuità dei Testamenti, continuità della storia di Dio con il mondo, con gli uomini, ma implica anche l’elemento cristologico. Solo tramite la cristologia diveniamo Popolo di Dio e così si combinano i due concetti. E il Concilio ha deciso di creare una costruzione trinitaria dell’ecclesiologia: Popolo di Dio Padre, Corpo di Cristo, Tempio dello Spirito Santo»27. Queste parole costituiscono senza dubbio l’espressione più chiara dell’importanza propriamente teologica che Ratzinger attribuisce a tale questione. 21. GN 2, 68. 22. Ivi, 2, 170. 23. Ivi, 2, 197. 24. Ivi, 2, 54. 25. Ivi, 2, 197. 26. Ivi, 2, 250 (e anche 197). 27. Cfr http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2013/february/ documents/hf_ben-xvi_spe_20130214_clero-roma_it.html POPOLO D’ISRAELE E CHIESA NEL PENSIERO DI RATZINGER La vocazione di Israele Ratzinger parla di Israele al presente, e il termine «popolo» è utilizzato il più delle volte per indicare Israele o il «popolo ebreo»28. Descrivendo il senso del rituale della festa del Kippur, sottolinea che esso ha lo scopo di permettere a Israele «di essere il popolo di Dio in mezzo al mondo»29. Espone a lungo il senso dell’elezione di Israele come popolo. Bisogna considerare la «vocazione particolare di Israele: da una parte, il popolo è segregato da tutti gli altri popoli, ma, dall’altra, lo è proprio per svolgere un incarico per tutti i popoli, per tutto il mondo. È ciò che si intende con la qualiica di Israele come “popolo santo”»30. Egli lo fa lodando la giustezza della «teologia rabbinica», che vede nel disegno di costituire un popolo che dica «sì» a Dio il senso stesso della creazione, mostrando nello stesso tempo l’importanza di questa nozione per comprendere anche la natura della Chiesa31. È signiicativo che là dove appare l’espressione «popolo di Dio», essa designa esplicitamente Israele32. In modo generale, Ratzinger sottolinea la legittimità della lettura giudaica; sottolinea, ad esempio, che «alla cristianità farebbe bene guardare con rispetto a questa obbedienza di Israele e così cogliere meglio i grandi imperativi del Decalogo»33. La lettura giudaica è legittima, ed entrare in dialogo con essa arricchisce la lettura cristiana e le permette anche di comprendere meglio le Scritture. «Dopo secoli di contrapposizione, riconosciamo come nostro compito il far sì che questi due modi della nuova lettura degli scritti biblici — quella cristiana e quella giudaica — entrino in dialogo tra loro, per comprendere rettamente la volontà e la parola di Dio»34. 28. GN 2, 43, 208. «Popolo»: 28, 92, 93, 102, 190, 191, 200, 208, 209, 244, 281. 29. 30. 31. 32. 33. 34. Ivi, 2, 92. Ivi, 2, 102. Ivi, 2, 93. Ivi, 2, 92, 193-195. Ivi, 1, 150. GN 2, 45. 529 ARTICOLO La novità del Cristo e della sua comunità 530 Di fatto la preoccupazione di Ratzinger, nello scorrere le sue pagine che espongono con forza l’originalità cristiana, è quella di insistere sul fatto che la «totale novità» del Cristo, «del suo essere di Figlio», si inscrive «totalmente nella fedeltà alla Scrittura»35. In altre parole, si tratta di presentare come Cristo ha vissuto la chiamata di suo Padre, riconosciuta nella preghiera e nelle Scritture «senza rottura e tuttavia in modo nuovo»36. Ciò che è in gioco nel rapporto del cristianesimo con le Scritture di Israele, e della Chiesa nei confronti di Israele, è nell’ordine di un compimento senza negazione. Ciò che Gesù realizza, specialmente con la sua passione e risurrezione, ha come scopo «un allargamento al di là di Israele verso l’universalità»37, non una sua sostituzione: «Gesù prega in perfetta comunione con Israele ed è, tuttavia, Egli stesso Israele in modo nuovo: l’antica Pasqua appare ora come un grande anticipato abbozzo»38. Questo progetto si dispiega senza che l’abbozzo perda il suo senso e il suo valore. Il fatto che Gesù sia, in un certo senso, Israele, non spossessa il popolo di Israele della propria identità. Detto in altro modo: diventando il Salvatore delle nazioni, Gesù non cessa di essere il Messia di Israele. E proprio perché è il Messia di Israele in modo totale, egli può diventare Salvatore di tutte le nazioni: «Gesù stesso è il pastore di Israele, il pastore dell’umanità»39. Gesù fonda una nuova famiglia che ha come dimensione ultima l’umanità intera, senza cessare di appartenere al suo popolo. Pertanto è importante che questa dimensione della Chiesa come la nuova famiglia dei igli di Dio dispersi appaia in piena luce. Per questo tutte le altre espressioni — Popolo di Dio, Corpo di Cristo e Tempio dello Spirito Santo —, che afondano le loro radici nelle Scritture, mantengono il loro posto. Se ricordiamo l’antico adagio lex orandi lex credendi, secondo il quale le parole della liturgia di35. 36. 37. 38. 39. Ivi, 2, 143. Ivi, 2, 166. Ivi. Ivi, 2, 167. Ivi, 2, 170. POPOLO D’ISRAELE E CHIESA NEL PENSIERO DI RATZINGER cono il cuore della fede, possiamo notare che la liturgia, nelle preghiere eucaristiche, alterna i riferimenti al popolo e alla famiglia. Per esempio, nella terza preghiera eucaristica, ci si rivolge al Padre dicendo: «Continui a radunare intorno a te un popolo», e poi gli si chiede: «Ascolta la preghiera di questa famiglia, che hai convocato alla tua presenza». Troviamo la stessa alternanza nella quarta preghiera eucaristica, che evoca dapprima il «tuo popolo» e poi inizia una supplica rivolta al Padre da parte dei suoi «igli», dove la metafora richiama di nuovo la famiglia. Quanto al canone romano, esso si apre con una menzione della «tua famiglia» e poco dopo evoca il «tuo popolo santo». Osservazioni analoghe possono essere fatte anche sui prefazi o sulle orazioni domenicali. Respingere le letture antigiudaiche C’è un altro ambito in cui la lettura di Ratzinger si inscrive in uno sguardo profondamente rinnovato e positivo sul giudaismo vivente. Egli decifra e afronta i passi evangelici che hanno alimentato maggiormente l’antigiudaismo cristiano nel corso dei secoli. È così che l’espressione giovannea «i Giudei», usata qualche volta nel racconto della passione per parlare di coloro che condannano Gesù, non deve essere mal interpretata. Essa si riferisce soltanto ai membri delle famiglie sacerdotali del tempio, e per di più soltanto a una parte di essi! «In Giovanni tale espressione [i Giudei] ha un signiicato preciso e rigorosamente limitato: egli designa con essa l’aristocrazia del tempio […], ma anch’essa non senza eccezione, come lascia capire l’accenno a Nicodemo (cfr Gv 7,50)», e «non indica afatto […] il popolo di Israele […] come tale»40. Non si potrebbe essere più chiari. Ugualmente la folla che reclama la grazia per Barabba nel Vangelo di Marco (Mc 15,8.13.14) rappresenta «il gruppo dei sostenitori di Barabba, non però il popolo ebreo in quanto tale»41. Ratzinger fa lunghi ragionamenti per dimostrare che l’espressione di Mt 27,25 «e tutto il popolo rispose: “Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri igli”», lungi dall’essere una maledizione per Israele, in realtà 40. Ivi, 2, 208. 41. Ivi, 2, 209. 531 ARTICOLO 532 è una benedizione profetica: «Il cristiano ricorderà che il sangue di Gesù parla un’altra lingua rispetto a quello di Abele (Eb 12,24): non chiede vendetta e punizione, ma è riconciliazione. Non viene versato contro qualcuno, ma è sangue versato per molti, per tutti»42. Le parole talora severe di Gesù sul suo popolo (per esempio, quelle riportate in Mt 23,37 e Lc 13,34) si inscrivono nella linea dei profeti di Israele e devono essere lette su questo sfondo: Gesù «riprende un’antica tradizione profetica»43. C’è un’«intima analogia tra il messaggio del profeta Geremia e quello di Gesù»44. In breve, si tratta di «leggere» questi passi, spesso utilizzati per ofendere Israele, «in modo totalmente nuovo»45. Questo modo espone la novità del Cristo senza mai ridurre il giudaismo o negare ciò che Gesù attinge dalla tradizione di Israele. Così egli sta attento ainché alcuni passaggi nel Nuovo Testamento non siano letti come se Israele non fosse più all’orizzonte dell’interpretazione. Nello stesso modo in cui le persone che ofrono l’aceto a Gesù ai piedi della croce rappresentano «non soltanto Israele, ma anche la Chiesa», il passo dell’Apocalisse in cui la donna partorisce il iglio di fronte alla minaccia del drago coinvolge «tutto Israele, anzi l’intera Chiesa»46. Entrare nel mistero di Israele Ma Ratzinger non si ferma qui. Una volta terminato questo lavoro, egli desidera ancora proporre una visione positiva del popolo giudaico per l’oggi. E va direttamente al testo del Nuovo Testamento che rappresenta la visione più coerente e più argomentata del destino dell’Israele non cristiano: Rm 9–11. In modo originale, collega le afermazioni di Paolo in Rm 9–11, e in particolare l’ultima, la più fondamentale — «l’ostinazione di una parte di Israele è in atto ino a quando non sono entrate tutte quante le genti. Allora tutto Israele 42. 43. 44. 45. 46. Ivi, 2, 211. Ivi, 2, 36. Ivi, 2, 210. Ivi, 2, 211. Ivi, 2, 247. POPOLO D’ISRAELE E CHIESA NEL PENSIERO DI RATZINGER sarà salvato» (Rm 11,25) — ai Vangeli47. In efetti Gesù ha evocato questa missione di annuncio a tutti i popoli del mondo e questo tempo dei pagani. Essa si accorda con questo versetto di Marco: «Ma prima è necessario che il Vangelo sia proclamato a tutte le nazioni» (Mc 13,10), e con questo passo di Matteo: «Questo vangelo del Regno sarà annunciato in tutto il mondo, perché ne sia data testimonianza a tutti i popoli; e allora verrà la ine» (Mt 24,14). I due Vangeli testimoniano la consapevolezza che il Vangelo deve essere prima annunciato a tutti i popoli della terra inché non giunga la ine, in cui apparirà in piena luce la salvezza di Israele e il Regno compiuto. La conclusione poggia sul pensiero di una monaca di clausura cistercense contemporanea e commentatrice di san Bernardo di Chiaravalle: «Hildegard Brem commenta questo passo così : “Facendo seguito a Rm 11,25, la Chiesa non deve preoccuparsi della conversione dei Giudei, perché occorre aspettare il momento stabilito da Dio “quando la totalità dei gentili avrà raggiunto la salvezza” (Rm 11,25)»48. La rilessione si riallaccia a quella di Hans Urs von Balthasar su questo punto: «L’eventualità di “venir riassorbito” nella Chiesa attraverso tante singole conversioni non può essere il senso del perdurare del popolo di Israele. Israele ha un destino in quanto popolo»49. Questa rilessione di san Bernardo di Chiaravalle, indirizzata a papa Eugenio III, è citata per sottolineare che tale pensiero non è nuovo nella Chiesa, ma è già stato messo in risalto diverse volte: «Per quanto riguarda i Giudei, sei scusato dal tempo; per loro è stato stabilito un determinato momento, che non si può anticipare. Devono venir prima i pagani nella loro totalità». Il destino di Israele appartiene a Dio, che realizza la sua salvezza passando da questa apparente eclissi del loro ascolto. Per Paolo, si tratta di un mistero (cfr Rm 11,25), cioè di una rivelazione che gli è stata comunicata da Dio stesso. Soltanto Dio conosce il momento e l’ora in cui Israele 47. Ivi, 2, 52-57, in particolare 54. La stessa idea e lo stesso riferimento a Rm 11,25 si ritrovano a p. 156. 48. GN 2, 56. 49. Cfr H. U. von Balthasar, Einsame Zwiesprache, Cologne, Jakob Hegner, 1957, 108 (in it.: Fede e pensiero. I. Dialogo solitario, Martin Buber e il Cristianesimo, Milano, Jaca Book, 2006, 34). 533 ARTICOLO riconoscerà collettivamente Colui che è il suo Messia senza cessare di essere il Cristo delle nazioni. La benedizione di Israele 534 Così, in questa doppia opera, Ratzinger pone i fondamenti di una teologia cattolica del popolo di Israele: una teologia solidamente radicata nelle Scritture e che tiene in piena considerazione la realtà vivente del giudaismo. Può allora apparire una doppia benedizione: da una parte, l’esistenza mantenuta del popolo giudaico è un beneicio, con la sua unicità singolare in quanto popolo di un tempo, un popolo che non assomiglia a nessun altro e che porta già in sé questo segno di apertura a tutte le nazioni, questa incompletezza originaria che apre all’alterità. Questo popolo obbliga in qualche modo la Chiesa a essere ciò che deve essere, la famiglia escatologica dei igli di Dio, una casa in cui il disegno di Dio annunciato ad Abramo ed evocato dai profeti comincia a realizzarsi, segno visibile di una umanità una che deve ancora venire. La Chiesa non può permettersi di essere soltanto un popolo tra gli altri, con i suoi originali riti culturali e cultuali e la sua lingua sacra: ha il dovere di essere una famiglia che non fa numero né con gli altri popoli, né con Israele. Indubbiamente questa identità ritrovata, questa identità di igli si oppone continuamente alla pesantezza dell’uomo antico. Ma il considerare la Chiesa come la famiglia dei igli di Dio, aperta a tutti quelli che verranno da oriente e da occidente, aperta agli uomini «di ogni tribù, lingua, popolo e nazione» (Ap 5,9) è profondamente radicato nel Nuovo Testamento e permette di sfuggire dall’alto, per così dire, alla trappola che la teologia della sostituzione tendeva alla teologia cristiana: una teologia in realtà indegna di Dio e della Chiesa. Come il Dio fedele, il Dio che non lascia cadere nessuna delle sue promesse, potrebbe ricredersi su un suo giuramento e fare con Gesù o con Paolo ciò che inine si era riiutato di fare con Mosè, cioè dimenticare la sua alleanza (cfr Dt 9,14)? «Infatti i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!» (Rm 11,29). La Chiesa, nel suo essere stesso, è rilesso di questa Trinità che accoglie la pluralità nel seno di una unità indistruttibile. Israele vivente è allora un segno POPOLO D’ISRAELE E CHIESA NEL PENSIERO DI RATZINGER essenziale della fedeltà di Dio e di ciò a cui egli chiama la Chiesa. Se la Chiesa si vedesse soltanto come un nuovo Israele, lo potrebbe fare soltanto allontanando Israele, ma soprattutto tradendo la propria vocazione, la propria essenza quale Gesù l’ha disegnata a poco a poco. Gesù appartiene a un popolo che rimarrà per sempre il suo, anche quando mette al mondo la sua famiglia, la famiglia di Dio: «Egli ha nuovamente raccolto i “suoi” — la grande famiglia di Dio — facendoli da stranieri diventare “suoi”»50. La seconda benedizione si radica nel mistero rivelato da Paolo nella Lettera ai Romani. Il velo che ha oscurato gli occhi di una parte di Israele viene da Dio, ed è Dio che a tempo debito lo leverà. Come Paolo dice di se stesso, questo non impedirà mai che, nel corso dei secoli, alcuni igli di Israele riconoscano in Gesù di Nazaret il loro Messia e il loro Dio. Ma il riconoscimento pieno è un’opera che dipende dal volere di Dio e che è legato al tempo della sua pazienza. Nel frattempo ogni tentativo di convertire in massa i giudei con mezzi umani rientra nella categoria di quella «impazienza teologica» che von Balthasar51 aveva denunciato. Si può anche dire che, con i loro sforzi centrati speciicamente sui giudei, in vista di afrettare la redenzione, i cristiani evangelici estremisti si rendono colpevoli di ciò che le Scritture denunciano con forza. Non spetta a noi conoscere i luoghi e i momenti, e tanto meno forzare la mano dell’Onnipotente con sottili strategie. Ciò che resta più che mai attuale è il vivere del Vangelo e per mezzo del Vangelo, è l’entrare in una logica di gratuità che porti il suo frutto senza forzare i tempi. Permettendo a questa impressionante visione paolina di entrare facilmente nella teologia cattolica di Israele, Ratzinger apre lo spazio della benedizione. Il giudaismo vivente non soltanto è una realtà che bisogna onorare, ma è anche una grazia di incomparabile portata per la fede cristiana stessa. Signiica onorare al tempo stesso l’umanità di Gesù Messia d’Israele e delle nazioni e onorare i disegni del Padre di tutti gli uomini. 50. GN 2, 68. 51. Cfr H. Urs von Balthasar, «Mysterium paschale», in J. Feiner - M. Löhrer (eds), Mysterium salutis, vol. VI, Brescia, Queriniana, 1971, 171-412. 535