OPEN ACCESS JOURNAL OF CULTURAL HERITAGE PROTECTION
ANNO VII, N. 7 (2015)
archeomafie
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LIBERARCHEOLOGIA RIVISTE
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archeomafie
OPEN ACCESS JOURNAL OF CULTURAL HERITAGE PROTECTION
anno VII, n. 7 (2015)
a cura di Tsao Cevoli
OSSERVATORIO INTERNAZIONALE ARCHEOMAFIE
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ARCHEOMAFIE. Rivista dell’Osservatorio Internazionale Archeomafie in
collaborazione con Liberarcheologia e con il Centro per gli Studi Criminologici.
Testata registrata presso il Tribunale di Napoli n.10 del 21/02/2007. Direttore
Responsabile: Tsao T. Cevoli. Coordinatore di Redazione: Lidia Vignola. email:
[email protected]. Website: www.archeomafie.org. Webmaster: Arago. Edizione a cura di Liberarcheologia (
[email protected]),
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“Archeomafie” è inserita nell’elenco delle Riviste Scientifiche dall’Agenzia
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la libera diffusione.
Napoli 2015. Stampa in proprio. ISSN: 2036-4539.
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A Khaled Mohamad al-Asaad e a quanti si sono
sacrificati per difendere la memoria dei popoli.
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Nota al settimo numero.
“I conflitti che si sono susseguiti negli ultimi anni confermano che le inverosimili e criminose strategie belliche,
adottate dalle diverse fazioni e fondate sull’impiego di
armi in grado di mutilare i bambini, sugli stupri di massa
e sulla distruzione del patrimonio culturale e cultuale del
nemico, erano finalizzate a sopprimere non solo il futuro
dell’avversario, ma anche il suo passato”.
Sono parole scritte nel 2006 a proposito dei conflitti in
Medio Oriente dall’archeologo Fabio Maniscalco, scomparso nel 2008, ad appena 42 anni, dopo aver dedicato e
sacrificato la vita per difendere il patrimonio culturale
nelle aree di crisi e di guerra. Sempre in prima linea ad
organizzare interventi su campo, spesso potendo contare
quasi soltanto sulle proprie risorse ed energie. Sempre solerte a scuotere dal torpore la comunità scientifica mondiale con i suoi appelli a governi e organizzazioni internazionali.
Ne sentiamo ancor più la mancanza ogni volta che, da
qualche nuova situazione di crisi e di guerra, ci giungono
notizie di saccheggi e distruzioni. Se fosse tra noi, ci viene in mente, ce lo ritroveremmo lì, ne siamo certi, a lottare per quei popoli e per il loro patrimonio culturale.
La sua competenza, la sua passione, il suo attivismo ci
sono stati di insegnamento. Se il mondo accademico attorno a lui fosse stato meno lento, invidioso o restìo a coglierne il talento e gli avesse dato lo spazio ed il ruolo che
ampiamente meritava, questo insegnamento egli lo avrebbe potuto trasmettere di persona ai suoi allievi, formando
generazioni di archeologi dotati di una ben diversa capacità di osservazione e di azione sul mondo.
9
Così non è stato. Malgrado ciò egli è riuscito ugualmente ad essere fonte di ispirazione per i colleghi più
giovani, tra cui lo scrivente, che hanno imparato da lui
attraverso i suoi libri e le sue riviste. Risorse cui adesso si
adesso il libro “Oro dentro. Un archeologo in trincea: Bosnia, Albania, Kosovo, Medio Oriente”, scritto da Laura
Sudiro e Giovanni Rispoli, pubblicato da Skira. Una biografia narrata, di cui pubblichiamo una recensione, estremamente avvincente ed interessante anche per i non addetti ai lavori.
Il messaggio che ci ha lasciato oggi, purtroppo, risulta
estremamente attuale, di fronte agli efferati crimini contro
l’umanità e contro il patrimonio culturale che si stanno
perpetrando nelle stesse terre in cui qualche anno fa la cosiddetta primavera araba sembrava preludere ad un ben
diverso futuro.
I nuovi drammatici conflitti, che stanno insanguinando
il Medio Oriente ed il Meditterraneo, colpiscono in modo
atroce ed indiscriminato, ora più che mai, la popolazione
civile e minacciano di cancellare un’eredità culturale millenaria, su cui fonda le proprie radici l’intera civiltà umana.
Eredità culturale la cui difesa trova, però, nuovi martiri, come Khaled Mohamad al-Asaad, l’ottantaduenne archeologo siriano barbaramente torturato e trucidato il 18
agosto 2015. Morto per quella stessa Palmyra cui aveva
dedicato quasi mezzo secolo di vita. O come gli almeno
altri quindici funzionari di musei che secondo la Direzione Generale delle Antichità di Damasco dall’inizio del
conflitto in Siria avrebbero perso la vita sul lavoro. Uccisi
da uno pseudo-stato criminale che mentre ostenta mediaticamente la distruzione delle antichità, in nome di una
presunta fede religiosa da epurare da ogni forma di idolatria, dietro le quinte, invece, non disdegna di lucrare dalla
loro vendita ai soliti trafficanti, collezionisti e musei
10
dell’odiato Occidente, che a loro volta non disdegnano di
rimpinguare le casse del nemico per soddisfare la propria
brama di antichità. A quanto pare, al di là della retorica
dello scontro di civiltà, pecunia non olet: i lauti proventi
dei traffici clandestini di antichità, come quelli di droga,
armi e petrolio, mettono tutti d’accordo.
Assistiamo, dunque, alla barbarie che avanza. È vero.
Ma non si tratta solo di quella dei fanatismi assassini e
criminali in Medio Oriente e sulla sponda meridionale del
Mediterraneo. C’è anche la barbarie che dilaga in Occidente, quella dell’ignavia e dell’ignoranza che stanno inquinando i nostri valori ed abbrutendo le nostre coscienze.
Per scuoterle abbiamo bisogno di ricordare storie come quelle Fabio, Khaled e di chissà quanti altri non abbiamo conservato il ricordo. Storie di persone che hanno
sacrificato la vita per difendere il patrimonio culturale.
Mossi non certo da quella certa, quasi feticistica, passione
antiquaria per l’opera d’arte e il reperto archeologico, che
ancor oggi malauguratamente caratterizza buona parte di
noi archeologi, ma probabilmente perché consapevoli che
sul patrimonio culturale e sulla memoria materiale si fonda l’identità e quindi la dignità di ogni popolo.
Difendendo il patrimonio culturale essi non hanno inteso
difendere delle pietre, ma l’identità dei popoli aggrediti
dalla guerra, il loro diritto ad esistere, a conservare memoria e consapevolezza di sé, per ritrovare un giorno nelle proprie radici la speranza e la forza di costruire un futuro.
Il Direttore
11
In alto: Khaled Mohamad al-Asaad, l’ottantaduenne archeologo siriano barbaramente torturato e
ucciso il 18 agosto 2015, mentre tentava di difendere Palmyra. In basso: il sito archeologico di
Palmyra, in Siria.
12
Nadia Pedot
Il sacco della Biblioteca dei Girolamini di Napoli.
Secondo i dati riportati nella edizione 2014 di Minicifre della Cultura1 le biblioteche censite nell’Anagrafe delle Biblioteche italiane sono 12.936; di queste 6.467 fanno
capo ad enti pubblici territoriali, 1.978 alle Università (di
cui 1.922 statali e 56 non statali), 1.322 appartengono ad
enti ecclesiastici. All’interno delle “sole” 46 biblioteche
pubbliche statali, incluse le 2 nazionali centrali di Roma e
Firenze che custodiscono l’intera produzione editoriale
italiana per “deposito legale”, sono conservati 198.131
codici manoscritti e 2.470.0281 volumi stampati, tra cui
34.051 incunaboli2 e 332.203 “cinquecentine”.3
Un patrimonio immenso e fragile per sua natura, conservato in sale e scaffali aperti, depositi e armadi, classificato secondo criteri standard ma esposto al pubblico, e
talvolta al pericolo, secondo modalità e accorgimenti differenti. Si tratta di un complesso ricco, unico e irripetibile
di testimonianza e identità che appassiona studiosi e che
alimenta il culto di bibliofili: opere d’arte che, nella consistenza della parola, saldano un tempo che non è più e un
1
Il documento è redatto annualmente, a cura del Segretariato Generale, Servizio I - Coordinamento e Studi, del Ministero dei Beni e della Attività Culturali e del Turismo, ed è
reperibile sul sito web del Ministero.
2
Secondo la definizione del vocabolario Treccani, è il “nome dato convenzionalmente ai
primi prodotti della tipografia, dalle origini all’anno 1500 incluso, che si modellarono in
tutto sui manoscritti coevi”.
3
Volumi stampati esclusivamente nel corso del XVI secolo.
13
tempo che non è ancora, perché “i libri non sono morti
cimeli del passato, ma strumenti vivi che devono servire
alla costruzione del futuro”.4
Ambiti e riconosciuti feticci culturali, facile preda di
furti e sottrazioni, manoscritti e incunaboli alimentano un
circuito commerciale di élite, tra antiquari e collezionisti,
nelle cui maglie da tempo si è inserito un fiorente mercato
illegale. Una dimensione illecita in cui il confine tra delinquenza semplice e criminalità organizzata è sempre più
sfumato: “il commercio di beni culturali è il quarto al
mondo per volume d'affari, dopo il traffico di droga,
d’armi e quello di prodotti finanziari, in cui sono coinvolte organizzazioni criminali transnazionali”.5
Se la rottura delle relazioni e la distruzione dei beni
culturali, in generale, arreca “incalcolabili e irreparabili
danni per lo Stato” e i suoi cittadini, presenti e futuri, la
spoliazione del patrimonio costituisce e incrementa una
filiera criminale diversificata, una sorta di catena alimentare di tipo piramidale in cui l’arte è moneta e “sostituisce
persino la classica bustarella come tangente per accaparrarsi appalti e lavori”6 oppure, come vedremo nel caso
empirico, è grimaldello. Per procacciare relazioni, coltivare interessi altri, costruire una carriera. Il paradosso, è
che “i regimi giuridici che disciplinano l’importazione di
materiale culturale, in termini più stringenti, hanno fatto
sì che numerosi beni, che non trovano più una collocazione nel mercato lecito, siano venduti in quello illegale:7
4
T. Montanari, Le pietre e il popolo. Restituire ai cittadini l’arte e la storia delle città
italiane, Roma 2013, p. 46.
5
Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, Attività operativa 2014, p. 17.
6
V. Ferrante, Migliaia di reperti recuperati dalla Svizzera, in I tesori dell'arte nelle mani
della mafia, La Repubblica, 12 gennaio 2015.
7
S. Beltrametti, Il valore del patrimonio culturale. Dati e analisi sul traffico illecito dei
beni culturali, in Aedon. Rivista di arti e diritto on line, 1, 2013. Nell’articolo l’autrice
afferma, inoltre, che per la sua stessa natura “é difficile ottenere dati empirici che diano
una dimensione alle attività illegali”: il giro di affari annuo, a livello mondiale, è stimato
tra i 300 ai 6.000 milioni di dollari. La forbice del dato fornito fa riferimento, da un minimo a un massimo, relativo alle diverse fonti primarie comparate.
14
una forte domanda e una diffusa sottovalutazione, talvolta
scivola verso la connivenza, del fenomeno criminale da
parte degli acquirenti rendono, accanto alla tutela, ancora
più gravoso il compito di prevenzione e contrasto.
I furti, ai danni del patrimonio italiano nel corso del
2014, secondo i dati ufficiali forniti dal Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, risultano 609 e registrano una flessione del 9,9% rispetto al 2013.8 Gli oggetti trafugati, di carattere libraio o archivistico, ammontano
a 963 contro i 6769 dell’anno precedente: una riduzione
così vistosa, pari all'85,8%, è, secondo il Reparto Specializzato dell’Arma, “in parte ascrivibile alla costante attività di sensibilizzazione del personale delle biblioteche
pubbliche e private sulle corrette procedure di tutela”.
Il settore resta, per sua natura, vulnerabile: lo scaffale
aperto permette agli utenti un contatto diretto con il bene,
inoltre l’“assenza di sistemi che segnalino l’uscita non autorizzata degli stessi dalle strutture archivistiche e bibliotecarie, nonché dalla scarsa efficacia della sorveglianza”9
possono rendere impari lo sforzo di difendere il patrimonio dal saccheggio, sia esso episodico o sistematico.
E quando il pericolo è endogeno? Un caso emblematico ha riguardato la Biblioteca Statale Oratoriana dei Girolamini a Napoli (fig. 1-2), una delle più importanti biblioteche d’Italia, con un patrimonio librario, prima della
nomina di De Caro, di circa 159.700 unità tra volumi ed
opuscoli, tra i quali 137 stampati musicali, 5 mila edizioni
del Cinquecento, 120 incunaboli, 10 mila edizioni rare e
di pregio, 485 periodici, una quantità non ancora determinata di microfilm e ritratti. Specializzata in Teologia cristiana, Filosofia, Chiesa cristiana in Europa, Storia della
Chiesa, Musica sacra e Storia generale dell’Europa, è una
delle più ricche del Mezzogiorno e la più antica tra quelle
8
9
Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, Attività operativa 2014, p. 5.
Ivi, p. 7.
15
napoletane, a lungo frequentata da Giambattista Vico.
Per comprendere, o almeno provare a definire, i contorni relazionali e i varchi istituzionali di questa vicenda
giudiziaria è necessario riavvolgere il nastro biografico
del principale protagonista.
Marino Massimo De Caro nasce a Bari nel 1973. Della
sua formazione precoce racconta di aver cominciato a fare politica a quattordici anni, come responsabile per gli
studenti medi dell’allora FGCI, e poco più che adolescente scopre la “passione per i libri antichi”.10 Negli anni ‘90
si afferma tra i leader del movimento la Pantera e nel
1994 ha inizio la sua carriera: il senatore Carlo Carpinelli
ne fa il suo assistente e comincia a frequentare gli ambienti romani. Dal 1995 al 200011 è consigliere comunale
a Orvieto. Per “fare qualcosa di utile per il paese” nel
1997 entra nell’Arma dei Carabinieri: lascia l’incarico da
Carpinelli e assolve l’obbligo di leva.12 Ai giornalisti
Claudio Gatti e Ferruccio Sansa dichiara: “Sono laureato
in scienze economiche e giurisprudenza all’Università di
Siena”.13 Millanta due titoli inesistenti: immatricolatosi,
effettivamente, a giurisprudenza nel 1992, era rimasto
iscritto a Siena, senza laurearsi, fino al 2002. “In compenso, il 22 settembre del 2004 l’Univesidad Abierta Interamericana (privata) lo nomina dottore honoris causa in
cambio del dono di quattro libri antichi e di un meteorite
piovuto nel Sahara”.14 Accanto all’impegno politico, che
si rivelerà straordinariamente connesso e funzionale, alla
fine degli anni ‘90 De Caro si trasferisce a Verona; apre
una libreria e intrattiene rapporti di collaborazione con
10
C. Gatti, F. Sansa, Il sottobosco. Berlusconiani, dalemiani, centristi uniti nel nome degli
affari, Milano 2012, p. 18.
11
M. Lillo, Sul suo conto sempre più soldi. Niente crisi per Dell'Utri, Il Fatto Quotidiano,
19 agosto 2011.
12
C. Gatti, F. Sansa, Op. cit., p. 29.
13
Ivi, p. 17.
14
T. Montanari, Op. cit., p. 49.
16
un’altra a Buenos Aires dell’antiquario argentino Daniel
Pastore: “Prendevamo insieme dei libri e poi li vendevamo alle fiere organizzate in Europa e nel mondo”,15 racconta. Politico, bibliofilo e manager: è socio al 50% di
Marco Jacopo Dell’Utri, figlio dell’ex senatore Marcello
Dell’Utri, in Mitra Energy Consulting ed è vicepresidente-consulente di Avelar, società ginevrina controllata
dall’oligarca russo Viktor Feliksovich Vekselberg.16 De
Caro, Dell’Utri e Vekselberg: interessi convergenti e un
amore comune per i libri antichi. Nella seconda metà degli anni Duemila, De Caro è coinvolto in un procedimento giudiziario con l’accusa di ricettazione: nel marzo del
2005 l’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna,
un prezioso incunabolo del 1499 contenete i timbri di una
biblioteca milanese, viene messo in vendita alla Mostra
del libro antico di Milano, evento patrocinato da Marcello
Dell’Utri. Il volume, secondo la ricostruzione dei Carabinieri, proviene da un’asta in Svizzera e De Caro dichiara
di averlo acquistato per conto del collaboratore argentino;
“interrogato per rogatoria” Pastore nega ogni coinvolgimento e riaccusa De Caro. Nel corso di una conversazione telefonica intercettata dalla Procura di Reggio Calabria
il 27 dicembre 2007 De Caro si lamenta con Aldo Micciché17 di “un capitano dei Carabinieri del Nucleo del patrimonio artistico di Monza che lo sta «scocciando» per
un libro acquistato in un’asta pubblica in Svizzera”:
l’accusa di ricettazione blocca “la sua nomina a console
onorario del Congo perché il ministero degli Esteri non
sta concedendo il nullaosta”. Un mese più tardi Micciché
15
C. Gatti, F. Sansa, Op. cit., p. 18.
Gatti e Sansa lo descrivono come un “magnate dell’alluminio e del petrolio e uno degli
uomini più ricchi della Russia putiniana”, Op. cit., p. 16.
17
Nell’ambito dell’inchiesta “Cento anni di storia” viene arrestato il 23 luglio 2012 a Caracas: il faccendiere, latitante da 4 anni e condannato a 11 anni di reclusione, è ritenuto
emissario della cosca dei Piromalli-Molé di Gioa Tauro in Venezuela e anello di congiunzione tra la 'ndrangheta e Marcello Dell’Utri. Cfr.: L. Musolino, Caracas, arrestato Aldo
Miccichè, mise i Piromalli in contatto con Dell’Utri, Il Fatto Quotidiano, 24 luglio 2012.
16
17
rassicura De Caro: “Stai tranquillo che Aldo ti segue. […]
Devo mandare una persona a Milano... dalla giudice”. È il
17 luglio 2009 quando Maria Letizia Mannella, sostituto
procuratore di Milano, chiede il non luogo a procedere
“rilevato che l’incunabolo non è stato rinvenuto fisicamente, malgrado le numerose ricerche”: l’oggetto di presunta ricettazione è svanito nel nulla e l’incriminazione
viene archiviata.18
Negli stessi anni, tra il 2007 e il 2009, De Caro funge
da mediatore in una intricatissima vicenda che riguarda
un affare “di milioni di barili di petrolio venezuelano”.19
Gatti e Sansa ricostruiscono network e fatti incrociando le
carte dell’inchiesta della procura di Reggio Calabria sulla
‘ndrina dei Piromalli e quelle della procura di Bari sulla
malasanità pugliese. Nel business entrano Roberto De
Santis, “il prototipo del lobbista all’italiana” o meglio noto come “l’uomo di D’Alema”, Aldo Micciché, al tempo
ancora latitante, Marcello Dell’Utri e, appunto, Massimo
Marino De Caro, l’“espressione di quel sottobosco in cui
il mondo berlusconiano si incontra e si sposa con quello
dalemiano”. Dalle conversazioni emerge netta la forza del
nesso indissolubile tra affari e politica ma, “nonostante la
duplice serie di intercettazioni, a Reggio Calabria e a Bari, gli inquirenti non riusciranno ad appurare se
quell’operazione di greggio venezuelano si sia effettivamente conclusa”.20 De Caro si confronta con Micciché,
ambisce, come se gli spettasse, a un incarico pubblico
“all’Enel o all’Eni”, in alternativa non disdegna una candidatura al Parlamento italiano: “Perché è qui che giochiamo le partite”.21 Nel contempo, dalle intercettazioni
18
C. Gatti, F. Sansa, Op. cit., pp. 18-19.
Ivi, p. 11. Più avanti, a p. 22, si sostanzia l’ammontare: “tre milioni di barili di greggio
all’anno per tre anni” […] il cui “margine totale [di profitto] sarebbe di 10,5 milioni di
dollari all’anno […] da spartire con i funzionari della Petróleos de Venezuela Sa”.
20
Ivi, pp. 17-25.
21
Ivi, pp. 35-37.
19
18
baresi tra De Caro e De Santis, affiorano altri scenari ed
elementi che caratterizzano il peso specifico delle relazioni: sono oggetto di attenzioni Telecom Argentina, una
controllata di Telecom Italia, l’eolico e il fotovoltaico in
Puglia, e non mancano rivendicazioni e spartizioni di potere, coperture e indulgenze politiche in cui la triangolazione affari-denaro-politica si autoalimenta. In tutto ciò,
la figura di Marino Massimo De Caro si distingue come
personalità versatile, appare come il pragmatico facilitatore di un “incesto politico” che perora interessi privati senza troppi riguardi dei beni comuni.
Nel 2011, nel corso delle indagini sulla P3, la Guardia
di Finanza intercetta due assegni che dal conto di Marino
Massimo De Caro e della moglie transitano su quello di
Marcello Dell’Utri: 414.000 euro in totale e il secondo
assegno di 250.000 euro risulta “impagato”. Dal rapporto
emerge inoltre che l’attività del conto di De Caro “è stata
segnalata da Deutsche Bank poiché caratterizzata da consistenti movimenti a mezzo assegni e dall’accredito in data 8 aprile 2009 di un bonifico di 1.178.204 euro disposto
dalla Greenock Consultants Limited tramite la Hellenic
Bank PLC di Nicosia (Cipro) a titolo di prima rata per il
finanziamento del 2 aprile 2009”. La Finanza annota che i
pagamenti per 245.000 euro sono stati fatti “a titolo di
saldo: pagamento lettera di Colombo 1492”. Intervistato
da il Fatto Quotidiano, il 19 agosto 2011 Marino Massimo De Caro spiega: “Ho pagato Dell’Utri per un libro rarissimo che riporta la lettera del 1493 scritta da Colombo
a Isabella d’Aragona. In realtà, al senatore ho pagato quel
libro molto di più: un milione di euro in tutto. In parte in
contanti, come risulta, e in parte con altri libri. I soldi
vengono dal conto di Cipro del mio amico russo Vekselberg ma gli affari del petrolio non c’entrano nulla. Anche
Vekselberg è un amante dei libri antichi. Mi ha prestato
1,3 milioni che non gli ho ancora restituito. Tanto ha in
19
garanzia le opere comprate”.22
Il nome di Marino Massimo De Caro, ricorrente in
geometrie relazionali variabili il cui comune denominatore sono appunto libri e affari, è spesso coinvolto, ‘solo’
come indagato o sospettato, in varie vicende in Italia e
all’estero.23 È lecito, come ha fatto il prof. Tomaso Montanari, chiedersi: “in un paese normale quante possibilità
ha uno con questo curriculum di arrivare a dirigere una
delle quarantasei biblioteche pubbliche statali?” Nessuna
o molto poche, ma “se da noi ci riesce, è solo grazie a una
cosa: la politica”.24
Libri, uomini e topi, a caratteri capitali cubitali è il titolo, Segreti e bugie di Marino Massimo De Caro, neo
direttore della biblioteca napoletana dei Girolamini,25 è il
sottotitolo sottolineato dell’articolo denuncia di Tomaso
Montanari26 a cui il Fatto Quotidiano del 30 marzo 2012
dedica metà della pagina 19. L’accademico fiorentino
punta così i riflettori sulle tenebre calate nei mesi precedenti sulla Biblioteca Statale Oratoriale annessa al Monumento Nazionale dei Girolamini, in coincidenza con la
nomina a direttore, il 1 giugno 2011, di Marino Massimo
22
M. Lillo, Op. cit.
“Inquietante” è, secondo Tomaso Montanari, la mole di risultati che Google fornisce
sulle “implicazioni di De Caro in clamorosi furti di libri importanti da biblioteche pubbliche sudamericane e spagnole”.
24
Ivi, p. 49.
25
T. Montanari, Libri, uomini e topi. Segreti e bugie di Marino Massimo De Caro, neo
direttore della biblioteca napoletana dei Girolamini, Il Fatto Quotidiano, 30 marzo 2012,
p. 19.
26
Autorevole storico e critico dell’arte e brillante accademico fiorentino, allievo di Salvatore Settis. Insegna Storia dell’arte moderna presso il Dipartimento di Studi Umanistici
dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, già editorialista e blogger de il Fatto
Quotidiano, collabora con il dorso del Mezzogiorno del Corriere della Sera e “collaboravo
- scrive Montanari al termine della scheda biografica sul suo blog - anche al “Corriere
fiorentino”, ma il mio libro Le pietre e il popolo, dedicato in parte all’uso del patrimonio
culturale come arma di distrazione di massa da parte di Matteo Renzi mi ha messo fuori
«dalla linea del giornale». Pazienza: mi sono consolato col premio Giorgio Bassani di Italia
Nostra per il giornalismo culturale, e con la coccarda di Commendatore, assegnatami dopo la denuncia del saccheggio della biblioteca napoletana dei Girolamini - dal Presidente
della Repubblica, «per l’impegno a difesa del nostro patrimonio»”. Dall’autunno 2014 è
autore di “Articolo 9”, un blog su Repubblica.it.
23
20
De Caro: “Siffatta nomina non può considerarsi mero antecedente fattuale delle condotte criminose successive poste in essere quanto piuttosto il primo passo di una complessa e preordinata attività”, sostenne il Pubblico Ministero nel corso della requisitoria.27
Ma procediamo per gradi. Il 25 marzo 2012 Montanari
riceve una email dall’amico Filippomaria Pontani:28 il
professore, recatosi a Napoli per consultare un prezioso
codice quattrocentesco conservato dai Girolamini, lo informa circa lo stato d’inimmaginabile abbandono, degrado “e soprattutto del fatto che i due bibliotecari, i fratelli
Maria Rosaria e Piergianni Berardi, precari da quasi quarant'anni, gli avevano confidato, disperati che il nuovo direttore Marino Massimo De Caro la stava sistematicamente saccheggiando”.29 Tre giorni più tardi, Montanari
vi si reca constatando personalmente quanto segnalazione
e preoccupazioni fossero ben sostanziate. A quel punto, il
30 marzo dalle colonne de Il Fatto Quotidiano e il 31 da
quelle di Napoli del Corriere del Mezzogiorno,30 la vicenda è di dominio pubblico e la procura di Napoli apre
un fascicolo di indagini che confluiranno in tre procedimenti penali.
Come venne l’idea a De Caro di farsi nominare direttore della biblioteca dei Girolamini? “Tale idea - dichiara
nell’interrogatorio del 2 luglio 2012 - nacque […] dopo
che io ero stato licenziato da una controllata della Avelar,
il senatore Dell’Utri fece il mio nome al ministro Galan
27
Documento agli atti della Sentenza n. 705/13, emessa dal GUP dott. Egle Pilla
all’udienza del 15 marzo 2013 a termine del procedimento penale n. 11495/12 R.G. GIP,
presso il Tribunale di Napoli, Ufficio del Giudice per le indagini preliminari, VII sezione,
depositata in data 5 giugno 2013, p. 139.
28
Insegna Filologia classica presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Ca’
Foscari di Venezia.
29
T. Montanari, Le pietre e il popolo. Restituire ai cittadini l'arte e la storia delle città
italiane, Roma 2013. pp. 46-47.
30
T. Montanari, Girolamini, una biblioteca da cani. Un personaggio del sottobosco berlusconiano a capo di una istituzione culturale di lunga storia abbandonata al degrado, Corriere del Mezzogiorno, edizione di Napoli, 31 marzo 2012.
21
per essere nominato consulente per le fonti rinnovabili,
settore in cui avevo maturato significativa esperienza […]
quando poi Galan divenne ministro per i Beni Culturali,
mi chiese di seguirlo presso tale Ministero in ragione della mia esperienza sull’antiquariato librario. Presso il Ministero per i Beni Culturali mi occupai in particolare del
taglio dei fondi per le biblioteche cosa che ritenevo molto
grave […] vista la situazione della biblioteca dei Girolamini decisi che volevo diventare direttore per sistemare la
biblioteca: essendo io amante dei libri antichi, pensai che
quello era un lavoro a cui volevo dedicarmi”.31 E De Caro
ci si “dedica” con impegno neutralizzando allarmi e telecamere, avocando a sé ogni controllo e autorizzazione
circa l’ingresso, ma soprattutto l’uscita, di persone e scatole contenenti centinaia di libri preziosi (2.29232 quelli
accertati e oggetto di illecita appropriazione durante il
primo procedimento) e furgoni, di giorno e di notte, festivi compresi, smembrando i fondi e attribuendo nuove collocazioni, distruggendo le schede di catalogazione dei volumi sottratti e rendendo impossibile la localizzazione dei
libri al punto che la consultazione da parte degli studiosi
era stata sospesa: “a fronte di un patrimonio librario stimato intorno alle 171.00 unità, non risultava traccia inventariale di quasi centomila volumi, con l’evidente conseguenza che il rischio di sottrazione dei volumi risultava
aggravato dalla successiva impossibilità di verificarne
con certezza l’appartenenza alla Biblioteca”.33 Avendo
arrecato un danno patrimoniale allo Stato non esattamente
determinabile, comunque “da considerarsi non inferiore a
2.850.000 di euro”,34 il Pubblico Ministero chiede per De
31
Sentenza n. 705/13, p. 149.
Di cui 1095, 791 e 259 rinvenuti rispettivamente in un box e in due abitazioni a Verona,
23 ceduti ad una libreria antiquaria di Milano e 6 ad una di Torino, 42 ritrovati presso una
Srl di cui non è riportata la sede legale e 76 trovati presso una legatoria milanese. Ivi, p. 2.
33
Ivi, p. 130.
34
Ivi, p. 117.
32
22
Caro 10 anni di reclusione.35 Il Comune di Napoli si dichiara parte civile, non il Ministero per i Beni Culturali.
Un caso isolato la spoliazione dei Girolamini? Agli atti emergono altri nomi e altre biblioteche: l’Istituto Don
Provolo di Verona e la Biblioteca Capitolare di Padova
nel periodo 2003-2005, la Biblioteca del Seminario Vescovile di Verona, le biblioteche di Montecassino, Grottaferrata, Subiaco, Farfa, Montevergine, la Ximens e la
Scolopiana di Firenze, ma anche la Nazionale Centrale di
Firenze, Roma e Napoli (prima e anche dopo quella dei
Girolamini) oltre alla Biblioteca del Ministero dell’ Agricoltura e la Biblioteca dei Cappuccini di Fermo. “Alla base di queste visite [alle biblioteche] non vi era un progetto
criminoso, anche se di fatto sono stato sempre pronto a
cogliere le opportunità che esse mi offrivano”.36 De Caro,
intimo di Marcello Dell’Utri e della moglie Miranda, viene raccomandano al ministro Galan come suo consigliere
personale. Caduto il Governo Berlusconi, il 16 novembre
2011, De Caro resta al suo posto. Anche dopo, accanto al
ministro Lorenzo Ornaghi.37 De Caro è attorniato da “un
ampio e articolato circuito di conoscenze e di amicizie”,38
non manca occasione per vantare competenze di bibliofilo
unite a conoscenze ed entrature nel sistema economico e
industriale russo. Nelle carte giudiziarie affiorano una fitta rete funzionale alla sottrazione materiale e allo stoccaggio temporaneo dei libri, accordi e figure di mezzo,
come i restauratori che si occupano della “ripulitura” dei
volumi e la rimozione degli ex libris:39 “le dichiarazioni
rese dal De Caro Marino Massimo […] offrivano un qua35
Per un totale richiesto di altri 27 anni e mezzo per i cinque coimputati.
Sentenza n. 705/13, pp. 169-170.
T. Montanari, In 500: Ornaghi dimetta De Caro, Il Fatto Quotidiano, 13 aprile 2012, p.
18.
38
Sentenza n. 705/13, p. 154.
39
Etichette o timbri apposti sulla prima pagina interna che fungono da elementi identificativi della proprietà, e della provenienza lecita o illecita.
36
37
23
dro allarmante delle connivenze politico-istituzionali e
dei circuiti, nazionali ed internazionali, utilizzati per
l’assorbimento commerciale dell’enorme afflusso delle
migliaia di preziosi, talvolta inestimabili, volumi e manoscritti antichi sottratti alla Biblioteca dei Girolamini”.40
Dove finiscono i libri? In parte rimangono in Italia,
scambiati o rivenduti ad altri antiquari o in attesa di essere trasferiti e distribuiti all’estero, in parte in Germania
destinati alla casta d’aste Zisska & Schauer di Monaco di
Baviera. Il processo di primo grado si conclude il 15 marzo 2013 con la condanna, ridotta da 10 anni e 6 mesi, a 7
anni di reclusione di Marino Massimo De Caro per il delitto di peculato.41 Nel maggio del 2014 la Corte di Appello di Napoli conferma la condanna e la “interdizione
perpetua dai pubblici uffici”.42 Il 10 aprile 2015 la Cassazione chiude il caso e dispone per De Caro, già agli arresti “domiciliari, il trasferimento in cella”.43
Possiamo ritenere la condanna passata in giudicato di
De Caro una vittoria? “In ogni caso, la Biblioteca dei Girolamini non sarà più la stessa. Il danno creato sia per le
opere che non saranno recuperate sia per gli atti vandalici
operati sulle singole opere irrimediabilmente danneggiate,
rimarrà irreversibile […] Scriveva il Bellucci, a conclusione delle sue note storiche «certo la Biblioteca Oratoriana di Napoli non è una Biblioteca nel senso moderno
della parola... ma rievoca tutto un passato glorioso per la
storia della cultura napoletana. Basterebbe il ricordo che
proprio in essa soleva rifugiarsi quotidianamente, quasi
dimentico delle angustie familiari e dell’indifferenza dei
suoi comportamenti, il nostro grandissimo Giambattista
40
Sentenza n. 705/13, p. 194.
Per un totale comminato di altri 20 anni ai cinque coimputati.
Biblioteca dei Girolamini, confermata in Appello la pena per l’ex direttore, Il Fatto
Quotidiano, 23 maggio 2014.
43
G. Crimaldi, Napoli. Scandalo Girolamini, sette anni all'ex direttore De Caro, Il Mattino, 11 aprile 2015.
41
42
24
Vico». Dopo il saccheggio e la devastazione perpetrata in
pochi mesi a cavallo degli anni 2011-2012, si può mestamente avvertire che Giambattista Vico non abita più
qui”.44
Abstract
Nadia Pedot, Il sacco della Biblioteca dei Girolamini di
Napoli.
Un caso emblematico della vulnerabilità del patrimonio culturale italiano dinanzi ad attacchi di origine endogena è quello della Biblioteca Statale Oratoriana dei Girolamini, la più antica biblioteca di Napoli ed una delle
più importanti d’Italia, con un patrimonio librario stimato prima del suo saccheggio intorno alle 171.00 unità, tra
cui molte edizioni rare e di pregio.
Nel presente articolo si ricostruisce la vicenda politica
e criminale che ha reso possibile la depredazione di questa biblioteca in pochi mesi, tra il 2011 ed il 2012, da
parte del direttore in carica, nonché la vicenda giudiziaria, che si è conclusa nel 2015 con la condanna definitiva
in Cassazione, con la consapevolezza, tuttavia, che il
danno culturale ed economico arrecato al patrimonio
culturale resta incalcolabile ed insanabile.
44
Sentenza n. 705/13, pp. 204-205.
25
Fig. 1-2: gli interni della Biblioteca Statale Oratoriana dei Girolamini di Napoli prima del saccheggio subito tra il 2011 ed il 2012.
26
Tsao Cevoli, Nicola Meluziis
La Via Consolare Campana Puteolis Capuam:
speculazione edilizia e problemi di tutela.
Attraverso la zona dei Campi Flegrei, in Campania, si
dipanava in epoca romana la Via Consolare Campana,
realizzata tra la fine dell’età repubblicana e i primi secoli
dell’età imperiale per connettere la costa campana con
l’entroterra. Ma soprattutto questa via, accordandosi alla
via Appia all’altezza di Capua, metteva in comunicazione
Roma con uno dei porti principali dell’Italia antica, quello
di Puteoli, e con altre importanti località della costa campana che, all’epoca, rivestivano una grande importanza
commerciale, militare e come luogo di otium prediletto
dalle classi dominanti di Roma. Sin dall’età repubblicana,
infatti, la fascia costiera a nord di Napoli, grazie al suo
clima salubre e alla sua relativa vicinanza a Roma, aveva
riscosso presso i Romani particolare apprezzamento.
Nonostante alcuni edifici monumentali, emergendo dal
terreno per le loro notevoli dimensioni, fossero già noti da
alcuni secoli, e nonostante diversi tentativi di ricerca, meritori ma parziali ed isolati, fatti nei decenni passati, manca ancor oggi sia una precisa conoscenza e visione
d’insieme dell’intero percorso viario, sia una efficace politica di tutela e fruizione del suo patrimonio archeologico, costantemente minacciato dalla speculazione edilizia e
dalla carenza di adeguati interventi di conservazione.
27
Il presente contributo, che riporta le conclusioni di
un’attività di osservazione ed analisi su campo condotta
dagli scriventi, proverà ad esaminare lo stato della tutela
dei resti della Via Consolare Campana e dei suoi monumenti, di fronte ai problemi legati in particolare all'incalzante speculazione edilizia degli ultimi decenni, costituiscono, per questo, un caso di studio emblematico per valutare la reale incisività delle normative e delle strategie
di conoscenza, tutela e valorizzazione del patrimonio archeologico messe in atto dal nostro Paese nel corso degli
ultimi decenni.
Dopo la conquista romana nel 338 a.C. l’ex colonia
greca di Dicerachia, ribattezzata in latino Puteoli, conobbe un notevole sviluppo. In prossimità del porto sorsero
soprattutto quartieri a carattere commerciale e produttivo,
mentre l’area costiera circostante diventava la meta prediletta per l’otium delle classi più elevate di Roma, con il
conseguente sorgere di molte ville residenziali.
Ma Puteoli aveva anche una fondamentale importanza
strategica nel controllo del Mediterraneo, che ebbe modo
di dimostrare durante la Seconda Guerra Punica combattuta al fianco di Roma, cui seguì la fortificazione del porto e la deduzione della colonia nel 195 a.C.
Tra la fine dell’età repubblicana e la prima età imperiale, tutta l’area flegrea poté godere di un ulteriore sviluppo, incentrato sempre sulla salubrità e bellezza naturale della zona e sul porto di Puteoli: Augusto, infatti, diede
una nuova sistemazione urbanistica alla città, divenuta
Iulia Augusta Puteoli, e ne elesse il porto, situato ai piedi
del Rione Terra, a porto principale di Roma, istituendo
anche una flotta annonaria per trasportare dall’Egitto e
dalla Sicilia il grano necessario per provvedere al vettovagliamento dell’Urbe.
Puteoli divenne così uno dei principali approdi in Italia di merci e uomini provenienti da ogni angolo del Me-
28
diterraneo, fattore che incise decisamente sullo sviluppo
economico e culturale della città.
Il porto era protetto dal mare aperto e dai venti dal cosiddetto “molo caligoliano”, una struttura, in parte oggi
inglobata nelle murature moderne, costituita da pilastri
(pilae) in opera cementizia con getti di pozzolana collegati da arcate, struttura terminante forse con un faro. Ancora
alla metà del ‘700 ne troviamo alcune descrizioni, come
quelle di Antonio Parrino,45 Giuliano De Fazio46 e Charles Dubois,47 nonché alcune raffigurazioni, come quella
realizzata da Paolo Antonio Paoli48 nel 1768, oggetto di
numerosi studi.49
L’evoluzione dell’area di Puteoli e dei Campi Flegrei
e la sua immagine urbanistica nei secoli è documentata da
diverse incisioni, tra cui quella di Ambrogio Brambilla,
che tra il 1586 ed il 1590 si adoperò nel rappresentare tre
delle maggiori città italiane dell’epoca e lo spazio circostante: Napoli e Milano, accomunate dal dominio spagnolo, e Roma. Di pochissimo successiva, del 1599, è la
pianta di Pietro Bertelli, sempre della zona di Pozzuoli. In
entrambe è esplicitamente indicata la Via Campana, ad
attestarne, probabilmente, una continuità d’uso, seppur
parziale, nel corso dei secoli.
Nel 36 a.C. al porto di Puteoli si aggiunse poi il Portus
Iulius, il grande porto militare realizzato da Agrippa. Genero di Augusto e padre di Lucio e Gaio, in seguito adottati dallo stesso Augusto, Marco Vipsanio Agrippa per
realizzare il nuovo porto militare trasformò l’area costiera
D.A. Parrino, Nuova guida de’ forastieri per l’antichità di Pozzuoli, Napoli 1751.
G. De Fazio, Intorno al migliore sistema di costruzione dei porti. Discorsi tre, Napoli
1828, pag. 104-127.
47
Ch. Dubois, Pouzzoles antique (Histoire et Topographie), Parigi 1907, pag. 249 e sg.
48
P.A. Paoli, Avanzi delle antichità esistenti a Pozzuoli Cuma e Baja, Napoli 1768.
49
P.A. Gianfrotta, Un porto sotto il mare, in F. Zevi (a cura di), I Campi Flegrei, Napoli
1987; P.A. Gianfrotta, I porti dell’area flegrea, in G. Laudizi - C. Marangio (a cura di),
Porti, approdi e linee di rotta nel Mediterraneo antico. Atti del seminario di studi, Lecce,
29-30 novembre 1996, Galatina 1998.
45
46
29
del lago Lucrino, mettendo il lago in comunicazione diretta sia con il mare che con il lago d’Averno tramite una
serie di canali. Il Portus Iulius fu, tuttavia, ben presto trasformato in porto commerciale, visto che la flotta militare
nel 12 a.C. fu spostata a Miseno.
Il forte sviluppo urbanistico, demografico e commerciale dell’area costiera di Puteoli, soprattutto tra la fine
dell’età repubblicana e i primi secoli dell’età imperiale,
non poté non avere ripercussioni anche nell’entroterra.
Per connettere, infatti, il mare all’entroterra fu realizzata
la Via Consolare Campana Puteolis Capuam. La strada
collegava Puteoli a Capua, fondamentale punto di snodo e
di raccordo dove la Via Campana incontrava la Via Appia
che da Brindisi portava a Roma. Via Campana da Puteoli
a Capua e Via Appia da Capua a Roma: questo diventò,
almeno fino alla costruzione della Via Domiziana,
l’itinerario utilizzato per collegare il “porto” per eccellenza alla “città” per eccellenza, ossia Puteoli a Roma.
Nel 95 d.C. fu, invece, costruita la via Domiziana per
congiungere Puteoli a Roma seguendo la via costiera e
immettendosi sull’Appia direttamente all’altezza di Sinuessa. Ancora più tardi l’ampliamento del porto di
Ostia, voluto dall’imperatore Traiano, diede inevitabilmente un duro colpo a Puteoli, sottraendole la funzione
fondamentale di porto di Roma che aveva sino ad allora
rivestito. Per la città iniziò un periodo di decadenza. Danneggiato da eventi naturali il porto fu, tuttavia, tenuto ancora in uso e persino restaurato ai tempi di Antonino Pio.
Pozzuoli fu colpita nel 410 d.C. dalle scorribande di
Alarico: le devastazioni dovettero interessare più il territorio e le sue ville, che non il centro della città, situato sul
Rione Terra, in un’ottima posizione difesiva. Rimase in
uso la stessa via Campana, sebbene ovviamente non più
con il rilevo che aveva avuto in precedenza. Nel corso del
V secolo a contribuire a provocare il declino di Puteoli e
30
di conseguenza del territorio circostante fu, infine, anche
il fenomeno del bradisismo.
Esaminando la storia degli studi sul territorio flegreo
ed in particolare sul tratto tra Pozzuoli e Quarto interessato dal tracciato della via Campana, non si può fare a meno
di osservare quanto le ricerche in questo ambito risentano
del fatto che il territorio di Quarto e le sue evidenze archeologiche, pur essendo spesso inclusi in studi più generali sul territorio dei Campi Flegrei, in linea di massima
sembrano essere stati relativamente trascurati come obbiettivo di ricerche archeologiche, soprattutto se in confronto alle altre aree dei Campi Flegrei, oggetto invece di
una lunga ed approfondita tradizione di studi.
Alcuni edifici particolarmente monumentali, emergenti dal terreno per le loro notevoli dimensioni, erano già
noti e visibili nei secoli scorsi, come attesta, ad esempio,
un’incisione del Morelli del 1790. Quanto alle indagini su
campo, dopo le ricerche solitarie e isolate del Chianese
all’alba della seconda guerra mondiale,50 negli anni ‘70 il
tratto della via Campana ricadente nel comune di Quarto
fu interessato da una più ampia ricognizione archeologica
su tutto il territorio comunale effettuata dal Gruppo Archeologico Napoletano, associazione di volontariato nata
nel 1971, in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica. Furono allora censite in tutto il territorio di
Quarto centinaia di strutture archeologiche che vennero
schedate, fotografate, rilevate e spesso ripulite.51
50
G. Chianese, Ricognizione della Consolare Campana lungo il suo tracciato meno noto, in
Campania Romana: Studi e materiali editi a cura della Sezione Campana degli Studi Romani, vol.1, 1938, pag. 47-65.
51
Solo una breve sintesi delle ricerche approdò nel volume AA.VV., Materiali per lo studio storico archeologico del territorio flegreo. Vol. I: Quarto Flegreo. Napoli 1980, pubblicato con il contributo dell’Ente Provinciale del Turismo di Napoli, mentre la maggior
parte dei dati raccolti rimasero non pubblicati. Le ricerche furono poi in parte riprese dal
Gruppo Archeologico Napoletano, in realtà soprattutto nell’area circostante, intorno alla
metà degli anni ‘90, ma senza approdare ad una pubblicazione.
31
Il territorio di Quarto è stato, inoltre, interessato sempre a partire tra la fine degli anni '60 e gli inizi degli anni
‘70 da dettagliati e analitici studi sul territorio di Pozzuoli
e Quarto compiuti da Lorenzo Quilici e Stefania Gigli
Quilici,52 poi in seguito da alcuni allievi53 e da altri, pochi, sporadici studiosi.54
Manca, dunque, ancor oggi una visione d’insieme
completa dell’intero tratto. Se del suo percorso iniziale,
nel territorio puteolano, infatti, oltre a puntuali ma isolate
informazioni in pubblicazioni di singoli interventi di scavo, in prevalenza d’emergenza,55 abbiamo soprattutto una
presenza cospicua di tracce sul territorio, che ci permetto
oggi di avere un quadro abbastanza delineato del tragitto
della strada romana, in alcuni tratti persino ancora in uso
ed in parte ripresa dalla viabilità moderna, che viaggia
quasi sempre parallela alla strada antica, nel tratto di
Quarto, invece, sia a causa della conformazione del luogo
sia a causa della moderna urbanizzazione, le tracce attualmente visibili sono più rarefatte. Ciò vale in particolare per il tratto centrale della via a partire dalla moderna
52
L. Quilici, La via Campana antica e la nuova tangenziale est-ovest della città di Napoli,
Italia Nostra 62, 1969, pp. 32-48; L. Quilici, Il problema culturale archeologico dei Campi
Flegrei, La Parola del Passato, XXIV, 126, 1969, pag.224-240; L. Quilici, Un’occasione
di recupero culturale ed urbanistico per la via Campana antica, La parola del Passato, 136141, 1971, pp. 68-80; L. Quilici - S. Quilici Gigli, Un gruppo di colombari sulla via Vecchia Campana, Atti e Memorie della Società Magna Grecia, 9-10, 1969, pp. 75 e sg.; S.
Quilici Gigli, Pozzuoli: un colombario sulla via Campana, Archeologia Classica 22, 1970,
pp. 191-196.
53
L. Petacco, Le vie Puteolis Capuam e Cumis Capuam, in M. Guaitoli (a cura di), Lo
sguardo di Icaro. Le collezioni dell’Aerofototeca Nazionale per la conoscenza del territorio, Roma 2003, pp. 446 e sg.
54
Ad esempio: M. Pagano, Sulla carta archeologica del comune di Quarto Flegreo, Puteoli
4-5, 1980-1981, pp. 257-264.
55
Si veda ad es. C. Gialanella, Pozzuoli tra programmazione ed emergenza, in AA.VV.
Archeologia in Campania. Incontri di lavoro per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico archeologico, Soprintendenza Archeologica delle Provincie di Napoli e di Caserta, Giugno 1987, Napoli 1987, pag. 69-78; C. Gialanella, La topografia di Puteoli, in F.
Zevi (a cura di), Puteoli, Napoli 1993. pag. 73 e sg.; C. Gialanella (a cura di), Nova antiqua phlegraea. Nuovi tesori archeologici dai Campi Flegrei, Napoli 2000; C. Gialanella,
C. Valeri, Puteoli. Nuovi scavi e ricerche, in Bollettino d’Arte, 2001, pag. 5-46.
32
stazione ferroviaria della linea Circumflegrea di Quarto
Officina.
In aiuto alla nostra ricerca può venire solo parzialmente la Tabula Peutingeriana, una copia medievale del XII
secolo di una carta itineraria del mondo antico redatta
probabilmente alla fine del III secolo o nel IV secolo d.C.,
poi successivamente aggiornata. In essa sono segnate le
città di Puteoli e di Capua, ma mentre, però, delle altre
principali vie di comunicazione è segnato sommariamente
anche il tracciato, nel caso della via Consolare Campana
Puteolis Capuam, tra le due città è segnata solo la distanza di 21 miglia.
Dato per accertato che la Via Campana ai tempi della
stesura della carta, nel III-IV sec. d.C., già esisteva, come
dimostra il taglio della Montagna Spaccata (fig. 4-6), già
attestato in età augustea e la progressiva occupazione dei
bordi della strada da parte di edifici funerari, il fatto che
in una carta così importante e dettagliata della Via Consolare Campana venga segnalata solo la distanza può lasciar
spazio a diverse ipotesi. Una possibile spiegazione si può
legare anche a considerazioni puramente grafiche, cioè
dall’ osservazione che per le dimensioni, le proporzioni e
soprattutto per il notevole schiacciamento delle regioni
rappresentate, non avesse senso tracciare graficamente la
via, la cui rappresentazione grafica si sarebbe risolta in un
trattino, e che si sia preferito indicarne piuttosto la sua
lunghezza in miglia.
Le ipotesi relative al tracciato e all’epoca di realizzazione della strada trovano conforto, tuttavia, anche nelle
fonti antiche: sappiamo, infatti, che nel II secolo a.C. Lucilio in occasione del suo viaggio da Roma alla Sicilia,
dopo esser passato per Capua raggiunse Pozzuoli e da lì si
imbarcò. Il racconto del viaggio, in forma di lettera, è riportato nel terzo libro delle Satire. Del componimento, di
solito designato come “Iter Siculum”, resta solo una cin-
33
quantina di frammenti di uno o due versi ciascuno.56 Plinio nella Naturalis Historia (L. XVIII), descrivendo
l’agro campano, ci informa che questa zona era delimitata
da due strade entrambe dirette a Capua: una che partiva
da Puteoli, l’altra che partiva da Cuma.
La via Consolare Campana, che misurava circa ventuno miglia, partiva dunque dal centro di Puteoli e per arrivare a Capua, ove si raccordava alla via Appia, attraversando tra gli altri, i territori degli attuali comuni di Quarto, Marano, Giugliano e Aversa. La via Campana Puteolis
Capuam era, inoltre, connessa alle due principali vie di
comunicazione tra Pozzuoli e Napoli: la via Antiniana o
per colles e la via per Cryptam, che confluivano entrambe
a Fuorigrotta, presso l’attuale via Terracina, e la strada
che passava, invece, per Pianura, ove sono attestati diversi mausolei e strutture funerarie, nonché resti delle numerose villae rusticae che sorgevano nei pressi della strada.
Del tracciato della via Campana il primo tratto, da
Pozzuoli a Quarto, è ancor oggi particolarmente ricco di
tracce archeologiche più o meno evidenti della sua presenza. Si conservano, infatti, non solo alcuni tratti della
stessa strada romana, ma anche diverse strutture, per la
maggior parte di natura funeraria, che sorgevano ai bordi
della strada stessa.
A giudicare dai resti sparsi ancora presenti sul territorio, infatti, possiamo farci un’idea di come doveva apparire la via in epoca romana: da Pozzuoli, risalendo verso
Quarto, era costeggiata da una fitta serie di edifici di carattere funerario, pressoché adiacenti la strada, soprattutto
colombari, edifici destinati a sepolture collettive in nicchie ove erano collocati i cinerari. Immerse nella campa56
E. Castorina, Sul III libro di Lucilio, Annali della Facoltà di Magistero dell’Università
di Bari 6, 1967, pag. 79 e sg.2, J. Heurgon, Viaggi dei Romani nella Magna Grecia, La
Magna Grecia nell’età romana, Atti del XV Convegno di Studi sulla Magna Grecia, Taranto 1975, pag. 14 e sg.
34
gna ai lati della strada, talvolta già a poche decine di metri di distanza dalla strada stessa, si potevano spesso incontrare delle strutture abitative rustiche, che rispetto alle
lussuose ville costiere avevano un più spiccato carattere
rurale e produttivo (villae rusticae).
Oggi questo quadro è ricostruibile solo in parte, in
quanto la maggior parte del tracciato viario risulta obliterato o ancora ignoto, cancellato o celato dagli eventi storici susseguitisi nel corso dei secoli e dei millenni, che
tuttavia hanno dato, talvolta, origine ad emblematici ed
interessanti esempi di riuso funzionale dell’antico, come
nel caso di Masseria Crisci (fig. 3), dove alcune strutture
murarie romane notevolmente conservatesi in alzato, trovano un riuso funzionale, inglobate ed intergrate in una
tipica e tradizionale architettura contadina.
La maggiore minaccia alla consevazione del patrimonio archeologico è costituita dall’avanzata dell’urbanizzazione moderna, in particolare dall’attività edilizia che
ha interessato in modo sempre più intenso l’area, soprattutto a partire dal dopoguerra della Seconda Guerra Mondiale fino a tempi recenti.
Proprio tale intenso sviluppo edilizio ha consentito,
tuttavia, almeno nei casi più virtuosi, la realizzazione di
scavi preventivi e di emergenza che hanno permesso di
portare alla luce strutture anche molto notevoli, per alcune delle quali si è riuscita a mettere in atto una strategia di
valorizzazione in situ o, quantomeno, di conservazione.
In altri casi delle strutture abitative e funerarie che dovevano sorgere in antico ai lati della strada restano solo
tracce sparse, alcune delle quali, pur documentate in studi
e ricerche archeologiche effettuate nei decenni scorsi, non
sono più individuabili proprio a causa dell’urbanizzazione
che li ha del tutto inglobati o obliterati.
Anche laddove, d’altronde, le strutture antiche sono
insierite in aree che sono state vincolate per consentirne la
35
tutela ed in prospettiva la valorizzazione e la musealizzazione in situ, oggi queste stesse strutture spesso sono ormai quasi del tutto avvolte dalla vegetazione infestante
(fig. 8-10), non essendosi purtroppo riusciti a garantire
un’adeguata manutenzione ordinaria di queste aree nel
corso dei decenni.
Restano, tuttavia, alcuni tratti con evidenze archeologiche monumentali o particolarmente significative, che
costituiscono, di conseguenza, dei capisaldi nel tentativo
di ricostruzione del tracciato della Via Consolare Campana. Tra questi citiamo, ad esempio, le zone di via Celle e
di San Vito, con le loro fitte ed ininterrotte sequenze di
monumenti funerari ed il basolato della Via Campana ancora in situ, e la cosiddetta “Montagna Spaccata”, attraverso la quale la Via Campana entrava nel territorio di
Quarto.
Attraverso questi resti possiamo provare a ripercorrere
idealmente il primo tratto della via Consolare Campana
da Puteoli a Quarto, per immaginare come doveva apparire ai tempi dei tanti viaggiatori che in epoca romana calcarono il basolato di questa strada per raggiungere da Puteoli lo snodo di Capua e da lì, attraverso la Via Appia,
Roma.
L’inizio del percorso della via Consolare Campana
partendo da Pozzuoli vede la presenza di una struttura in
opera reticolata individuata nel 1935. È lunga circa 18
metri presenta un portico con due colonne in blocchi di
piperno, ha orientamento est-ovest e segue l’andamento
della strada.57 Si tratta di un edificio certamente non a carattere funerario. La sua posizione topografia, all’inizio
57
G. Scherillo, Della venuta di San Pietro a Napoli, Napoli 1859, pag. 210 sg.; Ch. Dubois, Pouzzoles antique (Histoire et Topographie), Parigi 1907; AA.VV. Archeologia in
Campania. Incontri di lavoro per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico archeologico, Soprintendenza Archeologica delle Provincie di Napoli e di Caserta, Giugno
1987, Napoli 1987, pag. 127; C. Gialanella, La topografia di Puteoli, in F. Zevi (a cura di),
Puteoli, Napoli 1993, pag. 73 e sg.
36
della Via Campana, in un punto di snodo della viabilità
urbana di Puteoli, nonché il ritrovamento in zona di alcune epigrafi riguardanti Tiro, permettono di avanzare
l’ipotesi che si trattasse di una stazione di sosta (statio),
forse la Statio dei Tirii di Puteoli (fig. 1-2) Benché lo stato di conservazione sia mediocre, la tecnica costruttiva ci
permette di avanzare una proposta di datazione della
struttura all’età augustea. L’edificio doveva, dunque, essere già visibile ai tempi dell’Apostolo Paolo.
Procedendo in direzione di Quarto, in Via Celle a Pozzuoli, a nord del quadrivio dell’Annunziata e del cavalcavia ferroviario della Napoli - Roma, incontriamo il tratto
di una necropoli monumentale, che si estende lungo la via
Campana per una lunghezza di oltre cento metri.58
Nel 1915 i lavori della linea ferroviaria Napoli - Roma, non lontano dal tratto noto come quadrivio di S. Stefano, portarono all’individuazione ed in parte obliterarono
di questo tratto della via Campana e di un gruppo particolarmente numeroso di sepolture, poste nel settore
dell’antica necropoli più vicina all’abitato.
Sul lato sinistro (occidentale) della strada, a pochi metri dal cavalcavia ferroviario, è attestato un unico mausoleo, inglobato in strutture moderne, mentre sul lato destro
(orientale) 14 edifici a carattere funerario, disposti lungo
il margine della strada, con orientamento nord-est / sudovest. La tipologia di edifici funerari più attestata è quella
dei colombari, spesso realizzati su più piani, di cui uno
ipogeo. Sono strutture funerarie grandi, destinate ad ospitare molte sepolture. In esse si riscontrano anche alcuni
spazi per sepolture ad inumazione, principalmente nel
piano pavimentale. Gli interni degli edifici dovevano es58
A. De Iorio, Guida di Pozzuoli e contorni…, Napoli 1817, pag.49-50; L. Quilici, La via
Campana antica e la nuova tangenziale est-ovest della città di Napoli, in Italia Nostra 62,
1969, pp. 32-48; L. Quilici, Il problema culturale archeologico dei Campi Flegrei, La Parola del Passato, XXIV, 126, 1969, pag.224-240; P. Amalfitano - G. Camodeca - M. Medri (a cura di), I Campi Flegrei, un itinerario archeologico, Venezia, 1990, pag.132-147.
37
sere decorati, come prova il ritrovamento in alcuni casi di
tracce di pitture, stucchi o della presenza di marmi. Le
facciate degli edifici non sono quasi mai conservate in
buono stato, ma in un caso si conserva la fronte di un edificio scandita da lesene in mattoni, in un altro caso una
decorazione a stucchi. Al limite settentrionale della necropoli si trova una costruzione-segnacolo in opera reticolata, oltre il quale è conservato anche un tratto della strada
antica basolata.
La maggior parte degli edifici è costituita da colombari, altri, seppur non appaiono a diretta destinazione funeraria, sono da ritenere comunque connessi ai rituali funerari: uno in particolare è stato interpretato come sede di
un collegium funeraticium. La presenza di spazi per inumazioni all’interno dei colombari è da mettere in relazione probabilmente con il cambio di dei rituali funerari nel
corso del lungo arco cronologico di utilizzo o di riutilizzo
della necropoli. Con tutta probabilità gli edifici furono
prima costruiti ad una certa distanza l’uno dall'altro, poi
progressivamente l’utilizzo degli spazi vuoti per la costruzione di nuovi edifici produsse, alla fine, questa successione pressoché ininterrotta. La costruzione in opera
reticolata presente al limite settentrionale della necropoli
doveva svolgere funzione di segnacolo del limite della
necropoli stessa.
L’utilizzo di diverse tecniche murarie come l’opera reticolata policroma, l’opera laterizia e l’opera mista, insieme all’attestazione del rituale dell’incenerizione, che
fu in uso dal I sec. a.C. al II sec. d.C., insieme a quello
dell’inumazione, suggeriscono un arco cronologico di datazione della necropoli tra la metà del I sec. a.C. e la metà
del II sec. d.C.
Le dimensioni del tratto della necropoli conservato è
notevole e gli edifici sembrano in buono stato di conservazione, benché tutta l’area sia ormai invasa dalla vegeta-
38
zione infestante che rende gli edifici inaccessibili, nonostante i tentativi fatti in passato di ripulire e valorizzare
l’area.59
Tra Via San Vito e la linea ferroviaria Circumflegrea
si conserva, poi, un edificio che segue l’andamento della
strada,60 con orientamento nord-est/sud-ovest, parzialmente inglobato all’interno del muro di contenimento della strada stessa. Dell’edificio si conservano anche le coperture a volta. Sempre sulla strada doveva essere presumibilmente collocato l’ingresso della struttura, non conservato. La tipologia dell’edificio sembrerebbe suggerirne
una funzione funeraria, mentre la tecnica costruttiva in
opus reticulatum permette di avanzare una proposta di datazione all’età augustea. La conservazione è parziale ma
discreta, rimanendo almeno in parte anche la decorazione
a stucco.
Una situazione simile a quella di via Celle a Pozzuoli
si ritrova sulla Via Campana antica, all’altezza dell’attuale Via San Vito, dove si conserva in ottimo stato un notevole tratto dell’antica strada basolata romana, conservato
in tutta la sua ampiezza, ed una fila ininterrotta di edifici
pertinenti una necropoli monumentale per un tratto della
lunghezza di circa 170 metri. Si conserva contestualmente
anche un tratto dell’antico acquedotto che costeggia la
Via Campana con i pozzi ad alto parapetto che ne contraddistinguono il tracciato a distanze regolari. Si tratta
59
Nei decenni scorsi sono state fatte diverse iniziative, purtroppo sporadiche, di manutenzione dell’area. Tra il 1996 ed il 1997 anche la necropoli di Via Celle rientrò nel piano di
riqualificazione dell’area flegrea che il commissario straordinario di governo finanziò con
circa 1,5 miliardi di lire. I lavori furono realizzati dal Consorzio Copin. Nel 2005 l’area, di
nuovo ovviamente infestata da vegetazione e rifiuti, fu oggetto di una iniziativa di carattere
sociale portata avanti da alcune detenute del Penitenziario di Pozzuoli. Le detenute, con il
permesso del giudice di sorveglianza che le autorizzava ad uscire scortate per otto ore al
giorno, furono impegnate insieme ai dipendenti dell’Ufficio Giardini del Comune in una
operazione di rimozione della vegetazione e dei rifiuti. Nessuna di queste iniziative ha
tuttavia risolto in via definitiva il problema, che solo una manutenzione ordinaria e costante potrebbe risolvere.
60
L. Quilici, La via Campana antica e la nuova tangenziale est-ovest della città di Napoli,
in Italia Nostra 62, 1969, pp. 32-48.
39
dell’evidenza più notevole, per estensione, attestata nel
tratto qui considerato della Via Consolare Campana.61
Le tecniche costruttive adoperate per le strutture murarie sono l’opera reticolata e l’opera cementizia in tufo. Si
tratta prevalentemente di edifici a carattere funerario, che
però sembrano coesistere con edifici di carattere diverso,
comprese probabilmente alcune tabernae. Le strutture funerarie, tutte in opus reticulatum, sono cronologicamente
inquadrabili tra l’età augustea e la seconda metà del I secolo d.C.
In corrispondenza di un probabile diverticolo dalla
stessa Via Campana in direzione nord-ovest/sud-est, poco
a nord della necropoli monumentale di San Vito, è attestata anche la presenza di altri colombari con strutture
murarie in opus reticulatum ed in opus latericium, insieme a tratti dell’antico acquedotto e ad altre strutture murarie, inglobate in edifici moderni, probabilmente pertinenti ad una villa organizzata su più livelli.
Spicca tra i monumenti presenti in località San Vito un
mausoleo a due piani (fig. 7),62 in seguito riutilizzato come abitazione, costituito da un basamento a pianta quadrata sul quale si imposta un tamburo cilindrico, con una
cornice a mattoni sagomati che funge da raccordo. Si tratta di un edificio di carattere funerario, ipogeo, che rappresenta uno dei più grande colombari presenti lungo la Via
Campana. Sulle pareti esterne la decorazione architettoni61
A. De Franciscis - R. Pane, Mausolei romani in Campania, Napoli 1957, pag. 66; L.
Quilici, La via Campana antica e la nuova tangenziale est-ovest della città di Napoli, in
Italia Nostra 62, 1969, pp. 32-48; L. Quilici, Il problema culturale archeologico dei Campi
Flegrei, La Parola del Passato, XXIV, 126, 1969, pag.224-240; R. Ling, The San Vito
tomb at Pozzuoli, in Papers of the British School at Rome, 38, 1970, pp. 153 ss.; P. Amalfitano - G. Camodeca - M. Medri (a cura di), I Campi Flegrei, un itinerario archeologico,
Venezia, 1990, pag.150-151.
62
Sulle varie evidenze archeologiche in località San Vito cfr.: A. De Franciscis - R. Pane,
Mausolei romani in Campania, Napoli 1957, pag. 66, L. Quilici, La via Campana antica e
la nuova tangenziale est-ovest della città di Napoli, in Italia Nostra 62, 1969, pp. 32-48; P.
Amalfitano - G. Camodeca - M. Medri (a cura di), I Campi Flegrei, un itinerario archeologico, Venezia, 1990.
40
ca era costituita da mattoni lievemente aggettanti. Su tre
lati si alternano, su ciascun lato tre nicchie, scandite da
lesene. Sul quarto lato era l’ingresso ed una scala che doveva condurre al piano superiore. La camera sepolcrale,
all’interno del basamento, con copertura a cupola, presentava lungo le pareti quattro edicole alternate ad altrettante
nicchie contenenti urne cinerarie. L’ambiente superiore
presentava solo due file di nicchie. Le pareti del mausoleo
erano decorate con stucchi. La struttura è databile probabilmente alla seconda metà del I secolo d.C., dunque
grossomodo all’epoca dell’arrivo a Puteoli dell’Apostolo
Paolo.
Più avanti, procedendo verso Quarto, sul lato est di
Via Campana c’è la cosiddetta Villa dei Bovi63, una struttura abitativa risalente presumibilmente al I secolo d.C.,
con muri in opus reticulatum, con ammorsature angolari
in opera vittata e pavimenti con mosaici. Si tratta dei resti
probabilmente di una villa extraurbana, che doveva essere
di proprietà della gens dei Bovii, come sembra attestare
un’iscrizione qui rinvenuta. Della villa sono stati individuati alcuni ambienti, compresi due interpretati come
l’impluvium, l’atrium ed il calidarium dell’impianto termale privato annesso alla villa.
Arrivando a Quarto incontriamo, infine, la cd. “Montagna Spaccata” (fig. 4-6).64 Si tratta di un taglio nella
roccia effettuato sul lato settentrionale di un cratere che
divide Pozzuoli da Quarto: uno dei crateri del complesso
vulcanico dei Campi Flegrei, prodottosi durante
l’eruzione omonima detta “di Montagna Spaccata”, tra
10.500 e 8.000 anni fa. Il cratere presenta un diametro di
63
P. Amalfitano - G. Camodeca - M. Medri (a cura di), I Campi Flegrei, un itinerario archeologico, Venezia, 1990, pag.150.
64
L. Quilici, Il problema culturale archeologico dei Campi Flegrei, La Parola del Passato,
XXIV, 126, 1969, pag. 227; AA.VV. Archeologia in Campania. Incontri di lavoro per la
tutela e la valorizzazione del patrimonio storico archeologico, Soprintendenza Archeologica delle Provincie di Napoli e di Caserta, Giugno 1987, Napoli 1987, pag. 8-9.
41
circa 900 metri e se ne conserva poco più della metà della
circonferenza, mentre è perduta la porzione sud-orientale.
Il taglio presentava in antico un profilo a V, che oggi non
è più chiaramente leggibile a causa dell’usura alle pareti
provocata dal tempo e a causa della crescita della vegetazione. L’altezza media del taglio è di circa 50 metri mentre la sua larghezza nella parte superiore è di 78 metri. Il
taglio attraversava la montagna per una lunghezza di circa
290 metri, con orientamento sud-est/nord-ovest. L’altezza
sul livello del mare sul versante sud-orientale del taglio,
cioè dal versante di Pozzuoli, al III miglio della via Consolare, è di circa 62 metri, mentre scende fino ai 52 metri
sul versante nord-occidentale, cioè sul versante di Quarto.
Sotto il manto stradale attuale, costituito da una gettata
di asfalto, sono ancora presenti i basoli dell’antico asse
stradale, non più visibili. Sulla parte bassa delle pareti sono, invece, ancora visibili delle strutture murarie in opera
reticolata (fig. 6), con blocchetti di tufo, e in opera listata,
mentre è ormai a mala pena leggibile un accenno di incurvatura nella parte alta delle pareti di contenimento,
pertinente probabilmente ad un arco realizzato per sostenere le spinte laterali dei due lati del taglio.
L’opera fu realizzata dai Romani presumibilmente tra
la fine dell’Età repubblicana e l’Età augustea, per consentire il passaggio del grande asse stradale che collegava
Puteoli e Capua, dove incontrava la Via Appia. Il taglio
di Montagna Spaccata serviva a creare un tragitto più corto, rapido e agevole tra Pozzuoli e Quarto rispetto
all’altro valico del cratere di Quarto, detto “Val di Pecora”, sino ad allora utilizzato ed ancora oggi riconoscibile
più a Est di Montagna Spaccata, in contrada Pisani, nel
territorio del comune di Napoli.
Qui termina il primo tratto della Via Consolare Campana Puteolis Capuam. Percorrendolo, solcando ancor
oggi i tratti di strada basolata ancora conservati, osser-
42
vando i resti degli edifici di epoca romana disseminati
qua e là ai lati la strada lungo il percorso descritto, attraversando la Montagna Spaccata tra i muri in opera reticolata e sotto l’ombra della vegetazione mediterranea, possiamo forse immaginare le migliaia di persone che per secoli hanno calcato gli stessi basoli, visto gli stessi luoghi,
gli stessi edifici, attraversato questo stesso stretto passaggio, frutto della tenacia e della perizia ingegneristica dei
Romani, che da due millenni collega Pozzuoli e Quarto,
dal quale lo sguardo si apriva e si apre ancora sulla conca
vulcanica di Quarto, lasciandosi alle spalle il mare di Puteoli, prima di risalire verso l’entroterra, verso Capua e
poi verso Roma, accompagnando merci e uomini sin dentro l’Urbe.65
Un breve accenno merita anche il tratto in uscita dalla
piana quartese, dove l’antica strada raggiungeva il territorio dell’attuale Marano, inerpicandosi lungo il pendio
vulcanico, ricalcando il tragitto dell’attuale via Cupa Orlando. Qui, anch’essi coperti dalla vegetazione o da strutture moderne, sono visibili labili tracce del passaggio
dell’antica via consolare (fig. 11-13) e sempre qui si segnala il rinvenimento nel 1970 del miliario di Massenzio.
In conclusione occorre dire che, benché il territorio dei
comuni di Pozzuoli e di Quarto sia senz’altro ricco di
Per approfondimenti sui singoli luoghi e aspetti dell’argomento trattato nel presente
contributo, si rimanda a: AA.VV. I Campi Flegrei nell’archeologia e nella storia, Atti dei
Convegni dell’Accademia dei Lincei, 33 (Roma 4-7 maggio 1976), Roma 1977; G. Corrado, Le vie romane da Sinuessa e Capua a Literno, Cuma, Pozzuoli, Atella e Napoli, Aversa
1949; C. Gialanella (a cura di), Nova antiqua phlegraea. Nuovi tesori archeologici dai
Campi Flegrei, Napoli 2000; P.A. Gianfrotta, I porti dell’area flegrea, in G.Laudizi C.Marangio (a cura di), Porti, approdi e linee di rotta nel Mediterraneo antico. Atti del
seminario di studi, Lecce, 29-30 novembre 1996, Galatina 1998; R. Ling, The San Vito
tomb at Pozzuoli, in Papers of the British School at Rome, 38, 1970, pp. 153 ss.; A. Maiuri,
I Campi Flegrei. Dal sepolcro di Virgilio all’antro di Cuma, Roma 1958; L. Petacco, Le
vie Puteolis Capuam e Cumis Capuam, in M. Guaitoli (a cura di), Lo sguardo di Icaro. Le
collezioni dell’Aerofototeca Nazionale per la conoscenza del territorio, Roma 2003, pp.
446 ss.; L. Quilici, Un’occasione di recupero culturale ed urbanistico per la via Campana
antica, in La parola del Passato, 136-141, 1971, pp. 68-80; F. Zevi (a cura di), I Campi
Flegrei, Napoli 1987; F. Zevi (a cura di), Puteoli, Napoli 1993.
65
43
evidenze archeologiche, ove, quindi, adeguate indagini
archeologiche potrebbero arrivare a fornire dati sufficienti
a comporre un quadro completo ed esaustivo del tracciato
dell’antica Via Campana, la sopravvivenza stessa delle
evidenze archeologiche individuate appare, invece, oggi
minacciata dal concorrere di diversi fattori di degrado naturale ed antropico.
Per quanto riguarda il fattore antropico, ciò che più incide negativamente sono senz’altro l’attività edilizia incontrollata e le catenze nella manutenzione delle strutture
antiche già individuate. Come già sottolineato, infatti, anche ove si tratta di aree in cui è stata scongiurata una edificazione selvaggia, con l’obiettivo di tutelare le strutture
archeologiche, è da constatare oggi un sostanziale fallimento della strategia di tutela e valorizzazione basata sulla musealizzazione in situ.
Pur essendo in alcuni casi messe in atto delle misure di
conservazione e valorizzazione, come la realizzazione di
coperture e di grate protettive, la maggior parte delle evidenze archeologiche sinora individuata, a causa della notevole carenza di manutenzione ordinaria nel corso dei
decenni successivi alla loro scoperta, appare invece in
uno stato di incuria e di degrado (fig. 8-10): progressivamente erose dall’abusivismo edilizio e dalla pressione urbana, o quantomeno visivamente obliterate dalla vegetazione infestante che le avvolge, impedendone l’accesso,
lo studio e la fruizione.
44
Abstract
Tsao Cevoli, Nicola Meluziis, La Via Consolare Campana Puteolis Capuam: lo stato della conoscenza e della tutela.
Attraverso la zona dei Campi Flegrei, in Campania, si
dipanava in epoca romana la Via Consolare Campana,
realizzata tra la fine dell’età repubblicana e i primi secoli
dell’età imperiale per connettere la costa campana con
l’entroterra. Ma soprattutto questa via, accordandosi alla
via Appia all’altezza di Capua, metteva in comunicazione
Roma con uno dei porti principali dell’Italia antica, quello di Puteoli, e con altre importanti località della costa
campana che, all’epoca, rivestivano una grande importanza commerciale, militare e come luogo di otium prediletto dalle classi dominanti di Roma.
Nonostante alcuni edifici monumentali, emergendo dal
terreno per le loro notevoli dimensioni, fossero già noti
da alcuni secoli, e nonostante diversi tentativi di ricerca,
meritori ma parziali ed isolati, fatti nei decenni passati,
manca ancor oggi sia una precisa conoscenza e visione
d’insieme dell’intero percorso viario, sia una efficace politica di tutela e fruizione del suo patrimonio archeologico, costantemente minacciato dalla speculazione edilizia
e dalla carenza di adeguati interventi di conservazione.
Lo stato della tutela dei resti della Via Consolare
Campana e dei suoi monumenti, di fronte ai problemi legati in particolare all'incalzante speculazione edilizia degli ultimi decenni, costituiscono, per questo, un caso di
studio emblematico per valutare la reale incisività delle
normative e delle strategie di conoscenza, tutela e valorizzazione del patrimonio archeologico messe in atto dal
nostro Paese nel corso degli ultimi decenni.
45
Fig. 1 (in alto): Via Campana: edificio porticato (cd. statio dei Tirii). Stato del luogo. Fig. 2 (in
basso): immagine satellitare dell’edificio nel fitto tessuto urbano contemporaneo.
46
Fig. 3 (in alto): Via Campana (Corso Italia), Masseria Crisci, caso emblematico di riuso
funzionale dell’antico. Le strutture murare romane, di cui si conserva una notevole porzione
dell’alzato, si fondono e si integrano con le forme tradizionali dell’architettura contadina
dell’Italia meridionale. Fig. 4 (in basso): La cd. “Montagna Spaccata”, taglio effettuato sul lato
settentrionale di un cratere che divide Pozzuoli da Quarto, già attestato in Età Augustea. Veduta
aerea.
47
Fig. 5 (in alto): La cd. “Montagna Spaccata”, vista generale da Nord. Fig. 6 (in basso): La cd. “Montagna Spaccata”, muro di contenimento est del taglio, in opera reticolata. Vista da ovest.
48
Fig. 7 (in alto): Via Campana, mausoleo di età romana in località San Vito. Fig. 8 (in basso):
Altre strutture archeologiche di età romana in condizioni di degrado nei pressi di Via Campana.
49
Fig. 9-10: Altre strutture archeologiche di età romana in condizioni di degrado nei pressi di Via
Campana.
50
Fig. 11-12: Evidenze archeologiche lungo Via Cupa Orlando, tra i comuni di Quarto e
Marano, in provincia di Napoli, lungo l’ipotetico tracciato della Via Cosolare Campana
Puteolis Capuam.
51
Fig. 13: Evidenze archeologiche lungo Via Cupa Orlando. Muro in opera reticolata.
52
Giancarlo Germanà Bozza
Un’anfora attica recuperata nell’Operazione Teseo
Al termine di una lunga e complessa attività investigativa, all’inizio del 2015 i Carabinieri del Comando Tutela
Patrimonio Culturale sono riusciti a recuperare oltre
5.000 eccezionali reperti archeologici, rimpatriati da Basilea, in Svizzera. L’Operazione Teseo, come è stata denominata, ha permesso il recupero di numerosi reperti archeologici provenienti da scavi clandestini avvenuti in
Puglia, Sicilia, Sardegna e Calabria. Tra i manufatti, che
si datano tra l’VIII secolo a.C. e il III secolo d.C., sicuramente occupa un posto di primo piano un’anfora attica a
figure nere del VI secolo a. C., trafugata probabilmente
da una necropoli etrusca, su cui è raffigurato Teseo che
uccide il Minotauro. A questo si aggiungono altri preziosi
reperti archeologici tra cui centinaia di vasi (anfore, crateri, loutrophoroi, oinochoai, kantharoi, trozzelle, vasi plastici), nonché statue votive, frammenti di affreschi, corazze in bronzo.
L’indagine era cominciata a margine dell’inchiesta che
aveva portato al recupero del vaso di Assteas dal Getty
Museum di Malibù (USA). Le indagini hanno ricostruito
il mercato illecito dei reperti archeologici. Gli elementi
raccolti, le testimonianze e le verifiche condotte in campo
internazionale hanno evidenziato l’opera di ricettazione,
soprattutto attraverso la Svizzera, di una vastissima mole
di oggetti archeologici.
53
Il meccanismo, all’epoca consolidato, prevedeva una
prima fase di restauro dei reperti e una successiva creazione di false attestazioni sulla loro provenienza, resa
possibile anche attraverso l’artificiosa attribuzione della
proprietà a società collegate. I reperti venivano venduti in
Inghilterra, Germania, USA, Giappone e Australia, con
intermediazioni e triangolazioni effettuate per rendere
credibile ed apparentemente legale la compravendita, oppure facendoli confluire in collezioni private costruite per
simulare una detenzione regolare, prima della vendita a
grandi musei. Utilizzando analisi scientifiche eseguite da
esperti del settore, era stato creato un sistema per certificare i reperti tanto collaudato da ingannare anche i principali responsabili di enti museali internazionali.
Fra i reperti recuperati particolare attenzione merita
un’anfora attica a figure nere decorata con la scena di Teseo che uccide il Minotauro (fig. 1). Il mito racconta che
ogni nove anni, in espiazione della morte di Androgeo,66
figlio di Minosse, Atene doveva consegnare sette fanciulli
e sette fanciulle da dare in pasto al Minotauro nel Labirinto.67 Il mostro dalla testa di toro ed il corpo umano, che si
chiamava Asterio o Asterione, era nato dall’unione di Pasifae con un toro bianco.68 Quando Teseo rientrò ad Atene
dopo avere ucciso il toro di Maratona la citta si apprestava a pagare questo gravoso tributo per la terza volta. Alla
vista dello strazio dei genitori che perdevano i loro figli
l’eroe decise di offrirsi volontario per affrontare il sacrificio benché il padre Egeo si opponesse in ogni modo a
questa decisione. Esistono, però, altre due tradizioni: secondo la prima il suo nome fu estratto a sorte, per la seconda fu lo stesso Minosse, giunto ad Atene con una
66
Androgeo fu ucciso dal toro di Maratona successivamente abbattuto proprio da Teseo.
Il numero dei fanciulli ci viene dato da Serv., Aen., VI, 21, il quale attinge a fonti più
antiche, in particolare Saffo.
68
D.S., IV, 61; Ig., Fabula 41; Apollod., III, 1, 4; Paus., II, 31, 1.
67
54
grande flotta, a scegliere le vittime per il tributo. In
quest’ultima versione del mito Teseo accettò volontariamente la scelta del sovrano cretese, benché fosse nato a
Trezene, a patto che se fosse riuscito ad uccidere il Minotauro con le sole mani Atene sarebbe stata liberata per
sempre dal tributo.69 Al momento della partenza Teseo
era certo del favore degli dèi e per questo si fece dare una
vela bianca da portare sulla nave insieme alla vela nera
che era tradizione esporre alla fine del viaggio ritorno
come messaggio dell’avvenuto sacrificio dei giovani ateniesi.70
Dopo il sorteggio delle vittime Teseo guidò i suoi
compagni al tempio di Apollo Delfinio per offrire al dio
un ramo di olivo avvolto da un filo di lana bianca. Il mito
racconta anche che, mentre le madri incoraggiavano i figli
con racconti di imprese eroiche, l’eroe sostituì due fanciulle con due fanciulli dall’aspetto effemminato ma dotati di forza e coraggio raccomandando loro di non esporsi
ai raggi solari e di cospargersi il corpo con oli ed essenze
profumate.71
La nave che portava le vittime ateniesi a Creta era pilotata da Feace, in quanto gli Ateniesi non erano ancora
esperti nella navigazione.72 Prima di salpare Teseo compì
dei sacrifici in onore di Afrodite, come gli era stato ordinato dall’oracolo delfico, per ottenerne la protezione durante il viaggio. Il sacrificio si svolse sulla spiaggia e prodigiosamente la vittima, una capra, si tramutò in capro da
cui l’appellativo di Afrodite Epitragia.73 La partenza, pe69
Plu., Thes.17; Apollod., Epit. I, 7; Scholia in Homeri Iliadem, XVIII, 590.
Secondo un’altra versione del mito la vela era rosso porpora tinta con il succo delle bacche di cocciniglia (Plu., Thes. 17).
71
Plu., Thes., 18 e 23.
72
Secondo altre versioni del mito il pilota era Fereclo o o Nausiteo. Di a Nausiteo e Feace
rimase memoria nei monumenti che Teseo eresse al ritorno da Creta sul Falero, il porto da
cui era partito, e nella locale Festa dei Piloti che si celebrava in loro onore (Plu., Thes., 17;
Paus., I, 1, 2).
73
Plu., Thes., 18.
70
55
rò, fu ritardata dall’ira di Apollo che scatenò una tempesta per punire Teseo colpevole di avere dimenticato di
mandare delle vergini al suo tempio. Per questo motivo
gli Ateniesi ogni anno, durante il mese di Munichione
(aprile) inviano delle vergini al tempio di Apollo per propiziarsi il favore del dio.74
Quando la nave giunse a Creta, dopo alcuni giorni di
navigazione, Minosse accolse personalmente le vittime
ateniesi ma si innamorò di una di loro75 e fu fermato da
Teseo mentre stava per usarle violenza.76 Il favore di
Afrodite accompagnò Teseo durante tutta l’impresa e rivelò determinante nel momento in cui Arianna, figlia di
Minosse, si innamorò di lui e gli promise il suo aiuto per
affrontare il Minotauro ed uscire dal Labirinto a condizione di tornare ad Atene come sua moglie. Lo strumento
che avrebbe dato la salvezza a Teseo era un gomitolo di
filo magico che Dedalo aveva donato ad Arianna spiegandole come doveva usarlo. Una volta entrato nel Labirinto l’eroe doveva sorprendere il mostro nel sonno ed
ucciderlo sacrificandolo a Poseidone, quindi doveva riavvolgere il gomitolo per ritornare alla porta d’ingresso.77
Grazie a questo stratagemma Teseo poté compiere
l’impresa anche se non si sa con certezza del uccise il
Minotauro a mani nude o con un’arma, la spada che gli
aveva donato Arianna o la clava.78
74
Plu., Thes., 18; scolio ad Ar., Eq. 725.
A riguardo esistono diverse versioni, secondo alcuni sarebbe stata Peribea, successivamente madre di Aiace, secondo altre Eribea o Ferebea.
76
Teseo si presentò al sovrano di Creta come figlio di Poseidone e questi schernendolo lo
sfidò a recuperare il suo anello che gettò in mare. Teseo riuscì a compiere la prova e secondo la tradizione fu aiutato da un branco di delfini che scortarono fino al palazzo delle
Nereidi, dove ricevette da Teti una corona preziosa, dono nuziale di Afrodite, che dopo
avrebbe donato ad Arianna (Paus. I, 42, 1; Igino, Astronomia poetica, II, 5; Plu., Thes., 29).
Questo episodio fu dipinto da Micone sulla terza parete del santuario di Teseo (Paus. I, 17,
3; Ig., Astronomia poetica, II, 5).
77
Plu., Thes., 29; Apollod., Epit., I, 8.
78
Una versione meno nota del mito, raffigurata su un bassorilievo ad Amicle, riporta che
Teseo portò in trionfo ad Atene il Minotauro legato (Hom., Il, XVIII, 590; Scholia in Homeri Odysseam, XI, 322; Apollod., Epit. I, 9; Ovid., Heorides, IX, 115; Paus. III, 18, 7).
75
56
Dopo avere superato la prova Teseo liberò i fanciulli
ateniesi, grazie anche all’aiuto dei due giovani travestiti
da fanciulle, e con l’aiuto di Arianna si recarono al porto
dove trovarono Nausiteo e Feace pronti a salpare. Per rallentare l’inseguimento Teseo aveva aperto delle falle nelle navi cretesi ma questo non evitò uno scontro navale
che si risolse senza vittime fra gli Ateniesi.79 Lungo il
viaggio di ritorno si sarebbe compiuto il destino di Arianna, abbandonata da Teseo sulla spiaggia dell’isola di Naxos.80
Secondo una versione cretese81 del mito il Labirinto
era solo una prigione che ospitata il fanciulli ateniesi dati
come pegno per la morte di Androgeo. Alcuni di loro venivano sacrificati sulla sua tomba, altri venivano dati come premio ai vincitori dei giochi funebri. Il mito del Minotauro sarebbe stata una deformazione di un personaggio
storico realmente vissuto alla corte di Minosse, un generale di nome Tauro, che aveva vinto numerosi giochi e
aveva avuto una relazione adulterina con la regina Pasifae
protetto dall’aiuto di Dedalo. Per questo motivo Minosse
lo fece combattere con Teseo e per la sua vittoria ottenne
la mano di Arianna e la fine del crudele tributo imposto
agli Ateniesi.82
L’impresa di Teseo con il Minotauro trova un notevole
riscontro nell’iconografia vascolare attica. I primi esempi
si possono datare tra il 570 ed il 560 a.C. con un progressivo aumento nei decenni successivi. Dopo la metà del VI
secolo a.C. questo soggetto ebbe un evidente incremento
79
Paus. II, 31, 1; Plu., Thes., 19.
Ferecide (FGrHist 3 F 148) ricorda che prima di salpare da Creta Teseo offrì la proprio
chioma a Poseidone.
81
Plu., Thes., 15 e 19; Serv., Aen., VI, 14.
82
Un’altra versione meno nota del mito, narrata da un canto bottieo, racconta che non tutte
le vittime ateniesi venivano sacrificate ma alcuni fanciulli venivano mandati a Delfi come
offerta al dio e successivamente, non potendo essere mantenuti dal santuario, erano stati
mandati prima in Italia per fondare una colonia a Iapigia e successivamente in Tracia, a
Bottiea.
80
57
e rimane notevolmente attestato fino alla fine del secolo83.
Nella maggior parte dei casi l’episodio è raffigurato su
anfore con la tecnica a figure nere, per lo più del tipo a
collo distinto. La maggior parte dei vasi decorati con questa scena provengono da Creta, ma sono numerosi anche
quelli provenienti dall’area etrusca, in particolare Vulci,
Tarquinia e Cerveteri. Da un punto di vista quantitativo
risultano rilevanti anche Atene ed alcuni centri della Magna Grecia (Nola e Taranto) e della Sicilia (Gela). Per il
vaso preso in esame è stata ipotizzata la provenienza da
una necropoli etrusca già al momento del recupero ed appare ipotizzabile che si possa trattare di qualche centro
dell’Etruria tirrenica, che si distingue fra le aree etrusche
per l’elevato numero dei vasi con questo tema iconografico.84
Nella rappresentazione della lotta di Teseo con il Minotauro si possono individuare delle schemi iconografici
precisi riferibili alle varie fasi dell’impresa. Su alcuni vasi
è raffigurato l’inseguimento dell’avversario senza alcun
contatto tra le due figure. La lotta è raffigurata secondo
un altro schema che vede colpire il Minotauro con la spada, affermando questa tradizione su quella che lo vedeva
vittorioso a mani nude. I momenti successivi alla sono la
morte del Minotauro, rappresentato caduto vicino all’
eroe, e la vittoria di Teseo come epilogo dell’impresa. Il
soggetto dell’anfora presa in esame presenta lo schema
iconografico della lotta mortale con il Minotauro. Si può
osservare, infatti, che da una parte Teseo sta per affondare
il colpo mortale con la spada e dall’altra il suo avversario
ormai vinto tenta un’ultima difesa cercando di allontanarPer un’analisi del tema iconografico nella ceramica attica vedi C. Servadei, La figura di
Theseus nella ceramica attica. Iconografia e iconologia del mito nell’Atene arcaica e classica, Bologna 2005.
84
Per un’analisi quantitativa dei vasi attici decorati con la scena del combattimento tra
Teseo ed il Minotauro si rimanda a C. Servadei, La figura di Theseus nella ceramica attica. Iconografia e iconologia del mito nell’Atene arcaica e classica, Bologna 2005.
83
58
lo ma già viene bloccato dall’eroe che poggia il piede destro sulla sua gamba destra piegata a terra. Si tratta di una
scena attestata anche su altri vasi prodotti tra il VI ed il V
secolo a.C. secondo uno schema ben definito: l’eroe si
muove da sinistra verso destra impugnando la spada fuori
dal fodero e, in alcuni casi, con altre armi (scudo, lancia).
Si può cogliere un’evoluzione nella figura di Teseo, che
nelle raffigurazioni più arcaiche è nudo o indossa un corto
chitone, mentre in a partire dal primo quarto del V secolo
a.C. si arricchisce di calzari e una clamide nonché un petaso o un pileo come copricapo. Nell’anfora presa in esame l’eroe presenta lo schema arcaico del corto chitone.
Il Minotauro conserva il suo schema iconografico sostanzialmente inalterato fino alla fine alla metà del V secolo a.C. Viene sempre raffigurato in fuga verso destra
con il capo rivolto all’indietro, in alcuni casi tenta di difendersi brandendo alcune pietre nella mano destra (fig.
4). Si tratta dell’arma usata dai personaggi che rappresentano la hybris attraverso loro stato tra il ferino e l’umano
in contrapposizione all’ingegno umano simbolicamente
reso dalla spada. Possiamo ricordare che le pietre sono le
armi usate dai centauri come si vede in numerose rappresentazioni vascolari.
Dalla metà del V secolo a.C. il Minotauro inizia a presentare soprattutto una posa frontale che ne accentua la
sconfitta. La figura non è più resa nella corsa con le gambe piegate, di tipo arcaico, ma è ferma e flette le gambe
tendendo una mando verso terra quasi ad evidenziare la
fine della sua fuga.
L’elemento fondamentale per la datazione del vaso è
dato dall’iconografia di Teseo. Prima della fine del VI secolo a.C. l’eroe viene rappresentato con la barba o senza,
con lunghi capelli fluenti o raccolti a krobylos e vestito
con un corto chitone in alcuni casi sormontato da una pelle di animale. Solo in pochi casi veste in maniera diversa
59
con un semplice perizoma o indossa una corazza e porta
dei calzari ai piedi. Dopo il 530 a.C. prevale l’aspetto
efebico del personaggio che viene rappresentato con i capelli corti e senza barba. Nei decenni successivi i ceramografi tendono a rappresentarlo nudo, con la sola eccezione in alcuni casi del petaso portato dietro le spalle, per
evidenziare la prestanza fisica, a cui corrispondeva il coraggio secondo il concetto classico della nudità eroica.
Questa evoluzione iconografica fu notevolmente più
lenta nella tecnica a figure nere per la tendenza conservativa che la caratterizza. Forme vascolari chiuse come
l’anfora e, soprattutto, la lekythos continuano a presentare
il tipo arcaico dell’eroe ancora nel primo quarto del V secolo a.C. Unico elemento che rimane costante nella figura
di Teseo è la spada, impugnata o ancora nel fodero, che
solo in pochi casi è sostituita da una lancia o da una clava.
Nella maggior parte delle rappresentazioni la spada viene
puntata verso l’avversario e solo in pochi casi si trova sollevata sopra la sua testa. La tradizione che vuole l’eroe
vincitore sul Minotauro a mani nude a rappresentata su un
numero ancora minore di vasi.85
La figura del Minotauro non presenta particolari variazioni riprendendo il modello che si era definito nel VII
secolo a.C. anche fuori Atene. La sua natura ibrida viene
rappresentata da un corpo umano con testa e coda taurine.
Le uniche varianti si possono osservare nel volto, che in
alcuni casi richiama altri animali, come il cinghiale,86 il
leone87 ed il cavallo,88 ed in un caso le corna sono appli85
Circa quindici secondo il catalogo in C. Servadei, La figura di Theseus nella ceramica
attica. Iconografia e iconologia del mito nell’Atene arcaica e classica, Bologna 2005.
86
Un’anfora attica a figure nere del tipo a collo distinto del Museum Antiker Kleinkunst di
Monaco (inv. n. 1472), datata al 550 a.C. circa ed attribuita al Pittore di Londra B 213.
87
Una hydria attica a figure nere del Museum of Art di Tampa (inv. n. 86.36), datata al
primo quarto del V secolo a.C. ed attribuita al Pittore del Vaticano G 49.
88
Una hydria attica a figure nere del Museum of Fine Arts di Boston (inv. n. 89.562), datata al 530 a.C. circa.
60
cate ad un volto umano.89 Il corpo del Minotauro non presenta sostanziali cambiamenti nel tempo con l’uso di alcuni segni (tratti incisi, punti sovradipinti in bianco), per
rappresentarne la villosità. Per tutto il VI secolo a.C. non
cambiano neanche le armi che brandisce contro Teseo,
una o due pietre di piccole dimensioni strette nella mando, e solo nel V secolo a.C. i Primo Manieristi propongono una roccia di grandi dimensioni che solleva sopra la
testa.90
Nello schema della lotta Teseo quasi sempre è collocato sulla sinistra mentre con una mano afferra il Minotauro
e con l’altra impugna la spada per affondare il colpo mortale. Le varianti dello schema iconografico sono date dal
modo in cui l’eroe afferra il mostro: per un corso, per la
testa o per un braccio. In ogni caso a determinare lo
schema del combattimento è la posizione dei due personaggi, che possono essere contrapposti oppure con il Minotauro in fuga verso destra con le gambe e la testa rivolte verso l’avversario, mentre in pochi casi le due figure
risultano cosi sovrapposte da rendere difficile la lettura
dello schema. Nei casi in cui il Minotauro non stringe in
mano le pietre generalmente tende le braccia per cercare
di ripararsi dal colpo mortale o in segno di supplica. Tra
la fine del VI ed il primo quarto del V secolo a.C. si afferma progressivamente la tendenza a rendere frontalmente il Minotauro. Questo schema, però, si trova unicamente sui vasi a figure rosse e, generalmente, è accompagnato da una nuova posa del mostro che stando in ginocchio con una mano si appoggia ad una sporgenza del terUna lekythos attica a figure nere del Museo dell’Agorà di Atene (inv. n. P 1266), datata
all’ultimo quarto del VI secolo a.C. ed attribuita alla Classe dei Leoncini.
90
Una pelike attica a figure rosse della Collezione Costantini di Fiesole, del secondo quarto del V secolo a.C. ed attribuita al Pittore di Oinanthe; una pelike attica a figure rosse
dell’Harrow School Museum (inv. n. 51), datata al terzo quarto del V secolo a.C. ed attribuita ai Primi Manieristi.
89
61
reno e tende l’altra verso Teseo, il quale lo blocca premendo un piede sulla sua gamba.
La presenza di altri personaggi che assistono è abbastanza comune nelle scene di combattimento. Nella maggior parte dei casi si tratta di figure femminili, efebi o
uomini, collocati ai lati dei contendenti senza intervenire
nella lotta e, in alcuni casi, incitano l’eroe recando corone
nelle mani. Il numero di queste figure è determinato essenzialmente dalla forma vascolare, sono più numerosi e
disposti in lunghe teorie sulle anfore tirreniche, sulle kylikes a fascia o a labbro risparmiato e sulle hydriai.91 In
nessun caso si trovano i quattordici giovani di cui parla il
mito, il loro numero rimane costantemente inferiore e non
appare determinato da alcun riferimento ad altre tradizioni. La kylix firmata da Archikles e Glaukythes presenta
sette fanciulli a sinistra e cinque a destra ordinate alternando un efebo ed una fanciulla che vengono identificati
da una iscrizione. In questo, come in altri esemplari, non
si può osservare alcuna omogeneità né tantomeno alcun
riferimento a qualche fonte letteraria.92
La maggior parte dei ceramografi adotta una soluzione
più semplice con pochi personaggi, uno o due per parte in
uno schema simmetrico, che assistono alla lotta. L’unica
divinità presente tra questi personaggi è Athena, raffigurata sui vasi del VI e della prima metà del V secolo a.C.
La dea è riconoscibile per la presenza dell’iscrizione93 o
per i suoi attributi, che nel caso di due anfore attribuite al
Pittore Affettato è la lira.94 Questo strumento musicale è
91
E. Young, The Slaying of the Minotaur, Evidence in Arte and Literature for the Development of the Myth, Ann Arbor 1972, p. 136.
92
F. Brommer, Theseus Deutungen II, in AA, 1982, pp. 69 – 88.
93
Una kylix attica a figure nere proveniente da Vulci e conservata al Antikensammlungen
di Monaco (inv. n. 2243), datata al terzo quarto del VI secolo a.C. ed attribuita Piccoli
Maestri.
94
Un’anfora attica a figure nere del tipo a collo distinto proveniente da Taranto e conservata al Museo Archeologico Nazionale di Taranto (inv. n. 117234), datata al terzo quarto del
VI secolo a.C.
62
presente anche in altre rappresentazioni della lotta contro
il Minotauro non associato alla dea ma a efebi oppure
semplicemente appeso sullo sfondo.95
Nel nostro caso il personaggio femminile che assiste
alla scena, raffigurato a destra del Minotauro, si deve
identificare con Athena in quanto la figura di Arianna,
nonostante il ruolo determinante svolto nell’impresa, non
appare prima della metà del V secolo a.C., almeno per
quanto riguarda rappresentazione di questa scena.
L’identificazione rimane, comunque, problematica per
l’assenza di attributi specifici e solo in alcuni casi si può
dire certa per la presenza dell’iscrizione onomastica. Alle
spalle della figura femminile è rappresentato un uomo
barbato che indossa un lungo chitone e che assiste alla
scena appoggiandosi ad un lungo bastone. Nei vasi attici
a figure rosse questo personaggio è stato identificato con
Minosse che assiste al combattimento tra Teseo ed il Minotauro appoggiato allo scettro.96 Su una hydria attica a
figure nere datata al terzo quarto del VI secolo a.C. ed attribuita al Pittore di Prometheus il sovrano, barbato e con
indosso un lungo chitone ed un himation, è presente ma
volge le spalle al combattimento rivolgendosi ad una
donna seduta, identificata dall’iscrizione con Demodike,
che regge una ghirlanda. Questo schema iconografico non
trova ancora confronti ed è stato interpretato come un dialogo tra Minosse ed un personaggio che ha un ruolo di arbitro.97
Se accettiamo una tale identificazione anche per il personaggio raffigurato sull’anfora presa in esame allora non
è certo da escludere che il personaggio femminile possa
95
C. Servadei, La figura di Theseus nella ceramica attica. Iconografia e iconologia del
mito nell’Atene arcaica e classica, Bologna 2005, p. 104.
96
Questa struttura compositiva può essere bene esemplificata da un’anfora attribuita al
Pittore del Louvre G 231 conservata ai Musei Vaticani (inv. n. 16567).
97
E. Young, The Slaying of the Minotaur, Evidence in Arte and Literature for the Development of the Myth, Ann Arbor 1972, p. 131 – 132.
63
essere proprio la figlia Arianna e non la dea Athena. La
mancanza di particolari attributi nelle mani di questi personaggi, a parte il lungo bastone identificabile con uno
scettro, non permette di affermare l’identificazione di
questi personaggi con assoluta certezza.
La particolare fortuna di questa scena determinò una
sua ampia diffusione nel Mediterraneo, arrivando ad essere molto attestata in Occidente, sia nell’area etrusca che
in Magna Grecia ed in Sicilia. In alcune aree, come Cipro,
si impone accanto alle rappresentazioni delle imprese di
Eracle, per una sorta di contrapposizione tra quest’ultimo
riferibile al governo tirannico di Atene e Teseo, eroe della
democrazia.98 In senso diametralmente opposto può essere visto il successo di questo tema iconografico in area
etrusca, dove la società aristocratica del VI secolo a.C. si
accostava alla cultura greca associandone il linguaggio
iconografico a soggetti comuni come l’immagine dell’
uomo-toro attestata presso Velitrae, Gabii e Praeneste.
Proprio in una necropoli etrusca si può identificare il luogo di provenienza dell’anfora attica a figure nere recuperata nell’Operazione Teseo.
Concludiamo questo studio affrontando il problema
dell’attribuzione dell’anfora. Possiamo osservare che
questo soggetto è tra i principali del repertorio del Gruppo
E con i connessi Gruppo di Londra B 174 e Pittore di
Towry White. Tra il 530 ed il 510 a.C. l’uccisione del
Minotauro ritorna diverse volte nel repertorio iconografico del Pittore di Antimenes, ma non mancano esempi attribuiti al Gruppo delle Sirene a Occhio e al Gruppo di
Würzburg 199. Altri esempi si possono individuare nella
produzione di altri ceramografi attivi nella seconda metà
del VI secolo a.C., in particolare il Pittore Affettato e il
Pittore dell’Olpe di Nicosia. In questo caso possiamo
98
G. Germanà Bozza, Creta, Cipro ed il Vicino Oriente. Il commercio della ceramica attica fino alle guerre persiane, Berlino 2014, pp. 111 – 112.
64
proporre un’attribuzione a Lydos o alla sua scuola, in particolare il Pittore del Vaticano 309 ed il Pittore del Louvre F 6 (figg. 2-3).
Da quanto emerso in questa analisi l’anfora attica a figure nere recuperata dai Carabinieri del Comando Tutela
Patrimonio Culturale nel corso dell’Operazione Teseo costituisce un’acquisizione di altissimo valore archeologico.
Il suo studio permette di avere maggiori dati su un tema
iconografico particolarmente caro ai ceramografi attici
del VI e del V secolo a.C. La perdita di reperti di questo
valore costituisce un danno irreparabile alle nostre conoscenze in quanto ci priva di tasselli fondamentali per ricostruire un più vasto quadro d’insieme.
Abstract
Giancarlo Germanà Bozza, Un’anfora attica recuperata
nell’Operazione Teseo
All’inizio del 2015 i Carabinieri del Comando Tutela
Patrimonio Culturale con l’Operazione Teseo sono riusciti a recuperare da Basilea, in Svizzera, oltre 5.000 eccezionali reperti archeologici provenienti da scavi clandestini in Puglia, Sicilia, Sardegna e Calabria.
Tra i manufatti, che si datano tra l’VIII secolo a.C. e il
III secolo d.C., sicuramente occupa un posto di primo
piano un’anfora corinzia del VI secolo a. C., trafugata
probabilmente da una necropoli etrusca, su cui è raffigurato Teseo che uccide il Minotauro. Il presente studio
propone un’analisi dell’anfora e di alcuni reperti, che costituiscono delle preziose acquisizioni per lo studio della
ceramica e della coroplastica greca.
65
Fig. 1: anfora attica a figure nere recuperata nell’ “Operazione Teseo”.
66
Fig. 2: anfora attica a figure nere attribuita al Pittore del Vaticano 309, Museo Nazionale
Etrusco di Villa Giulia, inv. n. 24994.
67
Fig. 3 (in alto): anfora attica a figure nere proveniente da Vulci attribuita al Pittore del
Louvre F 6, Museo Gregoriano Etrusco Vaticano, inv. n. 313. Fig. 4 (in basso): rappresentazione del Minotauro in corsa con alcune pietre in mano in una coppa attica a figure nere
del primo quarto del V secolo a.C.
68
Serena Raffiotta
Il ritorno del dio degli inferi a Morgantina
Nel panorama mondiale delle aree di interesse archeologico più colpite dal fenomeno degli scavi clandestini e
da quello, intrinsecamente connesso, del traffico illecito
di reperti archeologici, il sito di Morgantina (Aidone, Enna) (fig. 1), al centro della Sicilia, occupa senza dubbio
un posto di rilievo. In passato ripetutamente saccheggiata
dai tombaroli, specie tra fine anni Settanta e inizi anni Ottanta, la monumentale area archeologica è stata alla ribalta della cronaca internazionale99 nell’ultimo decennio per
essere riuscita a riappropriarsi, dopo complesse indagini
giudiziarie e lunghe trattative diplomatiche, di una serie
di pregevolissimi capolavori dell’arte greca trafugati e
acquisiti da collezionisti e prestigiose istituzioni museali
statunitensi.
Ci riferiamo, in ordine di restituzione all’Italia,100 alla
coppia di statue acrolitiche arcaiche (fig. 2), al tesoro di
argenti ellenistici (fig. 3) e alla ben più nota statua tardoLe immagini a corredo dell’articolo sono pubblicate su concessione dell'Assessorato Regionale per i Beni Culturali e dell'identità Siciliana - Museo Regionale di Aidone. È fatto
divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione.
99
Della fama internazionale dei saccheggi di reperti a Morgantina è testimonianza il libro
“Chasing Aphrodite. The hunt for looted antiquities at the world’s richest museum” dei
giornalisti Jason Felch e Ralph Frammolino (Boston-New York 2011), in cui la vicenda
della statua della dea fa da protagonista in un dettagliato racconto dei recenti scandali legati al traffico illecito di antichità trafugate che hanno coinvolto il Getty Museum.
100
Nel 2009 sono stati rimpatriati gli acroliti, nel 2010 gli argenti e nel 2011 la statua della
dea.
69
classica della dea, conosciuta come “Afrodite Getty” o
“Venere di Malibù” (fig. 5).
Concretizzatesi a partire dal 2009 in quel progetto che
la Soprintendenza di Enna - territorialmente competente volle allora simbolicamente denominare “Il ritorno delle
dee”, evidenziando l’ambito religioso a cui i tre gruppi di
reperti appartenevano, queste importanti restituzioni sono
assurte internazionalmente ad emblema della vittoria della legalità sul traffico illecito delle antichità senza provenienza, dimostrando anche il cambio di indirizzo nella politica degli acquisti e nella gestione delle collezioni da
parte di alcune tra le più potenti istituzioni museali straniere, diretta conseguenza del processo romano del 2005
che vide imputata, tra gli altri, Marion True, già curatrice
alle antichità del J. P. Getty Museum di Los Angeles.
Inoltre questi rimpatri hanno fatto sì che la notorietà di
Morgantina, in passato conosciuta quasi esclusivamente
da studiosi e appassionati di archeologia come casostudio esemplare nell’ambito delle ricerche sull’urbanistica e l’architettura greca ellenistica per via dell’eccezionale stato di conservazione dei suoi resti, oggi si sia considerevolmente estesa oltre i confini dell’area mediterranea e oltre la stretta cerchia degli specialisti, divenendo
sia il sito archeologico che il museo regionale di Aidone,
che ne custodisce i reperti dal 1984, tra le mete turistiche
più frequentate della Sicilia.
Lungi dal pensare che Morgantina dopo il 2011, anno
del rimpatrio della “Venere di Malibù”, potesse ancora
una volta essere protagonista della cronaca internazionale
per nuove vicende legate al mercato clandestino di opere
d’arte, con grande incredulità il 10 Gennaio 2013 abbiamo appreso da un comunicato ufficiale del J. Paul Getty
Museum, diramato attraverso le pagine del Los Angeles
Times, che il museo americano annunciava la restituzione
“volontaria” alla Sicilia di una testa barbuta in terracotta
70
policroma di età greca ellenistica (400-300 a.C.), di dimensioni pari al vero, identificata come Ade, dio greco
degli Inferi (fig. 6). Come genericamente precisato nel
comunicato stampa, la decisione era l’esito di analisi e
studi avviati congiuntamente all’Assessorato Regionale ai
Beni Culturali siciliano a seguito dell’individuazione nei
depositi del Museo Regionale di Aidone di alcuni frammenti associabili alla testa fittile nella collezione del Getty.
Non sorprendendo gli studiosi di Morgantina la circostanza che una grande statua del dio greco Ade potesse
provenire dal sito, sede privilegiata di culti ctoni tra l’età
arcaica e quella ellenistica, è stata piuttosto la notizia di
un ennesimo trafugamento a destare clamore. A maggior
ragione per il fatto che non erano note indagini giudiziarie
- né recenti né passate - intorno al pregevolissimo reperto,
la cui esistenza in Italia era sconosciuta ai più prima di
quell’unico comunicato ufficiale diramato dal museo californiano. Evidentemente acroliti, argenti e dea non erano
tutto quello che di più importante i tombaroli avevano
saccheggiato a Morgantina, come si pensava. Il sito archeologico in passato è stato un vero e proprio giacimento
di tesori, alimentando a più riprese il mercato nero delle
antichità. Altri reperti di inestimabile valore come la testa
policroma di Ade, dunque, erano stati scavati illecitamente nel periodo in cui, tra gli anni Settanta e Ottanta,
l’antica città greca era stata incomprensibilmente in balia
dei tombaroli, arricchendo illegalmente prestigiose collezioni estere.
La vicenda della testa di Ade, di cui paradossalmente
ed inspiegabilmente a distanza di quasi tre anni
dall’annuncio del Getty (10 Gennaio 2013) si attende ancora il rimpatrio, ha dimostrato con grande evidenza la
necessità che l’Italia mantenga perennemente desta
l’attenzione sul traffico illecito di reperti, investendo
71
tempo e denaro nella caccia all’arte rubata. La scoperta
del deposito del mercante d’arte Giacomo Medici a Ginevra nel 1995 e di quello di Gianfranco Becchina a Basilea
nel 2001 insieme al processo romano del 2005, che di
ambedue quei fatti è stato una diretta conseguenza, hanno
certo segnato una svolta epocale, turbando protagonisti ed
equilibri nel mercato nero delle antichità. Con riferimento
specifico al Getty, queste vicende hanno altresì avuto
l’importante conseguenza di indurre il museo californiano
ad avviare quella che la stampa italiana ha definito “operazione trasparenza”, un progetto di verifica della provenienza di tutta la collezione di antichità, circa 45.000 pezzi, avviato nell’estate 2012, ma ufficializzato soltanto a
Gennaio 2013, con l’intento di restituire eventuali reperti
acquisiti illecitamente agli Stati che ne fossero legittimi
proprietari.
Da dove scaturisce dunque questa nuova restituzione a
Morgantina, annunciata al mondo come “volontaria” dal
Getty Museum? In assenza di una specifica attività investigativa e di una richiesta formale da parte dell’Italia,
quali sono state le ragioni che hanno indotto il potente
museo californiano a cedere volontariamente il pregevole
reperto, compiendo questo passo dal grande significato,
indice di una svolta radicale soprattutto nei confronti del
nostro Paese? È stata una mossa volontaria strictu sensu?
La restituzione della testa di Ade si inquadra proprio
nell’ambito dell’“operazione trasparenza” di cui sopra,
anzi probabilmente ne è il primo risultato tangibile, perlomeno rispetto al patrimonio italiano. Il 10 Gennaio
2013 sul Los Angeles Times il Getty annunciava al mondo la restituzione della testa da Morgantina e appena nove
giorni dopo (19 Gennaio 2013), sulle pagine dello stesso
giornale, per la prima volta ufficializzava l’ambizioso
progetto di studio di tutta la collezione di antichità con
72
l’obiettivo di dichiarare al mondo la provenienza di ogni
reperto.
Ma prima di entrare nel merito dell’intrigante vicenda
della testa, delineandola per grandi linee sulla base delle
informazioni in nostro possesso per via del coinvolgimento personale nella vicenda,101 crediamo sia opportuno inquadrarla nel contesto degli altri saccheggi e rimpatri legati a Morgantina, dagli acroliti al tesoro di argenti alla
statua della dea, ripercorrendo sinteticamente anche di
questi le fasi più salienti. Premettiamo che l’attribuzione
al sito di tutti i capolavori trafugati in questione, eccetto
che della testa di Ade, è stata determinata dall’avvio di
indagini giudiziarie al Tribunale di Enna nel 1988.102 In
quell’anno, cruciale nella storia più recente di Morgantina, il caso volle che due diversi filoni di indagine si incrociassero, portando la magistratura ennese nel giro di
pochi mesi a conoscenza del furto dal sito dei tre preziosi
gruppi di reperti (acroliti, argenti e statua della dea).
Un primo filone, scaturito dalla testimonianza di un
tombarolo “pentito”, avrebbe casualmente portato alla
scoperta del furto sia della coppia degli acroliti che del
tesoro degli argenti.103 Da un secondo più complesso filone investigativo, connesso alla figura carismatica di
Thomas Hoving, già direttore del MET di New York, e
alla sua personale pubblica accusa al Getty Museum
dell’acquisto di una statua greca trafugata da Morgantina,
Ad oggi nessuna informazione dettagliata sulla vicenda è stata diramata dall’ Assessorato Regionale ai Beni Culturali e Identità Siciliana. Le uniche, pur sintetiche, notizie ufficiali sono quelle rese note dal Getty contestualmente all’annuncio della restituzione.
102
Le vicende giudiziarie legate ai reperti trafugati da Morgantina sono state argomento di
un vero e proprio “giallo” archeologico, un libro (oggi giunto alla sua seconda edizione,
aggiornata proprio col racconto di Ade) a firma del magistrato Silvio Raffiotta, che quelle
indagini avviò e seguì sino alla fine, attivandosi per primo per le richieste di rimpatrio.
Vedi S. Raffiotta, Caccia ai tesori di Morgantina, Caltanissetta 2013².
103
S. Raffiotta, Caccia ai tesori di Morgantina, Caltanissetta 2013², pp. 5-64 (acroliti), 65102 (argenti).
101
73
sarebbe invece stato scoperto il trafugamento della “Venere”.104
Passeremo a questo punto in breve rassegna le storie
dei recuperi di acroliti, argenti e dea, al fine di meglio inquadrare e comprendere la più recente vicenda di restituzione della testa di Ade. Il nostro racconto prende avvio
dai reperti rimpatriati in Italia per primi nel 2009, cioè
l’eccezionale coppia di statue greche arcaiche di dimensioni pari al vero note alle cronache internazionali come
“gli acroliti di Morgantina”.105 Realizzate da un ignoto
artista intorno al 530/520 a.C., sono le più antiche testimonianze ad oggi conosciute dell’impiego nel mondo
greco di questa particolare tecnica scultorea, tipica del
mondo coloniale d’Occidente, che prevedeva l’impiego e
l’assemblaggio di materiali diversi (pietra, legno, metalli
preziosi, stoffa) per la resa delle varie parti della scultura.
In mancanza dei corpi, in questo caso verosimilmente in
materiale deperibile (legno?), ciò che oggi rimane degli
acroliti di Morgantina sono due teste, tre mani e altrettanti
piedi in marmo di Taso.106 Il gruppo scultoreo è purtroppo
manchevole di una mano e di un piede appartenenti alla
statua di minori dimensioni, assenza di cui non si è mai
saputo nulla.
L’esposizione della coppia divina al Museo Archeologico Regionale di Aidone, inaugurata il 13 Dicembre
2009 con un originale progetto a firma dell’allora Soprintendente di Enna Beatrice Basile, ha segnato una svolta
nella storia di Morgantina, rappresentando la prima tappa
ufficiale di quell’importante percorso di recupero di preziosi reperti trafugati dal sito, illecitamente esportati
104
S. Raffiotta, Caccia ai tesori di Morgantina, Caltanissetta 2013², pp. 103-165.
Sulla vicenda degli acroliti vedi: S. Raffiotta, Caccia ai tesori di Morgantina, Caltanissetta 2013², pp. 5-64.
106
C. Marconi, Gli acroliti da Morgantina, in Prospettiva, nn. 130-131, Aprile-Luglio
2008, pp. 2-21 (ivi bibliografia precedente).
105
74
all’estero e finalmente restituiti alla legittima terra
d’origine.
Simulacri a grandezza naturale delle principali divinità
venerate a Morgantina, Demetra e Persefone, numi tutelari della fertilità dei campi e dell’agricoltura, gli acroliti
furono trafugati tra il 1978 e il 1979 da quella che oggi è
riconosciuta come la più grande tra le aree sacre
dell’antica città, il santuario extra-urbano in località San
Francesco Bisconti.107 Come spesso accade, la notizia ufficiosa di quel ritrovamento circolò immediatamente nel
piccolo paese di Aidone e nei dintorni senza tuttavia raggiungere la Soprintendenza che, ignara dell’eccezionale
scoperta illecita delle due sculture, si impegnava immediatamente nel recupero della gran quantità di reperti distrutti ed abbandonati dai clandestini, avviando nel 1979 i
primi scavi ufficiali che portarono alla messa in luce delle
poderose strutture di una grande area di culto extra moenia.
La ricostruzione del furto dei due capolavori fu possibile solo nel 1988, quando il Tribunale di Enna avviò un
procedimento penale a carico di una rete di trafficanti locali di reperti, da cui sarebbe emersa anche la notizia del
trafugamento da Morgantina di un tesoro di argenti di età
107
Una sintesi delle ricerche nel santuario è in S. Raffiotta, Terrecotte figurate dal santuario di San Francesco Bisconti a Morgantina, Assoro 2007. In questa prima opera scientifica dedicata al santuario (escludendo un paio di brevi articoli precedenti, di sintesi delle
indagini di scavo ivi condotte) sono pubblicate le terrecotte votive, che ne documentano la
frequentazione ininterrotta tra VI e III secolo a.C. e la sua consacrazione a culti ctoni. In
anni recenti chi scrive ha dedicato all’area di culto diversi articoli a stampa: S. Raffiotta,
San Francesco Bisconti: i santuari di Demetra e Persefone, in C. Bonanno (a cura di),
Museo archeologico di Aidone. Catalogo, Palermo 2008, pp. 77-82; S. Raffiotta, Nuove
testimonianze del culto di Demetra e Persefone a Morgantina, in G. Guzzetta (a cura di),
Morgantina a cinquant’anni dall’inizio delle ricerche sistematiche, Atti dell’Incontro di
Studi (Aidone, 10 Dicembre 2005), Caltanissetta-Roma 2008, pp. 105-139; C. Greco-S.
Nicoletti-S. Raffiotta, Due santuari delle divinità ctonie in contrada San Francesco Bisconti a Morgantina, in AA.VV., La Sicilia arcaica. Dalle apoikiai al 480 a.C., Caltanissetta 2009, pp. 129-131; S. Raffiotta, Terracotta Figurines from the Extramural Sanctuary
of Contrada San Francesco Bisconti at Morgantina, in CSIG News. Newsletter of the
Coroplastic Studies Interest Group, no. 5, Winter 2011, pp. 10-11.
75
ellenistica. L’inattesa confessione dell’aidonese Giuseppe
Mascara, “tombarolo pentito”, mise in moto una complessa attività investigativa immediatamente assurta a livello
internazionale, indirizzata a ricercare da qualche parte nel
mondo i reperti rubati. Grazie alla solerte collaborazione
dei Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Artistico, la
magistratura ennese venne presto a conoscenza della circostanza che le due statue, immesse nel mercato delle antichità senza provenienza subito dopo la scoperta, erano
arrivate in Svizzera per poi da qui pervenire in breve
tempo alla galleria londinese del noto mercante d’arte
Robin Symes.
A sua volta costui, responsabile, come si vedrà più
avanti, anche della vendita della “Venere” al J.P. Getty
Museum di Malibù, nel 1980 avrebbe venduto le due dee
al magnate americano Maurice Tempelsman.108 Nel 1986
le statue furono quindi esposte, in prestito temporaneo per
tre anni in attesa di formalizzarne l’acquisto, nelle vetrine
del Getty Museum: fu allora che vennero riconosciute da
uno studioso della missione archeologica americana a
Morgantina, il quale manifestò ufficialmente dei sospetti
circa la provenienza delle sculture dal sito siciliano. Il
cerchio stava per chiudersi.
L’avvio delle indagini del Tribunale ennese nel 1988
costrinse il Getty a rinunciare all’acquisizione delle due
statue, che l’Italia stava già ufficialmente rivendicando, e
a restituirle al Tempelsman. Dopo anni di trattative condotte dal Ministero dei Beni Culturali, che nel frattempo
aveva incaricato il Professore Clemente Marconi di analizzarle per valutarne l’autenticità,109 nel 2002 con
un’abile mossa Tempelsman le avrebbe date in dono al
108
Il personaggio era noto alle cronache mondane per essere il compagno di Jaqueline
Kennedy Onassis.
109
Il professor Marconi analizzò le due statue nel Marzo 2002 all’interno del caveau di una
banca di New York, appartenendo ancora i reperti alla collezione Tempelsman.
76
Bayly Art Museum dell’Università della Virginia, a patto
che lì rimanessero per cinque anni e che fosse celato il
nome del donatore. L’Università della Virginia, che dal
1955 opera a Morgantina con una missione archeologica,
accettò gli acroliti dietro autorizzazione del nostro Ministero con l’obiettivo di restituirli all’Italia nel 2007, allo
scadere dell’accordo col donatore.
Agli inizi del 2008, infatti, dopo un simposio scientifico organizzato dall’Università americana,110 le due dee
sarebbero rientrate definitivamente in Italia, presentate
per la prima volta in occasione di una breve tappa al Palazzo del Quirinale a Roma. Qui furono esposte in appendice alla mostra “Nostoi. Capolavori ritrovati”, per giungere infine a destinazione in Sicilia nel Dicembre 2009,
accolte anche qui da un convegno scientifico111 e da una
nuova sala appositamente allestita all’interno del Museo
Archeologico Regionale di Aidone.
A distanza di un anno dal rientro della coppia di sculture di età arcaica, nel Dicembre 2011 Morgantina ebbe
un nuovo momento di visibilità internazionale in occasione del rimpatrio del “tesoro di Eupòlemo”, raro esempio
di oreficeria greca ellenistica (IV-III secolo a.C.). Si tratta
di un set di sedici oggetti in argento con dorature verosimilmente ascrivibili alla sfera del sacro (ipotesi desumibile, oltre che dalla tipologia degli oggetti, dalla presenza di
dediche votive in lettere greche su alcuni di essi): due
grandi coppe ovoidi con i piedi conformati a maschere
teatrali; tre coppe dal fondo decorato da foglie a sbalzo;
una coppetta emisferica con decorazione a reticolo; una
tazza bi-ansata; una brocchetta; una phiale ombelicata con
decorazione a raggiera; una pisside con coperchio ornato
110
“The Goddesses Return. A Symposium Celebrating the Repatriation to Italy of Acrolithic Sculptures from Morgantina”, Auditorium of the Harrison Institute/Small Special Collections Library, University of Virginia, February 2, 2008.
111
“Gli acroliti da Morgantina”, Giornata di Studi, Auditorium Università Kore Enna, 12
Dicembre 2009.
77
a sbalzo dalla figura di una divinità femminile con cornucopia che tiene in braccio un bambino; una pisside con
coperchio decorato a sbalzo da una figura di erote con
fiaccola; un medaglione, probabilmente appartenente ad
una coppa come decorazione del tondo interno, raffigurante il mostro marino Scilla in atto di scagliare un masso; un altare cilindrico miniaturistico (fig. 4); un attingitoio; due corni bovini.
Gli argenti furono trafugati a Morgantina intorno al
1980 e immediatamente venduti in Svizzera dal mercante
d’arte americano Robert Hecht al Metropolitan Museum
of Art di New York. All’acquisto di un primo lotto nel
1981 seguì quello di un secondo gruppo di pezzi nel
1982, con un investimento complessivo di 2.742.000 dollari. A completare la collezione già del MET fu infine
l’acquisto, nel 1984, di una seconda pisside con figura di
erote a rilievo sul coperchio. Ad eccezione di questa pisside, il tesoro venne pubblicato nell’estate del 1984 sul
bollettino ufficiale del museo, indicandone genericamente
la provenienza dall’Italia meridionale con la precisazione
che il rinvenimento risaliva ad oltre un secolo prima.112
Dall’ufficializzazione di quell’importante acquisto scaturirono i primi sospetti sulla provenienza illecita degli argenti, ipotesi per la prima volta avanzata dallo studioso
Pier Giovanni Guzzo, che già nel 1986 si volle occupare
del tesoro.113
Come nel caso degli acroliti, l’attribuzione del tesoro a
Morgantina fu possibile nel 1988 a seguito della confessione del tombarolo Giuseppe Mascara, che nel corso di
un procedimento penale a suo carico al Tribunale di Enna
volle collaborare, raccontando del trafugamento dal sito
D. Von Bothmer, A Greek and Roman treasury, in “The Metropolitan Museum of Art
Bulletin”, Summer 1984, pp. 54-60.
113
P.G. Guzzo, Argenti a New York, in “Bollettino d’arte”, 121, 2002, pp. 1-46 (ivi bibliografia precedente).
112
78
degli acroliti e degli argenti. Alla conseguente legittima
richiesta, inoltrata dall’Italia, di fornire informazioni circa
la provenienza degli argenti, il Metropolitan Museum rispose che, prima di arrivare in Svizzera, essi erano appartenuti, sin dal lontano 1961, ad un antiquario di Beirut,
che a sua volta li aveva ricevuti in eredità dal padre. Fu
subito evidente la pretestuosità di quella risposta, oltretutto perché non supportata da alcun documento ufficiale;
tuttavia ciò all’epoca non venne ritenuto sufficiente dalle
nostre autorità per rivendicare la collezione come illegalmente scavata ed esportata dall’Italia.
Una svolta si ebbe nel 1997 quando la Soprintendenza
di Enna, su richiesta della magistratura ennese, avviò uno
scavo scientifico nel sito indicato dal “pentito” come luogo di rinvenimento del tesoro. Lo scavo, delegato al direttore della missione archeologica americana a Morgantina,
il Professore Malcolm Bell, mise alla luce in un quartiere
residenziale ad ovest dell’agorà ellenistica una casa del
IV secolo a. C., distrutta dai Romani alla fine della seconda guerra punica (211 a.C.) ed in più punti devastata
dai tombaroli. Le indagini archeologiche confermarono
l’attendibilità del “pentito”: due buche sul pavimento in
terra battuta della casa, intercettate e svuotate dai clandestini, sembravano poter avere custodito per secoli gli argenti, nascosti in antico in un momento di pericolo, verosimilmente durante l’assedio dei Romani del 211 a.C. A
conferma del passaggio dei clandestini si rinvenne anche
una moneta da cento lire coniata nel 1978, terminus post
quem per datare grossomodo il loro intervento.
Nel frattempo nel 1999 lo stesso Professore Bell fu finalmente autorizzato dal MET ad esaminare di persona i
reperti, accorgendosi che su alcuni dei pezzi compariva
iscritto il nome greco di Eupolemo. Un nome già noto a
Morgantina, perché presente su una laminetta in piombo
di età ellenistica qui rinvenuta su cui era stato inciso un
79
contratto di compravendita di una casa e di un vigneto, tra
i cui testimoni vi era tale “Teodoro figlio di Eupolemo”.
Nonostante il Metropolitan Museum continuasse ad insistere sulla provenienza libanese del tesoro, senza però
dimostrarla, l’iscrizione forniva un ulteriore fondamentale
indizio a favore della provenienza degli argenti da Morgantina.
A dispetto delle tante prove raccolte, tuttavia, il nostro
governo non si decise a fare causa al MET né, d’altra parte, i dirigenti del museo americano si convinsero per una
restituzione spontanea, mostrando anzi una resistenza durissima. Il momento risolutivo arrivò nel fatidico anno
2005, quando al Tribunale di Roma fu aperto il processo a
carico di Robert Hecht, il trafficante americano di opere
d’arte responsabile della vendita degli argenti al MET,
indicato insieme a Marion True come al vertice di
un’organizzazione criminale internazionale che aveva
razziato reperti provenienti da scavi illeciti in Italia. Nelle
more del processo l’allora direttore del MET, Philippe De
Montebello, si dichiarò disponibile ad una trattativa per
restituire immediatamente ciò che risultava provenire
dall’Italia.
Fu così che nel Febbraio 2006 il MET e il nostro Ministero per i Beni Culturali, allora rappresentato dall’On.
Buttiglione, siglarono l’accordo per la restituzione
all’Italia nel 2010 degli argenti da Morgantina, insieme ad
altri reperti illecitamente acquisiti. L’accordo, che prevedeva scambi e prestiti di opere d’arte tra i due Stati, fu
onorato ed il tesoro di Eupòlemo restituito all’Italia, esposto per la prima volta il 19 Marzo 2010 al Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo. Di lì a poco sarebbe
rientrato definitivamente in Sicilia, presentato al pubblico
il 4 Giugno 2010 a Palermo, in occasione della riapertura
del Museo Archeologico Regionale “A. Salinas” e, infine,
80
il 3 dicembre 2010 al Museo Archeologico Regionale di
Morgantina.
Purtroppo oggi gli argenti di Morgantina si trovano di
nuovo al Metropolitan Museum, dove resteranno fino al
2019 nel rispetto di un’assurda clausola prevista
dall’accordo di restituzione, secondo cui ogni quattro anni
e per un lungo periodo di quarant’anni, a dispetto della
fragilità e dell’unicità dei pezzi,114 il tesoro di Eupolemo
debba fare la spola tra il Museo Regionale di Aidone e
l’America. E questo è un problema serio, che ci auguriamo si possa risolvere a breve facendo in modo che il
prossimo rientro in Italia degli argenti nel 2019 sia definitivo.
Ultimo rimpatrio in ordine di tempo è stato nel 2011
quello della “Venere di Malibù” (fig. 5), il cui recupero e
la ricontestualizzazione rappresentano un grande successo
del nostro Paese nella lotta al traffico illecito di reperti
archeologici, segnando un punto di svolta irreversibile
nella politica degli acquisti dei musei stranieri. La scoperta della colossale statua di divinità femminile, dal corpo
di tenera pietra calcarea e la testa e gli arti di fine marmo
greco insulare, è ancora avvolta nel mistero così come il
suo trasferimento in Svizzera, dove apparve nel 1986 nelle mani di un tabaccaio di Lugano, Renzo Canavesi. Fu
lui a venderla per 400.000 dollari al londinese Robin
Symes, il famoso mercante d’arte che nel 1980 aveva già
venduto gli acroliti di Morgantina a Tempelsman. Trasferita la statua nel suo negozio d’antiquariato a Londra,
Symes tentò a lungo di collocarla presso le più note gallerie d'arte americane. Decise anche di offrirla al J. Paul
Getty Museum di Malibù che, interessato alla proposta,
114
Le delicatezza dello stato di conservazione degli argenti è stata ribadita da una campagna di analisi diagnostiche eseguite al museo di Aidone nell’estate 2014 per conto
dell’Assessorato Regionale per i Beni Culturali ed ufficializzata in occasione di un convegno nello stesso museo nell’Ottobre 2014, poco prima della partenza del tesoro.
81
acquisì la statua in prestito per sottoporla a perizia nel
1987, alla fine giudicandola autentica probabilmente anche per le abbondanti tracce di terra e radici ancora presenti tra le pieghe del panneggio. L’acquisto fu perfezionato il 25 Luglio 1988, dopo che al museo fu inspiegabilmente garantito dal nostro Ministero dei Beni Culturali
che il reperto non risultava trafugato dall'Italia. Esposta
infine nelle sale del Getty dopo un accurato restauro, attribuita ad ignoto artista greco della fine del V secolo
a.C., la statua fu identificata come un'Afrodite.115
Come già brevemente anticipato, le indagini di Polizia
di Stato e Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Artistico, coordinate dall'Ufficio Istruzione del Tribunale di
Enna, presero le mosse nello stesso mese di Luglio 1988
dalla rivelazione di Thomas Hoving, l’ex direttore del
Metropolitan Museum di New York divenuto nel tempo
accusatore di tutti i grandi musei stranieri nel loro approccio al mercato dell’arte antica. Hoving dichiarò pubblicamente di essere a conoscenza del fatto che la colossale statua da poco acquisita dal Getty proveniva da scavo
abusivo a Morgantina. Le indagini del Tribunale di Enna
s’indirizzarono a quel punto sul campo scientifico: fu
chiesto al nostro Ministero di effettuare analisi petrografiche sul corpo della statua, per verificare la provenienza
siciliana del materiale lapideo. Era l’unica strada da percorrere, tanto più che al museo di Aidone, che custodiva i
reperti di Morgantina, esisteva una statua femminile di
una pietra all’apparenza simile a quella della “Venere”,
che sarebbe potuta essere utile per una comparazione.
L’accertamento, affidato al geologo Rosario Alaimo
dell’Università di Palermo, fu compiuto nel 1997 ed il
verdetto fu inequivocabile: il corpo della dea era stato
115
Sul clamore suscitato all’epoca da questo acquisto si veda: J. Felch, R. Frammolino,
Chasing Aphrodite. The hunt for looted antiquities at the world’s richest museum, BostonNew York 2011.
82
realizzato con un tipo di pietra originaria della “formazione Ragusa” dell’altipiano degli Iblei, nella Sicilia sudorientale, ed era lo stesso identico materiale della statua
femminile custodita al museo di Aidone.
Pur non contestando l’esito del responso tecnico, il
Getty si ostinava a trincerarsi dietro la dichiarazione dello
pseudo-collezionista svizzero Renzo Canavesi, il quale
aveva garantito al museo di averla ricevuta in eredità dal
padre. Ufficialmente interrogato nel 1998 dal Procuratore
della Repubblica di Enna, Canavesi non volle dire nulla
su come e quando fosse venuto in possesso del reperto e
perché l’avesse custodito per cinquant’anni senza mai
mostrarlo a nessuno.
Come per il tesoro di Eupolemo, la svolta decisiva nella vicenda della dea avvenne nel 2005, come diretta conseguenza delle indagini della Procura della Repubblica di
Roma che misero a nudo il sistema con cui per anni avevano operato quasi tutti i grandi musei americani, compresi il Getty e il Metropolitan. La gran parte delle loro
collezioni di arte greco-romana si erano formate per il
tramite di spregiudicati trafficanti, che agivano in combutta con ricettatori italiani stabilmente residenti in Svizzera. La statua della dea di Morgantina rientrava in quel
sistema, così come gli altri importanti reperti trafugati dal
sito, cioè gli acroliti del Tempelsman e gli argenti del Metropolitan Museum di New York. La pressione
dell’imminente processo a Roma e dell’opinione pubblica
fecero il resto, costringendo i direttori dei musei incriminati a venire a patti con il nostro governo per la restituzione di quanto risultasse provenire dall’Italia. Fu così
che il 25 settembre 2007 Michael Brand per il Getty firmò la resa per la statua, promettendone la restituzione per
la fine del 2010. E così nel Maggio 2011 Morgantina poté
riappropriarsi della sua dea, per sempre restituita a quel
83
contesto culturale e storico-artistico che l’aveva generata
nel V secolo a.C.
Chiusa la rassegna dei “vecchi” recuperi, focalizziamo
infine l’attenzione sulla storia a lieto fine della testa di
Ade, autentico capolavoro della coroplastica siceliota.116
La testa fu acquisita dal J.P. Getty Museum nel 1985, acquistata con un investimento di ben 530.000 dollari dal
collezionista americano Maurice Tempelsman, nelle cui
mani era pervenuta per il tramite di Robin Symes probabilmente intorno al 1980 contestualmente agli acroliti,
trafugata dallo stesso santuario in contrada San Francesco
Bisconti.117 Una volta entrata a far parte della pregevolissima collezione di antichità del museo californiano, la testa trovò subito posto alla Getty Villa di Malibù, etichettata per via della folta barba azzurra come “Head of a
God, probably Zeus”. Di autore ignoto e datata al 325
a.C. circa, quanto alla provenienza fu indicato genericamente “Greek, South Italy”.
Per più di un ventennio, dall’acquisizione nel 1985 al
2010, anno in cui, a quanto pare, è stato ritirato dall’esposizione per procedere alle verifiche sulla provenienza, il
prezioso reperto si è lasciato ammirare da migliaia di persone incantate non soltanto dall’alto livello artistico
dell’opera ma soprattutto dalla peculiarità che la rende
116
Alla testa di Ade chi scrive ha già dedicato diversi articoli a stampa, sia a carattere divulgativo che scientifico. Si veda: S. Raffiotta, Testa di Ade torna a Morgantina, in Archeologia Viva, Anno XXXII, n. 159, Maggio-Giugno 2013, p. 7; S. Raffiotta, Morgantina, un ricciolo azzurro e l’ennesimo trafugamento, in Pergusa più, Anno III, n. 1, LuglioDicembre 2013, pp. 12-14; S. Raffiotta, Una divinità maschile per Morgantina, in CSIG
News. Newsletter of the Coroplastic Studies Interest Group, no. 11, Winter 2014, pp. 2326. Un primo tentative di ricostruzione del trafugamento e recupero si legge anche in S.
Raffiotta, Caccia ai tesori di Morgantina, Caltanissetta 2013², pp. 167-189.
117
Una testa di divinità barbuta del 325 a.C., evidentemente l’Ade da Morgantina, faceva
parte di un cospicuo lotto di reperti venduti al Getty Museum dal Tempelsman. Così si
legge in F. Isman, I predatori dell’arte perduta. Il saccheggio dell’archeologia in Italia,
Milano 2009, p. 82. Anche in questo libro, di fondamentale importanza per il tema di nostro interesse, al saccheggio di Morgantina è dedicato ampio spazio. Non possiamo escludere che le due dee arcaiche siano state trafugate nello stesso periodo della testa di Ade
dallo stesso identico luogo.
84
davvero eccezionale: le abbondanti tracce dell’originaria
policromia presenti sulla barba, dipinta di un vivace azzurro, sui folti capelli ricci, colorati di bruno-rossastro
(fig. 6), e su viso e labbra, dipinti di un rosa appena percepibile a occhio nudo.
Proprio per questa singolarità, che indubbiamente accresce il pregio del reperto, nel 2008 la testa fu scelta tra
migliaia di reperti della collezione del museo per prender
parte a un’importante mostra intitolata “The color of life”,118 organizzata alla Getty Villa per raccontare il fondamentale ruolo, talvolta dimenticato, a volte sconosciuto, del colore nella scultura dall’antichità ai nostri giorni.
In quell’occasione i conservatori del Getty condussero
specifiche analisi sulle vistose tracce di policromia del
reperto, classificando come ematite naturale il pigmento
bruno-rossastro dei capelli e come blu egiziano il colore
sulla barba.119
Il caso volle che l’archeologa siciliana Lucia Ferruzza,
già Graduate Intern del Getty nell’anno accademico 19851986, fosse stata incaricata di catalogare le terrecotte figurate di produzione magno-greca e siceliota nella collezione di antichità del museo, in vista di una pubblicazione
tematica oggi prossima alle stampe.120 Un lavoro lungo e
complesso, che richiedeva approfondite conoscenze ed
esigeva puntuali confronti. Per questo motivo la studiosa
ebbe a consultare con una certa attenzione la pubblicazione a nostra firma dedicata alle terrecotte figurate prove118
R. Panzanelli, E. D. Schmidt, K. Lapatin (a cura di), The Color of Life : Polychromy in
Sculpture from Antiquity to the Present, Los Angeles, J. Paul Getty Museum, The Getty
Research Institute, 2008.
119
Sul tema della policromia nell’arte antica con riferimento a Morgantina e, quindi, alla
testa di Ade si legga il seguente contributo: S. Raffiotta, Morgantina a colori. Testimonianze archeologiche policrome dal centro della Sicilia, in M. Rossi-V. Marchiafava (a
cura di), Colore e colorimetria. Contributi multidisciplinari, Vol. X A, Atti del Convegno
Internazionale di studi, Genova 11-12 Settembre 2014, Genova 2014, pp. 599-610.
120
M. L. Ferruzza, Ancient Terracottas from South Italy and Sicily in the J. Paul Getty
Museum, in corso di pubblicazione.
85
nienti da San Francesco Bisconti,121 sede di quel grande
santuario extra-urbano consacrato alle divinità ctonie ripetutamente saccheggiato dai tombaroli negli anni Settanta, già noto come sito di provenienza degli acroliti arcaici.
Agli occhi dell’archeologa, che aveva già accuratamente
esaminato la testa Getty dalla singolare barba azzurra,
non sfuggì tra le pagine del nostro libro la foto un piccolo
ricciolo spiraliforme dipinto di un vivido azzurro, recuperato nel 1978 dai custodi tra i reperti abbandonati in frantumi sul terreno dagli scavatori clandestini. La studiosa
non poté fare a meno di comparare il ricciolo con la testa
in possesso del Getty, immediatamente sospettando della
provenienza del reperto da Morgantina e, quindi, di un
acquisto illecito da parte del museo.
Erano gli anni della rivendicazione da parte dell’Italia
della statua della dea, a quel tempo ancora in possesso del
Getty, e la controversia non era stata del tutto definita a
favore del rientro della scultura in Italia. Di conseguenza
per un paio d’anni tutto rimase fermo, in attesa che la
“Venere” fosse rimpatriata. Qualcosa di nuovo sarebbe
accaduto subito dopo la restituzione della dea all’Italia,
determinando probabilmente un’accelerazione nella decisione della restituzione dello straordinario reperto da parte del Getty. Durante la sistemazione di un nuovo magazzino nel museo di Aidone nell’estate 2011 si recuperarono per caso, ben custoditi tra altri materiali di provenienza sporadica rinvenuti a Morgantina, tre riccioli spiraliformi, due dei quali dipinti di azzurro, uno di colore rossastro. Fu subito chiaro e inequivocabile che anch’essi,
casualmente recuperati nel 1988, ben dieci anni dopo il
recupero del primo ricciolo nel 1978, nell’area del santuario di San Francesco Bisconti nella terra sconvolta dai
121
S. Raffiotta, op. cit.
86
tombaroli, appartenevano alla testa maschile sospetta in
possesso del Getty.
Non conosciamo quali tappe ufficiali siano seguite alla
“ri-scoperta” dei tre nuovi riccioli, che andavano ad aggiungersi al primo, da noi edito, grazie al quale era già
stato possibile anni prima presumere l’attribuzione della
testa di Ade a Morgantina. Sappiamo solo che dopo
l’annuncio della restituzione “volontaria” da parte del
museo californiano nel gennaio 2013, derivante proprio
dalla comparazione tra i riccioli al museo di Aidone e la
testa al Getty, il dio degli Inferi aveva finalmente un contesto culturale e storico di riferimento, quella grande e
fiorente città greca nel cuore della Sicilia i cui abitanti furono sempre profondamente devoti agli dei ctoni.
Tra aprile 2013 e gennaio 2014, in occasione della
straordinaria mostra “Sicily. Art and Invention between
Greece and Rome”122 organizzata dal J. Paul Getty Museum e dal Cleveland Museum of Art in collaborazione
con la Regione Siciliana, quasi riemergendo simbolicamente dal buio infero in cui la clandestinità l’aveva costretta per anni, la testa di Ade è finalmente tornata a farsi
ammirare, questa volta però con un valore aggiunto, la
possibilità, anzi piuttosto la pretesa di raccontare la reale
storia di un luogo pieno di fascino quale è Morgantina. E
Morgantina adesso attende trepidante il ritorno del dio
degli Inferi, che possa ricongiungersi con le sue dee a
completare il variegato quadro di una vita religiosa fatta
di piccoli gesti rituali e di semplici doni al cospetto di
quei potenti e venerandi simulacri di divinità, oggi per noi
enigmatiche ma straordinarie opere d’arte.
122
C. Lyons, M. Bennet, C. Marconi (a cura di), Sicily. Art and Invention between Greece
and Rome, Los Angeles, J. Paul Getty Museum, 2013.
87
Fig. 1 (in alto): Morgantina, Aidone, Enna. Veduta dell’agorà ellenistica, IV-III sec. a.C. Fig. 2
(in basso): Museo Regionale di Aidone, coppia di statue acrolitiche di età greca arcaica, VI sec.
a.C.
88
Fig. 3 (a sinistra): Coppa in argento dorato con medaglione decorato a rilievo, IV-III secolo a.C.,
appartenenti al tesoro di Eupolemo. Fondo del Museo Regionale di Aidone, attualmente in esposizione
al MET di New York. Fig. 4 (a destra): Altare miniaturistico in argento dorato (IV-III secolo a.C.),
appartenente al tesoro di Eupolemo. Fondo del Museo Regionale di Aidone, attualmente in esposizione
al MET di New York.
89
Fig. 5 (in alto): Museo Regionale di Aidone. Statua di divinità femminile, V secolo a.C. Fig. 6 (in basso):
Testa fittile (fronte e retro) di divinità maschile, probabilmente Ade, IV secolo a.C., attribuita a
Morgantina, in corso di restituzione all’Italia dal J.P. Getty Museum di Malibù.
90
Abstract
Serena Raffiotta, Il ritorno del dio degli inferi a Morgantina
Con un comunicato stampa sulle pagine del Los Angeles
Times, il 10 Gennaio 2013 il J. Paul Getty Museum annunciava ufficialmente al mondo la restituzione “volontaria” alla Sicilia di una testa di terracotta di dimensioni
pari al vero di età ellenistica raffigurante una divinità
barbuta, probabilmente il dio greco degli Inferi Ade.
La restituzione, tutt’altro che “volontaria”, non è stata
altro che l’esito di recenti accurate indagini congiunte
tra il museo americano e l’Assessorato Regionale ai Beni
Culturali siciliano, testimoniando la nuova politica avviata dal Getty dopo le note vicende di cronaca legate al
processo romano del 2005.
La testa, nella collezione del museo californiano dal
1985, era stata trafugata alla fine degli anni Settanta dal
monumentale sito archeologico di Morgantina, nel cuore
della Sicilia, area tra le più danneggiate dal traffico illecito di reperti archeologici e da tempo ormai alla ribalta
della cronaca internazionale soprattutto per le vicende
legate al trafugamento e alla restituzione all’Italia da
parte del J.Paul Getty Museum della colossale statua della cosiddetta “Venere”.
Grazie ad una pubblicazione scientifica a cura della scrivente edita nel 2007 e ad ulteriori indizi recuperati più di
recente al Museo Archeologico di Aidone è stato possibile attribuire il pregevolissimo reperto a Morgantina e
avanzarne richiesta formale di restituzione al Getty Museum, che verificata la legittimità della richiesta ha immediatamente risposto favorevolmente disponendo la restituzione “volontaria” della testa.
91
Emanuela Canghiari
“Un mendicante su una panca dorata”:
il patrimonio archeologico peruviano tra saccheggio,
commercializzazione e messa in valore
“El Perú es un mendigo sentado en un banco de oro”.
Questa frase, attribuita al ricercatore italiano Antonio
Raimondi (1826-1890)123 (fig.1), è talvolta utilizzata in
Perù per biasimare la difficoltà delle istituzioni e dei cittadini a valorizzare il patrimonio (archeologico, naturalistico) nazionale. L’immagine rimanda, infatti, a una ricchezza -evidente, brillante e imponente - che il peruviano
non solo non riesce a mettere in valore ma che non sembra nemmeno vedere, adagiandovisi sopra. Il fatto che
poi si tratti di un mendicante non fa che enfatizzare una
sorta di lassitudine e mancanza d’iniziativa.
Più che sulla sottovalutazione del patrimonio archeologico, il problema verte sulla mancanza di politiche sociali efficaci, che sappiano coinvolgere le comunità interessate da scavi e mostrino l’interesse collettivo di un investimento sul lungo termine. La patrimonializzazione
s’impone oggigiorno come uno strumento politico e una
risorsa economica imprescindibile, e rappresenta la possibilità, per le popolazioni ai margini dei centri di potere,
d’inserirsi nella scena nazionale e internazionale.
123
In realtà questa frase non compare in nessuna delle opere di Raimondi, elemento che fa
propendere per una sua origine popolare.
92
L’obiettivo del presente articolo è condividere, su
questa piattaforma pluridisciplinare, una parte delle riflessioni e dei risultati di vari anni di ricerca etnografica
sul mercato nero dell’arte in Perù.124 L’articolo si divide
in tre parti: in un primo momento, vedremo brevemente
che le pratiche illegali presuppongono e veicolano un discorso morale che mira a legittimarle. In un secondo
momento, presenteremo i caratteri principali del mercato
nero dell’arte in Perù e, per finire, mostreremo uno studio
di caso della costa nord del Perù. Al di là delle sue specificità, l’esempio di Sipan-Huaca Rajada (fig. 2) ci permette di restituire tutte le ambiguità e complessità della
questione patrimoniale.
Analizzare il mercato nero dell’arte con un approccio
antropologico permette di fare luce su alcuni aspetti talvolta trascurati. In particolar modo, il nostro sguardo si
focalizza sulla trama di relazioni che compongono il circuito illegale, così come sulle strategie e le “pratiche locali d’appropriazione” del patrimonio.125
Del traffico di opere d’arte, quindi, non ci interessa
tanto l’economia tout court, quanto l’“economia morale”,
in base alla definizione dell’antropologo Didier Fassin,
ovvero “la produzione, ripartizione, circolazione e utilizzo delle emozioni e dei valori, delle norme e degli obblighi nello spazio sociale”.126 Ci interroghiamo, quindi, su
come gli attori sociali si appropriano - o rifiutano e contestano - le rappresentazioni intorno al patrimonio archeologico.
124
La ricerca è stata svolta in un primo tempo (2004-2007) nell’ambito del progetto archeologico e antropologico “Antonio Raimondi” (Università di Bologna, Ministero degli
Esteri, Museo del Castello Sforzesco di Milano) e, in un secondo tempo (2007-2010), come missione di ricerca per l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences sociales (EHESS) di
Parigi.
125
D. Fabre, A. Iuso, Les monuments sont habités, Paris, Maison des sciences de l’homme,
coll. « Ethnologie de la France», 2009, n° 24, p. 26.
126
D. Fassin, J-S. Eideliman (a cura di), Économies morales contemporaines, Parigi 2012,
p. 12.
93
Il saccheggio delle tombe non è soltanto un’attività illegale, punita in Perù con la reclusione e una multa,127 ma
anche moralmente controversa. In primo luogo, lo scavo
clandestino è un atto di estremo sacrilegio. Profanare
(huaquear in Perù)128 significa violare il carattere sacro di
uno spazio: il sacrilegio non consiste nel mero fatto di
avervi accesso, ma nel farlo senza rispettare le norme rituali condivise e imposte dalla comunità. Va precisato,
così come analizzato più nel dettaglio altrove,129 che in
alcune comunità andine e della costa, il huaquero130 viejo
è considerato un “archeologo empirico”, nonché un intermediario tra la comunità e gli antenati, in alcune occasioni rituali o in momenti critici dell’anno. Illuminante, a
questo riguardo, è il dialogo con il sindaco di una comunità andina della sierra di Ancash (fig. 3). Quando gli
chiesi discretamente se nel suo comune vi fossero “aficionados de las huacas”, mi rispose senza esitazioni:
“Huaqueros? Purtroppo non ne abbiamo!”, poiché, continuò “sarebbe bello poter aver qualche esperto che sia capace di trovare la ceramica”. Don Fidel sognava di creare
un piccolo museo locale per poter attirare l’interesse dei
turisti nel suo villaggio che, altrimenti, rimaneva escluso
dai circuiti più classici.131
Il rapporto tra la persona che s’avvicina ai complessi
funerari preispanici e gli antenati che vi sono sepolti è
127
Si veda, in particolare: legge 28296 (2004); decreto «Legge generale sul patrimonio
culturale della nazione» (2006); Codice Penale, Titolo VIII (1991).
128
La parola huaquear deriva da huaca, vocabolo quechua che indica i luoghi sacri.
129
Canghiari, Emanuela, 2007, I rischi dell’identità. Percorsi identitari in un gruppo di
huaqueros et cacciatori della sierra de Ancash, in Thule, Actas del XXVIII Congreso Internacional de Americanística, Maggio 2007, Perugia.
130
Huaquero è il termine per definire il saccheggiatore di tombe in Perù e, per estensione,
in altri stati d’America latina.
131
E. Canghiari, ¿Huaqueros? Lamentablemente no tenemos”: legitimación y reivindicación en el saqueo de tumbas prehispánicas, in S. Venturoli, (a cura di), Espacios,
Tradiciones y cambios en la Provincia de Huari. Ecos desde la Escuela de etnografía del
Proyecto “Antonio Raimondi”, Ancash Perú, Progetto “Antonio Raimondi”, Alma Mater
Studiorum Bologna Editore, Bologna 2012, pp. 36-65.
94
retto principalmente dal principio della reciprocità, un
concetto ampiamente indagato nella letteratura antropologica andina.132 In parole semplici, per ricevere una ricchezza dall’antenato (tesori preispanici, così come minerali o vegetali), bisogna lasciare qualcosa in cambio.
Questo scambio è regolato da un preciso, nondimeno
flessibile e personalizzabile, apparato rituale fatto di gesti, offerte e orazioni.
Il mancato rispetto di questi principi può portare danni
comunitari (catastrofi naturali) o individuali (malattie e
persino la morte). Nella regione andina e costiera del Perù abbiamo registrato la presenza di una serie di patologie
legate, nell’immaginario collettivo, alla profanazione delle tombe. Nella sierra di Ancash, per esempio, si dice che
“l’antenato sputa” contro il saccheggiatore o qualsiasi
persona che si avvicini senza seguire il minuzioso rituale
sancito dalla comunità.133 Altre volte si dice che la huaca
“si è portata via” lo spirito della persona (se lo ha llevado), poiché uno degli effetti è proprio una sorta di perdizione, chiamato malcampo e simile al susto (spavento).134
Assieme a sostanze organiche e allergeni, il principale
responsabile di questi problemi di salute è spesso il monossido di carbonio che s’inala aprendo le grosse lastre di
pietra che chiudono le tombe preispaniche a pozzo.135
Nella costa, invece, si dice che la huaca “tappa” o “mangia”. Le huacas, qui, sono grandi piramidi di adobe dis132
G. Alberti, E. Mayer, Reciprocidad e intercambio en los Andes peruanos, Instituto de
Estudios Peruanos, Lima 1974; J. Murra, Formazioni economiche e politiche nel mondo
andino, Torino 1980 [1972]; B.J. Isbell, To defend ourselves. Ecology and ritual in an
Andean village, Austin 1978.
133
E. Canghiari, La huaquería come frequentazione rituale del territorio, in Thule, Actas
del XXVII Congreso Internacional de Americanística, Maggio 2006, Perugia 2006.
134
Per un’analisi del susto rimando a F. Sal y Rosas, El mito del jani o susto de la medicina
indígena del Perú, in Revista Psiquiátrica Peruana, 1951, num. 1, 1, pp. 103-132.
135
È per questo che spesso gli huaqueros viejos (sono chiamati così i saccheggiatori di
vecchia generazione che seguivano tecniche e rituali oggigiorno persi) andavano a cercare
tesori accompagnati da un animale di piccola taglia (un cane o un porcellino d’india), che,
respirando per primo il gas tossico, moriva sulla tomba ed era poi lasciato lì come
un’offerta, come un pegno preso dall’antenato in segno di reciprocità.
95
seminate nel deserto: in molti sono rimasti vittime dei
tunnel scavati per loro stessa mano.
Accanto alle malattie, come ulteriore effetto della rottura di una sopposta legge morale, troviamo la cosiddetta
“maledizione degli huaqueros”136. “Nessun huaquero diventa ricco” affermano varie persone intervistate nella
costa nord del Perù. Il ricavato della vendita illegale di
oggetti archeologici “non resta”. Si dice sia “un denaro
che finisce subito”, che “se ne va”. “Con il denaro della
huaca, nessun huaquero si è mai arricchito”. I protagonisti delle succes stories legate all’archeo-traffico possono
essere dei collezionisti o degli intermediari, molto raramente dei saccheggiatori. Questa visione è confermata
dalle biografie che ho potuto ricostruire durante le missioni etnografiche in Perù. Sono innumerevoli i racconti
popolari che narrano delle (dis)avventure dei saccheggiatori. In molti casi che ho potuto analizzare, gli huaqueros
riconoscono d’aver dissipato il denaro ricavato dal traffico in alcol o in occasioni mondane viziose. Altri l’hanno
nascosto e mai più ritrovato. Altri ancora l’hanno investito in negozi, moto-taxi, case o automobili... eppure il finale resta sempre drammatico o tragicomico.
Un discorso morale dominante è presente anche tra i
collezionisti: è legittimo esumare una ceramica dalle
tombe, per quanto con metodi non scientifici, perché si
tratta di una ricchezza che va messa in valore. Non solo,
bisogna farlo prima che qualche archeologo straniero (forastero) lo faccia prima di un “locale” e porti questa ricchezza lontano. Nelle parole di un giurista peruviano
dell’inizio del XIX secolo questo concetto recitava così:
“il tesoro occulto non favorisce nessuno, la sua scoperta è
un beneficio per tutta la società, perché contribuisce ad
136
Arthur Conan Doyle, celebre creatore dell’investigatore Sherlock Holmes, è stato tra i
primi ad aver diffuso in ambito letterario il mito della maledizione, ripreso poi da altri
autori tra cui Agatha Christie con “La maledizione del faraone”.
96
aumentare la ricchezza pubblica e il commercio e, con
ciò, tutte le arti e i mestieri”.137 Due secoli dopo, Enrico
Poli, un collezionista di Lima coinvolto in scandali legati
all’acquisto di reperti (legalmente inattaccabile), sosteneva: “Il Perù dovrebbe ringraziare il sig. Poli! Dove sarebbero tutti questi oggetti se non me ne fossi occupato io?
In Francia? Negli Stati Uniti? Quando compro un reperto
agli huaqueros, non faccio altro che dare da mangiare al
povero contadino, e allo stesso tempo aiuto lo stato peruviano a proteggere il proprio patrimonio molto meglio di
quanto lui stesso non riesca a fare da solo!” (Lima, comunicazione personale, 2010).
Il traffico d’arte è uno dei commerci illeciti più vasti
su scala mondiale, secondo solo a quello della droga e
delle armi. In questo mercato, le cui somme in gioco
oscillano tra i 6 e i 15 miliardi di Euro all’anno, il Perù si
definisce come una delle source nations138 più ricche e
ricercate.
Distinguiamo due tipi di circuito illegale, il primo definito “occasionale” e l’altro “organizzato”. Il circuito
“occasionale” è costituito da saccheggiatori che operano
in modo isolato o con l’appoggio di piccole bande. Gli
intermediari sono soprattutto dei membri della famiglia
che si sono trasferiti nella capitale o in capoluoghi di
provincia, oppure professionisti di passaggio o turisti alla
ricerca dell’“autenticità perduta”.139
Molti reperti sono conservati nelle abitazioni degli
huaqueros. Come abbiamo potuto osservare, alcuni sono
137
In Zevallos Quinones Jorge, 10994, Huacas y huaqueros en Trujillo durante el virreinato (1535-1835), Trujillo (Perú), Editoras Normas Legales.
138
Le nazioni coinvolte nel marcato internazionale delle antichità sono convenzionalmente
divise in source nations (ovvero le nazioni d’origine degli artefatti) e purchaser nations
(quelle nazioni che acquistano e collezionano). Questa distinzione è tuttavia grossolana e
semplicista.
139
2013, Hemorragia del Patrimonio y coagulación: en busca de la autenticidad perdida,
in H. Salas, M.C. Serra Puche, I. González de la Fuente (a cura di), Identidad y Patrimonio
cultural en América Latina. La diversidad en el mundo globalizado, Instituto de
Investigaciones Antropológicas, UNAM, Mexique, pp. 129- 149.
97
esposti su mensole o ai muri come trofei, altri addirittura
dipinti dai bambini e altri ancora assumono gli usi più disparati (ferma-finestra, vasi per fiori).140 Alcune ceramiche, tuttavia, ricevono un trattamento diverso dalle altre.
Ciò è dovuto a un maggior valore “economico” della pièce in sé (l’antichità, la provenienza, la civilizzazione che
rappresenta) e anche a un valore “simbolico” (il momento
particolare in cui è stata scoperta, la relazione al luogo di
ritrovamento, la persona che l’ha regalata). Alcuni huaqueros che ho conosciuto sostengono di voler custodire la
ceramica in casa perché lo scavo per loro è espressione di
una passione e di conoscenze acquisite nel tempo. Questa
passione è destinata a restare empirica e amatoriale, poiché l’accesso a studi superiori e universitari è spesso utopico. Molti di loro anelano alla creazione di un museo
privato, ispirandosi alle storie, per quanto controverse, di
alcuni collezionisti privati tra cui il celebre Enrico Poli
che abbiamo già citato.141 Pablo142 di Huari (Ancash), per
esempio, mi confidò di voler raggiungere una quota di
300 oggetti per poi chiedere una licenza allo Stato e aprire una propria casa-museo. A questo scopo, preservava le
ceramiche in casse diverse in base allo stile e di ogni pezzo ne riportava il sito di provenienza e la data di scoperta,
per non perdere informazioni importanti. Ovviamente, gli
specialisti sanno bene che, una volta sottratta al suo contesto, un’opera d’arte rimane muta e mutilata.
La volontà di creare un proprio museo è un discorso
strategico e auto-giustificatorio nei confronti della propria comunità e delle istituzioni, per costruirsi una legit140
E. Canghiari, Viajes de ultratumba: algunas etapas en la vida de la cerámica
prehispánica, en “Thule, revue italienne d'études amérindiennes”, num. 30/31, 2011, avriloctobre 2010-2011, C. Orsini, S. Venturoli (a cura di), Centro Studi Americanistici
“Circolo Amerindiano” Onlus, Perugia, 2011, pp. 393-412.
141
Definito da alcuni “il più ricco huaquero del Perù”, Enrico Poli ha formato nel tempo
una collezione di opere d’arte che spaziano da reperti preispanici all’arte coloniale, esposti
nella sua casa-museo nel quartiere di Miraflores.
142
Per motivi etici, i nomi degli huaqueros usati in questo articolo sono degli pseudonimi.
98
timità morale e sociale, ed evitare, così, di incorrere in
rondas143 di difesa dei siti. Di fatto, come ho potuto osservare, il proprietario è disposto a negoziare e vendere
pezzi della sua collezione alla prima buona occasione.
Definiamo questo tipo di circuito “occasionale”, perché si basa su legami fortuiti o familiari. Effettivamente
questo tipo di commercio avviene in zone in cui il turismo è meno sviluppato e in cui i progetti archeologici sono sporadici e poco impegnati con le comunità territoriali. Il passaggio di stranieri o l’arrivo di un parente che vive a Lima può costituire un’occasione per vendere (barattare o regalare) alcuni vasi e statuine. Considero parte di
questo circuito “occasionale” i venditori di ceramiche che
si trovano in alcuni quartieri di Lima, soprattutto davanti
ai grandi mercados indios de La Marina. Alcuni venditori
sostano nella stretta striscia di strada tra i magazzini e la
strada polverosa in cui si rincorrono i combi (minibus
collettivi). Propongono repliche ai turisti, ma in un secondo momento confidano di nascondere delle opere autentiche o di poterle far pervenire. Spesso, in realtà, si
tratta di contraffazioni, ovvero repliche vendute al prezzo
di un’originale, difficili da smascherare per l’occhio inesperto di un turista.
L’altro tipo di circuito è quello che abbiamo definito
“organizzato”, proprio in opposizione a quello occasionale, poiché si basa su una rete di rapporti sistematici e prestabiliti, su scala nazionale e internazionale. La posta in
gioco, il valore dei reperti, il giro d’affari e lo statuto delle persone coinvolte, è molto più elevata ed è quindi molto difficile potervi penetrare e analizzarlo da vicino. Eli143
Ho potuto osservare alcune rondas di contadini nella sierra di Ancash, nell’atto di proteggere l’accesso ad alcune huacas. La motivazione di questa iniziativa era più dovuta alla
tradizione che lega la profanazione a disequilibri naturali che non alla consapevolezza
dell’importanza di preservare quei monumenti.
99
zabeth Boone144 lo descrive come un vero sistema economico, diviso in regimi di produzione, distribuzione e
consumo. I vari livelli sarebbero occupati da saccheggiatori, intermediari (o runners), venditori, falsificatori (fakers) e collezionisti. Si può parlare di una vera e propria
“mafia”, poiché si basa su una struttura verticistica e gerarchica, ricorre a comportamenti violenti, intimidatori e
alla corruzione. Si definisce circuito “organizzato” perché
gli scambi sono tutt’altro che fortuiti: vi sono “ponti” ben
concertati e gerarchie di potere definite. L’assassinio, a
Lima nel 1996, del famoso collezionista Raul Apesteguía,
è solo un esempio dell’autoritarismo di questi gruppi.
In questo contesto, gli intermediari giocano un ruolo
chiave. Rivestono, infatti, ruoli sociali di prestigio (per
esempio, professori universitari o di scuole superiori) e si
distinguono per un capitale economico e culturale elevato. Hanno legami sul territorio a vari livelli: dall’ambito
locale rurale alla sfera internazionale, passando per i centri urbani nazionali. Gli intermediari sono protetti sia dalle bande di huaqueros, che sono consapevoli del valore
del contatto e della pericolosità di un tradimento, sia dagli acquirenti, poiché vicini alle élite politiche e imprenditoriali.
Questi due circuiti non vanno pensati come completamente separati. Talvolta, degli artefatti riconosciuti come pièces uniques, possono passare al circuito organizzato. Lo stesso vale per gli attori che alimentano questo
mercato: “Alcuni riescono a fare il salto” sostiene la storica peruviana Mariana Mould de Pease, “riuscendo a infiltrarsi in circoli più importanti” (Mould de Pease, comunicazione personale, Lima 2007).
Possiamo rimandare il circuito occasionale a quello
che Alain Testard (2001) chiama lo “scambio non com144
E. Boone, Collecting the Pre-Columbian past in Ethnohistory, 1994, Vol. 41, Numéro
3. (Summer, 1994), pp. 486-488.
100
merciale”, anche se può essere fuorviante. Non si tratta,
infatti, di scambi in cui non s’impiega moneta, ma questa
definizione vuole evidenziare che sono i rapporti personali a predominare sulla trattazione economica. Si può
fare quindi un “prezzo da amici”, oppure, al posto di una
retribuzione in contanti, si può proporre un baratto o uno
scambio di servizi. Il circuito “organizzato” è dominato,
invece, da uno scambio commerciale, ovvero “uno scambio che non è intrinsecamente legato né condizionato da
un altro rapporto tra i protagonisti”.145 In realtà,
nell’ambito del mercato informale, il rapporto tra le persone non è affatto insignificante. Se la categoria di “famiglia” è meno importante in questo contesto, la fiducia
(e la sfiducia), il segreto, le dicerie e la fama dei protagonisti del mercato nero reggono questo sistema e sono
chiavi di lettura interessanti per poterlo decifrare (soprattutto considerando l’omertà e i tabù in cui si incappa inevitabilmente). Questa distinzione di Testard, per quanto
applicabile in modo grossolano, permette di evidenziare
ed estremizzare alcune caratteristiche che contraddistinguono i due circuiti.
Un’altra differenza, sottolineata dai miei interlocutori,
riguarda gli scopi che reggono il traffico. Alcuni huaqueros e trafficanti che partecipano a circuiti occasionali mi
hanno affermato di farlo spinti dalla necessità economica,
marcando un divario tra il farlo per il bisogno o per arricchirsi.
Questa distinzione rimanda ai due modi comunemente
riconosciuti d’inserirsi nei traffici illegali: per scelta o per
costrizione. Tuttavia, in base al rapporto dell’ Organizzazione internazionale del Lavoro (OIL) di Ginevra: “nella
maggior parte dei casi, si entra nell’economia informale
non per scelta ma per necessità assoluta e per accedere a
145
A. Testard, Echange marchand, échange non marchande, in Revue française de sociologie, 42, 4, 2001, p. 719-748, p. 727.
101
un’attività che genera dei redditi”.146 L’informale come
“strategia di sopravvivenza”, tra l’altro, suppone una conoscenza approfondita delle regole formali. Nel caso del
mercato nero dell’arte, per esempio, è indispensabile aggiornarsi sui prezzi e sulle tendenze (molti lo fanno oramai attraverso internet e i cataloghi delle case d’asta).
Lorenzo di Sipán mi disse: “molta gente ci chiama profanatori, saccheggiatori di tomba, e tante altre cose… ma
tutto ciò è stato a causa della nostra condizione economica […] Ce ne sono tanti che rubano in giacca e cravatta…
Loro lo fanno per arricchirsi. Noi lo facevamo per bisogno”. Lo stesso Walter Alva ricorda l’importanza di uno
sguardo globale sulle archeomafie e sul ruolo preminente
della domanda del mercato, proveniente da collezionisti
privati e non. Durante un incontro a Lambayeque nel
2010, sottolineò che la legge prevede una penalizzazione
del saccheggio e della commercializzazione, ma non
dell’acquisto o del possesso di beni archeologici. I collezionisti o coloro che si trovano in possesso di reperti archeologici dispongono di varie scappatoie legali e riescono a dichiarare la propria collezione senza incorrere in
sanzioni.147
Negli ultimi trent’anni, le regioni della costa nord (i
dipartimenti di Lambayeque e La Libertad in particolare)
sono state caratterizzate da un susseguirsi di scoperte archeologiche sensazionali che hanno cambiato il panorama geopolitico della regione, il rapporto all’archeologia e
all’identità nazionale. Spesso, le zone interessate da processi di patrimonializzazione e sviluppo del turismo culturale, sono quelle più ricche in oro e artefatti preziosi e
146
Organizzazione Internazionale del Lavoro, 2014, La transition de l’économie informelle
vers l’économie formelle, Conférence internationale du travail, sessione n. 103, 2015, p. 3.
147
Nel 2006, fece discutere il caso di un huaquero cileno, condannato a 730 giorni di carcere, quando il suo comandatario, il collezionista David Bernstein e la sua galleria di New
York non furono nemmeno inquisiti (P. O´Brien, P. Papi, 2006, La estela de muerte, misterios y el asombroso rescate de tocado moche, in El Comercio, 19 agosto 2006).
102
sono anche quelle, quindi, più a rischio archeomafie. È
questo uno degli effetti perversi dei processi di patrimonializzazione, che non abbiamo però tempo di approfondire in quest’occasione.
Ci soffermeremo, a presente, sulla storia di Huaca Rajada-Sipán,148 un villaggio che sembra cominciare la sua
esistenza soltanto nel 1987 quando una banda di huaqueros porta alla luce degli artefatti preispanici di valore inestimabile. L’opera tempestiva di Walter Alva, allora direttore del Museo Brüning di Lambayeque, e della sua
squadra di collaboratori ha permesso di prelevare la ricchezza di questo complesso funerario della civiltà Moche
(fig. 4) nel periodo di massimo splendore (290 d.C.). I
trafficanti erano già riusciti a introdurre dei pezzi nel
mercato internazionale. In un primo tempo, l’installazione del progetto archeologico è stata delicata e a tratti
drammatica. Senza entrare nei dettagli della storia di
Huaca Rajada-Sipán,149 crediamo che sia un esempio di
come una comunità, quasi inesistente prima della scoperta, si sia indirizzata verso un processo di patrimonializza148
Abbiamo svolto un lavoro di campo a Huaca Rajada-Sipán tra il 2007 e il 2010. La
scelta è ricaduta su questo paese (in una miriade di realtà patrimoniali in crescita) perché la
scoperta del Signore di Sipán ha avuto un impatto enorme, sulla lotta all’ “archeotraffico”,
sulla pratica dell’archeologia e sull’identità locale e regionale. A livello simbolico, la storia
di questo villaggio è ugualmente importante: non è un caso che il Señor de Sipán sia soprannominato anche “il Tutankhamon d’America latina”. La scoperta del complesso funerario di Sipán avvenne in anni di grande crisi economica e di guerra civile, in cui lo Stato
peruviano era in ginocchio. Questa congiuntura ha aperto le porte a finanziamenti privati in
ambito archeologico. Di questo periodo spiccano misure di salvaguardia del patrimonio
monumentale che viene privilegiato rispetto a ritrovamenti di minore impatto scenico. Tra i
vari progetti, quello più ambizioso è sicuramente la realizzazione della Ruta Moche (la via
Moche), che vuole imporsi come secondo percorso turistico del paese (dopo il Cuzco),
attraverso un sistema di collegamento tra siti di rilevanza culturale ed ecologica.
149
Si veda A. Aimi, W. Alva e E. Perassi (dir.), Sipán, el tesoro de las tumbas reales, Prato, Fondo Italo-Peruano/Giunti Arte Mostre Musei, 2008; Alva Walter, 1988, Discovering
the New World’s Richest Unlooted Tomb, National Geographic Society, n° 174/4, Washington D.C., p. 510-555.; Atwood, R., 2004, Stealing History: Tomb Raiders, Smugglers,
Ancient World, Nueva York: St. Martin’s Griffin ; Kirkpatrick Sidney D., 1992, Lords of
Sipan : A True Story of Pre-Inca Tombs, Archaeology, and Crime, New York, William
Morrow and Company.
103
zione su scala internazionale, passando da un periodo di
subbuglio dovuto a pratiche illegali.
Oggigiorno, il traffico illecito si è ridotto in modo
sensibile, grazie alla congiunzione di diversi fenomeni: i
maggiori controlli della Polizia su diversi fronti (in situ,
alle frontiere e negli aeroporti), politiche d’acquisizione
museali più etiche e precise, campagne di sensibilizzazione capillari sull’importanza e sul valore delle opere
d’arte preispaniche e, infine, un numero crescente di progetti partecipativi e d’iniziative volte a un coinvolgimento delle realtà territoriali locali. “Accanto alle tradizionali
funzioni di tutela e conservazione, le istituzioni sono state
costrette a riflettere sulle proprie responsabilità in tema di
gestione, valorizzazione economica, comunicazione e divulgazione, in cerca di ricadute occupazionali, turistiche
e formative incidenti sul benessere collettivo”.150
Quest’ultimo punto concerne anche la costruzione di
reti museali e musei locali. Si stanno insinuando nuove
strutture e modelli gestionali allo scopo di proteggere e
valorizzare il patrimonio “dal basso”. I museos de sitio
non sono più dei semplici spazi espositivi, ma sono concepiti come dei veri e propri catalizzatori dello sviluppo
locale che si declinano in laboratori di formazione, atelier
di valorizzazione delle attività tradizionali (artigianato,
gastronomia, etc.) e centri di ricerca. Questo fenomeno
risponde a un processo di “decentramento” del patrimonio, che con un movimento centrifugo va (o meglio, ritorna) dai grandi centri alle periferie. Le domande di restituzione, infatti, sono sempre più numerose, su diversa
scala. Celebre, anche per la sua portata mediatica, il caso
dei pezzi di Machu Picchu restituiti dall’Università di
Yale nel 2011 (fig. 5).151 Questo tipo di restituzione av150
G. Guerzoni, Apollo e Vulcano. I mercati artistici in Italia (1400-1700), 2006, p. 63.
Per questa vicenda, vedere M. Mould de Pease, 2008, Machu Picchu: antes y después
de Hiram Bingham: entre el saqueo de "antigüedades" y el estudio científico. Lima: Bi151
104
viene anche, in forme diverse, su scala regionale. È ciò
che è successo a Huaca Rajada-Sipán. Nel 2002 è stato
inaugurato un museo per ospitare i meravigliosi ornamenti del Señor de Sipán. L’edificio monumentale, pensato
per un pubblico internazionale, è stato costruito a Lambayeque, una città a 40 chilometri dal luogo di scoperta.
Questo fatto ha creato un malcontento tra la popolazione
che si è sentita “spogliata” di un proprio antenato e, con
ciò, emarginata dai circuiti turistici e dal giro d’affari. In
effetti, le visite al sito archeologico sono sensibilmente
diminuite, passando da 50.000 visitatori all’anno nel
1999 a meno di 30.000 nel 2005.152
Nel 2009, dopo anni di trattative, un museo locale è
stato infine costruito nel villaggio, accanto alle huacas,
presentato come un tentativo di “restituire” alla comunità
qualcosa che le spettava. Un “patto” tra archeologi e la
comunità prevede che le nuove scoperte resteranno nel
museo locale. Il progetto archeologico ha inserito nella
sua squadra di operai alcuni huaqueros che erano stati
coinvolti nella scoperta del complesso funerario e che
erano stati implicati nella commercializzazione. I saccheggiatori integrati in un progetto archeologico sono
spesso chiamati “pentiti” (huaqueros arrepentidos). Si
tratta di una pratica sempre più comune, poiché, come
afferma l’archeologo Ignacio Alva Meneses, direttore del
progetto Ventarrón: “è una maniera di mettere a profitto
le loro conoscenze empiriche. In fondo, essi hanno visto
per primi quello che vi era nelle tombe e speriamo, così,
blioteca del Centro de Estudios Históricos Luis E. Valcárcel, et Aguilar, Miguel e Tantalean Henry, 2014, Estado, patrimonio cultural y comunidades indígenas: Machu Picchu y
la historia de un dialogo asimétrico, in Rivolta, M.C., Montenegro, M., Menezes, Ferreira
L., Nastro J., (Ed.) Multivocalidad y Activaciones Patrimoniales en Arqueología: Perspectivas desde Sudamérica, Buenos Aires: Fundaciòn de Historia Natural.
152
C. Trivelli, A.H. Raúl, 2009, Apostando por el desarrollo territorial rural con identidad
cultural: la puesta en valor del patrimonio prehispánico de la costa norte de Perú, in C.
Ranaboldo, A. Schejtman (dir.), El valor del patrimonio cultural, Lima, 2009, p. 205.
105
di poter recuperare qualche informazione. Dar loro un lavoro, inoltre, evita che continuino a huaquear o almeno… limita i danni” (Ventarrón, comunicazione personale, 2010).
Distruzione e protezione dei beni culturali sono due
facce della stessa medaglia e come tali devono essere
analizzate insieme: spesso si distrugge, o si commercializza, quello che, in un specifico regime di patrimonialità,
vale di più. La lotta al traffico d’arte preispanica deve accompagnarsi a politiche patrimoniali di sensibilizzazione
e coinvolgimento delle comunità locali, facilitando delle
dinamiche di “riappropriazione” del patrimonio culturale
“dal basso”, ovvero da parte delle comunità d’origine.
Riscoprire il valore delle opere come bene comune (non
solo locale, bensì nazionale e internazionale) rappresenta
una doppia sfida: culturale, perché mette in gioco la memoria collettiva dei gruppi umani, dando vita, per esempio, a fenomeni di riscoperta identitaria, ed economica,
poiché è il fulcro di rivendicazioni politiche di comunità
spesso situate ai margini dei centri di potere o a segmenti
sfavoriti della società.
106
Abstract
Emanuela Canghiari, “Un mendicante su una panca dorata”: il patrimonio archeologico peruviano tra saccheggio, commercializzazione e messa in valore.
La frase attribuita al ricercatore italiano Antonio
Raimondi (1826-1890) è stata reinterpretata per simboleggiare la difficoltà delle istituzioni peruviane di valorizzare il patrimonio archeologico nazionale. Molto è andato perso già dall’arrivo degli iberici e, nonostante gli
sforzi, altrettanto continua a fluire in un mercato nero secondo solo a quello della droga. Dal 2004 al 2010 abbiamo realizzato una ricerca etnografica in Perù sul traffico dell’arte precolombiana. Abbiamo ricostruito il circuito degli oggetti d’arte, dalla produzione (saccheggio)
alla consumazione (esposizione), passando dal dono,
scambio, vendita, falsificazione e usi disparati. La nostra
analisi antropologica si è concentrata su diversi livelli
della catena illecita: saccheggiatori, intermediari, falsificatori, venditori, turisti e comunità locali. Qui ci concentriamo sulla costa nord del Perù. Una miriade di progetti
archeologici si sta sviluppando soprattutto in questa regione, scenario, negli ultimi trent’anni, di straordinarie
scoperte riguardanti la civilizzazione Moche (100-700
d.C). Il successo di questi siti e la loro trasformazione in
destini turistici internazionali non fanno che favorire la
commercializzazione della cultura, a livello formale e informale. Come sono evolute le politiche patrimoniali in
Perù con il fine di contrastare l’emorragia del patrimonio? Quali sono le strategie adottate degli attori locali di
fronte a norme sempre più chiare ed efficaci? In
quest’articolo cercheremo di dare una risposta a queste
questioni, mettendo in luce le rappresentazioni, i rapporti
di forza e le rivendicazioni degli attori in gioco.
107
Fig. 1: Il ricercatore italiano Antonio Raimondi (1826-1890).
108
Fig. 2 (in alto): Il sito musealizzato di Sipan-Huaca Rajada. Fig. 2 (in basso): Sierra di
Ancash.
109
Fig. 4 (in alto): sepoltura del Señor de Sipán, Civiltà Moche (290 d.C.). Fig. 5 (in basso):
alcuni dei reperti di Machu Picchu restituiti al Perù dall’Università di Yale nel 2011.
110
Diego Favero
L’evoluzione della disciplina europea in materia
di restituzione di beni culturali usciti illecitamente
dal territorio di uno Stato membro
La Direttiva 93/7/CEE del Consiglio del 15 marzo
1993, relativa alla restituzione dei beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno Stato membro, completa
il sistema europeo di protezione dei patrimoni culturali
nazionali resosi necessario a causa della realizzazione del
mercato unico.
Primo ingranaggio di tale meccanismo è il Reg. (CEE)
n. 3911/92153, con il quale si stabiliscono norme uniformi
per l’esportazione dei beni culturali al di fuori del territorio dell’Unione Europea. Con tale regolamento si volle
compensare l’abolizione dei controlli alle frontiere fisiche
interne conservando i beni culturali entro i confini comunitari.154 Se, dunque, il regolamento si configura come un
dispositivo preventivo rispetto alla fuoriuscita di un oggetto avente un valore culturale dal territorio comunitario,
la direttiva fa sì che l’oggetto “bloccato” all’interno delle
frontiere dell’Unione possa essere ricondotto al Paese
d’origine.
153
Regolamento (CEE) n. 3911/92 del Consiglio, del 9 dicembre 1992, relativo all'esportazione di beni culturali, poi sostituito dal Regolamento (CE) n. 116/2009 del Consiglio, del
18 dicembre 2008.
154
S. Manservisi, Corso di Diritto Comunitario dei beni culturali, Roma, 2006.
111
La dottrina evidenzia come l’adozione della direttiva
fosse resa indilazionabile dal fatto che, all’epoca della
creazione del mercato interno, ben pochi Paesi membri
avevano ratificato la Convenzione di Parigi del 1970.155
Proprio per tale ragione, la Commissione nella propria
Comunicazione al Consiglio del 22 novembre 1989 consigliò agli Stati membri la ratifica della citata convenzione.
Parallelamente ai lavori preparatori della Commissione per la predisposizione della direttiva, a livello internazionale si assisteva alla redazione della Convenzione
dell’Unidroit del 1995,156 il cui ambito d’applicazione è
parzialmente coincidente con quello della norma comunitaria. A cagione di questa parziale sovrapposizione fra i
due sistemi, Frigo si chiede “se e in quale misura la convenzione dell’UNIDROIT sia idonea ad interferire sul
funzionamento della direttiva 93/7/CEE, naturalmente
con esclusivo riguardo ai Paesi membri dell’Unione europea che siano anche parti contraenti della convenzione”.157 L’art. 13 par. 3 della convenzione, sembra sciogliere ogni dubbio, quantomeno sul piano formale, poiché
lascia impregiudicata per gli Stati contraenti, membri di
organizzazioni d’integrazione economica o di organismi
regionali, la possibilità di dichiarare che nei loro reciproci
rapporti applicheranno le regole interne di tali enti al posto del dettato convenzionale, ciò naturalmente nella misura in cui l’ambito d’applicazione delle discipline coincida. Si noti che la stessa direttiva, ex art. 15, lascia impregiudicate le azioni civili o penali spettanti allo Stato
155
UNESCO Convention On The Means Of Prohibiting And Preventing The Illicit Import,
Export And Trasfer Of Ownership Of Cultural Property, Parigi, 14 novembre 1970. I.A.
Stamatoudi, Cultural Property Law and Restitution. A commentary to international conventions and European Union law, Cheltenham, 2011.
156
Unidroit Convention on Stolen or Illegally Exported Cultural Objects, Roma 24 giugno
1995.
157
M. Frigo, La Convenzione dell’Unidroit sui beni culturali rubati o illecitamente esportati, in Rivista di diritto internazionale privato e processuale, 1996, n. 3, p. 461.
112
membro e/o al proprietario derubato in base al diritto nazionale, pertanto fra di esse sarà pure presente quella prevista dalla Convenzione dell’Unidroit, nei soli Paesi che
vi abbiano aderito.
Prima d’iniziare l’esame dell’articolato della direttiva
pare opportuno segnalare che, come chiarito dalla Commissione, essa “non ha l’obiettivo di combattere il traffico
illecito di beni culturali”.158 Essa ha la mera funzione di
garantire l’applicazione delle norme di tutela del patrimonio nazionale all’interno degli altri Stati membri, onde ricondurre fisicamente un determinato bene culturale al suo
Stato di provenienza. Proprio per tale ragione, come detto, fa salve le azioni civili e penali previste dalle legislazioni nazionali e non incide sulle questioni attinenti alla
proprietà del bene. Ciò che è stato autorizzato dall’art. 30
TCE (ora 36 TFUE) con la direttiva diviene, dunque, cogente per il diritto comunitario.159
La direttiva 93/7/CEE,160 ribadendo nel terzo considerando che “l’allegato della presente direttiva non ha lo
scopo di definire i beni facenti parte del patrimonio nazionale ai sensi dell’art 36 del Trattato”, sancisce che per
beni culturali vadano intesi gli oggetti ascrivibili in una
delle categorie di cui al predetto Allegato e che, prima o
dopo, l’illecita fuoriuscita dal territorio dello Stato membro siano stati qualificati come beni del patrimonio nazionale aventi un valore artistico, storico o archeologico,
in conformità alla legislazione interna ed all’art. 36
158
Commissione delle Comunità Europee, Relazione della Commissione al Consiglio, al
Parlamento Europeo e al Comitato Economico e Sociale Europeo. Seconda relazione
sull’applicazione della direttiva 93/7/CEE del Consiglio relativa alla restituzione dei beni
culturali usciti illecitamente dal territorio di uno Stato membro, Bruxelles, 21.12.2005,
COM(2005) 675 def., p. 3.
159
D. Liakopoulos - M. Vita, L’evoluzione della tutela del bene culturale nella Comunità
europea, in Gazzetta Ambiente, 2008, n.1.
160
La direttiva ha subito degli emendamenti da parte della direttiva 96/100/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 febbraio 1997, e dalla direttiva 2001/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 giugno 2001.
113
TFUE. Inoltre, anche nel caso in cui l’oggetto non rientri
in una delle tipologie elencate nell’allegato, esso potrebbe
ricadere nell’ambito d’applicazione della direttiva qualora
costituisca parte integrante “delle collezioni pubbliche figuranti negli inventari dei musei, degli archivi e dei fondi
di conservazione delle biblioteche” o “degli inventari delle istituzioni ecclesiastiche” (art. 1, n.1) secondo trattino).
È fatta altresì salva, ex art. 14, la facoltà degli Stati membri di estendere l’obbligo di restituzione a categorie di
beni culturali non ricomprese nell’allegato.
La qualifica da parte dello Stato è un requisito prevalente rispetto alla presenza del bene culturale nell’elencazione predetta. Stamatoudi evidenzia in merito che, in effetti, “it would be illogical to return to a Member State a
cultural object that could then be freely exported from
it”.161 Tale designazione, inoltre, costituisce un notevole
ausilio per il giudice nell’individuazione dei beni da restituire.162 Va sottolineato, ad ogni modo, che beni non
ascrivibili a quel nucleo di opere fondamentali per il patrimonio culturale dello Stato sarebbero in ogni caso difficilmente rintracciabili. Come affermato dalla stessa
Commissione europea, “il sistema di tutela del patrimonio culturale di ciascuno Stato membro prevede un nucleo centrale costituito dal patrimonio nazionale che non
può lasciare il territorio nazionale in via definitiva, da un
secondo gruppo che comprende i beni culturali per il cui
trasferimento è necessaria un'autorizzazione nazionale e
da un terzo gruppo costituito da tutti i beni che possono
circolare liberamente e senza controllo, in considerazione della loro importanza ridotta sul piano culturale”.163
Lo studio conclude che la rintracciabilità è garantita solo
161
I.A. Stamatoudi, op. cit., p. 144.
G. Volpe, Manuale di diritto dei beni culturali. Storia e attualità, CEDAM, 2013.
163
Commissione delle Comunità Europee, Relazione della Commissione al Consiglio, al
Parlamento Europeo e al Comitato Economico e Sociale Europeo. Seconda relazione op.
cit., pp. 5-6.
162
114
per i beni del nucleo centrale e, in misura minore, per
quelli del secondo gruppo, i quali circolano sulla base di
un’autorizzazione di uscita.
I beni culturali di cui viene richiesta la restituzione devono essere usciti illecitamente dal territorio di uno Stato
membro. Un bene è tale se: spedito in violazione della legislazione a protezione del patrimonio artistico, storico ed
archeologico dello Stato membro; fuoriuscito in violazione del Reg. (CEE) n. 3911/92, ora Reg. (CE) n. 116/2009;
siano violati i termini per il rientro concessi per una spedizione temporanea od altre condizioni della stessa (art. 1,
n.2). Sebbene non venga fatta menzione della fattispecie
del furto di bene culturale, essa deve ritenersi ricompresa
nella volutamente generica espressione: “bene uscito illecitamente dal territorio di uno Stato membro”. Sia
l’esportazione illecita che il furto, difatti, costituiscono
infrazioni delle norme di tutela nazionali. Stamatoudi osserva al riguardo che: “[i]n that sense the emphasis is
placed on the protection of treasures without delving into
the unlawful act in question”.164 Così facendo, il legislatore europeo ha evitato di dover definire cosa debba intendersi per furto o per illecita esportazione. Sotto tale aspetto, inoltre, la direttiva appare offrire una protezione più
ampia rispetto a quella contenuta nella convenzione
dell’Unidroit. In essa, infatti, alle fattispecie di furto e
spedizione illecita sono ricollegate discipline differenti.165
In merito alla sfera d’applicazione della direttiva bisogna aggiungere che essa non troverà applicazione rispetto
a tutti i beni culturali definiti dall’art. 1, ma solo a quelli
illecitamente fuoriusciti dal territorio di uno Stato membro dopo il 1° gennaio 1993 (art. 13). Cionondimeno,
l’art. 14, par. 2, lascia impregiudicata la facoltà per gli
Stati membri d’applicare il regime predisposto dalla diret164
165
I. A. Stamatoudi, Op. Cit., P. 147.
S. Manservisi, op. cit.
115
tiva alle domande di restituzione presentate da altri Paesi
membri aventi per oggetto beni trafugati prima di tale data, ma ad oggi soltanto la repubblica ellenica vi ha fatto
ricorso. Il predetto limite temporale, come ravvisato da
attenta dottrina,166 è piuttosto infelice dato che proprio nel
periodo antecedente il commercio illegale fu particolarmente florido.
È ora necessario analizzare la procedura di restituzione
vera e propria, di cui agli articoli da 5 a 12, che risulta
ispirata a criteri di semplicità ed efficacia.167
L’art. 2 stabilisce che i “beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno Stato membro sono restituiti
secondo la procedura e le modalità stabilite dalla presente direttiva”. La dottrina evidenzia l’importanza del concetto di restituzione, esso infatti sta ad indicare il ritorno
fisico del bene. In questo modo l’Unione europea consacrerebbe nella sua sfera di competenza che nessun indennizzo sarebbe in grado di reintegrare la perdita di una parte del patrimonio culturale.168 Si ribadisce inoltre che
l’obbligo di restituire un manufatto di provenienza illecita, prescindendo dalla buona fede del possessore, rappresenta un ottimo disincentivo rispetto al mercato sommerso di beni culturali, come peraltro riconosciuto dagli stessi Stati membri.
Il procedimento di natura giurisdizionale, che può essere attivato solo dallo Stato membro dal cui territorio il
bene è stato trafugato (singoli ed istituzioni non sono legittimati ad agire in forza della direttiva), è affiancato da
una specifica cooperazione amministrativa fra le autorità
centrali individuate dagli Stati membri, la cui disciplina è
contenuta nell’art. 4.
166
I. A. Stamatoudi, op. cit.
D. Liakopoulos - M. Vita, op. cit.
168
Si veda I.A. Stamatoudi, op. cit.
167
116
Ai sensi dell’art. 5 lo Stato potrà agire contro il “possessore” e, in sua mancanza, contro il “detentore”, non
viene fatta menzione del proprietario. Il primo è definito
come “la persona che detiene materialmente il bene culturale per proprio conto”, mentre il secondo è colui che
lo detiene materialmente per conto d’altri (art. 1 nn. 6) e
7)). Nella direttiva 93/7/CEE, come pure nelle convenzioni internazionali, le accezioni dei due termini in oggetto non corrispondono a quelle proprie degli ordinamenti
interni. Come scrive Stamatoudi, “these notions blur to a
certain extent the triptych ‘owner-possessor-holder’”.169
Fine dell’azione, peraltro, non è l’accertamento della proprietà sul bene, ma il mero ritorno dello stesso sul territorio dello Stato membro dal quale fu sottratto. Ogni questione proprietaria è procrastinata al ritorno del bene.
L’atto introduttivo del giudizio, ex art. 5, deve essere
accompagnato da un documento che descriva l’oggetto
reclamato e lo identifichi quale bene culturale nonché da
una dichiarazione delle autorità competenti dello Stato
membro richiedente attestante l’illecita fuoriuscita dello
stesso dal proprio territorio. La qualificazione del bene
quale parte del patrimonio culturale, come si è visto, può
essere anche successiva rispetto all’illecita uscita. Fine
dell’azione, infatti, non è il presidio dei controlli interni,
bensì la riparazione di un effettivo pregiudizio al patrimonio nazionale.170
L’atto introduttivo e la menzionata documentazione
dovranno essere prodotti innanzi “al giudice competente
dello Stato membro richiesto”, id est il giudice competente del luogo di situazione del bene. La direttiva non funge
solo da norma sulla giurisdizione, ma anche da norma di
conflitto, in quanto l’art. 12 individua la legge dello Stato
membro richiedente come quella competente a disciplina169
170
I. A. Stamatoudi, op. cit., p. 150.
D. Liakopoulos - M. Vita, op. cit.
117
re la proprietà del bene, per cui si darà applicazione alla
lex originis.
La dottrina evidenzia un aspetto piuttosto fumoso del
disposto dell’art. 12. Non appare, infatti, del tutto chiaro
se debbano applicarsi unicamente le norme sostantive dello Stato di provenienza del bene od anche le norme di diritto internazionale privato di tale ordinamento.171 Se così
fosse, infatti, in applicazione delle norme di diritto internazionale privato dell’ordinamento richiamato, potrebbe
ben essere la legge di precedente situazione del bene a disciplinare gli eventuali trasferimenti di proprietà dello
stesso. Secondo parte della dottrina, la questione sarebbe
stata risolta dai lavori preparatori nel senso che debba essere data applicazione unicamente alle norme sostantive
dello Stato richiedente.172 Se l’obiettivo ultimo è quello di
porre un freno al traffico internazionale di beni culturali,
un art. 12, che richiami anche le norme di diritto internazionale privato dello Stato membro, potrebbe comportare
l’inaccettabile effetto di condurre all’accertamento della
proprietà in capo al possessore del manufatto e non
all’originale proprietario. In tale evenienza, tuttavia, il
bene quantomeno si troverebbe nuovamente nello Stato
d’origine, per cui, pur rimanendo di proprietà dell’eventuale acquirente estero, ben difficilmente potrebbe nuovamente fuoriuscire dal territorio nazionale.
L’art. 7 regola i termini entro i quali può essere esercitata l’azione di restituzione. Va rilevato sin d’ora che i
termini di prescrizione dell’azione sono molto brevi, ed
infatti la maggior parte degli Stati membri ha sollevato
171
Si vedano I.A. Stamatoudi, op. cit.; M. Graziadei, Beni culturali (circolazione dei) (dir,
internaz. priv.), [Annali II-2, 2008]; G. Magri, La circolazione dei beni culturali nel diritto
europeo: limiti e obblighi di restituzione, in Quaderni del Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Torino, Nuova Serie, n. 13, Napoli, 2011.
172
Si veda M. Graziadei, op. cit.
118
l’esigenza di un allungamento degli stessi.173 L’azione si
prescrive nel termine di un anno dal momento in cui lo
Stato membro richiedente è venuto a conoscenza del luogo in cui si trova il bene controverso e dell’identità del
suo possessore o detentore. Il termine assoluto di
trent’anni decorre, invece, dalla data in cui il bene è uscito dal territorio dello Stato richiedente. Lo stesso art. 7
par. 2, tuttavia, prevede che possano essere previste delle
eccezioni per talune categorie di beni.
I beni appartenenti a collezioni pubbliche ed i beni ecclesiastici sono soggetti ad un termine di prescrizione di
settantacinque anni, fatta eccezione però per quegli Stati
dove l’azione non è soggetta a prescrizione e per i casi in
cui fra due Paesi membri intercorrano accordi bilaterali
che stabiliscano un termine superiore a quello sancito dalla norma. L’azione, ovviamente, sarà dichiarata inammissibile qualora al momento della presentazione della domanda la fuoriuscita del bene richiesto non sia più considerata illecita.
Numerosi Stati membri, Italia in primis, hanno evidenziato sin dal questionario che ha preceduto la prima
relazione della Commissione come il termine di un anno
per l’esercizio dell’azione fosse esageratamente breve e
potesse costituire un ostacolo all’esercizio dell’azione
prevista dalla direttiva.
Ai sensi dell’art. 8, il giudice, acclarato che l’oggetto
richiesto sia un bene culturale ai sensi dell’art. 1 n. 1) e
che, in base alla documentazione dello Stato richiedente,
sia illecitamente uscito dal territorio internazionale, dovrà
ordinare la restituzione dello stesso, fatte salve ovviamente le disposizioni di cui agli artt. 7 e 13.
173
Si veda al riguardo Commissione delle Comunità Europee, Relazione della Commissioneal Consiglio, al Parlamento Europeo e al Comitato Economico e Sociale Europeo, Terza
relazione sull’applicazione della direttiva 93/7/CEE del Consiglio relativa alla restituzione
dei beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno Stato membro, Bruxelles,
30.07.2009, COM (2009) 408 def.
119
Nel momento in cui ordina la resa del bene l’organo
giudicante dovrà pure accordare al possessore, che abbia
usato la “diligenza richiesta” - requisito affatto distinto da
quello di buona fede, nel quale è stato convertito da numerosi Stati in fase di recepimento della direttiva174 l’indennizzo ritenuto equo in base alle circostanze del caso concreto (art. 9). Non essendo definite le modalità di
calcolo dell’indennizzo, saranno le Corti nazionali a stabilire se esso debba essere liquidato in un ammontare pari
al prezzo d’acquisto del bene od a quello di mercato od
ancora corrispondente al suo valore reale.
L’onere della prova in punto di diligenza è disciplinato
dalla lex fori, ergo dalla legislazione dello Stato membro
richiesto.175 Nella Direttiva 93/7/CEE non compare, dunque, quell’inversione dell’onere della prova presente negli
artt. 4 e 6 della Convenzione dell’Unidroit del 1995. Benché l’art. 11 stabilisca che il pagamento dell’indennizzo
da parte dello Stato richiedente lasci impregiudicato il suo
diritto a rivalersi degli importi pagati sui responsabili
dell’illecita uscita del bene culturale, a seconda della
normativa applicabile al processo, anche chi abbia adoperato la minima diligenza potrebbe ottenere il risarcimento
senza esser soggetto ad alcun onere probatorio.
L’art. 9, in sintonia alla Convenzione dell’Unidroit del
1995, sancisce che il possessore non può beneficiare di
una posizione più favorevole rispetto a quella del suo
dante causa.
Tenuto conto del contesto nel quale la direttiva
93/7/CEE ha visto la luce e dell’applicazione che ha avu174
Relazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento Europeo e al Comitato Economico e Sociale sull’applicazione del regolamento (CEE) n. 3911/92 del Consiglio relativo all'esportazione di beni culturali e della direttiva 93/7/CEE del Consiglio relativa alla
restituzione dei beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno Stato membro, Bruxelles, 25.05.2000, COM (2000)325 def.
175
Per quanto riguarda la disciplina dell’onere della prova nell’ordinamento italiano nella
materia de qua si veda: R. Tamiozzo, La legislazione dei beni culturali e paesaggistici.
Guida ragionata, Milano, 2014.
120
to nella prassi degli Stati membri, essa ha rappresentato
un segnale estremamente positivo di una presa di coscienza, a livello europeo, della problematica dell’illecito
trasferimento di beni culturali. La maggioranza dei Paesi
europei, infatti, ha manifestato il proprio convincimento
circa l’utilità dello strumento qui analizzato per permettere il ritorno dei beni culturali sottratti al territorio
d’origine e ne ha riconosciuto un effetto preventivo dissuasivo rispetto all’uscita illecita.176 Dalle relazioni della
Commissione, tuttavia, emerge che nel periodo 19932007 sono state avanzate unicamente 12 richieste di restituzione ai sensi dell’art. 5 della direttiva.177
Nel corso del tempo si è, inoltre, raggiunto un consenso fra gli Stati membri circa la necessità di estendere il
termine per l’esercizio dell’azione, ma con riguardo al
contenuto dell’Allegato si sono scontrate le posizioni di
chi domandava un abbassamento delle soglie178 di valore
e chi un aumento delle stesse.179
La cut-off date del 1° gennaio 1993, di cui si è detto
rappresenta un ulteriore disincentivo all’impiego della direttiva, per cui molti Stati membri preferiscono intraprendere altre vie per ottenere la restituzione dei propri beni
culturali, in primis quella offerta dalla Convenzione
UNESCO del 1970. È noto, infatti, che i beni culturali illecitamente fuoriusciti dallo Stato d’origine rimangono
spesso nascosti per lungo tempo prima d’esser nuovamente mesi in circolazione.180
176
Commissione delle Comunità Europee, Relazione della Commissione al Consiglio, al
Parlamento Europeo e al Comitato Economico e Sociale Europeo, Terza relazione, op.
cit., p. 8.
177
Nell’arco temporale 1993-1999 venne presentata una sola azione di restituzione in ossequio all’art. 5, fra il 1999 ed il 2003 tale meccanismo venne attivato tre volte e fra il 2004
ed il 2007 otto volte.
178
Segnatamente Francia, Italia e Svezia.
179
Germania e Regno Unito.
180
Cfr. G. Magri, op. cit.
121
Come si è potuto vedere, la direttiva precede temporalmente di poco la Convenzione dell’Unidroit del 1995,
quindi gli eventuali elementi di regresso in essa presenti
appaiono ancor più lampanti se posti in comparazione alla
norma pattizia. Ai sensi della convenzione, infatti, anche i
singoli, persone fisiche od enti, hanno legittimazione attiva per la restituzione. Viceversa nella direttiva non è prevista una legittimazione attiva in capo a soggetti diversi
dagli Stati, sebbene si ritenga che il privato possa pur
sempre sollecitare lo Stato a reclamare il bene di sua proprietà che sia anche parte del patrimonio culturale nazionale. Si tenga altresì conto del fatto che la direttiva è applicabile solamente a beni culturali che superino determinate soglie di valore economico. Tale requisito pare
estremamente criticabile per due ordini di ragioni: in primo luogo è assai difficile attribuire un valore monetario a
simili oggetti; in secondo luogo esso denota un approccio
alla tematica puramente commerciale, che va biasimato. I
beni culturali possono essere suddivisi in categorie, ma
non di certo utilizzando il metro del loro valore venale.
Risultò, dunque, ben presto evidente come la normativa comunitaria necessitasse di un intervento adeguatore
da parte del legislatore europeo. A tal riguardo, la Commissione, nella propria relazione del 2009, alla luce dei
dati raccolti, affermò la necessità di avviare un processo
di riflessione con lo scopo di operare una revisione della
direttiva. Essa sosteneva in particolare che “ogni proposta
di modifica dovrebbe essere innanzitutto analizzata in
modo approfondito in merito alle implicazioni per le autorità nazionali incaricate della direttiva”.181
181
Commissione delle Comunità Europee, Relazione della Commissione al Consiglio, al
Parlamento Europeo e al Comitato Economico e Sociale Europeo, Terza relazione
sull’applicazione della direttiva 93/7/CEE del Consiglio relativa alla restituzione dei beni
culturali usciti illecitamente dal territorio di uno Stato membro, Bruxelles, 30.07.2009,
COM (2009) 408 def., op. cit. p. 9.
122
In un comunicato stampa del 29 novembre 2011 la
Commissione ha reso nota l’apertura di una consultazione
pubblica volta ad ottenere i consigli di autorità pubbliche,
di cittadini e di operatori su come facilitare la restituzione
dei beni culturali.182
Si è così giunti all’adozione della Direttiva
2014/60/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del
15 maggio 2014,183 con la quale si è inteso, da un lato
porre rimedio ai limiti della Direttiva 93/7/CEE, dall’altro
intensificare la cooperazione amministrativa fra gli Stati
membri estendendo l’utilizzo del sistema IMI184 (Sistema
di Informazione del Mercato interno) al settore della lotta
al traffico illecito dei beni culturali.185
L’ambito d’applicazione della disciplina in materia di
restituzione dei beni culturali illecitamente fuoriusciti dal
territorio degli Stati membri viene notevolmente esteso
rispetto a quella previgente. Ai sensi dell’art. 2, c. 1, n. 1),
per bene culturale deve ora intendersi unicamente “un bene che è classificato o definito da uno Stato membro,
prima o dopo essere illecitamente uscito dal territorio di
tale Stato membro, tra i beni del «patrimonio artistico,
storico o archeologico nazionale» secondo la legislazione
nazionale o delle procedure amministrative nazionali, ai
sensi dell'articolo 36 TFUE”. Scompare, dunque, il dop182
Commissione Europea, Comunicato stampa: La Commissione intende facilitare la restituzione di patrimoni nazionali sottratti illecitamente, Bruxelles, 29.11.2011. Sull’iter legislativo che ha condotto all’adozione della Direttiva 2014/60/UE si veda: S. Quadri, Il regime dell’Unione europea in materia di restituzione dei beni culturali illecitamente esportati, in La restituzione dei beni culturali rimossi con particolare riguardo alla pratica italiana, a cura di T. Scovazzi, Milano, 2014.
183
Direttiva 2014/60/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 15 maggio 2014,
relativa alla restituzione dei beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno Stato
membro e che modifica il regolamento (UE) n. 1024/2012 (Rifusione).
184
L’IMI è stabilito dal regolamento (UE) n. 1024/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012, relativo alla cooperazione amministrativa attraverso il sistema di
informazione del mercato interno e che abroga la decisione 2008/49/CE della Commissione («regolamento IMI»).
185
R. Buonomo, La restituzione dei beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno
Stato Membro alla luce della direttiva 2014/60/UE, in AEDON, n. 3, 2014.
123
pio requisito della qualificazione da parte dello Stato
membro e la corrispondenza ad una delle delle categorie
dell’allegato. Non è, dunque, rilevante il raggiungimento
da parte del bene culturale di determinate soglie di vetustà
e/o di valore.
Rispetto al tanto criticato aspetto dei termini, la normativa di nuovo conio estende tanto quello procedimentale per la verifica della culturalità in sede di cooperazione
amministrativa, il quale passa da due a sei mesi (art. 5),
quanto quello processuale per l’esercizio dell’azione di
restituzione. Detto termine, infatti, viene innalzato a tre
anni (art. 8), venendo, dunque, a coincidere con quello
fissato dalla Convenzione dell’Unidroit.
Un’ulteriore novità di grande rilievo attiene alla tematica dell’indennizzo. Ai sensi dell’art. 8, c.1, infatti, il
Giudice chiamato a decidere in ordine alla restituzione
“accorda al possessore un equo indennizzo in base alle
circostanze del caso concreto”, ma solo a condizione che
questi dimostri “di aver usato, all'atto dell'acquisizione,
la diligenza richiesta”. Rispetto all’onere probatorio,
dunque, non si fa più rinvio alla lex fori, ma è la direttiva
stessa ad addossare al possessore che pretenda d’ottenere
un indennizzo l’onere di provare d’aver adottato la dovuta
diligenza. La norma citata, inoltre, indica una serie di circostanze dalle quali desumere l’esercizio dell’impiego
della diligenza richiesta da parte del possessore all’atto
dell’acquisto.
Ai sensi dell’art. 20, la Direttiva 2014/60/UE abroga la
precedente Direttiva 93/7/CEE a far data dal 19 dicembre
2015, pertanto gli Stati membri, hanno termine sino al 18
dicembre 2015 per recepire la nuova disciplina nei propri
ordinamenti interni. Si segnala, a tal riguardo, che la Legge di delegazione europea 2014186 contiene la delega legi186
Legge 9 luglio 2015, n. 114, Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea - Legge di delegazione europea 2014.
124
slativa al Governo italiano per il recepimento dell’analizzata normativa europea.
Si dovrà, dunque, attendere per vedere le reazioni degli Stati membri all’intervento normativo europeo ed in
particolare se l’Italia sfrutterà quest’occasione per rimediare all’opportunità mancata in sede di recepimento della
Direttiva 93/7/CEE, ovvero l’estensione dell’applicazione
dell’azione di restituzione ai beni fuoriusciti dal territorio
di altri Stati membri prima del 1° gennaio 1993.187 Questo, infatti, sarebbe un importantissimo segnale da parte
di uno Stato che si trova in prima fila nella lotta al traffico
internazionale di beni culturali.
Abstract
Diego Favero, L’evoluzione della disciplina europea in
materia di restituzione di beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno Stato membro.
La direttiva Direttiva 93/7/CEE del Consiglio del 15
marzo 1993, relativa alla restituzione dei beni culturali
usciti illecitamente dal territorio di uno Stato membro,
completa il sistema europeo di protezione dei patrimoni
culturali nazionali, resosi necessario con la creazione del
mercato unico.
Se, infatti, il regolamento Regolamento (CE) n.
116/2009 si configura come un dispositivo di prevenzione
rispetto alla fuoriuscita di un bene avente un valore culturale dal territorio comunitario, la direttiva fa s̀ che
l’oggetto “bloccato” all’interno delle frontiere comunitarie possa essere ricondotto al suo Paese d’origine.
187
La Direttiva 93/7/CEE è stata recepita nell’ordinamento italiano con la L. 30 marzo
1998 n. 88. Tale disciplina, attualmente, è contenuta negli artt. 75 e ss. del Codice dei beni
culturali e del paesaggio, D. Lgs. 22 gennaio 2004 n. 42.
125
Essa, dunque, ha la mera funzione di garantire
l’applicazione delle norme di tutela del patrimonio nazionale di uno Stato membro all’interno degli altri Stati
europei. Per tale ragione, la Direttiva 93/7/CEE lascia
impregiudicate tanto le azioni penali e civili previste dalle legislazioni nazionali, quanto le questioni attinenti alla
proprietà del bene culturale.
Sebbene il numero delle richieste avanzate in forza
della procedura giudiziaria prevista dalla direttiva non
siano state numerose, la maggioranza dei Paesi membri
ha espresso il proprio convincimento circa l’utilità di tale
strumento normativo. Taluni Paesi, tuttavia, espressero
sin dalla sua introduzione perplessità circa l'eccessiva
brevità del termine per l’esercizio dell'azione di restituzione.
La Commissione, dunque, nella terza relazione
sull'appalicazione della direttiva, ha affermato la necessità di avviare un processo di riflessione con lo scopo di
operare una revisione dello strumento normativo.
Si è così giunti alla direttiva 2014/60/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 15 maggio 2014, il cui
termine di recepimento per gli Stati membri è fissato al
18 dicembre 2015. Essa va ad abrogare la direttiva
93/7/CEE introducendo importanti modifiche al previgente impianto normativo. Particolarmente importanti sono
stati gli interventi sull’ambito d’applicazione della direttiva, sui requisiti per l’ottenimento dell’equo indennizzo e
sul termine di prescrizione.
In particolare, l’innalzamento da uno a tre anni del
termine per esercitare l’azione contenuto nella novella
normativa rappresenta un intervento fondamentale al fine
di garantire l’effettività del meccanismo europeo di restituzione dei beni culturali illecitamente usciti dal territorio degli Stati membri.
126
Lorenzo Looz
Recensione di “Oro dentro. Un archeologo in trincea”.
“Oro dentro. Un archeologo in trincea: Bosnia, Albania, Kosovo, Medio Oriente” (fig. 2), realizzato da
Laura Sudiro, giornalista ed archeologa, e da Giovanni
Rispoli, autore ed editore di libri d’arte e di fotografia e
pubblicato da SKIRA editore nel 2015, racconta la storia
e la vita dell’archeologo Fabio Maniscalco (Napoli, 1
agosto 1965 - Napoli, 1 febbraio 2008): un uomo impegnato nella tutela del patrimonio culturale a rischio nel
mondo, in particolare nelle zone di guerra.
Fabio Maniscalco (fig. 1) è stato Tenente dell’Esercito
Italiano dal 1995 al 1998. Da questi anni, esattamente dal
gennaio 1996, il libro comincia a narrare la sua prima
missione a Sarajevo, in Bosnia, con il compito di monitorare la situazione del patrimonio culturale, applicando per
la prima volta l’articolo 7 della Convenzione dell’Aja del
1954, che prevedeva personale specializzato nella tutela
dei Beni Culturali all’interno dell’Esercito.
La situazione nella capitale è drammatica: i soldati sono costretti a lavorare sotto il tiro dei cecchini, in aree pericolose per le mine. Fabio e i suoi colleghi camminano
per le strade della città descrivendo gli “altri” orrori della
guerra, quelli di cui nessuno parla, come i segni delle
granate sugli edifici, i muri sventrati dalle esplosioni, le
colonne crivellate della moschea dell’Imperatore e le macerie della Biblioteca Nazionale: nella foto, riportata an-
127
che sulla copertina del libro, si vede l’interno fatiscente
della biblioteca con un raggio di luce che penetra dalla
parete, simbolo di speranza per una nazione in ginocchio.
Proseguendo nella lettura, seguiamo Fabio in altre
missioni, in Albania, Kosovo e Medio Oriente. In Albania, oltre al monitoraggio dei beni culturali ancora presenti in molte aree del paese, si infiltra nel mercato clandestino di opere d’arte, riuscendo a recuperare un gran numero di reperti archeologici. Diversa la situazione in Kosovo ed in Palestina. Nella prima si racconta la guerra tra
serbi e albanesi, con la irrimediabile conseguente distruzione della “memoria degli altri”. In Palestina, nel 2003,
ritroviamo Fabio impegnato ad esporre lo “Scudo Blu”
(Blue Shield) sui beni culturali a rischio nella striscia di
Gaza e in Cisgiordania.
Oltre alla tutela e alla salvaguardia dei beni culturali, il
libro racconta la sua altra grande passione: l’archeologia
subacquea. Tante le sue immersioni, molte delle quali
nella splendida Baia “sommersa”, immersioni che culmineranno con la pubblicazione de “Il nuoto nel mondo greco-romano” e del manuale di “Archeologia subacquea”,
ancor oggi uno dei manuali più impiegati per l’approccio
a tale disciplina.
Sono gli anni in cui Fabio Maniscalco è docente presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, in un
clima di gelosie e di invidie che il suo modo di insegnare
e di agire suscita tra i “colleghi” dell’Ateneo.
Il racconto è un continuo intreccio tra le sue missioni
all’estero, l’archeologia subacquea e l’amore per sua moglie Mariarosaria, che gli sarà vicina fino alla morte, fino
a quando il cancro, causato probabilmente dall’esposizione all’uranio impoverito durante le missioni nella ex
Jugoslavia, gli stronca la vita il 1 febbraio 2008, a soli 42
anni.
128
Proprio grazie a lei, agli amici ed ai conoscenti, gli autori hanno potuto raccogliere, con anni di meticolose ricerche ed interviste, le testimonianze necessarie per la
stesura del testo. La narrazione porta il lettore ad entrare
nella vicenda, a viverla come un romanzo d’avventura, a
sentire i silenzi delle strade abbandonate per la guerra, a
percepire l’aria densa di polvere e di dolore e a trattenere
il fiato durante le immersioni.
Le ultime pagine del libro sono le più strazianti, quelle
che raccontano della terribile malattia e del dolore. Fabio,
dapprima uomo iperattivo ed energico, si ritrova in un
calvario fatto di letti di ospedale, chemioterapie, apparenti
ed ingannevoli miglioramenti. Lui, però, conscio della situazione e del suo destino, un tumore al pancreas che contagia anche altri organi vitali, si ritrova sul letto di casa,
impossibilitato a muoversi, ma senza perdere la voglia di
scherzare. Acconsente alla biopsia sui suoi tessuti, nella
speranza che il suo sacrificio possa essere un giorno utile
alla scienza, a fare chiarezza sui danni causati dall’esposizione all’uranio impoverito e ad altri metalli pesanti, questione che ancora oggi presenta numerose lacune.
In un certo senso il libro diventa una sorta di denuncia,
come fece Fabio ancora in vita, per la ricerca della verità.
Un’intera generazione di soldati è morta o è stata colpita
da tumori. Militari ignari dell’impiego di tali materiali pericolosi durante una guerra che avrebbe dovuto portare
solo pace. E conseguenze si sono riscontrate, purtroppo,
anche nei loro figli.
Tra i metalli ritrovati nel corpo di Fabio Maniscalco ci
sono piccole quantità d’oro, da cui trae origine il titolo del
libro: l’oro dentro è quello delle particelle riscontrate nei
suoi tessuti, ma anche quello che metaforicamente aveva
in sé, quell’energia, quella vita che giorno dopo giorno lo
spingevano a continuare a credere nei suoi valori, a perseverare nei suoi insegnamenti.
129
“Non chi comincia ma quel che persevera” è il motto
della “Vespucci”, la nave scuola della Marina Militare.
Sta a noi, oggi, incentivati da questo stupendo libro, portare avanti l’originalità dell’insegnamento di Fabio Maniscalco, affinché il suo sacrificio non sia stato vano, ma al
contrario possa illuminare la strada ai pochi giovani, che
nonostante la situazione attuale, continuano a credere
nell’archeologia, perché solo scoprendo il passato possiamo vedere il futuro.
Autori: Laura Sudiro - Giovanni Rispoli. Titolo: “Oro dentro.
Un archeologo in trincea: Bosnia, Albania, Kosovo, Medio
Oriente”. Luogo di edizione: Milano. Anno di edizione: 2015.
Editore: Skira. Collana: StorieSkira. Lingua: italiano. Dimensioni: 14 x 21 cm. Pagine: 192. Rilegatura: Brossura. ISBN:
885722650.
130
Fig. 1: Fabio Maniscalco (Napoli, 1º agosto 1965 - Napoli, 1º febbraio 2008), archeologo
italiano che è stato in prima linea nel contrasto dei traffici illeciti di beni culturali e nella
tutela del patrimonio culturale nelle aree di crisi e di guerra. Nel 2009 è stato riconosciuto
“vittima del dovere” dal Ministero della Difesa Italiano. È il protagonista del racconto
biografico “L’Oro dentro” di Laura Sudiro e Giovanni Rispoli.
131
Fig. 2: Copertina de “L’Oro dentro” di Laura Sudiro e Giovanni Rispoli, racconto biografico della vita di Fabio Maniscalco.
132
Indice
Nota al settimo numero.
p. 9
N. Pedot
Il sacco della Biblioteca dei Girolamini di Napoli.
p. 13
T. Cevoli, N. Meluziis
La Via Consolare Campana Puteolis Capuam:
speculazione edilizia e problemi di tutela.
p. 27
G. Germanà Bozza
Un’anfora attica recuperata nell’Operazione Teseo.
p. 53
S. Raffiotta,
Il ritorno del dio degli inferi a Morgantina.
p. 69
E. Canghiari
“Un mendicante su una panca dorata”:
il patrimonio archeologico peruviano tra saccheggio,
commercializzazione e messa in valore.
D. Favero
L’evoluzione della disciplina europea in materia
di restituzione di beni culturali usciti illecitamente
dal territorio di uno Stato membro.
L. Looz
Recensione di “Oro dentro. Un archeologo in trincea”.
p. 92
p.111
p.127
133
Finito di stampare nel mese di dicembre 2015
134
135
ARCHEOMAFIE. Rivista dell’Osservatorio Internazionale Archeomafie. Testata registrata presso il Tribunale di Napoli n.10 del 21/02/2007. La rivista è stata
inserita dall’Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della
Ricerca nell’elenco delle Riviste Scientifiche con Delibera n. 17 del 20/02/2013 ai
sensi del DM 76/2012. Edizione in collaborazione con Liberarcheologia e con il
Centro Studi Criminologici. Info e contatti: www.archeomafie.org
Proprietà letteraria riservata. ISSN: 2036-4539.
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