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Il ritorno del dio degli Inferi a Morgantina

2015, T. CEVOLI (a cura di), Archeomafie. Open Access Journal of Cultural Heritage Protection

Con un comunicato stampa sulle pagine del Los Angeles Times, il 10 Gennaio 2013 il J. Paul Getty Museum annunciava ufficialmente al mondo la restituzione “volontaria” alla Sicilia di una testa di terracotta di dimensioni pari al vero di età ellenistica raffigurante una divinità barbuta, probabilmente il dio greco degli Inferi Ade. Grazie ad una pubblicazione scientifica a cura della scrivente edita nel 2007 e ad ulteriori indizi recuperati più di recente al Museo Archeologico di Aidone è stato possibile attribuire il pregevolissimo reperto a Morgantina e avanzarne richiesta formale di restituzione al Getty Museum, che verificatane la legittimità ha immediatamente risposto favorevolmente disponendo la restituzione “volontaria” della testa, ormai prossima al rientro in Italia.

OPEN ACCESS JOURNAL OF CULTURAL HERITAGE PROTECTION ANNO VII, N. 7 (2015) archeomafie 2 LIBERARCHEOLOGIA RIVISTE 3 4 archeomafie OPEN ACCESS JOURNAL OF CULTURAL HERITAGE PROTECTION anno VII, n. 7 (2015) a cura di Tsao Cevoli OSSERVATORIO INTERNAZIONALE ARCHEOMAFIE 5 ARCHEOMAFIE. Rivista dell’Osservatorio Internazionale Archeomafie in collaborazione con Liberarcheologia e con il Centro per gli Studi Criminologici. Testata registrata presso il Tribunale di Napoli n.10 del 21/02/2007. Direttore Responsabile: Tsao T. Cevoli. Coordinatore di Redazione: Lidia Vignola. email: [email protected]. Website: www.archeomafie.org. Webmaster: Arago. Edizione a cura di Liberarcheologia ([email protected]), Piazza S. Maria La Nova 12, 80134, Napoli. Proprietà letteraria riservata. “Archeomafie” è inserita nell’elenco delle Riviste Scientifiche dall’Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca - National Agency for the Evaluation of Universities and Research Institutes (Delibera ANVUR n. 17 del 20/02/2013 ai sensi del DM 76/2012). COPYLEFT. La rivista “Archeomafie” credendo nel diritto di libero accesso alla ricerca, alla cultura e al sapere, abbraccia la filosofia open access. Consente, pertanto, la libera riproduzione e diffusione cartacea e digitale di questo testo, purché per uso personale di studio e di ricerca, citando sempre la fonte. Ne è vietata, invece, sia la riproduzione sia la diffusione, anche parziale e con qualsiasi mezzo effettuate, a scopo direttamente o indirettamente commerciale o di lucro. La rivista presenta immagini di qualità volutamente ridotta per facilitare la libera diffusione. Napoli 2015. Stampa in proprio. ISSN: 2036-4539. 6 A Khaled Mohamad al-Asaad e a quanti si sono sacrificati per difendere la memoria dei popoli. 7 8 Nota al settimo numero. “I conflitti che si sono susseguiti negli ultimi anni confermano che le inverosimili e criminose strategie belliche, adottate dalle diverse fazioni e fondate sull’impiego di armi in grado di mutilare i bambini, sugli stupri di massa e sulla distruzione del patrimonio culturale e cultuale del nemico, erano finalizzate a sopprimere non solo il futuro dell’avversario, ma anche il suo passato”. Sono parole scritte nel 2006 a proposito dei conflitti in Medio Oriente dall’archeologo Fabio Maniscalco, scomparso nel 2008, ad appena 42 anni, dopo aver dedicato e sacrificato la vita per difendere il patrimonio culturale nelle aree di crisi e di guerra. Sempre in prima linea ad organizzare interventi su campo, spesso potendo contare quasi soltanto sulle proprie risorse ed energie. Sempre solerte a scuotere dal torpore la comunità scientifica mondiale con i suoi appelli a governi e organizzazioni internazionali. Ne sentiamo ancor più la mancanza ogni volta che, da qualche nuova situazione di crisi e di guerra, ci giungono notizie di saccheggi e distruzioni. Se fosse tra noi, ci viene in mente, ce lo ritroveremmo lì, ne siamo certi, a lottare per quei popoli e per il loro patrimonio culturale. La sua competenza, la sua passione, il suo attivismo ci sono stati di insegnamento. Se il mondo accademico attorno a lui fosse stato meno lento, invidioso o restìo a coglierne il talento e gli avesse dato lo spazio ed il ruolo che ampiamente meritava, questo insegnamento egli lo avrebbe potuto trasmettere di persona ai suoi allievi, formando generazioni di archeologi dotati di una ben diversa capacità di osservazione e di azione sul mondo. 9 Così non è stato. Malgrado ciò egli è riuscito ugualmente ad essere fonte di ispirazione per i colleghi più giovani, tra cui lo scrivente, che hanno imparato da lui attraverso i suoi libri e le sue riviste. Risorse cui adesso si adesso il libro “Oro dentro. Un archeologo in trincea: Bosnia, Albania, Kosovo, Medio Oriente”, scritto da Laura Sudiro e Giovanni Rispoli, pubblicato da Skira. Una biografia narrata, di cui pubblichiamo una recensione, estremamente avvincente ed interessante anche per i non addetti ai lavori. Il messaggio che ci ha lasciato oggi, purtroppo, risulta estremamente attuale, di fronte agli efferati crimini contro l’umanità e contro il patrimonio culturale che si stanno perpetrando nelle stesse terre in cui qualche anno fa la cosiddetta primavera araba sembrava preludere ad un ben diverso futuro. I nuovi drammatici conflitti, che stanno insanguinando il Medio Oriente ed il Meditterraneo, colpiscono in modo atroce ed indiscriminato, ora più che mai, la popolazione civile e minacciano di cancellare un’eredità culturale millenaria, su cui fonda le proprie radici l’intera civiltà umana. Eredità culturale la cui difesa trova, però, nuovi martiri, come Khaled Mohamad al-Asaad, l’ottantaduenne archeologo siriano barbaramente torturato e trucidato il 18 agosto 2015. Morto per quella stessa Palmyra cui aveva dedicato quasi mezzo secolo di vita. O come gli almeno altri quindici funzionari di musei che secondo la Direzione Generale delle Antichità di Damasco dall’inizio del conflitto in Siria avrebbero perso la vita sul lavoro. Uccisi da uno pseudo-stato criminale che mentre ostenta mediaticamente la distruzione delle antichità, in nome di una presunta fede religiosa da epurare da ogni forma di idolatria, dietro le quinte, invece, non disdegna di lucrare dalla loro vendita ai soliti trafficanti, collezionisti e musei 10 dell’odiato Occidente, che a loro volta non disdegnano di rimpinguare le casse del nemico per soddisfare la propria brama di antichità. A quanto pare, al di là della retorica dello scontro di civiltà, pecunia non olet: i lauti proventi dei traffici clandestini di antichità, come quelli di droga, armi e petrolio, mettono tutti d’accordo. Assistiamo, dunque, alla barbarie che avanza. È vero. Ma non si tratta solo di quella dei fanatismi assassini e criminali in Medio Oriente e sulla sponda meridionale del Mediterraneo. C’è anche la barbarie che dilaga in Occidente, quella dell’ignavia e dell’ignoranza che stanno inquinando i nostri valori ed abbrutendo le nostre coscienze. Per scuoterle abbiamo bisogno di ricordare storie come quelle Fabio, Khaled e di chissà quanti altri non abbiamo conservato il ricordo. Storie di persone che hanno sacrificato la vita per difendere il patrimonio culturale. Mossi non certo da quella certa, quasi feticistica, passione antiquaria per l’opera d’arte e il reperto archeologico, che ancor oggi malauguratamente caratterizza buona parte di noi archeologi, ma probabilmente perché consapevoli che sul patrimonio culturale e sulla memoria materiale si fonda l’identità e quindi la dignità di ogni popolo. Difendendo il patrimonio culturale essi non hanno inteso difendere delle pietre, ma l’identità dei popoli aggrediti dalla guerra, il loro diritto ad esistere, a conservare memoria e consapevolezza di sé, per ritrovare un giorno nelle proprie radici la speranza e la forza di costruire un futuro. Il Direttore 11 In alto: Khaled Mohamad al-Asaad, l’ottantaduenne archeologo siriano barbaramente torturato e ucciso il 18 agosto 2015, mentre tentava di difendere Palmyra. In basso: il sito archeologico di Palmyra, in Siria. 12 Nadia Pedot Il sacco della Biblioteca dei Girolamini di Napoli. Secondo i dati riportati nella edizione 2014 di Minicifre della Cultura1 le biblioteche censite nell’Anagrafe delle Biblioteche italiane sono 12.936; di queste 6.467 fanno capo ad enti pubblici territoriali, 1.978 alle Università (di cui 1.922 statali e 56 non statali), 1.322 appartengono ad enti ecclesiastici. All’interno delle “sole” 46 biblioteche pubbliche statali, incluse le 2 nazionali centrali di Roma e Firenze che custodiscono l’intera produzione editoriale italiana per “deposito legale”, sono conservati 198.131 codici manoscritti e 2.470.0281 volumi stampati, tra cui 34.051 incunaboli2 e 332.203 “cinquecentine”.3 Un patrimonio immenso e fragile per sua natura, conservato in sale e scaffali aperti, depositi e armadi, classificato secondo criteri standard ma esposto al pubblico, e talvolta al pericolo, secondo modalità e accorgimenti differenti. Si tratta di un complesso ricco, unico e irripetibile di testimonianza e identità che appassiona studiosi e che alimenta il culto di bibliofili: opere d’arte che, nella consistenza della parola, saldano un tempo che non è più e un 1 Il documento è redatto annualmente, a cura del Segretariato Generale, Servizio I - Coordinamento e Studi, del Ministero dei Beni e della Attività Culturali e del Turismo, ed è reperibile sul sito web del Ministero. 2 Secondo la definizione del vocabolario Treccani, è il “nome dato convenzionalmente ai primi prodotti della tipografia, dalle origini all’anno 1500 incluso, che si modellarono in tutto sui manoscritti coevi”. 3 Volumi stampati esclusivamente nel corso del XVI secolo. 13 tempo che non è ancora, perché “i libri non sono morti cimeli del passato, ma strumenti vivi che devono servire alla costruzione del futuro”.4 Ambiti e riconosciuti feticci culturali, facile preda di furti e sottrazioni, manoscritti e incunaboli alimentano un circuito commerciale di élite, tra antiquari e collezionisti, nelle cui maglie da tempo si è inserito un fiorente mercato illegale. Una dimensione illecita in cui il confine tra delinquenza semplice e criminalità organizzata è sempre più sfumato: “il commercio di beni culturali è il quarto al mondo per volume d'affari, dopo il traffico di droga, d’armi e quello di prodotti finanziari, in cui sono coinvolte organizzazioni criminali transnazionali”.5 Se la rottura delle relazioni e la distruzione dei beni culturali, in generale, arreca “incalcolabili e irreparabili danni per lo Stato” e i suoi cittadini, presenti e futuri, la spoliazione del patrimonio costituisce e incrementa una filiera criminale diversificata, una sorta di catena alimentare di tipo piramidale in cui l’arte è moneta e “sostituisce persino la classica bustarella come tangente per accaparrarsi appalti e lavori”6 oppure, come vedremo nel caso empirico, è grimaldello. Per procacciare relazioni, coltivare interessi altri, costruire una carriera. Il paradosso, è che “i regimi giuridici che disciplinano l’importazione di materiale culturale, in termini più stringenti, hanno fatto sì che numerosi beni, che non trovano più una collocazione nel mercato lecito, siano venduti in quello illegale:7 4 T. Montanari, Le pietre e il popolo. Restituire ai cittadini l’arte e la storia delle città italiane, Roma 2013, p. 46. 5 Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, Attività operativa 2014, p. 17. 6 V. Ferrante, Migliaia di reperti recuperati dalla Svizzera, in I tesori dell'arte nelle mani della mafia, La Repubblica, 12 gennaio 2015. 7 S. Beltrametti, Il valore del patrimonio culturale. Dati e analisi sul traffico illecito dei beni culturali, in Aedon. Rivista di arti e diritto on line, 1, 2013. Nell’articolo l’autrice afferma, inoltre, che per la sua stessa natura “é difficile ottenere dati empirici che diano una dimensione alle attività illegali”: il giro di affari annuo, a livello mondiale, è stimato tra i 300 ai 6.000 milioni di dollari. La forbice del dato fornito fa riferimento, da un minimo a un massimo, relativo alle diverse fonti primarie comparate. 14 una forte domanda e una diffusa sottovalutazione, talvolta scivola verso la connivenza, del fenomeno criminale da parte degli acquirenti rendono, accanto alla tutela, ancora più gravoso il compito di prevenzione e contrasto. I furti, ai danni del patrimonio italiano nel corso del 2014, secondo i dati ufficiali forniti dal Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, risultano 609 e registrano una flessione del 9,9% rispetto al 2013.8 Gli oggetti trafugati, di carattere libraio o archivistico, ammontano a 963 contro i 6769 dell’anno precedente: una riduzione così vistosa, pari all'85,8%, è, secondo il Reparto Specializzato dell’Arma, “in parte ascrivibile alla costante attività di sensibilizzazione del personale delle biblioteche pubbliche e private sulle corrette procedure di tutela”. Il settore resta, per sua natura, vulnerabile: lo scaffale aperto permette agli utenti un contatto diretto con il bene, inoltre l’“assenza di sistemi che segnalino l’uscita non autorizzata degli stessi dalle strutture archivistiche e bibliotecarie, nonché dalla scarsa efficacia della sorveglianza”9 possono rendere impari lo sforzo di difendere il patrimonio dal saccheggio, sia esso episodico o sistematico. E quando il pericolo è endogeno? Un caso emblematico ha riguardato la Biblioteca Statale Oratoriana dei Girolamini a Napoli (fig. 1-2), una delle più importanti biblioteche d’Italia, con un patrimonio librario, prima della nomina di De Caro, di circa 159.700 unità tra volumi ed opuscoli, tra i quali 137 stampati musicali, 5 mila edizioni del Cinquecento, 120 incunaboli, 10 mila edizioni rare e di pregio, 485 periodici, una quantità non ancora determinata di microfilm e ritratti. Specializzata in Teologia cristiana, Filosofia, Chiesa cristiana in Europa, Storia della Chiesa, Musica sacra e Storia generale dell’Europa, è una delle più ricche del Mezzogiorno e la più antica tra quelle 8 9 Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, Attività operativa 2014, p. 5. Ivi, p. 7. 15 napoletane, a lungo frequentata da Giambattista Vico. Per comprendere, o almeno provare a definire, i contorni relazionali e i varchi istituzionali di questa vicenda giudiziaria è necessario riavvolgere il nastro biografico del principale protagonista. Marino Massimo De Caro nasce a Bari nel 1973. Della sua formazione precoce racconta di aver cominciato a fare politica a quattordici anni, come responsabile per gli studenti medi dell’allora FGCI, e poco più che adolescente scopre la “passione per i libri antichi”.10 Negli anni ‘90 si afferma tra i leader del movimento la Pantera e nel 1994 ha inizio la sua carriera: il senatore Carlo Carpinelli ne fa il suo assistente e comincia a frequentare gli ambienti romani. Dal 1995 al 200011 è consigliere comunale a Orvieto. Per “fare qualcosa di utile per il paese” nel 1997 entra nell’Arma dei Carabinieri: lascia l’incarico da Carpinelli e assolve l’obbligo di leva.12 Ai giornalisti Claudio Gatti e Ferruccio Sansa dichiara: “Sono laureato in scienze economiche e giurisprudenza all’Università di Siena”.13 Millanta due titoli inesistenti: immatricolatosi, effettivamente, a giurisprudenza nel 1992, era rimasto iscritto a Siena, senza laurearsi, fino al 2002. “In compenso, il 22 settembre del 2004 l’Univesidad Abierta Interamericana (privata) lo nomina dottore honoris causa in cambio del dono di quattro libri antichi e di un meteorite piovuto nel Sahara”.14 Accanto all’impegno politico, che si rivelerà straordinariamente connesso e funzionale, alla fine degli anni ‘90 De Caro si trasferisce a Verona; apre una libreria e intrattiene rapporti di collaborazione con 10 C. Gatti, F. Sansa, Il sottobosco. Berlusconiani, dalemiani, centristi uniti nel nome degli affari, Milano 2012, p. 18. 11 M. Lillo, Sul suo conto sempre più soldi. Niente crisi per Dell'Utri, Il Fatto Quotidiano, 19 agosto 2011. 12 C. Gatti, F. Sansa, Op. cit., p. 29. 13 Ivi, p. 17. 14 T. Montanari, Op. cit., p. 49. 16 un’altra a Buenos Aires dell’antiquario argentino Daniel Pastore: “Prendevamo insieme dei libri e poi li vendevamo alle fiere organizzate in Europa e nel mondo”,15 racconta. Politico, bibliofilo e manager: è socio al 50% di Marco Jacopo Dell’Utri, figlio dell’ex senatore Marcello Dell’Utri, in Mitra Energy Consulting ed è vicepresidente-consulente di Avelar, società ginevrina controllata dall’oligarca russo Viktor Feliksovich Vekselberg.16 De Caro, Dell’Utri e Vekselberg: interessi convergenti e un amore comune per i libri antichi. Nella seconda metà degli anni Duemila, De Caro è coinvolto in un procedimento giudiziario con l’accusa di ricettazione: nel marzo del 2005 l’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, un prezioso incunabolo del 1499 contenete i timbri di una biblioteca milanese, viene messo in vendita alla Mostra del libro antico di Milano, evento patrocinato da Marcello Dell’Utri. Il volume, secondo la ricostruzione dei Carabinieri, proviene da un’asta in Svizzera e De Caro dichiara di averlo acquistato per conto del collaboratore argentino; “interrogato per rogatoria” Pastore nega ogni coinvolgimento e riaccusa De Caro. Nel corso di una conversazione telefonica intercettata dalla Procura di Reggio Calabria il 27 dicembre 2007 De Caro si lamenta con Aldo Micciché17 di “un capitano dei Carabinieri del Nucleo del patrimonio artistico di Monza che lo sta «scocciando» per un libro acquistato in un’asta pubblica in Svizzera”: l’accusa di ricettazione blocca “la sua nomina a console onorario del Congo perché il ministero degli Esteri non sta concedendo il nullaosta”. Un mese più tardi Micciché 15 C. Gatti, F. Sansa, Op. cit., p. 18. Gatti e Sansa lo descrivono come un “magnate dell’alluminio e del petrolio e uno degli uomini più ricchi della Russia putiniana”, Op. cit., p. 16. 17 Nell’ambito dell’inchiesta “Cento anni di storia” viene arrestato il 23 luglio 2012 a Caracas: il faccendiere, latitante da 4 anni e condannato a 11 anni di reclusione, è ritenuto emissario della cosca dei Piromalli-Molé di Gioa Tauro in Venezuela e anello di congiunzione tra la 'ndrangheta e Marcello Dell’Utri. Cfr.: L. Musolino, Caracas, arrestato Aldo Miccichè, mise i Piromalli in contatto con Dell’Utri, Il Fatto Quotidiano, 24 luglio 2012. 16 17 rassicura De Caro: “Stai tranquillo che Aldo ti segue. […] Devo mandare una persona a Milano... dalla giudice”. È il 17 luglio 2009 quando Maria Letizia Mannella, sostituto procuratore di Milano, chiede il non luogo a procedere “rilevato che l’incunabolo non è stato rinvenuto fisicamente, malgrado le numerose ricerche”: l’oggetto di presunta ricettazione è svanito nel nulla e l’incriminazione viene archiviata.18 Negli stessi anni, tra il 2007 e il 2009, De Caro funge da mediatore in una intricatissima vicenda che riguarda un affare “di milioni di barili di petrolio venezuelano”.19 Gatti e Sansa ricostruiscono network e fatti incrociando le carte dell’inchiesta della procura di Reggio Calabria sulla ‘ndrina dei Piromalli e quelle della procura di Bari sulla malasanità pugliese. Nel business entrano Roberto De Santis, “il prototipo del lobbista all’italiana” o meglio noto come “l’uomo di D’Alema”, Aldo Micciché, al tempo ancora latitante, Marcello Dell’Utri e, appunto, Massimo Marino De Caro, l’“espressione di quel sottobosco in cui il mondo berlusconiano si incontra e si sposa con quello dalemiano”. Dalle conversazioni emerge netta la forza del nesso indissolubile tra affari e politica ma, “nonostante la duplice serie di intercettazioni, a Reggio Calabria e a Bari, gli inquirenti non riusciranno ad appurare se quell’operazione di greggio venezuelano si sia effettivamente conclusa”.20 De Caro si confronta con Micciché, ambisce, come se gli spettasse, a un incarico pubblico “all’Enel o all’Eni”, in alternativa non disdegna una candidatura al Parlamento italiano: “Perché è qui che giochiamo le partite”.21 Nel contempo, dalle intercettazioni 18 C. Gatti, F. Sansa, Op. cit., pp. 18-19. Ivi, p. 11. Più avanti, a p. 22, si sostanzia l’ammontare: “tre milioni di barili di greggio all’anno per tre anni” […] il cui “margine totale [di profitto] sarebbe di 10,5 milioni di dollari all’anno […] da spartire con i funzionari della Petróleos de Venezuela Sa”. 20 Ivi, pp. 17-25. 21 Ivi, pp. 35-37. 19 18 baresi tra De Caro e De Santis, affiorano altri scenari ed elementi che caratterizzano il peso specifico delle relazioni: sono oggetto di attenzioni Telecom Argentina, una controllata di Telecom Italia, l’eolico e il fotovoltaico in Puglia, e non mancano rivendicazioni e spartizioni di potere, coperture e indulgenze politiche in cui la triangolazione affari-denaro-politica si autoalimenta. In tutto ciò, la figura di Marino Massimo De Caro si distingue come personalità versatile, appare come il pragmatico facilitatore di un “incesto politico” che perora interessi privati senza troppi riguardi dei beni comuni. Nel 2011, nel corso delle indagini sulla P3, la Guardia di Finanza intercetta due assegni che dal conto di Marino Massimo De Caro e della moglie transitano su quello di Marcello Dell’Utri: 414.000 euro in totale e il secondo assegno di 250.000 euro risulta “impagato”. Dal rapporto emerge inoltre che l’attività del conto di De Caro “è stata segnalata da Deutsche Bank poiché caratterizzata da consistenti movimenti a mezzo assegni e dall’accredito in data 8 aprile 2009 di un bonifico di 1.178.204 euro disposto dalla Greenock Consultants Limited tramite la Hellenic Bank PLC di Nicosia (Cipro) a titolo di prima rata per il finanziamento del 2 aprile 2009”. La Finanza annota che i pagamenti per 245.000 euro sono stati fatti “a titolo di saldo: pagamento lettera di Colombo 1492”. Intervistato da il Fatto Quotidiano, il 19 agosto 2011 Marino Massimo De Caro spiega: “Ho pagato Dell’Utri per un libro rarissimo che riporta la lettera del 1493 scritta da Colombo a Isabella d’Aragona. In realtà, al senatore ho pagato quel libro molto di più: un milione di euro in tutto. In parte in contanti, come risulta, e in parte con altri libri. I soldi vengono dal conto di Cipro del mio amico russo Vekselberg ma gli affari del petrolio non c’entrano nulla. Anche Vekselberg è un amante dei libri antichi. Mi ha prestato 1,3 milioni che non gli ho ancora restituito. Tanto ha in 19 garanzia le opere comprate”.22 Il nome di Marino Massimo De Caro, ricorrente in geometrie relazionali variabili il cui comune denominatore sono appunto libri e affari, è spesso coinvolto, ‘solo’ come indagato o sospettato, in varie vicende in Italia e all’estero.23 È lecito, come ha fatto il prof. Tomaso Montanari, chiedersi: “in un paese normale quante possibilità ha uno con questo curriculum di arrivare a dirigere una delle quarantasei biblioteche pubbliche statali?” Nessuna o molto poche, ma “se da noi ci riesce, è solo grazie a una cosa: la politica”.24 Libri, uomini e topi, a caratteri capitali cubitali è il titolo, Segreti e bugie di Marino Massimo De Caro, neo direttore della biblioteca napoletana dei Girolamini,25 è il sottotitolo sottolineato dell’articolo denuncia di Tomaso Montanari26 a cui il Fatto Quotidiano del 30 marzo 2012 dedica metà della pagina 19. L’accademico fiorentino punta così i riflettori sulle tenebre calate nei mesi precedenti sulla Biblioteca Statale Oratoriale annessa al Monumento Nazionale dei Girolamini, in coincidenza con la nomina a direttore, il 1 giugno 2011, di Marino Massimo 22 M. Lillo, Op. cit. “Inquietante” è, secondo Tomaso Montanari, la mole di risultati che Google fornisce sulle “implicazioni di De Caro in clamorosi furti di libri importanti da biblioteche pubbliche sudamericane e spagnole”. 24 Ivi, p. 49. 25 T. Montanari, Libri, uomini e topi. Segreti e bugie di Marino Massimo De Caro, neo direttore della biblioteca napoletana dei Girolamini, Il Fatto Quotidiano, 30 marzo 2012, p. 19. 26 Autorevole storico e critico dell’arte e brillante accademico fiorentino, allievo di Salvatore Settis. Insegna Storia dell’arte moderna presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, già editorialista e blogger de il Fatto Quotidiano, collabora con il dorso del Mezzogiorno del Corriere della Sera e “collaboravo - scrive Montanari al termine della scheda biografica sul suo blog - anche al “Corriere fiorentino”, ma il mio libro Le pietre e il popolo, dedicato in parte all’uso del patrimonio culturale come arma di distrazione di massa da parte di Matteo Renzi mi ha messo fuori «dalla linea del giornale». Pazienza: mi sono consolato col premio Giorgio Bassani di Italia Nostra per il giornalismo culturale, e con la coccarda di Commendatore, assegnatami dopo la denuncia del saccheggio della biblioteca napoletana dei Girolamini - dal Presidente della Repubblica, «per l’impegno a difesa del nostro patrimonio»”. Dall’autunno 2014 è autore di “Articolo 9”, un blog su Repubblica.it. 23 20 De Caro: “Siffatta nomina non può considerarsi mero antecedente fattuale delle condotte criminose successive poste in essere quanto piuttosto il primo passo di una complessa e preordinata attività”, sostenne il Pubblico Ministero nel corso della requisitoria.27 Ma procediamo per gradi. Il 25 marzo 2012 Montanari riceve una email dall’amico Filippomaria Pontani:28 il professore, recatosi a Napoli per consultare un prezioso codice quattrocentesco conservato dai Girolamini, lo informa circa lo stato d’inimmaginabile abbandono, degrado “e soprattutto del fatto che i due bibliotecari, i fratelli Maria Rosaria e Piergianni Berardi, precari da quasi quarant'anni, gli avevano confidato, disperati che il nuovo direttore Marino Massimo De Caro la stava sistematicamente saccheggiando”.29 Tre giorni più tardi, Montanari vi si reca constatando personalmente quanto segnalazione e preoccupazioni fossero ben sostanziate. A quel punto, il 30 marzo dalle colonne de Il Fatto Quotidiano e il 31 da quelle di Napoli del Corriere del Mezzogiorno,30 la vicenda è di dominio pubblico e la procura di Napoli apre un fascicolo di indagini che confluiranno in tre procedimenti penali. Come venne l’idea a De Caro di farsi nominare direttore della biblioteca dei Girolamini? “Tale idea - dichiara nell’interrogatorio del 2 luglio 2012 - nacque […] dopo che io ero stato licenziato da una controllata della Avelar, il senatore Dell’Utri fece il mio nome al ministro Galan 27 Documento agli atti della Sentenza n. 705/13, emessa dal GUP dott. Egle Pilla all’udienza del 15 marzo 2013 a termine del procedimento penale n. 11495/12 R.G. GIP, presso il Tribunale di Napoli, Ufficio del Giudice per le indagini preliminari, VII sezione, depositata in data 5 giugno 2013, p. 139. 28 Insegna Filologia classica presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. 29 T. Montanari, Le pietre e il popolo. Restituire ai cittadini l'arte e la storia delle città italiane, Roma 2013. pp. 46-47. 30 T. Montanari, Girolamini, una biblioteca da cani. Un personaggio del sottobosco berlusconiano a capo di una istituzione culturale di lunga storia abbandonata al degrado, Corriere del Mezzogiorno, edizione di Napoli, 31 marzo 2012. 21 per essere nominato consulente per le fonti rinnovabili, settore in cui avevo maturato significativa esperienza […] quando poi Galan divenne ministro per i Beni Culturali, mi chiese di seguirlo presso tale Ministero in ragione della mia esperienza sull’antiquariato librario. Presso il Ministero per i Beni Culturali mi occupai in particolare del taglio dei fondi per le biblioteche cosa che ritenevo molto grave […] vista la situazione della biblioteca dei Girolamini decisi che volevo diventare direttore per sistemare la biblioteca: essendo io amante dei libri antichi, pensai che quello era un lavoro a cui volevo dedicarmi”.31 E De Caro ci si “dedica” con impegno neutralizzando allarmi e telecamere, avocando a sé ogni controllo e autorizzazione circa l’ingresso, ma soprattutto l’uscita, di persone e scatole contenenti centinaia di libri preziosi (2.29232 quelli accertati e oggetto di illecita appropriazione durante il primo procedimento) e furgoni, di giorno e di notte, festivi compresi, smembrando i fondi e attribuendo nuove collocazioni, distruggendo le schede di catalogazione dei volumi sottratti e rendendo impossibile la localizzazione dei libri al punto che la consultazione da parte degli studiosi era stata sospesa: “a fronte di un patrimonio librario stimato intorno alle 171.00 unità, non risultava traccia inventariale di quasi centomila volumi, con l’evidente conseguenza che il rischio di sottrazione dei volumi risultava aggravato dalla successiva impossibilità di verificarne con certezza l’appartenenza alla Biblioteca”.33 Avendo arrecato un danno patrimoniale allo Stato non esattamente determinabile, comunque “da considerarsi non inferiore a 2.850.000 di euro”,34 il Pubblico Ministero chiede per De 31 Sentenza n. 705/13, p. 149. Di cui 1095, 791 e 259 rinvenuti rispettivamente in un box e in due abitazioni a Verona, 23 ceduti ad una libreria antiquaria di Milano e 6 ad una di Torino, 42 ritrovati presso una Srl di cui non è riportata la sede legale e 76 trovati presso una legatoria milanese. Ivi, p. 2. 33 Ivi, p. 130. 34 Ivi, p. 117. 32 22 Caro 10 anni di reclusione.35 Il Comune di Napoli si dichiara parte civile, non il Ministero per i Beni Culturali. Un caso isolato la spoliazione dei Girolamini? Agli atti emergono altri nomi e altre biblioteche: l’Istituto Don Provolo di Verona e la Biblioteca Capitolare di Padova nel periodo 2003-2005, la Biblioteca del Seminario Vescovile di Verona, le biblioteche di Montecassino, Grottaferrata, Subiaco, Farfa, Montevergine, la Ximens e la Scolopiana di Firenze, ma anche la Nazionale Centrale di Firenze, Roma e Napoli (prima e anche dopo quella dei Girolamini) oltre alla Biblioteca del Ministero dell’ Agricoltura e la Biblioteca dei Cappuccini di Fermo. “Alla base di queste visite [alle biblioteche] non vi era un progetto criminoso, anche se di fatto sono stato sempre pronto a cogliere le opportunità che esse mi offrivano”.36 De Caro, intimo di Marcello Dell’Utri e della moglie Miranda, viene raccomandano al ministro Galan come suo consigliere personale. Caduto il Governo Berlusconi, il 16 novembre 2011, De Caro resta al suo posto. Anche dopo, accanto al ministro Lorenzo Ornaghi.37 De Caro è attorniato da “un ampio e articolato circuito di conoscenze e di amicizie”,38 non manca occasione per vantare competenze di bibliofilo unite a conoscenze ed entrature nel sistema economico e industriale russo. Nelle carte giudiziarie affiorano una fitta rete funzionale alla sottrazione materiale e allo stoccaggio temporaneo dei libri, accordi e figure di mezzo, come i restauratori che si occupano della “ripulitura” dei volumi e la rimozione degli ex libris:39 “le dichiarazioni rese dal De Caro Marino Massimo […] offrivano un qua35 Per un totale richiesto di altri 27 anni e mezzo per i cinque coimputati. Sentenza n. 705/13, pp. 169-170. T. Montanari, In 500: Ornaghi dimetta De Caro, Il Fatto Quotidiano, 13 aprile 2012, p. 18. 38 Sentenza n. 705/13, p. 154. 39 Etichette o timbri apposti sulla prima pagina interna che fungono da elementi identificativi della proprietà, e della provenienza lecita o illecita. 36 37 23 dro allarmante delle connivenze politico-istituzionali e dei circuiti, nazionali ed internazionali, utilizzati per l’assorbimento commerciale dell’enorme afflusso delle migliaia di preziosi, talvolta inestimabili, volumi e manoscritti antichi sottratti alla Biblioteca dei Girolamini”.40 Dove finiscono i libri? In parte rimangono in Italia, scambiati o rivenduti ad altri antiquari o in attesa di essere trasferiti e distribuiti all’estero, in parte in Germania destinati alla casta d’aste Zisska & Schauer di Monaco di Baviera. Il processo di primo grado si conclude il 15 marzo 2013 con la condanna, ridotta da 10 anni e 6 mesi, a 7 anni di reclusione di Marino Massimo De Caro per il delitto di peculato.41 Nel maggio del 2014 la Corte di Appello di Napoli conferma la condanna e la “interdizione perpetua dai pubblici uffici”.42 Il 10 aprile 2015 la Cassazione chiude il caso e dispone per De Caro, già agli arresti “domiciliari, il trasferimento in cella”.43 Possiamo ritenere la condanna passata in giudicato di De Caro una vittoria? “In ogni caso, la Biblioteca dei Girolamini non sarà più la stessa. Il danno creato sia per le opere che non saranno recuperate sia per gli atti vandalici operati sulle singole opere irrimediabilmente danneggiate, rimarrà irreversibile […] Scriveva il Bellucci, a conclusione delle sue note storiche «certo la Biblioteca Oratoriana di Napoli non è una Biblioteca nel senso moderno della parola... ma rievoca tutto un passato glorioso per la storia della cultura napoletana. Basterebbe il ricordo che proprio in essa soleva rifugiarsi quotidianamente, quasi dimentico delle angustie familiari e dell’indifferenza dei suoi comportamenti, il nostro grandissimo Giambattista 40 Sentenza n. 705/13, p. 194. Per un totale comminato di altri 20 anni ai cinque coimputati. Biblioteca dei Girolamini, confermata in Appello la pena per l’ex direttore, Il Fatto Quotidiano, 23 maggio 2014. 43 G. Crimaldi, Napoli. Scandalo Girolamini, sette anni all'ex direttore De Caro, Il Mattino, 11 aprile 2015. 41 42 24 Vico». Dopo il saccheggio e la devastazione perpetrata in pochi mesi a cavallo degli anni 2011-2012, si può mestamente avvertire che Giambattista Vico non abita più qui”.44 Abstract Nadia Pedot, Il sacco della Biblioteca dei Girolamini di Napoli. Un caso emblematico della vulnerabilità del patrimonio culturale italiano dinanzi ad attacchi di origine endogena è quello della Biblioteca Statale Oratoriana dei Girolamini, la più antica biblioteca di Napoli ed una delle più importanti d’Italia, con un patrimonio librario stimato prima del suo saccheggio intorno alle 171.00 unità, tra cui molte edizioni rare e di pregio. Nel presente articolo si ricostruisce la vicenda politica e criminale che ha reso possibile la depredazione di questa biblioteca in pochi mesi, tra il 2011 ed il 2012, da parte del direttore in carica, nonché la vicenda giudiziaria, che si è conclusa nel 2015 con la condanna definitiva in Cassazione, con la consapevolezza, tuttavia, che il danno culturale ed economico arrecato al patrimonio culturale resta incalcolabile ed insanabile. 44 Sentenza n. 705/13, pp. 204-205. 25 Fig. 1-2: gli interni della Biblioteca Statale Oratoriana dei Girolamini di Napoli prima del saccheggio subito tra il 2011 ed il 2012. 26 Tsao Cevoli, Nicola Meluziis La Via Consolare Campana Puteolis Capuam: speculazione edilizia e problemi di tutela. Attraverso la zona dei Campi Flegrei, in Campania, si dipanava in epoca romana la Via Consolare Campana, realizzata tra la fine dell’età repubblicana e i primi secoli dell’età imperiale per connettere la costa campana con l’entroterra. Ma soprattutto questa via, accordandosi alla via Appia all’altezza di Capua, metteva in comunicazione Roma con uno dei porti principali dell’Italia antica, quello di Puteoli, e con altre importanti località della costa campana che, all’epoca, rivestivano una grande importanza commerciale, militare e come luogo di otium prediletto dalle classi dominanti di Roma. Sin dall’età repubblicana, infatti, la fascia costiera a nord di Napoli, grazie al suo clima salubre e alla sua relativa vicinanza a Roma, aveva riscosso presso i Romani particolare apprezzamento. Nonostante alcuni edifici monumentali, emergendo dal terreno per le loro notevoli dimensioni, fossero già noti da alcuni secoli, e nonostante diversi tentativi di ricerca, meritori ma parziali ed isolati, fatti nei decenni passati, manca ancor oggi sia una precisa conoscenza e visione d’insieme dell’intero percorso viario, sia una efficace politica di tutela e fruizione del suo patrimonio archeologico, costantemente minacciato dalla speculazione edilizia e dalla carenza di adeguati interventi di conservazione. 27 Il presente contributo, che riporta le conclusioni di un’attività di osservazione ed analisi su campo condotta dagli scriventi, proverà ad esaminare lo stato della tutela dei resti della Via Consolare Campana e dei suoi monumenti, di fronte ai problemi legati in particolare all'incalzante speculazione edilizia degli ultimi decenni, costituiscono, per questo, un caso di studio emblematico per valutare la reale incisività delle normative e delle strategie di conoscenza, tutela e valorizzazione del patrimonio archeologico messe in atto dal nostro Paese nel corso degli ultimi decenni. Dopo la conquista romana nel 338 a.C. l’ex colonia greca di Dicerachia, ribattezzata in latino Puteoli, conobbe un notevole sviluppo. In prossimità del porto sorsero soprattutto quartieri a carattere commerciale e produttivo, mentre l’area costiera circostante diventava la meta prediletta per l’otium delle classi più elevate di Roma, con il conseguente sorgere di molte ville residenziali. Ma Puteoli aveva anche una fondamentale importanza strategica nel controllo del Mediterraneo, che ebbe modo di dimostrare durante la Seconda Guerra Punica combattuta al fianco di Roma, cui seguì la fortificazione del porto e la deduzione della colonia nel 195 a.C. Tra la fine dell’età repubblicana e la prima età imperiale, tutta l’area flegrea poté godere di un ulteriore sviluppo, incentrato sempre sulla salubrità e bellezza naturale della zona e sul porto di Puteoli: Augusto, infatti, diede una nuova sistemazione urbanistica alla città, divenuta Iulia Augusta Puteoli, e ne elesse il porto, situato ai piedi del Rione Terra, a porto principale di Roma, istituendo anche una flotta annonaria per trasportare dall’Egitto e dalla Sicilia il grano necessario per provvedere al vettovagliamento dell’Urbe. Puteoli divenne così uno dei principali approdi in Italia di merci e uomini provenienti da ogni angolo del Me- 28 diterraneo, fattore che incise decisamente sullo sviluppo economico e culturale della città. Il porto era protetto dal mare aperto e dai venti dal cosiddetto “molo caligoliano”, una struttura, in parte oggi inglobata nelle murature moderne, costituita da pilastri (pilae) in opera cementizia con getti di pozzolana collegati da arcate, struttura terminante forse con un faro. Ancora alla metà del ‘700 ne troviamo alcune descrizioni, come quelle di Antonio Parrino,45 Giuliano De Fazio46 e Charles Dubois,47 nonché alcune raffigurazioni, come quella realizzata da Paolo Antonio Paoli48 nel 1768, oggetto di numerosi studi.49 L’evoluzione dell’area di Puteoli e dei Campi Flegrei e la sua immagine urbanistica nei secoli è documentata da diverse incisioni, tra cui quella di Ambrogio Brambilla, che tra il 1586 ed il 1590 si adoperò nel rappresentare tre delle maggiori città italiane dell’epoca e lo spazio circostante: Napoli e Milano, accomunate dal dominio spagnolo, e Roma. Di pochissimo successiva, del 1599, è la pianta di Pietro Bertelli, sempre della zona di Pozzuoli. In entrambe è esplicitamente indicata la Via Campana, ad attestarne, probabilmente, una continuità d’uso, seppur parziale, nel corso dei secoli. Nel 36 a.C. al porto di Puteoli si aggiunse poi il Portus Iulius, il grande porto militare realizzato da Agrippa. Genero di Augusto e padre di Lucio e Gaio, in seguito adottati dallo stesso Augusto, Marco Vipsanio Agrippa per realizzare il nuovo porto militare trasformò l’area costiera D.A. Parrino, Nuova guida de’ forastieri per l’antichità di Pozzuoli, Napoli 1751. G. De Fazio, Intorno al migliore sistema di costruzione dei porti. Discorsi tre, Napoli 1828, pag. 104-127. 47 Ch. Dubois, Pouzzoles antique (Histoire et Topographie), Parigi 1907, pag. 249 e sg. 48 P.A. Paoli, Avanzi delle antichità esistenti a Pozzuoli Cuma e Baja, Napoli 1768. 49 P.A. Gianfrotta, Un porto sotto il mare, in F. Zevi (a cura di), I Campi Flegrei, Napoli 1987; P.A. Gianfrotta, I porti dell’area flegrea, in G. Laudizi - C. Marangio (a cura di), Porti, approdi e linee di rotta nel Mediterraneo antico. Atti del seminario di studi, Lecce, 29-30 novembre 1996, Galatina 1998. 45 46 29 del lago Lucrino, mettendo il lago in comunicazione diretta sia con il mare che con il lago d’Averno tramite una serie di canali. Il Portus Iulius fu, tuttavia, ben presto trasformato in porto commerciale, visto che la flotta militare nel 12 a.C. fu spostata a Miseno. Il forte sviluppo urbanistico, demografico e commerciale dell’area costiera di Puteoli, soprattutto tra la fine dell’età repubblicana e i primi secoli dell’età imperiale, non poté non avere ripercussioni anche nell’entroterra. Per connettere, infatti, il mare all’entroterra fu realizzata la Via Consolare Campana Puteolis Capuam. La strada collegava Puteoli a Capua, fondamentale punto di snodo e di raccordo dove la Via Campana incontrava la Via Appia che da Brindisi portava a Roma. Via Campana da Puteoli a Capua e Via Appia da Capua a Roma: questo diventò, almeno fino alla costruzione della Via Domiziana, l’itinerario utilizzato per collegare il “porto” per eccellenza alla “città” per eccellenza, ossia Puteoli a Roma. Nel 95 d.C. fu, invece, costruita la via Domiziana per congiungere Puteoli a Roma seguendo la via costiera e immettendosi sull’Appia direttamente all’altezza di Sinuessa. Ancora più tardi l’ampliamento del porto di Ostia, voluto dall’imperatore Traiano, diede inevitabilmente un duro colpo a Puteoli, sottraendole la funzione fondamentale di porto di Roma che aveva sino ad allora rivestito. Per la città iniziò un periodo di decadenza. Danneggiato da eventi naturali il porto fu, tuttavia, tenuto ancora in uso e persino restaurato ai tempi di Antonino Pio. Pozzuoli fu colpita nel 410 d.C. dalle scorribande di Alarico: le devastazioni dovettero interessare più il territorio e le sue ville, che non il centro della città, situato sul Rione Terra, in un’ottima posizione difesiva. Rimase in uso la stessa via Campana, sebbene ovviamente non più con il rilevo che aveva avuto in precedenza. Nel corso del V secolo a contribuire a provocare il declino di Puteoli e 30 di conseguenza del territorio circostante fu, infine, anche il fenomeno del bradisismo. Esaminando la storia degli studi sul territorio flegreo ed in particolare sul tratto tra Pozzuoli e Quarto interessato dal tracciato della via Campana, non si può fare a meno di osservare quanto le ricerche in questo ambito risentano del fatto che il territorio di Quarto e le sue evidenze archeologiche, pur essendo spesso inclusi in studi più generali sul territorio dei Campi Flegrei, in linea di massima sembrano essere stati relativamente trascurati come obbiettivo di ricerche archeologiche, soprattutto se in confronto alle altre aree dei Campi Flegrei, oggetto invece di una lunga ed approfondita tradizione di studi. Alcuni edifici particolarmente monumentali, emergenti dal terreno per le loro notevoli dimensioni, erano già noti e visibili nei secoli scorsi, come attesta, ad esempio, un’incisione del Morelli del 1790. Quanto alle indagini su campo, dopo le ricerche solitarie e isolate del Chianese all’alba della seconda guerra mondiale,50 negli anni ‘70 il tratto della via Campana ricadente nel comune di Quarto fu interessato da una più ampia ricognizione archeologica su tutto il territorio comunale effettuata dal Gruppo Archeologico Napoletano, associazione di volontariato nata nel 1971, in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica. Furono allora censite in tutto il territorio di Quarto centinaia di strutture archeologiche che vennero schedate, fotografate, rilevate e spesso ripulite.51 50 G. Chianese, Ricognizione della Consolare Campana lungo il suo tracciato meno noto, in Campania Romana: Studi e materiali editi a cura della Sezione Campana degli Studi Romani, vol.1, 1938, pag. 47-65. 51 Solo una breve sintesi delle ricerche approdò nel volume AA.VV., Materiali per lo studio storico archeologico del territorio flegreo. Vol. I: Quarto Flegreo. Napoli 1980, pubblicato con il contributo dell’Ente Provinciale del Turismo di Napoli, mentre la maggior parte dei dati raccolti rimasero non pubblicati. Le ricerche furono poi in parte riprese dal Gruppo Archeologico Napoletano, in realtà soprattutto nell’area circostante, intorno alla metà degli anni ‘90, ma senza approdare ad una pubblicazione. 31 Il territorio di Quarto è stato, inoltre, interessato sempre a partire tra la fine degli anni '60 e gli inizi degli anni ‘70 da dettagliati e analitici studi sul territorio di Pozzuoli e Quarto compiuti da Lorenzo Quilici e Stefania Gigli Quilici,52 poi in seguito da alcuni allievi53 e da altri, pochi, sporadici studiosi.54 Manca, dunque, ancor oggi una visione d’insieme completa dell’intero tratto. Se del suo percorso iniziale, nel territorio puteolano, infatti, oltre a puntuali ma isolate informazioni in pubblicazioni di singoli interventi di scavo, in prevalenza d’emergenza,55 abbiamo soprattutto una presenza cospicua di tracce sul territorio, che ci permetto oggi di avere un quadro abbastanza delineato del tragitto della strada romana, in alcuni tratti persino ancora in uso ed in parte ripresa dalla viabilità moderna, che viaggia quasi sempre parallela alla strada antica, nel tratto di Quarto, invece, sia a causa della conformazione del luogo sia a causa della moderna urbanizzazione, le tracce attualmente visibili sono più rarefatte. Ciò vale in particolare per il tratto centrale della via a partire dalla moderna 52 L. Quilici, La via Campana antica e la nuova tangenziale est-ovest della città di Napoli, Italia Nostra 62, 1969, pp. 32-48; L. Quilici, Il problema culturale archeologico dei Campi Flegrei, La Parola del Passato, XXIV, 126, 1969, pag.224-240; L. Quilici, Un’occasione di recupero culturale ed urbanistico per la via Campana antica, La parola del Passato, 136141, 1971, pp. 68-80; L. Quilici - S. Quilici Gigli, Un gruppo di colombari sulla via Vecchia Campana, Atti e Memorie della Società Magna Grecia, 9-10, 1969, pp. 75 e sg.; S. Quilici Gigli, Pozzuoli: un colombario sulla via Campana, Archeologia Classica 22, 1970, pp. 191-196. 53 L. Petacco, Le vie Puteolis Capuam e Cumis Capuam, in M. Guaitoli (a cura di), Lo sguardo di Icaro. Le collezioni dell’Aerofototeca Nazionale per la conoscenza del territorio, Roma 2003, pp. 446 e sg. 54 Ad esempio: M. Pagano, Sulla carta archeologica del comune di Quarto Flegreo, Puteoli 4-5, 1980-1981, pp. 257-264. 55 Si veda ad es. C. Gialanella, Pozzuoli tra programmazione ed emergenza, in AA.VV. Archeologia in Campania. Incontri di lavoro per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico archeologico, Soprintendenza Archeologica delle Provincie di Napoli e di Caserta, Giugno 1987, Napoli 1987, pag. 69-78; C. Gialanella, La topografia di Puteoli, in F. Zevi (a cura di), Puteoli, Napoli 1993. pag. 73 e sg.; C. Gialanella (a cura di), Nova antiqua phlegraea. Nuovi tesori archeologici dai Campi Flegrei, Napoli 2000; C. Gialanella, C. Valeri, Puteoli. Nuovi scavi e ricerche, in Bollettino d’Arte, 2001, pag. 5-46. 32 stazione ferroviaria della linea Circumflegrea di Quarto Officina. In aiuto alla nostra ricerca può venire solo parzialmente la Tabula Peutingeriana, una copia medievale del XII secolo di una carta itineraria del mondo antico redatta probabilmente alla fine del III secolo o nel IV secolo d.C., poi successivamente aggiornata. In essa sono segnate le città di Puteoli e di Capua, ma mentre, però, delle altre principali vie di comunicazione è segnato sommariamente anche il tracciato, nel caso della via Consolare Campana Puteolis Capuam, tra le due città è segnata solo la distanza di 21 miglia. Dato per accertato che la Via Campana ai tempi della stesura della carta, nel III-IV sec. d.C., già esisteva, come dimostra il taglio della Montagna Spaccata (fig. 4-6), già attestato in età augustea e la progressiva occupazione dei bordi della strada da parte di edifici funerari, il fatto che in una carta così importante e dettagliata della Via Consolare Campana venga segnalata solo la distanza può lasciar spazio a diverse ipotesi. Una possibile spiegazione si può legare anche a considerazioni puramente grafiche, cioè dall’ osservazione che per le dimensioni, le proporzioni e soprattutto per il notevole schiacciamento delle regioni rappresentate, non avesse senso tracciare graficamente la via, la cui rappresentazione grafica si sarebbe risolta in un trattino, e che si sia preferito indicarne piuttosto la sua lunghezza in miglia. Le ipotesi relative al tracciato e all’epoca di realizzazione della strada trovano conforto, tuttavia, anche nelle fonti antiche: sappiamo, infatti, che nel II secolo a.C. Lucilio in occasione del suo viaggio da Roma alla Sicilia, dopo esser passato per Capua raggiunse Pozzuoli e da lì si imbarcò. Il racconto del viaggio, in forma di lettera, è riportato nel terzo libro delle Satire. Del componimento, di solito designato come “Iter Siculum”, resta solo una cin- 33 quantina di frammenti di uno o due versi ciascuno.56 Plinio nella Naturalis Historia (L. XVIII), descrivendo l’agro campano, ci informa che questa zona era delimitata da due strade entrambe dirette a Capua: una che partiva da Puteoli, l’altra che partiva da Cuma. La via Consolare Campana, che misurava circa ventuno miglia, partiva dunque dal centro di Puteoli e per arrivare a Capua, ove si raccordava alla via Appia, attraversando tra gli altri, i territori degli attuali comuni di Quarto, Marano, Giugliano e Aversa. La via Campana Puteolis Capuam era, inoltre, connessa alle due principali vie di comunicazione tra Pozzuoli e Napoli: la via Antiniana o per colles e la via per Cryptam, che confluivano entrambe a Fuorigrotta, presso l’attuale via Terracina, e la strada che passava, invece, per Pianura, ove sono attestati diversi mausolei e strutture funerarie, nonché resti delle numerose villae rusticae che sorgevano nei pressi della strada. Del tracciato della via Campana il primo tratto, da Pozzuoli a Quarto, è ancor oggi particolarmente ricco di tracce archeologiche più o meno evidenti della sua presenza. Si conservano, infatti, non solo alcuni tratti della stessa strada romana, ma anche diverse strutture, per la maggior parte di natura funeraria, che sorgevano ai bordi della strada stessa. A giudicare dai resti sparsi ancora presenti sul territorio, infatti, possiamo farci un’idea di come doveva apparire la via in epoca romana: da Pozzuoli, risalendo verso Quarto, era costeggiata da una fitta serie di edifici di carattere funerario, pressoché adiacenti la strada, soprattutto colombari, edifici destinati a sepolture collettive in nicchie ove erano collocati i cinerari. Immerse nella campa56 E. Castorina, Sul III libro di Lucilio, Annali della Facoltà di Magistero dell’Università di Bari 6, 1967, pag. 79 e sg.2, J. Heurgon, Viaggi dei Romani nella Magna Grecia, La Magna Grecia nell’età romana, Atti del XV Convegno di Studi sulla Magna Grecia, Taranto 1975, pag. 14 e sg. 34 gna ai lati della strada, talvolta già a poche decine di metri di distanza dalla strada stessa, si potevano spesso incontrare delle strutture abitative rustiche, che rispetto alle lussuose ville costiere avevano un più spiccato carattere rurale e produttivo (villae rusticae). Oggi questo quadro è ricostruibile solo in parte, in quanto la maggior parte del tracciato viario risulta obliterato o ancora ignoto, cancellato o celato dagli eventi storici susseguitisi nel corso dei secoli e dei millenni, che tuttavia hanno dato, talvolta, origine ad emblematici ed interessanti esempi di riuso funzionale dell’antico, come nel caso di Masseria Crisci (fig. 3), dove alcune strutture murarie romane notevolmente conservatesi in alzato, trovano un riuso funzionale, inglobate ed intergrate in una tipica e tradizionale architettura contadina. La maggiore minaccia alla consevazione del patrimonio archeologico è costituita dall’avanzata dell’urbanizzazione moderna, in particolare dall’attività edilizia che ha interessato in modo sempre più intenso l’area, soprattutto a partire dal dopoguerra della Seconda Guerra Mondiale fino a tempi recenti. Proprio tale intenso sviluppo edilizio ha consentito, tuttavia, almeno nei casi più virtuosi, la realizzazione di scavi preventivi e di emergenza che hanno permesso di portare alla luce strutture anche molto notevoli, per alcune delle quali si è riuscita a mettere in atto una strategia di valorizzazione in situ o, quantomeno, di conservazione. In altri casi delle strutture abitative e funerarie che dovevano sorgere in antico ai lati della strada restano solo tracce sparse, alcune delle quali, pur documentate in studi e ricerche archeologiche effettuate nei decenni scorsi, non sono più individuabili proprio a causa dell’urbanizzazione che li ha del tutto inglobati o obliterati. Anche laddove, d’altronde, le strutture antiche sono insierite in aree che sono state vincolate per consentirne la 35 tutela ed in prospettiva la valorizzazione e la musealizzazione in situ, oggi queste stesse strutture spesso sono ormai quasi del tutto avvolte dalla vegetazione infestante (fig. 8-10), non essendosi purtroppo riusciti a garantire un’adeguata manutenzione ordinaria di queste aree nel corso dei decenni. Restano, tuttavia, alcuni tratti con evidenze archeologiche monumentali o particolarmente significative, che costituiscono, di conseguenza, dei capisaldi nel tentativo di ricostruzione del tracciato della Via Consolare Campana. Tra questi citiamo, ad esempio, le zone di via Celle e di San Vito, con le loro fitte ed ininterrotte sequenze di monumenti funerari ed il basolato della Via Campana ancora in situ, e la cosiddetta “Montagna Spaccata”, attraverso la quale la Via Campana entrava nel territorio di Quarto. Attraverso questi resti possiamo provare a ripercorrere idealmente il primo tratto della via Consolare Campana da Puteoli a Quarto, per immaginare come doveva apparire ai tempi dei tanti viaggiatori che in epoca romana calcarono il basolato di questa strada per raggiungere da Puteoli lo snodo di Capua e da lì, attraverso la Via Appia, Roma. L’inizio del percorso della via Consolare Campana partendo da Pozzuoli vede la presenza di una struttura in opera reticolata individuata nel 1935. È lunga circa 18 metri presenta un portico con due colonne in blocchi di piperno, ha orientamento est-ovest e segue l’andamento della strada.57 Si tratta di un edificio certamente non a carattere funerario. La sua posizione topografia, all’inizio 57 G. Scherillo, Della venuta di San Pietro a Napoli, Napoli 1859, pag. 210 sg.; Ch. Dubois, Pouzzoles antique (Histoire et Topographie), Parigi 1907; AA.VV. Archeologia in Campania. Incontri di lavoro per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico archeologico, Soprintendenza Archeologica delle Provincie di Napoli e di Caserta, Giugno 1987, Napoli 1987, pag. 127; C. Gialanella, La topografia di Puteoli, in F. Zevi (a cura di), Puteoli, Napoli 1993, pag. 73 e sg. 36 della Via Campana, in un punto di snodo della viabilità urbana di Puteoli, nonché il ritrovamento in zona di alcune epigrafi riguardanti Tiro, permettono di avanzare l’ipotesi che si trattasse di una stazione di sosta (statio), forse la Statio dei Tirii di Puteoli (fig. 1-2) Benché lo stato di conservazione sia mediocre, la tecnica costruttiva ci permette di avanzare una proposta di datazione della struttura all’età augustea. L’edificio doveva, dunque, essere già visibile ai tempi dell’Apostolo Paolo. Procedendo in direzione di Quarto, in Via Celle a Pozzuoli, a nord del quadrivio dell’Annunziata e del cavalcavia ferroviario della Napoli - Roma, incontriamo il tratto di una necropoli monumentale, che si estende lungo la via Campana per una lunghezza di oltre cento metri.58 Nel 1915 i lavori della linea ferroviaria Napoli - Roma, non lontano dal tratto noto come quadrivio di S. Stefano, portarono all’individuazione ed in parte obliterarono di questo tratto della via Campana e di un gruppo particolarmente numeroso di sepolture, poste nel settore dell’antica necropoli più vicina all’abitato. Sul lato sinistro (occidentale) della strada, a pochi metri dal cavalcavia ferroviario, è attestato un unico mausoleo, inglobato in strutture moderne, mentre sul lato destro (orientale) 14 edifici a carattere funerario, disposti lungo il margine della strada, con orientamento nord-est / sudovest. La tipologia di edifici funerari più attestata è quella dei colombari, spesso realizzati su più piani, di cui uno ipogeo. Sono strutture funerarie grandi, destinate ad ospitare molte sepolture. In esse si riscontrano anche alcuni spazi per sepolture ad inumazione, principalmente nel piano pavimentale. Gli interni degli edifici dovevano es58 A. De Iorio, Guida di Pozzuoli e contorni…, Napoli 1817, pag.49-50; L. Quilici, La via Campana antica e la nuova tangenziale est-ovest della città di Napoli, in Italia Nostra 62, 1969, pp. 32-48; L. Quilici, Il problema culturale archeologico dei Campi Flegrei, La Parola del Passato, XXIV, 126, 1969, pag.224-240; P. Amalfitano - G. Camodeca - M. Medri (a cura di), I Campi Flegrei, un itinerario archeologico, Venezia, 1990, pag.132-147. 37 sere decorati, come prova il ritrovamento in alcuni casi di tracce di pitture, stucchi o della presenza di marmi. Le facciate degli edifici non sono quasi mai conservate in buono stato, ma in un caso si conserva la fronte di un edificio scandita da lesene in mattoni, in un altro caso una decorazione a stucchi. Al limite settentrionale della necropoli si trova una costruzione-segnacolo in opera reticolata, oltre il quale è conservato anche un tratto della strada antica basolata. La maggior parte degli edifici è costituita da colombari, altri, seppur non appaiono a diretta destinazione funeraria, sono da ritenere comunque connessi ai rituali funerari: uno in particolare è stato interpretato come sede di un collegium funeraticium. La presenza di spazi per inumazioni all’interno dei colombari è da mettere in relazione probabilmente con il cambio di dei rituali funerari nel corso del lungo arco cronologico di utilizzo o di riutilizzo della necropoli. Con tutta probabilità gli edifici furono prima costruiti ad una certa distanza l’uno dall'altro, poi progressivamente l’utilizzo degli spazi vuoti per la costruzione di nuovi edifici produsse, alla fine, questa successione pressoché ininterrotta. La costruzione in opera reticolata presente al limite settentrionale della necropoli doveva svolgere funzione di segnacolo del limite della necropoli stessa. L’utilizzo di diverse tecniche murarie come l’opera reticolata policroma, l’opera laterizia e l’opera mista, insieme all’attestazione del rituale dell’incenerizione, che fu in uso dal I sec. a.C. al II sec. d.C., insieme a quello dell’inumazione, suggeriscono un arco cronologico di datazione della necropoli tra la metà del I sec. a.C. e la metà del II sec. d.C. Le dimensioni del tratto della necropoli conservato è notevole e gli edifici sembrano in buono stato di conservazione, benché tutta l’area sia ormai invasa dalla vegeta- 38 zione infestante che rende gli edifici inaccessibili, nonostante i tentativi fatti in passato di ripulire e valorizzare l’area.59 Tra Via San Vito e la linea ferroviaria Circumflegrea si conserva, poi, un edificio che segue l’andamento della strada,60 con orientamento nord-est/sud-ovest, parzialmente inglobato all’interno del muro di contenimento della strada stessa. Dell’edificio si conservano anche le coperture a volta. Sempre sulla strada doveva essere presumibilmente collocato l’ingresso della struttura, non conservato. La tipologia dell’edificio sembrerebbe suggerirne una funzione funeraria, mentre la tecnica costruttiva in opus reticulatum permette di avanzare una proposta di datazione all’età augustea. La conservazione è parziale ma discreta, rimanendo almeno in parte anche la decorazione a stucco. Una situazione simile a quella di via Celle a Pozzuoli si ritrova sulla Via Campana antica, all’altezza dell’attuale Via San Vito, dove si conserva in ottimo stato un notevole tratto dell’antica strada basolata romana, conservato in tutta la sua ampiezza, ed una fila ininterrotta di edifici pertinenti una necropoli monumentale per un tratto della lunghezza di circa 170 metri. Si conserva contestualmente anche un tratto dell’antico acquedotto che costeggia la Via Campana con i pozzi ad alto parapetto che ne contraddistinguono il tracciato a distanze regolari. Si tratta 59 Nei decenni scorsi sono state fatte diverse iniziative, purtroppo sporadiche, di manutenzione dell’area. Tra il 1996 ed il 1997 anche la necropoli di Via Celle rientrò nel piano di riqualificazione dell’area flegrea che il commissario straordinario di governo finanziò con circa 1,5 miliardi di lire. I lavori furono realizzati dal Consorzio Copin. Nel 2005 l’area, di nuovo ovviamente infestata da vegetazione e rifiuti, fu oggetto di una iniziativa di carattere sociale portata avanti da alcune detenute del Penitenziario di Pozzuoli. Le detenute, con il permesso del giudice di sorveglianza che le autorizzava ad uscire scortate per otto ore al giorno, furono impegnate insieme ai dipendenti dell’Ufficio Giardini del Comune in una operazione di rimozione della vegetazione e dei rifiuti. Nessuna di queste iniziative ha tuttavia risolto in via definitiva il problema, che solo una manutenzione ordinaria e costante potrebbe risolvere. 60 L. Quilici, La via Campana antica e la nuova tangenziale est-ovest della città di Napoli, in Italia Nostra 62, 1969, pp. 32-48. 39 dell’evidenza più notevole, per estensione, attestata nel tratto qui considerato della Via Consolare Campana.61 Le tecniche costruttive adoperate per le strutture murarie sono l’opera reticolata e l’opera cementizia in tufo. Si tratta prevalentemente di edifici a carattere funerario, che però sembrano coesistere con edifici di carattere diverso, comprese probabilmente alcune tabernae. Le strutture funerarie, tutte in opus reticulatum, sono cronologicamente inquadrabili tra l’età augustea e la seconda metà del I secolo d.C. In corrispondenza di un probabile diverticolo dalla stessa Via Campana in direzione nord-ovest/sud-est, poco a nord della necropoli monumentale di San Vito, è attestata anche la presenza di altri colombari con strutture murarie in opus reticulatum ed in opus latericium, insieme a tratti dell’antico acquedotto e ad altre strutture murarie, inglobate in edifici moderni, probabilmente pertinenti ad una villa organizzata su più livelli. Spicca tra i monumenti presenti in località San Vito un mausoleo a due piani (fig. 7),62 in seguito riutilizzato come abitazione, costituito da un basamento a pianta quadrata sul quale si imposta un tamburo cilindrico, con una cornice a mattoni sagomati che funge da raccordo. Si tratta di un edificio di carattere funerario, ipogeo, che rappresenta uno dei più grande colombari presenti lungo la Via Campana. Sulle pareti esterne la decorazione architettoni61 A. De Franciscis - R. Pane, Mausolei romani in Campania, Napoli 1957, pag. 66; L. Quilici, La via Campana antica e la nuova tangenziale est-ovest della città di Napoli, in Italia Nostra 62, 1969, pp. 32-48; L. Quilici, Il problema culturale archeologico dei Campi Flegrei, La Parola del Passato, XXIV, 126, 1969, pag.224-240; R. Ling, The San Vito tomb at Pozzuoli, in Papers of the British School at Rome, 38, 1970, pp. 153 ss.; P. Amalfitano - G. Camodeca - M. Medri (a cura di), I Campi Flegrei, un itinerario archeologico, Venezia, 1990, pag.150-151. 62 Sulle varie evidenze archeologiche in località San Vito cfr.: A. De Franciscis - R. Pane, Mausolei romani in Campania, Napoli 1957, pag. 66, L. Quilici, La via Campana antica e la nuova tangenziale est-ovest della città di Napoli, in Italia Nostra 62, 1969, pp. 32-48; P. Amalfitano - G. Camodeca - M. Medri (a cura di), I Campi Flegrei, un itinerario archeologico, Venezia, 1990. 40 ca era costituita da mattoni lievemente aggettanti. Su tre lati si alternano, su ciascun lato tre nicchie, scandite da lesene. Sul quarto lato era l’ingresso ed una scala che doveva condurre al piano superiore. La camera sepolcrale, all’interno del basamento, con copertura a cupola, presentava lungo le pareti quattro edicole alternate ad altrettante nicchie contenenti urne cinerarie. L’ambiente superiore presentava solo due file di nicchie. Le pareti del mausoleo erano decorate con stucchi. La struttura è databile probabilmente alla seconda metà del I secolo d.C., dunque grossomodo all’epoca dell’arrivo a Puteoli dell’Apostolo Paolo. Più avanti, procedendo verso Quarto, sul lato est di Via Campana c’è la cosiddetta Villa dei Bovi63, una struttura abitativa risalente presumibilmente al I secolo d.C., con muri in opus reticulatum, con ammorsature angolari in opera vittata e pavimenti con mosaici. Si tratta dei resti probabilmente di una villa extraurbana, che doveva essere di proprietà della gens dei Bovii, come sembra attestare un’iscrizione qui rinvenuta. Della villa sono stati individuati alcuni ambienti, compresi due interpretati come l’impluvium, l’atrium ed il calidarium dell’impianto termale privato annesso alla villa. Arrivando a Quarto incontriamo, infine, la cd. “Montagna Spaccata” (fig. 4-6).64 Si tratta di un taglio nella roccia effettuato sul lato settentrionale di un cratere che divide Pozzuoli da Quarto: uno dei crateri del complesso vulcanico dei Campi Flegrei, prodottosi durante l’eruzione omonima detta “di Montagna Spaccata”, tra 10.500 e 8.000 anni fa. Il cratere presenta un diametro di 63 P. Amalfitano - G. Camodeca - M. Medri (a cura di), I Campi Flegrei, un itinerario archeologico, Venezia, 1990, pag.150. 64 L. Quilici, Il problema culturale archeologico dei Campi Flegrei, La Parola del Passato, XXIV, 126, 1969, pag. 227; AA.VV. Archeologia in Campania. Incontri di lavoro per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico archeologico, Soprintendenza Archeologica delle Provincie di Napoli e di Caserta, Giugno 1987, Napoli 1987, pag. 8-9. 41 circa 900 metri e se ne conserva poco più della metà della circonferenza, mentre è perduta la porzione sud-orientale. Il taglio presentava in antico un profilo a V, che oggi non è più chiaramente leggibile a causa dell’usura alle pareti provocata dal tempo e a causa della crescita della vegetazione. L’altezza media del taglio è di circa 50 metri mentre la sua larghezza nella parte superiore è di 78 metri. Il taglio attraversava la montagna per una lunghezza di circa 290 metri, con orientamento sud-est/nord-ovest. L’altezza sul livello del mare sul versante sud-orientale del taglio, cioè dal versante di Pozzuoli, al III miglio della via Consolare, è di circa 62 metri, mentre scende fino ai 52 metri sul versante nord-occidentale, cioè sul versante di Quarto. Sotto il manto stradale attuale, costituito da una gettata di asfalto, sono ancora presenti i basoli dell’antico asse stradale, non più visibili. Sulla parte bassa delle pareti sono, invece, ancora visibili delle strutture murarie in opera reticolata (fig. 6), con blocchetti di tufo, e in opera listata, mentre è ormai a mala pena leggibile un accenno di incurvatura nella parte alta delle pareti di contenimento, pertinente probabilmente ad un arco realizzato per sostenere le spinte laterali dei due lati del taglio. L’opera fu realizzata dai Romani presumibilmente tra la fine dell’Età repubblicana e l’Età augustea, per consentire il passaggio del grande asse stradale che collegava Puteoli e Capua, dove incontrava la Via Appia. Il taglio di Montagna Spaccata serviva a creare un tragitto più corto, rapido e agevole tra Pozzuoli e Quarto rispetto all’altro valico del cratere di Quarto, detto “Val di Pecora”, sino ad allora utilizzato ed ancora oggi riconoscibile più a Est di Montagna Spaccata, in contrada Pisani, nel territorio del comune di Napoli. Qui termina il primo tratto della Via Consolare Campana Puteolis Capuam. Percorrendolo, solcando ancor oggi i tratti di strada basolata ancora conservati, osser- 42 vando i resti degli edifici di epoca romana disseminati qua e là ai lati la strada lungo il percorso descritto, attraversando la Montagna Spaccata tra i muri in opera reticolata e sotto l’ombra della vegetazione mediterranea, possiamo forse immaginare le migliaia di persone che per secoli hanno calcato gli stessi basoli, visto gli stessi luoghi, gli stessi edifici, attraversato questo stesso stretto passaggio, frutto della tenacia e della perizia ingegneristica dei Romani, che da due millenni collega Pozzuoli e Quarto, dal quale lo sguardo si apriva e si apre ancora sulla conca vulcanica di Quarto, lasciandosi alle spalle il mare di Puteoli, prima di risalire verso l’entroterra, verso Capua e poi verso Roma, accompagnando merci e uomini sin dentro l’Urbe.65 Un breve accenno merita anche il tratto in uscita dalla piana quartese, dove l’antica strada raggiungeva il territorio dell’attuale Marano, inerpicandosi lungo il pendio vulcanico, ricalcando il tragitto dell’attuale via Cupa Orlando. Qui, anch’essi coperti dalla vegetazione o da strutture moderne, sono visibili labili tracce del passaggio dell’antica via consolare (fig. 11-13) e sempre qui si segnala il rinvenimento nel 1970 del miliario di Massenzio. In conclusione occorre dire che, benché il territorio dei comuni di Pozzuoli e di Quarto sia senz’altro ricco di Per approfondimenti sui singoli luoghi e aspetti dell’argomento trattato nel presente contributo, si rimanda a: AA.VV. I Campi Flegrei nell’archeologia e nella storia, Atti dei Convegni dell’Accademia dei Lincei, 33 (Roma 4-7 maggio 1976), Roma 1977; G. Corrado, Le vie romane da Sinuessa e Capua a Literno, Cuma, Pozzuoli, Atella e Napoli, Aversa 1949; C. Gialanella (a cura di), Nova antiqua phlegraea. Nuovi tesori archeologici dai Campi Flegrei, Napoli 2000; P.A. Gianfrotta, I porti dell’area flegrea, in G.Laudizi C.Marangio (a cura di), Porti, approdi e linee di rotta nel Mediterraneo antico. Atti del seminario di studi, Lecce, 29-30 novembre 1996, Galatina 1998; R. Ling, The San Vito tomb at Pozzuoli, in Papers of the British School at Rome, 38, 1970, pp. 153 ss.; A. Maiuri, I Campi Flegrei. Dal sepolcro di Virgilio all’antro di Cuma, Roma 1958; L. Petacco, Le vie Puteolis Capuam e Cumis Capuam, in M. Guaitoli (a cura di), Lo sguardo di Icaro. Le collezioni dell’Aerofototeca Nazionale per la conoscenza del territorio, Roma 2003, pp. 446 ss.; L. Quilici, Un’occasione di recupero culturale ed urbanistico per la via Campana antica, in La parola del Passato, 136-141, 1971, pp. 68-80; F. Zevi (a cura di), I Campi Flegrei, Napoli 1987; F. Zevi (a cura di), Puteoli, Napoli 1993. 65 43 evidenze archeologiche, ove, quindi, adeguate indagini archeologiche potrebbero arrivare a fornire dati sufficienti a comporre un quadro completo ed esaustivo del tracciato dell’antica Via Campana, la sopravvivenza stessa delle evidenze archeologiche individuate appare, invece, oggi minacciata dal concorrere di diversi fattori di degrado naturale ed antropico. Per quanto riguarda il fattore antropico, ciò che più incide negativamente sono senz’altro l’attività edilizia incontrollata e le catenze nella manutenzione delle strutture antiche già individuate. Come già sottolineato, infatti, anche ove si tratta di aree in cui è stata scongiurata una edificazione selvaggia, con l’obiettivo di tutelare le strutture archeologiche, è da constatare oggi un sostanziale fallimento della strategia di tutela e valorizzazione basata sulla musealizzazione in situ. Pur essendo in alcuni casi messe in atto delle misure di conservazione e valorizzazione, come la realizzazione di coperture e di grate protettive, la maggior parte delle evidenze archeologiche sinora individuata, a causa della notevole carenza di manutenzione ordinaria nel corso dei decenni successivi alla loro scoperta, appare invece in uno stato di incuria e di degrado (fig. 8-10): progressivamente erose dall’abusivismo edilizio e dalla pressione urbana, o quantomeno visivamente obliterate dalla vegetazione infestante che le avvolge, impedendone l’accesso, lo studio e la fruizione. 44 Abstract Tsao Cevoli, Nicola Meluziis, La Via Consolare Campana Puteolis Capuam: lo stato della conoscenza e della tutela. Attraverso la zona dei Campi Flegrei, in Campania, si dipanava in epoca romana la Via Consolare Campana, realizzata tra la fine dell’età repubblicana e i primi secoli dell’età imperiale per connettere la costa campana con l’entroterra. Ma soprattutto questa via, accordandosi alla via Appia all’altezza di Capua, metteva in comunicazione Roma con uno dei porti principali dell’Italia antica, quello di Puteoli, e con altre importanti località della costa campana che, all’epoca, rivestivano una grande importanza commerciale, militare e come luogo di otium prediletto dalle classi dominanti di Roma. Nonostante alcuni edifici monumentali, emergendo dal terreno per le loro notevoli dimensioni, fossero già noti da alcuni secoli, e nonostante diversi tentativi di ricerca, meritori ma parziali ed isolati, fatti nei decenni passati, manca ancor oggi sia una precisa conoscenza e visione d’insieme dell’intero percorso viario, sia una efficace politica di tutela e fruizione del suo patrimonio archeologico, costantemente minacciato dalla speculazione edilizia e dalla carenza di adeguati interventi di conservazione. Lo stato della tutela dei resti della Via Consolare Campana e dei suoi monumenti, di fronte ai problemi legati in particolare all'incalzante speculazione edilizia degli ultimi decenni, costituiscono, per questo, un caso di studio emblematico per valutare la reale incisività delle normative e delle strategie di conoscenza, tutela e valorizzazione del patrimonio archeologico messe in atto dal nostro Paese nel corso degli ultimi decenni. 45 Fig. 1 (in alto): Via Campana: edificio porticato (cd. statio dei Tirii). Stato del luogo. Fig. 2 (in basso): immagine satellitare dell’edificio nel fitto tessuto urbano contemporaneo. 46 Fig. 3 (in alto): Via Campana (Corso Italia), Masseria Crisci, caso emblematico di riuso funzionale dell’antico. Le strutture murare romane, di cui si conserva una notevole porzione dell’alzato, si fondono e si integrano con le forme tradizionali dell’architettura contadina dell’Italia meridionale. Fig. 4 (in basso): La cd. “Montagna Spaccata”, taglio effettuato sul lato settentrionale di un cratere che divide Pozzuoli da Quarto, già attestato in Età Augustea. Veduta aerea. 47 Fig. 5 (in alto): La cd. “Montagna Spaccata”, vista generale da Nord. Fig. 6 (in basso): La cd. “Montagna Spaccata”, muro di contenimento est del taglio, in opera reticolata. Vista da ovest. 48 Fig. 7 (in alto): Via Campana, mausoleo di età romana in località San Vito. Fig. 8 (in basso): Altre strutture archeologiche di età romana in condizioni di degrado nei pressi di Via Campana. 49 Fig. 9-10: Altre strutture archeologiche di età romana in condizioni di degrado nei pressi di Via Campana. 50 Fig. 11-12: Evidenze archeologiche lungo Via Cupa Orlando, tra i comuni di Quarto e Marano, in provincia di Napoli, lungo l’ipotetico tracciato della Via Cosolare Campana Puteolis Capuam. 51 Fig. 13: Evidenze archeologiche lungo Via Cupa Orlando. Muro in opera reticolata. 52 Giancarlo Germanà Bozza Un’anfora attica recuperata nell’Operazione Teseo Al termine di una lunga e complessa attività investigativa, all’inizio del 2015 i Carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale sono riusciti a recuperare oltre 5.000 eccezionali reperti archeologici, rimpatriati da Basilea, in Svizzera. L’Operazione Teseo, come è stata denominata, ha permesso il recupero di numerosi reperti archeologici provenienti da scavi clandestini avvenuti in Puglia, Sicilia, Sardegna e Calabria. Tra i manufatti, che si datano tra l’VIII secolo a.C. e il III secolo d.C., sicuramente occupa un posto di primo piano un’anfora attica a figure nere del VI secolo a. C., trafugata probabilmente da una necropoli etrusca, su cui è raffigurato Teseo che uccide il Minotauro. A questo si aggiungono altri preziosi reperti archeologici tra cui centinaia di vasi (anfore, crateri, loutrophoroi, oinochoai, kantharoi, trozzelle, vasi plastici), nonché statue votive, frammenti di affreschi, corazze in bronzo. L’indagine era cominciata a margine dell’inchiesta che aveva portato al recupero del vaso di Assteas dal Getty Museum di Malibù (USA). Le indagini hanno ricostruito il mercato illecito dei reperti archeologici. Gli elementi raccolti, le testimonianze e le verifiche condotte in campo internazionale hanno evidenziato l’opera di ricettazione, soprattutto attraverso la Svizzera, di una vastissima mole di oggetti archeologici. 53 Il meccanismo, all’epoca consolidato, prevedeva una prima fase di restauro dei reperti e una successiva creazione di false attestazioni sulla loro provenienza, resa possibile anche attraverso l’artificiosa attribuzione della proprietà a società collegate. I reperti venivano venduti in Inghilterra, Germania, USA, Giappone e Australia, con intermediazioni e triangolazioni effettuate per rendere credibile ed apparentemente legale la compravendita, oppure facendoli confluire in collezioni private costruite per simulare una detenzione regolare, prima della vendita a grandi musei. Utilizzando analisi scientifiche eseguite da esperti del settore, era stato creato un sistema per certificare i reperti tanto collaudato da ingannare anche i principali responsabili di enti museali internazionali. Fra i reperti recuperati particolare attenzione merita un’anfora attica a figure nere decorata con la scena di Teseo che uccide il Minotauro (fig. 1). Il mito racconta che ogni nove anni, in espiazione della morte di Androgeo,66 figlio di Minosse, Atene doveva consegnare sette fanciulli e sette fanciulle da dare in pasto al Minotauro nel Labirinto.67 Il mostro dalla testa di toro ed il corpo umano, che si chiamava Asterio o Asterione, era nato dall’unione di Pasifae con un toro bianco.68 Quando Teseo rientrò ad Atene dopo avere ucciso il toro di Maratona la citta si apprestava a pagare questo gravoso tributo per la terza volta. Alla vista dello strazio dei genitori che perdevano i loro figli l’eroe decise di offrirsi volontario per affrontare il sacrificio benché il padre Egeo si opponesse in ogni modo a questa decisione. Esistono, però, altre due tradizioni: secondo la prima il suo nome fu estratto a sorte, per la seconda fu lo stesso Minosse, giunto ad Atene con una 66 Androgeo fu ucciso dal toro di Maratona successivamente abbattuto proprio da Teseo. Il numero dei fanciulli ci viene dato da Serv., Aen., VI, 21, il quale attinge a fonti più antiche, in particolare Saffo. 68 D.S., IV, 61; Ig., Fabula 41; Apollod., III, 1, 4; Paus., II, 31, 1. 67 54 grande flotta, a scegliere le vittime per il tributo. In quest’ultima versione del mito Teseo accettò volontariamente la scelta del sovrano cretese, benché fosse nato a Trezene, a patto che se fosse riuscito ad uccidere il Minotauro con le sole mani Atene sarebbe stata liberata per sempre dal tributo.69 Al momento della partenza Teseo era certo del favore degli dèi e per questo si fece dare una vela bianca da portare sulla nave insieme alla vela nera che era tradizione esporre alla fine del viaggio ritorno come messaggio dell’avvenuto sacrificio dei giovani ateniesi.70 Dopo il sorteggio delle vittime Teseo guidò i suoi compagni al tempio di Apollo Delfinio per offrire al dio un ramo di olivo avvolto da un filo di lana bianca. Il mito racconta anche che, mentre le madri incoraggiavano i figli con racconti di imprese eroiche, l’eroe sostituì due fanciulle con due fanciulli dall’aspetto effemminato ma dotati di forza e coraggio raccomandando loro di non esporsi ai raggi solari e di cospargersi il corpo con oli ed essenze profumate.71 La nave che portava le vittime ateniesi a Creta era pilotata da Feace, in quanto gli Ateniesi non erano ancora esperti nella navigazione.72 Prima di salpare Teseo compì dei sacrifici in onore di Afrodite, come gli era stato ordinato dall’oracolo delfico, per ottenerne la protezione durante il viaggio. Il sacrificio si svolse sulla spiaggia e prodigiosamente la vittima, una capra, si tramutò in capro da cui l’appellativo di Afrodite Epitragia.73 La partenza, pe69 Plu., Thes.17; Apollod., Epit. I, 7; Scholia in Homeri Iliadem, XVIII, 590. Secondo un’altra versione del mito la vela era rosso porpora tinta con il succo delle bacche di cocciniglia (Plu., Thes. 17). 71 Plu., Thes., 18 e 23. 72 Secondo altre versioni del mito il pilota era Fereclo o o Nausiteo. Di a Nausiteo e Feace rimase memoria nei monumenti che Teseo eresse al ritorno da Creta sul Falero, il porto da cui era partito, e nella locale Festa dei Piloti che si celebrava in loro onore (Plu., Thes., 17; Paus., I, 1, 2). 73 Plu., Thes., 18. 70 55 rò, fu ritardata dall’ira di Apollo che scatenò una tempesta per punire Teseo colpevole di avere dimenticato di mandare delle vergini al suo tempio. Per questo motivo gli Ateniesi ogni anno, durante il mese di Munichione (aprile) inviano delle vergini al tempio di Apollo per propiziarsi il favore del dio.74 Quando la nave giunse a Creta, dopo alcuni giorni di navigazione, Minosse accolse personalmente le vittime ateniesi ma si innamorò di una di loro75 e fu fermato da Teseo mentre stava per usarle violenza.76 Il favore di Afrodite accompagnò Teseo durante tutta l’impresa e rivelò determinante nel momento in cui Arianna, figlia di Minosse, si innamorò di lui e gli promise il suo aiuto per affrontare il Minotauro ed uscire dal Labirinto a condizione di tornare ad Atene come sua moglie. Lo strumento che avrebbe dato la salvezza a Teseo era un gomitolo di filo magico che Dedalo aveva donato ad Arianna spiegandole come doveva usarlo. Una volta entrato nel Labirinto l’eroe doveva sorprendere il mostro nel sonno ed ucciderlo sacrificandolo a Poseidone, quindi doveva riavvolgere il gomitolo per ritornare alla porta d’ingresso.77 Grazie a questo stratagemma Teseo poté compiere l’impresa anche se non si sa con certezza del uccise il Minotauro a mani nude o con un’arma, la spada che gli aveva donato Arianna o la clava.78 74 Plu., Thes., 18; scolio ad Ar., Eq. 725. A riguardo esistono diverse versioni, secondo alcuni sarebbe stata Peribea, successivamente madre di Aiace, secondo altre Eribea o Ferebea. 76 Teseo si presentò al sovrano di Creta come figlio di Poseidone e questi schernendolo lo sfidò a recuperare il suo anello che gettò in mare. Teseo riuscì a compiere la prova e secondo la tradizione fu aiutato da un branco di delfini che scortarono fino al palazzo delle Nereidi, dove ricevette da Teti una corona preziosa, dono nuziale di Afrodite, che dopo avrebbe donato ad Arianna (Paus. I, 42, 1; Igino, Astronomia poetica, II, 5; Plu., Thes., 29). Questo episodio fu dipinto da Micone sulla terza parete del santuario di Teseo (Paus. I, 17, 3; Ig., Astronomia poetica, II, 5). 77 Plu., Thes., 29; Apollod., Epit., I, 8. 78 Una versione meno nota del mito, raffigurata su un bassorilievo ad Amicle, riporta che Teseo portò in trionfo ad Atene il Minotauro legato (Hom., Il, XVIII, 590; Scholia in Homeri Odysseam, XI, 322; Apollod., Epit. I, 9; Ovid., Heorides, IX, 115; Paus. III, 18, 7). 75 56 Dopo avere superato la prova Teseo liberò i fanciulli ateniesi, grazie anche all’aiuto dei due giovani travestiti da fanciulle, e con l’aiuto di Arianna si recarono al porto dove trovarono Nausiteo e Feace pronti a salpare. Per rallentare l’inseguimento Teseo aveva aperto delle falle nelle navi cretesi ma questo non evitò uno scontro navale che si risolse senza vittime fra gli Ateniesi.79 Lungo il viaggio di ritorno si sarebbe compiuto il destino di Arianna, abbandonata da Teseo sulla spiaggia dell’isola di Naxos.80 Secondo una versione cretese81 del mito il Labirinto era solo una prigione che ospitata il fanciulli ateniesi dati come pegno per la morte di Androgeo. Alcuni di loro venivano sacrificati sulla sua tomba, altri venivano dati come premio ai vincitori dei giochi funebri. Il mito del Minotauro sarebbe stata una deformazione di un personaggio storico realmente vissuto alla corte di Minosse, un generale di nome Tauro, che aveva vinto numerosi giochi e aveva avuto una relazione adulterina con la regina Pasifae protetto dall’aiuto di Dedalo. Per questo motivo Minosse lo fece combattere con Teseo e per la sua vittoria ottenne la mano di Arianna e la fine del crudele tributo imposto agli Ateniesi.82 L’impresa di Teseo con il Minotauro trova un notevole riscontro nell’iconografia vascolare attica. I primi esempi si possono datare tra il 570 ed il 560 a.C. con un progressivo aumento nei decenni successivi. Dopo la metà del VI secolo a.C. questo soggetto ebbe un evidente incremento 79 Paus. II, 31, 1; Plu., Thes., 19. Ferecide (FGrHist 3 F 148) ricorda che prima di salpare da Creta Teseo offrì la proprio chioma a Poseidone. 81 Plu., Thes., 15 e 19; Serv., Aen., VI, 14. 82 Un’altra versione meno nota del mito, narrata da un canto bottieo, racconta che non tutte le vittime ateniesi venivano sacrificate ma alcuni fanciulli venivano mandati a Delfi come offerta al dio e successivamente, non potendo essere mantenuti dal santuario, erano stati mandati prima in Italia per fondare una colonia a Iapigia e successivamente in Tracia, a Bottiea. 80 57 e rimane notevolmente attestato fino alla fine del secolo83. Nella maggior parte dei casi l’episodio è raffigurato su anfore con la tecnica a figure nere, per lo più del tipo a collo distinto. La maggior parte dei vasi decorati con questa scena provengono da Creta, ma sono numerosi anche quelli provenienti dall’area etrusca, in particolare Vulci, Tarquinia e Cerveteri. Da un punto di vista quantitativo risultano rilevanti anche Atene ed alcuni centri della Magna Grecia (Nola e Taranto) e della Sicilia (Gela). Per il vaso preso in esame è stata ipotizzata la provenienza da una necropoli etrusca già al momento del recupero ed appare ipotizzabile che si possa trattare di qualche centro dell’Etruria tirrenica, che si distingue fra le aree etrusche per l’elevato numero dei vasi con questo tema iconografico.84 Nella rappresentazione della lotta di Teseo con il Minotauro si possono individuare delle schemi iconografici precisi riferibili alle varie fasi dell’impresa. Su alcuni vasi è raffigurato l’inseguimento dell’avversario senza alcun contatto tra le due figure. La lotta è raffigurata secondo un altro schema che vede colpire il Minotauro con la spada, affermando questa tradizione su quella che lo vedeva vittorioso a mani nude. I momenti successivi alla sono la morte del Minotauro, rappresentato caduto vicino all’ eroe, e la vittoria di Teseo come epilogo dell’impresa. Il soggetto dell’anfora presa in esame presenta lo schema iconografico della lotta mortale con il Minotauro. Si può osservare, infatti, che da una parte Teseo sta per affondare il colpo mortale con la spada e dall’altra il suo avversario ormai vinto tenta un’ultima difesa cercando di allontanarPer un’analisi del tema iconografico nella ceramica attica vedi C. Servadei, La figura di Theseus nella ceramica attica. Iconografia e iconologia del mito nell’Atene arcaica e classica, Bologna 2005. 84 Per un’analisi quantitativa dei vasi attici decorati con la scena del combattimento tra Teseo ed il Minotauro si rimanda a C. Servadei, La figura di Theseus nella ceramica attica. Iconografia e iconologia del mito nell’Atene arcaica e classica, Bologna 2005. 83 58 lo ma già viene bloccato dall’eroe che poggia il piede destro sulla sua gamba destra piegata a terra. Si tratta di una scena attestata anche su altri vasi prodotti tra il VI ed il V secolo a.C. secondo uno schema ben definito: l’eroe si muove da sinistra verso destra impugnando la spada fuori dal fodero e, in alcuni casi, con altre armi (scudo, lancia). Si può cogliere un’evoluzione nella figura di Teseo, che nelle raffigurazioni più arcaiche è nudo o indossa un corto chitone, mentre in a partire dal primo quarto del V secolo a.C. si arricchisce di calzari e una clamide nonché un petaso o un pileo come copricapo. Nell’anfora presa in esame l’eroe presenta lo schema arcaico del corto chitone. Il Minotauro conserva il suo schema iconografico sostanzialmente inalterato fino alla fine alla metà del V secolo a.C. Viene sempre raffigurato in fuga verso destra con il capo rivolto all’indietro, in alcuni casi tenta di difendersi brandendo alcune pietre nella mano destra (fig. 4). Si tratta dell’arma usata dai personaggi che rappresentano la hybris attraverso loro stato tra il ferino e l’umano in contrapposizione all’ingegno umano simbolicamente reso dalla spada. Possiamo ricordare che le pietre sono le armi usate dai centauri come si vede in numerose rappresentazioni vascolari. Dalla metà del V secolo a.C. il Minotauro inizia a presentare soprattutto una posa frontale che ne accentua la sconfitta. La figura non è più resa nella corsa con le gambe piegate, di tipo arcaico, ma è ferma e flette le gambe tendendo una mando verso terra quasi ad evidenziare la fine della sua fuga. L’elemento fondamentale per la datazione del vaso è dato dall’iconografia di Teseo. Prima della fine del VI secolo a.C. l’eroe viene rappresentato con la barba o senza, con lunghi capelli fluenti o raccolti a krobylos e vestito con un corto chitone in alcuni casi sormontato da una pelle di animale. Solo in pochi casi veste in maniera diversa 59 con un semplice perizoma o indossa una corazza e porta dei calzari ai piedi. Dopo il 530 a.C. prevale l’aspetto efebico del personaggio che viene rappresentato con i capelli corti e senza barba. Nei decenni successivi i ceramografi tendono a rappresentarlo nudo, con la sola eccezione in alcuni casi del petaso portato dietro le spalle, per evidenziare la prestanza fisica, a cui corrispondeva il coraggio secondo il concetto classico della nudità eroica. Questa evoluzione iconografica fu notevolmente più lenta nella tecnica a figure nere per la tendenza conservativa che la caratterizza. Forme vascolari chiuse come l’anfora e, soprattutto, la lekythos continuano a presentare il tipo arcaico dell’eroe ancora nel primo quarto del V secolo a.C. Unico elemento che rimane costante nella figura di Teseo è la spada, impugnata o ancora nel fodero, che solo in pochi casi è sostituita da una lancia o da una clava. Nella maggior parte delle rappresentazioni la spada viene puntata verso l’avversario e solo in pochi casi si trova sollevata sopra la sua testa. La tradizione che vuole l’eroe vincitore sul Minotauro a mani nude a rappresentata su un numero ancora minore di vasi.85 La figura del Minotauro non presenta particolari variazioni riprendendo il modello che si era definito nel VII secolo a.C. anche fuori Atene. La sua natura ibrida viene rappresentata da un corpo umano con testa e coda taurine. Le uniche varianti si possono osservare nel volto, che in alcuni casi richiama altri animali, come il cinghiale,86 il leone87 ed il cavallo,88 ed in un caso le corna sono appli85 Circa quindici secondo il catalogo in C. Servadei, La figura di Theseus nella ceramica attica. Iconografia e iconologia del mito nell’Atene arcaica e classica, Bologna 2005. 86 Un’anfora attica a figure nere del tipo a collo distinto del Museum Antiker Kleinkunst di Monaco (inv. n. 1472), datata al 550 a.C. circa ed attribuita al Pittore di Londra B 213. 87 Una hydria attica a figure nere del Museum of Art di Tampa (inv. n. 86.36), datata al primo quarto del V secolo a.C. ed attribuita al Pittore del Vaticano G 49. 88 Una hydria attica a figure nere del Museum of Fine Arts di Boston (inv. n. 89.562), datata al 530 a.C. circa. 60 cate ad un volto umano.89 Il corpo del Minotauro non presenta sostanziali cambiamenti nel tempo con l’uso di alcuni segni (tratti incisi, punti sovradipinti in bianco), per rappresentarne la villosità. Per tutto il VI secolo a.C. non cambiano neanche le armi che brandisce contro Teseo, una o due pietre di piccole dimensioni strette nella mando, e solo nel V secolo a.C. i Primo Manieristi propongono una roccia di grandi dimensioni che solleva sopra la testa.90 Nello schema della lotta Teseo quasi sempre è collocato sulla sinistra mentre con una mano afferra il Minotauro e con l’altra impugna la spada per affondare il colpo mortale. Le varianti dello schema iconografico sono date dal modo in cui l’eroe afferra il mostro: per un corso, per la testa o per un braccio. In ogni caso a determinare lo schema del combattimento è la posizione dei due personaggi, che possono essere contrapposti oppure con il Minotauro in fuga verso destra con le gambe e la testa rivolte verso l’avversario, mentre in pochi casi le due figure risultano cosi sovrapposte da rendere difficile la lettura dello schema. Nei casi in cui il Minotauro non stringe in mano le pietre generalmente tende le braccia per cercare di ripararsi dal colpo mortale o in segno di supplica. Tra la fine del VI ed il primo quarto del V secolo a.C. si afferma progressivamente la tendenza a rendere frontalmente il Minotauro. Questo schema, però, si trova unicamente sui vasi a figure rosse e, generalmente, è accompagnato da una nuova posa del mostro che stando in ginocchio con una mano si appoggia ad una sporgenza del terUna lekythos attica a figure nere del Museo dell’Agorà di Atene (inv. n. P 1266), datata all’ultimo quarto del VI secolo a.C. ed attribuita alla Classe dei Leoncini. 90 Una pelike attica a figure rosse della Collezione Costantini di Fiesole, del secondo quarto del V secolo a.C. ed attribuita al Pittore di Oinanthe; una pelike attica a figure rosse dell’Harrow School Museum (inv. n. 51), datata al terzo quarto del V secolo a.C. ed attribuita ai Primi Manieristi. 89 61 reno e tende l’altra verso Teseo, il quale lo blocca premendo un piede sulla sua gamba. La presenza di altri personaggi che assistono è abbastanza comune nelle scene di combattimento. Nella maggior parte dei casi si tratta di figure femminili, efebi o uomini, collocati ai lati dei contendenti senza intervenire nella lotta e, in alcuni casi, incitano l’eroe recando corone nelle mani. Il numero di queste figure è determinato essenzialmente dalla forma vascolare, sono più numerosi e disposti in lunghe teorie sulle anfore tirreniche, sulle kylikes a fascia o a labbro risparmiato e sulle hydriai.91 In nessun caso si trovano i quattordici giovani di cui parla il mito, il loro numero rimane costantemente inferiore e non appare determinato da alcun riferimento ad altre tradizioni. La kylix firmata da Archikles e Glaukythes presenta sette fanciulli a sinistra e cinque a destra ordinate alternando un efebo ed una fanciulla che vengono identificati da una iscrizione. In questo, come in altri esemplari, non si può osservare alcuna omogeneità né tantomeno alcun riferimento a qualche fonte letteraria.92 La maggior parte dei ceramografi adotta una soluzione più semplice con pochi personaggi, uno o due per parte in uno schema simmetrico, che assistono alla lotta. L’unica divinità presente tra questi personaggi è Athena, raffigurata sui vasi del VI e della prima metà del V secolo a.C. La dea è riconoscibile per la presenza dell’iscrizione93 o per i suoi attributi, che nel caso di due anfore attribuite al Pittore Affettato è la lira.94 Questo strumento musicale è 91 E. Young, The Slaying of the Minotaur, Evidence in Arte and Literature for the Development of the Myth, Ann Arbor 1972, p. 136. 92 F. Brommer, Theseus Deutungen II, in AA, 1982, pp. 69 – 88. 93 Una kylix attica a figure nere proveniente da Vulci e conservata al Antikensammlungen di Monaco (inv. n. 2243), datata al terzo quarto del VI secolo a.C. ed attribuita Piccoli Maestri. 94 Un’anfora attica a figure nere del tipo a collo distinto proveniente da Taranto e conservata al Museo Archeologico Nazionale di Taranto (inv. n. 117234), datata al terzo quarto del VI secolo a.C. 62 presente anche in altre rappresentazioni della lotta contro il Minotauro non associato alla dea ma a efebi oppure semplicemente appeso sullo sfondo.95 Nel nostro caso il personaggio femminile che assiste alla scena, raffigurato a destra del Minotauro, si deve identificare con Athena in quanto la figura di Arianna, nonostante il ruolo determinante svolto nell’impresa, non appare prima della metà del V secolo a.C., almeno per quanto riguarda rappresentazione di questa scena. L’identificazione rimane, comunque, problematica per l’assenza di attributi specifici e solo in alcuni casi si può dire certa per la presenza dell’iscrizione onomastica. Alle spalle della figura femminile è rappresentato un uomo barbato che indossa un lungo chitone e che assiste alla scena appoggiandosi ad un lungo bastone. Nei vasi attici a figure rosse questo personaggio è stato identificato con Minosse che assiste al combattimento tra Teseo ed il Minotauro appoggiato allo scettro.96 Su una hydria attica a figure nere datata al terzo quarto del VI secolo a.C. ed attribuita al Pittore di Prometheus il sovrano, barbato e con indosso un lungo chitone ed un himation, è presente ma volge le spalle al combattimento rivolgendosi ad una donna seduta, identificata dall’iscrizione con Demodike, che regge una ghirlanda. Questo schema iconografico non trova ancora confronti ed è stato interpretato come un dialogo tra Minosse ed un personaggio che ha un ruolo di arbitro.97 Se accettiamo una tale identificazione anche per il personaggio raffigurato sull’anfora presa in esame allora non è certo da escludere che il personaggio femminile possa 95 C. Servadei, La figura di Theseus nella ceramica attica. Iconografia e iconologia del mito nell’Atene arcaica e classica, Bologna 2005, p. 104. 96 Questa struttura compositiva può essere bene esemplificata da un’anfora attribuita al Pittore del Louvre G 231 conservata ai Musei Vaticani (inv. n. 16567). 97 E. Young, The Slaying of the Minotaur, Evidence in Arte and Literature for the Development of the Myth, Ann Arbor 1972, p. 131 – 132. 63 essere proprio la figlia Arianna e non la dea Athena. La mancanza di particolari attributi nelle mani di questi personaggi, a parte il lungo bastone identificabile con uno scettro, non permette di affermare l’identificazione di questi personaggi con assoluta certezza. La particolare fortuna di questa scena determinò una sua ampia diffusione nel Mediterraneo, arrivando ad essere molto attestata in Occidente, sia nell’area etrusca che in Magna Grecia ed in Sicilia. In alcune aree, come Cipro, si impone accanto alle rappresentazioni delle imprese di Eracle, per una sorta di contrapposizione tra quest’ultimo riferibile al governo tirannico di Atene e Teseo, eroe della democrazia.98 In senso diametralmente opposto può essere visto il successo di questo tema iconografico in area etrusca, dove la società aristocratica del VI secolo a.C. si accostava alla cultura greca associandone il linguaggio iconografico a soggetti comuni come l’immagine dell’ uomo-toro attestata presso Velitrae, Gabii e Praeneste. Proprio in una necropoli etrusca si può identificare il luogo di provenienza dell’anfora attica a figure nere recuperata nell’Operazione Teseo. Concludiamo questo studio affrontando il problema dell’attribuzione dell’anfora. Possiamo osservare che questo soggetto è tra i principali del repertorio del Gruppo E con i connessi Gruppo di Londra B 174 e Pittore di Towry White. Tra il 530 ed il 510 a.C. l’uccisione del Minotauro ritorna diverse volte nel repertorio iconografico del Pittore di Antimenes, ma non mancano esempi attribuiti al Gruppo delle Sirene a Occhio e al Gruppo di Würzburg 199. Altri esempi si possono individuare nella produzione di altri ceramografi attivi nella seconda metà del VI secolo a.C., in particolare il Pittore Affettato e il Pittore dell’Olpe di Nicosia. In questo caso possiamo 98 G. Germanà Bozza, Creta, Cipro ed il Vicino Oriente. Il commercio della ceramica attica fino alle guerre persiane, Berlino 2014, pp. 111 – 112. 64 proporre un’attribuzione a Lydos o alla sua scuola, in particolare il Pittore del Vaticano 309 ed il Pittore del Louvre F 6 (figg. 2-3). Da quanto emerso in questa analisi l’anfora attica a figure nere recuperata dai Carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale nel corso dell’Operazione Teseo costituisce un’acquisizione di altissimo valore archeologico. Il suo studio permette di avere maggiori dati su un tema iconografico particolarmente caro ai ceramografi attici del VI e del V secolo a.C. La perdita di reperti di questo valore costituisce un danno irreparabile alle nostre conoscenze in quanto ci priva di tasselli fondamentali per ricostruire un più vasto quadro d’insieme. Abstract Giancarlo Germanà Bozza, Un’anfora attica recuperata nell’Operazione Teseo All’inizio del 2015 i Carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale con l’Operazione Teseo sono riusciti a recuperare da Basilea, in Svizzera, oltre 5.000 eccezionali reperti archeologici provenienti da scavi clandestini in Puglia, Sicilia, Sardegna e Calabria. Tra i manufatti, che si datano tra l’VIII secolo a.C. e il III secolo d.C., sicuramente occupa un posto di primo piano un’anfora corinzia del VI secolo a. C., trafugata probabilmente da una necropoli etrusca, su cui è raffigurato Teseo che uccide il Minotauro. Il presente studio propone un’analisi dell’anfora e di alcuni reperti, che costituiscono delle preziose acquisizioni per lo studio della ceramica e della coroplastica greca. 65 Fig. 1: anfora attica a figure nere recuperata nell’ “Operazione Teseo”. 66 Fig. 2: anfora attica a figure nere attribuita al Pittore del Vaticano 309, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, inv. n. 24994. 67 Fig. 3 (in alto): anfora attica a figure nere proveniente da Vulci attribuita al Pittore del Louvre F 6, Museo Gregoriano Etrusco Vaticano, inv. n. 313. Fig. 4 (in basso): rappresentazione del Minotauro in corsa con alcune pietre in mano in una coppa attica a figure nere del primo quarto del V secolo a.C. 68 Serena Raffiotta Il ritorno del dio degli inferi a Morgantina Nel panorama mondiale delle aree di interesse archeologico più colpite dal fenomeno degli scavi clandestini e da quello, intrinsecamente connesso, del traffico illecito di reperti archeologici, il sito di Morgantina (Aidone, Enna) (fig. 1), al centro della Sicilia, occupa senza dubbio un posto di rilievo. In passato ripetutamente saccheggiata dai tombaroli, specie tra fine anni Settanta e inizi anni Ottanta, la monumentale area archeologica è stata alla ribalta della cronaca internazionale99 nell’ultimo decennio per essere riuscita a riappropriarsi, dopo complesse indagini giudiziarie e lunghe trattative diplomatiche, di una serie di pregevolissimi capolavori dell’arte greca trafugati e acquisiti da collezionisti e prestigiose istituzioni museali statunitensi. Ci riferiamo, in ordine di restituzione all’Italia,100 alla coppia di statue acrolitiche arcaiche (fig. 2), al tesoro di argenti ellenistici (fig. 3) e alla ben più nota statua tardoLe immagini a corredo dell’articolo sono pubblicate su concessione dell'Assessorato Regionale per i Beni Culturali e dell'identità Siciliana - Museo Regionale di Aidone. È fatto divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione. 99 Della fama internazionale dei saccheggi di reperti a Morgantina è testimonianza il libro “Chasing Aphrodite. The hunt for looted antiquities at the world’s richest museum” dei giornalisti Jason Felch e Ralph Frammolino (Boston-New York 2011), in cui la vicenda della statua della dea fa da protagonista in un dettagliato racconto dei recenti scandali legati al traffico illecito di antichità trafugate che hanno coinvolto il Getty Museum. 100 Nel 2009 sono stati rimpatriati gli acroliti, nel 2010 gli argenti e nel 2011 la statua della dea. 69 classica della dea, conosciuta come “Afrodite Getty” o “Venere di Malibù” (fig. 5). Concretizzatesi a partire dal 2009 in quel progetto che la Soprintendenza di Enna - territorialmente competente volle allora simbolicamente denominare “Il ritorno delle dee”, evidenziando l’ambito religioso a cui i tre gruppi di reperti appartenevano, queste importanti restituzioni sono assurte internazionalmente ad emblema della vittoria della legalità sul traffico illecito delle antichità senza provenienza, dimostrando anche il cambio di indirizzo nella politica degli acquisti e nella gestione delle collezioni da parte di alcune tra le più potenti istituzioni museali straniere, diretta conseguenza del processo romano del 2005 che vide imputata, tra gli altri, Marion True, già curatrice alle antichità del J. P. Getty Museum di Los Angeles. Inoltre questi rimpatri hanno fatto sì che la notorietà di Morgantina, in passato conosciuta quasi esclusivamente da studiosi e appassionati di archeologia come casostudio esemplare nell’ambito delle ricerche sull’urbanistica e l’architettura greca ellenistica per via dell’eccezionale stato di conservazione dei suoi resti, oggi si sia considerevolmente estesa oltre i confini dell’area mediterranea e oltre la stretta cerchia degli specialisti, divenendo sia il sito archeologico che il museo regionale di Aidone, che ne custodisce i reperti dal 1984, tra le mete turistiche più frequentate della Sicilia. Lungi dal pensare che Morgantina dopo il 2011, anno del rimpatrio della “Venere di Malibù”, potesse ancora una volta essere protagonista della cronaca internazionale per nuove vicende legate al mercato clandestino di opere d’arte, con grande incredulità il 10 Gennaio 2013 abbiamo appreso da un comunicato ufficiale del J. Paul Getty Museum, diramato attraverso le pagine del Los Angeles Times, che il museo americano annunciava la restituzione “volontaria” alla Sicilia di una testa barbuta in terracotta 70 policroma di età greca ellenistica (400-300 a.C.), di dimensioni pari al vero, identificata come Ade, dio greco degli Inferi (fig. 6). Come genericamente precisato nel comunicato stampa, la decisione era l’esito di analisi e studi avviati congiuntamente all’Assessorato Regionale ai Beni Culturali siciliano a seguito dell’individuazione nei depositi del Museo Regionale di Aidone di alcuni frammenti associabili alla testa fittile nella collezione del Getty. Non sorprendendo gli studiosi di Morgantina la circostanza che una grande statua del dio greco Ade potesse provenire dal sito, sede privilegiata di culti ctoni tra l’età arcaica e quella ellenistica, è stata piuttosto la notizia di un ennesimo trafugamento a destare clamore. A maggior ragione per il fatto che non erano note indagini giudiziarie - né recenti né passate - intorno al pregevolissimo reperto, la cui esistenza in Italia era sconosciuta ai più prima di quell’unico comunicato ufficiale diramato dal museo californiano. Evidentemente acroliti, argenti e dea non erano tutto quello che di più importante i tombaroli avevano saccheggiato a Morgantina, come si pensava. Il sito archeologico in passato è stato un vero e proprio giacimento di tesori, alimentando a più riprese il mercato nero delle antichità. Altri reperti di inestimabile valore come la testa policroma di Ade, dunque, erano stati scavati illecitamente nel periodo in cui, tra gli anni Settanta e Ottanta, l’antica città greca era stata incomprensibilmente in balia dei tombaroli, arricchendo illegalmente prestigiose collezioni estere. La vicenda della testa di Ade, di cui paradossalmente ed inspiegabilmente a distanza di quasi tre anni dall’annuncio del Getty (10 Gennaio 2013) si attende ancora il rimpatrio, ha dimostrato con grande evidenza la necessità che l’Italia mantenga perennemente desta l’attenzione sul traffico illecito di reperti, investendo 71 tempo e denaro nella caccia all’arte rubata. La scoperta del deposito del mercante d’arte Giacomo Medici a Ginevra nel 1995 e di quello di Gianfranco Becchina a Basilea nel 2001 insieme al processo romano del 2005, che di ambedue quei fatti è stato una diretta conseguenza, hanno certo segnato una svolta epocale, turbando protagonisti ed equilibri nel mercato nero delle antichità. Con riferimento specifico al Getty, queste vicende hanno altresì avuto l’importante conseguenza di indurre il museo californiano ad avviare quella che la stampa italiana ha definito “operazione trasparenza”, un progetto di verifica della provenienza di tutta la collezione di antichità, circa 45.000 pezzi, avviato nell’estate 2012, ma ufficializzato soltanto a Gennaio 2013, con l’intento di restituire eventuali reperti acquisiti illecitamente agli Stati che ne fossero legittimi proprietari. Da dove scaturisce dunque questa nuova restituzione a Morgantina, annunciata al mondo come “volontaria” dal Getty Museum? In assenza di una specifica attività investigativa e di una richiesta formale da parte dell’Italia, quali sono state le ragioni che hanno indotto il potente museo californiano a cedere volontariamente il pregevole reperto, compiendo questo passo dal grande significato, indice di una svolta radicale soprattutto nei confronti del nostro Paese? È stata una mossa volontaria strictu sensu? La restituzione della testa di Ade si inquadra proprio nell’ambito dell’“operazione trasparenza” di cui sopra, anzi probabilmente ne è il primo risultato tangibile, perlomeno rispetto al patrimonio italiano. Il 10 Gennaio 2013 sul Los Angeles Times il Getty annunciava al mondo la restituzione della testa da Morgantina e appena nove giorni dopo (19 Gennaio 2013), sulle pagine dello stesso giornale, per la prima volta ufficializzava l’ambizioso progetto di studio di tutta la collezione di antichità con 72 l’obiettivo di dichiarare al mondo la provenienza di ogni reperto. Ma prima di entrare nel merito dell’intrigante vicenda della testa, delineandola per grandi linee sulla base delle informazioni in nostro possesso per via del coinvolgimento personale nella vicenda,101 crediamo sia opportuno inquadrarla nel contesto degli altri saccheggi e rimpatri legati a Morgantina, dagli acroliti al tesoro di argenti alla statua della dea, ripercorrendo sinteticamente anche di questi le fasi più salienti. Premettiamo che l’attribuzione al sito di tutti i capolavori trafugati in questione, eccetto che della testa di Ade, è stata determinata dall’avvio di indagini giudiziarie al Tribunale di Enna nel 1988.102 In quell’anno, cruciale nella storia più recente di Morgantina, il caso volle che due diversi filoni di indagine si incrociassero, portando la magistratura ennese nel giro di pochi mesi a conoscenza del furto dal sito dei tre preziosi gruppi di reperti (acroliti, argenti e statua della dea). Un primo filone, scaturito dalla testimonianza di un tombarolo “pentito”, avrebbe casualmente portato alla scoperta del furto sia della coppia degli acroliti che del tesoro degli argenti.103 Da un secondo più complesso filone investigativo, connesso alla figura carismatica di Thomas Hoving, già direttore del MET di New York, e alla sua personale pubblica accusa al Getty Museum dell’acquisto di una statua greca trafugata da Morgantina, Ad oggi nessuna informazione dettagliata sulla vicenda è stata diramata dall’ Assessorato Regionale ai Beni Culturali e Identità Siciliana. Le uniche, pur sintetiche, notizie ufficiali sono quelle rese note dal Getty contestualmente all’annuncio della restituzione. 102 Le vicende giudiziarie legate ai reperti trafugati da Morgantina sono state argomento di un vero e proprio “giallo” archeologico, un libro (oggi giunto alla sua seconda edizione, aggiornata proprio col racconto di Ade) a firma del magistrato Silvio Raffiotta, che quelle indagini avviò e seguì sino alla fine, attivandosi per primo per le richieste di rimpatrio. Vedi S. Raffiotta, Caccia ai tesori di Morgantina, Caltanissetta 2013². 103 S. Raffiotta, Caccia ai tesori di Morgantina, Caltanissetta 2013², pp. 5-64 (acroliti), 65102 (argenti). 101 73 sarebbe invece stato scoperto il trafugamento della “Venere”.104 Passeremo a questo punto in breve rassegna le storie dei recuperi di acroliti, argenti e dea, al fine di meglio inquadrare e comprendere la più recente vicenda di restituzione della testa di Ade. Il nostro racconto prende avvio dai reperti rimpatriati in Italia per primi nel 2009, cioè l’eccezionale coppia di statue greche arcaiche di dimensioni pari al vero note alle cronache internazionali come “gli acroliti di Morgantina”.105 Realizzate da un ignoto artista intorno al 530/520 a.C., sono le più antiche testimonianze ad oggi conosciute dell’impiego nel mondo greco di questa particolare tecnica scultorea, tipica del mondo coloniale d’Occidente, che prevedeva l’impiego e l’assemblaggio di materiali diversi (pietra, legno, metalli preziosi, stoffa) per la resa delle varie parti della scultura. In mancanza dei corpi, in questo caso verosimilmente in materiale deperibile (legno?), ciò che oggi rimane degli acroliti di Morgantina sono due teste, tre mani e altrettanti piedi in marmo di Taso.106 Il gruppo scultoreo è purtroppo manchevole di una mano e di un piede appartenenti alla statua di minori dimensioni, assenza di cui non si è mai saputo nulla. L’esposizione della coppia divina al Museo Archeologico Regionale di Aidone, inaugurata il 13 Dicembre 2009 con un originale progetto a firma dell’allora Soprintendente di Enna Beatrice Basile, ha segnato una svolta nella storia di Morgantina, rappresentando la prima tappa ufficiale di quell’importante percorso di recupero di preziosi reperti trafugati dal sito, illecitamente esportati 104 S. Raffiotta, Caccia ai tesori di Morgantina, Caltanissetta 2013², pp. 103-165. Sulla vicenda degli acroliti vedi: S. Raffiotta, Caccia ai tesori di Morgantina, Caltanissetta 2013², pp. 5-64. 106 C. Marconi, Gli acroliti da Morgantina, in Prospettiva, nn. 130-131, Aprile-Luglio 2008, pp. 2-21 (ivi bibliografia precedente). 105 74 all’estero e finalmente restituiti alla legittima terra d’origine. Simulacri a grandezza naturale delle principali divinità venerate a Morgantina, Demetra e Persefone, numi tutelari della fertilità dei campi e dell’agricoltura, gli acroliti furono trafugati tra il 1978 e il 1979 da quella che oggi è riconosciuta come la più grande tra le aree sacre dell’antica città, il santuario extra-urbano in località San Francesco Bisconti.107 Come spesso accade, la notizia ufficiosa di quel ritrovamento circolò immediatamente nel piccolo paese di Aidone e nei dintorni senza tuttavia raggiungere la Soprintendenza che, ignara dell’eccezionale scoperta illecita delle due sculture, si impegnava immediatamente nel recupero della gran quantità di reperti distrutti ed abbandonati dai clandestini, avviando nel 1979 i primi scavi ufficiali che portarono alla messa in luce delle poderose strutture di una grande area di culto extra moenia. La ricostruzione del furto dei due capolavori fu possibile solo nel 1988, quando il Tribunale di Enna avviò un procedimento penale a carico di una rete di trafficanti locali di reperti, da cui sarebbe emersa anche la notizia del trafugamento da Morgantina di un tesoro di argenti di età 107 Una sintesi delle ricerche nel santuario è in S. Raffiotta, Terrecotte figurate dal santuario di San Francesco Bisconti a Morgantina, Assoro 2007. In questa prima opera scientifica dedicata al santuario (escludendo un paio di brevi articoli precedenti, di sintesi delle indagini di scavo ivi condotte) sono pubblicate le terrecotte votive, che ne documentano la frequentazione ininterrotta tra VI e III secolo a.C. e la sua consacrazione a culti ctoni. In anni recenti chi scrive ha dedicato all’area di culto diversi articoli a stampa: S. Raffiotta, San Francesco Bisconti: i santuari di Demetra e Persefone, in C. Bonanno (a cura di), Museo archeologico di Aidone. Catalogo, Palermo 2008, pp. 77-82; S. Raffiotta, Nuove testimonianze del culto di Demetra e Persefone a Morgantina, in G. Guzzetta (a cura di), Morgantina a cinquant’anni dall’inizio delle ricerche sistematiche, Atti dell’Incontro di Studi (Aidone, 10 Dicembre 2005), Caltanissetta-Roma 2008, pp. 105-139; C. Greco-S. Nicoletti-S. Raffiotta, Due santuari delle divinità ctonie in contrada San Francesco Bisconti a Morgantina, in AA.VV., La Sicilia arcaica. Dalle apoikiai al 480 a.C., Caltanissetta 2009, pp. 129-131; S. Raffiotta, Terracotta Figurines from the Extramural Sanctuary of Contrada San Francesco Bisconti at Morgantina, in CSIG News. Newsletter of the Coroplastic Studies Interest Group, no. 5, Winter 2011, pp. 10-11. 75 ellenistica. L’inattesa confessione dell’aidonese Giuseppe Mascara, “tombarolo pentito”, mise in moto una complessa attività investigativa immediatamente assurta a livello internazionale, indirizzata a ricercare da qualche parte nel mondo i reperti rubati. Grazie alla solerte collaborazione dei Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Artistico, la magistratura ennese venne presto a conoscenza della circostanza che le due statue, immesse nel mercato delle antichità senza provenienza subito dopo la scoperta, erano arrivate in Svizzera per poi da qui pervenire in breve tempo alla galleria londinese del noto mercante d’arte Robin Symes. A sua volta costui, responsabile, come si vedrà più avanti, anche della vendita della “Venere” al J.P. Getty Museum di Malibù, nel 1980 avrebbe venduto le due dee al magnate americano Maurice Tempelsman.108 Nel 1986 le statue furono quindi esposte, in prestito temporaneo per tre anni in attesa di formalizzarne l’acquisto, nelle vetrine del Getty Museum: fu allora che vennero riconosciute da uno studioso della missione archeologica americana a Morgantina, il quale manifestò ufficialmente dei sospetti circa la provenienza delle sculture dal sito siciliano. Il cerchio stava per chiudersi. L’avvio delle indagini del Tribunale ennese nel 1988 costrinse il Getty a rinunciare all’acquisizione delle due statue, che l’Italia stava già ufficialmente rivendicando, e a restituirle al Tempelsman. Dopo anni di trattative condotte dal Ministero dei Beni Culturali, che nel frattempo aveva incaricato il Professore Clemente Marconi di analizzarle per valutarne l’autenticità,109 nel 2002 con un’abile mossa Tempelsman le avrebbe date in dono al 108 Il personaggio era noto alle cronache mondane per essere il compagno di Jaqueline Kennedy Onassis. 109 Il professor Marconi analizzò le due statue nel Marzo 2002 all’interno del caveau di una banca di New York, appartenendo ancora i reperti alla collezione Tempelsman. 76 Bayly Art Museum dell’Università della Virginia, a patto che lì rimanessero per cinque anni e che fosse celato il nome del donatore. L’Università della Virginia, che dal 1955 opera a Morgantina con una missione archeologica, accettò gli acroliti dietro autorizzazione del nostro Ministero con l’obiettivo di restituirli all’Italia nel 2007, allo scadere dell’accordo col donatore. Agli inizi del 2008, infatti, dopo un simposio scientifico organizzato dall’Università americana,110 le due dee sarebbero rientrate definitivamente in Italia, presentate per la prima volta in occasione di una breve tappa al Palazzo del Quirinale a Roma. Qui furono esposte in appendice alla mostra “Nostoi. Capolavori ritrovati”, per giungere infine a destinazione in Sicilia nel Dicembre 2009, accolte anche qui da un convegno scientifico111 e da una nuova sala appositamente allestita all’interno del Museo Archeologico Regionale di Aidone. A distanza di un anno dal rientro della coppia di sculture di età arcaica, nel Dicembre 2011 Morgantina ebbe un nuovo momento di visibilità internazionale in occasione del rimpatrio del “tesoro di Eupòlemo”, raro esempio di oreficeria greca ellenistica (IV-III secolo a.C.). Si tratta di un set di sedici oggetti in argento con dorature verosimilmente ascrivibili alla sfera del sacro (ipotesi desumibile, oltre che dalla tipologia degli oggetti, dalla presenza di dediche votive in lettere greche su alcuni di essi): due grandi coppe ovoidi con i piedi conformati a maschere teatrali; tre coppe dal fondo decorato da foglie a sbalzo; una coppetta emisferica con decorazione a reticolo; una tazza bi-ansata; una brocchetta; una phiale ombelicata con decorazione a raggiera; una pisside con coperchio ornato 110 “The Goddesses Return. A Symposium Celebrating the Repatriation to Italy of Acrolithic Sculptures from Morgantina”, Auditorium of the Harrison Institute/Small Special Collections Library, University of Virginia, February 2, 2008. 111 “Gli acroliti da Morgantina”, Giornata di Studi, Auditorium Università Kore Enna, 12 Dicembre 2009. 77 a sbalzo dalla figura di una divinità femminile con cornucopia che tiene in braccio un bambino; una pisside con coperchio decorato a sbalzo da una figura di erote con fiaccola; un medaglione, probabilmente appartenente ad una coppa come decorazione del tondo interno, raffigurante il mostro marino Scilla in atto di scagliare un masso; un altare cilindrico miniaturistico (fig. 4); un attingitoio; due corni bovini. Gli argenti furono trafugati a Morgantina intorno al 1980 e immediatamente venduti in Svizzera dal mercante d’arte americano Robert Hecht al Metropolitan Museum of Art di New York. All’acquisto di un primo lotto nel 1981 seguì quello di un secondo gruppo di pezzi nel 1982, con un investimento complessivo di 2.742.000 dollari. A completare la collezione già del MET fu infine l’acquisto, nel 1984, di una seconda pisside con figura di erote a rilievo sul coperchio. Ad eccezione di questa pisside, il tesoro venne pubblicato nell’estate del 1984 sul bollettino ufficiale del museo, indicandone genericamente la provenienza dall’Italia meridionale con la precisazione che il rinvenimento risaliva ad oltre un secolo prima.112 Dall’ufficializzazione di quell’importante acquisto scaturirono i primi sospetti sulla provenienza illecita degli argenti, ipotesi per la prima volta avanzata dallo studioso Pier Giovanni Guzzo, che già nel 1986 si volle occupare del tesoro.113 Come nel caso degli acroliti, l’attribuzione del tesoro a Morgantina fu possibile nel 1988 a seguito della confessione del tombarolo Giuseppe Mascara, che nel corso di un procedimento penale a suo carico al Tribunale di Enna volle collaborare, raccontando del trafugamento dal sito D. Von Bothmer, A Greek and Roman treasury, in “The Metropolitan Museum of Art Bulletin”, Summer 1984, pp. 54-60. 113 P.G. Guzzo, Argenti a New York, in “Bollettino d’arte”, 121, 2002, pp. 1-46 (ivi bibliografia precedente). 112 78 degli acroliti e degli argenti. Alla conseguente legittima richiesta, inoltrata dall’Italia, di fornire informazioni circa la provenienza degli argenti, il Metropolitan Museum rispose che, prima di arrivare in Svizzera, essi erano appartenuti, sin dal lontano 1961, ad un antiquario di Beirut, che a sua volta li aveva ricevuti in eredità dal padre. Fu subito evidente la pretestuosità di quella risposta, oltretutto perché non supportata da alcun documento ufficiale; tuttavia ciò all’epoca non venne ritenuto sufficiente dalle nostre autorità per rivendicare la collezione come illegalmente scavata ed esportata dall’Italia. Una svolta si ebbe nel 1997 quando la Soprintendenza di Enna, su richiesta della magistratura ennese, avviò uno scavo scientifico nel sito indicato dal “pentito” come luogo di rinvenimento del tesoro. Lo scavo, delegato al direttore della missione archeologica americana a Morgantina, il Professore Malcolm Bell, mise alla luce in un quartiere residenziale ad ovest dell’agorà ellenistica una casa del IV secolo a. C., distrutta dai Romani alla fine della seconda guerra punica (211 a.C.) ed in più punti devastata dai tombaroli. Le indagini archeologiche confermarono l’attendibilità del “pentito”: due buche sul pavimento in terra battuta della casa, intercettate e svuotate dai clandestini, sembravano poter avere custodito per secoli gli argenti, nascosti in antico in un momento di pericolo, verosimilmente durante l’assedio dei Romani del 211 a.C. A conferma del passaggio dei clandestini si rinvenne anche una moneta da cento lire coniata nel 1978, terminus post quem per datare grossomodo il loro intervento. Nel frattempo nel 1999 lo stesso Professore Bell fu finalmente autorizzato dal MET ad esaminare di persona i reperti, accorgendosi che su alcuni dei pezzi compariva iscritto il nome greco di Eupolemo. Un nome già noto a Morgantina, perché presente su una laminetta in piombo di età ellenistica qui rinvenuta su cui era stato inciso un 79 contratto di compravendita di una casa e di un vigneto, tra i cui testimoni vi era tale “Teodoro figlio di Eupolemo”. Nonostante il Metropolitan Museum continuasse ad insistere sulla provenienza libanese del tesoro, senza però dimostrarla, l’iscrizione forniva un ulteriore fondamentale indizio a favore della provenienza degli argenti da Morgantina. A dispetto delle tante prove raccolte, tuttavia, il nostro governo non si decise a fare causa al MET né, d’altra parte, i dirigenti del museo americano si convinsero per una restituzione spontanea, mostrando anzi una resistenza durissima. Il momento risolutivo arrivò nel fatidico anno 2005, quando al Tribunale di Roma fu aperto il processo a carico di Robert Hecht, il trafficante americano di opere d’arte responsabile della vendita degli argenti al MET, indicato insieme a Marion True come al vertice di un’organizzazione criminale internazionale che aveva razziato reperti provenienti da scavi illeciti in Italia. Nelle more del processo l’allora direttore del MET, Philippe De Montebello, si dichiarò disponibile ad una trattativa per restituire immediatamente ciò che risultava provenire dall’Italia. Fu così che nel Febbraio 2006 il MET e il nostro Ministero per i Beni Culturali, allora rappresentato dall’On. Buttiglione, siglarono l’accordo per la restituzione all’Italia nel 2010 degli argenti da Morgantina, insieme ad altri reperti illecitamente acquisiti. L’accordo, che prevedeva scambi e prestiti di opere d’arte tra i due Stati, fu onorato ed il tesoro di Eupòlemo restituito all’Italia, esposto per la prima volta il 19 Marzo 2010 al Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo. Di lì a poco sarebbe rientrato definitivamente in Sicilia, presentato al pubblico il 4 Giugno 2010 a Palermo, in occasione della riapertura del Museo Archeologico Regionale “A. Salinas” e, infine, 80 il 3 dicembre 2010 al Museo Archeologico Regionale di Morgantina. Purtroppo oggi gli argenti di Morgantina si trovano di nuovo al Metropolitan Museum, dove resteranno fino al 2019 nel rispetto di un’assurda clausola prevista dall’accordo di restituzione, secondo cui ogni quattro anni e per un lungo periodo di quarant’anni, a dispetto della fragilità e dell’unicità dei pezzi,114 il tesoro di Eupolemo debba fare la spola tra il Museo Regionale di Aidone e l’America. E questo è un problema serio, che ci auguriamo si possa risolvere a breve facendo in modo che il prossimo rientro in Italia degli argenti nel 2019 sia definitivo. Ultimo rimpatrio in ordine di tempo è stato nel 2011 quello della “Venere di Malibù” (fig. 5), il cui recupero e la ricontestualizzazione rappresentano un grande successo del nostro Paese nella lotta al traffico illecito di reperti archeologici, segnando un punto di svolta irreversibile nella politica degli acquisti dei musei stranieri. La scoperta della colossale statua di divinità femminile, dal corpo di tenera pietra calcarea e la testa e gli arti di fine marmo greco insulare, è ancora avvolta nel mistero così come il suo trasferimento in Svizzera, dove apparve nel 1986 nelle mani di un tabaccaio di Lugano, Renzo Canavesi. Fu lui a venderla per 400.000 dollari al londinese Robin Symes, il famoso mercante d’arte che nel 1980 aveva già venduto gli acroliti di Morgantina a Tempelsman. Trasferita la statua nel suo negozio d’antiquariato a Londra, Symes tentò a lungo di collocarla presso le più note gallerie d'arte americane. Decise anche di offrirla al J. Paul Getty Museum di Malibù che, interessato alla proposta, 114 Le delicatezza dello stato di conservazione degli argenti è stata ribadita da una campagna di analisi diagnostiche eseguite al museo di Aidone nell’estate 2014 per conto dell’Assessorato Regionale per i Beni Culturali ed ufficializzata in occasione di un convegno nello stesso museo nell’Ottobre 2014, poco prima della partenza del tesoro. 81 acquisì la statua in prestito per sottoporla a perizia nel 1987, alla fine giudicandola autentica probabilmente anche per le abbondanti tracce di terra e radici ancora presenti tra le pieghe del panneggio. L’acquisto fu perfezionato il 25 Luglio 1988, dopo che al museo fu inspiegabilmente garantito dal nostro Ministero dei Beni Culturali che il reperto non risultava trafugato dall'Italia. Esposta infine nelle sale del Getty dopo un accurato restauro, attribuita ad ignoto artista greco della fine del V secolo a.C., la statua fu identificata come un'Afrodite.115 Come già brevemente anticipato, le indagini di Polizia di Stato e Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Artistico, coordinate dall'Ufficio Istruzione del Tribunale di Enna, presero le mosse nello stesso mese di Luglio 1988 dalla rivelazione di Thomas Hoving, l’ex direttore del Metropolitan Museum di New York divenuto nel tempo accusatore di tutti i grandi musei stranieri nel loro approccio al mercato dell’arte antica. Hoving dichiarò pubblicamente di essere a conoscenza del fatto che la colossale statua da poco acquisita dal Getty proveniva da scavo abusivo a Morgantina. Le indagini del Tribunale di Enna s’indirizzarono a quel punto sul campo scientifico: fu chiesto al nostro Ministero di effettuare analisi petrografiche sul corpo della statua, per verificare la provenienza siciliana del materiale lapideo. Era l’unica strada da percorrere, tanto più che al museo di Aidone, che custodiva i reperti di Morgantina, esisteva una statua femminile di una pietra all’apparenza simile a quella della “Venere”, che sarebbe potuta essere utile per una comparazione. L’accertamento, affidato al geologo Rosario Alaimo dell’Università di Palermo, fu compiuto nel 1997 ed il verdetto fu inequivocabile: il corpo della dea era stato 115 Sul clamore suscitato all’epoca da questo acquisto si veda: J. Felch, R. Frammolino, Chasing Aphrodite. The hunt for looted antiquities at the world’s richest museum, BostonNew York 2011. 82 realizzato con un tipo di pietra originaria della “formazione Ragusa” dell’altipiano degli Iblei, nella Sicilia sudorientale, ed era lo stesso identico materiale della statua femminile custodita al museo di Aidone. Pur non contestando l’esito del responso tecnico, il Getty si ostinava a trincerarsi dietro la dichiarazione dello pseudo-collezionista svizzero Renzo Canavesi, il quale aveva garantito al museo di averla ricevuta in eredità dal padre. Ufficialmente interrogato nel 1998 dal Procuratore della Repubblica di Enna, Canavesi non volle dire nulla su come e quando fosse venuto in possesso del reperto e perché l’avesse custodito per cinquant’anni senza mai mostrarlo a nessuno. Come per il tesoro di Eupolemo, la svolta decisiva nella vicenda della dea avvenne nel 2005, come diretta conseguenza delle indagini della Procura della Repubblica di Roma che misero a nudo il sistema con cui per anni avevano operato quasi tutti i grandi musei americani, compresi il Getty e il Metropolitan. La gran parte delle loro collezioni di arte greco-romana si erano formate per il tramite di spregiudicati trafficanti, che agivano in combutta con ricettatori italiani stabilmente residenti in Svizzera. La statua della dea di Morgantina rientrava in quel sistema, così come gli altri importanti reperti trafugati dal sito, cioè gli acroliti del Tempelsman e gli argenti del Metropolitan Museum di New York. La pressione dell’imminente processo a Roma e dell’opinione pubblica fecero il resto, costringendo i direttori dei musei incriminati a venire a patti con il nostro governo per la restituzione di quanto risultasse provenire dall’Italia. Fu così che il 25 settembre 2007 Michael Brand per il Getty firmò la resa per la statua, promettendone la restituzione per la fine del 2010. E così nel Maggio 2011 Morgantina poté riappropriarsi della sua dea, per sempre restituita a quel 83 contesto culturale e storico-artistico che l’aveva generata nel V secolo a.C. Chiusa la rassegna dei “vecchi” recuperi, focalizziamo infine l’attenzione sulla storia a lieto fine della testa di Ade, autentico capolavoro della coroplastica siceliota.116 La testa fu acquisita dal J.P. Getty Museum nel 1985, acquistata con un investimento di ben 530.000 dollari dal collezionista americano Maurice Tempelsman, nelle cui mani era pervenuta per il tramite di Robin Symes probabilmente intorno al 1980 contestualmente agli acroliti, trafugata dallo stesso santuario in contrada San Francesco Bisconti.117 Una volta entrata a far parte della pregevolissima collezione di antichità del museo californiano, la testa trovò subito posto alla Getty Villa di Malibù, etichettata per via della folta barba azzurra come “Head of a God, probably Zeus”. Di autore ignoto e datata al 325 a.C. circa, quanto alla provenienza fu indicato genericamente “Greek, South Italy”. Per più di un ventennio, dall’acquisizione nel 1985 al 2010, anno in cui, a quanto pare, è stato ritirato dall’esposizione per procedere alle verifiche sulla provenienza, il prezioso reperto si è lasciato ammirare da migliaia di persone incantate non soltanto dall’alto livello artistico dell’opera ma soprattutto dalla peculiarità che la rende 116 Alla testa di Ade chi scrive ha già dedicato diversi articoli a stampa, sia a carattere divulgativo che scientifico. Si veda: S. Raffiotta, Testa di Ade torna a Morgantina, in Archeologia Viva, Anno XXXII, n. 159, Maggio-Giugno 2013, p. 7; S. Raffiotta, Morgantina, un ricciolo azzurro e l’ennesimo trafugamento, in Pergusa più, Anno III, n. 1, LuglioDicembre 2013, pp. 12-14; S. Raffiotta, Una divinità maschile per Morgantina, in CSIG News. Newsletter of the Coroplastic Studies Interest Group, no. 11, Winter 2014, pp. 2326. Un primo tentative di ricostruzione del trafugamento e recupero si legge anche in S. Raffiotta, Caccia ai tesori di Morgantina, Caltanissetta 2013², pp. 167-189. 117 Una testa di divinità barbuta del 325 a.C., evidentemente l’Ade da Morgantina, faceva parte di un cospicuo lotto di reperti venduti al Getty Museum dal Tempelsman. Così si legge in F. Isman, I predatori dell’arte perduta. Il saccheggio dell’archeologia in Italia, Milano 2009, p. 82. Anche in questo libro, di fondamentale importanza per il tema di nostro interesse, al saccheggio di Morgantina è dedicato ampio spazio. Non possiamo escludere che le due dee arcaiche siano state trafugate nello stesso periodo della testa di Ade dallo stesso identico luogo. 84 davvero eccezionale: le abbondanti tracce dell’originaria policromia presenti sulla barba, dipinta di un vivace azzurro, sui folti capelli ricci, colorati di bruno-rossastro (fig. 6), e su viso e labbra, dipinti di un rosa appena percepibile a occhio nudo. Proprio per questa singolarità, che indubbiamente accresce il pregio del reperto, nel 2008 la testa fu scelta tra migliaia di reperti della collezione del museo per prender parte a un’importante mostra intitolata “The color of life”,118 organizzata alla Getty Villa per raccontare il fondamentale ruolo, talvolta dimenticato, a volte sconosciuto, del colore nella scultura dall’antichità ai nostri giorni. In quell’occasione i conservatori del Getty condussero specifiche analisi sulle vistose tracce di policromia del reperto, classificando come ematite naturale il pigmento bruno-rossastro dei capelli e come blu egiziano il colore sulla barba.119 Il caso volle che l’archeologa siciliana Lucia Ferruzza, già Graduate Intern del Getty nell’anno accademico 19851986, fosse stata incaricata di catalogare le terrecotte figurate di produzione magno-greca e siceliota nella collezione di antichità del museo, in vista di una pubblicazione tematica oggi prossima alle stampe.120 Un lavoro lungo e complesso, che richiedeva approfondite conoscenze ed esigeva puntuali confronti. Per questo motivo la studiosa ebbe a consultare con una certa attenzione la pubblicazione a nostra firma dedicata alle terrecotte figurate prove118 R. Panzanelli, E. D. Schmidt, K. Lapatin (a cura di), The Color of Life : Polychromy in Sculpture from Antiquity to the Present, Los Angeles, J. Paul Getty Museum, The Getty Research Institute, 2008. 119 Sul tema della policromia nell’arte antica con riferimento a Morgantina e, quindi, alla testa di Ade si legga il seguente contributo: S. Raffiotta, Morgantina a colori. Testimonianze archeologiche policrome dal centro della Sicilia, in M. Rossi-V. Marchiafava (a cura di), Colore e colorimetria. Contributi multidisciplinari, Vol. X A, Atti del Convegno Internazionale di studi, Genova 11-12 Settembre 2014, Genova 2014, pp. 599-610. 120 M. L. Ferruzza, Ancient Terracottas from South Italy and Sicily in the J. Paul Getty Museum, in corso di pubblicazione. 85 nienti da San Francesco Bisconti,121 sede di quel grande santuario extra-urbano consacrato alle divinità ctonie ripetutamente saccheggiato dai tombaroli negli anni Settanta, già noto come sito di provenienza degli acroliti arcaici. Agli occhi dell’archeologa, che aveva già accuratamente esaminato la testa Getty dalla singolare barba azzurra, non sfuggì tra le pagine del nostro libro la foto un piccolo ricciolo spiraliforme dipinto di un vivido azzurro, recuperato nel 1978 dai custodi tra i reperti abbandonati in frantumi sul terreno dagli scavatori clandestini. La studiosa non poté fare a meno di comparare il ricciolo con la testa in possesso del Getty, immediatamente sospettando della provenienza del reperto da Morgantina e, quindi, di un acquisto illecito da parte del museo. Erano gli anni della rivendicazione da parte dell’Italia della statua della dea, a quel tempo ancora in possesso del Getty, e la controversia non era stata del tutto definita a favore del rientro della scultura in Italia. Di conseguenza per un paio d’anni tutto rimase fermo, in attesa che la “Venere” fosse rimpatriata. Qualcosa di nuovo sarebbe accaduto subito dopo la restituzione della dea all’Italia, determinando probabilmente un’accelerazione nella decisione della restituzione dello straordinario reperto da parte del Getty. Durante la sistemazione di un nuovo magazzino nel museo di Aidone nell’estate 2011 si recuperarono per caso, ben custoditi tra altri materiali di provenienza sporadica rinvenuti a Morgantina, tre riccioli spiraliformi, due dei quali dipinti di azzurro, uno di colore rossastro. Fu subito chiaro e inequivocabile che anch’essi, casualmente recuperati nel 1988, ben dieci anni dopo il recupero del primo ricciolo nel 1978, nell’area del santuario di San Francesco Bisconti nella terra sconvolta dai 121 S. Raffiotta, op. cit. 86 tombaroli, appartenevano alla testa maschile sospetta in possesso del Getty. Non conosciamo quali tappe ufficiali siano seguite alla “ri-scoperta” dei tre nuovi riccioli, che andavano ad aggiungersi al primo, da noi edito, grazie al quale era già stato possibile anni prima presumere l’attribuzione della testa di Ade a Morgantina. Sappiamo solo che dopo l’annuncio della restituzione “volontaria” da parte del museo californiano nel gennaio 2013, derivante proprio dalla comparazione tra i riccioli al museo di Aidone e la testa al Getty, il dio degli Inferi aveva finalmente un contesto culturale e storico di riferimento, quella grande e fiorente città greca nel cuore della Sicilia i cui abitanti furono sempre profondamente devoti agli dei ctoni. Tra aprile 2013 e gennaio 2014, in occasione della straordinaria mostra “Sicily. Art and Invention between Greece and Rome”122 organizzata dal J. Paul Getty Museum e dal Cleveland Museum of Art in collaborazione con la Regione Siciliana, quasi riemergendo simbolicamente dal buio infero in cui la clandestinità l’aveva costretta per anni, la testa di Ade è finalmente tornata a farsi ammirare, questa volta però con un valore aggiunto, la possibilità, anzi piuttosto la pretesa di raccontare la reale storia di un luogo pieno di fascino quale è Morgantina. E Morgantina adesso attende trepidante il ritorno del dio degli Inferi, che possa ricongiungersi con le sue dee a completare il variegato quadro di una vita religiosa fatta di piccoli gesti rituali e di semplici doni al cospetto di quei potenti e venerandi simulacri di divinità, oggi per noi enigmatiche ma straordinarie opere d’arte. 122 C. Lyons, M. Bennet, C. Marconi (a cura di), Sicily. Art and Invention between Greece and Rome, Los Angeles, J. Paul Getty Museum, 2013. 87 Fig. 1 (in alto): Morgantina, Aidone, Enna. Veduta dell’agorà ellenistica, IV-III sec. a.C. Fig. 2 (in basso): Museo Regionale di Aidone, coppia di statue acrolitiche di età greca arcaica, VI sec. a.C. 88 Fig. 3 (a sinistra): Coppa in argento dorato con medaglione decorato a rilievo, IV-III secolo a.C., appartenenti al tesoro di Eupolemo. Fondo del Museo Regionale di Aidone, attualmente in esposizione al MET di New York. Fig. 4 (a destra): Altare miniaturistico in argento dorato (IV-III secolo a.C.), appartenente al tesoro di Eupolemo. Fondo del Museo Regionale di Aidone, attualmente in esposizione al MET di New York. 89 Fig. 5 (in alto): Museo Regionale di Aidone. Statua di divinità femminile, V secolo a.C. Fig. 6 (in basso): Testa fittile (fronte e retro) di divinità maschile, probabilmente Ade, IV secolo a.C., attribuita a Morgantina, in corso di restituzione all’Italia dal J.P. Getty Museum di Malibù. 90 Abstract Serena Raffiotta, Il ritorno del dio degli inferi a Morgantina Con un comunicato stampa sulle pagine del Los Angeles Times, il 10 Gennaio 2013 il J. Paul Getty Museum annunciava ufficialmente al mondo la restituzione “volontaria” alla Sicilia di una testa di terracotta di dimensioni pari al vero di età ellenistica raffigurante una divinità barbuta, probabilmente il dio greco degli Inferi Ade. La restituzione, tutt’altro che “volontaria”, non è stata altro che l’esito di recenti accurate indagini congiunte tra il museo americano e l’Assessorato Regionale ai Beni Culturali siciliano, testimoniando la nuova politica avviata dal Getty dopo le note vicende di cronaca legate al processo romano del 2005. La testa, nella collezione del museo californiano dal 1985, era stata trafugata alla fine degli anni Settanta dal monumentale sito archeologico di Morgantina, nel cuore della Sicilia, area tra le più danneggiate dal traffico illecito di reperti archeologici e da tempo ormai alla ribalta della cronaca internazionale soprattutto per le vicende legate al trafugamento e alla restituzione all’Italia da parte del J.Paul Getty Museum della colossale statua della cosiddetta “Venere”. Grazie ad una pubblicazione scientifica a cura della scrivente edita nel 2007 e ad ulteriori indizi recuperati più di recente al Museo Archeologico di Aidone è stato possibile attribuire il pregevolissimo reperto a Morgantina e avanzarne richiesta formale di restituzione al Getty Museum, che verificata la legittimità della richiesta ha immediatamente risposto favorevolmente disponendo la restituzione “volontaria” della testa. 91 Emanuela Canghiari “Un mendicante su una panca dorata”: il patrimonio archeologico peruviano tra saccheggio, commercializzazione e messa in valore “El Perú es un mendigo sentado en un banco de oro”. Questa frase, attribuita al ricercatore italiano Antonio Raimondi (1826-1890)123 (fig.1), è talvolta utilizzata in Perù per biasimare la difficoltà delle istituzioni e dei cittadini a valorizzare il patrimonio (archeologico, naturalistico) nazionale. L’immagine rimanda, infatti, a una ricchezza -evidente, brillante e imponente - che il peruviano non solo non riesce a mettere in valore ma che non sembra nemmeno vedere, adagiandovisi sopra. Il fatto che poi si tratti di un mendicante non fa che enfatizzare una sorta di lassitudine e mancanza d’iniziativa. Più che sulla sottovalutazione del patrimonio archeologico, il problema verte sulla mancanza di politiche sociali efficaci, che sappiano coinvolgere le comunità interessate da scavi e mostrino l’interesse collettivo di un investimento sul lungo termine. La patrimonializzazione s’impone oggigiorno come uno strumento politico e una risorsa economica imprescindibile, e rappresenta la possibilità, per le popolazioni ai margini dei centri di potere, d’inserirsi nella scena nazionale e internazionale. 123 In realtà questa frase non compare in nessuna delle opere di Raimondi, elemento che fa propendere per una sua origine popolare. 92 L’obiettivo del presente articolo è condividere, su questa piattaforma pluridisciplinare, una parte delle riflessioni e dei risultati di vari anni di ricerca etnografica sul mercato nero dell’arte in Perù.124 L’articolo si divide in tre parti: in un primo momento, vedremo brevemente che le pratiche illegali presuppongono e veicolano un discorso morale che mira a legittimarle. In un secondo momento, presenteremo i caratteri principali del mercato nero dell’arte in Perù e, per finire, mostreremo uno studio di caso della costa nord del Perù. Al di là delle sue specificità, l’esempio di Sipan-Huaca Rajada (fig. 2) ci permette di restituire tutte le ambiguità e complessità della questione patrimoniale. Analizzare il mercato nero dell’arte con un approccio antropologico permette di fare luce su alcuni aspetti talvolta trascurati. In particolar modo, il nostro sguardo si focalizza sulla trama di relazioni che compongono il circuito illegale, così come sulle strategie e le “pratiche locali d’appropriazione” del patrimonio.125 Del traffico di opere d’arte, quindi, non ci interessa tanto l’economia tout court, quanto l’“economia morale”, in base alla definizione dell’antropologo Didier Fassin, ovvero “la produzione, ripartizione, circolazione e utilizzo delle emozioni e dei valori, delle norme e degli obblighi nello spazio sociale”.126 Ci interroghiamo, quindi, su come gli attori sociali si appropriano - o rifiutano e contestano - le rappresentazioni intorno al patrimonio archeologico. 124 La ricerca è stata svolta in un primo tempo (2004-2007) nell’ambito del progetto archeologico e antropologico “Antonio Raimondi” (Università di Bologna, Ministero degli Esteri, Museo del Castello Sforzesco di Milano) e, in un secondo tempo (2007-2010), come missione di ricerca per l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences sociales (EHESS) di Parigi. 125 D. Fabre, A. Iuso, Les monuments sont habités, Paris, Maison des sciences de l’homme, coll. « Ethnologie de la France», 2009, n° 24, p. 26. 126 D. Fassin, J-S. Eideliman (a cura di), Économies morales contemporaines, Parigi 2012, p. 12. 93 Il saccheggio delle tombe non è soltanto un’attività illegale, punita in Perù con la reclusione e una multa,127 ma anche moralmente controversa. In primo luogo, lo scavo clandestino è un atto di estremo sacrilegio. Profanare (huaquear in Perù)128 significa violare il carattere sacro di uno spazio: il sacrilegio non consiste nel mero fatto di avervi accesso, ma nel farlo senza rispettare le norme rituali condivise e imposte dalla comunità. Va precisato, così come analizzato più nel dettaglio altrove,129 che in alcune comunità andine e della costa, il huaquero130 viejo è considerato un “archeologo empirico”, nonché un intermediario tra la comunità e gli antenati, in alcune occasioni rituali o in momenti critici dell’anno. Illuminante, a questo riguardo, è il dialogo con il sindaco di una comunità andina della sierra di Ancash (fig. 3). Quando gli chiesi discretamente se nel suo comune vi fossero “aficionados de las huacas”, mi rispose senza esitazioni: “Huaqueros? Purtroppo non ne abbiamo!”, poiché, continuò “sarebbe bello poter aver qualche esperto che sia capace di trovare la ceramica”. Don Fidel sognava di creare un piccolo museo locale per poter attirare l’interesse dei turisti nel suo villaggio che, altrimenti, rimaneva escluso dai circuiti più classici.131 Il rapporto tra la persona che s’avvicina ai complessi funerari preispanici e gli antenati che vi sono sepolti è 127 Si veda, in particolare: legge 28296 (2004); decreto «Legge generale sul patrimonio culturale della nazione» (2006); Codice Penale, Titolo VIII (1991). 128 La parola huaquear deriva da huaca, vocabolo quechua che indica i luoghi sacri. 129 Canghiari, Emanuela, 2007, I rischi dell’identità. Percorsi identitari in un gruppo di huaqueros et cacciatori della sierra de Ancash, in Thule, Actas del XXVIII Congreso Internacional de Americanística, Maggio 2007, Perugia. 130 Huaquero è il termine per definire il saccheggiatore di tombe in Perù e, per estensione, in altri stati d’America latina. 131 E. Canghiari, ¿Huaqueros? Lamentablemente no tenemos”: legitimación y reivindicación en el saqueo de tumbas prehispánicas, in S. Venturoli, (a cura di), Espacios, Tradiciones y cambios en la Provincia de Huari. Ecos desde la Escuela de etnografía del Proyecto “Antonio Raimondi”, Ancash Perú, Progetto “Antonio Raimondi”, Alma Mater Studiorum Bologna Editore, Bologna 2012, pp. 36-65. 94 retto principalmente dal principio della reciprocità, un concetto ampiamente indagato nella letteratura antropologica andina.132 In parole semplici, per ricevere una ricchezza dall’antenato (tesori preispanici, così come minerali o vegetali), bisogna lasciare qualcosa in cambio. Questo scambio è regolato da un preciso, nondimeno flessibile e personalizzabile, apparato rituale fatto di gesti, offerte e orazioni. Il mancato rispetto di questi principi può portare danni comunitari (catastrofi naturali) o individuali (malattie e persino la morte). Nella regione andina e costiera del Perù abbiamo registrato la presenza di una serie di patologie legate, nell’immaginario collettivo, alla profanazione delle tombe. Nella sierra di Ancash, per esempio, si dice che “l’antenato sputa” contro il saccheggiatore o qualsiasi persona che si avvicini senza seguire il minuzioso rituale sancito dalla comunità.133 Altre volte si dice che la huaca “si è portata via” lo spirito della persona (se lo ha llevado), poiché uno degli effetti è proprio una sorta di perdizione, chiamato malcampo e simile al susto (spavento).134 Assieme a sostanze organiche e allergeni, il principale responsabile di questi problemi di salute è spesso il monossido di carbonio che s’inala aprendo le grosse lastre di pietra che chiudono le tombe preispaniche a pozzo.135 Nella costa, invece, si dice che la huaca “tappa” o “mangia”. Le huacas, qui, sono grandi piramidi di adobe dis132 G. Alberti, E. Mayer, Reciprocidad e intercambio en los Andes peruanos, Instituto de Estudios Peruanos, Lima 1974; J. Murra, Formazioni economiche e politiche nel mondo andino, Torino 1980 [1972]; B.J. Isbell, To defend ourselves. Ecology and ritual in an Andean village, Austin 1978. 133 E. Canghiari, La huaquería come frequentazione rituale del territorio, in Thule, Actas del XXVII Congreso Internacional de Americanística, Maggio 2006, Perugia 2006. 134 Per un’analisi del susto rimando a F. Sal y Rosas, El mito del jani o susto de la medicina indígena del Perú, in Revista Psiquiátrica Peruana, 1951, num. 1, 1, pp. 103-132. 135 È per questo che spesso gli huaqueros viejos (sono chiamati così i saccheggiatori di vecchia generazione che seguivano tecniche e rituali oggigiorno persi) andavano a cercare tesori accompagnati da un animale di piccola taglia (un cane o un porcellino d’india), che, respirando per primo il gas tossico, moriva sulla tomba ed era poi lasciato lì come un’offerta, come un pegno preso dall’antenato in segno di reciprocità. 95 seminate nel deserto: in molti sono rimasti vittime dei tunnel scavati per loro stessa mano. Accanto alle malattie, come ulteriore effetto della rottura di una sopposta legge morale, troviamo la cosiddetta “maledizione degli huaqueros”136. “Nessun huaquero diventa ricco” affermano varie persone intervistate nella costa nord del Perù. Il ricavato della vendita illegale di oggetti archeologici “non resta”. Si dice sia “un denaro che finisce subito”, che “se ne va”. “Con il denaro della huaca, nessun huaquero si è mai arricchito”. I protagonisti delle succes stories legate all’archeo-traffico possono essere dei collezionisti o degli intermediari, molto raramente dei saccheggiatori. Questa visione è confermata dalle biografie che ho potuto ricostruire durante le missioni etnografiche in Perù. Sono innumerevoli i racconti popolari che narrano delle (dis)avventure dei saccheggiatori. In molti casi che ho potuto analizzare, gli huaqueros riconoscono d’aver dissipato il denaro ricavato dal traffico in alcol o in occasioni mondane viziose. Altri l’hanno nascosto e mai più ritrovato. Altri ancora l’hanno investito in negozi, moto-taxi, case o automobili... eppure il finale resta sempre drammatico o tragicomico. Un discorso morale dominante è presente anche tra i collezionisti: è legittimo esumare una ceramica dalle tombe, per quanto con metodi non scientifici, perché si tratta di una ricchezza che va messa in valore. Non solo, bisogna farlo prima che qualche archeologo straniero (forastero) lo faccia prima di un “locale” e porti questa ricchezza lontano. Nelle parole di un giurista peruviano dell’inizio del XIX secolo questo concetto recitava così: “il tesoro occulto non favorisce nessuno, la sua scoperta è un beneficio per tutta la società, perché contribuisce ad 136 Arthur Conan Doyle, celebre creatore dell’investigatore Sherlock Holmes, è stato tra i primi ad aver diffuso in ambito letterario il mito della maledizione, ripreso poi da altri autori tra cui Agatha Christie con “La maledizione del faraone”. 96 aumentare la ricchezza pubblica e il commercio e, con ciò, tutte le arti e i mestieri”.137 Due secoli dopo, Enrico Poli, un collezionista di Lima coinvolto in scandali legati all’acquisto di reperti (legalmente inattaccabile), sosteneva: “Il Perù dovrebbe ringraziare il sig. Poli! Dove sarebbero tutti questi oggetti se non me ne fossi occupato io? In Francia? Negli Stati Uniti? Quando compro un reperto agli huaqueros, non faccio altro che dare da mangiare al povero contadino, e allo stesso tempo aiuto lo stato peruviano a proteggere il proprio patrimonio molto meglio di quanto lui stesso non riesca a fare da solo!” (Lima, comunicazione personale, 2010). Il traffico d’arte è uno dei commerci illeciti più vasti su scala mondiale, secondo solo a quello della droga e delle armi. In questo mercato, le cui somme in gioco oscillano tra i 6 e i 15 miliardi di Euro all’anno, il Perù si definisce come una delle source nations138 più ricche e ricercate. Distinguiamo due tipi di circuito illegale, il primo definito “occasionale” e l’altro “organizzato”. Il circuito “occasionale” è costituito da saccheggiatori che operano in modo isolato o con l’appoggio di piccole bande. Gli intermediari sono soprattutto dei membri della famiglia che si sono trasferiti nella capitale o in capoluoghi di provincia, oppure professionisti di passaggio o turisti alla ricerca dell’“autenticità perduta”.139 Molti reperti sono conservati nelle abitazioni degli huaqueros. Come abbiamo potuto osservare, alcuni sono 137 In Zevallos Quinones Jorge, 10994, Huacas y huaqueros en Trujillo durante el virreinato (1535-1835), Trujillo (Perú), Editoras Normas Legales. 138 Le nazioni coinvolte nel marcato internazionale delle antichità sono convenzionalmente divise in source nations (ovvero le nazioni d’origine degli artefatti) e purchaser nations (quelle nazioni che acquistano e collezionano). Questa distinzione è tuttavia grossolana e semplicista. 139 2013, Hemorragia del Patrimonio y coagulación: en busca de la autenticidad perdida, in H. Salas, M.C. Serra Puche, I. González de la Fuente (a cura di), Identidad y Patrimonio cultural en América Latina. La diversidad en el mundo globalizado, Instituto de Investigaciones Antropológicas, UNAM, Mexique, pp. 129- 149. 97 esposti su mensole o ai muri come trofei, altri addirittura dipinti dai bambini e altri ancora assumono gli usi più disparati (ferma-finestra, vasi per fiori).140 Alcune ceramiche, tuttavia, ricevono un trattamento diverso dalle altre. Ciò è dovuto a un maggior valore “economico” della pièce in sé (l’antichità, la provenienza, la civilizzazione che rappresenta) e anche a un valore “simbolico” (il momento particolare in cui è stata scoperta, la relazione al luogo di ritrovamento, la persona che l’ha regalata). Alcuni huaqueros che ho conosciuto sostengono di voler custodire la ceramica in casa perché lo scavo per loro è espressione di una passione e di conoscenze acquisite nel tempo. Questa passione è destinata a restare empirica e amatoriale, poiché l’accesso a studi superiori e universitari è spesso utopico. Molti di loro anelano alla creazione di un museo privato, ispirandosi alle storie, per quanto controverse, di alcuni collezionisti privati tra cui il celebre Enrico Poli che abbiamo già citato.141 Pablo142 di Huari (Ancash), per esempio, mi confidò di voler raggiungere una quota di 300 oggetti per poi chiedere una licenza allo Stato e aprire una propria casa-museo. A questo scopo, preservava le ceramiche in casse diverse in base allo stile e di ogni pezzo ne riportava il sito di provenienza e la data di scoperta, per non perdere informazioni importanti. Ovviamente, gli specialisti sanno bene che, una volta sottratta al suo contesto, un’opera d’arte rimane muta e mutilata. La volontà di creare un proprio museo è un discorso strategico e auto-giustificatorio nei confronti della propria comunità e delle istituzioni, per costruirsi una legit140 E. Canghiari, Viajes de ultratumba: algunas etapas en la vida de la cerámica prehispánica, en “Thule, revue italienne d'études amérindiennes”, num. 30/31, 2011, avriloctobre 2010-2011, C. Orsini, S. Venturoli (a cura di), Centro Studi Americanistici “Circolo Amerindiano” Onlus, Perugia, 2011, pp. 393-412. 141 Definito da alcuni “il più ricco huaquero del Perù”, Enrico Poli ha formato nel tempo una collezione di opere d’arte che spaziano da reperti preispanici all’arte coloniale, esposti nella sua casa-museo nel quartiere di Miraflores. 142 Per motivi etici, i nomi degli huaqueros usati in questo articolo sono degli pseudonimi. 98 timità morale e sociale, ed evitare, così, di incorrere in rondas143 di difesa dei siti. Di fatto, come ho potuto osservare, il proprietario è disposto a negoziare e vendere pezzi della sua collezione alla prima buona occasione. Definiamo questo tipo di circuito “occasionale”, perché si basa su legami fortuiti o familiari. Effettivamente questo tipo di commercio avviene in zone in cui il turismo è meno sviluppato e in cui i progetti archeologici sono sporadici e poco impegnati con le comunità territoriali. Il passaggio di stranieri o l’arrivo di un parente che vive a Lima può costituire un’occasione per vendere (barattare o regalare) alcuni vasi e statuine. Considero parte di questo circuito “occasionale” i venditori di ceramiche che si trovano in alcuni quartieri di Lima, soprattutto davanti ai grandi mercados indios de La Marina. Alcuni venditori sostano nella stretta striscia di strada tra i magazzini e la strada polverosa in cui si rincorrono i combi (minibus collettivi). Propongono repliche ai turisti, ma in un secondo momento confidano di nascondere delle opere autentiche o di poterle far pervenire. Spesso, in realtà, si tratta di contraffazioni, ovvero repliche vendute al prezzo di un’originale, difficili da smascherare per l’occhio inesperto di un turista. L’altro tipo di circuito è quello che abbiamo definito “organizzato”, proprio in opposizione a quello occasionale, poiché si basa su una rete di rapporti sistematici e prestabiliti, su scala nazionale e internazionale. La posta in gioco, il valore dei reperti, il giro d’affari e lo statuto delle persone coinvolte, è molto più elevata ed è quindi molto difficile potervi penetrare e analizzarlo da vicino. Eli143 Ho potuto osservare alcune rondas di contadini nella sierra di Ancash, nell’atto di proteggere l’accesso ad alcune huacas. La motivazione di questa iniziativa era più dovuta alla tradizione che lega la profanazione a disequilibri naturali che non alla consapevolezza dell’importanza di preservare quei monumenti. 99 zabeth Boone144 lo descrive come un vero sistema economico, diviso in regimi di produzione, distribuzione e consumo. I vari livelli sarebbero occupati da saccheggiatori, intermediari (o runners), venditori, falsificatori (fakers) e collezionisti. Si può parlare di una vera e propria “mafia”, poiché si basa su una struttura verticistica e gerarchica, ricorre a comportamenti violenti, intimidatori e alla corruzione. Si definisce circuito “organizzato” perché gli scambi sono tutt’altro che fortuiti: vi sono “ponti” ben concertati e gerarchie di potere definite. L’assassinio, a Lima nel 1996, del famoso collezionista Raul Apesteguía, è solo un esempio dell’autoritarismo di questi gruppi. In questo contesto, gli intermediari giocano un ruolo chiave. Rivestono, infatti, ruoli sociali di prestigio (per esempio, professori universitari o di scuole superiori) e si distinguono per un capitale economico e culturale elevato. Hanno legami sul territorio a vari livelli: dall’ambito locale rurale alla sfera internazionale, passando per i centri urbani nazionali. Gli intermediari sono protetti sia dalle bande di huaqueros, che sono consapevoli del valore del contatto e della pericolosità di un tradimento, sia dagli acquirenti, poiché vicini alle élite politiche e imprenditoriali. Questi due circuiti non vanno pensati come completamente separati. Talvolta, degli artefatti riconosciuti come pièces uniques, possono passare al circuito organizzato. Lo stesso vale per gli attori che alimentano questo mercato: “Alcuni riescono a fare il salto” sostiene la storica peruviana Mariana Mould de Pease, “riuscendo a infiltrarsi in circoli più importanti” (Mould de Pease, comunicazione personale, Lima 2007). Possiamo rimandare il circuito occasionale a quello che Alain Testard (2001) chiama lo “scambio non com144 E. Boone, Collecting the Pre-Columbian past in Ethnohistory, 1994, Vol. 41, Numéro 3. (Summer, 1994), pp. 486-488. 100 merciale”, anche se può essere fuorviante. Non si tratta, infatti, di scambi in cui non s’impiega moneta, ma questa definizione vuole evidenziare che sono i rapporti personali a predominare sulla trattazione economica. Si può fare quindi un “prezzo da amici”, oppure, al posto di una retribuzione in contanti, si può proporre un baratto o uno scambio di servizi. Il circuito “organizzato” è dominato, invece, da uno scambio commerciale, ovvero “uno scambio che non è intrinsecamente legato né condizionato da un altro rapporto tra i protagonisti”.145 In realtà, nell’ambito del mercato informale, il rapporto tra le persone non è affatto insignificante. Se la categoria di “famiglia” è meno importante in questo contesto, la fiducia (e la sfiducia), il segreto, le dicerie e la fama dei protagonisti del mercato nero reggono questo sistema e sono chiavi di lettura interessanti per poterlo decifrare (soprattutto considerando l’omertà e i tabù in cui si incappa inevitabilmente). Questa distinzione di Testard, per quanto applicabile in modo grossolano, permette di evidenziare ed estremizzare alcune caratteristiche che contraddistinguono i due circuiti. Un’altra differenza, sottolineata dai miei interlocutori, riguarda gli scopi che reggono il traffico. Alcuni huaqueros e trafficanti che partecipano a circuiti occasionali mi hanno affermato di farlo spinti dalla necessità economica, marcando un divario tra il farlo per il bisogno o per arricchirsi. Questa distinzione rimanda ai due modi comunemente riconosciuti d’inserirsi nei traffici illegali: per scelta o per costrizione. Tuttavia, in base al rapporto dell’ Organizzazione internazionale del Lavoro (OIL) di Ginevra: “nella maggior parte dei casi, si entra nell’economia informale non per scelta ma per necessità assoluta e per accedere a 145 A. Testard, Echange marchand, échange non marchande, in Revue française de sociologie, 42, 4, 2001, p. 719-748, p. 727. 101 un’attività che genera dei redditi”.146 L’informale come “strategia di sopravvivenza”, tra l’altro, suppone una conoscenza approfondita delle regole formali. Nel caso del mercato nero dell’arte, per esempio, è indispensabile aggiornarsi sui prezzi e sulle tendenze (molti lo fanno oramai attraverso internet e i cataloghi delle case d’asta). Lorenzo di Sipán mi disse: “molta gente ci chiama profanatori, saccheggiatori di tomba, e tante altre cose… ma tutto ciò è stato a causa della nostra condizione economica […] Ce ne sono tanti che rubano in giacca e cravatta… Loro lo fanno per arricchirsi. Noi lo facevamo per bisogno”. Lo stesso Walter Alva ricorda l’importanza di uno sguardo globale sulle archeomafie e sul ruolo preminente della domanda del mercato, proveniente da collezionisti privati e non. Durante un incontro a Lambayeque nel 2010, sottolineò che la legge prevede una penalizzazione del saccheggio e della commercializzazione, ma non dell’acquisto o del possesso di beni archeologici. I collezionisti o coloro che si trovano in possesso di reperti archeologici dispongono di varie scappatoie legali e riescono a dichiarare la propria collezione senza incorrere in sanzioni.147 Negli ultimi trent’anni, le regioni della costa nord (i dipartimenti di Lambayeque e La Libertad in particolare) sono state caratterizzate da un susseguirsi di scoperte archeologiche sensazionali che hanno cambiato il panorama geopolitico della regione, il rapporto all’archeologia e all’identità nazionale. Spesso, le zone interessate da processi di patrimonializzazione e sviluppo del turismo culturale, sono quelle più ricche in oro e artefatti preziosi e 146 Organizzazione Internazionale del Lavoro, 2014, La transition de l’économie informelle vers l’économie formelle, Conférence internationale du travail, sessione n. 103, 2015, p. 3. 147 Nel 2006, fece discutere il caso di un huaquero cileno, condannato a 730 giorni di carcere, quando il suo comandatario, il collezionista David Bernstein e la sua galleria di New York non furono nemmeno inquisiti (P. O´Brien, P. Papi, 2006, La estela de muerte, misterios y el asombroso rescate de tocado moche, in El Comercio, 19 agosto 2006). 102 sono anche quelle, quindi, più a rischio archeomafie. È questo uno degli effetti perversi dei processi di patrimonializzazione, che non abbiamo però tempo di approfondire in quest’occasione. Ci soffermeremo, a presente, sulla storia di Huaca Rajada-Sipán,148 un villaggio che sembra cominciare la sua esistenza soltanto nel 1987 quando una banda di huaqueros porta alla luce degli artefatti preispanici di valore inestimabile. L’opera tempestiva di Walter Alva, allora direttore del Museo Brüning di Lambayeque, e della sua squadra di collaboratori ha permesso di prelevare la ricchezza di questo complesso funerario della civiltà Moche (fig. 4) nel periodo di massimo splendore (290 d.C.). I trafficanti erano già riusciti a introdurre dei pezzi nel mercato internazionale. In un primo tempo, l’installazione del progetto archeologico è stata delicata e a tratti drammatica. Senza entrare nei dettagli della storia di Huaca Rajada-Sipán,149 crediamo che sia un esempio di come una comunità, quasi inesistente prima della scoperta, si sia indirizzata verso un processo di patrimonializza148 Abbiamo svolto un lavoro di campo a Huaca Rajada-Sipán tra il 2007 e il 2010. La scelta è ricaduta su questo paese (in una miriade di realtà patrimoniali in crescita) perché la scoperta del Signore di Sipán ha avuto un impatto enorme, sulla lotta all’ “archeotraffico”, sulla pratica dell’archeologia e sull’identità locale e regionale. A livello simbolico, la storia di questo villaggio è ugualmente importante: non è un caso che il Señor de Sipán sia soprannominato anche “il Tutankhamon d’America latina”. La scoperta del complesso funerario di Sipán avvenne in anni di grande crisi economica e di guerra civile, in cui lo Stato peruviano era in ginocchio. Questa congiuntura ha aperto le porte a finanziamenti privati in ambito archeologico. Di questo periodo spiccano misure di salvaguardia del patrimonio monumentale che viene privilegiato rispetto a ritrovamenti di minore impatto scenico. Tra i vari progetti, quello più ambizioso è sicuramente la realizzazione della Ruta Moche (la via Moche), che vuole imporsi come secondo percorso turistico del paese (dopo il Cuzco), attraverso un sistema di collegamento tra siti di rilevanza culturale ed ecologica. 149 Si veda A. Aimi, W. Alva e E. Perassi (dir.), Sipán, el tesoro de las tumbas reales, Prato, Fondo Italo-Peruano/Giunti Arte Mostre Musei, 2008; Alva Walter, 1988, Discovering the New World’s Richest Unlooted Tomb, National Geographic Society, n° 174/4, Washington D.C., p. 510-555.; Atwood, R., 2004, Stealing History: Tomb Raiders, Smugglers, Ancient World, Nueva York: St. Martin’s Griffin ; Kirkpatrick Sidney D., 1992, Lords of Sipan : A True Story of Pre-Inca Tombs, Archaeology, and Crime, New York, William Morrow and Company. 103 zione su scala internazionale, passando da un periodo di subbuglio dovuto a pratiche illegali. Oggigiorno, il traffico illecito si è ridotto in modo sensibile, grazie alla congiunzione di diversi fenomeni: i maggiori controlli della Polizia su diversi fronti (in situ, alle frontiere e negli aeroporti), politiche d’acquisizione museali più etiche e precise, campagne di sensibilizzazione capillari sull’importanza e sul valore delle opere d’arte preispaniche e, infine, un numero crescente di progetti partecipativi e d’iniziative volte a un coinvolgimento delle realtà territoriali locali. “Accanto alle tradizionali funzioni di tutela e conservazione, le istituzioni sono state costrette a riflettere sulle proprie responsabilità in tema di gestione, valorizzazione economica, comunicazione e divulgazione, in cerca di ricadute occupazionali, turistiche e formative incidenti sul benessere collettivo”.150 Quest’ultimo punto concerne anche la costruzione di reti museali e musei locali. Si stanno insinuando nuove strutture e modelli gestionali allo scopo di proteggere e valorizzare il patrimonio “dal basso”. I museos de sitio non sono più dei semplici spazi espositivi, ma sono concepiti come dei veri e propri catalizzatori dello sviluppo locale che si declinano in laboratori di formazione, atelier di valorizzazione delle attività tradizionali (artigianato, gastronomia, etc.) e centri di ricerca. Questo fenomeno risponde a un processo di “decentramento” del patrimonio, che con un movimento centrifugo va (o meglio, ritorna) dai grandi centri alle periferie. Le domande di restituzione, infatti, sono sempre più numerose, su diversa scala. Celebre, anche per la sua portata mediatica, il caso dei pezzi di Machu Picchu restituiti dall’Università di Yale nel 2011 (fig. 5).151 Questo tipo di restituzione av150 G. Guerzoni, Apollo e Vulcano. I mercati artistici in Italia (1400-1700), 2006, p. 63. Per questa vicenda, vedere M. Mould de Pease, 2008, Machu Picchu: antes y después de Hiram Bingham: entre el saqueo de "antigüedades" y el estudio científico. Lima: Bi151 104 viene anche, in forme diverse, su scala regionale. È ciò che è successo a Huaca Rajada-Sipán. Nel 2002 è stato inaugurato un museo per ospitare i meravigliosi ornamenti del Señor de Sipán. L’edificio monumentale, pensato per un pubblico internazionale, è stato costruito a Lambayeque, una città a 40 chilometri dal luogo di scoperta. Questo fatto ha creato un malcontento tra la popolazione che si è sentita “spogliata” di un proprio antenato e, con ciò, emarginata dai circuiti turistici e dal giro d’affari. In effetti, le visite al sito archeologico sono sensibilmente diminuite, passando da 50.000 visitatori all’anno nel 1999 a meno di 30.000 nel 2005.152 Nel 2009, dopo anni di trattative, un museo locale è stato infine costruito nel villaggio, accanto alle huacas, presentato come un tentativo di “restituire” alla comunità qualcosa che le spettava. Un “patto” tra archeologi e la comunità prevede che le nuove scoperte resteranno nel museo locale. Il progetto archeologico ha inserito nella sua squadra di operai alcuni huaqueros che erano stati coinvolti nella scoperta del complesso funerario e che erano stati implicati nella commercializzazione. I saccheggiatori integrati in un progetto archeologico sono spesso chiamati “pentiti” (huaqueros arrepentidos). Si tratta di una pratica sempre più comune, poiché, come afferma l’archeologo Ignacio Alva Meneses, direttore del progetto Ventarrón: “è una maniera di mettere a profitto le loro conoscenze empiriche. In fondo, essi hanno visto per primi quello che vi era nelle tombe e speriamo, così, blioteca del Centro de Estudios Históricos Luis E. Valcárcel, et Aguilar, Miguel e Tantalean Henry, 2014, Estado, patrimonio cultural y comunidades indígenas: Machu Picchu y la historia de un dialogo asimétrico, in Rivolta, M.C., Montenegro, M., Menezes, Ferreira L., Nastro J., (Ed.) Multivocalidad y Activaciones Patrimoniales en Arqueología: Perspectivas desde Sudamérica, Buenos Aires: Fundaciòn de Historia Natural. 152 C. Trivelli, A.H. Raúl, 2009, Apostando por el desarrollo territorial rural con identidad cultural: la puesta en valor del patrimonio prehispánico de la costa norte de Perú, in C. Ranaboldo, A. Schejtman (dir.), El valor del patrimonio cultural, Lima, 2009, p. 205. 105 di poter recuperare qualche informazione. Dar loro un lavoro, inoltre, evita che continuino a huaquear o almeno… limita i danni” (Ventarrón, comunicazione personale, 2010). Distruzione e protezione dei beni culturali sono due facce della stessa medaglia e come tali devono essere analizzate insieme: spesso si distrugge, o si commercializza, quello che, in un specifico regime di patrimonialità, vale di più. La lotta al traffico d’arte preispanica deve accompagnarsi a politiche patrimoniali di sensibilizzazione e coinvolgimento delle comunità locali, facilitando delle dinamiche di “riappropriazione” del patrimonio culturale “dal basso”, ovvero da parte delle comunità d’origine. Riscoprire il valore delle opere come bene comune (non solo locale, bensì nazionale e internazionale) rappresenta una doppia sfida: culturale, perché mette in gioco la memoria collettiva dei gruppi umani, dando vita, per esempio, a fenomeni di riscoperta identitaria, ed economica, poiché è il fulcro di rivendicazioni politiche di comunità spesso situate ai margini dei centri di potere o a segmenti sfavoriti della società. 106 Abstract Emanuela Canghiari, “Un mendicante su una panca dorata”: il patrimonio archeologico peruviano tra saccheggio, commercializzazione e messa in valore. La frase attribuita al ricercatore italiano Antonio Raimondi (1826-1890) è stata reinterpretata per simboleggiare la difficoltà delle istituzioni peruviane di valorizzare il patrimonio archeologico nazionale. Molto è andato perso già dall’arrivo degli iberici e, nonostante gli sforzi, altrettanto continua a fluire in un mercato nero secondo solo a quello della droga. Dal 2004 al 2010 abbiamo realizzato una ricerca etnografica in Perù sul traffico dell’arte precolombiana. Abbiamo ricostruito il circuito degli oggetti d’arte, dalla produzione (saccheggio) alla consumazione (esposizione), passando dal dono, scambio, vendita, falsificazione e usi disparati. La nostra analisi antropologica si è concentrata su diversi livelli della catena illecita: saccheggiatori, intermediari, falsificatori, venditori, turisti e comunità locali. Qui ci concentriamo sulla costa nord del Perù. Una miriade di progetti archeologici si sta sviluppando soprattutto in questa regione, scenario, negli ultimi trent’anni, di straordinarie scoperte riguardanti la civilizzazione Moche (100-700 d.C). Il successo di questi siti e la loro trasformazione in destini turistici internazionali non fanno che favorire la commercializzazione della cultura, a livello formale e informale. Come sono evolute le politiche patrimoniali in Perù con il fine di contrastare l’emorragia del patrimonio? Quali sono le strategie adottate degli attori locali di fronte a norme sempre più chiare ed efficaci? In quest’articolo cercheremo di dare una risposta a queste questioni, mettendo in luce le rappresentazioni, i rapporti di forza e le rivendicazioni degli attori in gioco. 107 Fig. 1: Il ricercatore italiano Antonio Raimondi (1826-1890). 108 Fig. 2 (in alto): Il sito musealizzato di Sipan-Huaca Rajada. Fig. 2 (in basso): Sierra di Ancash. 109 Fig. 4 (in alto): sepoltura del Señor de Sipán, Civiltà Moche (290 d.C.). Fig. 5 (in basso): alcuni dei reperti di Machu Picchu restituiti al Perù dall’Università di Yale nel 2011. 110 Diego Favero L’evoluzione della disciplina europea in materia di restituzione di beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno Stato membro La Direttiva 93/7/CEE del Consiglio del 15 marzo 1993, relativa alla restituzione dei beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno Stato membro, completa il sistema europeo di protezione dei patrimoni culturali nazionali resosi necessario a causa della realizzazione del mercato unico. Primo ingranaggio di tale meccanismo è il Reg. (CEE) n. 3911/92153, con il quale si stabiliscono norme uniformi per l’esportazione dei beni culturali al di fuori del territorio dell’Unione Europea. Con tale regolamento si volle compensare l’abolizione dei controlli alle frontiere fisiche interne conservando i beni culturali entro i confini comunitari.154 Se, dunque, il regolamento si configura come un dispositivo preventivo rispetto alla fuoriuscita di un oggetto avente un valore culturale dal territorio comunitario, la direttiva fa sì che l’oggetto “bloccato” all’interno delle frontiere dell’Unione possa essere ricondotto al Paese d’origine. 153 Regolamento (CEE) n. 3911/92 del Consiglio, del 9 dicembre 1992, relativo all'esportazione di beni culturali, poi sostituito dal Regolamento (CE) n. 116/2009 del Consiglio, del 18 dicembre 2008. 154 S. Manservisi, Corso di Diritto Comunitario dei beni culturali, Roma, 2006. 111 La dottrina evidenzia come l’adozione della direttiva fosse resa indilazionabile dal fatto che, all’epoca della creazione del mercato interno, ben pochi Paesi membri avevano ratificato la Convenzione di Parigi del 1970.155 Proprio per tale ragione, la Commissione nella propria Comunicazione al Consiglio del 22 novembre 1989 consigliò agli Stati membri la ratifica della citata convenzione. Parallelamente ai lavori preparatori della Commissione per la predisposizione della direttiva, a livello internazionale si assisteva alla redazione della Convenzione dell’Unidroit del 1995,156 il cui ambito d’applicazione è parzialmente coincidente con quello della norma comunitaria. A cagione di questa parziale sovrapposizione fra i due sistemi, Frigo si chiede “se e in quale misura la convenzione dell’UNIDROIT sia idonea ad interferire sul funzionamento della direttiva 93/7/CEE, naturalmente con esclusivo riguardo ai Paesi membri dell’Unione europea che siano anche parti contraenti della convenzione”.157 L’art. 13 par. 3 della convenzione, sembra sciogliere ogni dubbio, quantomeno sul piano formale, poiché lascia impregiudicata per gli Stati contraenti, membri di organizzazioni d’integrazione economica o di organismi regionali, la possibilità di dichiarare che nei loro reciproci rapporti applicheranno le regole interne di tali enti al posto del dettato convenzionale, ciò naturalmente nella misura in cui l’ambito d’applicazione delle discipline coincida. Si noti che la stessa direttiva, ex art. 15, lascia impregiudicate le azioni civili o penali spettanti allo Stato 155 UNESCO Convention On The Means Of Prohibiting And Preventing The Illicit Import, Export And Trasfer Of Ownership Of Cultural Property, Parigi, 14 novembre 1970. I.A. Stamatoudi, Cultural Property Law and Restitution. A commentary to international conventions and European Union law, Cheltenham, 2011. 156 Unidroit Convention on Stolen or Illegally Exported Cultural Objects, Roma 24 giugno 1995. 157 M. Frigo, La Convenzione dell’Unidroit sui beni culturali rubati o illecitamente esportati, in Rivista di diritto internazionale privato e processuale, 1996, n. 3, p. 461. 112 membro e/o al proprietario derubato in base al diritto nazionale, pertanto fra di esse sarà pure presente quella prevista dalla Convenzione dell’Unidroit, nei soli Paesi che vi abbiano aderito. Prima d’iniziare l’esame dell’articolato della direttiva pare opportuno segnalare che, come chiarito dalla Commissione, essa “non ha l’obiettivo di combattere il traffico illecito di beni culturali”.158 Essa ha la mera funzione di garantire l’applicazione delle norme di tutela del patrimonio nazionale all’interno degli altri Stati membri, onde ricondurre fisicamente un determinato bene culturale al suo Stato di provenienza. Proprio per tale ragione, come detto, fa salve le azioni civili e penali previste dalle legislazioni nazionali e non incide sulle questioni attinenti alla proprietà del bene. Ciò che è stato autorizzato dall’art. 30 TCE (ora 36 TFUE) con la direttiva diviene, dunque, cogente per il diritto comunitario.159 La direttiva 93/7/CEE,160 ribadendo nel terzo considerando che “l’allegato della presente direttiva non ha lo scopo di definire i beni facenti parte del patrimonio nazionale ai sensi dell’art 36 del Trattato”, sancisce che per beni culturali vadano intesi gli oggetti ascrivibili in una delle categorie di cui al predetto Allegato e che, prima o dopo, l’illecita fuoriuscita dal territorio dello Stato membro siano stati qualificati come beni del patrimonio nazionale aventi un valore artistico, storico o archeologico, in conformità alla legislazione interna ed all’art. 36 158 Commissione delle Comunità Europee, Relazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento Europeo e al Comitato Economico e Sociale Europeo. Seconda relazione sull’applicazione della direttiva 93/7/CEE del Consiglio relativa alla restituzione dei beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno Stato membro, Bruxelles, 21.12.2005, COM(2005) 675 def., p. 3. 159 D. Liakopoulos - M. Vita, L’evoluzione della tutela del bene culturale nella Comunità europea, in Gazzetta Ambiente, 2008, n.1. 160 La direttiva ha subito degli emendamenti da parte della direttiva 96/100/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 febbraio 1997, e dalla direttiva 2001/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 giugno 2001. 113 TFUE. Inoltre, anche nel caso in cui l’oggetto non rientri in una delle tipologie elencate nell’allegato, esso potrebbe ricadere nell’ambito d’applicazione della direttiva qualora costituisca parte integrante “delle collezioni pubbliche figuranti negli inventari dei musei, degli archivi e dei fondi di conservazione delle biblioteche” o “degli inventari delle istituzioni ecclesiastiche” (art. 1, n.1) secondo trattino). È fatta altresì salva, ex art. 14, la facoltà degli Stati membri di estendere l’obbligo di restituzione a categorie di beni culturali non ricomprese nell’allegato. La qualifica da parte dello Stato è un requisito prevalente rispetto alla presenza del bene culturale nell’elencazione predetta. Stamatoudi evidenzia in merito che, in effetti, “it would be illogical to return to a Member State a cultural object that could then be freely exported from it”.161 Tale designazione, inoltre, costituisce un notevole ausilio per il giudice nell’individuazione dei beni da restituire.162 Va sottolineato, ad ogni modo, che beni non ascrivibili a quel nucleo di opere fondamentali per il patrimonio culturale dello Stato sarebbero in ogni caso difficilmente rintracciabili. Come affermato dalla stessa Commissione europea, “il sistema di tutela del patrimonio culturale di ciascuno Stato membro prevede un nucleo centrale costituito dal patrimonio nazionale che non può lasciare il territorio nazionale in via definitiva, da un secondo gruppo che comprende i beni culturali per il cui trasferimento è necessaria un'autorizzazione nazionale e da un terzo gruppo costituito da tutti i beni che possono circolare liberamente e senza controllo, in considerazione della loro importanza ridotta sul piano culturale”.163 Lo studio conclude che la rintracciabilità è garantita solo 161 I.A. Stamatoudi, op. cit., p. 144. G. Volpe, Manuale di diritto dei beni culturali. Storia e attualità, CEDAM, 2013. 163 Commissione delle Comunità Europee, Relazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento Europeo e al Comitato Economico e Sociale Europeo. Seconda relazione op. cit., pp. 5-6. 162 114 per i beni del nucleo centrale e, in misura minore, per quelli del secondo gruppo, i quali circolano sulla base di un’autorizzazione di uscita. I beni culturali di cui viene richiesta la restituzione devono essere usciti illecitamente dal territorio di uno Stato membro. Un bene è tale se: spedito in violazione della legislazione a protezione del patrimonio artistico, storico ed archeologico dello Stato membro; fuoriuscito in violazione del Reg. (CEE) n. 3911/92, ora Reg. (CE) n. 116/2009; siano violati i termini per il rientro concessi per una spedizione temporanea od altre condizioni della stessa (art. 1, n.2). Sebbene non venga fatta menzione della fattispecie del furto di bene culturale, essa deve ritenersi ricompresa nella volutamente generica espressione: “bene uscito illecitamente dal territorio di uno Stato membro”. Sia l’esportazione illecita che il furto, difatti, costituiscono infrazioni delle norme di tutela nazionali. Stamatoudi osserva al riguardo che: “[i]n that sense the emphasis is placed on the protection of treasures without delving into the unlawful act in question”.164 Così facendo, il legislatore europeo ha evitato di dover definire cosa debba intendersi per furto o per illecita esportazione. Sotto tale aspetto, inoltre, la direttiva appare offrire una protezione più ampia rispetto a quella contenuta nella convenzione dell’Unidroit. In essa, infatti, alle fattispecie di furto e spedizione illecita sono ricollegate discipline differenti.165 In merito alla sfera d’applicazione della direttiva bisogna aggiungere che essa non troverà applicazione rispetto a tutti i beni culturali definiti dall’art. 1, ma solo a quelli illecitamente fuoriusciti dal territorio di uno Stato membro dopo il 1° gennaio 1993 (art. 13). Cionondimeno, l’art. 14, par. 2, lascia impregiudicata la facoltà per gli Stati membri d’applicare il regime predisposto dalla diret164 165 I. A. Stamatoudi, Op. Cit., P. 147. S. Manservisi, op. cit. 115 tiva alle domande di restituzione presentate da altri Paesi membri aventi per oggetto beni trafugati prima di tale data, ma ad oggi soltanto la repubblica ellenica vi ha fatto ricorso. Il predetto limite temporale, come ravvisato da attenta dottrina,166 è piuttosto infelice dato che proprio nel periodo antecedente il commercio illegale fu particolarmente florido. È ora necessario analizzare la procedura di restituzione vera e propria, di cui agli articoli da 5 a 12, che risulta ispirata a criteri di semplicità ed efficacia.167 L’art. 2 stabilisce che i “beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno Stato membro sono restituiti secondo la procedura e le modalità stabilite dalla presente direttiva”. La dottrina evidenzia l’importanza del concetto di restituzione, esso infatti sta ad indicare il ritorno fisico del bene. In questo modo l’Unione europea consacrerebbe nella sua sfera di competenza che nessun indennizzo sarebbe in grado di reintegrare la perdita di una parte del patrimonio culturale.168 Si ribadisce inoltre che l’obbligo di restituire un manufatto di provenienza illecita, prescindendo dalla buona fede del possessore, rappresenta un ottimo disincentivo rispetto al mercato sommerso di beni culturali, come peraltro riconosciuto dagli stessi Stati membri. Il procedimento di natura giurisdizionale, che può essere attivato solo dallo Stato membro dal cui territorio il bene è stato trafugato (singoli ed istituzioni non sono legittimati ad agire in forza della direttiva), è affiancato da una specifica cooperazione amministrativa fra le autorità centrali individuate dagli Stati membri, la cui disciplina è contenuta nell’art. 4. 166 I. A. Stamatoudi, op. cit. D. Liakopoulos - M. Vita, op. cit. 168 Si veda I.A. Stamatoudi, op. cit. 167 116 Ai sensi dell’art. 5 lo Stato potrà agire contro il “possessore” e, in sua mancanza, contro il “detentore”, non viene fatta menzione del proprietario. Il primo è definito come “la persona che detiene materialmente il bene culturale per proprio conto”, mentre il secondo è colui che lo detiene materialmente per conto d’altri (art. 1 nn. 6) e 7)). Nella direttiva 93/7/CEE, come pure nelle convenzioni internazionali, le accezioni dei due termini in oggetto non corrispondono a quelle proprie degli ordinamenti interni. Come scrive Stamatoudi, “these notions blur to a certain extent the triptych ‘owner-possessor-holder’”.169 Fine dell’azione, peraltro, non è l’accertamento della proprietà sul bene, ma il mero ritorno dello stesso sul territorio dello Stato membro dal quale fu sottratto. Ogni questione proprietaria è procrastinata al ritorno del bene. L’atto introduttivo del giudizio, ex art. 5, deve essere accompagnato da un documento che descriva l’oggetto reclamato e lo identifichi quale bene culturale nonché da una dichiarazione delle autorità competenti dello Stato membro richiedente attestante l’illecita fuoriuscita dello stesso dal proprio territorio. La qualificazione del bene quale parte del patrimonio culturale, come si è visto, può essere anche successiva rispetto all’illecita uscita. Fine dell’azione, infatti, non è il presidio dei controlli interni, bensì la riparazione di un effettivo pregiudizio al patrimonio nazionale.170 L’atto introduttivo e la menzionata documentazione dovranno essere prodotti innanzi “al giudice competente dello Stato membro richiesto”, id est il giudice competente del luogo di situazione del bene. La direttiva non funge solo da norma sulla giurisdizione, ma anche da norma di conflitto, in quanto l’art. 12 individua la legge dello Stato membro richiedente come quella competente a disciplina169 170 I. A. Stamatoudi, op. cit., p. 150. D. Liakopoulos - M. Vita, op. cit. 117 re la proprietà del bene, per cui si darà applicazione alla lex originis. La dottrina evidenzia un aspetto piuttosto fumoso del disposto dell’art. 12. Non appare, infatti, del tutto chiaro se debbano applicarsi unicamente le norme sostantive dello Stato di provenienza del bene od anche le norme di diritto internazionale privato di tale ordinamento.171 Se così fosse, infatti, in applicazione delle norme di diritto internazionale privato dell’ordinamento richiamato, potrebbe ben essere la legge di precedente situazione del bene a disciplinare gli eventuali trasferimenti di proprietà dello stesso. Secondo parte della dottrina, la questione sarebbe stata risolta dai lavori preparatori nel senso che debba essere data applicazione unicamente alle norme sostantive dello Stato richiedente.172 Se l’obiettivo ultimo è quello di porre un freno al traffico internazionale di beni culturali, un art. 12, che richiami anche le norme di diritto internazionale privato dello Stato membro, potrebbe comportare l’inaccettabile effetto di condurre all’accertamento della proprietà in capo al possessore del manufatto e non all’originale proprietario. In tale evenienza, tuttavia, il bene quantomeno si troverebbe nuovamente nello Stato d’origine, per cui, pur rimanendo di proprietà dell’eventuale acquirente estero, ben difficilmente potrebbe nuovamente fuoriuscire dal territorio nazionale. L’art. 7 regola i termini entro i quali può essere esercitata l’azione di restituzione. Va rilevato sin d’ora che i termini di prescrizione dell’azione sono molto brevi, ed infatti la maggior parte degli Stati membri ha sollevato 171 Si vedano I.A. Stamatoudi, op. cit.; M. Graziadei, Beni culturali (circolazione dei) (dir, internaz. priv.), [Annali II-2, 2008]; G. Magri, La circolazione dei beni culturali nel diritto europeo: limiti e obblighi di restituzione, in Quaderni del Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Torino, Nuova Serie, n. 13, Napoli, 2011. 172 Si veda M. Graziadei, op. cit. 118 l’esigenza di un allungamento degli stessi.173 L’azione si prescrive nel termine di un anno dal momento in cui lo Stato membro richiedente è venuto a conoscenza del luogo in cui si trova il bene controverso e dell’identità del suo possessore o detentore. Il termine assoluto di trent’anni decorre, invece, dalla data in cui il bene è uscito dal territorio dello Stato richiedente. Lo stesso art. 7 par. 2, tuttavia, prevede che possano essere previste delle eccezioni per talune categorie di beni. I beni appartenenti a collezioni pubbliche ed i beni ecclesiastici sono soggetti ad un termine di prescrizione di settantacinque anni, fatta eccezione però per quegli Stati dove l’azione non è soggetta a prescrizione e per i casi in cui fra due Paesi membri intercorrano accordi bilaterali che stabiliscano un termine superiore a quello sancito dalla norma. L’azione, ovviamente, sarà dichiarata inammissibile qualora al momento della presentazione della domanda la fuoriuscita del bene richiesto non sia più considerata illecita. Numerosi Stati membri, Italia in primis, hanno evidenziato sin dal questionario che ha preceduto la prima relazione della Commissione come il termine di un anno per l’esercizio dell’azione fosse esageratamente breve e potesse costituire un ostacolo all’esercizio dell’azione prevista dalla direttiva. Ai sensi dell’art. 8, il giudice, acclarato che l’oggetto richiesto sia un bene culturale ai sensi dell’art. 1 n. 1) e che, in base alla documentazione dello Stato richiedente, sia illecitamente uscito dal territorio internazionale, dovrà ordinare la restituzione dello stesso, fatte salve ovviamente le disposizioni di cui agli artt. 7 e 13. 173 Si veda al riguardo Commissione delle Comunità Europee, Relazione della Commissioneal Consiglio, al Parlamento Europeo e al Comitato Economico e Sociale Europeo, Terza relazione sull’applicazione della direttiva 93/7/CEE del Consiglio relativa alla restituzione dei beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno Stato membro, Bruxelles, 30.07.2009, COM (2009) 408 def. 119 Nel momento in cui ordina la resa del bene l’organo giudicante dovrà pure accordare al possessore, che abbia usato la “diligenza richiesta” - requisito affatto distinto da quello di buona fede, nel quale è stato convertito da numerosi Stati in fase di recepimento della direttiva174 l’indennizzo ritenuto equo in base alle circostanze del caso concreto (art. 9). Non essendo definite le modalità di calcolo dell’indennizzo, saranno le Corti nazionali a stabilire se esso debba essere liquidato in un ammontare pari al prezzo d’acquisto del bene od a quello di mercato od ancora corrispondente al suo valore reale. L’onere della prova in punto di diligenza è disciplinato dalla lex fori, ergo dalla legislazione dello Stato membro richiesto.175 Nella Direttiva 93/7/CEE non compare, dunque, quell’inversione dell’onere della prova presente negli artt. 4 e 6 della Convenzione dell’Unidroit del 1995. Benché l’art. 11 stabilisca che il pagamento dell’indennizzo da parte dello Stato richiedente lasci impregiudicato il suo diritto a rivalersi degli importi pagati sui responsabili dell’illecita uscita del bene culturale, a seconda della normativa applicabile al processo, anche chi abbia adoperato la minima diligenza potrebbe ottenere il risarcimento senza esser soggetto ad alcun onere probatorio. L’art. 9, in sintonia alla Convenzione dell’Unidroit del 1995, sancisce che il possessore non può beneficiare di una posizione più favorevole rispetto a quella del suo dante causa. Tenuto conto del contesto nel quale la direttiva 93/7/CEE ha visto la luce e dell’applicazione che ha avu174 Relazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento Europeo e al Comitato Economico e Sociale sull’applicazione del regolamento (CEE) n. 3911/92 del Consiglio relativo all'esportazione di beni culturali e della direttiva 93/7/CEE del Consiglio relativa alla restituzione dei beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno Stato membro, Bruxelles, 25.05.2000, COM (2000)325 def. 175 Per quanto riguarda la disciplina dell’onere della prova nell’ordinamento italiano nella materia de qua si veda: R. Tamiozzo, La legislazione dei beni culturali e paesaggistici. Guida ragionata, Milano, 2014. 120 to nella prassi degli Stati membri, essa ha rappresentato un segnale estremamente positivo di una presa di coscienza, a livello europeo, della problematica dell’illecito trasferimento di beni culturali. La maggioranza dei Paesi europei, infatti, ha manifestato il proprio convincimento circa l’utilità dello strumento qui analizzato per permettere il ritorno dei beni culturali sottratti al territorio d’origine e ne ha riconosciuto un effetto preventivo dissuasivo rispetto all’uscita illecita.176 Dalle relazioni della Commissione, tuttavia, emerge che nel periodo 19932007 sono state avanzate unicamente 12 richieste di restituzione ai sensi dell’art. 5 della direttiva.177 Nel corso del tempo si è, inoltre, raggiunto un consenso fra gli Stati membri circa la necessità di estendere il termine per l’esercizio dell’azione, ma con riguardo al contenuto dell’Allegato si sono scontrate le posizioni di chi domandava un abbassamento delle soglie178 di valore e chi un aumento delle stesse.179 La cut-off date del 1° gennaio 1993, di cui si è detto rappresenta un ulteriore disincentivo all’impiego della direttiva, per cui molti Stati membri preferiscono intraprendere altre vie per ottenere la restituzione dei propri beni culturali, in primis quella offerta dalla Convenzione UNESCO del 1970. È noto, infatti, che i beni culturali illecitamente fuoriusciti dallo Stato d’origine rimangono spesso nascosti per lungo tempo prima d’esser nuovamente mesi in circolazione.180 176 Commissione delle Comunità Europee, Relazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento Europeo e al Comitato Economico e Sociale Europeo, Terza relazione, op. cit., p. 8. 177 Nell’arco temporale 1993-1999 venne presentata una sola azione di restituzione in ossequio all’art. 5, fra il 1999 ed il 2003 tale meccanismo venne attivato tre volte e fra il 2004 ed il 2007 otto volte. 178 Segnatamente Francia, Italia e Svezia. 179 Germania e Regno Unito. 180 Cfr. G. Magri, op. cit. 121 Come si è potuto vedere, la direttiva precede temporalmente di poco la Convenzione dell’Unidroit del 1995, quindi gli eventuali elementi di regresso in essa presenti appaiono ancor più lampanti se posti in comparazione alla norma pattizia. Ai sensi della convenzione, infatti, anche i singoli, persone fisiche od enti, hanno legittimazione attiva per la restituzione. Viceversa nella direttiva non è prevista una legittimazione attiva in capo a soggetti diversi dagli Stati, sebbene si ritenga che il privato possa pur sempre sollecitare lo Stato a reclamare il bene di sua proprietà che sia anche parte del patrimonio culturale nazionale. Si tenga altresì conto del fatto che la direttiva è applicabile solamente a beni culturali che superino determinate soglie di valore economico. Tale requisito pare estremamente criticabile per due ordini di ragioni: in primo luogo è assai difficile attribuire un valore monetario a simili oggetti; in secondo luogo esso denota un approccio alla tematica puramente commerciale, che va biasimato. I beni culturali possono essere suddivisi in categorie, ma non di certo utilizzando il metro del loro valore venale. Risultò, dunque, ben presto evidente come la normativa comunitaria necessitasse di un intervento adeguatore da parte del legislatore europeo. A tal riguardo, la Commissione, nella propria relazione del 2009, alla luce dei dati raccolti, affermò la necessità di avviare un processo di riflessione con lo scopo di operare una revisione della direttiva. Essa sosteneva in particolare che “ogni proposta di modifica dovrebbe essere innanzitutto analizzata in modo approfondito in merito alle implicazioni per le autorità nazionali incaricate della direttiva”.181 181 Commissione delle Comunità Europee, Relazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento Europeo e al Comitato Economico e Sociale Europeo, Terza relazione sull’applicazione della direttiva 93/7/CEE del Consiglio relativa alla restituzione dei beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno Stato membro, Bruxelles, 30.07.2009, COM (2009) 408 def., op. cit. p. 9. 122 In un comunicato stampa del 29 novembre 2011 la Commissione ha reso nota l’apertura di una consultazione pubblica volta ad ottenere i consigli di autorità pubbliche, di cittadini e di operatori su come facilitare la restituzione dei beni culturali.182 Si è così giunti all’adozione della Direttiva 2014/60/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 maggio 2014,183 con la quale si è inteso, da un lato porre rimedio ai limiti della Direttiva 93/7/CEE, dall’altro intensificare la cooperazione amministrativa fra gli Stati membri estendendo l’utilizzo del sistema IMI184 (Sistema di Informazione del Mercato interno) al settore della lotta al traffico illecito dei beni culturali.185 L’ambito d’applicazione della disciplina in materia di restituzione dei beni culturali illecitamente fuoriusciti dal territorio degli Stati membri viene notevolmente esteso rispetto a quella previgente. Ai sensi dell’art. 2, c. 1, n. 1), per bene culturale deve ora intendersi unicamente “un bene che è classificato o definito da uno Stato membro, prima o dopo essere illecitamente uscito dal territorio di tale Stato membro, tra i beni del «patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale» secondo la legislazione nazionale o delle procedure amministrative nazionali, ai sensi dell'articolo 36 TFUE”. Scompare, dunque, il dop182 Commissione Europea, Comunicato stampa: La Commissione intende facilitare la restituzione di patrimoni nazionali sottratti illecitamente, Bruxelles, 29.11.2011. Sull’iter legislativo che ha condotto all’adozione della Direttiva 2014/60/UE si veda: S. Quadri, Il regime dell’Unione europea in materia di restituzione dei beni culturali illecitamente esportati, in La restituzione dei beni culturali rimossi con particolare riguardo alla pratica italiana, a cura di T. Scovazzi, Milano, 2014. 183 Direttiva 2014/60/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 15 maggio 2014, relativa alla restituzione dei beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno Stato membro e che modifica il regolamento (UE) n. 1024/2012 (Rifusione). 184 L’IMI è stabilito dal regolamento (UE) n. 1024/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012, relativo alla cooperazione amministrativa attraverso il sistema di informazione del mercato interno e che abroga la decisione 2008/49/CE della Commissione («regolamento IMI»). 185 R. Buonomo, La restituzione dei beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno Stato Membro alla luce della direttiva 2014/60/UE, in AEDON, n. 3, 2014. 123 pio requisito della qualificazione da parte dello Stato membro e la corrispondenza ad una delle delle categorie dell’allegato. Non è, dunque, rilevante il raggiungimento da parte del bene culturale di determinate soglie di vetustà e/o di valore. Rispetto al tanto criticato aspetto dei termini, la normativa di nuovo conio estende tanto quello procedimentale per la verifica della culturalità in sede di cooperazione amministrativa, il quale passa da due a sei mesi (art. 5), quanto quello processuale per l’esercizio dell’azione di restituzione. Detto termine, infatti, viene innalzato a tre anni (art. 8), venendo, dunque, a coincidere con quello fissato dalla Convenzione dell’Unidroit. Un’ulteriore novità di grande rilievo attiene alla tematica dell’indennizzo. Ai sensi dell’art. 8, c.1, infatti, il Giudice chiamato a decidere in ordine alla restituzione “accorda al possessore un equo indennizzo in base alle circostanze del caso concreto”, ma solo a condizione che questi dimostri “di aver usato, all'atto dell'acquisizione, la diligenza richiesta”. Rispetto all’onere probatorio, dunque, non si fa più rinvio alla lex fori, ma è la direttiva stessa ad addossare al possessore che pretenda d’ottenere un indennizzo l’onere di provare d’aver adottato la dovuta diligenza. La norma citata, inoltre, indica una serie di circostanze dalle quali desumere l’esercizio dell’impiego della diligenza richiesta da parte del possessore all’atto dell’acquisto. Ai sensi dell’art. 20, la Direttiva 2014/60/UE abroga la precedente Direttiva 93/7/CEE a far data dal 19 dicembre 2015, pertanto gli Stati membri, hanno termine sino al 18 dicembre 2015 per recepire la nuova disciplina nei propri ordinamenti interni. Si segnala, a tal riguardo, che la Legge di delegazione europea 2014186 contiene la delega legi186 Legge 9 luglio 2015, n. 114, Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea - Legge di delegazione europea 2014. 124 slativa al Governo italiano per il recepimento dell’analizzata normativa europea. Si dovrà, dunque, attendere per vedere le reazioni degli Stati membri all’intervento normativo europeo ed in particolare se l’Italia sfrutterà quest’occasione per rimediare all’opportunità mancata in sede di recepimento della Direttiva 93/7/CEE, ovvero l’estensione dell’applicazione dell’azione di restituzione ai beni fuoriusciti dal territorio di altri Stati membri prima del 1° gennaio 1993.187 Questo, infatti, sarebbe un importantissimo segnale da parte di uno Stato che si trova in prima fila nella lotta al traffico internazionale di beni culturali. Abstract Diego Favero, L’evoluzione della disciplina europea in materia di restituzione di beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno Stato membro. La direttiva Direttiva 93/7/CEE del Consiglio del 15 marzo 1993, relativa alla restituzione dei beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno Stato membro, completa il sistema europeo di protezione dei patrimoni culturali nazionali, resosi necessario con la creazione del mercato unico. Se, infatti, il regolamento Regolamento (CE) n. 116/2009 si configura come un dispositivo di prevenzione rispetto alla fuoriuscita di un bene avente un valore culturale dal territorio comunitario, la direttiva fa s̀ che l’oggetto “bloccato” all’interno delle frontiere comunitarie possa essere ricondotto al suo Paese d’origine. 187 La Direttiva 93/7/CEE è stata recepita nell’ordinamento italiano con la L. 30 marzo 1998 n. 88. Tale disciplina, attualmente, è contenuta negli artt. 75 e ss. del Codice dei beni culturali e del paesaggio, D. Lgs. 22 gennaio 2004 n. 42. 125 Essa, dunque, ha la mera funzione di garantire l’applicazione delle norme di tutela del patrimonio nazionale di uno Stato membro all’interno degli altri Stati europei. Per tale ragione, la Direttiva 93/7/CEE lascia impregiudicate tanto le azioni penali e civili previste dalle legislazioni nazionali, quanto le questioni attinenti alla proprietà del bene culturale. Sebbene il numero delle richieste avanzate in forza della procedura giudiziaria prevista dalla direttiva non siano state numerose, la maggioranza dei Paesi membri ha espresso il proprio convincimento circa l’utilità di tale strumento normativo. Taluni Paesi, tuttavia, espressero sin dalla sua introduzione perplessità circa l'eccessiva brevità del termine per l’esercizio dell'azione di restituzione. La Commissione, dunque, nella terza relazione sull'appalicazione della direttiva, ha affermato la necessità di avviare un processo di riflessione con lo scopo di operare una revisione dello strumento normativo. Si è così giunti alla direttiva 2014/60/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 15 maggio 2014, il cui termine di recepimento per gli Stati membri è fissato al 18 dicembre 2015. Essa va ad abrogare la direttiva 93/7/CEE introducendo importanti modifiche al previgente impianto normativo. Particolarmente importanti sono stati gli interventi sull’ambito d’applicazione della direttiva, sui requisiti per l’ottenimento dell’equo indennizzo e sul termine di prescrizione. In particolare, l’innalzamento da uno a tre anni del termine per esercitare l’azione contenuto nella novella normativa rappresenta un intervento fondamentale al fine di garantire l’effettività del meccanismo europeo di restituzione dei beni culturali illecitamente usciti dal territorio degli Stati membri. 126 Lorenzo Looz Recensione di “Oro dentro. Un archeologo in trincea”. “Oro dentro. Un archeologo in trincea: Bosnia, Albania, Kosovo, Medio Oriente” (fig. 2), realizzato da Laura Sudiro, giornalista ed archeologa, e da Giovanni Rispoli, autore ed editore di libri d’arte e di fotografia e pubblicato da SKIRA editore nel 2015, racconta la storia e la vita dell’archeologo Fabio Maniscalco (Napoli, 1 agosto 1965 - Napoli, 1 febbraio 2008): un uomo impegnato nella tutela del patrimonio culturale a rischio nel mondo, in particolare nelle zone di guerra. Fabio Maniscalco (fig. 1) è stato Tenente dell’Esercito Italiano dal 1995 al 1998. Da questi anni, esattamente dal gennaio 1996, il libro comincia a narrare la sua prima missione a Sarajevo, in Bosnia, con il compito di monitorare la situazione del patrimonio culturale, applicando per la prima volta l’articolo 7 della Convenzione dell’Aja del 1954, che prevedeva personale specializzato nella tutela dei Beni Culturali all’interno dell’Esercito. La situazione nella capitale è drammatica: i soldati sono costretti a lavorare sotto il tiro dei cecchini, in aree pericolose per le mine. Fabio e i suoi colleghi camminano per le strade della città descrivendo gli “altri” orrori della guerra, quelli di cui nessuno parla, come i segni delle granate sugli edifici, i muri sventrati dalle esplosioni, le colonne crivellate della moschea dell’Imperatore e le macerie della Biblioteca Nazionale: nella foto, riportata an- 127 che sulla copertina del libro, si vede l’interno fatiscente della biblioteca con un raggio di luce che penetra dalla parete, simbolo di speranza per una nazione in ginocchio. Proseguendo nella lettura, seguiamo Fabio in altre missioni, in Albania, Kosovo e Medio Oriente. In Albania, oltre al monitoraggio dei beni culturali ancora presenti in molte aree del paese, si infiltra nel mercato clandestino di opere d’arte, riuscendo a recuperare un gran numero di reperti archeologici. Diversa la situazione in Kosovo ed in Palestina. Nella prima si racconta la guerra tra serbi e albanesi, con la irrimediabile conseguente distruzione della “memoria degli altri”. In Palestina, nel 2003, ritroviamo Fabio impegnato ad esporre lo “Scudo Blu” (Blue Shield) sui beni culturali a rischio nella striscia di Gaza e in Cisgiordania. Oltre alla tutela e alla salvaguardia dei beni culturali, il libro racconta la sua altra grande passione: l’archeologia subacquea. Tante le sue immersioni, molte delle quali nella splendida Baia “sommersa”, immersioni che culmineranno con la pubblicazione de “Il nuoto nel mondo greco-romano” e del manuale di “Archeologia subacquea”, ancor oggi uno dei manuali più impiegati per l’approccio a tale disciplina. Sono gli anni in cui Fabio Maniscalco è docente presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, in un clima di gelosie e di invidie che il suo modo di insegnare e di agire suscita tra i “colleghi” dell’Ateneo. Il racconto è un continuo intreccio tra le sue missioni all’estero, l’archeologia subacquea e l’amore per sua moglie Mariarosaria, che gli sarà vicina fino alla morte, fino a quando il cancro, causato probabilmente dall’esposizione all’uranio impoverito durante le missioni nella ex Jugoslavia, gli stronca la vita il 1 febbraio 2008, a soli 42 anni. 128 Proprio grazie a lei, agli amici ed ai conoscenti, gli autori hanno potuto raccogliere, con anni di meticolose ricerche ed interviste, le testimonianze necessarie per la stesura del testo. La narrazione porta il lettore ad entrare nella vicenda, a viverla come un romanzo d’avventura, a sentire i silenzi delle strade abbandonate per la guerra, a percepire l’aria densa di polvere e di dolore e a trattenere il fiato durante le immersioni. Le ultime pagine del libro sono le più strazianti, quelle che raccontano della terribile malattia e del dolore. Fabio, dapprima uomo iperattivo ed energico, si ritrova in un calvario fatto di letti di ospedale, chemioterapie, apparenti ed ingannevoli miglioramenti. Lui, però, conscio della situazione e del suo destino, un tumore al pancreas che contagia anche altri organi vitali, si ritrova sul letto di casa, impossibilitato a muoversi, ma senza perdere la voglia di scherzare. Acconsente alla biopsia sui suoi tessuti, nella speranza che il suo sacrificio possa essere un giorno utile alla scienza, a fare chiarezza sui danni causati dall’esposizione all’uranio impoverito e ad altri metalli pesanti, questione che ancora oggi presenta numerose lacune. In un certo senso il libro diventa una sorta di denuncia, come fece Fabio ancora in vita, per la ricerca della verità. Un’intera generazione di soldati è morta o è stata colpita da tumori. Militari ignari dell’impiego di tali materiali pericolosi durante una guerra che avrebbe dovuto portare solo pace. E conseguenze si sono riscontrate, purtroppo, anche nei loro figli. Tra i metalli ritrovati nel corpo di Fabio Maniscalco ci sono piccole quantità d’oro, da cui trae origine il titolo del libro: l’oro dentro è quello delle particelle riscontrate nei suoi tessuti, ma anche quello che metaforicamente aveva in sé, quell’energia, quella vita che giorno dopo giorno lo spingevano a continuare a credere nei suoi valori, a perseverare nei suoi insegnamenti. 129 “Non chi comincia ma quel che persevera” è il motto della “Vespucci”, la nave scuola della Marina Militare. Sta a noi, oggi, incentivati da questo stupendo libro, portare avanti l’originalità dell’insegnamento di Fabio Maniscalco, affinché il suo sacrificio non sia stato vano, ma al contrario possa illuminare la strada ai pochi giovani, che nonostante la situazione attuale, continuano a credere nell’archeologia, perché solo scoprendo il passato possiamo vedere il futuro. Autori: Laura Sudiro - Giovanni Rispoli. Titolo: “Oro dentro. Un archeologo in trincea: Bosnia, Albania, Kosovo, Medio Oriente”. Luogo di edizione: Milano. Anno di edizione: 2015. Editore: Skira. Collana: StorieSkira. Lingua: italiano. Dimensioni: 14 x 21 cm. Pagine: 192. Rilegatura: Brossura. ISBN: 885722650. 130 Fig. 1: Fabio Maniscalco (Napoli, 1º agosto 1965 - Napoli, 1º febbraio 2008), archeologo italiano che è stato in prima linea nel contrasto dei traffici illeciti di beni culturali e nella tutela del patrimonio culturale nelle aree di crisi e di guerra. Nel 2009 è stato riconosciuto “vittima del dovere” dal Ministero della Difesa Italiano. È il protagonista del racconto biografico “L’Oro dentro” di Laura Sudiro e Giovanni Rispoli. 131 Fig. 2: Copertina de “L’Oro dentro” di Laura Sudiro e Giovanni Rispoli, racconto biografico della vita di Fabio Maniscalco. 132 Indice Nota al settimo numero. p. 9 N. Pedot Il sacco della Biblioteca dei Girolamini di Napoli. p. 13 T. Cevoli, N. Meluziis La Via Consolare Campana Puteolis Capuam: speculazione edilizia e problemi di tutela. p. 27 G. Germanà Bozza Un’anfora attica recuperata nell’Operazione Teseo. p. 53 S. Raffiotta, Il ritorno del dio degli inferi a Morgantina. p. 69 E. Canghiari “Un mendicante su una panca dorata”: il patrimonio archeologico peruviano tra saccheggio, commercializzazione e messa in valore. D. Favero L’evoluzione della disciplina europea in materia di restituzione di beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno Stato membro. L. Looz Recensione di “Oro dentro. Un archeologo in trincea”. p. 92 p.111 p.127 133 Finito di stampare nel mese di dicembre 2015 134 135 ARCHEOMAFIE. Rivista dell’Osservatorio Internazionale Archeomafie. Testata registrata presso il Tribunale di Napoli n.10 del 21/02/2007. La rivista è stata inserita dall’Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca nell’elenco delle Riviste Scientifiche con Delibera n. 17 del 20/02/2013 ai sensi del DM 76/2012. Edizione in collaborazione con Liberarcheologia e con il Centro Studi Criminologici. Info e contatti: www.archeomafie.org Proprietà letteraria riservata. ISSN: 2036-4539. 136