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Epidemie sanità e politica nel mondo contemporaneo

2022, Epidemie sanità e politica nel mondo contemporaneo

Raccolta di recensioni curata da Roberto Bianchi e Silvano Montaldo

Epidemie, sanità e politica nel mondo contemporaneo a cura di Roberto Bianchi* e Silvano Montaldo** Chimnay Tumbe The Age of Pandemics, 1817-1920: How They Shaped India and the World HarperCollins India, Noida 2020, pp. 271 Con tre capitoli rispettivamente dedicati a colera, peste e influenza, questo volume rappresenta nello stesso tempo un frutto collaterale e un prequel delle ricerche che Tumbe svolge da tempo sull’epidemia di Spagnola in India. Giovane professore di economia all’Università di Ahmedabad, l’A. è interessato a un punto di vista nuovo sulla storia del suo paese, meno legato alla politica e alla lotta anticoloniale e più attento alle dinamiche migratorie (su cui nel 2018 ha pubblicato India Moving: A History of Migration) e demografiche. Le malattie epidemiche ne fanno parte a pieno titolo, dato che le loro vittime stimate complessive nell’arco di tempo considerato (72 milioni nel mondo, 40 in India) superano ampiamente quelle dei conflitti armati. Eppure si tratta di un’eredità dimenticata (anche nella manualistica) per effetto di un antico e radicato pregiudizio che col- loca la malattia nel novero della fatalità private e in fondo vergognose, indegne di attenzione collettiva. La pandemia corrente di Covid-19 ha cambiato molte cose e forse anche questo pregiudizio. Il libro trascura così – ma lo dichiara già in apertura – altre malattie endemiche come la malaria, che non si manifestano in ondate emergenziali ma peggiorano drasticamente e in profondità gli ambienti umani. Trascura anche le epidemie dei secoli precedenti, perché nell’800 si affermano due processi che ne mutano i caratteri di base: una rivoluzione dei trasporti che accelera e moltiplica i contagi e una rivoluzione scientifica che isola gli agenti patogeni, scopre rimedi e formalizza procedure di quarantena e prevenzione. L’interazione tra malattie e società si allarga così dal campo biologico dei processi di immunizzazione (come il genocidio preterintenzionale che falcidia le popolazioni amerindie dopo l’arrivo dei conquistadores europei portatori sani di morbillo e vaiolo) a quello dei mutamenti istituzionali con l’avvio in diverse parti del mondo dei moderni sistemi di welfare (ivi compresa la pulizia urbana). Almeno parzialmente si secolarizza in * Dipartimento Sagas, via S. Gallo 10, 50129 Firenze; [email protected] ** Dipartimento di Studi Storici, via Sant’Ottavio 20, 10124 Torino; silvano.montaldo@ unito.it «Passato e presente», XL (2022), 117, ISSN 1120-0650, ISSNe 1972-5493, DOI 10.3280/PASS2022-117011 Copyright © FrancoAngeli This work is released under Creative Commons Attribution - Non-Commercial - NoDerivatives License. For terms and conditions of usage please see: http://creativecommons.org 150 schede parallelo la concezione della malattia, da ineluttabile e imparziale castigo divino ad avversità che è diritto e dovere contrastare. In merito alla Spagnola del 1918 – che rappresenta la pandemia di gran lunga più istantanea e sincronica – l’A. si inserisce in un filone di studi «revisionista» che ridimensiona la stima di 100 milioni come numero totale di decessi (formulata solo da un unico studio di N. Johnson-J. Mueller, Updating the Accounts: Global Mortality of the 1918-1920 “Spanish” Influenza Pandemic, «Bulletin of the History of Medicine», 2002, n. 76, pp. 105-15, ma spesso ripresa) sulla base di una più attenta considerazione della baseline di morti comunque attese per altre patologie: tipicamente quelle endemiche per malaria, classificate nei registri coloniali sotto la voce fevers, febbri. Come succede ancora oggi (con la difficile separazione tra morti per Covid e morti con il Covid) è una stima che segue due differenti percorsi di metodo, derivanti dalle fonti documentarie a disposizione. Il primo è la mortalità generica in eccesso, misurata attraverso il confronto tra il numero di morti per tutte le cause in anni pandemici e non. Il secondo è l’analisi delle cause specifiche di morte, che consente di registrare il mutamento dei criteri di classificazione e le dinamiche statistiche relative alle patologie meno facilmente distinguibili da quelle epidemiche: non solo influenza, ma anche polmonite e broncopolmonite, cause di morte importanti in anni non pandemici. Allo scopo di includere i quasi 100 milioni di indiani (su 318) che vivono nei «princely states» non soggetti al dominio britannico, Tumbe segue un terzo percorso di confronto tra i censimenti generali della popolazione, che tuttavia presenta il grave inconveniente di includere tra le vittime anche i «non nati», cioè il deficit di nascite dovuto all’influenza Spagnola. Il conteggio finale di 20 milioni di morti supera così le stime precedenti (17,5) ma corrisponde a una percentuale (6,5%) che si colloca agli estremi superiori del panorama di stime finora ipotizzate in tutto il mondo per il triennio 1918-1920. A premere in tale direzione – le prime stime, ricordate anche nel libro, si fermavano a quota 6 milioni – è la fondata convinzione di una sottorappresentazione statistica dei decessi nelle fonti documentarie dell’epoca. Ed è sempre su tale convinzione che si fonda l’ipotesi dei 100 milioni complessivi di morti. Ma si tratta appunto solo di una congettura che a sua volta deriva da una meccanica estensione pantografica dei tassi di mortalità ritenuti più affidabili. Il volume invece si diffonde con dovizia di particolari sul carattere ineguale di diffusione e incidenza della Spagnola nell’autunno 1918: dal 3,5% di decessi a Bombay e nel Punjab, al 4% delle province centrali, fino allo 0,5% della Birmania. La discussione di virologi ed epidemiologi sulla natura di tali eclatanti differenze è tuttora aperta. Entrano in gioco molti fattori: immunità trasversali fornite da esposizioni a contagi precedenti (non solo al virus influenzale: è stata di recente comprovata l’immunità al virus Covid-19 del ristretto campione di contagiati dalla Spagnola, virus di tutt’altro genere, un secolo prima), mobilità della popolazione, partecipazione ad eventi di massa. Nondimeno, il libro dimostra con abbondanza di evidenza statistica il nesso che nel 1918 si stabilisce in India tra pandemia influenzale, siccità e aumento di prezzo del riso. Tra le caste più basse (i paria) i tassi di mortalità sono mediamente sei volte più alti che tra le caste più alte (bramini). Ma si spiegano così anche le forti differenze di incidenza mortale della Spagnola tra regioni e il ribaltamento di due costanti del regime Copyright © FrancoAngeli This work is released under Creative Commons Attribution - Non-Commercial - NoDerivatives License. For terms and conditions of usage please see: http://creativecommons.org epidemie, sanità e politica nel mondo contemporaneo di mortalità in India: la prevalenza della mortalità nelle zone urbane e nel sesso maschile. Nel 1918 la Spagnola uccide di più nelle campagne e tra le donne: circostanza, quest’ultima, che ricorre solo in poche altre parti del mondo e segnatamente in Italia. L’A. non si diffonde nella spiegazione di questa ulteriore differenza di gender e si limita a prendere per buona la tesi proposta ancora nel 1986 da I.D. Mills (The 1918-1919 Influenza Pandemic. The Indian Experience, «The Indian Economic and Social History Review», 23, 1996, n. 1, pp. 1-40): il maggior coinvolgimento delle donne nella cura dei familiari malati. Il problema è che una supermortalità femminile da Spagnola si verifica anche in Inghilterra e a Parigi ma invece non accade negli Stati Uniti, né in Canada, Svezia, Norvegia, Spagna, Australia, Cile e Sudafrica. Ed è difficile pensare che il ruolo di cura delle donne fosse significativamente diverso in questi ultimi paesi. Negli Stati Uniti per esempio le infermiere sono colpite da un tasso di mortalità più alto rispetto a quello tra i dottori, ma nella popolazione generale questa ineguaglianza scompare. Il problema resta quindi aperto. In India contribuisce però a gonfiare il deficit di natalità e quindi a mettere ulteriormente in discussione il metodo di confronto intercensuario adottato da Tumbe. Potrebbe essere un mero dato di risulta, originato dalla supermortalità maschile in guerra; ma è un’ipotesi che in India sembra di ridotta applicabilità, con un milione e mezzo di richiamati sotto le armi (su 315) contro i più di cinque in Italia (su 37). È oggi noto che malattie autoimmuni e disordini a esse collegate (come la cytokine storm, la reazione immunitaria abnorme determinata dalla Spagnola) sono il doppio più frequenti tra le donne in periodi 151 di cambiamento ormonale come gravidanza e menopausa. Il rischio specifico di influenza è nelle donne in gravidanza un multiplo (da 5 a 9 volte) rispetto a quelle che hanno partorito. Ma nel 1918 la supermortalità femminile ricorre solo in alcuni casi nazionali e quindi non può avere una causa biologica universale. A complicare ulteriormente le cose è anche il dettaglio locale: in Italia la supermortalità femminile da influenza e polmonite nel 1918 risulta evidente a livello regionale e provinciale, ma non nei comuni. In alcuni di questi (come Firenze) nel 1918 muoiono più maschi, sia per tutte le cause, sia per influenza e polmonite. E il maggior ospedale della città (Santa Maria Nuova) accoglie nel fatidico ottobre 1918, picco della pandemia, 1.161 donne a fronte di 679 uomini, ma le prime muoiono in percentuale (24%) inferiore rispetto ai secondi (30%). Anche l’ipotesi di una maggiore esposizione delle donne al contagio per un “naturale” ruolo di cura dei malati, a Firenze sembra traballare. Il mistero continua. Giovanni Gozzini* Francesco Cutolo L’influenza Spagnola del 1918-1919. La dimensione globale, il quadro nazionale e un caso locale con un saggio introduttivo di Roberto Bianchi ISRPt Editore, Pistoia 2020, pp. 319 Tra le pubblicazioni a carattere storiografico suscitate dall’attuale pandemia spicca, per il suo carattere non occasionale, il lavoro di Cutolo, dottore di ricerca alla Scuola Normale Superiore di Pisa, che nella tesi magistrale, discussa nel 2016, aveva già affrontato questo tema, di cui il libro rappresenta quindi * Dispoc, via Roma 56, 53100 Siena; [email protected] Copyright © FrancoAngeli This work is released under Creative Commons Attribution - Non-Commercial - NoDerivatives License. For terms and conditions of usage please see: http://creativecommons.org 152 schede lo sviluppo. A introdurlo è un saggio di Roberto Bianchi, relatore di quella tesi, che riflette sulle ragioni che a lungo hanno determinato la marginalità, se non l’assenza vera e propria, della più letale epidemia del XX secolo dalle sintesi generali e dai manuali di storia, con rare eccezioni, e del permanere, invece, del suo ricordo, nella dimensione privata delle memorie familiari. Ragioni dovute alla cesura del periodo bellico, alla rimozione da parte dei sopravvissuti, determinati a lasciarsi alle spalle un’epoca così catastrofica, all’oscuramento dei lutti civili a fronte dell’esaltazione del sacrificio militare, alle scarse tracce lasciate nel romanzo e nella pittura, al lungo perdurare di un disinteresse da parte della storiografia italiana verso la storia sanitaria e sociale, nonostante il pionieristico lavoro, nel 1925, del demografo Giorgio Mortara. Il libro è strutturato in due parti, dedicate rispettivamente alla dimensione globale e a quella nazionale; su quest’ultima si innesta il caso locale di Pistoia, come occasione di verifica dei paradigmi interpretativi più generali. La prima parte offre una sintesi aggiornata sul dibattito internazionale riguardo alle origini e alle cause della pandemia, alla cronologia della prima e della seconda ondata epidemica e alle recrudescenze successive del morbo, ai suoi effetti nelle diverse aree del globo e alle sue conseguenze sul conflitto bellico. Se il primo insorgere dell’influenza del 1918 fu segnalato in gennaio nella contea di Haskell, in Kansas, per cui l’interpretazione più accreditata verte sulla diffusione del virus tra le truppe concentrate nei campi di addestramento in quella regione e sul suo trasferimento in Europa attraverso i convogli militari, sono emerse tuttavia altre due ipotesi: la prima, sulla derivazione della febbre Spagnola da un’epidemia in corso durante il 1917 in zone interne e settentrionali della Cina, veicolata dai lavoratori trasferiti sul teatro bellico europeo via America del Nord; la seconda, fa invece discendere la pandemia da una bronchite purulenta registrata nel Pas de Calais tra dicembre 1916 e marzo 1917. La commistione di truppe e di animali e gli effetti mutageni degli agenti chimici utilizzati a scopi militari avrebbero determinato la commistione tra gli agenti virali dell’influenza viaria, suina e umana. In tutte e tre le ipotesi, la contingenza bellica ebbe un ruolo decisivo, perché trasformò un’infezione locale in una calamità planetaria attraverso la concentrazione e il trasferimento di masse di uomini a grandi distanze. La cronologia pare ormai consolidata: se la prima ondata dell’influenza del 1918 fu caratterizzata da elevata morbilità e bassa letalità, come avviene di norma, la seconda, anomala ondata, generatasi pare simultaneamente in più zone in luglio e agosto, fu invece un evento catastrofico. Cutolo presenta una panoramica completa dei risultati della più recente storiografia internazionale sugli effetti a livello planetario della pandemia che, all’epoca della seconda ondata, a causa della censura operante nei paesi belligeranti, aveva iniziato a essere denominata febbre Spagnola, anche se non mancarono numerose altre definizioni. Questi studi recenti hanno portato a rivedere al rialzo le somme della mortalità complessiva, a lungo fondata su stime basate sulla sua letalità nel mondo occidentale, attestata in 2,5 milioni di morti in Europa e 700.000 in Nord America in 24 settimane, pari a 4,8 e a 5,2 decessi ogni 1.000 abitanti. Appare ormai chiaro, invece, che i continenti più colpiti dall’influenza del 1918 furono l’Asia e l’Africa, che lamentarono indici di mortalità molto più elevati di quelli registrati in Nord America e in Europa e anche in America meridionale, che ebbe medie Copyright © FrancoAngeli This work is released under Creative Commons Attribution - Non-Commercial - NoDerivatives License. For terms and conditions of usage please see: http://creativecommons.org epidemie, sanità e politica nel mondo contemporaneo sostanzialmente analoghe a quelle occidentali, a differenza invece dell’America centrale e dei Caraibi, dove la guerra civile in Messico impedì l’adozione di misure profilattiche. In Africa, dove la pandemia determinò anche cambiamenti nelle coltivazioni dovuti alla scarsità di manodopera e un rafforzamento delle pratiche di segregazione razziale, nonché delle forme di opposizione all’ordine coloniale, i morti furono 2,3 milioni, ovvero il 2% dell’intera popolazione, anche se si tratta di stime basate sui pochi dati anagrafici disponibili. L’influenza Spagnola fece però il maggior numero di vittime in assoluto in Asia, con stime che variano dai 19 ai 33 milioni, pari a 19,7-34,2 decessi ogni 1.000 abitanti, con il picco peggiore in India, che ebbe tra i 12,5 e i 20 milioni di morti, a causa di un sistema ferroviario più efficiente di quello cinese, della carenza di medici e dell’assenza di misure profilattiche da parte del governo coloniale. Per contro l’esempio del Giappone, dove furono adottate rigide misure di isolamento, dimostra l’efficacia dell’intervento umano nel mitigare la diffusione del morbo, come testimonia anche l’esito, clamorosamente diversificato, della pandemia nelle Samoa tedesche e in quelle americane. Tirando le somme, se si resta sul piano delle stime, che variano dai 24,7 milioni ai 48,7 milioni (ma vi sono studiosi che hanno azzardato anche 100 milioni di morti) appare chiaro che a soffrire maggiormente furono i paesi più poveri e affollati, in cui le condizioni igieniche erano peggiori e le autorità non svilupparono efficaci misure di intervento, per scelta o per carenze operative, e alcuni dei gruppi più isolati, compresi i maori, le minoranze etniche dei nativi americani e degli Inuit, tra i quali intere comunità furono sterminate non solo dal morbo ma anche dalla fame e dal freddo che colpirono i membri più giovani e quelli 153 più anziani dopo che la Spagnola aveva ucciso gli uomini e le donne più robusti. Infine, per quanto riguarda il piano internazionale, l’influenza fu tra i fattori che contribuirono a determinare le sorti del conflitto, perché colpì l’esercito tedesco costringendolo a rallentare l’offensiva primaverile, mentre in autunno, quando entrambi gli schieramenti erano alle prese con i terribili effetti della seconda ondata, la maggiore disponibilità di truppe di riserva e di approvvigionamenti rappresentarono un vantaggio per gli Alleati. Anche la pace pare sia stata segnata dal morbo, avendo sottratto Wilson per più giorni dalle trattative e impedendogli quindi di far valere le ragioni di un accordo non punitivo verso gli imperi centrali. Invece sul fronte meridionale – siamo nella seconda parte del libro – sia gli italiani sia gli austroungarici risentirono parimenti degli effetti del morbo, con una riduzione temporanea di circa 200.000 unità nei due schieramenti. Cutolo si concentra sulla situazione della penisola – che fu tra i paesi europei più colpiti dal morbo, con conseguenze peggiori al Sud rispetto al Centro-Nord – mettendo a fuoco la gestione dell’epidemia nel regio esercito, tra i prigionieri di guerra, nelle zone occupate dal nemico in Veneto e Friuli e in quelle libere. Rimane il dubbio se le misure profilattiche e terapeutiche a protezione dell’esercito, pur attuate con sollecitudine, siano state esenti da falle: pare probabile che la contingenza bellica ne abbia limitato significativamente l’efficacia. Per contro è certo che la popolazione civile poté contare su un’assistenza decisamente peggiore a causa delle carenze pregresse del sistema degli ospedali e delle condotte mediche e degli effetti della mobilitazione di molti medici e infermieri, cosa di cui il ministro dell’Interno e le autorità locali erano ben consapevoli, non lesinan- Copyright © FrancoAngeli This work is released under Creative Commons Attribution - Non-Commercial - NoDerivatives License. For terms and conditions of usage please see: http://creativecommons.org 154 schede do richieste di aiuto, quasi mai esaudite, all’esercito. Le pagine dedicate a questi aspetti, come anche quelle sulla gestione dell’opinione pubblica e le sue reazioni – in cui l’A. ha condotto ricerche di prima mano – rappresentano la parte più interessante del libro. Emerge il quadro di un governo consapevole sia della gravità della situazione sia delle fragilità strutturali degli apparati di cura, assistenza, approvvigionamento e pertanto determinato ad attuare un rigido controllo della stampa, anche di quella di orientamento monarchico-liberale, che non si fosse adeguata alle direttive volte a tranquillizzare la popolazione. Se i giornali, tranne quelli socialisti, e il clero si allinearono a questa decisione, l’effetto imprevisto fu quello di favorire l’insorgere di una sfiducia nei confronti delle autorità e del personale sanitario, acuendo voci su oscuri disegni governativi e il ricorso ad arcaiche pratiche terapeutiche. L’ultimo capitolo del libro, infine, si concentra su Pistoia e il suo circondario, utilizzando gli archivi locali e una consistente letteratura locale sul periodo in questione. Risulta provata, dallo studio di questo caso, una maggiore incidenza della Spagnola tra gli abitanti del centro urbano rispetto a quelli delle zone rurali. Silvano Montaldo Charles Kenny La danza della peste. Storia dell’umanità attraverso le malattie infettive Bollati Boringhieri, Torino 2021, pp. 288 Pubblicato nel 2021 con il titolo The Plague Cycle. The Unending War Between Humanity and Infectious Disease, il libro di Kenny è stato rapidamente tradotto da Bollati Boringhieri che già aveva proposto nel 2012 il suo Getting Better. Why Global Development is Succeeding-and How We Can Improve the World Even More. Ciò non sorprende vista la notorietà dello studioso (ricercatore presso il Center for Global Development di Washington) e la compresenza della diffusione della pandemia di Covid-19. Si tratta di un libro di sintesi il cui maggiore pregio consiste nel fornire una notevole massa di informazioni, con uno sguardo globale, sulla diffusione delle malattie infettive e delle pandemie nella storia, con un arco cronologico amplissimo che parte dalla comparsa dell’Homo sapiens per arrivare fino a oggi. Sappiamo così, ad esempio, che per i primi uomini le malattie infettive non erano certo infrequenti ma vista la scarsa quantità di popolazione e la sua dispersione era raro il meccanismo che poi, in epoca storica, avrebbe via via fatto delle pandemie uno dei fattori decisivi di dolore e morte: la trasmissione tra malati e sani attraverso il contatto: «Qualunque infezione letale avrebbe annientato il suo ospite prima di incontrare nuove vittime da infettare» (p. 24). A partire dal 40.000 a.C. gli esseri umani si diffusero, partendo dall’Africa, in tutti i continenti. L’aumento della popolazione, la nascita dell’agricoltura, e quindi del rapporto promiscuo con gli animali, e l’inizio delle prime forme di globalizzazione tra Europa, Asia e Africa, portarono alla diffusione delle infezioni virali: «Sebbene le pestilenze non vengono nominate nei capitoli iniziali della Bibbia, appena si arriva alla civiltà egizia il testo viene inondato di racconti di piaghe, non soltanto di quelle delle rane, ma anche di pustole, pidocchi, mosche e altri orrori sconosciuti» (p. 27). I commerci diventarono elementi di progresso ma anche di diffusione di pandemie. Da qui il titolo del libro, che unisce la storia dell’umanità attraverso il punto di vista delle malattie infettive, con una lettura Copyright © FrancoAngeli This work is released under Creative Commons Attribution - Non-Commercial - NoDerivatives License. For terms and conditions of usage please see: http://creativecommons.org epidemie, sanità e politica nel mondo contemporaneo scorrevole e affascinante ma anche talvolta cercando di spiegare il tutto con una parte, seppure importante. Fino a tutto il ’600 gli uomini, nelle diverse latitudini, erano incapaci di comprendere i meccanismi delle malattie infettive e di trovarvi rimedi efficaci. La diffusione della stanzialità con l’agricoltura, la nascita di grandi città, l’aumento della popolazione e dei commerci determinarono una diffusione di virus relativamente stabile in tempi normali che accelerava drammaticamente a causa delle guerre e delle crisi agricole. Un papiro del 3000 a.C. ci parla di una “peste” che potrebbe essere stata una forma di malaria, in base all’analisi di mummie dello stesso periodo che mostrano segni di infezione malarica. La peste la fa da grande “moria” per secoli, dalle prime pandemie attestate come quella di Atene del 439 a.C. contratta dallo storico Tucidide, che indicò nel Nord Africa il luogo di partenza del contagio. I medici dell’antichità, del medioevo e fino al ’700 non erano in grado di intervenire: ci vorranno i microscopi, la scoperta dei diffusori (ratti e pulci per la peste), la medicina scientifica e la vaccinazione per curare e, ancor meglio, per anticipare la diffusione di enormi pandemie. Procopio si trovava a Costantinopoli nel 542 a.C. quando si diffuse, proveniente dall’Egitto, la pandemia che poi si estese a Ovest fino in Gallia. A provocare l’immane crisi del ’400 fu una serie di cattive annate tra 1315 e 1322, prodromo della Peste nera che colpì l’Europa e l’Asia. L’A. non si è limitato a ripercorrere gli eventi ma ha dato conto delle diverse posizioni della storiografia, dalla teoria di William McNeill sulla peste nera diffusasi prima in Cina e solo dopo in Europa a quella del tutto antitetica di George D. Sussman che ha viceversa messo in dubbio perfino la presenza della pestilenza in Cina. 155 Quel che sappiamo con certezza è che in età moderna le pestilenze colpirono ancora l’Europa e il resto del mondo ma via via furono più circoscritte e meno letali. Come mai? In larga parte per quel che avvenne nello – per noi umani – sconosciuto mondo dei ratti, per la vittoria del Rattus norvegicus sul Rattus rattus, il roditore che per secoli aveva “amato” diffondere tra gli uomini la Yersinia pestis, il batterio agente eziologico del contagio. Ma altre epidemie erano dietro l’angolo in età moderna, quando l’incontro tra europei e indios portò popoli che ancora non si conoscevano a unire gli altrui virus. Un incontro, quello tra spagnoli, portoghesi e amerindi che risultò letale soprattutto per questi ultimi, uccisi non tanto per le guerre e per le condizioni di schiavitù cui furono sottoposti quanto proprio per lo shock pandemico subito incontrando influenza, vaiolo e morbillo portati dall’Europa. Si salvarono solo quanti si rifugiarono, come in Amazzonia, nelle foreste: fu il caso degli Yanomano, una delle cosiddette “tribù mai contattate” dagli europei e dai loro virus. Kenny ricorda: «Gli esseri umani hanno ereditato e sviluppato meccanismi di difesa biologici per rispondere all’attacco dei microbi, ma hanno anche sviluppato risposte comportamentali […] la tendenza a escludere e l’igiene hanno entrambi avuto origine a partire da questi tratti comportamentali» (p. 78). Da qui il legame tra paura di ammalarsi e ricerca di colpevoli in gruppi umani minoritari e già malvisti, ad esempio per motivi religiosi come nel caso degli ebrei. Un altro esempio ci è fornito dalla vera e propria psicosi antigay degli anni ’80 e ’90 del ’900, legata alla diffusione dell’Aids. I globuli bianchi sono stati una risposta evolutiva alle malattie per la loro capacità di contrastare le infezioni. L’Aids colpisce proprio queste fondamentali cel- Copyright © FrancoAngeli This work is released under Creative Commons Attribution - Non-Commercial - NoDerivatives License. For terms and conditions of usage please see: http://creativecommons.org 156 schede lule, portando rapidamente a polmoniti e tubercolosi. Quando c’è stato il cambiamento di paradigma scientifico che ha reso possibile difenderci dalle malattie infettive? Un ruolo fondamentale fu la scoperta del vaccino contro il vaiolo, la malattia che aveva per secoli ucciso con “democratica” indifferenza sovrani e nobili, contadini e artigiani. Come spesso è capitato nella storia della scienza, in questa vittoria si unirono intelligenza, studio e una certa casualità e imprudenza. Dopo aver passato dieci anni a studiare la storia naturale del cuculo, Edward Jenner, un semplice medico di campagna, iniziò a osservare le dinamiche del vaiolo. Aveva notato infatti che molte mungitrici venivano colpite dal vaiolo delle mucche senza subirne gravi conseguenze: «Nel 1796 Jenner estrasse un po’ di materiale delle lesioni da vaiolo bovino riportato da una delle donne e lo iniettò nel figlio di otto anni del suo giardiniere, un bambino di nome James Phipps. Utilizzando sempre la tecnica dell’inoculazione, lo espose poi al vaiolo comune più di venti volte. James non sviluppò mai la forma blanda del vaiolo che di solito accompagnava l’inoculazione, dunque probabilmente era già immune» (p. 121). Con An Inquiry into the Causes and Effects of the variolae Vaccinae (1798) iniziava una nuova epoca per l’umanità: l’età dei vaccini, termine derivato, passando per il latino, dal “vaiolo delle vacche”. La scoperta di Jenner salvò milioni di persone, tuttavia per giungere a una metodologia certa e in grado di essere utilizzata anche per altre infezioni si dovette aspettare Louis Pasteur con i suoi studi sul ruolo dei microrganismi nell’acidificazione del latte e nella trasforma- zione del vino in aceto e la scoperta di riuscire ad uccidere i microbi con il calore (pastorizzazione). Nel 1881 Pasteur dimostrò la validità della tecnica vaccinale anche per l’antrace, superando le teorie del famoso medico tedesco Robert Koch, che per così dire non ci rimase molto bene. A partire dalla fine dell’800 e fino al ’900 vaccini e antibiotici sono stati gli strumenti più utilizzati nella lotta contro le malattie infettive. Il che non ha impedito che nuovi virus, anche attraverso il salto di specie animali/umani, tornassero a colpirci; d’altra parte pure l’abuso di antibiotici, anche per gli animali, ha spesso reso meno forte il nostro sistema immunitario e determinato tumori. Il Covid-19 è solo l’ultimo arrivato nella “danza della peste”. In questo caso l’analisi dell’A. si è però un po’ troppo concentrata su Usa e Gran Bretagna. Alcune affermazioni, con occhi europei, lasciano perplessi: «La limitata utilità dei divieti di viaggio in presenza di una malattia spesso asintomatica e a rapida diffusione è emersa chiaramente con il Covid-19» (p. 162). Kenny appare giustamente interessato al processo della medicina ma troppo accondiscendente con le esigenze della globalizzazione nel campo del turismo di massa. Forse i milioni di viaggiatori mordi e fuggi che vediamo in splendide ma piccole città italiane potrebbero indicarci modalità meno invasive. Il libro ha comunque molti meriti, mette un lettore di media cultura in grado di comprendere la rilevanza delle pandemie nella “grande storia”, ma anche nella vita quotidiana degli esseri umani, fornendo dati scientifici concreti. Massimo Cattaneo* * Dipartimento di studi umanistici, via Porta di massa 1, 80133 Napoli; massimo. [email protected] Copyright © FrancoAngeli This work is released under Creative Commons Attribution - Non-Commercial - NoDerivatives License. For terms and conditions of usage please see: http://creativecommons.org epidemie, sanità e politica nel mondo contemporaneo Frank M. Snowden Storia delle epidemie. Dalla Morte Nera al Covid-19 Leg, Gorizia 2020, pp. 618 L’edizione italiana del volume di Frank M. Snowden Epidemics and society, pubblicato originariamente nel 2019, ha visto la luce nel novembre 2020, pochi mesi dopo lo scatenarsi della pandemia di Covid-19. La traduzione del testo si inserisce in una stagione di rinnovato interesse per la storia della medicina e della sanità, sull’onda dell’emergenza sanitaria che, con le sue pesanti conseguenze sociali, economiche e culturali, ha inevitabilmente condizionato i modi di rapportarsi con il passato. Se sul piano del dibattito pubblico si è iniziato a guardare indietro per osservare come le crisi epidemiche erano state affrontate e superate, cercando termini di paragone all’evento che stava vivendo sul piano delle ricerca vari storici, stimolati da questa domanda dal “basso” e dai nuovi interrogativi che il presente sollecitava, hanno volto l’attenzione verso la storia della medicina e della sanità. Un campo che, specie negli studi sull’età contemporanea, ha sempre suscitato un interesse circoscritto tanto nelle ricostruzioni più generali quanto nelle ricerche dall’approccio sociale e culturale. Né ha trovato particolare spazio nella storia pubblica. L’A. ha composto il suo libro in una fase che vedeva queste tematiche ancora marginalizzate. Prendendo atto di ciò, rifacendosi a un ciclo di lezioni tenute all’Università di Yale, ha voluto proporre un’introduzione alla storia medico-sanitaria, politica, sociale e culturale del rapporto tra società umane e malattie infettive dal XIV al XXI secolo, rivolta non tanto agli specialisti quanto piuttosto ai non esperti della materia, siano essi storici, studenti e grande pubblico. Infine, ha scelto di focalizzarsi sulle epidemie, 157 rispetto ad altre patologie, per tre convincenti motivazioni: sono eventi collettivi, che lasciano tracce profonde sulla società e sulla cultura; fino al XX secolo, hanno avuto effetti «di gran lunga più devastanti di quelle appartenenti ad altre categorie» (p. 22); infine, costituiscono tuttora minacce per il globo e per lo stesso Occidente, benché nel secondo ’900 si sia insinuata l’erronea convinzione «che le società, soprattutto nei Paesi sviluppati, fossero sul punto di diventare invulnerabili a nuove pestilenze» (p. 26). L’intera opera ruota attorno al nesso epidemie-società, come esplicitato fin dal titolo nella versione originale: la decisione di modificarlo nell’edizione italiana, probabilmente per ragioni commerciali, con il più generico Storia delle epidemie appare poco condivisibile. Mettendo in luce le strette correlazioni tra malattie infettive e vicende umane, Snowden intende anzitutto dimostrare che «le epidemie non sono un sottocampo esoterico per lo specialista interessato, ma piuttosto uno dei principali elementi del “quadro complessivo” dello sviluppo storico, […] importanti quanto crisi economiche, rivoluzioni e cambiamenti demografici» (pp. 21-22). In secondo luogo, vuole provare che «le malattie epidemiche non sono eventi casuali» (p. 26), ma che sono il contesto e i modelli socioeconomici, ambientali e culturali a creare fragilità, a rendere possibile la propagazione di una patologia epidemica. Ciò vale per il passato, ma anche per il presente: osserva, infatti, che «molte delle principali caratteristiche della moderna società globale continuano a rendere il mondo assai vulnerabile» (p. 26). Si riferiva a un’annunciata minaccia pandemica concretizzatasi di lì a poco, il Covid-19, su cui riflette nella nuova prefazione e nell’Epilogo all’edizione italiana, dove vi ha riportato la propria esperienza personale. Copyright © FrancoAngeli This work is released under Creative Commons Attribution - Non-Commercial - NoDerivatives License. For terms and conditions of usage please see: http://creativecommons.org 158 schede L’A. si trovava in Italia nella primavera 2020, dove ha contratto il virus, e ha potuto riflettere “in presa diretta” sulle risposte istituzionali e popolari alla crisi sanitaria. Il libro, suddiviso in 22 capitoli, esamina questo nesso affrontando diverse malattie infettive, con un approccio tematico che mantiene un ordine cronologico di fondo: si apre con la seconda pandemia di peste (XIV-XVIII sec.), proseguendo con vaiolo, febbre gialla, tifo, dissenteria, colera, tubercolosi, malaria, poliomielite, Aids/Hiv, per concludere con Sars ed Ebola. Ha selezionato epidemie distintesi per le loro conseguenze sociali, culturali e scientifiche di grande portata e a lungo termine. Sul piano geografico, per evitare di diventare dispersivo, l’A. si concentra sull’Europa e sul Nordamerica, ma non può esimersi dal dedicare approfondimenti ad Asia, Africa e America Latina, perché, specie a partire dal XIX secolo, le epidemie che hanno interessato o minacciato l’Occidente possono essere comprese solo considerando il loro essere eventi globali. Per ogni infezione, fornisce alcune nozioni biomediche di base, senza cui «le malattie sono incomprensibili» (p. 24), e poi le analizza su più livelli, osservando le risposte istituzionali, i comportamenti popolari, le reazioni culturali, gli effetti sociali ed economici. Propone spesso confronti tra epidemie, per sottolineare le peculiarità dei morbi esaminati. Alcuni capitoli ripercorrono lo sviluppo della medicina occidentale e delle strategie di salute pubblica, per agevolare il lettore nella comprensione dell’impatto di una malattia nel suo tempo. È altresì presente una sezione, rivolta ai non specialisti che si approcciano alla materia, in cui sono spiegati i metodi per analizzare in prospettiva storica le epidemie: purtroppo, questo utile approfondimento metodologico è posto, un po’ nascosto, all’inizio del capitolo dedicato al vaiolo. Particolarmente incisivi nell’illustrare l’intreccio tra patologie epidemiche, società e conoscenze scientifiche sono i due capitoli dedicati alla tubercolosi tra ’800 e ’900 che, pur essendo una malattia endemica, l’A. definisce epidemia perché durante questi secoli raggiunse un picco di infezioni in Europa e Nord America, a causa dello sviluppo industriale e della massiccia urbanizzazione. Le risposte culturali, sociali e politiche al “mal sottile” cambiarono profondamente dopo che le ricerche scientifiche ne avevano stabilito la natura contagiosa. Da «malattia ereditaria romantica e suggestiva, appannaggio delle élite belle e creative», la tubercolosi divenne «un morbo vile, contagioso, stigmatizzante, proprio delle persone povere e sporche» (p. 315). Appaiono poi efficaci, per comprendere l’impatto delle malattie infettive, i capitoli Guerra e malattie, dedicati alle epidemie di febbre gialla (1802-3), dissenteria e tifo (1812) che colpirono le armate napoleoniche, concorrendo in maniera decisiva al fallimento delle spedizioni francesi a Santo Domingo e in Russia. La scala di analisi ridotta permette di verificare osservazioni più generali e di evidenziare meglio le dinamiche del rapporto tra malattie, ambiente e società umane. Il libro è una solida e aggiornata opera di sintesi, che illustra in maniera semplice ma accurata alcune delle principali epidemie della storia occidentale e la loro interazione con la società, fornendo al lettore utili strumenti per comprendere meglio il passato e le minacce sanitarie che, al di là del Covid-19, incombono sul globo. Non è però esente da difetti. In particolare, alcune scelte nei morbi da esaminare non appaiono sempre convincenti. Tratta sommariamente le malattie infettive importate nelle Americhe Copyright © FrancoAngeli This work is released under Creative Commons Attribution - Non-Commercial - NoDerivatives License. For terms and conditions of usage please see: http://creativecommons.org epidemie, sanità e politica nel mondo contemporaneo dall’Europa con lo “scambio colombiano”, non perché ne sottovaluti gli effetti, ma in quanto tale tematica «è stata ben raccontata da altri» (p. 121), rimandando il lettore ad altri studi. Colpisce soprattutto che l’influenza “Spagnola” (1918-20) sia appena accennata. Non ne motiva l’esclusione, ma probabilmente ha ritenuto che la pandemia influenzale non abbia avuto rilevati conseguenze sul lungo periodo, quantomeno se paragonata alle altre epidemie selezionate. Invece, non andrebbe sottostimato l’impatto della “Spagnola” sulle strategie di salute pubblica, sulle politiche assistenziali, sulla società, sull’andamento della Grande guerra. Inoltre, si tratta di un valido esempio di patologia epidemica affermatasi grazie alle fragilità della società: nel caso della pandemia influenzale, il contesto bellico ne accelerò la diffusione su scala globale. È poi vero che la “Spagnola” è stata a lungo marginalizzata nella memoria pubblica, ma non si può ignorare che il ricordo è sopravvissuto nella sfera privata. Per di più, negli ultimi decenni, con il susseguirsi di crisi sanitarie, la “grande pandemia” del ’900 è stata spesso evocata da medici e scienziati per mettere in guardia le istituzioni e l’opinione pubblica sulle nuove minacce sanitarie. Si può anche così capire la grande visibilità che ha guadagnato con l’insorgere del Covid-19, di cui spesso è diventata il termine di paragone, tanto che alcuni studiosi parlano di un processo di «ri-memorizzazione collettiva e culturale dell’influenza Spagnola» (M. Panico, Una pandemia “dimenticata”. Strategie di testualizzazione dell’influenza Spagnola durante l’emergenza di Covid-19, «Rivista dell’Associazione italiana di studi semiotici», 2021, n. 32, pp. 85-93). Francesco Cutolo* 159 Giancarlo Cerasoli Mais e Miseria. Storia della pellagra in Romagna «Il Ponte Vecchio», Cesena 2020, pp. 315 All’incirca mezzo secolo fa, la storiografia ha dedicato un’importante stagione di ricerca storico-sociale all’endemia pellagrosa, che colpì le plebi rurali dell’Italia centro-settentrionale fra la seconda metà del ’700 e i primi decenni del ’900. La pellagra è una gravissima patologia sociale da ipoalimentazione: i suoi malati manifestano sintomi cronici vieppiù invasivi, la dermatosi, la diarrea e la demenza, e spesso ne muoiono. Gli studi di Alberto De Bernardi, Roberto Finzi e altri si sono interrogati sulla diffusione di questa malattia nuova nella penisola – la sua prima descrizione italiana è del 1771 – riconducendola alle trasformazioni socio-economiche innescate dallo sviluppo del capitalismo nelle campagne. L’estensione colturale del granoturco impose una dieta improntata al «monofagismo maidico» ai contadini in via di proletarizzazione. I derivati di questo cereale, loro quasi unico nutrimento, ne placavano a buon mercato la «fame cronica», ma mancavano dei principi nutritivi necessari al loro sostentamento fisico. Sino agli anni ’80 del XIX secolo lo Stato unitario, come già i poteri d’antico regime, sminuì l’emergenza socio-sanitaria, limitandosi ad assicurare la custodia manicomiale dei pellagrosi socialmente pericolosi. I successivi interventi pubblici, accomodanti con i ceti possidenti e basati su teorie scientifiche errate, promossero la razionalizzazione igienica dell’alimentazione maidica, ma non potevano debellare l’endemia. Il «mal della miseria» si sarebbe estin- * Dipartimento di civiltà e forme del sapere, via Trieste 40, 56126 Pisa; francesco.cutolo. [email protected] Copyright © FrancoAngeli This work is released under Creative Commons Attribution - Non-Commercial - NoDerivatives License. For terms and conditions of usage please see: http://creativecommons.org 160 schede to prima della scoperta delle sue cause fisiologiche, con il miglioramento delle condizioni di vita delle plebi rurali. Il libro di Giancarlo Cerasoli richiama l’attenzione della contemporaneistica su un tema trascurato dalla fine del ’900. La ricerca illustra in una prospettiva di storia sociale della medicina la parabola della pellagra in Romagna dalla sua comparsa alla conclusione dell’endemia, sondandone inoltre, tramite gli echi letterari e folklorici, l’impatto sull’immaginario collettivo. Il caso romagnolo – nonostante la contiguità al «triangolo della pellagra», le aree lombarde, venete ed emiliane che ne furono l’epicentro e i territori più colpiti – risultava poco noto e mai sistematicamente indagato. Lo studio si avvale di una mole cospicua di fonti, ma è guidato da un articolato novero di scritture mediche. La scelta riflette le specificità del ruolo sociale del medico nelle aree rurali della penisola fra ’800 e ’900. I medici erano organici ai gruppi dirigenti di una comunità locale ma, parzialmente autonomi dagli interessi materiali e “politici” della proprietà fondiaria, del clero e di altri attori socio-istituzionali, furono, secondo l’A., gli osservatori più realistici di un mondo contadino comunque percepito come un’alterità (254). Pur lasciando sullo sfondo i rapporti fra potere statale e amministrazioni locali, la ricerca incrementa la conoscenza storica dell’endemia, dei suoi malati e delle risposte dei medici nell’ambito romagnolo. Il volume rende, nei limiti consentiti dalle fonti, un quadro cronologico e topografico della pellagra in Romagna. La patologia vi si manifestò più tardi che in Lombardia e Veneto, probabilmente dall’ultimo decennio del ’700, ma conobbe una rapida progressione quantitativa e una capillare estensione territoriale. La sua diffusione giunse all’apice poco dopo l’unificazione, negli anni ’70 e ’80 dell’800, iniziando a declinare a fine secolo e risultando esaurita intorno al 1930. Le aree più colpite furono l’Appennino tosco-romagnolo, l’alta collina e la pianura specie riminese, contraddistinte – a seguito di scelte imprenditoriali che soppiantarono vegetali alternativi – da un sistema economico imperniato sulla monocoltura maidica. Lo sviluppo della risicoltura nel Ravennate, consentendo una dieta più varia alle sue popolazioni, le preservò in parte dalla pellagra. Sino all’età unitaria l’impatto socio-demografico della patologia, data la frammentarietà delle inchieste dei poteri restaurati, non risulta quantificabile. I medici romagnoli, nondimeno, ne lamentavano da tempo la sottostima, temendo che avesse già conseguito tratti endemici. Nel decennio 1878-1889 le inchieste nazionali sul mondo rurale, ministeriali e non, confermarono indirettamente le loro convinzioni, chiarendo ai vertici del nuovo Stato la realtà e i contesti dell’emergenza socio-sanitaria. La ricerca ricostruisce poi il profilo sociale e il vissuto personale dei pellagrosi romagnoli. La patologia bersagliava le articolazioni più fragili delle comunità rurali, minando la salute fisica e l’integrazione socio-economica dei loro membri. I malati erano contadini poveri e, più limitatamente, piccoli artigiani e marginali. Le donne fra i 20 e i 50 anni, subalterne nelle gerarchie socio-familiari del mondo rurale, si ammalavano più dei maschi di pari età, mentre l’incidenza di genere si invertiva fra i più anziani. Il timore della stigmatizzazione sociale alimentava la diffidenza dei pellagrosi verso una medicina ufficiale incapace di una credibile promessa di guarigione. I malati fruivano comunque di labili forme di assistenza pubblica e privata: alla cura domestica ed eccezionalmente ospedaliera, se i poteri locali li giudicavano folli socialmente pericolosi, su- Copyright © FrancoAngeli This work is released under Creative Commons Attribution - Non-Commercial - NoDerivatives License. For terms and conditions of usage please see: http://creativecommons.org epidemie, sanità e politica nel mondo contemporaneo bentrava l’internamento nei manicomi di Imola, Pesaro, Ancona e Firenze, dove erano di frequente, benché non necessariamente, attesi da un rapido decesso. Il nuovo approccio interventista dello Stato italiano a fine ’800 fu all’origine di un allargamento delle misure assistenziali, la cui attuazione fu affidata ad attori socio-istituzionali locali. I comuni romagnoli più colpiti dall’endemia finanziavano locande sanitarie deputate a fornire pasti gratuiti ai pellagrosi mentre altrove, su iniziativa privata, sorsero cucine economiche dagli scopi affini. La società romagnola non sembra invece aver promosso specifiche società di patronato né sanatori specializzati. La ricerca si focalizza infine sulle risposte dei medici romagnoli alla pellagra, indagandone il soggiacente impasto fra cultura scientifica e attitudini politico-sociali. La comparsa del male colse impreparati molti di loro, partecipi del deficit generalizzato di conoscenze sulla nuova patologia. L’incremento del sapere pellagrologico si rifletté positivamente sulla diagnostica, lasciando aperto il problema cruciale dell’eziopatogenesi. Il dibattito che oppose il tossicozeismo di Lombroso al carenzialismo di Filippo Lussana e Clodomiro Bonfigli spaccò la comunità medica italiana in età postunitaria. La medicina romagnola fece eco alle due teorie prediligendo tuttavia, negli anni ’80, quella lombrosiana. Che la pellagra fosse vista come un’intossicazione da ingestione continua di mais guasto anziché uno scompenso da insufficienza alimentare, si è osservato, scaturiva da un errore scientifico foriero della potenziale deresponsabilizzazione dello Stato verso la miseria delle plebi rurali. Il supporto alle tesi lombrosiane, tuttavia, non esprimeva necessariamente 161 una visione paternalista e conservatrice della società. I medici romagnoli le sostennero forse per la loro apparente solidità scientifica, prospettando non solo il divieto di smercio del mais guasto ma anche una terapia igienico-sociale politicamente radicale. Il miglioramento delle condizioni socio-economiche delle plebi rurali, per molti di essi, era la premessa della loro «rigenerazione igienica». L’incontro con la pellagra produsse dunque esiti articolati e anche contraddittori nella cultura medica romagnola, favorendo inoltre il rilancio fra i suoi esponenti della medicina politica a fine secolo. Il libro di Cerasoli invita a estendere gli studi di storia della pellagrologia ad altre aree geografiche, valutando l’impatto politico delle sue teorie su basi concrete, tramite l’esame della loro applicazione a singole realtà sociali, piuttosto che sul piano di principio della storia delle idee scientifiche. Emanuele D’Antonio* Eugenia Tognotti Vaccinare i bambini tra obbligo e persuasione: tre secoli di controversie. Il caso dell’Italia FrancoAngeli, Milano 2020, pp. 248 Eugenia Tognotti, docente di Storia della medicina e della sanità all’Università di Sassari, è autrice di importanti studi sulla gestione delle emergenze sanitarie da parte degli ordinamenti politico-istituzionali e sull’impatto sociale di epidemie quali colera, tisi e Spagnola nel territorio italiano. In questo volume affronta il tema dell’«esitazione vaccinale» (termine che indica riluttanza, ritardo nell’adesione o rifiuto) ponendo a confronto diffe- * Centro internazionale di studi Primo Levi, via del Carmine 13, 10122 Torino; emanuele. [email protected] Copyright © FrancoAngeli This work is released under Creative Commons Attribution - Non-Commercial - NoDerivatives License. For terms and conditions of usage please see: http://creativecommons.org 162 schede renti aree geografiche e sistemi politici in un arco temporale che va dal XVIII al XX secolo. Il lavoro – fruibile da un ampio pubblico – include nel suo impianto scientifico le dimensioni sociologiche, politologiche e demografiche con un approccio poliedrico, attingendo a molteplici fonti: articoli scientifici e di quotidiani, statistiche sanitarie, atti parlamentari, testi letterari, corrispondenze private, fonti visive e digitali. Ricostruire tre secoli di dibattiti che accompagnarono la sperimentazione e le campagne vaccinali è un’operazione di duplice utilità. Per un verso, consente di verificare la continuità di timori e scetticismo circa efficacia e sicurezza dei vaccini, di cogliere i caratteri peculiari dei movimenti nazionali di opposizione («Il discredito della cultura scientifica è uno degli elementi distintivi dell’antivaccinismo italiano»), di evidenziare le tensioni che attraversarono il mondo della ricerca o il difficile rapporto tra scienza e autorità giudiziarie: «diversi tribunali hanno condannato il ministero della Salute a risarcire delle famiglie, accettando la tesi (rivelatasi infondata) che collegava l’autismo all’immunizzazione». Per altro verso, la storia dell’esitazione vaccinale evidenzia gli errori compiuti dai sostenitori dei vaccini: l’atteggiamento paternalistico dei medici, la reticenza a rendere noti effetti collaterali negativi alimentando sospetti e sfiducia, la mancata comprensione delle apprensioni genitoriali bollate come pregiudizi antiscientifici. La storia della profilassi vaccinale ci ricorda che la nozione di salute pubblica nacque proprio in risposta alle epidemie, con l’introduzione in Inghilterra, nel 1853, di un servizio ospedaliero gratuito e obbligatorio di inoculazione del vaccino del vaiolo. In secondo luogo, pone in evidenza come le campagne di vaccinazione di massa siano una prova cruciale non solo della fiducia nella scienza, nella politica e nelle istituzioni sanitarie, ma anche della tenuta della coesione sociale; già i primi movimenti no vax sostennero l’esistenza di complotti orditi dalle autorità politiche, dalle strutture sanitarie e dagli scienziati per aumentare i propri guadagni tramite il moltiplicarsi delle indagini diagnostiche e della vendita di farmaci e vaccini, così come sin dagli inizi il rifiuto dei vaccini poteva essere accompagnato dalla mancata volontà di comprendere il vantaggio “sociale” dell’immunizzazione di massa. Il terzo insegnamento che si trae dalla lettura del volume è che la profilassi delle malattie infettive per essere efficace deve soddisfare tre condizioni: la sicurezza della scienza; l’autorità e la precisione della legge; il consenso delle masse («quelle tre condizioni cominciarono a venir meno nel primo decennio del Novecento e ancora oggi non sono soddisfatte». Soprattutto, il terzo fattore è quello più problematico. Le persone non considerano il rischio medico facendo riferimento alle acquisizioni scientifiche, perché a influire maggiormente è il dato psicologico della percezione soggettiva del pericolo: l’inoculazione protegge dall’eventualità di contrarre una malattia ad alto rischio fatale, ma comporta un rischio immediato di reazioni avverse, che «non importa quanto piccolo, fa sempre maggior impressione di uno grandissimo, ma distante e incerto». Inoltre, non va sottovalutata l’importanza dei fattori culturali: le prime contrarietà a pratiche sanitarie di immunizzazione sorsero nei riguardi della variolizzazione, essendo un metodo diffuso in Asia e Medio Oriente presso popolazioni considerate incivili e praticato su schiavi e bambine affinché le deturpazioni della malattia non ne diminuissero il valore. Uno degli interrogativi più frequenti nel dibattito attuale sulla pandemia – se nelle campagne di inoculazione vaccinale debba considerarsi più efficace la persuasione o la coercizione – trova ri- Copyright © FrancoAngeli This work is released under Creative Commons Attribution - Non-Commercial - NoDerivatives License. For terms and conditions of usage please see: http://creativecommons.org epidemie, sanità e politica nel mondo contemporaneo sposta proprio nella ricognizione storica comparata del saggio. La vicenda della persistenza del metodo della variolizzazione, nonostante l’introduzione della vaccinazione jenneriana, attesta che la libertà di scelta è premiante a fronte dei provvedimenti coattivi. L’imposizione di misure coercitive, decretate in Gran Bretagna, ebbero l’effetto di accrescere le contrarietà verso questa pratica, soprattutto nei ceti non abbienti. D’altra parte, la perdurante resistenza di tanti genitori e i modesti incrementi del numero dei vaccinati resero palese la scarsa efficacia di una terza strategia che combinava premialità e sanzioni. Nell’Europa continentale si tentò la via della persuasione mediante misure di controllo coercitive (l’obbligo di presentazione di certificati di vaccinazione per poter accedere a scuole, ospizi, fabbriche), ma un terzo della popolazione aggirò l’obbligo indiretto. In Italia nel 1888 venne introdotta l’obbligatorietà su scala nazionale con la legge Crispi-Pagliani, ma si radicò la Lega contro la vaccinazione obbligatoria, che rivendicava libertà di scelta e diritto all’integrità corporale. Per il vaccino antidifterico il regime fascista optò inizialmente per una quinta strategia, ovvero l’opera di convincimento mediante cicli di conferenze e pubblicazioni sull’argomento, ma la convinzione che solo la costrizione avrebbe avuto la meglio portò al decreto legge del 1939. Dalla lettura del volume si evincono, infine, alcune illuminanti analogie tra il movimento di opposizione alla vaccinazione jenneriana (introdotta nel 1798) e l’attuale movimento di resistenza alla vaccinazione obbligatoria: la denuncia di una campagna di inoculazione pubblica prematura, non essendo stato completato uno studio accurato degli effetti col- 163 laterali; la considerazione dei fallimenti dei vaccini (spesso dovuti a imperizia dei vaccinatori, strumenti inadeguati o liquido vaccinale compromesso da cattiva conservazione) come prova della loro inefficacia; la paura che il vaccino trasmetta altre malattie o favorisca l’insorgenza di una forma più aggressiva; la convinzione che il vaccino indebolisca il sistema immunitario; il venir meno della fiducia che la vaccinazione conferisca una protezione permanente, in considerazione della comparsa della malattia in soggetti già vaccinati; la resistenza di una parte, pur minoritaria, dei medici, che conferisce autorevolezza scientifica alle obiezioni; l’opposizione all’obbligo di vaccinazione come atto di resistenza politica a un’autorità percepita come estranea (si tratti dell’occupazione napoleonica o dell’Unione europea); la rivendicazione del diritto all’autodeterminazione e all’integrità corporale; la stampa quotidiana come tribuna che amplifica dubbi per i possibili danni, attacchi alle autorità amministrative e incitazioni alla disobbedienza civile; la diffusione di dati falsi e statistiche inesatte per dimostrare l’inutilità della profilassi; il diffondersi di tesi complottiste (come nell’ultima ondata di vaiolo nel 1917, quando gruppi consistenti di madri erano persuase che il trattamento immunizzante fosse un veleno usato dal governo per eliminare molti bambini e ridurre così i sussidi alle famiglie degli uomini chiamati al fronte); l’abilità comunicativa dei gruppi antivaccinazione (che oggi hanno a disposizione non manifesti e volantini, a circolazione ristretta, ma strumenti ben più potenti quali social network e mass media); la diffidenza verso le autorità e un elevato grado di refrattarietà ai dati forniti dalla scienza. Marzia Ponso* * Dipartimento di culture, politica e società, lungo Dora Siena 100, 10153 Torino; marzia. [email protected] Copyright © FrancoAngeli This work is released under Creative Commons Attribution - Non-Commercial - NoDerivatives License. For terms and conditions of usage please see: http://creativecommons.org 164 schede Françoise SalvadoriLaurent-Henri Vignaud Antivax. La résistance aux vaccins du XVIIIe siècle à nos jours Vendémiaire, Paris 2019, pp. 360 Il libro di Salvadori e Vignaud conferma che in sede scientifica già prima dell’attuale pandemia si studiavano le epidemie e gli strumenti umani per fronteggiarle, ovvero i vaccini e le conseguenze sociali dei provvedimenti di contenimento. Con l’emergere del Covid-19 e l’imposizione su larga scala di confinamento (lockdown), mascherine e vaccinazioni, a partire dalla primavera 2020 abbiamo assistito a un’esplosione di pubblicazioni su questi temi. Al contempo, con una geografia variegata, negli ultimi due anni sono emerse sulla scena pubblica internazionale proteste “antivax” di un certo rilievo, generalmente presentate come fenomeni inediti, tipici del tempo presente, anche all’interno delle autorappresentazioni prodotte dagli stessi protagonisti. In realtà le organizzazioni e i movimenti antivaccinisti hanno una lunga storia alle spalle che, in linea di massima, coincide temporalmente con quella dei vaccini e della costruzione dello Stato tra età moderna e contemporanea. La storia delle esitazioni vaccinali, dunque, si intreccia con quella di veri e propri movimenti capaci di organizzarsi e di incidere sul piano politico, sociale, culturale, economico, come aveva mostrato Nadja Durbach studiando il caso inglese (Bodily Matters. The Antivaccination Movement in England, 1853-1907, Duke UP, Durham 2005). La questione risulta evidente osservando le dinamiche delle proteste del 1885 a Leicester (con 100.000 persone in piazza contro l’obbligo vaccinale) e i tumulti di Montreal dello stesso anno, o la revuelta de la vacuna del 1904 a Rio de Janeiro. La voce dei vaccinofobi emerse a fine ’700 e sarebbe rimasta presente nel dibattito democratico (e meno democratico) fino ai giorni nostri. Si tratta di una realtà complessa e da capire. Non va considerata solo come espressione di “complottismo” irrazionale, un ostacolo alla ragione, allo sviluppo di progresso, scienza, salute pubblica. Può sembrare strano, ma il libro dimostra che la critica antivaccinista in qualche modo ha condizionato la storia della medicina, delle politiche di intervento pubblico, del welfare state. In alcune situazioni, gli antivax hanno attirato l’attenzione su scandali sanitari o su manipolazioni di dati prodotti da istituzioni nazionali; hanno confutato menzogne, ma lo hanno fatto usando altre menzogne e diffondendo false notizie. Sta di fatto che questi movimenti e queste organizzazioni hanno comunque svolto un ruolo nella costruzione di legislazioni sanitarie più attente alle libertà civili e ai diritti di sudditi non sempre considerati come cittadini: in particolare donne, bambini, popoli colonizzati. Insomma, il consenso verso l’attività medica, l’uso di sperimentazioni su umani, il rapporto di fiducia tra pazienti e medici si sono modificati in un contesto politico e sociale al cui interno anche gli antivaccinisti hanno svolto un certo ruolo, che va capito senza relegarlo nella gabbia dell’irrazionalità e dell’oblio. Come ogni azione medica, un vaccino può produrre effetti secondari indesiderabili, talvolta gravi; questo è un rischio che medici e pazienti possono assumere quando correttamente informati. Di fatto, però, nella storia della vaccinazione non è sempre stato così. È capitato che contaminazioni accidentali, errori, alcune scelte scellerate fossero nascoste e che certi rischi o effetti collaterali venissero minimizzati. Nel ’900, la mancanza di trasparenza è cresciuta in parallelo con l’emergere di Copyright © FrancoAngeli This work is released under Creative Commons Attribution - Non-Commercial - NoDerivatives License. For terms and conditions of usage please see: http://creativecommons.org epidemie, sanità e politica nel mondo contemporaneo importanti interessi privati e finanziari in ambito farmaceutico e medico. In tutta evidenza, però, l’azione antivax ha rallentato politiche statali di tipo universalista, ostacolando pesantemente la vaccinazione di massa contro malattie gravi, imponendo la proroga o l’annullamento di campagne per la vaccinazione come pure il finanziamento di iniziative volte alla salute pubblica. Per aggirare il problema, in certi casi le autorità statali hanno esitato a usare strumenti volti all’informazione e alla costruzione di un consenso consapevole, ripiegando su più tradizionali e facili strumenti di tipo coercitivo; talvolta hanno mentito. Eppure l’uso dei vaccini ha salvato un numero enorme di vite, ha contribuito in modo fondamentale a innalzare la speranza di vita per una parte importante dell’umanità. Sta di fatto che da sempre i vaccini sono stati oggetto di attacchi di tutti i tipi (avvelenamento del corpo, degenerazione della specie, sterilità indotta), con argomentazioni sempre legate al contesto culturale e politico in cui emergevano e sempre capaci di aggiornarsi: dalla «minotaurizzazione» (p. 46) che si diceva fosse causata dal vaccino contro il vaiolo – di origine vaccina, appunto – avvicinando gli umani ai bovini, fino ai “microchip nel corpo” che negli anni Duemila sarebbero strumenti funzionali per giungere a un controllo dell’umanità. Nel quinto capitolo si mostra come i vaccini debbano la loro cattiva reputazione anche allo straordinario successo medico ottenuto. Quando la morbilità di una malattia decresce, gli incidenti post vaccinali più o meno pericolosi acquistano notevole visibilità e destabilizzano l’opinione pubblica. In alcuni casi, dopo decenni di uso, un vaccino particolarmente efficace e diffuso tende a fare più vittime della stessa malattia che sta debellando. Le ultime campagne antivaio- 165 lose del ’900 lo dimostrano, come pure quelle contro la poliomielite che sono state punteggiate da errori dalle conseguenze gravi: proprio quando eravamo sul punto di debellare la polio, il numero di casi “selvaggi” passò in secondo piano rispetto ai casi postvaccinali. Ovviamente, tutto ciò non mette in discussione i risultati raggiunti in decenni di lavoro, perché senza i vaccini poliomielite e vaiolo continuerebbero a uccidere su larga scala. La storia antivax, dunque, inizia nel XVIII secolo con le prime vaccinazioni contro il vaiolo, che per tutta una fase si affiancarono alla più antica variolizzazione. Nel primo ’800 le opposizioni si concentravano soprattutto sul tema del rischio individuale, in rapporto a quello collettivo, e sulle conseguenze politiche della costrizione medica. Le questioni non erano separate, perché l’obbligo vaccinale universale imponeva (e impone) una maggiore presa di rischio individuale per chi “va avanti” prima degli altri. Contro questo rischio si denunciava la tossicità (vera o presunta) dei vaccini e la inevitabilità – o addirittura la necessità – di contrarre certe malattie: meglio una malattia “naturale” conosciuta, si diceva, piuttosto che una malattia “artificiale” ignota perché causata dalla scienza. Non pochi medici si schierarono su questo fronte; in numerosi casi erano quelli che praticavano la vecchia inoculazione, ovvero la variolizzazione di origine orientale portata in Europa in età moderna. In ambito coloniale le vaccinazioni spesso erano viste come l’ennesimo intervento autoritario dei dominatori che miravano a indebolire gli uomini e a rendere sterili le donne. La malattia era una fatalità moralmente accettabile, il vaccino una aggressione della modernità portata dai potenti. Da metà ’800 il movimento antivax si strutturò in leghe, in associazioni na- Copyright © FrancoAngeli This work is released under Creative Commons Attribution - Non-Commercial - NoDerivatives License. For terms and conditions of usage please see: http://creativecommons.org 166 schede zionali e financo internazionali. Non ci si limitava più a fare opuscoli o a rifiutare la vaccinazione, ma si organizzarono cortei, petizioni, pubblicazioni di volantini, periodici e opuscoli corredati da foto volte a mostrare le conseguenze di “incidenti” post vaccinali. Col varo di leggi sempre più stringenti in fatto di vaccinazione, la lotta antivax si spostò sul piano dei diritti civili, contro la “tirannia” dei medici e dello Stato che, si diceva, prende possesso dei corpi. Risale al 1901 «l’esperimento del Dottor Rodermund», un medico vaccinofobo che nel Wisconsin visitò una malata di vaiolo, evitò di dichiararlo, si spalmò il pus della malata su faccia e vestiti per dimostrare la non contagiosità del vaiolo, giocò a carte con amici, prese un treno per Chicago, manipolò decine di pazienti e solo a fine giornata si lavò le mani. Arrestato, si vantò per essere riuscito a entrare in contatto con 50.000 persone (pp. 10708). E fu nell’estate 1933 che il dottor Hans Thomsen, alto funzionario della Cancelleria del Reich, scrisse «la scuola medica tedesca non crede nella pratica di diffondere germi e sieri nell’organismo del Popolo. I nostri dottori fanno affidamento sulla forza naturale del corpo umano, che di norma reagisce contro gli attacchi delle malattie, e ritengono che la forza di questa reazione sia una prova di vitalità migliore di quella ottenuta tramite il contenuto di una qualsiasi ampolla» (p. 133). Se a fronte dei successi delle campagne vaccinali dopo il 1945 i vaccinofobi persero popolarità, dopo il ’68 vari movimenti e argomentazioni tesero a convergere: quelli di tipo reazionario, ma anche quelli contro la medicina “ufficiale”, contro la vivisezione, contro il potere patriarcale dei medici maschi, contro lo Stato autoritario. Con uno sguardo di insieme, si possono individuare opposizioni di tipo religioso e spirituale, naturisti- co ed ecologico, politico ed etico; solo in tempi più recenti hanno guadagnato visibilità argomenti legati all’economia della salute (con la denuncia di “Big pharma” o con film come Vaxxed: from Cover-Up to Catastrophe, 2016) che negli anni della globalizzazione reale, della maggior privatizzazione della sanità, della sfiducia verso gli “esperti” e dei social media, con la diffusione del Covid-19 e le politiche di contenimento sembrano aver trovato una sorta di Eldorado. Roberto Bianchi Roberto Cea Il governo della salute nell’Italia liberale. Stato, igiene e politiche sanitarie FrancoAngeli, Milano 2019, pp. 287 La Società italiana d’igiene fu fondata a Milano nel 1878, quando l’igiene era ancora in fieri come disciplina scientifico-accademica autonoma, e non si era ancora avviato, in Italia, il processo di specializzazione e frammentazione professionale del campo medico, che a fine secolo diede vita a un proprio associazionismo professionale. La vicenda del movimento igienista non rientra in questo processo, né può semplicemente classificarsi – così rileva Cea – come «utopia» progressista, secondo il titolo del contributo di Claudio Pogliano all’Annale Einaudi dedicato nel 1984 a Malattia e medicina. L’A. non disconosce l’importanza fondativa del saggio di Pogliano, ma propone di verificarne gli assunti in una prospettiva diversa, collocando la vicenda del movimento igienista in quella dello State building liberale. Tema del libro è quindi il rapporto complesso che si costruì in quel contesto tra scienza medica e amministrazione, affrontato attraverso il profilo ampio e articolato dell’igienismo, al contempo Copyright © FrancoAngeli This work is released under Creative Commons Attribution - Non-Commercial - NoDerivatives License. For terms and conditions of usage please see: http://creativecommons.org epidemie, sanità e politica nel mondo contemporaneo campo di mobilitazione politica e sapere specialistico all’incrocio tra medicina e amministrazione. Il volume riesce a rendere conto in maniera convincente di questo rapporto, dedicandosi nella prima parte ai passaggi legislativi in materia d’igiene, a partire dalle premesse preunitarie, e ricostruendo nella seconda sezione la vicenda accademica, associativa e scientifica dell’igienismo, sulla scorta di dati e tabelle dettagliate sulla diffusione della Società italiana d’igiene, nata come composito aggregato di personalità diverse: non soltanto medici – come il suo presidente trentennale Alfonso Corradi, patologo ed esperto di chimica e farmacia – ma anche giornalisti e uomini di cultura, filantropi, medici attivi nel movimento cremazionista, imprenditori farmaceutici, politici. Un movimento dall’ampio spettro progettuale, mosso da intenti progressisti e politici, di tutela e disciplinamento sociale, che non riuscì ad acquisire un respiro nazionale ma rimase confinato al Centro Nord dividendosi, dopo il 1888, in correnti culturali e scientifiche riferite alle scuole (quella torinese di Luigi Pagliani, quella napoletana di Vincenzo De Giaxa, quella romana di Angelo Celli). Divisioni e limitazioni geografiche che furono molto condizionate dagli orientamenti della riforma crispina. L’affondo iniziale sulle tradizioni e sulla cultura amministrativa da cui si originò l’apparato concettuale dell’igienismo è funzionale a situare questa vicenda nella cornice culturale del primo ’800, in cui sulla preesistente tradizione di interventi pubblici (legati alle emergenze epidemiologiche) in campo sanitario, intervenne la nozione di «polizia medica», figlia dell’assolutismo illuminato e di una concezione paternalistica della pubblica sanità, considerata un ramo dell’amministrazione. Diffusa negli Stati preunitari dal medico di origine tede- 167 sche Johan Peter Frank, attivo nell’amministrazione asburgica della Lombardia, la polizia medica derivava da una cultura riformistica intenzionata a occupare gli spazi delle giurisdizioni cetuali anche nel campo sanitario e preventivo, conteso tra notabilato e corpi medici, e divenne una «categoria di riferimento» (p. 63) nell’amministrazione sanitaria degli Stati preunitari, dalla quale si sarebbe progressivamente enucleato lo strumentario concettuale del «governo della salute». In questa fase, la nozione di igiene comparve nei dibattiti della cultura medica progressista – dal torinese Lorenzo Martini al toscano Francesco Puccinotti – nei quali si enucleavano il senso politico e le letture economicistiche del «governo dei corpi», tra tutela della forza-lavoro e prevenzione delle epidemie. Il tornante del 1848 fu decisivo, perché il Piemonte costituzionale diede alla riforma sanitaria una torsione decisa, escludendo dall’amministrazione le professioni mediche e affidando alle autorità amministrative la gestione della sanità pubblica. A partire da qui la visione autoritaria della polizia medica venne fortemente criticata dalla cultura liberale e si aprirono le questioni nodali che lo Stato unitario avrebbe affrontato: il posizionamento dei medici all’interno dell’amministrazione centrale, il ruolo sociale della professione, la funzione della sanità pubblica, soprattutto in materia di tutela della forza lavoro. Il lavoro di Cea ha il merito di andare nel profondo di dibattiti di lunga durata, in buona parte dimenticati o ignorati dai provvedimenti legislativi, soprattutto quelli svolti nell’età della Destra sul “codice sanitario” mai emanato, e sulle funzioni di controllo dello stato centrale sull’esercizio delle professioni sanitarie. Nell’impianto centralizzato dell’amministrazione sanitaria, in capo al mi- Copyright © FrancoAngeli This work is released under Creative Commons Attribution - Non-Commercial - NoDerivatives License. For terms and conditions of usage please see: http://creativecommons.org 168 schede nistero dell’Interno, ai medici furono tuttavia attribuiti importanti compiti di supervisione sull’operato dei Comuni e di formazione e ricerca in campo biomedico, un campo in espansione fin da quando la riforma crispina del 1888 aveva imposto ai Comuni di dotarsi di laboratori di analisi. La riforma, che rappresentò il principale successo del movimento e avrebbe modellato le politiche sanitarie italiane per un secolo, fu uno spartiacque anche nella storia dell’igienismo, di cui la seconda parte del volume ricostruisce le vicende sulla scorta di un apparato di fonti molto dettagliato. La Società italiana d’igiene fu nel suo primo decennio di vita quanto mai vivace e visibile, tanto da attrarre personalità di spicco; a valle della riforma, il movimento si andò dividendo in correnti diverse, anche a seguito delle funzioni assegnate ai medici nella Direzione di sanità, facente capo al Ministero dell’Interno, sia in campo formativo sia di supervisione, come detto, sull’operato dei Comuni. Il lettore viene guidato, sulla scorta di dati dettagliati, attraverso le divisioni regionali tra scuole e i dibattiti che divisero l’igienismo, tra posizioni contrapposte nel campo epidemiologico, tra contagionisti ed anticontagionisti. Un corredo di tabelle ne illustra la presenza associativa, la frequenza e la collocazione dei congressi, la diffusione del principale organo divulgativo, allo scopo di ricostruire il complessivo disegno di cooptazione e di mobilitazione nazionale perseguito dal movimento igienista, sia attraverso la Società nazionale che attraverso i circoli locali. Ne emerge il profilo di una corrente culturale vivace e divisa al suo interno, i cui progetti di intervento scontavano la costante difficoltà di conciliare l’approccio progressi- sta con l’impianto autoritario di governo della salute pubblica. In questa cornice, spiccano gli impulsi verso la professionalizzazione scientifica, che si concretizzarono solo nei primi anni del ’900, e il protagonismo che la classe medica riuscì a svolgere negli enti provinciali. La meticolosa ricostruzione del percorso di questo campo del sapere, della sua conquista di una legittimazione sociale, ha quindi il merito di restituire la vicenda dell’igienismo a una storia istituzionale e culturale soltanto in parte legata a quella dello stato sociale primo-novecentesco, e radicata piuttosto in una tradizione risalente. Carolina Castellano* Gabriella Gribaudi La memoria, i traumi, la storia. La guerra e le catastrofi nel Novecento Viella, Roma 2020, pp. 310 Uscito nei primi mesi del 2020, il volume mette a confronto le memorie della seconda guerra mondiale con quelle di varie grandi catastrofi “naturali” del ’900, operando un’analisi intrecciata fra memorie pubbliche e individuali. In quegli stessi mesi, la diffusione del Covid-19 favoriva l’emergere nella discussione storiografica di una riflessione sui motivi dell’assenza nella memoria pubblica, nella manualistica e in buona parte della storiografia di una grande catastrofe globale come la pandemia di influenza Spagnola. Il tema si riverbera su questa opera che, con una raffinata analisi, permette a chi legge di osservare con uno sguardo largo le diverse dinamiche che hanno caratterizzato gli assai diversi processi di costruzione della memo- * Dipartimento di scienze sociali, vico Monte della Pietà 1, 80138 Napoli; carcaste@ unina.it Copyright © FrancoAngeli This work is released under Creative Commons Attribution - Non-Commercial - NoDerivatives License. For terms and conditions of usage please see: http://creativecommons.org epidemie, sanità e politica nel mondo contemporaneo ria – o di affermazione dell’oblio – per eventi traumatici del mondo contemporaneo tanto presenti nel dibattito pubblico e storiografico, come la seconda guerra mondiale, oppure dimenticati come, appunto, alcune catastrofi “naturali” del XX secolo. Il metro di misura del successo o dell’insuccesso memorialistico ed editoriale di un evento, dunque, non sempre è direttamente proporzionale al suo impatto demografico e alle sue effettive conseguenze sociali o economiche. L’opera si articola in quattro capitoli e si apre proprio con una solida riflessione generale sulle categorie di memoria, ovvero sui «percorsi della memoria e dell’oblio» (pp. 13-42), prima di immergere il lettore in un ampio secondo capitolo riservato allo studio delle memorie della guerra in Europa (pp. 43-165). Allo specifico e peculiare caso italiano è riservato il terzo capitolo (pp. 167-216), mentre alle catastrofi naturali viene dedicata l’ultima parte dell’opera (pp. 21767), seguita da una decina di pagine conclusive. L’A. pone come premessa il fatto che lo studio dei traumi sociali e politici e della loro memoria ha dato origine a dei «veri e propri filoni storiografici e culturali strettamente interrelati tra loro», in particolare i Trauma Studies e i Memory Studies fondati con le ricerche sulla guerra del 1939-45 e sulla Shoah. Come è stato osservato, il libro può essere considerato come un intervento per rivendicare maggiore spazio storiografico per questi temi, per la storia orale e la memoria individuale nel discorso storiografico (Stefan Laffin, «Storicamente», 2021, n. 28). Sta di fatto che, ricorda Gribaudi, la categoria di “memoria” si è progressivamente dilatata «oltre misura», ma le tipologie e gli usi della memoria debbono essere distinti nei loro diversi ambiti, distinguendo i processi di rammemoriazione o di elaborazione del lutto 169 tra le «memorie pubbliche e quelle individuali, le comunità del ricordo, i cortocircuiti, le contraddizioni, le dissonanze» (p. 7). Nell’ampia sezione riservata alla seconda guerra mondiale l’A. valorizza le sue precedenti ricerche sul conflitto e il dopoguerra, sulle deportazioni, i bombardamenti, su donne e partigiani in guerra rileggendo questi temi alla luce della dialettica tra memoria individuale e memoria collettiva, diversamente presenti nel dibattito pubblico e politico. Usando anche numerose opere dedicate al rapporto tra autobiografia e società, spiega il riemergere come protagonisti di profughi, reduci, sopravvissuti attraverso la narrazione delle proprie esperienze nel processo di rammemorazione che, appunto, ha fatto uscire dalla nebbia questi soggetti. La guerra è un evento incomparabile con una catastrofe naturale, per il carattere cosciente e voluto della violenza inflitta e per le conseguenze generali di un evento come quello chiuso nel 1945. Eppure anche le catastrofi naturali possono sconvolgere dalle fondamenta una società, una comunità, rendendo poi difficile l’elaborazione del lutto. «Le macerie ricordano un passato e un luogo mitico che mai più si potrà avere, qualsiasi sia il modello scelto per la ricostruzione. E poi c’è la ricostruzione. Le comunità distrutte dalle bombe o dai terremoti devono decidere se cancellare le rovine o provare a ripristinare il paesaggio perduto. E su questo si innestano decisioni difficili e divisive» (intervista di Barbara Bracco all’A., a cura di Gregorio Taccola, https://amicimr. hypotheses.org/5731, 24 settembre 2020). Anche per questo è necessario tornare sulla definizione di catastrofe naturale, letta come una conseguenza dell’interazione fra natura e intervento umano che può provocare «accelerazioni fatali che comportano mutamenti politici e socio- Copyright © FrancoAngeli This work is released under Creative Commons Attribution - Non-Commercial - NoDerivatives License. For terms and conditions of usage please see: http://creativecommons.org 170 schede economici epocali» (p. 218). Lo dimostrano gli effetti di alcuni terremoti e cicloni tropicali. La catastrofe provoca la rottura del tempo ordinario. Come per i bombardamenti «il ricordo è un flash, una istantanea quasi non elaborata» (p. 234). Eppure rimane sempre uno iato profondo tra il ricordo dei superstiti e quello pubblico. Il tema è stato nuovamente messo alla prova nel periodo del Covid-19, che ha coinciso temporalmente con presentazioni del libro, interviste a Gabriella Gribaudi e dibattiti online come quello su Pandemie e catastrofi dell’età contemporanea, organizzato da Istoreco (www. youtube.com/watch?v=qNAkcEdgL-Q, 18 giugno 2020). Anche per questo l’A. è stata sollecita a confrontare la situazione generata dall’attuale pandemia alla luce delle sue ricerche sul passato: «Non so dire se niente sarà più come prima, se come per la guerra e le catastrofi si parlerà di prima e dopo. La memoria delle catastrofi è labile. Si pensi alla pandemia del 1918-21 completamente dimenticata a livello sociale e culturale, ai terremoti o alle alluvioni che capitano sempre negli stessi luoghi come fosse la prima volta. In alcuni casi le catastrofi avvengono in momenti cruciali di cambiamento e lo possono accelerare. Ciò è avvenuto, ad esempio, nel caso del terremoto del 1980 in Irpinia: era in atto un processo di modernizzazione che la ricostruzione ha assecondato. La pandemia attuale si intreccia con mutamenti epocali – tecnologici, generazionali, geopolitici – e potrebbe fungere da acceleratore. Come si tramanderà il racconto del Covid-19 in tutto questo? Esiste una narrazione scientifica che ci viene riproposta ogni giorno da epidemiologi, virologi, medici che ha ovviamente un ruolo fondamentale. Ma, per capire e tramandare quest’esperienza, sarà necessario scavare nei vissuti individuali e, come si sta facendo per le guerre, integrare nelle narrazioni pubbliche le memorie private, fare riemergere l’impatto umano della catastrofe. La storia orale potrà avere a questo proposito un ruolo cruciale, tanto più esteso nell’era della digitalizzazione» (intervista di Barbara Bracco all’A.). Si tratta di una sollecitazione che, si spiega nel libro, intende porre al centro i soggetti sociali in un articolato rapporto tra “basso” e “alto”, tra vissuti individuali e macronarrazioni, che potrà dare risultati importanti nell’ambito della ricerca storica e della comprensione del mondo contemporaneo. Roberto Bianchi Copyright © FrancoAngeli This work is released under Creative Commons Attribution - Non-Commercial - NoDerivatives License. For terms and conditions of usage please see: http://creativecommons.org