Filippo Masina – Il delitto Matteotti
Filippo Masina
Il delitto Matteotti
per I decennali del Novecento, a cura dell’Istituto Storico
della Resistenza senese e dell’età contemporanea,
9 febbraio 2024
Giacomo Matteotti, deputato e segretario del Partito socialista unitario (Psu), fu rapito e
ucciso il 10 giugno 1924 da una banda di fascisti. Il suo omicidio aprì una crisi profonda per
Mussolini, che a un anno e mezzo dalla conquista del potere vide seriamente in bilico la propria
posizione: per mesi, il fascismo parve sul punto di crollare. Al contrario, il delitto Matteotti
avrebbe infine accelerato la costruzione della dittatura, destinata a sopravvivere per altri
vent’anni senza più scossoni paragonabili a quello dell’estate 1924.
Il contesto politico
Dopo la marcia su Roma, Mussolini dovette fare i conti con la forte conflittualità interna al
proprio partito, diviso tra “intransigenti” e “normalizzatori”, e la frammentazione del
Parlamento scaturito dalle elezioni del 1921. Il primo governo Mussolini fu in effetti un
esecutivo di unità nazionale, e non solo di fascisti. Questo da un lato rassicurava il Paese, stanco
di violenze e contrapposizioni, ma esasperava le camicie nere più intransigenti. Su questo
duplice binario – il consolidamento del potere da un lato, la gestione del partito e il supporto
degli squadristi dall’altro – si mosse il duce nel corso dei venti mesi intercorsi tra la presa del
potere e il delitto Matteotti. Alternativamente dittatore o moderatore, Mussolini interpretava
il ruolo di Giano bifronte, funzionale al consolidamento del proprio potere1.
L’intenzione del capo del fascismo fu comunque, inequivocabilmente, quella di accentrare
il più possibile il potere nelle proprie mani. Già il 15 dicembre 1922 si tenne la prima riunione
di quello che sarebbe stato definito il “Gran Consiglio” del fascismo: Mussolini radunò nel
proprio appartamento i dirigenti del partito per stilare i principali punti del programma di
governo, ovvero la creazione della Milizia (formalmente istituita nel gennaio 1923), la riforma
elettorale, la trasformazione dei sindacati in «corporazioni» fasciste2. Era un ulteriore strappo
costituzionale e il chiaro segnale che il duce non intendeva conformarsi ai poteri istituzionali.
Proseguiva altresì l’attacco alle opposizioni, che assumeva spesso la forma violenta (specie
contro le sinistre) anche dopo la presa del potere, e fu corroborato dal ricorso alla repressione
legale. Nel corso del 1923 Mussolini sostituì decine di prefetti e sottoprefetti (la longa manus
del governo nelle province) con funzionari di propria fiducia, benché solo in parte fascisti
dichiarati. Era necessario preparare il terreno per le elezioni, passaggio fondamentale per
consolidare in senso «irrevocabile» il potere fascista, e assicurarsi che le opposizioni fossero
ridotte ai minimi termini senza dover necessariamente ricorrere alla violenza squadristica.
Mussolini aveva infatti la necessità di porre un freno ai crimini dei propri uomini, che
minavano l’immagine di restauratore dell’ordine con cui il duce intendeva presentarsi. Ma i
fascisti erano riottosi all’obbedienza, specie in quelle province dove spadroneggiavano i potenti
ras locali cui il capo del fascismo doveva non poco del proprio successo (Farinacci in
Lombardia, Balbo in Romagna, Padovani in Campania…). Insomma il partito era diviso, preda
1
2
Renzo De Felice, Mussolini il fascista. I. La conquista del potere 1921-1925, Torino, Einaudi, 1966, pp. 460-475.
Emilio Gentile, Storia del fascismo, Roma-Bari, Laterza, 2022, pp. 279-281.
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di rivalità intestine e continue insubordinazioni, lacerato dall’assalto alle cariche istituzionali
al centro o in provincia (specie se lucrose)3.
L’altro fronte politico era quello istituzionale. Per risolvere i propri problemi alla Camera, il
duce fece licenziare una riforma elettorale in grado di consegnargli una solida maggioranza: la
legge 2444/1923 (passata alla storia col nome del deputato che la redasse, l’abruzzese Giacomo
Acerbo), che consegnava la maggioranza di due terzi dei seggi al partito che avesse raggiunto il
25% dei voti. Votarono a favore della riforma gran parte dei liberali e della destra (oltre
ovviamente ai fascisti), contro i socialisti, i comunisti, alcuni liberali e i popolari che facevano
riferimento a don Sturzo (i quali nel frattempo, nell’aprile 1923, erano stati espulsi dal governo
perché considerati dal duce ostili al fascismo).
Le nuove elezioni furono fissate per il 6 aprile 1924. La campagna elettorale fu caratterizzata
dall’ampio ricorso alla violenza da parte dei fascisti, apertamente spalleggiati dai prefetti e dalle
forze di polizia, cui vanamente tentarono di opporsi i socialisti. Da nord a sud della Penisola gli
squadristi compirono numerosi atti di violenza, tra cui l’omicidio di almeno un candidato
comunista a Reggio Emilia (28 febbraio), impedendo sistematicamente ai candidati
dell’opposizione di tenere comizi e terrorizzando la popolazione (ma azioni squadristiche
colpirono anche i fascisti dissidenti che avevano formato gruppuscoli alternativi al Pnf).
Episodi violenti si verificarono anche nel giorno delle elezioni. Ampi e comprovati i brogli
elettorali: insomma, le consultazioni del 1924 – le ultime fino al 1946 – «risultarono ridotte a
una farsa»4.
Scontato, in questo contesto, l’ampio successo del partito fascista, che raccolse oltre 4,3
milioni di voti e una comoda maggioranza parlamentare (60,1%, pari a 356 seggi). Tra i partiti
antifascisti il Ppi raccolse il 9%, mentre alle compagini di sinistra andarono le briciole: Psi 5%,
Pcd’I 3,7%, Psu (il partito di Matteotti) 5,9%5.
La figura di Giacomo Matteotti
Giacomo Matteotti nacque a Fratta Polesine il 22 maggio 1885, da Girolamo ed Elisabetta.
Di estrazione piccolo borghese, grazie al lavoro e al tenace risparmio la famiglia fu in grado di
raggiungere una «media agiatezza». Il padre, che lo ebbe quasi cinquantenne, morì nel 1902; la
madre sarebbe invece sopravvissuta alla morte di tutti i tre figli che raggiunsero l’età adulta
(altri quattro, tra fratelli e sorelle, erano morti piccolissimi): i fratelli Matteo (1876-1909) e Silvio
(1887-1910) morirono infatti di tubercolosi ancora in giovane età. Fu Matteo a spingere Giacomo
verso gli studi universitari (compiuti a Bologna, dove si laureò in giurisprudenza nel 1907, con
missioni di studio – anche successive – in Germania e Inghilterra) e l’idealità socialista6. Anche
per questo Giacomo serbò di lui un affettuoso ricordo7. Nel 1912 conobbe la poetessa Velia Titta,
sua compagna di vita. Dal loro matrimonio nacquero tre figli.
Già nelle temperie della prima guerra mondiale, Matteotti fu un esempio di coerenza tutto
sommato rara, anche tra i socialisti: il suo neutralismo militante ne fece una sorta di «splendido
isolato» anche tra le file del suo stesso partito, presto dilaniato dai diversi orientamenti
sull’intervento (e infine vieppiù adeguatosi alla retorica patriottico-nazionalista). Il suo
indefettibile pacifismo gli causò aggressioni, l’arresto e infine una sorta di “esilio” siciliano
Ivi, pp. 335-361; De Felice, Mussolini il fascista. I, pp. 401-460 e 475-517.
John Foot, Gli anni neri. Ascesa e caduta del fascismo, Roma-Bari, Laterza, 2022, p. 167.
5
Gentile, Storia del fascismo, pp. 450-453.
6
Sulla giovinezza e gli studi si veda in particolare Stefano Caretti, Il delitto Matteotti. Storia e memoria,
Manduria, Lacaita, 2004.
7
Maurizio Degl’Innocenti, Giacomo Matteotti e il socialismo riformista, Milano, FrancoAngeli, 2022, pp. 1517.
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(mascherato da servizio militare), perdurato dal settembre 1916 al marzo 1919. Risalgono a
quegli anni i primi contrasti con Mussolini, nel 1914 direttore dell’«Avanti», come noto
repentinamente convertitosi all’intervento8.
Negli anni antecedenti alla guerra Matteotti si era distinto per il suo impegno politico come
consigliere comunale e sindaco in varie amministrazioni del Polesine nonché dirigente nelle
leghe contadine e nelle cooperative. Il giovane dirigente socialista si interessava in particolare
di questioni economiche e amministrative denotando una certa indipendenza di pensiero,
tanto da renderlo «diverso da molti, troppi suoi compagni di partito. [Era] un riformista sui
generis»9. Ma non fu tuttavia un massimalista: da cui le accuse di aver «tradito» l’idea che gli
provennero dalle frange più estreme del sindacalismo rivoluzionario e del massimalismo, che
neppure vedevano di buon occhio i discreti mezzi economici – eredità di famiglia – di cui
Matteotti disponeva. Le stesse polemiche lo investirono d’altronde anche dall’altra parte
politica, cioè da conservatori, clericali e fascisti10.
Eletto deputato nel 1919, riconfermato alla Camera due anni più tardi (e ovviamente nel
1924), dall’ottobre ’22 divenne segretario del neonato Partito socialista unitario dopo
l’espulsione della corrente riformista dal Psi. Matteotti rimase sempre uno dei più strenui
oppositori del fascismo, di cui denunciò più volte i crimini e le malefatte. Già nel 1921 aveva
pubblicato l’Inchiesta giornalistica sulle gesta dei fascisti in Italia, volumetto di denuncia sulle
violenze fasciste in particolare a ridosso delle elezioni del 1921. Nel 1924 pubblicò una nuova
denuncia dei crimini del regime in Un anno di dominazione fascista. Matteotti era insomma
uno dei più noti e irriducibili avversari del regime (per di più conosciuto anche all’estero), che
difatti – anche attraverso plurimi riferimenti fatti da Mussolini sul «Popolo d’Italia» – più volte
lo prese di mira con intimidazioni, aggressioni fisiche e minacce di morte11.
Il delitto
Alla riapertura della Camera dopo le elezioni, il 30 maggio 1924, Matteotti tenne un celebre
discorso che viene unanimemente considerato come il movente politico della sua eliminazione.
Matteotti, denunciando le violenze fasciste e le diffuse illegalità elettorali, chiedeva che si
annullassero in blocco i risultati. Fu il suo un discorso breve, ma che necessitò di un’ora e mezzo
per essere pronunciato a causa delle frequenti interruzioni e minacce da parte dei parlamentari
fascisti. Sedendosi, si narra che Matteotti abbia pronunciato a due compagni: «Io, il mio
discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me»12.
Mussolini, sempre molto sensibile alla propria immagine pubblica, era furibondo. In una
tempestosa riunione diede mandato ai suoi uomini di intervenire. Poche settimane prima il
duce aveva voluto la creazione di un’organizzazione clandestina, detta Ceka (dal nome della
temuta polizia politica sovietica), che aveva l’obiettivo di sorvegliare e aggredire gli avversari
politici. Fu in seno a questa struttura segreta che maturò il delitto Matteotti13.
Il 10 giugno il deputato socialista fu rapito da cinque squadristi della Ceka: Amerigo Dumini,
30 anni, nato a St. Louis negli Usa, reduce di guerra, fascista della prima ora e pluriomicida, fu
l’autentico organizzatore. Tra i fondatori del fascio fiorentino, Dumini fu poi attivo in
Stefano Caretti, Giacomo Matteotti combattente contro la guerra, in «Belfagor», a. XXXIII, n. 4 (1978), pp.
381-402.
9
Alessandro Roveri, La formazione di Matteotti e le lotte agrarie padane, in «Studi Storici», a. XIX, n. 1 (1978),
pp. 109-129, qui p. 117.
10
Degl’Innocenti, Giacomo Matteotti, pp. 34-35.
11
Caretti, Il delitto Matteotti, pp. 36-42.
12
Foot, Gli anni neri, p. 168.
13
Sulla Ceka vedi in particolare Mauro Canali, Il delitto Matteotti. Affarismo e politica nel primo governo
Mussolini, Bologna, il Mulino, 1997, pp. 353-391.
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Lombardia14: e fu qui infatti che reclutò il resto del commando. Gli altri uomini furono Albino
Volpi, 35 anni, nato a Lodi, falegname pluripregiudicato per reati comuni, braccio destro di
Dumini (che tuttavia lo disprezzava), deceduto da uomo libero nel 193915; Giuseppe Viola,
milanese di 28 anni, commerciante con precedenti penali per rapina e diserzione; Augusto
Malacria, anche lui lombardo, 36 anni, ex ufficiale e figlio di un generale, commerciante fallito
nel dopoguerra; Amleto Poveromo, 31 anni, nato a Lecco, macellaio con precedenti per reati
comuni (l’unico tra questi a morire in carcere, nel 1953, proprio per il delitto di trent’anni
prima).
L’omicidio, tutt’altro che una mera “reazione” squadristica al discorso di Matteotti alla
Camera, fu al contrario accuratamente pianificato. Una volta messa insieme la squadra, il
deputato socialista fu per giorni tenuto sotto controllo, con appostamenti presso la sua
abitazione e pedinamenti per registrarne gli spostamenti, gli orari e i tragitti. I sicari lo attesero
lungo il suo percorso a piedi verso Montecitorio, lo aggredirono e lo caricarono in macchina.
Era il pomeriggio di un giorno feriale: data la zona e l’orario, vi furono numerosi testimoni.
Nell’auto, guidata da Malacria, si scatenò una violenta colluttazione. Tra l’altro Matteotti riuscì
a gettare fuori dal finestrino il proprio tesserino di parlamentare, che fu in seguito ritrovato.
Uno degli squadristi, Giuseppe Viola o forse Albino Volpi, accoltellò il deputato con uno o due
fatali colpi al torace mentre l’auto era ancora in corsa lungo le strade di Roma. Matteotti morì
probabilmente dopo diverse ore di agonia. Il corpo fu abbandonato in un’area boscosa fuori
Roma, nella Macchia della Quartarella, dove sarebbe stato ritrovato (casualmente?) solo il 16
agosto16. Dumini scaricò i complici e rientrò a Roma e, contando sulla propria impunità,
parcheggiò l’auto addirittura nel cortile del Viminale, all’epoca sede del governo.
Questa la sequenza degli eventi, ma molti dettagli del delitto non sono mai stati chiariti.
Non si conosce con certezza chi accoltellò Matteotti, né esattamente dove. La squadra fascista,
inoltre, era probabilmente composta da più uomini rispetto a quelli identificati: si ritiene
fossero presenti almeno due basisti, Filippo Panzeri e Aldo Putato, che si allontanarono a piedi
dopo che il deputato fu caricato in macchina. Le loro responsabilità non sono mai state
accertate. Gli assassini avrebbero poi cambiato più volte versione confondendo le acque, nel
tentativo sia di alleggerire la propria posizione, sia di guadagnarsi la protezione delle figure
apicali del fascismo alternando omissioni e rivelazioni in un gioco di ricatti incrociati.
Una cosa è certa: il delitto, accuratamente pianificato per circa dieci giorni, non fu “casuale”,
come alcune interpretazioni lasciano ancora oggi intendere, magari attribuendo alla decisa
reazione del deputato la responsabilità dell’accoltellamento. Matteotti doveva essere ucciso,
anche se forse esattamente non nel modo – e nel luogo – in cui ciò avvenne.
Già nella sera dell’11 giugno cominciò a circolare la voce che il segretario del Psu era stato
ucciso. Il giorno dopo, in risposta a un’interrogazione presentata alla Camera dai parlamentari
socialisti, Mussolini si mostrò costernato, affermando che se di un delitto si era trattato esso
non avrebbe potuto «non suscitare lo sdegno e la commozione del governo e del parlamento».
Il duce assicurò di aver dato precise istruzioni per intensificare le ricerche, anche fuori dall’Italia
(Matteotti aveva da poco ricevuto il passaporto, e si pensò per questo anche a un
allontanamento volontario). La polizia, disse Mussolini, era già sulle tracce dei sospetti e
sarebbe stata fatta giustizia.
Un suo breve profilo biografico in Mimmo Franzinelli, Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza
fascista. 1919-1922, Milano, Mondadori, 2003, pp. 211-213.
15
Ivi, pp. 273-274.
16
Sul rinvenimento del cadavere sono sorti interrogativi, mai del tutto fugati, circa una messinscena o,
comunque, una pianificazione da parte del regime: cfr. Enrico Tiozzo, La giacca di Matteotti e il capitano
Pallavicini, in «Belfagor», a. LX, n. 3 (2005), pp. 249-265.
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Il duce, in realtà, quando pronunciava queste parole sapeva già che Matteotti era stato
assassinato; ma non solo: era a conoscenza che era già stata identificata l’auto usata per il
rapimento, procurata dal direttore del «Corriere Italiano» Filippo Filippelli (formalmente
datore di lavoro di Dumini), peraltro già segnalata il giorno prima del rapimento dai portieri di
uno stabile nei pressi dell’abitazione di Matteotti, che avevano sospettato si trattasse di ladri.
L’auto fu ritrovata con i vetri rotti per la colluttazione e con macchie di sangue sui sedili
posteriori. La stessa sera del 12 giugno Dumini fu arrestato alla stazione di Roma, mentre un
altro sicario fu fermato a Milano.
Il giorno dopo Mussolini parlò ancora alla Camera, mostrandosi addolorato ma, con la sua
consueta doppiezza, anche minaccioso verso le opposizioni. Il delitto, certo, «ci percuote di
orrore e ci strappa gridi di indignazione», ma mentre si attendeva che la legge facesse il proprio
corso ammoniva l’opposizione a non tentare di speculare sul «tristissimo episodio», poiché il
governo si sarebbe difeso «a qualunque costo». Le opposizioni non replicarono, perché erano
già assenti dall’aula17. Nello stesso giorno il duce ebbe un colloquio con Velia Titta, moglie di
Matteotti, cui disse di non sapere nulla della scomparsa del marito18.
Le responsabilità e i processi
Fu Mussolini il mandante del delitto? Non è del tutto comprovato, vale a dire che non esiste
certezza di un suo ordine diretto di assassinare Matteotti; ma non v’è dubbio che ne fu almeno
l’istigatore. Cesare Rossi, stretto collaboratore del duce e uno dei capi della Ceka, nelle sue
memorie riferisce un’esplicita frase di Mussolini, furibondo per il discorso di Matteotti alla
Camera: «Cosa fa questa Ceka? Cosa fa Dumini? Quell’uomo dopo quel discorso non dovrebbe
più circolare…»19. Non sembra dubbia la motivazione politica del delitto, anche se nel tempo
sono state formulate ipotesi alternative, come il fatto che Matteotti fosse stato eliminato perché
si apprestava a denunciare alla Camera affari di tangenti tra il governo e una compagnia
petrolifera americana in cui sarebbero state coinvolte figure molto vicine a Mussolini, forse
persino il fratello20 (tesi sostenuta dal secondogenito di Matteotti, che nel dopoguerra accusò
il re di essere il vero mandante).
Mussolini, conscio delle conseguenze del delitto, cercò subito di stornare da sé i sospetti.
Quelli che furono probabilmente gli autentici strateghi del crimine, ovvero Filippelli e il
deputato fascista Giovanni Marinelli (un altro capo della Ceka), furono arrestati insieme agli
altri tre esecutori. Non chiaro invece il ruolo dell’allora sottosegretario all’Interno Aldo Finzi,
che minacciò – come Rossi – di rendere pubblico un memoriale sul delitto21. Rossi si costituì il
24 giugno. Ma le conseguenze arrivarono a livello più alto: il duce costrinse Emilio De Bono,
capo della polizia, alle dimissioni, e quattro ministri (tra cui Giovanni Gentile) rimisero il
proprio mandato. Il 17 giugno Mussolini rinunciò al ministero dell’Interno22.
Gentile, Storia del fascismo, pp. 476-478.
Foot, Gli anni neri, p. 170. Si sofferma sul doloroso rapporto tra la vedova e il regime Giuseppe Tamburrano,
Giacomo Matteotti. Storia di un doppio assassinio, Torino, Utet, 2004, che ha tuttavia un basso taglio giornalistico
e valore meramente aneddotico. Lo si cita qui soltanto per completezza bibliografica.
19
Rossi, Il delitto Matteotti, p. 221. Corsivo nostro.
20
Vi si sofferma Canali, Il delitto Matteotti, pur senza giungere a conclusioni certe.
21
Il coinvolgimento di Finzi e Marinelli, ambedue conterranei del martire socialista, ha indotto Degl’Innocenti
ad affermare che il delitto Matteotti «ebbe anche una componente polesana» (Giacomo Matteotti, p. 35). Finirono
poi anch’essi vittime del fascismo: Marinelli fu fucilato a Verona nel gennaio 1944 a causa della sua adesione
all’ordine del giorno Grandi, che aveva provocato la destituzione di Mussolini; Finzi, di origine ebraica, fu trucidato
alle Fosse Ardeatine due mesi più tardi.
22
Gentile, Storia del fascismo, p. 479.
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Le responsabilità addebitate a Rossi e Marinelli per l’organizzazione del delitto, a De Bono
e Finzi per intralcio alle indagini e occultamento di prove dovevano ovviamente essere estese
anche a Mussolini, che di tutti era referente e superiore. Dopo la chiusura giudiziaria del caso,
il duce riservò ostilità a coloro (Rossi e Finzi) che avevano scaricato le responsabilità del delitto
sul fascismo, e benevolenza a chi si era adeguato agli eventi aspettando il suo intervento
risolutore: Marinelli e De Bono. Nel periodo della detenzione, della latitanza e soprattutto negli
anni successivi Mussolini fece versare consistenti somme, per comprare il loro silenzio, agli
assassini di Matteotti. Ne beneficiò soprattutto Amerigo Dumini, messo nelle condizioni di
arricchirsi nella colonia libica (anche se di tanto in tanto Mussolini, spazientito dalle continue
richieste e dai suoi vistosi comportamenti, lo faceva arrestare e mandare al confino).
Due istruttorie si occuparono del delitto Matteotti tra il 1924 e il 1925: quella della Sezione
d’Accusa della Corte d’Appello di Roma, e quella della Commissione istruttoria del Senato,
costituitasi in Alta Corte per giudicare De Bono. La prima fu costretta a interrompere i propri
lavori nel dicembre 1924 e gli atti tornarono quindi alla magistratura ordinaria, anche se nel
frattempo il giudice inquirente era divenuto Nicodemo Del Vasto, cognato del neo segretario
del Pnf Roberto Farinacci. Il segnale politico era insomma molto chiaro: bisognava assicurare,
nei limiti del possibile, l’impunità agli assassini e – soprattutto – ai loro mandanti.
Il 9 ottobre 1925 il procuratore generale della Sezione d’Accusa chiese il rinvio a giudizio per
Dumini, Volpi, Viola, Poveromo e Malacria con l’accusa di omicidio aggravato. Per motivi di
«ordine pubblico» il governo spostò il processo nell’appartata cittadina abruzzese di Chieti. Il
18 gennaio 1926 la famiglia Matteotti, costituitasi parte civile, comunicò il suo ritiro dal
procedimento giudiziario: Velia Titta, esasperata da mesi di minacce e dalla soffocante
sorveglianza della polizia, aveva ben compreso che il processo si sarebbe risolto in un nulla di
fatto. La corte infatti considerò il delitto Matteotti «preterintenzionale», ammettendo persino
la concausa della debole costituzione fisica della vittima. Dumini, Poveromo e Volpi furono
condannati a 5 anni, 11 mesi e 20 giorni. Con l’applicazione dell’amnistia, entrata in vigore il 31
luglio 1925 e varata appositamente per gli assassini di Matteotti, Malacria e Viola furono subito
liberati, gli altri rimasero in carcere ancora qualche mese23. La vedova e i figli di Matteotti
continuarono a essere minacciati e ingiuriati dai fascisti, e tenuti sotto il rigido controllo delle
autorità24.
Il 27 luglio 1944, il decreto luogotenenziale n. 159 riaprì il processo Matteotti considerando
«inesistenti» le sentenze della Sezione d’Accusa di Roma del 1° dicembre 1925 e quella di Chieti
del 24 marzo 1926. Gli imputati dell’esecuzione materiale di Matteotti presenti al nuovo
processo erano solo Dumini e Poveromo, mentre Viola e Malacria (in realtà deceduto nel 1934)
risultavano latitanti25.
Le conseguenze politiche
Le settimane successive al delitto furono per Mussolini molto difficili. L’opinione pubblica
era rimasta scossa, il duce dovette assistere impotente alle rivelazioni dei suoi ex collaboratori
arrestati e fu egli stesso indagato e accusato. Fu forse il momento di maggiore isolamento della
sua carriera politica. D’altronde non poteva sfuggire quantomeno alla responsabilità di essersi
circondato di personaggi violenti e criminali comuni, e di non aver fatto nulla per sopire
Canali, Il delitto Matteotti, pp. 511-544.
Alberto Vacca, L’occhio del duce in casa Matteotti. La spia dell’Ovra Domenico De Ritis, Roma, Edup, 2023.
Sembrano inoltre solo millanterie i presunti aiuti economici concessi dal regime alla famiglia, come raccontato da
Mussolini nel 1944-45. Si veda su questo Caretti, Il delitto Matteotti, pp. 120 e segg.
25
La ricostruzione degli atti processuali si trova in Giuseppe Rossini (a cura di), Il delitto Matteotti tra il
Viminale e l’Aventino. Dagli atti del processo De Bono davanti all’Alta Corte di Giustizia, Bologna, il Mulino, 1966.
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l’illegalismo fascista. Tanto che il 22 giugno 1924, mentre a Bologna si svolgeva una massiccia
manifestazione del partito a sostegno suo e del governo, il duce si trovava prudentemente a
Roma, dove tenne un assai cauto discorso al Senato in cui non solo ribadì che tutti i colpevoli
del delitto sarebbero stati assicurati alla giustizia, ma che egli intendeva ristabilire «la
normalità politica e la pacificazione nazionale», depurando il Pnf degli elementi più turbolenti.
Dichiarò che il suo obiettivo politico, dopo la vittoria elettorale, era quello di inserire il fascismo
nella legalità costituzionale e farne un «centro di raccolta e di conciliazione nazionale». Ma,
come sempre, Mussolini parlava con due voci: ai deputati della maggioranza, riuniti a Palazzo
Venezia nello stesso giorno, disse invece di non farsi illusioni sulla riconciliazione nazionale,
riversandone la responsabilità sulle opposizioni antifasciste che si prefiggevano di distruggere
tutto quanto era uscito dalla «rivoluzione d’ottobre»26.
Pochi giorni più tardi, il 27 giugno, ebbe inizio l’Aventino delle opposizioni, decise a non
partecipare più ai lavori parlamentari finché non fosse stato ristabilito l’ordine costituzionale,
con l’abolizione delle milizie politiche. Questa strategia fu criticata dal Pcd’I, che auspicava una
mobilitazione popolare al fine di abbattere il fascismo, anche con la forza27. A fine giugno
Mussolini procedette a un rimpasto di governo in senso nettamente moderato, con l’ingresso
di alcuni ministri liberali (i quali dimostrarono così di non avere alcuna reale intenzione di
ripudiare il fascismo); meno di un mese più tardi, tuttavia, in una seduta del Gran Consiglio
ritrattò qualunque proposito di normalizzazione: la situazione del momento costituiva nulla
più di «un problema di forza fra fascismo e antifascismo», il cui esito era evidentemente
scontato. Come sempre, il duce manteneva una calcolata doppiezza che gli serviva per
controllare i diversi interlocutori.
Un ruolo forse decisivo avrebbero potuto averlo i bystanders, ovvero il re e i
«fiancheggiatori» del governo fascista, anch’essi incerti sul da farsi: ma «conservare Mussolini
al governo – ha scritto Gentile – era, al momento, l’unico modo per salvaguardare la monarchia,
l’assetto sociale dell’egemonia borghese e l’economia capitalistica, sperando, con l’aiuto del
presidente del Consiglio, di giungere quanto prima all’esaurimento dell’illegalismo fascista per
ripristinare il regime liberale», senza però disdegnare l’aiuto che sarebbe potuto venire dalle
piazze fasciste. Avvenne in questo contesto di reciproca rassicurazione l’inserimento della
Mvsn nelle forze armate, con annesso giuramento al re (ma rimanendo sempre agli ordini di
Mussolini)28. Il sovrano, da parte sua, aveva ormai legato le proprie sorti a quelle del fascismo,
e qualunque ipotesi di maggioranza alternativa non avrebbe potuto non comprendere i
socialisti, che gli erano assai più invisi. Fu subito chiaro che, senza una chiara iniziativa
parlamentare (ovvero la messa in minoranza del governo), Vittorio Emanuele III non avrebbe
agito29. Impraticabili – per gli oggettivi rapporti di forza e per le divisioni dell’opposizione
aventiniana – risultarono altre soluzioni politiche di compromesso che coinvolgessero vecchie
figure di liberali come Giolitti, Salandra e Orlando30.
Questo non bastò, nell’immediato, a risolvere la precarietà della situazione per Mussolini.
Il ritrovamento del corpo di Matteotti, alla metà di agosto, agitò nuovamente l’opinione
pubblica riaprendo la crisi, mentre dall’inchiesta della magistratura il duce temeva nuove
rivelazioni sul proprio conto. La stampa antifascista e cattolica attaccò il duce, scatenando in
risposta una nuova ondata di violenze da parte dei fascisti “intransigenti”, che Mussolini
Gentile, Storia del fascismo, p. 483.
Sergio Caprioglio, Gramsci e il delitto Matteotti con cinque articoli adespoti, in «Belfagor», a. XLII, n. 3
(1987), pp. 249-267.
28
Gentile, Storia del fascismo, p. 492.
29
Denis Mack Smith, Storia d’Italia dal 1861 al 1997, Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 440-445.
30
De Felice, Mussolini il fascista. I, pp. 636-641.
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stavolta apprezzò. Col passare delle settimane i disordini si aggravarono: tra l’altro il 5
settembre fu aggredito a Torino Piero Gobetti, che ne ebbe irrimediabili conseguenze per la
salute (si spense in Francia un anno e mezzo più tardi). Una settimana più tardi il deputato
fascista Armando Casalini fu assassinato da un militante comunista (con l’esplicita motivazione
di vendicare Matteotti), evento cui i fascisti reagirono con ulteriori violenze senza freni. Ancora
una volta, di fronte a questo scenario, Mussolini tenne atteggiamenti di volta in volta concilianti
e intransigenti. Ma la consueta doppiezza del capo del fascismo sembrava stavolta avere meno
presa sugli interlocutori più influenti: gli industriali, ad esempio, consegnarono al governo un
memoriale riservato in cui chiedevano il ripristino della legalità costituzionale, e la garanzia
delle libertà di stampa, riunione, associazione. In ottobre, al congresso del partito liberale la
corrente favorevole alla collaborazione col governo fu messa in minoranza. Anche le
associazioni combattentistiche ormai rifiutavano apertamente di partecipare a manifestazioni
insieme ai fascisti, e il 4 novembre 1924, in occasione delle celebrazioni della vittoria, ci furono
scontri violenti con loro31. La posizione di Mussolini sembrava sul punto di diventare
irrimediabile.
Una settimana più tardi, l’11 novembre, la Camera riaprì i lavori dopo mesi di sospensione e
Mussolini dovette assistere alle defezioni di alcuni importanti fiancheggiatori liberali come
Giolitti, Orlando e Salandra. Anche al Senato la maggioranza mostrava alcune crepe: rispetto
al voto di fiducia di giugno il governo perse circa 80 voti, pur venendo riconfermato. Intanto le
indagini sul delitto Matteotti proseguivano, aggiungendo rivelazioni che aumentavano la
precarietà del governo. De Bono fu querelato per intralcio alla giustizia, Balbo si dimise da
comandante della Milizia dopo la pubblicazione di ordini scritti con l’ordine di bastonare gli
avversari. Messo all’angolo, Mussolini presentò una riforma elettorale che sarebbe stato il
preludio a nuove elezioni: così facendo sperava di tenere legati ancor più i deputati fascisti –
molti dei quali non sarebbero stati rieletti – alle sorti del governo e sue personali.
Il 30 dicembre 1924, pochi giorni dopo la pubblicazione del memoriale Rossi (che accusava
Mussolini di essere il mandante di numerose aggressioni politiche, e indirettamente del delitto
Matteotti), si svolse un tesissimo Consiglio dei Ministri, in cui i ministri liberali Salandra e
Sarrocchi avanzarono l’ipotesi di dimissioni del governo con incarico a Federzoni, fedelissimo
del re. Ma la reazione di Mussolini fu decisa: minacciò di ricorrere alla Milizia per difendere il
suo governo, riuscendo a far rinviare qualunque decisione. Il duce era preso tra due fuochi: i
fiancheggiatori lo spingevano a imboccare senza indugio la via della collaborazione e della
normalizzazione, mentre l’ala “intransigente” lo incitava a lanciare una seconda ondata
“rivoluzionaria”, minacciando tra l’altro di scavalcarlo e prendere in mano la situazione. Gravi
incidenti provocati dai fascisti si verificarono in parecchie città32.
Si giunse così al fatidico 3 gennaio 1925. Mussolini parlò alla Camera tra le 15 e le 16. Negò
tutti i delitti, addirittura negò l’esistenza della Ceka, ribaltando sulle opposizioni la
responsabilità di non aver consentito la normalizzazione e persino la fine delle violenze, come
dimostrava a suo dire l’omicidio di Casalini. E tuttavia, con la consueta ambiguità, il duce si
assumeva tutte le responsabilità delle violenze e dell’illegalismo fascista, con le parole assai
note:
Ebbene, io dichiaro qui al cospetto di questa assemblea ed al cospetto di tutto il popolo italiano che
assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o
meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il Fascismo non è stato
che olio di ricino e manganello e non invece una superba passione della migliore gioventù italiana, a me
31
32
Gentile, Storia del fascismo, pp. 498-502.
Ivi, pp. 502-510.
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la colpa! Se il Fascismo è stato un’associazione a delinquere, se tutte le violenze sono state il risultato di
un determinato clima storico, politico, morale, a me la responsabilità di questo, perché questo clima
storico, politico e morale io l’ho creato con una propaganda che va dall’intervento fino ad oggi.
Concluse con una chiara minaccia: «Voi state certi che nelle quarantott’ore successive a
questo mio discorso, la situazione sarà chiarita su tutta l’area»33.
Dalle parole si passò subito ai fatti: la repressione di giornali, partiti e movimenti e
antifascisti – o solo contrari al governo – fu scatenata in tutto il Paese. Il governo fu riallineato
in senso fascista e il nuovo segretario del Pnf fu appunto Farinacci, il capo degli “intransigenti”
e punto di riferimento di quello squadrismo di provincia che non aveva alcuna intenzione di
deporre le armi. Si avviava così la costruzione della dittatura e dello Stato totalitario, un
processo che sarebbe perdurato fino al 192934. Per gli antifascisti si chiuse ogni spazio: la partita
si sarebbe riaperta solo nel 194335.
Per concludere, è importante sottolineare, come ha ricordato ancora Emilio Gentile, che «il
delitto Matteotti e gli altri assassini e aggressioni compiuti dai fascisti non furono azioni
criminali realizzate per motivi contingenti, ma furono tutti connessi fra di loro, erano tutti
effetti del sistema di dominio esclusivo e violento instaurato dal duce e dal partito fascista dopo
la loro ascesa al potere»36. In altre parole, l’uccisione di Matteotti (così come gli altri delitti
politici avvenuti negli anni del regime: don Minzoni, Gobetti, Amendola, i fratelli Rosselli,
Gramsci e molti altri) non fu un episodio isolato o casuale, né può essere giudicato anomalo
rispetto all’apparente “pacificazione” che sarebbe seguita alla marcia su Roma. La violenza fu
sin dal principio, e rimase per tutto il ventennio, una componente basilare, costitutiva, del
fascismo, e per questo irrinunciabile: dapprima strumento di conquista del potere (per
sbaragliare il nemico socialista nel 1919-22, e poi regolare i conti con lo Stato liberale37), e quindi
di mantenimento del potere stesso. Fu lo stesso Arnaldo Mussolini a definirla «l’anima
guerriera ed invitta del fascismo»38.
Una violenza che Mussolini non solo tollerava, ma promuoveva apertamente, a dispetto
delle occasionali dichiarazioni concilianti con le opposizioni parlamentari e i rivali politici
(dentro e fuori il proprio partito).
Filippo Masina
Università di Siena
Il testo integrale del discorso è facilmente reperibile su Internet, fra l’altro sul sito della Camera dei Deputati
al link t.ly/hbmH0. Sugli avvenimenti e le trattative politiche di quei giorni si rimanda a De Felice, Mussolini il
fascista. I, pp. 711-730, anche per le conseguenze per le opposizioni aventiniane.
34
De Felice, Mussolini il fascista. I, pp. 646-710.
35
Vedi ora Simona Colarizi, La resistenza lunga. Storia dell’antifascismo 1919-1945, Roma-Bari, Laterza, 2023.
36
Gentile, Storia del fascismo, p. 480.
37
Vedi in particolare Franzinelli, Squadristi, pp. 3-10.
38
Arnaldo Mussolini, La fronda, in «Il Popolo d’Italia», 13 maggio 1924, cit. in Gentile, Storia del fascismo, p.
464.
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