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"Castigo e delitto"

2005, P.P. Giglioli (a cura di), Manuale di sociologia, Bologna, il Mulino,

MANUALI Sociologia copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna 2 INDICE copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull’insieme delle attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: www.mulino.it INDICE 3 Invito allo studio della società a cura di PIER PAOLO GIGLIOLI copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna il Mulino copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna ISBN 978-88-15-10295-9 Copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo – elettronico, meccanico, reprografico, digitale – se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d’Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie INDICE 5 Indice Introduzione I. 9 Uomini e donne, giovani e vecchi, di Roberta Sassatelli 1. 2. 3. 4. II. La costruzione sociale del corpo Genere, sesso e sessualità Età, generazioni e corso di vita Considerazioni conclusive Esclusi e inclusi, di Marco Santoro Esclusione sociale Lo studio dei confini nelle scienze sociali Cittadinanza: esclusione e inclusione Classi sociali, stratificazione e chiusura sociale Chiusura sociale e confini simbolici: il caso delle professioni e della scienza 6. Disuguaglianze culturali: scuola, consumi e stili di vita 1. 2. 3. 4. 5. III. Castigo e delitto, di Emilio Santoro 13 15 20 28 34 37 38 40 42 48 53 56 69 copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna 1. Il problema del nesso tra delitto e castigo: relatività storica di cosa punire e come punire 2. Carcere e potere disciplinare: la rieducazione attraverso il lavoro 3. La criminologia positivista e la nascita del «criminale» 4. La sociologia durkheimiana: la pena come manifestazione della coscienza e la divisione anomica del lavoro 5. Dal criminale al deviante 6. La costruzione sociale della devianza: la «labelling theory» 7. La crisi del «welfare state» e il cambiamento delle politiche penali 70 71 74 77 81 85 90 6 INDICE IV. Sacro e profano, di Giolo Fele 1. 2. 3. 4. 5. 6. V. Società e religione Le forme religiose del legame sociale Rappresentazioni secolari e rappresentazioni religiose I riti e le cerimonie La moralità Considerazioni conclusive Potere e dominio, di Pier Paolo Giglioli 1. 2. 3. 4. Alcune proprietà del potere Basi e forme del potere I tipi del dominio I meccanismi della legittimità VI. La città, di Gabriella Turnaturi 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. La città come fatto sociale Tipi di città La metropoli Fra ecologia ed etnografia L’influenza dell’urbanizzazione sulla società Città, campagna, comunità extraurbane Le popolazioni urbane Le nuove tribù metropolitane e lo spettro della paura Le nuove aggregazioni urbane: comitati e reti di cittadini VII. Comunicazione e media, di Federico Boni 1. 2. 3. 4. 5. 6. Dalla comunicazione interpersonale alla comunicazione mediata L’ingresso dei media nella società La riflessione sulle comunicazioni di massa Pratiche dei pubblici e costruzione dell’identità Rappresentanza o rappresentazione? I media e la politica Dai mezzi di comunicazione di massa ai «personal media» 101 103 106 109 116 121 129 131 133 138 145 150 159 161 161 165 169 172 174 177 178 181 185 186 191 193 200 203 206 copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna VIII. La sociologia di fronte alla globalizzazione, di Alessandro Dal Lago 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. L’irresistibile ascesa di una parola Globalizzazioni relative Città dello sviluppo e della desolazione Effetti perversi Umanità che va e umanità che viene Connettività e complessità Conflitti globali Oltre la globalizzazione 211 212 214 218 220 222 225 228 231 INDICE IX. Fare ricerca, di Giancarlo Gasperoni 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. Ricerca empirica e metodologia Il metodo (e la sua «scientificità») Qualità e quantità: una distinzione di comodo ma fuorviante Il ruolo delle tecniche Raccolta e analisi Le tecniche di raccolta e la scelta degli oggetti da osservare Produzione e rilevazione di informazioni Rilevazione strutturata Rilevazione di dati preesistenti Rilevazione non strutturata Dopo la raccolta La ricerca empirica come fenomeno sociale Riferimenti bibliografici 7 235 237 239 242 244 246 247 249 251 256 258 261 262 267 copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna CASTIGO E DELITTO CAPITOLO 69 3 Castigo e delitto La prigione di Pelican Bay, secondo il rapporto del «Los Angeles Times» del 1 o maggio 1990, è «interamente automatica e progettata in maniera tale che i reclusi in pratica non possano avere alcun contatto diretto con le guardie e gli altri reclusi. Per ventidue ore e mezzo al giorno i detenuti sono confinati nelle loro celle prive di finestre, costruite di solidi blocchi di cemento armato e di acciaio inossidabile [...]. Non lavorano in strutture produttive della prigione; non possono praticare attività ricreative; non possono mescolarsi agli altri reclusi. [...] I detenuti consumano tutti i loro pasti nelle loro celle, possono lasciarle solo per una breve doccia e per un’ora e mezza di esercizio fisico al giorno. Anche quando si fanno la doccia e fanno esercizio sono isolati. Gli esercizi vengono svolti in piccoli cortili cementificati: buchi chiusi da mura di cemento alte 20 piedi e coperte con lastre di metallo. Le porte delle celle sono aperte e chiuse elettronicamente da una guardia situata in una cabina di controllo. [...] Non ci sono guardie con le chiavi appese alle cinture che percorrono i corridoi. Le stesse guardie sono chiuse in lontane cabine di controllo di vetro e comunicano con i prigionieri attraverso un sistema di altoparlanti». Il carcere «ha la propria infermeria; la propria biblioteca giuridica (dove i prigionieri sono tenuti in stanze assolutamente inviolabili e i libri gli sono fatti arrivare attraverso degli appositi condotti. [...] I detenuti possono passare anni senza uscire dal loro reparto». A chi fa notare che «non si è mai visto un luogo in cui le persone sono isolate in modo così totale e completo», che Pelican Bay rappresenta «qualcosa senza precedenti nelle prigioni moderne», che «potrebbe avere gravi conseguenze psicologiche» sui detenuti, gli addetti alla sicurezza del carcere rispondono che «le guardie controllano i detenuti e sono istruite affinché segnalino qualsiasi problema psichiatrico agli psicologi dell’istituto. Se l’isolamento può apparire estremo, si deve tener conto che la società ha oggi bisogno di carceri più restrittive per fronteggiare criminali più violenti». copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna Questo capitolo è di Emilio Santoro. 70 CAPITOLO 3 1. IL PROBLEMA DEL NESSO TRA DELITTO E CASTIGO: RELATIVITÀ STORICA DI COSA PUNIRE E COME PUNIRE Storicamente il rapporto tra delitto e castigo è stato considerato prevalentemente come un rapporto necessario: si può dire che nessuna società ha mai problematizzato, fino a tempi recenti, ciò che considerava delitto e quindi puniva. Per molti secoli si è ritenuto che i comportamenti criminali fossero definiti non dagli uomini, dalle loro organizzazioni politiche, ma dalla volontà divina. L’essenza di questa convinzione non è venuta meno neppure con le prime teorie liberali della pena che si sono continuate a innestare sull’idea tradizionale che la definizione di cosa punire fosse un dato naturale e inevitabile. Secondo il paradigma liberale gli individui, in quanto soggetti razionali, non possono che trovarsi d’accordo nel definire cos’è bene e cos’è male: la legge penale riflette la volontà comune e non è altro che la codificazione di questo accordo. Fulcro di questo paradigma è l’assunto che il crimine è un fenomeno dai contorni oggettivi e la pena è l’unico strumento attraverso cui esso può essere eliminato, o almeno limitato. Una volta assunto come «dato» cosa è delitto e postulato il valore strumentale del castigo, non resta altro che garantire che il castigo non contravvenga al «senso di umanità», non sia «disumano». Sotto questo profilo la storia moderna della pena appare come una continua evoluzione: si passa dalla barbarie all’illuminismo, dall’ignoranza agli interventi effettuati dagli esperti, dalla vendetta e la crudeltà all’umanitarismo scientifico. Si ammette che le istituzioni penali, come del resto molte altre istituzioni sociali, siano riuscite raramente a tradurre in pratica, e comunque sempre in modo parziale e imperfetto, gli ideali morali che le avevano ispirate; ciò non toglie però che il filo dell’evoluzione delle modalità punitive sia evidente e confortante. Questo paradigma è stato oggetto di molte critiche. I primi a evidenziare che le modalità punitive, lungi da costituire un dato naturale e ovvio, rappresentano un problema per le moderne società liberaldemocratiche furono probabilmente Gustave de Beaumont e Alexis de Tocqueville [1833; trad. it. 2002, 4849], che nel loro rapporto sulle carceri statunitensi dell’inizio del XIX secolo sottolinearono che negli Stati Uniti, la prima grande società liberaldemocratica occidentale, «la libertà più estesa» conviveva con «lo spettacolo del più completo dispotismo» offerto dalle prigioni. Su questo tema tornò circa un secolo più tardi il sociologo francese Émile Durkheim. Durkheim [1925; trad. it. 1969, 622] colse l’intrinseca contraddizione di una società che punisce sempre meno i crimini contro la credenze collettive, contro la religione, e sempre più le offese contro la dignità umana, che cerca di garantire l’incolumità degli individui e della loro libertà infliggendo sofferenze. Più recentemente, diversi studiosi, facendo tesoro della lezione di Durkheim, hanno cercato di mostrare che la definizione di cosa è delitto, l’interpretazione della disobbedienza dell’individuo all’ordine dell’autorità, cioè alla legge, la considerazione di chi viola la norma (il criminale, il reo, il deviante) e l’interpretazione della reazio- copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna CASTIGO E DELITTO 71 ne dell’autorità nei confronti di questo (la politica criminale) sono allo stesso tempo funzione e indicatori del tipo di relazione esistente tra individuo e autorità in una determinata società. Quando si inquadra la problematica della relazione tra delitto e castigo all’interno di quella più generale dell’ordine politico-sociale essa appare subito strettamente correlata a tutto quell’insieme di saperi, poteri, strategie, pratiche e istituzioni, e a quella specifica «geografia» delle risorse, delle possibilità, dei desideri che costituiscono le modalità di esercizio del controllo sociale in una determinata società, ovvero le modalità attraverso cui si stabilizza uno specifico ordine sociale. Il binomio delitto e castigo cessa di essere rappresentato in termini naturalistici per essere inserito nel processo (storico) di definizione delle norme e di etichettamento di chi le trasgredisce, di messa a punto di tecniche capaci di indurre conformità e di reprimere difformità, di definizione dei confini tra normale e patologico. In questo capitolo mostreremo quindi le differenti concezioni e pratiche della pena che si sono succedute nel corso degli ultimi tre secoli, evidenziando, sia pure per grandi accenni, i legami che esse hanno con le strutture culturali nel cui ambito sono emerse. 2. CARCERE E POTERE DISCIPLINARE: LA RIEDUCAZIONE ATTRAVERSO IL LAVORO La retorica liberale tra Sette e Ottocento ondeggiava tra la teoria che vedeva la soluzione del problema dell’ordine nel potere coercitivo, il cui massimo sostenitore fu Thomas Hobbes, e quella che affidava il ruolo di deus ex machina al mercato, la cui elaborazione più compiuta si deve ad Adam Smith. Per entrambe queste impostazioni l’ordine è mantenuto attraverso strumenti esterni. Secondo l’approccio hobbesiano esso può essere conseguito solo attraverso un Leviatano che reprime le deviazioni individuali con la forza e la minaccia. Secondo quello smithiano è invece il mercato che, operando come un meccanismo di distribuzione degli incentivi, dà vita a un processo di coordinamento automatico delle azioni individuali, inducendo gli individui a comportarsi in modo tale da condurre all’ordine sociale. Queste due retoriche venivano alternativamente richiamate come giustificazione della potestà punitiva dello stato. Diverse teorie recenti sostengono però che le vere basi dell’ordine liberale erano rappresentate non dalla coercizione e dal mercato, ma da tutta una serie di istituzioni disciplinanti capaci di imprimere i principi dell’ordine nella vita dell’individuo, in particolare dell’individuo deviante, in modo che vi permangano a lungo, possibilmente per tutta la vita 1. Secondo questa lettura nel corso dell’Ottocento fu messa a punto una nuova modalità di produzione dell’ordine sociale, il disciplinamento, espressione di una comune credenza nel potere riformatore dell’ascetismo imposto, del lavoro duro, copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna 1 Per la definizione di «disciplinamento» si veda Weber [1922c; trad. it. 1999, IV, 260-262]. 72 CAPITOLO 3 dell’istruzione religiosa e della routine. Il disciplinamento opera attraverso l’internalizzazione, ma, a differenza dei normali meccanismi di socializzazione, ha origine da un atto di coercizione [Pizzorno 1991]. È per questo che Foucault [1975] eleva il Panopticon a simbolo di questa ideologia: il grande merito del progetto di Bentham era quello di incutere nei detenuti la paura di essere sorvegliati in modo da trasformare in sorveglianti di se stessi individui che, secondo le convinzioni dei riformatori, per il fatto stesso di aver compiuto un reato, mancavano di autocontrollo. Il carcere, o meglio il «penitenziario», fu l’istituzione che sembrò capace di conciliare la retorica della pena e quella della sua esecuzione. La pena privativa della libertà al suo apparire operò un’inversione rivoluzionaria nella pratica punitiva in sintonia, se non alla lettera delle teorie illuministiche, almeno ai valori che le ispiravano. Essa capovolse la strategia della difesa sociale: si passò dalla concezione dell’autore del delitto come un soggetto da distruggere e annientare, all’idea che esso è una parte integrante della società che ha trasgredito alcune sue norme, cosa che non esclude un suo reinserimento nel contesto sociale. Il «penitenziario» assurse a perno della strategia di controllo sociale con l’affermarsi del sistema di produzione capitalistica. Grazie al penitenziario la pena come privazione coatta di un quantum preventivamente determinato di libertà, riesce a sposare la retorica liberale della pena e quella della sua esecuzione: il contratto con la disciplina, la retribuzione con la rieducazione. Grazie alle caratteristiche del penitenziario, in altre parole, la pena carceraria si dimostra capace da un lato di assoggettare la distruttività del castigo al parametro contrattuale (il principio della retribuzione), dall’altro di rendere funzionale lo stesso castigo al processo produttivo (il principio della rieducazione) [Pavarini 1980, 67]. Il penitenziario emerse come uno strumento di socializzazione forzata e si strutturò sul modello produttivo prima della manifattura e successivamente della fabbrica da cui mutuò la propria organizzazione interna [Rusche e Kirchheimer 1939]. Esso è dunque il luogo, teorico e fisico, che permette lo sviluppo della teoria liberale della pena secondo cui la migliore difesa sociale si può avere solo quando il trasgressore – contraente inadempiente – risarcisce il danno procurato alla società pagando con il proprio tempo e nel contempo, in fase di esecuzione della pena, si assoggetta alla disciplina che lo reintegrerà nel tessuto delle relazioni giuridiche come soggetto docile, non più aggressore della proprietà, ma pronto a vendere sul mercato la sua forza lavoro per sostentarsi [Costa 1974, 357-378]. Il progetto benthamiano del Panopticon, struttura penitenziaria che consente alle guardie, nascoste nella torre centrale, di esercitare il controllo sui detenuti ospitati nell’anello che la circonda, è elevato da Foucault [1975] a metafora di una trasformazione epocale del potere. Il Bentham che Foucault ci presenta è l’autore che per primo vide con chiarezza quale fosse il compito che, nell’epoca moderna, il potere doveva assolvere: imporre la disciplina mantenendo sempre reale e tangibile la minaccia di punizioni. E vide anche quale era la modalità attraverso cui questo potere doveva essere esercitato per esse- copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna CASTIGO E DELITTO re efficace: far credere ai soggetti che in nessun momento avrebbero potuto sottrarsi allo sguardo onnipresente dei propri controllori, e che quindi nessuna mancanza, per quanto segreta, poteva restare impunita. Nella storia delle forme in cui viene esercitato il potere, l’ideale Panopticon segna – secondo Foucault – una svolta radicale: si passa dalla fase in cui i molti guardano i pochi a una situazione in cui i pochi guardano i molti, la sorveglianza rimpiazza lo spettacolo. Il potere fino a quel momento aveva fatto di tutto per presentarsi al popolo attraverso le sue pompe, le sue ricchezze, il suo splendore e la sua violenza in modo che la gente lo guardasse con terrore e ammirazione. Alla fine del Settecento ci si rende conto che l’efficacia del potere dipende dalla sua capacità di restare in ombra, guardando i propri soggetti piuttosto che facendosi guardare da loro. Il Panopticon è lo strumento attraverso cui produrre quel potere razionalburocratico che Weber descrive come la caratteristica saliente dello stato moderno. Il potere di cui il Panopticon è l’emblema è un potere che mira a integrare comunità locali diverse sotto l’amministrazione dello stato, un potere che pretende di sottoporre al suo controllo minuzioso territori molto più vasti di quelli controllabili con le sole facoltà umane. Questo potere si fonda sulla disciplina e richiede «controllori» professionisti e una riorganizzazione dello spazio che consenta ai sorveglianti di svolgere il proprio lavoro rendendo i controllati consapevoli che i sorveglianti sono al lavoro e possono coglierli in fallo in qualsiasi momento. Le istituzioni attraverso cui si articola e si impone questo potere sono in primo luogo gli eserciti di leva, il cui apparire caratterizza pressoché ovunque l’inizio della modernità, e in secondo luogo gli impianti industriali. Quando apparvero le prime carceri la mancanza di manodopera disposta a lavorare era considerata da molti l’ostacolo principale al progresso della società. I primi imprenditori lamentavano che i potenziali operai non erano disposti ad adeguarsi al ritmo del lavoro in fabbrica. «Correzione» voleva dire, nelle circostanze, vincere il rifiuto di sottomettersi alla disciplina del lavoro in fabbrica. Il Panopticon si inserisce lungo la linea tracciata con l’istituzione ad Amsterdam, all’inizio del Seicento, delle prime case di correzione progettate pensando che l’etica del lavoro fosse il nucleo essenziale del buon cittadino [Sellin 1944, 27-29, 58-59]. Fine di queste case era infatti quello di produrre persone «in buona salute, mangiatori morigerati, abituati al lavoro, desiderosi di disporre di una buona attività, in grado di mantenersi da soli, timorati di Dio». Per ottenere questi risultati i loro regolamenti prescrivevano un lungo elenco di occupazioni manuali nelle quali i reclusi si sarebbero dovuti impegnare (la produzione di scarpe, la fabbricazione di ceste ecc.). In effetti l’attività produttiva svolta nelle case di correzione, dopo il fallimento dei primi tentativi di attivare queste lavorazioni più o meno sofisticate, si limitò alla piallatura di legnami brasiliani, un lavoro particolarmente faticoso, in origine considerato solo un mezzo di punizione, che nessun cittadino libero voleva svolgere. Le case di reclusione assunsero il ruolo, ancora prima che di «fabbriche di lavoro disciplinato», di strumenti che permettevano di mettere im- 73 copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna 74 CAPITOLO 3 mediatamente al lavoro i reclusi, assegnando loro in particolare quei tipi di occupazione meno accetti ai «lavoratori liberi». Il Panopticon, analogamente alle case di correzione, era concepito partendo dall’idea che l’ozio fosse il padre di tutti i vizi. La sua funzione doveva essere quella di allontanare i reclusi dalla strada della perdizione sulla quale si erano avviati di propria volontà o sulla quale erano stati spinti dalla necessità. La strada che doveva riportarli a rientrare nei ranghi della società «normale» era il lavoro: la disciplina del lavoro era considerata da Bentham [1983] la medicina capace di «arrestare la dissoluzione morale», combattere e vincere l’accidia, l’inettitudine e la mancanza di rispetto e l’indifferenza per le norme sociali, i vizi cioè che rendevano i reclusi incapaci di una vita «normale». Il lavoro duro e costante era visto allo stesso tempo come la ricetta di una vita nobile e piena di meriti e il fondamento dell’ordine sociale. Il Panopticon di Bentham non era che la rappresentazione utopica dell’istituzione capace di produrre l’operaio in grado di inserirsi nella catena di produzione industriale, di fare quel lavoro industriale che appariva all’epoca privo di senso compiuto rispetto a quello dell’artigiano che creava il suo prodotto. Bentham era convinto che rendere il soggetto capace di contribuire alla ricchezza della società fosse il modo migliore per «rieducarlo» e quindi inserirlo socialmente. Era l’epoca in cui aumentava continuamente il numero dei coltivatori diretti e degli artigiani che non erano più in grado di sostentarsi con il loro lavoro, mentre le prime industrie mancavano di mano d’opera disciplinata che le facesse funzionare. In questo quadro appariva dunque naturale affidare alla reclusione il compito di produrre operai «ubbidienti», come scrivevano Tocqueville e de Beaumont, o dai «corpi docili», per usare la famosa espressione di Foucault. La disciplina, fatta di addestramento manuale e inculcamento dell’etica del lavoro, sembrava il modo per fornire il sostentamento a un esercito di soggetti che la fame spingeva a compiere reati contro il patrimonio. In un’epoca in cui era facile identificare l’idea della correzione con il mettere al lavoro i reclusi, dando loro un lavoro utile, redditizio, Bentham pensa il Panopticon prima di tutto come una macchina perfetta per la riuscita di questo compito. Il Panopticon era in primo luogo la macchina capace di abituare anche i soggetti più recalcitranti al ritmo ripetitivo, monotono e meccanico della moderna produzione industriale. copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna 3. LA CRIMINOLOGIA POSITIVISTA E LA NASCITA DEL «CRIMINALE» Alla fine dell’Ottocento l’impianto della politica penale liberale entrò in una crisi profonda ed emersero altre due impostazioni, quella della criminologia positivista e quella della sociologia durkheimiana, che contesero il campo della teoria del delitto e della pena all’approccio classico. Tanto la criminologia positivista quanto la sociologia durkheimiana nacquero dalla convinzione che le teorie liberali dell’ordine si fossero dimostrate incapaci di gestire le «conse- CASTIGO E DELITTO guenze negative» dell’industrializzazione. Alla metafisica dell’interesse, e quindi della libertà e della razionalità dei soggetti, che costituiva il presupposto delle teorie economiche e sociali del XVIII secolo, la criminologia positivista e la sociologia sostituirono modelli di comportamento determinati da fattori necessari, riconducibili a meccanismi individuali o globali. Fin dal suo apparire la criminologia diede per scontato il carattere strumentale del sistema penale e affrontò la questione criminale ragionando in termini di relazione tra cause ed effetti ponendosi finalità dichiaratamente pratiche: chi si richiamava a questa impostazione discuteva delle cause per cui gli individui commettono delitti (individuate di volta in volta nella malvagità individuale, nella struttura biopsichica dei soggetti, nella povertà, nell’emarginazione sociale ecc.) e cercava strumenti capaci di neutralizzare queste cause. Assumendo una connessione causale tra delitto e castigo i criminologi riconducevano automaticamente l’aumentare dei castighi inflitti da una determinata società all’aumentare dei delitti commessi in essa. Tutti i discorsi sul delitto e il castigo che si iscrivono all’interno di questa prospettiva, pur seguendo strade differenti e differenziandosi per la preminenza attribuita alle cause individuali o sociali del reato, hanno la medesima struttura: muovono da un fenomeno, un evento, un comportamento e si chiedono cosa lo abbia prodotto. Ciò conduce a sviluppare teorie eziologiche della criminalità in cui si saldano la convinzione che i reati abbiano cause specifiche ben individuabili e la fiducia circa la possibilità di eliminare i reati stessi attraverso la rimozione di tali cause, cioè adottando determinate politiche criminali anziché altre. Per la concezione positivista la criminalità è la manifestazione di una patologia individuale che qualche volta può essere ricondotta a un’origine sociale. Questa impostazione capovolge quella della scuola classica secondo la quale la sola differenza tra il criminale e il non criminale è un evento contingente: l’uno ha scelto occasionalmente di commettere un reato, mentre l’altro non lo ha fatto. La scuola positiva rigetta l’assunzione che gli individui siano caratterizzati in primo luogo da un intangibile e non esplorabile nucleo di creatività e di scelta. Per essa gli esseri umani hanno una «personalità» o un «carattere» che non è un elemento unitario e indipendente ma piuttosto qualcosa di complesso e soprattutto qualcosa di conoscibile scientificamente e di manipolabile: la conoscenza scientifica del carattere dei soggetti consente infatti, secondo i criminologi positivisti, di sviluppare tecniche capaci di trasformare la personalità intervenendo sui suoi elementi determinanti. Sulla base di queste assunzioni viene affermato, come se fosse una verità autoevidente, che i delinquenti sono esseri distinti da caratteri speciali. Facendo perno sulla nozione di «patologia» i criminologi positivisti fissarono una precisa norma di «salute» sociale e individuale e collocarono il «criminale» al di sotto di questo standard. La presunzione di combattere la criminalità rimuovendone le cause mostra come la criminologia ignori quasi completamente i processi sociali attraverso i quali la legge penale è prodotta e modificata; i meccanismi attraverso i quali determinati valori sociali sono recepiti nelle definizioni legali dei reati a scapito di altri valori; i processi attraverso i quali la legge penale è applicata; i rap- 75 copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna 76 CAPITOLO 3 porti che legano le reazioni sociali alla criminalità e che determinano l’adozione di una politica criminale piuttosto che di un’altra. I criminologi positivisti sostennero che la criminalità è un dato naturale e sociale che preesiste alle definizioni legali di reato e sostennero che il loro studio della realtà oggettiva del fenomeno criminale non interferiva con il fenomeno così come lo studio dei fisici non interferisce con la caduta dei gravi. Essi quindi si rifiutarono di prendere atto che ciò che è definito comportamento criminale (il delitto) cambia nel tempo e nello spazio, ciò che era delitto nel passato non lo è più oggi, ciò che è reato per un ordinamento giuridico non lo è per un altro, e del fatto che le reazioni ai reati degli apparati penali (il castigo) e delle istituzioni del controllo sociale mutano a seconda del tempo e del luogo. Essi si rifiutarono in altre parole di riconoscere che l’oggetto del loro studio, lungi dall’essere un dato naturale, è definito dall’apparato statale (potere legislativo, organi giudiziari, forze di polizia) sulla base di determinati valori. Per quanto concerne la politica criminale la criminologia positivista favorì e perorò un netto salto qualitativo e quantitativo. Una volta assunto che all’origine dei delitti sta un elemento, la criminalità, scientificamente analizzabile, si può pensare di passare da una politica criminale basata sul castigo per i delitti commessi a una seria politica di prevenzione ante delictum. Beccaria aveva proclamato che lo scopo del «sistema legislativo» doveva essere quello di prevenire i delitti, piuttosto che di punirli. Ma il fatto stesso che avesse affidato questo compito al sistema legislativo indica che a suo parere la prevenzione, coerentemente con il paradigma liberale, si doveva basare esclusivamente sulla minaccia della pena. L’idea di agenzie statali incaricate di controllare gli individui per prevenire i delitti appariva inconciliabile con l’ordine liberale. La stessa attività di polizia era vista dagli illuministi come una pericolosa minaccia per la libertà individuale. La criminologia positivista invece promise una prevenzione fondata sulla scienza. Una volta in possesso di un criterio scientifico per individuare i criminali, attraverso tecniche identificative quali l’antropometria, le impronte digitali, i sistemi di segni per contraddistinguere con marchi indelebili i corpi degli ex rei, si potevano identificare i soggetti, che per quanto osservassero la legge, erano anormali, pericolosi e bisognosi di controllo. Diventava quindi del tutto legittimo sottoporre a restrizioni quei soggetti che manifestavano sintomi criminali come gli ubriachi abituali, i deboli di mente, i senza fissa dimora, gli epilettici ecc. Questa necessità di classificazione fece nascere un intero apparato di investigazione e ricerca che andava ben oltre le indagini della polizia giudiziaria e prevedeva varie forme di ispezione e ricerca necessarie nel nuovo sistema di istituzioni sociali. Le varie agenzie (gli uffici dei servizi sociali, gli ufficiali della sorveglianza ecc.) che si presero in carico i soggetti «a rischio» permisero di allargare enormemente l’ambito delle conoscenze disponibili per le autorità che arrivò a ricomprendere non soltanto l’autore del reato, ma anche la sua famiglia e la sua casa. Questo immane sforzo fu sostenuto dal miraggio di una società senza criminali. Il motore di questa politica fu la promessa di riformare la criminalità, di copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna CASTIGO E DELITTO 77 trasformare cioè l’individuo criminale adattandolo alla vita sociale e di curare la sua criminalità o, in casi estremi, di estinguerla sopprimendo, deportando o semplicemente segregando a vita il criminale incorreggibile. Il successo di queste due strategie (da attuarsi attraverso mezzi quali prigioni capaci di riformare, sentenze a tempo indeterminato, programmi di prova sorvegliati, varie forme di detenzione preventiva, eliminazione parziale o completa attraverso la deportazione, la sterilizzazione o la soppressione) avrebbe portato a una graduale eliminazione della criminalità dalla società. 4. LA SOCIOLOGIA DURKHEIMIANA: LA PENA COME MANIFESTAZIONE DELLA COSCIENZA E LA DIVISIONE ANOMICA DEL LAVORO Un discorso diverso deve essere fatto per la teoria di Durkheim. I padri fondatori della sociologia manifestarono un forte scetticismo verso gli approcci classici al problema dell’ordine sociale elaborati dalla filosofia politica liberale. In particolare criticarono come irrealistico il fatto che sia l’impostazione hobbesiana sia quella smithiana ponessero a fondamento dell’ordine sociale una psicologia in forza della quale gli individui avrebbero trovato conveniente compiere determinate azioni grazie agli incentivi e alle sanzioni connessi alle opzioni disponibili. Durkheim, come Max Weber, obiettò in sostanza che l’operare di entrambi i meccanismi di controllo sociale (lo stato e il mercato) su cui faceva perno la teoria liberale presupponeva che il problema dell’ordine sociale fosse già stato risolto. La base dell’ordine sociale doveva essere piuttosto cercata nell’interiorizzazione dei valori. Secondo la tesi che si faceva largo, un individuo non compie una determinata azione perché ha pensato di ricavarne la maggiore utilità possibile ma, nella maggioranza dei casi, perché non si è proprio soffermato a valutare le alternative, trovandole prima facie moralmente o praticamente inaccettabili. La coesione sociale non è, e non può essere, il frutto di apparati repressivi o di meccanismi incentivanti, ma si fonda su una sorta di pedagogia sociale non autoritaria, che porta all’inibizione spontanea di sentimenti egoistici. L’ordine sociale, in altri termini, non è il frutto di uno stato o di un mercato onnipresenti, ma dell’operare diffuso di organismi sociali che si autogestiscono. In questo quadro si sviluppa la teoria di Durkheim sulla pena. Per questo autore il delitto è un dato oggettivo ma non naturalistico. La linea di demarcazione del crimine può essere ricavata sì dall’analisi dei fatti, ma di un tipo particolare di essi: i fatti sociali. La specificità dell’approccio sociologico sta, come scrive Dal Lago [1981, 8] nell’invenzione «di un meccanismo autonomo e legittimato come produttore di realtà, fenomeni e comportamenti, la “società”». Per Durkheim non sono i soggetti, come sostiene la teoria liberale, il centro e il nucleo generatore dell’ordine, ma è l’ordine che dal suo interno «produce» le diverse individualità: quella fra soggetto e società è considerata un’antitesi falsa, l’autonomia individuale è lo specifico prodotto della forma moderna di solidarietà sociale. copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna 78 CAPITOLO 3 Appoggiandosi all’idea di organizzazione naturale e autonoma della società, Durkheim ha cercato di delineare una normatività sociale legittima e non dispotica. L’oggetto della sua analisi non è il «criminale» e le sue determinanti biologiche e sociali, ma la dimensione macrosociologica del nesso tra delitto e castigo. Il fenomeno della repressione penale viene sottratto a una interpretazione di tipo naturalistico-oggettivo per essere collocato all’interno dei meccanismi che garantiscono l’omogeneità sociale e una determinata gerarchia di differenziazioni dovuta all’organizzazione del lavoro. In questa prospettiva il delitto cessa di essere un evento patologico, per assurgere allo status di prezzo normale da pagare per l’integrazione di una società complessa. Per il sociologo francese il crimine svolge addirittura una funzione positiva: quella di risvegliare quei sentimenti che costituiscono il collante di una società [Durkheim 1895; trad. it. 1979, 72-78]. La convinzione che il «crimine è un fenomeno normale e non patologico» è assolutamente incompatibile con l’approccio criminologico. Infatti «se il crimine non è una patologia lo scopo della pena non può essere quello di “curarlo”». È chiaro che negando la funzione terapeutica dell’intervento repressivo si mette in discussione l’essenza stessa della criminologia. Secondo il sociologo francese tutti i reati, per quanto differenti possano sembrare le azioni così definite, devono avere «un fondo comune» dal momento che provocano una reazione comune: la pena. Questo «fondo comune» a tutti i reati consiste nel fatto che essi frustrano emozioni e violano sentimenti che sono profondamente insediati nella maggior parte dei membri della società. Questa è la celebre teoria di Durkheim: ogni società considera «crimini» quegli atti che violano la propria conscience collective 2. Tutte le società, sostiene il sociologo francese, hanno un proprio codice morale fondamentale che considerano sacro e gli atti che lo violano provocano una reazione punitiva: «non bisogna dire che un atto urta la coscienza comune perché è criminale, ma che è criminale perché urta la coscienza comune. Non lo biasimiamo perché è un reato, ma è un reato perché lo biasimiamo» [Durkheim 1893; trad. it. 1962, 103]. I «crimini» sono quegli atti che violano il codice morale fondamentale della società, sono «offese morali» che turbano profondamente «tutte le coscienze sane», suscitando una richiesta di punizione che non può essere soddisfatta da forme lievi di reazione sociale. Le violazioni di regole sociali che non fanno parte del codice morale fondamentale danno invece origine a sanzioni «restitutive» e «regolatorie». Il «simbolo che esprime e riassume» le somiglianze interindividuali necessarie per garantire la stabilità del corpo sociale è, secondo il sociologo francese, la legge. Essa e il tipo di sanzioni che prevede rappresentano l’indicatore dell’«ordine morale» vigente in una determinata società. Le sanzioni penali sono per Durkheim l’«indice visibile» che permette di trattare la «coscienza copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna Durkheim definisce la coscienza collettiva come «l’insieme delle credenze e dei sentimenti comuni alla media dei membri della stessa società». Un tale insieme forma «un sistema determinato che ha una vita propria» [Durkheim 1893; trad. it. 1962, 101]. 2 CASTIGO E DELITTO collettiva» non come un termine generico, che designa una pluralità di intuizioni e categorie morali condivise dai membri della comunità, ma come un «fatto sociale», che può essere osservato e studiato direttamente in modo scientifico. Le leggi penali non hanno dunque lo status di mere convenzioni regolative ma quello di proibizioni sacre fondate su un diffuso consenso: «i sentimenti collettivi ai quali corrisponde il reato» non sono il frutto di «velleità esitanti e superficiali, ma di emozioni e di tendenze fortemente radicate in noi» [ibidem, 100]. Nelle società primitive come nelle moderne società liberali secondo Durkheim [1925; trad. it. 1969, 608] la pena non è uno strumento deterrente ma un modo di comunicare un messaggio morale e di manifestare la forza dei sentimenti che gli stanno dietro. Lo scopo della pena non è quello «di fare scontare al colpevole la colpa facendolo soffrire, né di intimidire con mezzi comminatori gli eventuali imitatori, bensì di rassicurare quelle coscienze che la violazione della norma ha potuto, ha dovuto necessariamente turbare nella loro fede». Prima che una funzione immediata di controllo del crimine, la pena ha una funzione di preservazione del sistema e questo, in termini sociologici, è più importante. Nel reagire a particolari crimini la pena assolve al compito di sostenere il sovrastante ordine morale e di prevenire la sua erosione e il suo collasso. Questa è la ragione per cui perfino quando il costo richiesto per punire un’offesa appare superiore al danno diretto causato da essa, la pena è necessaria. Il fatto che le passioni provocate dal crimine vengano tutte espresse allo stesso tempo e in modo collettivo fa sì che esse si rafforzino vicendevolmente e diventino più omogenee. Il crimine, permettendo alle passioni morali condivise di esprimersi, costituisce l’occasione che dà loro modo di rinforzarsi e rassicurarsi mutuamente. Il violento manifestarsi del sentimento comune, concentrato e organizzato nei rituali punitivi, rafforza la solidarietà, crea una spontanea riaffermazione delle credenze comuni e delle relazioni reciproche che serve a rafforzare il legame sociale. Questo ragionamento porta Durkheim a sostenere, in Les règles de la méthode sociologique, la tesi della «normalità» del crimine. La violazione delle regole morali fondamentali viene infatti a essere vista come un momento necessario per la definizione da parte di ogni società del proprio sacro ordine morale. Il crimine rende la società consapevole del proprio ordine morale e la pena assume il ruolo di strumento attraverso il quale una società definisce i confini della propria coscienza collettiva. La tesi della «normalità» del crimine implica dunque quella della inevitabilità della reazione penale; senza una tale reazione verrebbe meno la coscienza collettiva e quindi si disintegrerebbe la società. La solidarietà che la moderna pena detentiva protegge è la solidarietà organica, cioè una solidarietà che si fonda sulla cooperazione fra le parti sociali, sull’interdipendenza tra i diversi componenti della società. È dalla consapevolezza che la cooperazione fra gli individui costituisce il perno dell’organizzazione sociale che nasce quella «religione dell’individuo», quel rispetto sacro per l’individuo e la sua autonomia che il moderno diritto penale protegge e 79 copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna 80 CAPITOLO 3 sanziona. Quella descritta da Durkheim è una società in cui la solidarietà non esclude la proprietà e non cancella la concorrenza: ne corregge gli eccessi e in un ottimistico quadro evolutivo prefigura una graduale sostituzione della collaborazione al conflitto. Frutto dell’evoluzione e della logica stessa della convivenza, la cooperazione è un fatto essenzialmente spontaneo: sono i soggetti che, consapevoli del ruolo della società e dei vantaggi della cooperazione, la perseguono liberamente. Allineato sotto questo profilo con lo spirito del tempo, Durkheim sostiene che il diffondersi del principio contrattuale significa la progressiva contrazione della conflittualità e l’estensione della collaborazione. Il movimento «dallo status al contratto», per usare la celebre frase di Henry Sumner Maine, è in primo luogo ai suoi occhi il passaggio da una collaborazione coattivamente imposta attraverso il diritto penale a una collaborazione spontanea sanzionata al massimo con il risarcimento del danno. L’ordine sociale democratico viene a identificarsi nella spontanea cooperazione di soggetti eterogenei. Secondo l’utopistica visione che emerge dalla pagine della Division du travail social, in un ordine sociale perfetto, caratterizzato da una spontanea divisione del lavoro, l’assegnazione delle varie occupazioni si accorderà con le attitudini individuali e non creerà disagio sociale. Alla tesi che il castigo svolge un fondamentale ruolo di definizione simbolica dell’ordine eticopolitico l’analisi durkheimiana affianca dunque una teoria dei nessi tra divisione del lavoro e criminalità. Se i delitti sono un attentato alla coscienza collettiva su cui si fonda una società integrata, essi sono sintomo di una mancata accettazione del proprio ruolo sociale, della propria collocazione nella gerarchia delle funzioni. Nelle moderne società industrializzate il «criminale» rifiuta la propria collocazione sociale, mette in discussione un ordine fondato sulla differenziazione delle opportunità e delle gratificazioni, rifiuta l’organizzazione sociale fondata sulla specializzazione e sulla divisione gerarchica dei ruoli. Questo rifiuto deriva secondo Durkheim dalla divisione «anomica» del lavoro, esso può cioè essere superato armonizzando la diversificazione dei ruoli e delle specializzazioni sociali con le doti innate dei soggetti. Il comportamento criminale non sarebbe dunque altro che uno degli effetti della natura forzata della divisione del lavoro. In una società in cui i ruoli fossero distribuiti secondo i meriti biologici e le propensioni naturali l’insoddisfazione non avrebbe ragione d’essere. Nel corso del Novecento l’analisi durkheimiana dell’anomia prenderà il sopravvento su quella della pena dando vita a quello che è stato definito «il paradigma sociale». Questo paradigma ha l’indubbio vantaggio, rispetto ai paradigmi economico e giuridico, sui quali si fonda la giurisprudenza classica, di non dover ricorrere a una legittimazione arbitraria e mitica come il contratto sociale. E rispetto alla criminologia ha il vantaggio di non essere costretto ad assumere implicitamente come normativo lo status quo esistente. Diversamente dalla teoria liberale classica e dalla criminologia, la teoria durkheimiana non assume infatti come elementi primi né il mercato né il contratto sociale e neppure un arbitrario modello di personalità, ma sembra procedere in modo molto lineare: muove dagli elementi più immediati della società (il lavoro, la divisione delle funzioni, la famiglia), descrive la loro evoluzione (la modernità copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna CASTIGO E DELITTO 81 e l’aumento della complessità) e redige l’inventario delle loro disfunzioni (la patologia sociale, la povertà, il crimine, i conflitti). La centralità dell’opera di Durkheim per la sociologia della devianza e della pena del Novecento è dovuta soprattutto al fatto che il sociologo francese fonde l’ossessione per «ciò che tiene insieme la società» [Parsons 1967; trad. it. 1971, 9], producendo e organizzando le coscienze dei singoli, con il problema dell’autoregolazione e dell’autocontrollo individuale. È questa impostazione che ha reso per molti aspetti relativamente non problematica l’assimilazione del «paradigma sociale» da parte della criminologia. Nozioni elaborate dalla tradizione sociologica, come «normalità» e «patologia», «devianza» e «controllo sociale», «anomia» e «marginalità», hanno ormai assunto uno statuto di ovvietà e si sono intrecciate con quelle di matrice criminologica. Assieme a esse sono oggi normalmente impiegate nei settori del lavoro sociale, dell’assistenza sociale, della psichiatria, della scuola ecc. 5. DAL CRIMINALE AL DEVIANTE Le basi del «paradigma sociale» sono poste negli anni Trenta dal sociologo americano Talcott Parsons che fonde approccio durkheimiano e impostazione consensualista sostenendo che ogni sistema sociale si regge necessariamente su un forte consenso intorno ai valori istituzionalizzati e sulla piena accettazione da parte di tutti gli individui del proprio ruolo sociale. Richiamandosi a Durkheim e probabilmente influenzato dall’atmosfera conflittuale dominante negli Stati Uniti in quel periodo, Parsons sottolinea l’importanza del consenso morale per l’unità e la coesione sociale. Di fronte alla crisi di quegli anni non invoca l’intervento dello stato e della coercizione, ma propone la visione di una società libera da tensioni e da conflitti; descrive, e al tempo stesso prescrive, una società civile più unitaria e consensuale. Solo l’esistenza di un insieme di valori fondamentali condivisi da tutta la società può, a suo parere, controbilanciare l’egoismo esasperato dei singoli e dei gruppi. Il consenso sui valori fondamentali non è più dovuto alla loro universalità e razionalità, come sostenevano le teorie liberali settecentesche. Quella di Parsons è una teoria consensualista sociologizzata e relativizzata; tuttavia continua a configurare il riconoscimento dei valori, non più universali ma di una specifica società, come un dato imprescindibile. Questo approccio sopprime quello spazio di critica sociale che nel sistema durkheimiano era lasciato dalla possibile discrasia tra divisione del lavoro effettivamente esistente e quella idealmente corrispondente ai meriti e alle propensioni degli individui. Le implicazioni di questo modello teorico per l’analisi del delitto sono evidenti. Ogni atto o comportamento che non corrisponde a precisi bisogni del sistema sociale, che delude le aspettative sviluppate dagli altri consociati sulla base del ruolo sociale ricoperto dall’attore è concettualizzabile come un atto criminale. Il processo attraverso cui a un’azione vengono attribuite determinate caratteristiche e la definizione del delitto sono privati di ogni valenza politico-giuridica e copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna 82 CAPITOLO 3 ridotti a una necessità sistemica. Gli aspetti particolari della singola azione vengono tralasciati, non sono rilevanti né le sue modalità concrete né il significato che essa ha per il suo autore o per l’ambiente specifico di cui egli fa parte 3. L’unica cosa che conta è che essa, contrastando con i valori istituzionalizzati e le aspettative sociali consolidate, è nociva alla società nel suo complesso, e quindi da evitare. Questa impostazione porta ad allargare a dismisura la nozione di delitto, a dissolvere la nozione di «criminalità» in quella più ampia di «devianza» 4. Il concetto di «devianza» diventa la lente attraverso cui è possibile leggere e analizzare tutti quei fenomeni che sembrano contraddire l’assunto di un consenso unanime, di una perfetta integrazione sociale. In una società stabile e integrata come quella descritta da Parsons le cose accadono, ma sono costantemente sotto controllo. Il disturbo è ricondotto esclusivamente a imponderabili interferenze. La spiegazione della devianza, della non conformità alle norme, risulta difficile ed estranea alla teoria parsonsiana. Non ci sono infatti nel sistema del sociologo americano gruppi che si contrappongono: ci sono solo conflitti tra individuo e sistema sociale dovuti alla inadeguata socializzazione del singolo soggetto. La società è interpretata come sistema organizzato attorno a norme e valori istituzionalizzati il cui scopo è essenzialmente il mantenimento dell’equilibrio esistente attraverso l’autoregolazione collettiva: non esistono per definizione conflitti di tipo strutturale che esprimono il dissenso di gruppi sociali, ma solo situazioni marginali e individuali di cattiva integrazione, di «devianza». La figura del deviante non si può che ricavare in negativo da quella di soggetto socialmente integrato, del soggetto cioè che riesce ad adattarsi alla normatività sociale attraverso processi di sublimazione e di rimozione-repressione dei propri istinti. L’impostazione social-consensualista di Parsons assume che ogni sistema sociale sia fondato sul consenso escludendo a priori che l’organizzazione di una società possa generare conflitto: il conflitto, infatti, presume almeno un certo grado di dissenso riguardo ai valori. La varietà culturale è assunta dal sociologo americano come un dato puramente negativo, un momento disfunzionale non indagato nel suo concreto manifestarsi5. La dinamicità sociale è affidata quasi Non a caso le prime reazioni alla teoria parsonsiana si richiameranno alla teoria dell’associazione differenziale elaborata da Sutherland e daranno vita agli studi sulle subculture, sottolineeranno cioè la pluralità delle culture che fanno da contesto alle concrete azioni dei singoli. 3 4 Esemplare è la definizione di devianza di chiara matrice struttural-funzionalista data da Cloward e Ohlin nel loro studio sulla delinquenza minorile: «ogni atto deviante comporta la violazione di regole sociali che disciplinano il comportamento dei partecipanti in un sistema sociale. Esso consiste in una transazione comportamentale in cui l’attore viola i diritti della vittima quali sono definiti dal sistema di aspettative sociali legittime di cui fa parte il comportamento di ruolo della vittima stessa. La caratteristica principale di un atto deviante, in altre parole, è data dal fatto che esso non corrisponde al comportamento che la vittima è portata ad aspettarsi dagli altri in base alla propria posizione sociale» [Cloward e Ohlin 1960; trad. it. 1968, 4]. copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna Negli Stati Uniti il paradigma social-consensualista di Parsons costituirà la nervatura su cui si svilupperà a partire dalla fine degli anni Quaranta l’ideologia del melting pot, del grande crogiolo ove gli elementi più eterogenei devono trovare un modus vivendi non conflittuale, fondersi tra loro per dare vita a una società integrata e stabile che naturalmente non si discosti in modo significativo da quella santificata dall’ideologia wasp (cioè dei bianchi anglosassoni protestanti). 5 CASTIGO E DELITTO esclusivamente al succedersi delle generazioni: di qui l’enfasi posta sui problemi della socializzazione e della collocazione di ruolo, sul sistema educativo ecc. In The Social System, opera in cui sistematizza la sua teoria sotto l’influenza delle tesi di Sigmund Freud, Parsons fa assurgere la famiglia al ruolo di rappresentante del corpo sociale. La socializzazione dell’individuo attraverso il rapporto con il padre e la madre emerge come il processo attraverso cui la società trasmette ai suoi membri i valori sociali condivisi su cui poggia l’ordine sociale. Il sistema disegnato dal sociologo americano si presenta come un universo consensuale privo di smagliature: vi è un sistema di valori che coincide con il sistema sociale e che si perpetua evolvendosi lentamente e pacificamente attraverso la socializzazione dei bambini. Questo quadro rende molto difficile spiegare il mutamento sociale, specialmente quello rapido e tumultuoso, e rende ancora più difficile la spiegazione sociologica della devianza. Il sistema è di per sé perfetto, integrato e capace di adattarsi dinamicamente, il deviante non può che essere il frutto di una patologia, è colui che è stato segnato da una cattiva socializzazione e di conseguenza non è stato capace di una felice integrazione sociale. Come ha scritto Ralf Dahrendorf [1964, 216] il deviante è «il bacillo che attacca il sistema dalle buie profondità della psiche individuale o dai nebulosi paraggi del mondo esterno». L’uomo integrato è colui che, dotato di un Super Io perfettamente sviluppato, affronta con realismo e maturità la realtà, adattando i suoi desideri e le sue azioni ai ruoli sociali che occupa. Il ferreo controllo delle passioni trova la propria ricompensa in una facile integrazione sociale e nel successo che consegue dall’adesione senza remore ai ruoli funzionali in cui è strutturata la società. La genesi del comportamento deviante non può che essere individuale: la sua origine è psichica o tutt’al più confinata nella relazione genitori/bambino. Il delitto non ha altra giustificazione logica che la patologia del soggetto che lo commette: dato che il sistema è perfetto, integrato e quindi assicura a tutti un certo grado di socializzazione comune, chi devia ha male interiorizzato le norme, per una qualche ragione è stato socializzato imperfettamente. Il deviante è un individuo male adattato a causa di una qualche anomalia psichica (o uno «straniero» che non ha ancora appreso i valori della società che lo ospita). È evidente che con una tale conclusione Parsons mina le basi stesse dell’approccio sociologico, riducendolo in sostanza alla prospettiva della criminologia positivista con la quale Durkheim aveva duramente polemizzato. È vero che l’eziologia del crimine non viene ricercata, come facevano i criminologi positivisti, in un processo biopsicopatologico. La condotta deviante viene però spiegata esclusivamente in termini di disadattamento ai valori intorno ai quali la società si è integrata, di una difettosa interiorizzazione del senso di autorità, delle norme sociali (e quindi di quelle legali). Il criminale emerge dunque come un soggetto non sufficientemente socializzato, come colui che non riesce a reprimere i propri impulsi antisociali: è l’adulto per certi versi rimasto bambino. Il deviante palesa il suo difetto di socializzazione nell’incapacità di integrarsi. Se la conformità ai ruoli sociali deriva in ultima analisi nella difettosa interiorizzazione delle norme, il criminale è accomunato 83 copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna 84 CAPITOLO 3 al malato mentale, così come a ogni altro soggetto non conformista. L’ipostatizzazione del sistema sociale dominante conduce dunque all’unificazione di tutte le forme di devianza e alla loro connotazione come forme di comportamento psicologicamente disadattato. Vengono ricondotti a un unico processo i fenomeni più diversi ed eterogenei di disagio sociale: l’alcolismo come il vagabondaggio, gli attentati alla proprietà come il teppismo delle bande giovanili, le organizzazioni criminali mafiose e camorristiche come l’emarginazione degli anziani poveri, le nevrosi causate dall’alto livello di competitività negli ambienti di lavoro come l’intolleranza razzista, il terrorismo come il basso livello di scolarizzazione dei ragazzi di alcune fasce sociali, l’illegalità dettata dal bisogno come i crimini dei colletti bianchi, la corruzione politica come l’assunzione di stupefacenti ecc. Riducendo tutti questi fenomeni a un problema strettamente individuale, patologico, come faceva la criminologia positivista, il paradigma social-consensualista neutralizza la loro carica eversiva, la loro capacità di mettere in discussione l’organizzazione sociale vigente. Come nella criminologia positivista, i cui epigoni non a caso trovano nella sociologia parsonsiana un quadro ideale per le loro ricerche, lo status quo normativo è assunto come dato oggettivo e indiscutibile, l’ideologia delle classi dominanti è elevata a base della teoria scientifica. Il problema della devianza viene ridotto a un problema di soluzioni terapeutiche, la criminalità va affrontata potenziando gli apparati educativo-pedagogici e studiando pratiche di «rieducazione» del criminale. Nonostante queste caratteristiche, anzi proprio grazie a esse, il paradigma social-consensualista si impose negli Stati Uniti a partire dalla fine degli anni Quaranta con l’affermazione del welfare state come la base teorica della politica riformista in campo penale. Esso emerse come il paradigma dominante nel periodo, che va dal 1940 alla fine del 1960, che vide lo sviluppo più rigoglioso della criminologia statunitense. La criminologia di ispirazione parsonsiana si presentò come un teoria progressista consapevole dei nessi strutturali tra economia politica e politica sociale, che legava la soluzione dei problemi di disagio sociale a una politica di riforme sociali, che considerava l’obiettivo della giustizia sociale come il momento fondamentale e prioritario nella lotta alla criminalità. Infatti solo questo obiettivo, solo la creazione di uno stato del benessere e della sicurezza sociale poteva rendere plausibile lo sviluppo di un consenso tale da giustificare un’ipotesi di giustizia penale come difesa sociale, come difesa, cioè, degli interessi dei più dall’aggressione di una minoranza di soggetti devianti, di individui non integrati. Questa politica, come tutte le politiche welfariste, ebbe due facce tra loro interdipendenti. Da un lato mirò, attraverso misure economiche di tipo keynesiano, a razionalizzare l’organizzazione del lavoro riducendo la conflittualità sociale. Dall’altro cercò di isolare le classi e i ceti sociali che non si riusciva comunque a coinvolgere nel processo produttivo. La riduzione delle disuguaglianze economiche attraverso una politica di ridistribuzione del reddito e di un ampliamento dei servizi sociali marciò di pari passo con la ghettizzazione di quei soggetti considerati non integrabili e quindi potenziali generatori di conflitti sociali. copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna CASTIGO E DELITTO 85 6. LA COSTRUZIONE SOCIALE DELLA DEVIANZA: LA «LABELLING THEORY» Con le politiche welfariste negli Stati Uniti si verificò una trasformazione delle agenzie statali di controllo: fu ridotto il peso, se non l’estensione, degli apparati segregativi e contemporaneamente venne favorito il proliferare di agenzie di controllo che operavano sul territorio. Si sviluppò una rete sempre più estesa di strutture il cui carattere assistenziale si accompagnava necessariamente a un controllo pervasivo della vita quotidiana. Lo sviluppo di questo «stato di polizia» dal volto umano e caritatevole creò nel corso degli anni Settanta la percezione che l’approccio riformista legittimava «un liberalismo delle buone intenzioni»: un liberalismo che in quel periodo si faceva sostenitore di tecniche per la modificazione del comportamento dei devianti sempre più intrusive, dipingendole come un nuovo stadio della tradizione riformatrice. L’avversione per queste proposte, innestandosi sull’insofferenza emersa negli anni Sessanta per la crescente invadenza delle politiche sociali, finì per modificare l’atteggiamento verso le dimensioni raggiunte dallo stato moderno: le vicende storiche non solo della prigione e del manicomio, ma anche della scuola, dell’ospedale e delle altre istituzioni assistenziali, dato che lo stato si era fatto carico di molte di loro, cominciarono ad apparire più facilmente comprensibili come segmenti di una storia del Leviatano statale che non come parti di una sequenza di riforme tese a soddisfare le esigenze dei singoli. Questo radicale capovolgimento di prospettiva fu senza dubbio favorito dall’affermazione nel corso degli anni Sessanta della labelling theory che aveva minato il dominio dell’ideologia correzionalista e, di conseguenza, della criminologia. Secondo la labelling theory i metodi formali di controllo sociale non dovevano essere considerati come strumenti prevalentemente reattivi, come un meccanismo riparatore che entrava automaticamente in funzione quando le altre misure fallivano, ma come una forza attiva nel configurare l’essenza stessa del crimine e della devianza. Il nucleo di questa impostazione è ben reso dalla celebre presa di posizione di Edwin Lemert. Mentre la vecchia sociologia «tendeva a rimanere ancorata all’idea che è la devianza a dar luogo al controllo sociale», Lemert [1967; trad. it. 1981, 1] afferma di essere «giunto a credere che l’idea inversa (e cioè che è il controllo sociale a dar luogo alla devianza) è altrettanto sostenibile e che costituisce una premessa più feconda per lo studio della devianza nella società moderna». Come sostiene David Matza [1969; trad. it. 1976, 227] in un famoso passo di Becoming Deviant, ci si rese conto che gli studi sulla devianza di matrice parsonsiana avevano prodotto il sorprendente risultato di separare lo studio del crimine da quello dello stato, avevano dato vita a una nozione di controllo sociale senza storia e senza politica. La labelling theory, con il suo capovolgimento di prospettiva tra devianza e reazione sociale, nasce come un tentativo di ricondurre la devianza nell’ambito dei fenomeni spiegabili sociologicamente. Da un lato essa cerca di recuperare l’idea del controllo sociale come un processo costitutivo dell’identità individuale propria della Scuola di copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna 86 CAPITOLO 3 Chicago, dall’altro tende a caratterizzare il controllo sociale come un processo articolantesi prevalentemente attraverso un’attività istituzionale. Muovendosi nell’ambito del paradigma interazionista i labelling theorists sostennero che una teoria veramente utile per la comprensione dei comportamenti devianti doveva partire dalla constatazione che l’integrazione non è lo stato naturale del sistema: l’integrazione è ottenuta, e solo in modo parziale, mediante varie tecniche che si incontrano nell’interazione quotidiana e che permettono a determinati soggetti e gruppi di esercitare la costrizione e il dominio su altri gruppi e soggetti. In questa prospettiva cosa è devianza non è un dato predefinito ricavabile a contrario dalla struttura dell’organizzazione sociale; che cosa viene etichettato in un determinato contesto e le conseguenze che ne derivano rappresentano invece uno dei principali indicatori per capire l’organizzazione sociale. Come scrive Erikson [1966, 6], per i labelling theorists, la devianza non è una proprietà inerente a qualche particolare forma di comportamento; è una proprietà conferita a quel comportamento dalla gente che viene a contatto diretto o indiretto con esso. Il solo modo, dunque, in cui un osservatore può dire se un dato tipo di comportamento è deviante o no, è di imparare qualcosa sugli standard di comportamento della gente che reagisce a esso. La prospettiva struttural-funzionalista è dunque capovolta, si deve muovere non dalla supposta esistenza di norme condivise, ma dall’esame delle norme che concretamente nell’interazione quotidiana sanzionano i rapporti sociali. Non esiste un ordine sociale basato su valori condivisi, l’unica cosa che esiste è il processo di interazione attraverso cui le definizioni sono attribuite a certi comportamenti umani. Il paradigma interazionista comporta dunque lo spostamento dell’analisi dallo studio del fenomeno criminale come realtà ontologica, ai meccanismi sociali che definiscono quel comportamento o quel soggetto come criminale. Il deviante non è più visto come l’individuo psicologicamente male adattato, ma riacquista dignità di soggetto le cui motivazioni e modalità di agire vanno indagate in rapporto alla complessità del contesto sociale e alle sue contraddizioni. La criminalità, come ogni altro atto deviante, non ha nulla di oggettivo e naturale, è il prodotto di un giudizio che viene dato su alcuni comportamenti6. Il criminale, quindi, non è altro che colui che è definito tale. A parte questo etichettamento, chi commette un reato è in prima istanza in tutto simile agli altri soggetti, cioè ai non criminali, casomai ciò che lo trasforma, che lo copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna 6 Questa tesi è chiarita molto bene da un altro importante esponente della labelling theory, Howard Becker. Scrive Becker: «l’atto di iniettare eroina in una vena non è intrinsecamente deviante. Se un’infermiera dà a un paziente delle droghe dietro prescrizione del medico, è perfettamente in regola. È quando si fa una cosa in un modo che non è definito pubblicamente come appropriato che quel comportamento diventa deviante. Il carattere deviante di un atto risiede nel modo in cui questo atto è definito dalla mentalità pubblica» [Becker 1971, 341]. CASTIGO E DELITTO differenzia dal cittadino onesto, è proprio l’etichettamento che subisce e le conseguenze che ne derivano. È evidente che se un atto è criminale soltanto perché è definito tale e non perché è manifestazione di una natura criminale o perché è oggettivamente socialmente disfunzionale, allora è impossibile ridurre la criminalità a fattori criminogeni, siano pure la sola deficienza di socializzazione. L’approccio interazionista mina in prima istanza il fondamento di ogni teoria eziologica del crimine, rende impossibile la spiegazione causale del delitto. Per questo motivo l’interesse dei labelling theorists si concentra sul processo di interazione tra chi ha il potere di definire un atto o un comportamento o un soggetto come criminale o deviante e colui che subisce questa definizione, cioè colui che viene etichettato come criminale o deviante. Se c’è un elemento a cui i labelling theorists riconoscono una valenza causale nella spiegazione della devianza questo è proprio il processo di criminalizzazione. Lemert in particolare, muovendo dalla teoria della personalità come costruzione sociale, elaborata da Mead sulla scia di alcune suggestioni di Cooley, sostiene che il controllo sociale induce alla devianza (secondaria) in quanto l’interazione con gli addetti al controllo opera una trasformazione dell’identità degli individui spingendoli a vedersi come devianti. Muovendo dall’idea che la coscienza che un soggetto ha di se stesso e, di conseguenza, il suo comportamento intenzionale sono strutturati dal modo in cui gli altri lo vedono e interagiscono con lui, Lemert sostiene che gli individui possono essere spinti a comportarsi come criminali perché sono trattati come tali. Assumendo la malleabilità sociale dell’identità individuale, la sua permeabilità alla modalità dell’interazione sociale, la teoria della «devianza secondaria» sostiene che chi ha violato occasionalmente una norma penale probabilmente non commette altri reati. Se però questo soggetto incappa nelle maglie delle agenzie di controllo sociale e viene definito un criminale o un deviante (un alcolista, uno schizofrenico ecc.) è probabile che si scontri con un mondo che si pone in relazione con lui sulla base di questa etichetta e che sia indotto da questo comportamento a vedere se stesso in questi termini: potrebbe aderire all’identità di criminale che socialmente gli è imposta. Il criminale che viene definito come violento e trattato come tale, secondo questa tesi, finirà per credersi realmente violento e quindi per comportarsi in modo violento. Se la criminologia positivista e quella struttural-funzionalista assumevano come dato indiscutibile lo status quo etico-legale, proponendosi così come difesa dei valori e degli interessi della maggioranza, i labelling theorists ribaltano completamente questa prospettiva presentando in termini quasi esclusivamente negativi la politica criminale. L’approccio interazionista delegittima l’intervento punitivo dello stato privandolo dell’aura di difensore dei valori socialmente condivisi e dell’ordine sociale, arrivando con la teoria di Lemert addirittura a colpevolizzarlo, a considerarlo la causa del male che pretende di «curare». Infatti, se gli individui acquistano la propria identità in base alle modalità con cui sono trattati, allora tutto l’apparato che la società adopera per combattere il reato crea la diversità tra onesto cittadino e criminale: produce 87 copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna 88 CAPITOLO 3 quella soglia che distingue l’autore di un singolo atto illegale o deviante dal soggetto «criminale» o dal soggetto «deviante». Se la criminologia tendeva a giustificare l’operato delle forze di polizia in nome della prevenzione criminale e legittimava il carcere come strumento di difesa sociale, l’approccio interazionista non solo denuncia come ideologiche queste tesi, sostenendo che l’azione di controllo della polizia non previene la criminalità e che il carcere non rieduca, ma soprattutto sottolinea che l’attività di controllo sociale criminalizza i soggetti e che il penitenziario lungi dal configurarsi come un luogo di trattamento umano e risocializzante produce prigionizzazione, e quindi recidivi, ed esercita una forte violenza psicologica che destruttura la personalità degli internati [Pavarini 1980, 105-107]. 6.1. La sociologia delle istituzioni totali: prigionizzazione e destrutturazione dell’identità Accanto alle teorie sulla devianza un forte impatto non solo teorico ma anche politico ebbero a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta gli studi di matrice interazionista sul carcere e più in generale sulle istituzioni totali. Queste analisi privarono della sua «ovvietà» il fatto che oggi una grande quantità di persone venga imprigionata per lunghi periodi di tempo. Fino a quando il carcere moderno viene presentato come l’ultima tappa di un processo che ha portato a lasciarci alle spalle le immagini dello squartamento, delle fustigazioni pubbliche, della gogna o dei galeotti incatenati ai remi, esso appare come un’alternativa più umana alla brutalità delle pene corporali e allo stato di abbandono che l’incarcerazione comportava in passato. Le privazioni e le frustrazioni derivanti dalla vita carceraria sembrano normalmente la giusta, se non addirittura troppo mite, punizione che la comunità infligge a chi viola la legge. E non appare per nulla paradossale che la società abbia scelto di «rieducare» il criminale costringendolo ad associarsi con centinaia di altri criminali per anni. Una volta però che si comincia a esaminare il concreto funzionamento del carcere e delle istituzioni totali tutte queste assunzioni appaiono difficilmente sostenibili. Percorrendo la strada segnata da Tocqueville, Gresham Sykes [1958, 242], autore di un importante studio su un carcere di massima sicurezza, aveva già sottolineato che se si analizza nel dettaglio la vita all’interno delle carceri ci si rende conto che le privazioni e le frustrazioni della prigione moderna «possono essere tanto dolorose quanto i maltrattamenti fisici che hanno sostituito». I maltrattamenti psicologici si notano «meno facilmente che il percuotere sadicamente, un paio di ceppi nel pavimento, o un uomo incatenato alla mola, ma la distruzione della psiche non è meno spaventosa dell’afflizione del corpo». Il punto di riferimento di molte delle analisi delle istituzioni totali condotte negli anni Sessanta e Settanta è The Prison Community, l’importante volume pubblicato da Donald Clemmer [1941]: quest’opera muove dalla convinzione copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna CASTIGO E DELITTO che per comprendere il senso della vita del carcere si deve guardare a ogni istituto penitenziario come a una società nella società. È infatti impensabile che molti individui rinchiusi insieme per un lungo periodo di tempo non diano vita a un microsistema sociale capace di sviluppare, nei limiti dell’ordine sociale imposto dalle guardie, un proprio peculiare ordine informale. Studiando il carcere di massima sicurezza dell’Illinois del sud come se fosse una microsocietà, Clemmer [ibidem] riesce a mettere in luce la complessa trama di interrelazioni esistenti tra la prigione e il suo ambiente locale, regionale e nazionale. E riesce a mostrare come le variabili esterne, in particolare l’ambiente economico e sociale da cui provengono i detenuti, influenzino fortemente la vita interna del carcere creando forme di divisione di classe tra i detenuti. Se per il suo carattere etnografico l’analisi di Clemmer non si presta a essere generalizzata, essa contiene nondimeno una tesi forte: il carcere non ha alcun potere rieducativo, ma tende anzi a produrre delinquenti sempre più incalliti. Ogni speranza riabilitativa della detenzione, ogni fiducia nel lavoro svolto in regime di segregazione, avrebbe dovuto essere spazzata via dal suo studio. Clemmer coniò nel 1940 il termine «prigionizzazione» per mettere in luce i reali esiti della detenzione che sono ben lungi dall’essere di tipo «rieducativo» o «riabilitativo». Lavorando all’interno di un carcere Clemmer si accorse che la cultura carceraria, come ogni cultura, ha la capacità di perpetuare se stessa: i reclusi assorbono dunque la «cultura della prigione» che li rende ancora meno adatti di prima alla vita al di fuori delle mura del carcere, e meno capaci di seguire le regole e gli usi della vita «ordinaria». L’unico risultato della pena detentiva è dunque quello di «prigionizzare» i detenuti ossia di incoraggiarli o costringerli ad assorbire e adottare abitudini e costumi tipici dell’ambiente del penitenziario e solo di quello, instillando nei reclusi modi di vita nettamente diversi dai comportamenti che vengono promossi dalle norme culturali operanti fuori delle mura del carcere; la «prigionizzazione» è l’opposto stesso della «riabilitazione», il carcere è l’ostacolo maggiore sulla «strada del reinserimento». Gli studi etnografici americani sulla vita degli internati raggiungono il culmine con il celebre lavoro di Erving Goffman, Asylums [1961; trad. it. 1968]. Goffman considera i risultati della sua analisi, condotta nell’ospedale psichiatrico St. Elizabeth’s a Washington D.C., generalizzabili a tutte le «istituzioni totali». In questa categoria rientrano, oltre al carcere, quelle istituzioni, i cui «utenti» «non hanno violato alcuna legge» [ibidem, 29], che presentino le seguenti caratteristiche strutturali: 1. tutte le fasi della vita sono vissute nello stesso luogo e sotto il controllo di una sola autorità; 2. ogni fase dell’attività quotidiana si svolge alla presenza immediata di un folto gruppo di persone che sono trattate nello stesso modo e che devono eseguire tutte assieme le stesse azioni; 3. tutte le fasi dell’attività quotidiana sono strettamente programmate: un’attività termina quando ne comincia un’altra, e l’intera sequenza viene imposta dall’alto, da un esplicito sistema formale di regole e da un corpo di funzionari; 89 copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna 90 CAPITOLO 3 4. le varie attività imposte compongono un singolo piano disegnato per conseguire gli scopi ufficiali dell’istituzione [ibidem, 35-36]. Le istituzioni totali vengono definite nelle prime pagine di Asylums come luoghi «di residenza e di lavoro» in cui «gruppi di persone [...] – tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo – si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato» [ibidem, 29]. La loro caratteristica saliente è quella di essere i luoghi nella nostra società in cui «si costringono alcune persone a diventare diverse». Le istituzioni totali rappresentano, sottolinea Goffman, un vero e proprio «esperimento naturale su ciò che può essere fatto al Sé» [ibidem, 42, corsivo mio]. Questa manipolazione del Sé però non avviene, come voleva la retorica ottocentesca analizzata da Foucault, secondo un piano ben preciso mirante alla produzione del buon cittadino lavoratore. La tesi di Goffman è che le istituzioni totali non sono in grado di conseguire il loro fine istituzionale: la costruzione del cittadino disciplinato. In esse il potere non è esercitato in modo razionale in vista di quel fine. Questo rende la vita degli internati paradossalmente ancora più drammatica. Il Sé dei detenuti si trova infatti in balia del quotidiano esercizio di un potere confuso, a volte caotico, mirante a preservare il normale equilibrio dell’istituzione e riflettente i risultati del compromesso sempre in evoluzione tra i diversi gruppi interni in conflitto. 7. LA CRISI DEL «WELFARE STATE» E IL CAMBIAMENTO DELLE POLITICHE PENALI Nel corso degli anni Settanta anche i criminologi cominciarono a riconoscere il fallimento della pena come strumento di controllo del crimine. Per vie diverse arrivarono alla conclusione che non solo la prigione è uno strumento inefficace, ma che anche la liberazione anticipata, l’affidamento alla comunità, le multe ecc., non riuscivano a conseguire quella rieducazione del reo che i sistemi penali si erano posti come obiettivo primario. Si ebbe insomma la netta impressione che, per riprendere la conclusione di una celebre rassegna della letteratura dei primi anni Settanta, «niente funziona» [Martison 1974]. I primi studi condotti sulla recidiva, considerata il parametro fondamentale per verificare il grado di efficacia dei percorsi risocializzanti, sembrarono dimostrare il fallimento di tutte le strategie adottate. Più in generale le statistiche sembrarono indicare che il miglioramento delle condizioni di vita degli strati più bassi della popolazione prodotto dal welfare state non incideva sul tasso di criminalità. Questi risultati portarono alla messa in discussione dell’eziologia della deprivazione, di quella teoria cioè che riconduce la devianza a condizioni soggettive di svantaggio economicosociale. Si diffuse la sensazione che, contro ogni aspettativa, a un miglioramento generalizzato delle condizioni economiche e a un innalzamento sostanziale del tenore di vita aveva fatto seguito una crescita dei tassi di copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna CASTIGO E DELITTO criminalità, soprattutto di quel tipo di criminalità che si era considerata più strettamente connessa con la condizione di deprivazione: la criminalità di strada e la microcriminalità. La convinzione che i dati dimostrassero l’inesistenza del legame tra criminalità ed emarginazione ha fatto progressivamente venire a mancare ogni legittimazione politica alle strategie sviluppate nei vent’anni precedenti, sia quelle preventive sia quelle rieducative, lasciando un vuoto teorico che sembra incolmabile. Il diffondersi della consapevolezza del fallimento di tutte le moderne pratiche penali sembra per la prima volta comportare la messa in discussione della loro legittimità. Negli ultimi due secoli le analisi del fallimento delle istituzioni punitive e della loro irrazionalità erano state sempre condotte sullo sfondo di una proposta di riforma, ogni critica era stata accompagnata da un progetto che avrebbe contribuito a migliorare la funzionalità del sistema penale. Questo inno ottimistico al futuro si interrompe con l’entrata in crisi della nozione di «riabilitazione» che dal secondo dopoguerra era stata allo stesso tempo un fine e una giustificazione per le pratiche penali legittimandole agli occhi del pubblico: il sistema punitivo comincia ad apparire senza futuro, sembra aver perso senso. Entra in crisi la criminologia stessa intesa come scienza «normale» che affronta problemi definiti in modo autorevole e si concentra sull’elaborazione dei dettagli e delle sfumature delle istituzioni penali. La crisi di fiducia e di prospettive della criminologia coincide con l’esplosione della «crisi fiscale dello stato» [O’Connor 1973]: nel corso degli anni Settanta l’aumento dei deficit statali produce un drastico ripensamento delle politiche di matrice keynesiana e una forte contrazione della spesa sociale. Naturalmente, data la crisi in cui si dibatteva la criminologia, gli investimenti destinati al trattamento non immediatamente repressivo dei devianti sono i primi a cadere sotto la scure del contenimento della spesa. Questa situazione ha spianato la strada al successo delle tesi dei criminologi della nuova destra: la perdita di credibilità del paradigma eziologico ha lasciato lo spazio per un ritorno a Beccaria. Con il venir meno della fiducia nella possibilità di isolare le cause della devianza e di poter quindi intervenire per rimuoverle si è tornati a pensare che il criminale è un soggetto che in piena consapevolezza ha deciso di violare le norme sociali e penali. Si risolve la questione, che dall’avvento della criminologia positivista aveva rappresentato il cuore del dibattito criminologico, sul grado di autodeterminazione da riconoscere a chi commette un delitto tornando al punto di partenza: il criminale è un individuo pienamente in grado di decidere se tenere o meno un comportamento deviante. Nessun rilievo viene più attribuito alle sue condizioni sociali, al contesto nel quale agisce. Poco conta se è un individuo scarsamente socializzato o penalizzato dall’essere vissuto in un ambiente ostile. L’azione delittuosa è il frutto della decisione deliberata di un soggetto capace di scelte razionali. A questa impostazione corrisponde un netto cambio di politica criminale e in particolare della concezione del castigo: la pena non è più in primo luogo lo strumento per correggere il deviante attraverso un trattamento forzato più o meno 91 copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna 92 CAPITOLO 3 individualizzato. La deterrenza e l’intimidazione prendono il posto delle finalità riabilitative. Questa impostazione neoclassica ha comportato l’ampliamento delle fattispecie penali e l’inasprimento delle pene. Negli ultimi anni il numero di persone in stato di detenzione o in attesa di una probabile condanna è cresciuto rapidamente in quasi tutti i paesi nordoccidentali. In tutte le democrazie sviluppate si assiste a un incremento delle spese destinate alle «forze della legge e dell’ordine», in primo luogo alle forze di polizia e al personale carcerario adibito alla custodia, e si procede alla costruzione di nuove carceri. La progressione con cui cresce in questi paesi la quota della popolazione considerata in aperto conflitto con la giustizia, che andrebbe quindi arrestata, cresce a ritmi tali da porre un problema di trasformazione qualitativa delle politiche penali. I dati sembrano suggerire che è successo qualcosa che fa apparire necessario agli occhi dei governi e dell’opinione pubblica un ricorso molto più ampio di quello dei decenni precedenti alla istituzionalizzazione dei cittadini. Il sociologo francese Loïc Wacquant [1999] ha sostenuto che stiamo assistendo a un passaggio dallo stato sociale allo stato penale in cui la politica di incarcerazione e repressione penale non viene usata tanto per rispondere allo sviluppo della criminalità, che è rimasta più o meno costante nel periodo in cui si sono affermate le nuove politiche penali, ma alla destrutturazione sociale provocata dalla ritirata dello stato «caritatevole». Robert Castel [1991, 288] ha recentemente sottolineato che le nuove politiche penali che si stanno diffondendo sono radicalmente diverse da quelle tradizionali. Oggi intervenire sulla devianza non significa più individuare i concreti soggetti devianti da sottoporre a disciplinamento o rendere oggetto di programmi di intervento sociale, comunque da «prendere in cura». Essendo il potere di punire ricondotto alla connessione naturale tra delitto e castigo, la legittimità della pena torna a essere un dato autoevidente, viene completamente svincolata dagli effetti «positivi» che può produrre sui soggetti a cui era stata legata dall’epoca in cui si erano diffusi i penitenziari. L’elemento centrale della nuova politica è la separazione della diagnosi dal trattamento e il passaggio dalla presa in carico dei soggetti da parte degli operatori sociali o penali a una pianificazione tecnocratica. Sparisce completamente l’idea, che ha caratterizzato gli ultimi quarant’anni, per cui la prima esigenza è quella di creare istituzioni capaci di sostenere e reinserire nella società la popolazione che viene loro affidata. La politica del trattamento, o in termini critici del disciplinamento, è superata. Secondo questa impostazione, mentre trecento anni fa per fronteggiare l’invasione delle masse di soggetti espulsi dalle campagne che si riversavano sulle città, privi di mezzi di sostentamento, si fece ricorso a istituzioni totali che avevano, come ha mostrato Foucault, nella disciplina il loro tessuto connettivo e la loro matrice di senso, oggi per fronteggiare la nuova plebe, formata soprattutto da extracomunitari ed emarginati, in primo luogo tossicodipendenti, si fa ricorso alle mere misure incapacitanti, al mero contenimento. copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna CASTIGO E DELITTO 93 7.1. La rottura della connessione tra istituzione disciplinare ed etica del lavoro Il tratto saliente del sapere criminologico che accompagna le nuove politiche penali è la teorizzazione della rottura della connessione tra controllo sociale e patologia che, in varie forme, aveva caratterizzato le riflessioni su delitto e castigo per quasi cento anni: la ricerca e l’eliminazione delle condizioni (individuali e sociali) patologiche non è più la precondizione del controllo sociale. Questa nuova impostazione comporta come logica conseguenza anche la trasformazione del «senso» del castigo: la pena non deve essere più rieducativa, ma solamente repressiva e incapacitante. La sua funzione è general-preventiva, la pena deve servire da deterrente, la prevenzione speciale si limita all’incapacitazione temporanea. Non si chiede cioè alla pena di reinserire socialmente l’autore del reato, ma solo di metterlo, almeno per un certo periodo di tempo, in condizioni di non nuocere. La pena viene vista principalmente come il perno di una serie di strumenti che ergendosi a ostacoli fisici, materiali, rendono meno facile la commissione dei delitti. Ad una teoria della prevenzione della criminalità incentrata sul criminale, sul suo essere un soggetto socialmente, culturalmente, economicamente, biologicamente condizionato subentra un discorso imperniato quasi esclusivamente sul comportamento deviante e l’ambiente in cui esso viene espletato. Di pari passo viene meno quella concezione del soggetto come materia duttile che era stata elaborata dalle scienze mediche, psichiatriche e criminologiche e dalla sociologia funzionalista, il soggetto cessa di essere visto come un’entità trattabile, trasformabile, e di conseguenza la sua normalizzazione cessa di essere il perno delle politiche di controllo sociale. Zygmunt Bauman [1998] ha sottolineato che la crisi della concezione rieducativa della pena e la sua riconcettualizzazione in termini puramente contenitivi trova la sua ragione profonda nella perdita di centralità dell’etica del lavoro. Alla fine degli anni Sessanta, quando si è diffusa la convinzione che, malgrado le migliori intenzioni, le condizioni tipiche delle carceri, i regimi di stretta sorveglianza, non potessero produrre la «riabilitazione», si è cominciato a pensare che i precetti dell’etica del lavoro non si conciliavano con il regime coercitivo delle prigioni. Questi dubbi però non portarono immediatamente al rigetto del sistema punitivo, che come abbiamo visto aveva caratterizzato tutto l’Ottocento, e con esso della logica rieducativa, incentrata sull’etica del lavoro, ma solo a sperimentare il lavoro svolto fuori dal carcere nell’ultima fase della pena: il lavoro rieducativo doveva essere un lavoro svolto da libero o almeno da semilibero. Le difficoltà di queste esperienze hanno però via via smorzato la fiducia nella rieducazione. Negli ultimi dieci anni il problema si è posto in modo molto più drammatico. Gli sforzi per il reinserimento lavorativo dei reclusi possono essere più o meno efficaci, ma hanno un senso solo se c’è disponibilità, anzi direi «fame», di lavoro. Nell’Ottocento si era impazienti di investire il capitale in nuove produzioni copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna 94 CAPITOLO 3 industriali pronte ad assorbire quantità sempre crescenti di lavoro, oggi tutte le principali Borse premiano le imprese che licenziano personale e tagliano il numero dei posti di lavoro. In queste condizioni non ha alcun senso cercare di riportare al lavoro le categorie particolarmente riluttanti e riottose dei «senza padrone». In queste condizioni la detenzione non può certo rivendicare una sua razionalità sociale né come una scuola di avviamento al lavoro né come un metodo di ripiego, imposto con la forza, per far crescere le fila della manodopera produttiva quando falliscono i metodi «volontari» ordinari. Senza contare che quando c’è bisogno di manodopera si può fare ricorso all’enorme bacino dell’immigrazione che fornisce lavoratori a buon mercato pronti ad autodisciplinarsi e in alcuni casi anche già altamente qualificati. Il problema oggi sembra spesso esattamente l’opposto: come liberarsi di una grande quantità di lavoratori superflui, per i quali non esistono possibilità di lavoro e che non conviene riqualificare, senza che questi diventino una minaccia sociale? In questo contesto si sviluppano istituzioni carcerarie che sono panoptiche da un punto di vista tecnologico, cioè basate sull’idea della continua sorveglianza, ma sono lontanissime dallo spirito del progetto benthamiano in quanto non si propongono alcun fine disciplinare, non mirano nel modo più assoluto allo sviluppo dell’etica del lavoro, alla costruzione del «corpo docile» da impiegare e quindi al reinserimento sociale del detenuto. Mirano esclusivamente a garantire la massima sicurezza dell’imprigionamento. Il nuovo tipo di sorveglianza è completamente svincolato dalla compresenza tra sorvegliante e sorvegliato (anche dalla modalità più sublimata di questa compresenza che è quella del Panopticon benthamiano) che caratterizzava la sorveglianza fino a oggi. Questa compresenza era uno strumento indispensabile per l’applicazione delle tecnologie disciplinari. Ad emblema di queste istituzione ho assunto la prigione di Pelican Bay in California, descritta nel riquadro con cui si apre questo capitolo. La differenza con il Panopticon è evidente: il meccanismo ideato da Bentham per incutere il timore della sorveglianza costante era quello di assicurarsi che i reclusi svolgessero certe attività, seguissero certe routine, di renderli soggetti produttivi e quindi socialmente utili. A Pelican Bay non viene svolto alcun lavoro produttivo, né alcun addestramento al lavoro; questa prigione non si preoccupa di fornire neppure una disciplina formale: il suo unico scopo è quello di creare il vuoto intorno ai detenuti, vuoto a cui non si accompagna alcuna retorica della «riforma religiosa», che non è mirato a produrre l’esame di coscienza né il ravvedimento. La tecnica panoptica da tecnica disciplinare si è trasformata in tecnica meramente incapacitante: scopo della reclusione è ridurre la vita dei detenuti al solo espletamento delle funzioni corporee. copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna 7.2. Politica penale attuariale e distribuzione del rischio Lasciato cadere il miraggio della rieducazione (o l’incubo del disciplinamento) l’unico criterio per determinare quale pena comminare, o meglio quale regi- CASTIGO E DELITTO me di pena detentiva adottare, rimane quello dell’efficienza e dell’economicità del sistema di controllo sociale. Si assiste alla traslazione del problema della devianza: questa cessa di essere un evento «patologico» da curare per trasformarsi in una fonte di rischio da «gestire». Alla filosofia della risocializzazione si affianca e, col tempo, si sostituisce quella dell’efficienza. Questo passaggio cambia radicalmente i parametri di successo delle politiche criminali: l’esito dei programmi di reinserimento sociale sparisce dagli indicatori rilevanti per lasciare posto al rapporto tra i costi sostenuti e i livelli di sicurezza ottenuti. Ci si è orientati verso un management autonomizzato della popolazione condotto sulla base di profili predefiniti statisticamente, verso una politica penale che è stata definita di tipo «attuariale» [De Giorgi 2000]. L’enfasi si sposta dalla prevenzione speciale, da ottenere tramite la «risocializzazione», alla prevenzione generale. Una spinta decisiva in questa direzione è stata data dalla cosiddetta cost-benefits analysis: l’applicazione cioè delle teorie economiche marginaliste al diritto penale e alla politica criminale. Alle tesi moralistiche dei criminologi neoclassici, secondo cui è legittimo privilegiare la funzione deterrente della pena per combattere l’invadenza della criminalità e riportare la sicurezza per le strade, si sono affiancati gli argomenti pragmaticoutilitaristici dei teorici della cost-benefits analysis secondo i quali la prevenzione generalizzata è lo strumento che meglio consente di ottimizzare il rapporto tra sicurezza e risorse per ottenerla. Il convergere di queste due impostazioni ha spostato a poco a poco i termini della politica criminale dal problema del recupero del deviante a quello della sicurezza e dell’ordine pubblico da tutelare. Nel nuovo paradigma criminologico prevenire il crimine non significa più intervenire sulle sue cause soggettive. La riduzione della criminalità, e quindi del rischio che essa comporta, può essere ottenuta solo mediante un intervento sull’ambiente, sui comportamenti esteriori dei gruppi sociali. L’impostazione eziologica, lascia, come accennato, il campo a una impostazione «situazionale»: si assume che le variabili che incidono sulla produzione di comportamenti criminali possono essere controllate non attraverso la gestione delle circostanze sociali o individuali della devianza, ma solo attraverso la delimitazione degli spazi di vita dei soggetti, e cioè l’elevazione di barriere che impediscono loro di commettere delitti. La strategia di controllo della criminalità più popolare negli ultimi anni è stata la campagna Zero Tolerance organizzata dal sindaco di New York Rudolph Giuliani e gestita dal capo della polizia William Bratton [Wacquant 1999]. Le basi teoriche di questa politica criminale erano state poste da James Q. Wilson, probabilmente il massimo esponente della criminologia della nuova destra, e da George Kelling, uno scienziato politico, in un articolo pubblicato sulla «Monthly Review» nel 1982. Fin dal suggestivo titolo, Broken Windows, i due autori sostenevano che esiste uno stretto legame tra semplice degrado urbano e incuria delle persone e criminalità. Secondo la loro tesi ecologico-behaviorista quando si lascia andare in degrado un ambiente urbano, lo si abbandona a se stesso, tollerando ogni deturpazione, presto in quell’ambiente si manifesteranno veri e propri comportamenti criminali. Il saggio prende il proprio titolo 95 copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna 96 CAPITOLO 3 dall’esempio che viene usato per dare vividezza alla teoria. Se in un edificio abbandonato si lascia che qualcuno rompa una finestra e non si sostituisce subito il vetro, presto verranno rotte tutte le finestre, dando vita a una escalation di comportamenti illegali, qualcuno poi entrerà abusivamente nell’edificio, che diventerà infine teatro di comportamenti vandalici. Secondo Wilson e Kelling il degrado urbano testimonia una mancanza di attenzione da parte dell’autorità e quindi fa pensare che si possano compiere facilmente azioni devianti, abitua la comunità a soglie di devianza sempre maggiori facilitando l’affermazione di culture criminali. La ricetta contro la criminalità che questa tesi mira a suggerire è evidente: la polizia non deve tanto dedicarsi a punire i delitti dopo che sono stati commessi, ma prevenirli «tutelando l’ordine». Si devono tutelare l’ordine e i valori diffusi che danno senso di appartenenza alla comunità: in questo modo si preservano naturalmente le città dall’insorgere della criminalità. Compito primario della polizia deve essere quello di reprimere i comportamenti che, pur non configurando alcun reato o reati minori, sono molesti e danno la sensazione al cittadino di vivere in una città degradata. Se si vuole combattere la criminalità, si devono eliminare dalla vista dei cittadini tutte «le finestre rotte», si deve cioè reprimere duramente chi disegna graffiti nelle metropolitane o sulle saracinesche, chi richiede elemosina in modo aggressivo e insistente, le prostitute di strada, gli ubriachi e i tossicodipendenti che stazionano in luoghi pubblici, i barboni e così via. Merita di essere sottolineato che ai due teorici della tolleranza zero non solo non interessano le «ragioni» dei comportamenti devianti (se essi siano o meno manifestazione di disagio sociale, un segnale di problemi che vanno risolti, o altro) ma non interessa neppure che questi fenomeni vengano realmente estirpati dalla società: ciò che è rilevante è che i comportamenti «incivili» non avvengano in pubblico [De Giorgi 2000, 106-107]. La tesi di Wilson e Kelling appare una versione behavioristica di quella che Herbert Hart [1968], polemizzando con Lord Patrick Devlin, Parsons e Durkheim, ha definito la «teoria disintegrativa», di quella teoria cioè per cui compito del diritto penale è non solo reprimere e prevenire i comportamenti che causano danni materiali ai consociati, ma in primo luogo tutelare i valori socialmente condivisi. Secondo questa tesi, che rigetta la distinzione tra diritto (penale) e morale, cuore dell’ideologia liberale, se il diritto penale non tutela i valori condivisi, la società presto si disintegrerà, perderà il proprio collante, diventerà anomica. Anche secondo i due autori americani compito dell’apparato penale è in primo luogo tutelare i valori socialmente condivisi. I valori da tutelare non sono però quelli fondamentali dell’organizzazione sociale, quelli sui quali, secondo la concezione classica, si basa il contratto sociale: questa tutela è un prodotto succedaneo. Quello che va garantito è il valore esteriore della nitidezza dell’ambiente in cui l’interazione sociale avviene. Wilson e Kelling naturalmente non danno alcuna indicazione circa i criteri sulla base dei quali si devono distinguere i comportamenti pubblici ammissibili e quelli inammissibili, quelli ordinati (orderly) e quelli disordinati (disorderly): questo copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna CASTIGO E DELITTO compito è affidato alla polizia a cui viene conferito lo status di unico interprete legittimo del comune sentire dei cittadini. La polizia emerge dunque come voce autentica della comunità angosciata dalla paura del crimine. Ad essa viene affidato il compito di reprimere i comportamenti che offendono il comune sentire: che questo poi, nel concreto, voglia dire che offendono norme giuridiche, giudizi morali o convinzioni estetiche non ha importanza di fronte alla promessa che questa strategia garantisce la sicurezza e la restaurazione dell’ordine. Con le nuove politiche penali lo stato rinuncia al proprio ruolo di garante della sicurezza: al diritto alla sicurezza sostituisce una politica di socializzazione del rischio che mira a rendere questo più accettabile. I fattori che mettono a repentaglio la sicurezza pubblica vengono gestiti, esattamente come aveva fatto lo stato del benessere per la gestione dei rischi sociali e della perdita del lavoro, utilizzando metodologie di quantificazione e di trattamento di tipo assicurativo. Da ciò deriva la definizione di «criminologia attuariale» che sottolinea come le nuove strategie di controllo si fondino sui procedimenti tipici della matematica delle assicurazioni [Ewald 1991; De Giorgi 2000]. Alla base di questa impostazione sta una significativa riconcettualizzazione del criminale che passa dall’essere visto «come soggetto in sé a rischio», che deve essere riabilitato, all’essere considerato «come soggetto che crea rischi» [Kemshall 1996, 35]. Il fulcro delle nuove politiche penali è la dissociazione tra la nozione di rischio e quella di pericolosità. La nuova criminologia attuariale sostiene di poter ricostruire le condizioni oggettive dell’emergere del pericolo e quindi di poter dedurre da queste le modalità di intervento. La relazione con il soggetto non è più l’elemento fondamentale, perché non c’è più il soggetto. Le nuove politiche penali non si rivolgono a invidui, ma a fattori di rischio, a correlazioni statistiche di elementi eterogenei. Decostruiscono i soggetti e al loro posto collocano una lista di circostanze da cui nasce il rischio. Il fine delle nuove politiche criminali non è quello di risolvere una situazione concreta, di affrontare e contenere uno specifico soggetto «pericoloso», ma quello di prevenire il possibile manifestarsi di comportamenti indesiderati. La prevenzione promuove il sospetto al rango scientifico di calcolo delle probabilità. Per essere sospettati non è più necessario manifestare sintomi particolari di pericolosità, essere un deviante primario, è sufficiente avere quelle caratteristiche che gli specialisti responsabili della sicurezza ritengono, in base a induzioni statistiche, fattori di rischio. Una concezione della prevenzione che si limiti a predire il verificarsi di un determinato evento appare ormai arcaica e artigianale. Il rischio non è più ricondotto a specifiche persone pericolose, ma a una serie di fattori astratti che rendono più o meno probabile la commissione di un delitto. La presenza di alcuni di questi fattori crea automaticamente una situazione di allarme: non serve che un operatore sociale, o un magistrato, riscontri l’effettiva pericolosità di un determinato soggetto. Il rischio viene svincolato completamente dall’esistenza di effettivi conflitti e dedotto da categorie generali e astratte [Castel 1991, 287-288]. 97 copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna 98 CAPITOLO 3 Le «ingiustizie» che derivano dal metodo attuariale sono messe in conto dal primo documento che in Europa propone una politica criminale basata su questo metodo: il Floud Report 7, redatto in Inghilterra nel 1981, quindi in piena epoca thatcheriana. Dal rapporto emerge la consapevolezza che la strategia attuariale non è priva di ingiustizie. Si osserva infatti che ogni giudizio predittivo può essere errato in due sensi: si può trattare di un «falso positivo», quando si prevede un evento che non si verifica, o di un «falso negativo», quando si esclude preventivamente un evento che poi accade. È chiaro che più «falsi negativi» si verificano, meno il sistema attuariale è efficiente, meno sicurezza garantisce. I «falsi positivi» si risolvono invece inesorabilmente in un ingiusto pregiudizio per i diritti degli individui riguardo al cui comportamento la predizione è sbagliata. È infatti evidente che se si reclude una persona quando questa non è in effetti pericolosa, si commette una grave ingiustizia senza alcun giovamento per la sicurezza pubblica. Questo rischio è freddamente messo in conto e candidamente giustificato: le nuove politiche penali ridistribuiscono un carico di rischio che lo stato non è in grado di ridurre e il miglior modo per farlo è quello attuariale. Questa risposta evidenzia che, al contrario della criminologia positivista e di quella struttural-funzionalista, che promettevano l’eliminazione del crimine, la nuova criminologia «attuariale» considera la criminalità come un fattore ineliminabile le cui conseguenze negative vanno distribuite socialmente. Essa considera normale il rischio derivante dalla criminalità, esattamente come fanno le assicurazioni con il rischio di un incidente, la sua unica preoccupazione è quella di ridistribuire i costi. In questo senso si può dire che la criminologia attuariale ha accolto l’essenza della lezione durkheimiana e di quella interazionista. Si prende atto dell’impossibilità di rimuovere il rischio rappresentato dal crimine e ci si rifugia in una strategia puramente difensiva: si cerca di distribuire questo rischio in modo socialmente accettabile. Come «socialmente accettabile» viene presentata una strategia che prescinde dal singolo soggetto possibile creatore del rischio per concentrarsi su una valutazione del pericolo nel suo insieme. Questa politica comporta che la gravità della sentenza di condanna a cui due autori dello stesso delitto vengono condannati sia decisa da indici presuntivi legati alla condotta, ai precedenti o alle modalità del reato, e al gruppo in cui essi vivono abitualmente o che frequentano saltuariamente, in poche parole alla classe di soggetti pericolosi in cui sono inseriti. Per esemplificare, se un soggetto «spaccia» eroina per strada, viene da uno dei paesi del Maghreb, non ha un lavoro in Italia, non ha una dimora fissa, è entrato nel territorio nazionale illegalmente, secondo i criteri della nuova politica penale deve essere sottoposto a misura cautelare detentiva e incorrere in una sentenza molto più dura di quella che deve essere inflitta a un «venditore» di cocaina italiano, che lavora come intermediario finanziario, ha una bel- copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna Cfr. Floud e Young [1981]; un commento dell’autrice Jean Floud è pubblicato con lo stesso titolo del Report in «The British Journal of Criminology», vol. 22, 3, 1982, pp. 213-228. 7 CASTIGO E DELITTO la casa e una famiglia, distribuisce la cocaina esclusivamente a party ben frequentati e in queste occasioni la consuma egli stesso. Il primo infatti appartiene a una classe pericolosa, il secondo no: tanto basta a giustificare un trattamento sanzionatorio differenziato. Questo esempio evidenzia che la retorica dell’inevitabilità del rischio e della necessità di distribuirlo in modo socialmente accettabile è tanto forte da oscurare quella dell’uguaglianza che dall’illuminismo in poi ha costituito una delle principali fonti di legittimazione del potere punitivo. I nuovi criteri di gestione della popolazione invece di segregare gli elementi indesiderabili e mirare alla reintegrazione grazie a trattamenti correttivi o terapeutici più o meno forzati, assegnano ai soggetti un loro destino sociale in virtù della loro corrispondenza agli standard ritenuti fondamentali dal corpo sociale (che sono oggi quelli della competitività e della capacità di fare profitti). Le moderne tecnologie della prevenzione sono il prodotto del sogno di un assoluto controllo, almeno sul piano classificatorio, di tutto ciò che è accidentale, che viene vissuto come qualcosa di spaventoso in quanto imprevedibile. Alla metà degli anni Ottanta Nils Christie ha spiegato lo sviluppo delle nuove «politiche» penali attraverso la nozione di suitable enemy («nemico appropriato»). A monte di tutto starebbe la crisi fiscale del welfare state. Il progressivo assottigliamento delle reti di assistenza sociale, che negli Stati Uniti è cominciato almeno dalla prima metà degli anni Settanta, produce sentimenti di insicurezza sociale, precarietà, insoddisfazione politica che i mass media, la stampa, le agenzie governative riescono a catalizzare verso un nemico interno (nel caso degli Stati Uniti la microcriminalità degli afroamericani e degli ispanici) attraverso un processo di semplificazione che consiste nell’isolare un’intera classe di soggetti pericolosi individuati come la principale causa di disgregazione del tessuto sociale. I suitable enemies sono quei soggetti sociali che periodicamente diventano oggetto di campagne di panico morale, come quella sulla microcriminalità urbana, sui pedofili, sui terroristi, sulle prostitute, sugli immigrati ecc. Secondo Christie [1986, 42], ogni capo di stato spera che ogni anno appaia «un nuovo nemico, odiato dall’opinione pubblica, apparentemente forte ma in realtà debole». Un tale nemico permette infatti alle élite al potere di rafforzare la propria immagine, di legittimare il proprio ruolo e, soprattutto, di incrementare il livello di coesione sociale. Secondo questa tesi di chiara ispirazione durkheimiana ogni fase politico-economica di transizione (il sociologo francese avrebbe detto «anomica») richiede la costruzione di un «nemico appropriato», di un nemico cioè dotato di quei «requisiti» che lo rendano un potenziale capro espiatorio, un soggetto su cui può essere facilmente scaricata l’insicurezza collettiva. I requisiti caratteristici del «nemico appropriato» sono, non certo casualmente, quelli individuati da Harold Garfinkel in un celebre saggio degli anni Cinquanta, sulle «condizioni di successo delle cerimonie di degradazione», cioè di quei meccanismi procedurali che presiedono all’allocazione sociale del biasimo. Essi sono requisiti che facilitano la trasformazione dell’identità pubblica «totale» di un attore «in qualcosa considerato come inferiore nello schema 99 copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna 100 C APITOLO 3 locale dei tipi sociali»: chi attraverso il meccanismo innescato dalla denuncia subisce una degradazione di status diventa letteralmente una persona diversa e nuova agli occhi di coloro che la condannano. Non è che i nuovi attributi vengano aggiunti al vecchio «nucleo». [...] La vecchia identità, al più, riceve la connotazione di mera apparenza. Nel calcolo sociale delle rappresentazioni e del controllo della realtà la vecchia identità ha uno status accidentale; la nuova identità è la «realtà basilare». Ciò che egli è ora, è, «alla fine», ciò che è sempre stato [Garfinkel 1956; trad. it. 2004, 252]. Il nemico appropriato deve in primo luogo essere un nemico che è, insieme, parte della società ed estraneo a essa: è un «estraneo» in quanto non ne condivide i valori di fondo, mentre è parte della società in quanto vive in essa e proprio questa sua vicinanza lo rende pericoloso. Deve poi essere precisamente individuabile ma anche percepito come onnipresente, come capace di poter colpire chiunque, indiscriminatamente, in modo del tutto imprevedibile e casuale, deve essere avvertito come una minaccia per tutta la società, non per qualche suo specifico membro. Deve infine essere un nemico contro il quale si può pensare di vincere solo «a costo di grandi sforzi e con il contributo di tutti», la sua sconfitta non deve mai apparire a portata di mano. La necessità di costruire nemici appropriati spiegherebbe quelle politiche criminali (Law and Order, War on Drugs, Zero Tolerance) che negli ultimi vent’anni si sono succedute nei paesi anglosassoni, e che si stanno diffondendo in tutta Europa [Wacquant 1999], miranti, più che alla risoluzione del problema della devianza, a produrre senso di sicurezza, identificando chiaramente i nemici. L’esempio degli Stati Uniti, che per primi e più decisamente si sono mossi lungo linee di politica criminale attuariale, mostra che la strategia della sicurezza si fonda su pratiche repressive rivolte contro intere categorie sociali, individuate normalmente in base alla loro marginalità sociale, che vengono costruite come pericolose. Si delinea una dinamica riflessiva per cui strategie di controllo dell’emarginazione producono emarginazione dovuta al controllo. L’insegnamento di Lemert sembra essere stato accettato in pieno, ma non come fonte di dubbi sulle politiche di criminalizzazione, bensì come strategia capace di produrre legittimità. La costruzione sociale del «marginale» come «pericoloso» finisce per accentuare la sua pericolosità materiale, reale, e quindi legittima nuove strategie di esclusione e criminalizzazione di classi di individui marginali. Cinicamente si dovrebbe probabilmente gioire perché il potere finalmente rinuncia alla maschera della retorica dell’uguaglianza dietro cui si era a lungo nascosto, ma forse quella che chiamiamo civiltà (giuridica) non è che un insieme di maschere che ognuno deve indossare, primo fra tutti il Leviatano statale. copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna copyright © 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna Finito di stampare nel mese di gennaio 2008 dalla litosei, via rossini 10, rastignano, bologna www.litosei.com