MANUALI
Sociologia
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INDICE
3
Invito allo studio
della società
a cura di
PIER PAOLO GIGLIOLI
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il Mulino
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ISBN 978-88-15-10295-9
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d’Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie
INDICE
5
Indice
Introduzione
I.
9
Uomini e donne, giovani e vecchi, di Roberta Sassatelli
1.
2.
3.
4.
II.
La costruzione sociale del corpo
Genere, sesso e sessualità
Età, generazioni e corso di vita
Considerazioni conclusive
Esclusi e inclusi, di Marco Santoro
Esclusione sociale
Lo studio dei confini nelle scienze sociali
Cittadinanza: esclusione e inclusione
Classi sociali, stratificazione e chiusura sociale
Chiusura sociale e confini simbolici: il caso delle professioni
e della scienza
6. Disuguaglianze culturali: scuola, consumi e stili di vita
1.
2.
3.
4.
5.
III. Castigo e delitto, di Emilio Santoro
13
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1. Il problema del nesso tra delitto e castigo: relatività storica
di cosa punire e come punire
2. Carcere e potere disciplinare: la rieducazione attraverso il lavoro
3. La criminologia positivista e la nascita del «criminale»
4. La sociologia durkheimiana: la pena come manifestazione
della coscienza e la divisione anomica del lavoro
5. Dal criminale al deviante
6. La costruzione sociale della devianza: la «labelling theory»
7. La crisi del «welfare state» e il cambiamento delle politiche penali
70
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85
90
6
INDICE
IV. Sacro e profano, di Giolo Fele
1.
2.
3.
4.
5.
6.
V.
Società e religione
Le forme religiose del legame sociale
Rappresentazioni secolari e rappresentazioni religiose
I riti e le cerimonie
La moralità
Considerazioni conclusive
Potere e dominio, di Pier Paolo Giglioli
1.
2.
3.
4.
Alcune proprietà del potere
Basi e forme del potere
I tipi del dominio
I meccanismi della legittimità
VI. La città, di Gabriella Turnaturi
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
La città come fatto sociale
Tipi di città
La metropoli
Fra ecologia ed etnografia
L’influenza dell’urbanizzazione sulla società
Città, campagna, comunità extraurbane
Le popolazioni urbane
Le nuove tribù metropolitane e lo spettro della paura
Le nuove aggregazioni urbane: comitati e reti di cittadini
VII. Comunicazione e media, di Federico Boni
1.
2.
3.
4.
5.
6.
Dalla comunicazione interpersonale alla comunicazione mediata
L’ingresso dei media nella società
La riflessione sulle comunicazioni di massa
Pratiche dei pubblici e costruzione dell’identità
Rappresentanza o rappresentazione? I media e la politica
Dai mezzi di comunicazione di massa ai «personal media»
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VIII. La sociologia di fronte alla globalizzazione, di Alessandro Dal Lago
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
L’irresistibile ascesa di una parola
Globalizzazioni relative
Città dello sviluppo e della desolazione
Effetti perversi
Umanità che va e umanità che viene
Connettività e complessità
Conflitti globali
Oltre la globalizzazione
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222
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228
231
INDICE
IX. Fare ricerca, di Giancarlo Gasperoni
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
Ricerca empirica e metodologia
Il metodo (e la sua «scientificità»)
Qualità e quantità: una distinzione di comodo ma fuorviante
Il ruolo delle tecniche
Raccolta e analisi
Le tecniche di raccolta e la scelta degli oggetti da osservare
Produzione e rilevazione di informazioni
Rilevazione strutturata
Rilevazione di dati preesistenti
Rilevazione non strutturata
Dopo la raccolta
La ricerca empirica come fenomeno sociale
Riferimenti bibliografici
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CASTIGO E DELITTO
CAPITOLO
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Castigo e delitto
La prigione di Pelican Bay, secondo il rapporto del «Los Angeles Times» del 1 o maggio
1990, è «interamente automatica e progettata
in maniera tale che i reclusi in pratica non
possano avere alcun contatto diretto con le
guardie e gli altri reclusi. Per ventidue ore e
mezzo al giorno i detenuti sono confinati nelle loro celle prive di finestre, costruite di solidi blocchi di cemento armato e di acciaio inossidabile [...]. Non lavorano in strutture produttive della prigione; non possono praticare
attività ricreative; non possono mescolarsi agli
altri reclusi. [...] I detenuti consumano tutti i
loro pasti nelle loro celle, possono lasciarle solo
per una breve doccia e per un’ora e mezza di
esercizio fisico al giorno. Anche quando si fanno la doccia e fanno esercizio sono isolati. Gli
esercizi vengono svolti in piccoli cortili cementificati: buchi chiusi da mura di cemento alte
20 piedi e coperte con lastre di metallo. Le
porte delle celle sono aperte e chiuse elettronicamente da una guardia situata in una cabina di controllo. [...] Non ci sono guardie con
le chiavi appese alle cinture che percorrono i
corridoi. Le stesse guardie sono chiuse in lontane cabine di controllo di vetro e comunicano
con i prigionieri attraverso un sistema di altoparlanti». Il carcere «ha la propria infermeria;
la propria biblioteca giuridica (dove i prigionieri sono tenuti in stanze assolutamente inviolabili e i libri gli sono fatti arrivare attraverso degli appositi condotti. [...] I detenuti
possono passare anni senza uscire dal loro reparto». A chi fa notare che «non si è mai visto
un luogo in cui le persone sono isolate in modo
così totale e completo», che Pelican Bay rappresenta «qualcosa senza precedenti nelle prigioni
moderne», che «potrebbe avere gravi conseguenze psicologiche» sui detenuti, gli addetti
alla sicurezza del carcere rispondono che «le
guardie controllano i detenuti e sono istruite
affinché segnalino qualsiasi problema psichiatrico agli psicologi dell’istituto. Se l’isolamento
può apparire estremo, si deve tener conto che
la società ha oggi bisogno di carceri più restrittive per fronteggiare criminali più violenti».
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Questo capitolo è di Emilio Santoro.
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CAPITOLO 3
1. IL PROBLEMA DEL NESSO TRA DELITTO E CASTIGO:
RELATIVITÀ STORICA DI COSA PUNIRE E COME PUNIRE
Storicamente il rapporto tra delitto e castigo è stato considerato prevalentemente come un rapporto necessario: si può dire che nessuna società ha mai
problematizzato, fino a tempi recenti, ciò che considerava delitto e quindi
puniva. Per molti secoli si è ritenuto che i comportamenti criminali fossero
definiti non dagli uomini, dalle loro organizzazioni politiche, ma dalla volontà
divina. L’essenza di questa convinzione non è venuta meno neppure con le
prime teorie liberali della pena che si sono continuate a innestare sull’idea
tradizionale che la definizione di cosa punire fosse un dato naturale e inevitabile.
Secondo il paradigma liberale gli individui, in quanto soggetti razionali, non
possono che trovarsi d’accordo nel definire cos’è bene e cos’è male: la legge
penale riflette la volontà comune e non è altro che la codificazione di questo
accordo. Fulcro di questo paradigma è l’assunto che il crimine è un fenomeno
dai contorni oggettivi e la pena è l’unico strumento attraverso cui esso può
essere eliminato, o almeno limitato. Una volta assunto come «dato» cosa è
delitto e postulato il valore strumentale del castigo, non resta altro che garantire che il castigo non contravvenga al «senso di umanità», non sia «disumano». Sotto questo profilo la storia moderna della pena appare come una continua evoluzione: si passa dalla barbarie all’illuminismo, dall’ignoranza agli
interventi effettuati dagli esperti, dalla vendetta e la crudeltà all’umanitarismo
scientifico. Si ammette che le istituzioni penali, come del resto molte altre
istituzioni sociali, siano riuscite raramente a tradurre in pratica, e comunque
sempre in modo parziale e imperfetto, gli ideali morali che le avevano ispirate;
ciò non toglie però che il filo dell’evoluzione delle modalità punitive sia evidente e confortante.
Questo paradigma è stato oggetto di molte critiche. I primi a evidenziare che
le modalità punitive, lungi da costituire un dato naturale e ovvio, rappresentano un problema per le moderne società liberaldemocratiche furono probabilmente Gustave de Beaumont e Alexis de Tocqueville [1833; trad. it. 2002, 4849], che nel loro rapporto sulle carceri statunitensi dell’inizio del XIX secolo
sottolinearono che negli Stati Uniti, la prima grande società liberaldemocratica
occidentale, «la libertà più estesa» conviveva con «lo spettacolo del più completo dispotismo» offerto dalle prigioni. Su questo tema tornò circa un secolo
più tardi il sociologo francese Émile Durkheim. Durkheim [1925; trad. it.
1969, 622] colse l’intrinseca contraddizione di una società che punisce sempre meno i crimini contro la credenze collettive, contro la religione, e sempre
più le offese contro la dignità umana, che cerca di garantire l’incolumità degli
individui e della loro libertà infliggendo sofferenze. Più recentemente, diversi
studiosi, facendo tesoro della lezione di Durkheim, hanno cercato di mostrare che la definizione di cosa è delitto, l’interpretazione della disobbedienza
dell’individuo all’ordine dell’autorità, cioè alla legge, la considerazione di chi
viola la norma (il criminale, il reo, il deviante) e l’interpretazione della reazio-
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CASTIGO E DELITTO
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ne dell’autorità nei confronti di questo (la politica criminale) sono allo stesso
tempo funzione e indicatori del tipo di relazione esistente tra individuo e
autorità in una determinata società. Quando si inquadra la problematica della
relazione tra delitto e castigo all’interno di quella più generale dell’ordine
politico-sociale essa appare subito strettamente correlata a tutto quell’insieme
di saperi, poteri, strategie, pratiche e istituzioni, e a quella specifica «geografia» delle risorse, delle possibilità, dei desideri che costituiscono le modalità di esercizio del controllo sociale in una determinata società, ovvero le
modalità attraverso cui si stabilizza uno specifico ordine sociale. Il binomio
delitto e castigo cessa di essere rappresentato in termini naturalistici per essere inserito nel processo (storico) di definizione delle norme e di etichettamento di chi le trasgredisce, di messa a punto di tecniche capaci di indurre
conformità e di reprimere difformità, di definizione dei confini tra normale e
patologico.
In questo capitolo mostreremo quindi le differenti concezioni e pratiche della
pena che si sono succedute nel corso degli ultimi tre secoli, evidenziando, sia
pure per grandi accenni, i legami che esse hanno con le strutture culturali nel
cui ambito sono emerse.
2. CARCERE E POTERE DISCIPLINARE: LA RIEDUCAZIONE
ATTRAVERSO IL LAVORO
La retorica liberale tra Sette e Ottocento ondeggiava tra la teoria che vedeva
la soluzione del problema dell’ordine nel potere coercitivo, il cui massimo
sostenitore fu Thomas Hobbes, e quella che affidava il ruolo di deus ex machina
al mercato, la cui elaborazione più compiuta si deve ad Adam Smith. Per
entrambe queste impostazioni l’ordine è mantenuto attraverso strumenti esterni. Secondo l’approccio hobbesiano esso può essere conseguito solo attraverso un Leviatano che reprime le deviazioni individuali con la forza e la minaccia. Secondo quello smithiano è invece il mercato che, operando come un
meccanismo di distribuzione degli incentivi, dà vita a un processo di coordinamento automatico delle azioni individuali, inducendo gli individui a comportarsi in modo tale da condurre all’ordine sociale. Queste due retoriche
venivano alternativamente richiamate come giustificazione della potestà punitiva dello stato. Diverse teorie recenti sostengono però che le vere basi dell’ordine liberale erano rappresentate non dalla coercizione e dal mercato, ma
da tutta una serie di istituzioni disciplinanti capaci di imprimere i principi
dell’ordine nella vita dell’individuo, in particolare dell’individuo deviante, in
modo che vi permangano a lungo, possibilmente per tutta la vita 1. Secondo
questa lettura nel corso dell’Ottocento fu messa a punto una nuova modalità
di produzione dell’ordine sociale, il disciplinamento, espressione di una comune credenza nel potere riformatore dell’ascetismo imposto, del lavoro duro,
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1
Per la definizione di «disciplinamento» si veda Weber [1922c; trad. it. 1999, IV, 260-262].
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CAPITOLO 3
dell’istruzione religiosa e della routine. Il disciplinamento opera attraverso
l’internalizzazione, ma, a differenza dei normali meccanismi di socializzazione,
ha origine da un atto di coercizione [Pizzorno 1991]. È per questo che Foucault
[1975] eleva il Panopticon a simbolo di questa ideologia: il grande merito del
progetto di Bentham era quello di incutere nei detenuti la paura di essere
sorvegliati in modo da trasformare in sorveglianti di se stessi individui che,
secondo le convinzioni dei riformatori, per il fatto stesso di aver compiuto un
reato, mancavano di autocontrollo.
Il carcere, o meglio il «penitenziario», fu l’istituzione che sembrò capace di
conciliare la retorica della pena e quella della sua esecuzione. La pena privativa della libertà al suo apparire operò un’inversione rivoluzionaria nella pratica punitiva in sintonia, se non alla lettera delle teorie illuministiche, almeno ai
valori che le ispiravano. Essa capovolse la strategia della difesa sociale: si passò dalla concezione dell’autore del delitto come un soggetto da distruggere e
annientare, all’idea che esso è una parte integrante della società che ha trasgredito alcune sue norme, cosa che non esclude un suo reinserimento nel
contesto sociale. Il «penitenziario» assurse a perno della strategia di controllo
sociale con l’affermarsi del sistema di produzione capitalistica. Grazie al penitenziario la pena come privazione coatta di un quantum preventivamente determinato di libertà, riesce a sposare la retorica liberale della pena e quella
della sua esecuzione: il contratto con la disciplina, la retribuzione con la
rieducazione. Grazie alle caratteristiche del penitenziario, in altre parole, la
pena carceraria si dimostra capace da un lato di assoggettare la distruttività
del castigo al parametro contrattuale (il principio della retribuzione), dall’altro di rendere funzionale lo stesso castigo al processo produttivo (il principio della rieducazione) [Pavarini 1980, 67]. Il penitenziario emerse come
uno strumento di socializzazione forzata e si strutturò sul modello produttivo prima della manifattura e successivamente della fabbrica da cui mutuò la
propria organizzazione interna [Rusche e Kirchheimer 1939]. Esso è dunque il luogo, teorico e fisico, che permette lo sviluppo della teoria liberale
della pena secondo cui la migliore difesa sociale si può avere solo quando il
trasgressore – contraente inadempiente – risarcisce il danno procurato alla
società pagando con il proprio tempo e nel contempo, in fase di esecuzione
della pena, si assoggetta alla disciplina che lo reintegrerà nel tessuto delle
relazioni giuridiche come soggetto docile, non più aggressore della proprietà, ma pronto a vendere sul mercato la sua forza lavoro per sostentarsi [Costa 1974, 357-378].
Il progetto benthamiano del Panopticon, struttura penitenziaria che consente
alle guardie, nascoste nella torre centrale, di esercitare il controllo sui detenuti ospitati nell’anello che la circonda, è elevato da Foucault [1975] a metafora
di una trasformazione epocale del potere. Il Bentham che Foucault ci presenta è l’autore che per primo vide con chiarezza quale fosse il compito che,
nell’epoca moderna, il potere doveva assolvere: imporre la disciplina mantenendo sempre reale e tangibile la minaccia di punizioni. E vide anche quale
era la modalità attraverso cui questo potere doveva essere esercitato per esse-
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CASTIGO E DELITTO
re efficace: far credere ai soggetti che in nessun momento avrebbero potuto
sottrarsi allo sguardo onnipresente dei propri controllori, e che quindi nessuna mancanza, per quanto segreta, poteva restare impunita. Nella storia delle
forme in cui viene esercitato il potere, l’ideale Panopticon segna – secondo
Foucault – una svolta radicale: si passa dalla fase in cui i molti guardano i
pochi a una situazione in cui i pochi guardano i molti, la sorveglianza rimpiazza lo spettacolo. Il potere fino a quel momento aveva fatto di tutto per presentarsi al popolo attraverso le sue pompe, le sue ricchezze, il suo splendore e la
sua violenza in modo che la gente lo guardasse con terrore e ammirazione.
Alla fine del Settecento ci si rende conto che l’efficacia del potere dipende
dalla sua capacità di restare in ombra, guardando i propri soggetti piuttosto
che facendosi guardare da loro.
Il Panopticon è lo strumento attraverso cui produrre quel potere razionalburocratico che Weber descrive come la caratteristica saliente dello stato
moderno. Il potere di cui il Panopticon è l’emblema è un potere che mira a
integrare comunità locali diverse sotto l’amministrazione dello stato, un potere che pretende di sottoporre al suo controllo minuzioso territori molto più
vasti di quelli controllabili con le sole facoltà umane. Questo potere si fonda
sulla disciplina e richiede «controllori» professionisti e una riorganizzazione
dello spazio che consenta ai sorveglianti di svolgere il proprio lavoro rendendo i controllati consapevoli che i sorveglianti sono al lavoro e possono coglierli in fallo in qualsiasi momento.
Le istituzioni attraverso cui si articola e si impone questo potere sono in primo luogo gli eserciti di leva, il cui apparire caratterizza pressoché ovunque
l’inizio della modernità, e in secondo luogo gli impianti industriali. Quando
apparvero le prime carceri la mancanza di manodopera disposta a lavorare
era considerata da molti l’ostacolo principale al progresso della società. I primi imprenditori lamentavano che i potenziali operai non erano disposti ad
adeguarsi al ritmo del lavoro in fabbrica. «Correzione» voleva dire, nelle circostanze, vincere il rifiuto di sottomettersi alla disciplina del lavoro in fabbrica. Il Panopticon si inserisce lungo la linea tracciata con l’istituzione ad
Amsterdam, all’inizio del Seicento, delle prime case di correzione progettate
pensando che l’etica del lavoro fosse il nucleo essenziale del buon cittadino
[Sellin 1944, 27-29, 58-59]. Fine di queste case era infatti quello di produrre
persone «in buona salute, mangiatori morigerati, abituati al lavoro, desiderosi
di disporre di una buona attività, in grado di mantenersi da soli, timorati di
Dio». Per ottenere questi risultati i loro regolamenti prescrivevano un lungo
elenco di occupazioni manuali nelle quali i reclusi si sarebbero dovuti impegnare (la produzione di scarpe, la fabbricazione di ceste ecc.). In effetti l’attività produttiva svolta nelle case di correzione, dopo il fallimento dei primi
tentativi di attivare queste lavorazioni più o meno sofisticate, si limitò alla
piallatura di legnami brasiliani, un lavoro particolarmente faticoso, in origine
considerato solo un mezzo di punizione, che nessun cittadino libero voleva
svolgere. Le case di reclusione assunsero il ruolo, ancora prima che di «fabbriche di lavoro disciplinato», di strumenti che permettevano di mettere im-
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CAPITOLO 3
mediatamente al lavoro i reclusi, assegnando loro in particolare quei tipi di
occupazione meno accetti ai «lavoratori liberi».
Il Panopticon, analogamente alle case di correzione, era concepito partendo
dall’idea che l’ozio fosse il padre di tutti i vizi. La sua funzione doveva essere
quella di allontanare i reclusi dalla strada della perdizione sulla quale si erano
avviati di propria volontà o sulla quale erano stati spinti dalla necessità. La
strada che doveva riportarli a rientrare nei ranghi della società «normale» era
il lavoro: la disciplina del lavoro era considerata da Bentham [1983] la medicina capace di «arrestare la dissoluzione morale», combattere e vincere l’accidia, l’inettitudine e la mancanza di rispetto e l’indifferenza per le norme sociali, i vizi cioè che rendevano i reclusi incapaci di una vita «normale». Il lavoro
duro e costante era visto allo stesso tempo come la ricetta di una vita nobile e
piena di meriti e il fondamento dell’ordine sociale.
Il Panopticon di Bentham non era che la rappresentazione utopica dell’istituzione capace di produrre l’operaio in grado di inserirsi nella catena di produzione industriale, di fare quel lavoro industriale che appariva all’epoca privo
di senso compiuto rispetto a quello dell’artigiano che creava il suo prodotto.
Bentham era convinto che rendere il soggetto capace di contribuire alla ricchezza della società fosse il modo migliore per «rieducarlo» e quindi inserirlo
socialmente. Era l’epoca in cui aumentava continuamente il numero dei coltivatori diretti e degli artigiani che non erano più in grado di sostentarsi con il
loro lavoro, mentre le prime industrie mancavano di mano d’opera disciplinata che le facesse funzionare. In questo quadro appariva dunque naturale affidare alla reclusione il compito di produrre operai «ubbidienti», come scrivevano Tocqueville e de Beaumont, o dai «corpi docili», per usare la famosa
espressione di Foucault. La disciplina, fatta di addestramento manuale e
inculcamento dell’etica del lavoro, sembrava il modo per fornire il sostentamento a un esercito di soggetti che la fame spingeva a compiere reati contro il
patrimonio. In un’epoca in cui era facile identificare l’idea della correzione
con il mettere al lavoro i reclusi, dando loro un lavoro utile, redditizio, Bentham
pensa il Panopticon prima di tutto come una macchina perfetta per la riuscita
di questo compito. Il Panopticon era in primo luogo la macchina capace di
abituare anche i soggetti più recalcitranti al ritmo ripetitivo, monotono e meccanico della moderna produzione industriale.
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3. LA CRIMINOLOGIA POSITIVISTA E LA NASCITA
DEL «CRIMINALE»
Alla fine dell’Ottocento l’impianto della politica penale liberale entrò in una
crisi profonda ed emersero altre due impostazioni, quella della criminologia
positivista e quella della sociologia durkheimiana, che contesero il campo della teoria del delitto e della pena all’approccio classico. Tanto la criminologia
positivista quanto la sociologia durkheimiana nacquero dalla convinzione che
le teorie liberali dell’ordine si fossero dimostrate incapaci di gestire le «conse-
CASTIGO E DELITTO
guenze negative» dell’industrializzazione. Alla metafisica dell’interesse, e quindi
della libertà e della razionalità dei soggetti, che costituiva il presupposto delle
teorie economiche e sociali del XVIII secolo, la criminologia positivista e la
sociologia sostituirono modelli di comportamento determinati da fattori necessari, riconducibili a meccanismi individuali o globali.
Fin dal suo apparire la criminologia diede per scontato il carattere strumentale del sistema penale e affrontò la questione criminale ragionando in termini
di relazione tra cause ed effetti ponendosi finalità dichiaratamente pratiche:
chi si richiamava a questa impostazione discuteva delle cause per cui gli individui commettono delitti (individuate di volta in volta nella malvagità individuale, nella struttura biopsichica dei soggetti, nella povertà, nell’emarginazione
sociale ecc.) e cercava strumenti capaci di neutralizzare queste cause. Assumendo una connessione causale tra delitto e castigo i criminologi riconducevano automaticamente l’aumentare dei castighi inflitti da una determinata
società all’aumentare dei delitti commessi in essa. Tutti i discorsi sul delitto e
il castigo che si iscrivono all’interno di questa prospettiva, pur seguendo strade differenti e differenziandosi per la preminenza attribuita alle cause individuali o sociali del reato, hanno la medesima struttura: muovono da un fenomeno, un evento, un comportamento e si chiedono cosa lo abbia prodotto.
Ciò conduce a sviluppare teorie eziologiche della criminalità in cui si saldano
la convinzione che i reati abbiano cause specifiche ben individuabili e la fiducia circa la possibilità di eliminare i reati stessi attraverso la rimozione di tali
cause, cioè adottando determinate politiche criminali anziché altre.
Per la concezione positivista la criminalità è la manifestazione di una patologia individuale che qualche volta può essere ricondotta a un’origine sociale.
Questa impostazione capovolge quella della scuola classica secondo la quale
la sola differenza tra il criminale e il non criminale è un evento contingente:
l’uno ha scelto occasionalmente di commettere un reato, mentre l’altro non lo
ha fatto. La scuola positiva rigetta l’assunzione che gli individui siano caratterizzati in primo luogo da un intangibile e non esplorabile nucleo di creatività
e di scelta. Per essa gli esseri umani hanno una «personalità» o un «carattere»
che non è un elemento unitario e indipendente ma piuttosto qualcosa di complesso e soprattutto qualcosa di conoscibile scientificamente e di manipolabile:
la conoscenza scientifica del carattere dei soggetti consente infatti, secondo i
criminologi positivisti, di sviluppare tecniche capaci di trasformare la personalità intervenendo sui suoi elementi determinanti. Sulla base di queste
assunzioni viene affermato, come se fosse una verità autoevidente, che i delinquenti sono esseri distinti da caratteri speciali. Facendo perno sulla nozione di
«patologia» i criminologi positivisti fissarono una precisa norma di «salute»
sociale e individuale e collocarono il «criminale» al di sotto di questo standard.
La presunzione di combattere la criminalità rimuovendone le cause mostra
come la criminologia ignori quasi completamente i processi sociali attraverso
i quali la legge penale è prodotta e modificata; i meccanismi attraverso i quali
determinati valori sociali sono recepiti nelle definizioni legali dei reati a scapito di altri valori; i processi attraverso i quali la legge penale è applicata; i rap-
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CAPITOLO 3
porti che legano le reazioni sociali alla criminalità e che determinano l’adozione di una politica criminale piuttosto che di un’altra. I criminologi positivisti
sostennero che la criminalità è un dato naturale e sociale che preesiste alle
definizioni legali di reato e sostennero che il loro studio della realtà oggettiva
del fenomeno criminale non interferiva con il fenomeno così come lo studio
dei fisici non interferisce con la caduta dei gravi. Essi quindi si rifiutarono di
prendere atto che ciò che è definito comportamento criminale (il delitto) cambia nel tempo e nello spazio, ciò che era delitto nel passato non lo è più oggi,
ciò che è reato per un ordinamento giuridico non lo è per un altro, e del fatto
che le reazioni ai reati degli apparati penali (il castigo) e delle istituzioni del
controllo sociale mutano a seconda del tempo e del luogo. Essi si rifiutarono
in altre parole di riconoscere che l’oggetto del loro studio, lungi dall’essere un
dato naturale, è definito dall’apparato statale (potere legislativo, organi giudiziari, forze di polizia) sulla base di determinati valori.
Per quanto concerne la politica criminale la criminologia positivista favorì e
perorò un netto salto qualitativo e quantitativo. Una volta assunto che all’origine dei delitti sta un elemento, la criminalità, scientificamente analizzabile, si
può pensare di passare da una politica criminale basata sul castigo per i delitti
commessi a una seria politica di prevenzione ante delictum. Beccaria aveva
proclamato che lo scopo del «sistema legislativo» doveva essere quello di prevenire i delitti, piuttosto che di punirli. Ma il fatto stesso che avesse affidato
questo compito al sistema legislativo indica che a suo parere la prevenzione,
coerentemente con il paradigma liberale, si doveva basare esclusivamente sulla minaccia della pena. L’idea di agenzie statali incaricate di controllare gli
individui per prevenire i delitti appariva inconciliabile con l’ordine liberale.
La stessa attività di polizia era vista dagli illuministi come una pericolosa minaccia per la libertà individuale.
La criminologia positivista invece promise una prevenzione fondata sulla scienza. Una volta in possesso di un criterio scientifico per individuare i criminali,
attraverso tecniche identificative quali l’antropometria, le impronte digitali, i
sistemi di segni per contraddistinguere con marchi indelebili i corpi degli ex
rei, si potevano identificare i soggetti, che per quanto osservassero la legge,
erano anormali, pericolosi e bisognosi di controllo. Diventava quindi del tutto legittimo sottoporre a restrizioni quei soggetti che manifestavano sintomi
criminali come gli ubriachi abituali, i deboli di mente, i senza fissa dimora, gli
epilettici ecc. Questa necessità di classificazione fece nascere un intero apparato di investigazione e ricerca che andava ben oltre le indagini della polizia
giudiziaria e prevedeva varie forme di ispezione e ricerca necessarie nel nuovo
sistema di istituzioni sociali. Le varie agenzie (gli uffici dei servizi sociali, gli
ufficiali della sorveglianza ecc.) che si presero in carico i soggetti «a rischio»
permisero di allargare enormemente l’ambito delle conoscenze disponibili per
le autorità che arrivò a ricomprendere non soltanto l’autore del reato, ma
anche la sua famiglia e la sua casa.
Questo immane sforzo fu sostenuto dal miraggio di una società senza criminali. Il motore di questa politica fu la promessa di riformare la criminalità, di
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trasformare cioè l’individuo criminale adattandolo alla vita sociale e di curare
la sua criminalità o, in casi estremi, di estinguerla sopprimendo, deportando o
semplicemente segregando a vita il criminale incorreggibile. Il successo di
queste due strategie (da attuarsi attraverso mezzi quali prigioni capaci di riformare, sentenze a tempo indeterminato, programmi di prova sorvegliati,
varie forme di detenzione preventiva, eliminazione parziale o completa attraverso la deportazione, la sterilizzazione o la soppressione) avrebbe portato a
una graduale eliminazione della criminalità dalla società.
4. LA SOCIOLOGIA DURKHEIMIANA: LA PENA COME
MANIFESTAZIONE DELLA COSCIENZA E LA DIVISIONE
ANOMICA DEL LAVORO
Un discorso diverso deve essere fatto per la teoria di Durkheim. I padri fondatori
della sociologia manifestarono un forte scetticismo verso gli approcci classici al
problema dell’ordine sociale elaborati dalla filosofia politica liberale. In particolare criticarono come irrealistico il fatto che sia l’impostazione hobbesiana sia
quella smithiana ponessero a fondamento dell’ordine sociale una psicologia in
forza della quale gli individui avrebbero trovato conveniente compiere determinate azioni grazie agli incentivi e alle sanzioni connessi alle opzioni disponibili.
Durkheim, come Max Weber, obiettò in sostanza che l’operare di entrambi i
meccanismi di controllo sociale (lo stato e il mercato) su cui faceva perno la
teoria liberale presupponeva che il problema dell’ordine sociale fosse già stato
risolto. La base dell’ordine sociale doveva essere piuttosto cercata nell’interiorizzazione dei valori. Secondo la tesi che si faceva largo, un individuo non compie una determinata azione perché ha pensato di ricavarne la maggiore utilità
possibile ma, nella maggioranza dei casi, perché non si è proprio soffermato a
valutare le alternative, trovandole prima facie moralmente o praticamente inaccettabili. La coesione sociale non è, e non può essere, il frutto di apparati repressivi o di meccanismi incentivanti, ma si fonda su una sorta di pedagogia
sociale non autoritaria, che porta all’inibizione spontanea di sentimenti egoistici.
L’ordine sociale, in altri termini, non è il frutto di uno stato o di un mercato
onnipresenti, ma dell’operare diffuso di organismi sociali che si autogestiscono.
In questo quadro si sviluppa la teoria di Durkheim sulla pena. Per questo
autore il delitto è un dato oggettivo ma non naturalistico. La linea di
demarcazione del crimine può essere ricavata sì dall’analisi dei fatti, ma di un
tipo particolare di essi: i fatti sociali. La specificità dell’approccio sociologico
sta, come scrive Dal Lago [1981, 8] nell’invenzione «di un meccanismo autonomo e legittimato come produttore di realtà, fenomeni e comportamenti, la
“società”». Per Durkheim non sono i soggetti, come sostiene la teoria liberale, il centro e il nucleo generatore dell’ordine, ma è l’ordine che dal suo interno «produce» le diverse individualità: quella fra soggetto e società è considerata un’antitesi falsa, l’autonomia individuale è lo specifico prodotto della forma moderna di solidarietà sociale.
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CAPITOLO 3
Appoggiandosi all’idea di organizzazione naturale e autonoma della società,
Durkheim ha cercato di delineare una normatività sociale legittima e non dispotica. L’oggetto della sua analisi non è il «criminale» e le sue determinanti
biologiche e sociali, ma la dimensione macrosociologica del nesso tra delitto e
castigo. Il fenomeno della repressione penale viene sottratto a una interpretazione di tipo naturalistico-oggettivo per essere collocato all’interno dei meccanismi che garantiscono l’omogeneità sociale e una determinata gerarchia di
differenziazioni dovuta all’organizzazione del lavoro. In questa prospettiva il
delitto cessa di essere un evento patologico, per assurgere allo status di prezzo
normale da pagare per l’integrazione di una società complessa. Per il sociologo
francese il crimine svolge addirittura una funzione positiva: quella di risvegliare quei sentimenti che costituiscono il collante di una società [Durkheim
1895; trad. it. 1979, 72-78]. La convinzione che il «crimine è un fenomeno
normale e non patologico» è assolutamente incompatibile con l’approccio
criminologico. Infatti «se il crimine non è una patologia lo scopo della pena
non può essere quello di “curarlo”». È chiaro che negando la funzione terapeutica dell’intervento repressivo si mette in discussione l’essenza stessa della
criminologia.
Secondo il sociologo francese tutti i reati, per quanto differenti possano sembrare le azioni così definite, devono avere «un fondo comune» dal momento
che provocano una reazione comune: la pena. Questo «fondo comune» a tutti
i reati consiste nel fatto che essi frustrano emozioni e violano sentimenti che
sono profondamente insediati nella maggior parte dei membri della società.
Questa è la celebre teoria di Durkheim: ogni società considera «crimini» quegli atti che violano la propria conscience collective 2. Tutte le società, sostiene il
sociologo francese, hanno un proprio codice morale fondamentale che considerano sacro e gli atti che lo violano provocano una reazione punitiva: «non
bisogna dire che un atto urta la coscienza comune perché è criminale, ma che
è criminale perché urta la coscienza comune. Non lo biasimiamo perché è un
reato, ma è un reato perché lo biasimiamo» [Durkheim 1893; trad. it. 1962,
103]. I «crimini» sono quegli atti che violano il codice morale fondamentale
della società, sono «offese morali» che turbano profondamente «tutte le coscienze sane», suscitando una richiesta di punizione che non può essere soddisfatta da forme lievi di reazione sociale. Le violazioni di regole sociali che
non fanno parte del codice morale fondamentale danno invece origine a sanzioni «restitutive» e «regolatorie».
Il «simbolo che esprime e riassume» le somiglianze interindividuali necessarie
per garantire la stabilità del corpo sociale è, secondo il sociologo francese, la
legge. Essa e il tipo di sanzioni che prevede rappresentano l’indicatore
dell’«ordine morale» vigente in una determinata società. Le sanzioni penali
sono per Durkheim l’«indice visibile» che permette di trattare la «coscienza
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Durkheim definisce la coscienza collettiva come «l’insieme delle credenze e dei sentimenti
comuni alla media dei membri della stessa società». Un tale insieme forma «un sistema determinato che ha una vita propria» [Durkheim 1893; trad. it. 1962, 101].
2
CASTIGO E DELITTO
collettiva» non come un termine generico, che designa una pluralità di intuizioni e categorie morali condivise dai membri della comunità, ma come un
«fatto sociale», che può essere osservato e studiato direttamente in modo scientifico. Le leggi penali non hanno dunque lo status di mere convenzioni
regolative ma quello di proibizioni sacre fondate su un diffuso consenso: «i
sentimenti collettivi ai quali corrisponde il reato» non sono il frutto di «velleità esitanti e superficiali, ma di emozioni e di tendenze fortemente radicate in
noi» [ibidem, 100].
Nelle società primitive come nelle moderne società liberali secondo Durkheim
[1925; trad. it. 1969, 608] la pena non è uno strumento deterrente ma un
modo di comunicare un messaggio morale e di manifestare la forza dei sentimenti che gli stanno dietro. Lo scopo della pena non è quello «di fare scontare al colpevole la colpa facendolo soffrire, né di intimidire con mezzi comminatori gli eventuali imitatori, bensì di rassicurare quelle coscienze che la
violazione della norma ha potuto, ha dovuto necessariamente turbare nella
loro fede». Prima che una funzione immediata di controllo del crimine, la
pena ha una funzione di preservazione del sistema e questo, in termini
sociologici, è più importante. Nel reagire a particolari crimini la pena assolve
al compito di sostenere il sovrastante ordine morale e di prevenire la sua erosione e il suo collasso. Questa è la ragione per cui perfino quando il costo
richiesto per punire un’offesa appare superiore al danno diretto causato da
essa, la pena è necessaria.
Il fatto che le passioni provocate dal crimine vengano tutte espresse allo stesso tempo e in modo collettivo fa sì che esse si rafforzino vicendevolmente e
diventino più omogenee. Il crimine, permettendo alle passioni morali condivise di esprimersi, costituisce l’occasione che dà loro modo di rinforzarsi e
rassicurarsi mutuamente. Il violento manifestarsi del sentimento comune, concentrato e organizzato nei rituali punitivi, rafforza la solidarietà, crea una spontanea riaffermazione delle credenze comuni e delle relazioni reciproche che
serve a rafforzare il legame sociale. Questo ragionamento porta Durkheim a
sostenere, in Les règles de la méthode sociologique, la tesi della «normalità» del
crimine. La violazione delle regole morali fondamentali viene infatti a essere
vista come un momento necessario per la definizione da parte di ogni società
del proprio sacro ordine morale. Il crimine rende la società consapevole del
proprio ordine morale e la pena assume il ruolo di strumento attraverso il
quale una società definisce i confini della propria coscienza collettiva. La tesi
della «normalità» del crimine implica dunque quella della inevitabilità della
reazione penale; senza una tale reazione verrebbe meno la coscienza collettiva
e quindi si disintegrerebbe la società.
La solidarietà che la moderna pena detentiva protegge è la solidarietà organica, cioè una solidarietà che si fonda sulla cooperazione fra le parti sociali,
sull’interdipendenza tra i diversi componenti della società. È dalla consapevolezza che la cooperazione fra gli individui costituisce il perno dell’organizzazione sociale che nasce quella «religione dell’individuo», quel rispetto sacro
per l’individuo e la sua autonomia che il moderno diritto penale protegge e
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CAPITOLO 3
sanziona. Quella descritta da Durkheim è una società in cui la solidarietà non
esclude la proprietà e non cancella la concorrenza: ne corregge gli eccessi e in
un ottimistico quadro evolutivo prefigura una graduale sostituzione della collaborazione al conflitto. Frutto dell’evoluzione e della logica stessa della convivenza, la cooperazione è un fatto essenzialmente spontaneo: sono i soggetti
che, consapevoli del ruolo della società e dei vantaggi della cooperazione, la
perseguono liberamente. Allineato sotto questo profilo con lo spirito del tempo, Durkheim sostiene che il diffondersi del principio contrattuale significa la
progressiva contrazione della conflittualità e l’estensione della collaborazione. Il movimento «dallo status al contratto», per usare la celebre frase di Henry
Sumner Maine, è in primo luogo ai suoi occhi il passaggio da una collaborazione coattivamente imposta attraverso il diritto penale a una collaborazione
spontanea sanzionata al massimo con il risarcimento del danno.
L’ordine sociale democratico viene a identificarsi nella spontanea cooperazione
di soggetti eterogenei. Secondo l’utopistica visione che emerge dalla pagine della
Division du travail social, in un ordine sociale perfetto, caratterizzato da una
spontanea divisione del lavoro, l’assegnazione delle varie occupazioni si accorderà con le attitudini individuali e non creerà disagio sociale. Alla tesi che il
castigo svolge un fondamentale ruolo di definizione simbolica dell’ordine eticopolitico l’analisi durkheimiana affianca dunque una teoria dei nessi tra divisione
del lavoro e criminalità. Se i delitti sono un attentato alla coscienza collettiva su
cui si fonda una società integrata, essi sono sintomo di una mancata accettazione del proprio ruolo sociale, della propria collocazione nella gerarchia delle
funzioni. Nelle moderne società industrializzate il «criminale» rifiuta la propria
collocazione sociale, mette in discussione un ordine fondato sulla differenziazione
delle opportunità e delle gratificazioni, rifiuta l’organizzazione sociale fondata
sulla specializzazione e sulla divisione gerarchica dei ruoli. Questo rifiuto deriva
secondo Durkheim dalla divisione «anomica» del lavoro, esso può cioè essere
superato armonizzando la diversificazione dei ruoli e delle specializzazioni sociali con le doti innate dei soggetti. Il comportamento criminale non sarebbe
dunque altro che uno degli effetti della natura forzata della divisione del lavoro.
In una società in cui i ruoli fossero distribuiti secondo i meriti biologici e le
propensioni naturali l’insoddisfazione non avrebbe ragione d’essere.
Nel corso del Novecento l’analisi durkheimiana dell’anomia prenderà il
sopravvento su quella della pena dando vita a quello che è stato definito «il
paradigma sociale». Questo paradigma ha l’indubbio vantaggio, rispetto ai
paradigmi economico e giuridico, sui quali si fonda la giurisprudenza classica,
di non dover ricorrere a una legittimazione arbitraria e mitica come il contratto sociale. E rispetto alla criminologia ha il vantaggio di non essere costretto
ad assumere implicitamente come normativo lo status quo esistente. Diversamente dalla teoria liberale classica e dalla criminologia, la teoria durkheimiana
non assume infatti come elementi primi né il mercato né il contratto sociale e
neppure un arbitrario modello di personalità, ma sembra procedere in modo
molto lineare: muove dagli elementi più immediati della società (il lavoro, la
divisione delle funzioni, la famiglia), descrive la loro evoluzione (la modernità
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e l’aumento della complessità) e redige l’inventario delle loro disfunzioni (la
patologia sociale, la povertà, il crimine, i conflitti).
La centralità dell’opera di Durkheim per la sociologia della devianza e della
pena del Novecento è dovuta soprattutto al fatto che il sociologo francese
fonde l’ossessione per «ciò che tiene insieme la società» [Parsons 1967; trad.
it. 1971, 9], producendo e organizzando le coscienze dei singoli, con il problema dell’autoregolazione e dell’autocontrollo individuale. È questa impostazione che ha reso per molti aspetti relativamente non problematica l’assimilazione del «paradigma sociale» da parte della criminologia. Nozioni elaborate dalla tradizione sociologica, come «normalità» e «patologia», «devianza»
e «controllo sociale», «anomia» e «marginalità», hanno ormai assunto uno
statuto di ovvietà e si sono intrecciate con quelle di matrice criminologica.
Assieme a esse sono oggi normalmente impiegate nei settori del lavoro sociale, dell’assistenza sociale, della psichiatria, della scuola ecc.
5. DAL CRIMINALE AL DEVIANTE
Le basi del «paradigma sociale» sono poste negli anni Trenta dal sociologo
americano Talcott Parsons che fonde approccio durkheimiano e impostazione
consensualista sostenendo che ogni sistema sociale si regge necessariamente
su un forte consenso intorno ai valori istituzionalizzati e sulla piena accettazione da parte di tutti gli individui del proprio ruolo sociale. Richiamandosi a
Durkheim e probabilmente influenzato dall’atmosfera conflittuale dominante negli Stati Uniti in quel periodo, Parsons sottolinea l’importanza del consenso morale per l’unità e la coesione sociale. Di fronte alla crisi di quegli anni
non invoca l’intervento dello stato e della coercizione, ma propone la visione
di una società libera da tensioni e da conflitti; descrive, e al tempo stesso
prescrive, una società civile più unitaria e consensuale. Solo l’esistenza di un
insieme di valori fondamentali condivisi da tutta la società può, a suo parere,
controbilanciare l’egoismo esasperato dei singoli e dei gruppi. Il consenso sui
valori fondamentali non è più dovuto alla loro universalità e razionalità, come
sostenevano le teorie liberali settecentesche. Quella di Parsons è una teoria
consensualista sociologizzata e relativizzata; tuttavia continua a configurare il
riconoscimento dei valori, non più universali ma di una specifica società, come
un dato imprescindibile. Questo approccio sopprime quello spazio di critica
sociale che nel sistema durkheimiano era lasciato dalla possibile discrasia tra
divisione del lavoro effettivamente esistente e quella idealmente corrispondente ai meriti e alle propensioni degli individui.
Le implicazioni di questo modello teorico per l’analisi del delitto sono evidenti.
Ogni atto o comportamento che non corrisponde a precisi bisogni del sistema
sociale, che delude le aspettative sviluppate dagli altri consociati sulla base del
ruolo sociale ricoperto dall’attore è concettualizzabile come un atto criminale.
Il processo attraverso cui a un’azione vengono attribuite determinate caratteristiche e la definizione del delitto sono privati di ogni valenza politico-giuridica e
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CAPITOLO 3
ridotti a una necessità sistemica. Gli aspetti particolari della singola azione vengono tralasciati, non sono rilevanti né le sue modalità concrete né il significato
che essa ha per il suo autore o per l’ambiente specifico di cui egli fa parte 3.
L’unica cosa che conta è che essa, contrastando con i valori istituzionalizzati e le
aspettative sociali consolidate, è nociva alla società nel suo complesso, e quindi
da evitare. Questa impostazione porta ad allargare a dismisura la nozione di
delitto, a dissolvere la nozione di «criminalità» in quella più ampia di «devianza» 4.
Il concetto di «devianza» diventa la lente attraverso cui è possibile leggere e
analizzare tutti quei fenomeni che sembrano contraddire l’assunto di un consenso unanime, di una perfetta integrazione sociale.
In una società stabile e integrata come quella descritta da Parsons le cose
accadono, ma sono costantemente sotto controllo. Il disturbo è ricondotto
esclusivamente a imponderabili interferenze. La spiegazione della devianza,
della non conformità alle norme, risulta difficile ed estranea alla teoria parsonsiana. Non ci sono infatti nel sistema del sociologo americano gruppi che
si contrappongono: ci sono solo conflitti tra individuo e sistema sociale dovuti
alla inadeguata socializzazione del singolo soggetto. La società è interpretata
come sistema organizzato attorno a norme e valori istituzionalizzati il cui scopo è essenzialmente il mantenimento dell’equilibrio esistente attraverso
l’autoregolazione collettiva: non esistono per definizione conflitti di tipo strutturale che esprimono il dissenso di gruppi sociali, ma solo situazioni marginali
e individuali di cattiva integrazione, di «devianza». La figura del deviante non
si può che ricavare in negativo da quella di soggetto socialmente integrato, del
soggetto cioè che riesce ad adattarsi alla normatività sociale attraverso processi di sublimazione e di rimozione-repressione dei propri istinti.
L’impostazione social-consensualista di Parsons assume che ogni sistema sociale sia fondato sul consenso escludendo a priori che l’organizzazione di una
società possa generare conflitto: il conflitto, infatti, presume almeno un certo
grado di dissenso riguardo ai valori. La varietà culturale è assunta dal sociologo
americano come un dato puramente negativo, un momento disfunzionale non
indagato nel suo concreto manifestarsi5. La dinamicità sociale è affidata quasi
Non a caso le prime reazioni alla teoria parsonsiana si richiameranno alla teoria dell’associazione differenziale elaborata da Sutherland e daranno vita agli studi sulle subculture, sottolineeranno cioè la pluralità delle culture che fanno da contesto alle concrete azioni dei singoli.
3
4
Esemplare è la definizione di devianza di chiara matrice struttural-funzionalista data da Cloward
e Ohlin nel loro studio sulla delinquenza minorile: «ogni atto deviante comporta la violazione
di regole sociali che disciplinano il comportamento dei partecipanti in un sistema sociale. Esso
consiste in una transazione comportamentale in cui l’attore viola i diritti della vittima quali sono
definiti dal sistema di aspettative sociali legittime di cui fa parte il comportamento di ruolo della
vittima stessa. La caratteristica principale di un atto deviante, in altre parole, è data dal fatto che
esso non corrisponde al comportamento che la vittima è portata ad aspettarsi dagli altri in base
alla propria posizione sociale» [Cloward e Ohlin 1960; trad. it. 1968, 4].
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Negli Stati Uniti il paradigma social-consensualista di Parsons costituirà la nervatura su cui si
svilupperà a partire dalla fine degli anni Quaranta l’ideologia del melting pot, del grande crogiolo ove gli elementi più eterogenei devono trovare un modus vivendi non conflittuale, fondersi
tra loro per dare vita a una società integrata e stabile che naturalmente non si discosti in modo
significativo da quella santificata dall’ideologia wasp (cioè dei bianchi anglosassoni protestanti).
5
CASTIGO E DELITTO
esclusivamente al succedersi delle generazioni: di qui l’enfasi posta sui problemi della socializzazione e della collocazione di ruolo, sul sistema educativo
ecc. In The Social System, opera in cui sistematizza la sua teoria sotto l’influenza delle tesi di Sigmund Freud, Parsons fa assurgere la famiglia al ruolo di
rappresentante del corpo sociale. La socializzazione dell’individuo attraverso
il rapporto con il padre e la madre emerge come il processo attraverso cui la
società trasmette ai suoi membri i valori sociali condivisi su cui poggia l’ordine sociale. Il sistema disegnato dal sociologo americano si presenta come un
universo consensuale privo di smagliature: vi è un sistema di valori che coincide con il sistema sociale e che si perpetua evolvendosi lentamente e pacificamente attraverso la socializzazione dei bambini. Questo quadro rende molto
difficile spiegare il mutamento sociale, specialmente quello rapido e tumultuoso, e rende ancora più difficile la spiegazione sociologica della devianza.
Il sistema è di per sé perfetto, integrato e capace di adattarsi dinamicamente,
il deviante non può che essere il frutto di una patologia, è colui che è stato
segnato da una cattiva socializzazione e di conseguenza non è stato capace di
una felice integrazione sociale. Come ha scritto Ralf Dahrendorf [1964, 216]
il deviante è «il bacillo che attacca il sistema dalle buie profondità della psiche
individuale o dai nebulosi paraggi del mondo esterno». L’uomo integrato è
colui che, dotato di un Super Io perfettamente sviluppato, affronta con realismo e maturità la realtà, adattando i suoi desideri e le sue azioni ai ruoli sociali
che occupa. Il ferreo controllo delle passioni trova la propria ricompensa in
una facile integrazione sociale e nel successo che consegue dall’adesione senza remore ai ruoli funzionali in cui è strutturata la società. La genesi del comportamento deviante non può che essere individuale: la sua origine è psichica
o tutt’al più confinata nella relazione genitori/bambino. Il delitto non ha altra
giustificazione logica che la patologia del soggetto che lo commette: dato che
il sistema è perfetto, integrato e quindi assicura a tutti un certo grado di
socializzazione comune, chi devia ha male interiorizzato le norme, per una
qualche ragione è stato socializzato imperfettamente. Il deviante è un individuo male adattato a causa di una qualche anomalia psichica (o uno «straniero» che non ha ancora appreso i valori della società che lo ospita). È evidente
che con una tale conclusione Parsons mina le basi stesse dell’approccio
sociologico, riducendolo in sostanza alla prospettiva della criminologia positivista con la quale Durkheim aveva duramente polemizzato.
È vero che l’eziologia del crimine non viene ricercata, come facevano i
criminologi positivisti, in un processo biopsicopatologico. La condotta deviante viene però spiegata esclusivamente in termini di disadattamento ai valori intorno ai quali la società si è integrata, di una difettosa interiorizzazione
del senso di autorità, delle norme sociali (e quindi di quelle legali). Il criminale emerge dunque come un soggetto non sufficientemente socializzato, come
colui che non riesce a reprimere i propri impulsi antisociali: è l’adulto per
certi versi rimasto bambino. Il deviante palesa il suo difetto di socializzazione
nell’incapacità di integrarsi. Se la conformità ai ruoli sociali deriva in ultima
analisi nella difettosa interiorizzazione delle norme, il criminale è accomunato
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al malato mentale, così come a ogni altro soggetto non conformista. L’ipostatizzazione del sistema sociale dominante conduce dunque all’unificazione
di tutte le forme di devianza e alla loro connotazione come forme di comportamento psicologicamente disadattato. Vengono ricondotti a un unico processo i fenomeni più diversi ed eterogenei di disagio sociale: l’alcolismo come
il vagabondaggio, gli attentati alla proprietà come il teppismo delle bande
giovanili, le organizzazioni criminali mafiose e camorristiche come l’emarginazione degli anziani poveri, le nevrosi causate dall’alto livello di competitività
negli ambienti di lavoro come l’intolleranza razzista, il terrorismo come il basso livello di scolarizzazione dei ragazzi di alcune fasce sociali, l’illegalità dettata dal bisogno come i crimini dei colletti bianchi, la corruzione politica come
l’assunzione di stupefacenti ecc.
Riducendo tutti questi fenomeni a un problema strettamente individuale, patologico, come faceva la criminologia positivista, il paradigma social-consensualista neutralizza la loro carica eversiva, la loro capacità di mettere in
discussione l’organizzazione sociale vigente. Come nella criminologia positivista, i cui epigoni non a caso trovano nella sociologia parsonsiana un quadro
ideale per le loro ricerche, lo status quo normativo è assunto come dato oggettivo e indiscutibile, l’ideologia delle classi dominanti è elevata a base della
teoria scientifica. Il problema della devianza viene ridotto a un problema di
soluzioni terapeutiche, la criminalità va affrontata potenziando gli apparati
educativo-pedagogici e studiando pratiche di «rieducazione» del criminale.
Nonostante queste caratteristiche, anzi proprio grazie a esse, il paradigma
social-consensualista si impose negli Stati Uniti a partire dalla fine degli anni
Quaranta con l’affermazione del welfare state come la base teorica della politica riformista in campo penale. Esso emerse come il paradigma dominante
nel periodo, che va dal 1940 alla fine del 1960, che vide lo sviluppo più rigoglioso della criminologia statunitense. La criminologia di ispirazione parsonsiana si presentò come un teoria progressista consapevole dei nessi strutturali
tra economia politica e politica sociale, che legava la soluzione dei problemi di
disagio sociale a una politica di riforme sociali, che considerava l’obiettivo
della giustizia sociale come il momento fondamentale e prioritario nella lotta
alla criminalità. Infatti solo questo obiettivo, solo la creazione di uno stato del
benessere e della sicurezza sociale poteva rendere plausibile lo sviluppo di un
consenso tale da giustificare un’ipotesi di giustizia penale come difesa sociale,
come difesa, cioè, degli interessi dei più dall’aggressione di una minoranza di
soggetti devianti, di individui non integrati. Questa politica, come tutte le
politiche welfariste, ebbe due facce tra loro interdipendenti. Da un lato mirò,
attraverso misure economiche di tipo keynesiano, a razionalizzare l’organizzazione del lavoro riducendo la conflittualità sociale. Dall’altro cercò di isolare le classi e i ceti sociali che non si riusciva comunque a coinvolgere nel processo produttivo. La riduzione delle disuguaglianze economiche attraverso
una politica di ridistribuzione del reddito e di un ampliamento dei servizi
sociali marciò di pari passo con la ghettizzazione di quei soggetti considerati
non integrabili e quindi potenziali generatori di conflitti sociali.
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6. LA COSTRUZIONE SOCIALE DELLA DEVIANZA:
LA «LABELLING THEORY»
Con le politiche welfariste negli Stati Uniti si verificò una trasformazione delle agenzie statali di controllo: fu ridotto il peso, se non l’estensione, degli apparati segregativi e contemporaneamente venne favorito il proliferare di agenzie
di controllo che operavano sul territorio. Si sviluppò una rete sempre più
estesa di strutture il cui carattere assistenziale si accompagnava necessariamente a un controllo pervasivo della vita quotidiana. Lo sviluppo di questo
«stato di polizia» dal volto umano e caritatevole creò nel corso degli anni
Settanta la percezione che l’approccio riformista legittimava «un liberalismo
delle buone intenzioni»: un liberalismo che in quel periodo si faceva sostenitore di tecniche per la modificazione del comportamento dei devianti sempre
più intrusive, dipingendole come un nuovo stadio della tradizione riformatrice. L’avversione per queste proposte, innestandosi sull’insofferenza emersa
negli anni Sessanta per la crescente invadenza delle politiche sociali, finì per
modificare l’atteggiamento verso le dimensioni raggiunte dallo stato moderno: le vicende storiche non solo della prigione e del manicomio, ma anche
della scuola, dell’ospedale e delle altre istituzioni assistenziali, dato che lo stato si era fatto carico di molte di loro, cominciarono ad apparire più facilmente
comprensibili come segmenti di una storia del Leviatano statale che non come
parti di una sequenza di riforme tese a soddisfare le esigenze dei singoli.
Questo radicale capovolgimento di prospettiva fu senza dubbio favorito dall’affermazione nel corso degli anni Sessanta della labelling theory che aveva
minato il dominio dell’ideologia correzionalista e, di conseguenza, della
criminologia. Secondo la labelling theory i metodi formali di controllo sociale
non dovevano essere considerati come strumenti prevalentemente reattivi,
come un meccanismo riparatore che entrava automaticamente in funzione
quando le altre misure fallivano, ma come una forza attiva nel configurare
l’essenza stessa del crimine e della devianza. Il nucleo di questa impostazione
è ben reso dalla celebre presa di posizione di Edwin Lemert. Mentre la vecchia sociologia «tendeva a rimanere ancorata all’idea che è la devianza a dar
luogo al controllo sociale», Lemert [1967; trad. it. 1981, 1] afferma di essere
«giunto a credere che l’idea inversa (e cioè che è il controllo sociale a dar
luogo alla devianza) è altrettanto sostenibile e che costituisce una premessa
più feconda per lo studio della devianza nella società moderna».
Come sostiene David Matza [1969; trad. it. 1976, 227] in un famoso passo di
Becoming Deviant, ci si rese conto che gli studi sulla devianza di matrice
parsonsiana avevano prodotto il sorprendente risultato di separare lo studio
del crimine da quello dello stato, avevano dato vita a una nozione di controllo
sociale senza storia e senza politica. La labelling theory, con il suo capovolgimento di prospettiva tra devianza e reazione sociale, nasce come un tentativo di ricondurre la devianza nell’ambito dei fenomeni spiegabili sociologicamente. Da un lato essa cerca di recuperare l’idea del controllo sociale
come un processo costitutivo dell’identità individuale propria della Scuola di
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Chicago, dall’altro tende a caratterizzare il controllo sociale come un processo articolantesi prevalentemente attraverso un’attività istituzionale.
Muovendosi nell’ambito del paradigma interazionista i labelling theorists sostennero che una teoria veramente utile per la comprensione dei comportamenti devianti doveva partire dalla constatazione che l’integrazione non è lo
stato naturale del sistema: l’integrazione è ottenuta, e solo in modo parziale,
mediante varie tecniche che si incontrano nell’interazione quotidiana e che
permettono a determinati soggetti e gruppi di esercitare la costrizione e il
dominio su altri gruppi e soggetti. In questa prospettiva cosa è devianza non è
un dato predefinito ricavabile a contrario dalla struttura dell’organizzazione
sociale; che cosa viene etichettato in un determinato contesto e le conseguenze che ne derivano rappresentano invece uno dei principali indicatori per capire l’organizzazione sociale. Come scrive Erikson [1966, 6], per i labelling
theorists,
la devianza non è una proprietà inerente a qualche particolare forma di comportamento; è una proprietà conferita a quel comportamento dalla gente che
viene a contatto diretto o indiretto con esso. Il solo modo, dunque, in cui un
osservatore può dire se un dato tipo di comportamento è deviante o no, è di
imparare qualcosa sugli standard di comportamento della gente che reagisce a
esso.
La prospettiva struttural-funzionalista è dunque capovolta, si deve muovere
non dalla supposta esistenza di norme condivise, ma dall’esame delle norme
che concretamente nell’interazione quotidiana sanzionano i rapporti sociali.
Non esiste un ordine sociale basato su valori condivisi, l’unica cosa che esiste
è il processo di interazione attraverso cui le definizioni sono attribuite a certi
comportamenti umani.
Il paradigma interazionista comporta dunque lo spostamento dell’analisi dallo studio del fenomeno criminale come realtà ontologica, ai meccanismi sociali che definiscono quel comportamento o quel soggetto come criminale. Il
deviante non è più visto come l’individuo psicologicamente male adattato, ma
riacquista dignità di soggetto le cui motivazioni e modalità di agire vanno
indagate in rapporto alla complessità del contesto sociale e alle sue contraddizioni. La criminalità, come ogni altro atto deviante, non ha nulla di oggettivo
e naturale, è il prodotto di un giudizio che viene dato su alcuni comportamenti6. Il criminale, quindi, non è altro che colui che è definito tale. A parte questo etichettamento, chi commette un reato è in prima istanza in tutto simile
agli altri soggetti, cioè ai non criminali, casomai ciò che lo trasforma, che lo
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Questa tesi è chiarita molto bene da un altro importante esponente della labelling theory,
Howard Becker. Scrive Becker: «l’atto di iniettare eroina in una vena non è intrinsecamente
deviante. Se un’infermiera dà a un paziente delle droghe dietro prescrizione del medico, è
perfettamente in regola. È quando si fa una cosa in un modo che non è definito pubblicamente come appropriato che quel comportamento diventa deviante. Il carattere deviante di un
atto risiede nel modo in cui questo atto è definito dalla mentalità pubblica» [Becker 1971,
341].
CASTIGO E DELITTO
differenzia dal cittadino onesto, è proprio l’etichettamento che subisce e le
conseguenze che ne derivano.
È evidente che se un atto è criminale soltanto perché è definito tale e non
perché è manifestazione di una natura criminale o perché è oggettivamente
socialmente disfunzionale, allora è impossibile ridurre la criminalità a fattori
criminogeni, siano pure la sola deficienza di socializzazione. L’approccio
interazionista mina in prima istanza il fondamento di ogni teoria eziologica
del crimine, rende impossibile la spiegazione causale del delitto. Per questo
motivo l’interesse dei labelling theorists si concentra sul processo di interazione
tra chi ha il potere di definire un atto o un comportamento o un soggetto
come criminale o deviante e colui che subisce questa definizione, cioè colui
che viene etichettato come criminale o deviante.
Se c’è un elemento a cui i labelling theorists riconoscono una valenza causale
nella spiegazione della devianza questo è proprio il processo di criminalizzazione. Lemert in particolare, muovendo dalla teoria della personalità come
costruzione sociale, elaborata da Mead sulla scia di alcune suggestioni di Cooley,
sostiene che il controllo sociale induce alla devianza (secondaria) in quanto
l’interazione con gli addetti al controllo opera una trasformazione dell’identità degli individui spingendoli a vedersi come devianti. Muovendo dall’idea
che la coscienza che un soggetto ha di se stesso e, di conseguenza, il suo comportamento intenzionale sono strutturati dal modo in cui gli altri lo vedono e
interagiscono con lui, Lemert sostiene che gli individui possono essere spinti
a comportarsi come criminali perché sono trattati come tali. Assumendo la
malleabilità sociale dell’identità individuale, la sua permeabilità alla modalità
dell’interazione sociale, la teoria della «devianza secondaria» sostiene che chi
ha violato occasionalmente una norma penale probabilmente non commette
altri reati. Se però questo soggetto incappa nelle maglie delle agenzie di controllo sociale e viene definito un criminale o un deviante (un alcolista, uno
schizofrenico ecc.) è probabile che si scontri con un mondo che si pone in
relazione con lui sulla base di questa etichetta e che sia indotto da questo
comportamento a vedere se stesso in questi termini: potrebbe aderire all’identità di criminale che socialmente gli è imposta. Il criminale che viene definito
come violento e trattato come tale, secondo questa tesi, finirà per credersi
realmente violento e quindi per comportarsi in modo violento.
Se la criminologia positivista e quella struttural-funzionalista assumevano come
dato indiscutibile lo status quo etico-legale, proponendosi così come difesa
dei valori e degli interessi della maggioranza, i labelling theorists ribaltano
completamente questa prospettiva presentando in termini quasi esclusivamente
negativi la politica criminale. L’approccio interazionista delegittima l’intervento punitivo dello stato privandolo dell’aura di difensore dei valori socialmente condivisi e dell’ordine sociale, arrivando con la teoria di Lemert addirittura a colpevolizzarlo, a considerarlo la causa del male che pretende di «curare». Infatti, se gli individui acquistano la propria identità in base alle modalità con cui sono trattati, allora tutto l’apparato che la società adopera per
combattere il reato crea la diversità tra onesto cittadino e criminale: produce
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quella soglia che distingue l’autore di un singolo atto illegale o deviante dal
soggetto «criminale» o dal soggetto «deviante». Se la criminologia tendeva a
giustificare l’operato delle forze di polizia in nome della prevenzione criminale e legittimava il carcere come strumento di difesa sociale, l’approccio
interazionista non solo denuncia come ideologiche queste tesi, sostenendo
che l’azione di controllo della polizia non previene la criminalità e che il carcere non rieduca, ma soprattutto sottolinea che l’attività di controllo sociale
criminalizza i soggetti e che il penitenziario lungi dal configurarsi come un
luogo di trattamento umano e risocializzante produce prigionizzazione, e quindi
recidivi, ed esercita una forte violenza psicologica che destruttura la personalità degli internati [Pavarini 1980, 105-107].
6.1. La sociologia delle istituzioni totali: prigionizzazione
e destrutturazione dell’identità
Accanto alle teorie sulla devianza un forte impatto non solo teorico ma anche
politico ebbero a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta gli studi di matrice
interazionista sul carcere e più in generale sulle istituzioni totali. Queste analisi privarono della sua «ovvietà» il fatto che oggi una grande quantità di persone venga imprigionata per lunghi periodi di tempo. Fino a quando il carcere moderno viene presentato come l’ultima tappa di un processo che ha portato a lasciarci alle spalle le immagini dello squartamento, delle fustigazioni
pubbliche, della gogna o dei galeotti incatenati ai remi, esso appare come
un’alternativa più umana alla brutalità delle pene corporali e allo stato di abbandono che l’incarcerazione comportava in passato. Le privazioni e le frustrazioni derivanti dalla vita carceraria sembrano normalmente la giusta, se
non addirittura troppo mite, punizione che la comunità infligge a chi viola la
legge. E non appare per nulla paradossale che la società abbia scelto di
«rieducare» il criminale costringendolo ad associarsi con centinaia di altri criminali per anni. Una volta però che si comincia a esaminare il concreto funzionamento del carcere e delle istituzioni totali tutte queste assunzioni appaiono difficilmente sostenibili. Percorrendo la strada segnata da Tocqueville,
Gresham Sykes [1958, 242], autore di un importante studio su un carcere di
massima sicurezza, aveva già sottolineato che se si analizza nel dettaglio la vita
all’interno delle carceri ci si rende conto che le privazioni e le frustrazioni
della prigione moderna «possono essere tanto dolorose quanto i maltrattamenti fisici che hanno sostituito». I maltrattamenti psicologici si notano «meno
facilmente che il percuotere sadicamente, un paio di ceppi nel pavimento, o
un uomo incatenato alla mola, ma la distruzione della psiche non è meno
spaventosa dell’afflizione del corpo».
Il punto di riferimento di molte delle analisi delle istituzioni totali condotte
negli anni Sessanta e Settanta è The Prison Community, l’importante volume
pubblicato da Donald Clemmer [1941]: quest’opera muove dalla convinzione
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che per comprendere il senso della vita del carcere si deve guardare a ogni
istituto penitenziario come a una società nella società. È infatti impensabile che
molti individui rinchiusi insieme per un lungo periodo di tempo non diano vita
a un microsistema sociale capace di sviluppare, nei limiti dell’ordine sociale
imposto dalle guardie, un proprio peculiare ordine informale. Studiando il carcere di massima sicurezza dell’Illinois del sud come se fosse una microsocietà,
Clemmer [ibidem] riesce a mettere in luce la complessa trama di interrelazioni
esistenti tra la prigione e il suo ambiente locale, regionale e nazionale. E riesce a
mostrare come le variabili esterne, in particolare l’ambiente economico e sociale da cui provengono i detenuti, influenzino fortemente la vita interna del carcere creando forme di divisione di classe tra i detenuti.
Se per il suo carattere etnografico l’analisi di Clemmer non si presta a essere
generalizzata, essa contiene nondimeno una tesi forte: il carcere non ha alcun
potere rieducativo, ma tende anzi a produrre delinquenti sempre più incalliti.
Ogni speranza riabilitativa della detenzione, ogni fiducia nel lavoro svolto in
regime di segregazione, avrebbe dovuto essere spazzata via dal suo studio.
Clemmer coniò nel 1940 il termine «prigionizzazione» per mettere in luce i
reali esiti della detenzione che sono ben lungi dall’essere di tipo «rieducativo»
o «riabilitativo». Lavorando all’interno di un carcere Clemmer si accorse che
la cultura carceraria, come ogni cultura, ha la capacità di perpetuare se stessa:
i reclusi assorbono dunque la «cultura della prigione» che li rende ancora
meno adatti di prima alla vita al di fuori delle mura del carcere, e meno capaci
di seguire le regole e gli usi della vita «ordinaria». L’unico risultato della pena
detentiva è dunque quello di «prigionizzare» i detenuti ossia di incoraggiarli o
costringerli ad assorbire e adottare abitudini e costumi tipici dell’ambiente
del penitenziario e solo di quello, instillando nei reclusi modi di vita nettamente diversi dai comportamenti che vengono promossi dalle norme culturali operanti fuori delle mura del carcere; la «prigionizzazione» è l’opposto stesso della «riabilitazione», il carcere è l’ostacolo maggiore sulla «strada del
reinserimento».
Gli studi etnografici americani sulla vita degli internati raggiungono il culmine con il celebre lavoro di Erving Goffman, Asylums [1961; trad. it. 1968].
Goffman considera i risultati della sua analisi, condotta nell’ospedale psichiatrico St. Elizabeth’s a Washington D.C., generalizzabili a tutte le «istituzioni
totali». In questa categoria rientrano, oltre al carcere, quelle istituzioni, i cui
«utenti» «non hanno violato alcuna legge» [ibidem, 29], che presentino le
seguenti caratteristiche strutturali:
1. tutte le fasi della vita sono vissute nello stesso luogo e sotto il controllo di
una sola autorità;
2. ogni fase dell’attività quotidiana si svolge alla presenza immediata di un
folto gruppo di persone che sono trattate nello stesso modo e che devono
eseguire tutte assieme le stesse azioni;
3. tutte le fasi dell’attività quotidiana sono strettamente programmate: un’attività termina quando ne comincia un’altra, e l’intera sequenza viene imposta
dall’alto, da un esplicito sistema formale di regole e da un corpo di funzionari;
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4. le varie attività imposte compongono un singolo piano disegnato per conseguire gli scopi ufficiali dell’istituzione [ibidem, 35-36].
Le istituzioni totali vengono definite nelle prime pagine di Asylums come luoghi «di residenza e di lavoro» in cui «gruppi di persone [...] – tagliate fuori
dalla società per un considerevole periodo di tempo – si trovano a dividere
una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso
e formalmente amministrato» [ibidem, 29]. La loro caratteristica saliente è
quella di essere i luoghi nella nostra società in cui «si costringono alcune persone a diventare diverse». Le istituzioni totali rappresentano, sottolinea
Goffman, un vero e proprio «esperimento naturale su ciò che può essere fatto al
Sé» [ibidem, 42, corsivo mio]. Questa manipolazione del Sé però non avviene,
come voleva la retorica ottocentesca analizzata da Foucault, secondo un piano ben preciso mirante alla produzione del buon cittadino lavoratore. La tesi
di Goffman è che le istituzioni totali non sono in grado di conseguire il loro
fine istituzionale: la costruzione del cittadino disciplinato. In esse il potere
non è esercitato in modo razionale in vista di quel fine. Questo rende la vita
degli internati paradossalmente ancora più drammatica. Il Sé dei detenuti si
trova infatti in balia del quotidiano esercizio di un potere confuso, a volte
caotico, mirante a preservare il normale equilibrio dell’istituzione e riflettente
i risultati del compromesso sempre in evoluzione tra i diversi gruppi interni in
conflitto.
7. LA CRISI DEL «WELFARE STATE» E IL CAMBIAMENTO
DELLE POLITICHE PENALI
Nel corso degli anni Settanta anche i criminologi cominciarono a riconoscere il fallimento della pena come strumento di controllo del crimine. Per vie
diverse arrivarono alla conclusione che non solo la prigione è uno strumento inefficace, ma che anche la liberazione anticipata, l’affidamento alla comunità, le multe ecc., non riuscivano a conseguire quella rieducazione del
reo che i sistemi penali si erano posti come obiettivo primario. Si ebbe insomma la netta impressione che, per riprendere la conclusione di una celebre rassegna della letteratura dei primi anni Settanta, «niente funziona»
[Martison 1974]. I primi studi condotti sulla recidiva, considerata il parametro fondamentale per verificare il grado di efficacia dei percorsi risocializzanti, sembrarono dimostrare il fallimento di tutte le strategie adottate.
Più in generale le statistiche sembrarono indicare che il miglioramento delle
condizioni di vita degli strati più bassi della popolazione prodotto dal welfare
state non incideva sul tasso di criminalità. Questi risultati portarono alla
messa in discussione dell’eziologia della deprivazione, di quella teoria cioè
che riconduce la devianza a condizioni soggettive di svantaggio economicosociale. Si diffuse la sensazione che, contro ogni aspettativa, a un miglioramento generalizzato delle condizioni economiche e a un innalzamento sostanziale del tenore di vita aveva fatto seguito una crescita dei tassi di
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criminalità, soprattutto di quel tipo di criminalità che si era considerata più
strettamente connessa con la condizione di deprivazione: la criminalità di
strada e la microcriminalità.
La convinzione che i dati dimostrassero l’inesistenza del legame tra criminalità ed emarginazione ha fatto progressivamente venire a mancare ogni legittimazione politica alle strategie sviluppate nei vent’anni precedenti, sia quelle
preventive sia quelle rieducative, lasciando un vuoto teorico che sembra
incolmabile. Il diffondersi della consapevolezza del fallimento di tutte le moderne pratiche penali sembra per la prima volta comportare la messa in discussione della loro legittimità. Negli ultimi due secoli le analisi del fallimento
delle istituzioni punitive e della loro irrazionalità erano state sempre condotte
sullo sfondo di una proposta di riforma, ogni critica era stata accompagnata
da un progetto che avrebbe contribuito a migliorare la funzionalità del sistema penale. Questo inno ottimistico al futuro si interrompe con l’entrata in
crisi della nozione di «riabilitazione» che dal secondo dopoguerra era stata
allo stesso tempo un fine e una giustificazione per le pratiche penali legittimandole agli occhi del pubblico: il sistema punitivo comincia ad apparire
senza futuro, sembra aver perso senso. Entra in crisi la criminologia stessa
intesa come scienza «normale» che affronta problemi definiti in modo autorevole e si concentra sull’elaborazione dei dettagli e delle sfumature delle istituzioni penali.
La crisi di fiducia e di prospettive della criminologia coincide con l’esplosione
della «crisi fiscale dello stato» [O’Connor 1973]: nel corso degli anni Settanta
l’aumento dei deficit statali produce un drastico ripensamento delle politiche
di matrice keynesiana e una forte contrazione della spesa sociale. Naturalmente, data la crisi in cui si dibatteva la criminologia, gli investimenti destinati al trattamento non immediatamente repressivo dei devianti sono i primi a
cadere sotto la scure del contenimento della spesa. Questa situazione ha spianato la strada al successo delle tesi dei criminologi della nuova destra: la perdita di credibilità del paradigma eziologico ha lasciato lo spazio per un ritorno a Beccaria. Con il venir meno della fiducia nella possibilità di isolare le
cause della devianza e di poter quindi intervenire per rimuoverle si è tornati a
pensare che il criminale è un soggetto che in piena consapevolezza ha deciso
di violare le norme sociali e penali. Si risolve la questione, che dall’avvento
della criminologia positivista aveva rappresentato il cuore del dibattito criminologico, sul grado di autodeterminazione da riconoscere a chi commette un
delitto tornando al punto di partenza: il criminale è un individuo pienamente
in grado di decidere se tenere o meno un comportamento deviante. Nessun
rilievo viene più attribuito alle sue condizioni sociali, al contesto nel quale
agisce. Poco conta se è un individuo scarsamente socializzato o penalizzato
dall’essere vissuto in un ambiente ostile. L’azione delittuosa è il frutto della
decisione deliberata di un soggetto capace di scelte razionali. A questa
impostazione corrisponde un netto cambio di politica criminale e in particolare della concezione del castigo: la pena non è più in primo luogo lo strumento per correggere il deviante attraverso un trattamento forzato più o meno
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individualizzato. La deterrenza e l’intimidazione prendono il posto delle finalità riabilitative.
Questa impostazione neoclassica ha comportato l’ampliamento delle fattispecie
penali e l’inasprimento delle pene. Negli ultimi anni il numero di persone in
stato di detenzione o in attesa di una probabile condanna è cresciuto rapidamente in quasi tutti i paesi nordoccidentali. In tutte le democrazie sviluppate
si assiste a un incremento delle spese destinate alle «forze della legge e dell’ordine», in primo luogo alle forze di polizia e al personale carcerario adibito alla
custodia, e si procede alla costruzione di nuove carceri. La progressione con
cui cresce in questi paesi la quota della popolazione considerata in aperto
conflitto con la giustizia, che andrebbe quindi arrestata, cresce a ritmi tali da
porre un problema di trasformazione qualitativa delle politiche penali. I dati
sembrano suggerire che è successo qualcosa che fa apparire necessario agli
occhi dei governi e dell’opinione pubblica un ricorso molto più ampio di quello
dei decenni precedenti alla istituzionalizzazione dei cittadini. Il sociologo francese Loïc Wacquant [1999] ha sostenuto che stiamo assistendo a un passaggio
dallo stato sociale allo stato penale in cui la politica di incarcerazione e repressione penale non viene usata tanto per rispondere allo sviluppo della criminalità, che è rimasta più o meno costante nel periodo in cui si sono affermate le
nuove politiche penali, ma alla destrutturazione sociale provocata dalla ritirata dello stato «caritatevole».
Robert Castel [1991, 288] ha recentemente sottolineato che le nuove politiche penali che si stanno diffondendo sono radicalmente diverse da quelle tradizionali. Oggi intervenire sulla devianza non significa più individuare i concreti soggetti devianti da sottoporre a disciplinamento o rendere oggetto di
programmi di intervento sociale, comunque da «prendere in cura». Essendo
il potere di punire ricondotto alla connessione naturale tra delitto e castigo, la
legittimità della pena torna a essere un dato autoevidente, viene completamente svincolata dagli effetti «positivi» che può produrre sui soggetti a cui
era stata legata dall’epoca in cui si erano diffusi i penitenziari. L’elemento
centrale della nuova politica è la separazione della diagnosi dal trattamento e
il passaggio dalla presa in carico dei soggetti da parte degli operatori sociali o
penali a una pianificazione tecnocratica. Sparisce completamente l’idea, che
ha caratterizzato gli ultimi quarant’anni, per cui la prima esigenza è quella di
creare istituzioni capaci di sostenere e reinserire nella società la popolazione
che viene loro affidata. La politica del trattamento, o in termini critici del
disciplinamento, è superata. Secondo questa impostazione, mentre trecento
anni fa per fronteggiare l’invasione delle masse di soggetti espulsi dalle campagne che si riversavano sulle città, privi di mezzi di sostentamento, si fece
ricorso a istituzioni totali che avevano, come ha mostrato Foucault, nella disciplina il loro tessuto connettivo e la loro matrice di senso, oggi per fronteggiare la nuova plebe, formata soprattutto da extracomunitari ed emarginati,
in primo luogo tossicodipendenti, si fa ricorso alle mere misure incapacitanti,
al mero contenimento.
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7.1. La rottura della connessione tra istituzione disciplinare
ed etica del lavoro
Il tratto saliente del sapere criminologico che accompagna le nuove politiche
penali è la teorizzazione della rottura della connessione tra controllo sociale e
patologia che, in varie forme, aveva caratterizzato le riflessioni su delitto e
castigo per quasi cento anni: la ricerca e l’eliminazione delle condizioni (individuali e sociali) patologiche non è più la precondizione del controllo sociale.
Questa nuova impostazione comporta come logica conseguenza anche la trasformazione del «senso» del castigo: la pena non deve essere più rieducativa,
ma solamente repressiva e incapacitante. La sua funzione è general-preventiva, la pena deve servire da deterrente, la prevenzione speciale si limita all’incapacitazione temporanea. Non si chiede cioè alla pena di reinserire socialmente l’autore del reato, ma solo di metterlo, almeno per un certo periodo di
tempo, in condizioni di non nuocere. La pena viene vista principalmente come
il perno di una serie di strumenti che ergendosi a ostacoli fisici, materiali,
rendono meno facile la commissione dei delitti. Ad una teoria della prevenzione della criminalità incentrata sul criminale, sul suo essere un soggetto socialmente, culturalmente, economicamente, biologicamente condizionato subentra un discorso imperniato quasi esclusivamente sul comportamento deviante e l’ambiente in cui esso viene espletato. Di pari passo viene meno quella concezione del soggetto come materia duttile che era stata elaborata dalle
scienze mediche, psichiatriche e criminologiche e dalla sociologia funzionalista,
il soggetto cessa di essere visto come un’entità trattabile, trasformabile, e di
conseguenza la sua normalizzazione cessa di essere il perno delle politiche di
controllo sociale.
Zygmunt Bauman [1998] ha sottolineato che la crisi della concezione rieducativa della pena e la sua riconcettualizzazione in termini puramente
contenitivi trova la sua ragione profonda nella perdita di centralità dell’etica
del lavoro. Alla fine degli anni Sessanta, quando si è diffusa la convinzione
che, malgrado le migliori intenzioni, le condizioni tipiche delle carceri, i regimi di stretta sorveglianza, non potessero produrre la «riabilitazione», si è cominciato a pensare che i precetti dell’etica del lavoro non si conciliavano con
il regime coercitivo delle prigioni. Questi dubbi però non portarono immediatamente al rigetto del sistema punitivo, che come abbiamo visto aveva caratterizzato tutto l’Ottocento, e con esso della logica rieducativa, incentrata
sull’etica del lavoro, ma solo a sperimentare il lavoro svolto fuori dal carcere
nell’ultima fase della pena: il lavoro rieducativo doveva essere un lavoro svolto da libero o almeno da semilibero. Le difficoltà di queste esperienze hanno
però via via smorzato la fiducia nella rieducazione.
Negli ultimi dieci anni il problema si è posto in modo molto più drammatico.
Gli sforzi per il reinserimento lavorativo dei reclusi possono essere più o meno
efficaci, ma hanno un senso solo se c’è disponibilità, anzi direi «fame», di lavoro. Nell’Ottocento si era impazienti di investire il capitale in nuove produzioni
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industriali pronte ad assorbire quantità sempre crescenti di lavoro, oggi tutte le
principali Borse premiano le imprese che licenziano personale e tagliano il numero dei posti di lavoro. In queste condizioni non ha alcun senso cercare di
riportare al lavoro le categorie particolarmente riluttanti e riottose dei «senza
padrone». In queste condizioni la detenzione non può certo rivendicare una
sua razionalità sociale né come una scuola di avviamento al lavoro né come un
metodo di ripiego, imposto con la forza, per far crescere le fila della manodopera produttiva quando falliscono i metodi «volontari» ordinari. Senza contare
che quando c’è bisogno di manodopera si può fare ricorso all’enorme bacino
dell’immigrazione che fornisce lavoratori a buon mercato pronti ad autodisciplinarsi e in alcuni casi anche già altamente qualificati. Il problema oggi sembra
spesso esattamente l’opposto: come liberarsi di una grande quantità di lavoratori superflui, per i quali non esistono possibilità di lavoro e che non conviene
riqualificare, senza che questi diventino una minaccia sociale?
In questo contesto si sviluppano istituzioni carcerarie che sono panoptiche da
un punto di vista tecnologico, cioè basate sull’idea della continua sorveglianza,
ma sono lontanissime dallo spirito del progetto benthamiano in quanto non si
propongono alcun fine disciplinare, non mirano nel modo più assoluto allo
sviluppo dell’etica del lavoro, alla costruzione del «corpo docile» da impiegare
e quindi al reinserimento sociale del detenuto. Mirano esclusivamente a garantire la massima sicurezza dell’imprigionamento. Il nuovo tipo di sorveglianza è
completamente svincolato dalla compresenza tra sorvegliante e sorvegliato (anche dalla modalità più sublimata di questa compresenza che è quella del
Panopticon benthamiano) che caratterizzava la sorveglianza fino a oggi. Questa
compresenza era uno strumento indispensabile per l’applicazione delle tecnologie disciplinari. Ad emblema di queste istituzione ho assunto la prigione di
Pelican Bay in California, descritta nel riquadro con cui si apre questo capitolo.
La differenza con il Panopticon è evidente: il meccanismo ideato da Bentham
per incutere il timore della sorveglianza costante era quello di assicurarsi che i
reclusi svolgessero certe attività, seguissero certe routine, di renderli soggetti
produttivi e quindi socialmente utili. A Pelican Bay non viene svolto alcun lavoro produttivo, né alcun addestramento al lavoro; questa prigione non si preoccupa di fornire neppure una disciplina formale: il suo unico scopo è quello di
creare il vuoto intorno ai detenuti, vuoto a cui non si accompagna alcuna retorica della «riforma religiosa», che non è mirato a produrre l’esame di coscienza
né il ravvedimento. La tecnica panoptica da tecnica disciplinare si è trasformata
in tecnica meramente incapacitante: scopo della reclusione è ridurre la vita dei
detenuti al solo espletamento delle funzioni corporee.
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7.2. Politica penale attuariale e distribuzione del rischio
Lasciato cadere il miraggio della rieducazione (o l’incubo del disciplinamento)
l’unico criterio per determinare quale pena comminare, o meglio quale regi-
CASTIGO E DELITTO
me di pena detentiva adottare, rimane quello dell’efficienza e dell’economicità
del sistema di controllo sociale. Si assiste alla traslazione del problema della
devianza: questa cessa di essere un evento «patologico» da curare per trasformarsi in una fonte di rischio da «gestire». Alla filosofia della risocializzazione
si affianca e, col tempo, si sostituisce quella dell’efficienza. Questo passaggio
cambia radicalmente i parametri di successo delle politiche criminali: l’esito
dei programmi di reinserimento sociale sparisce dagli indicatori rilevanti per
lasciare posto al rapporto tra i costi sostenuti e i livelli di sicurezza ottenuti. Ci
si è orientati verso un management autonomizzato della popolazione condotto sulla base di profili predefiniti statisticamente, verso una politica penale
che è stata definita di tipo «attuariale» [De Giorgi 2000].
L’enfasi si sposta dalla prevenzione speciale, da ottenere tramite la «risocializzazione», alla prevenzione generale. Una spinta decisiva in questa direzione
è stata data dalla cosiddetta cost-benefits analysis: l’applicazione cioè delle teorie
economiche marginaliste al diritto penale e alla politica criminale. Alle tesi
moralistiche dei criminologi neoclassici, secondo cui è legittimo privilegiare
la funzione deterrente della pena per combattere l’invadenza della criminalità
e riportare la sicurezza per le strade, si sono affiancati gli argomenti pragmaticoutilitaristici dei teorici della cost-benefits analysis secondo i quali la prevenzione generalizzata è lo strumento che meglio consente di ottimizzare il rapporto
tra sicurezza e risorse per ottenerla. Il convergere di queste due impostazioni
ha spostato a poco a poco i termini della politica criminale dal problema del
recupero del deviante a quello della sicurezza e dell’ordine pubblico da tutelare. Nel nuovo paradigma criminologico prevenire il crimine non significa
più intervenire sulle sue cause soggettive. La riduzione della criminalità, e
quindi del rischio che essa comporta, può essere ottenuta solo mediante un
intervento sull’ambiente, sui comportamenti esteriori dei gruppi sociali.
L’impostazione eziologica, lascia, come accennato, il campo a una impostazione
«situazionale»: si assume che le variabili che incidono sulla produzione di
comportamenti criminali possono essere controllate non attraverso la gestione delle circostanze sociali o individuali della devianza, ma solo attraverso la
delimitazione degli spazi di vita dei soggetti, e cioè l’elevazione di barriere che
impediscono loro di commettere delitti.
La strategia di controllo della criminalità più popolare negli ultimi anni è stata
la campagna Zero Tolerance organizzata dal sindaco di New York Rudolph
Giuliani e gestita dal capo della polizia William Bratton [Wacquant 1999]. Le
basi teoriche di questa politica criminale erano state poste da James Q. Wilson,
probabilmente il massimo esponente della criminologia della nuova destra, e
da George Kelling, uno scienziato politico, in un articolo pubblicato sulla
«Monthly Review» nel 1982. Fin dal suggestivo titolo, Broken Windows, i due
autori sostenevano che esiste uno stretto legame tra semplice degrado urbano
e incuria delle persone e criminalità. Secondo la loro tesi ecologico-behaviorista
quando si lascia andare in degrado un ambiente urbano, lo si abbandona a se
stesso, tollerando ogni deturpazione, presto in quell’ambiente si manifesteranno veri e propri comportamenti criminali. Il saggio prende il proprio titolo
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dall’esempio che viene usato per dare vividezza alla teoria. Se in un edificio
abbandonato si lascia che qualcuno rompa una finestra e non si sostituisce
subito il vetro, presto verranno rotte tutte le finestre, dando vita a una escalation
di comportamenti illegali, qualcuno poi entrerà abusivamente nell’edificio,
che diventerà infine teatro di comportamenti vandalici. Secondo Wilson e
Kelling il degrado urbano testimonia una mancanza di attenzione da parte
dell’autorità e quindi fa pensare che si possano compiere facilmente azioni
devianti, abitua la comunità a soglie di devianza sempre maggiori facilitando
l’affermazione di culture criminali.
La ricetta contro la criminalità che questa tesi mira a suggerire è evidente: la
polizia non deve tanto dedicarsi a punire i delitti dopo che sono stati commessi, ma prevenirli «tutelando l’ordine». Si devono tutelare l’ordine e i
valori diffusi che danno senso di appartenenza alla comunità: in questo modo
si preservano naturalmente le città dall’insorgere della criminalità. Compito
primario della polizia deve essere quello di reprimere i comportamenti che,
pur non configurando alcun reato o reati minori, sono molesti e danno la
sensazione al cittadino di vivere in una città degradata. Se si vuole combattere la criminalità, si devono eliminare dalla vista dei cittadini tutte «le finestre rotte», si deve cioè reprimere duramente chi disegna graffiti nelle metropolitane o sulle saracinesche, chi richiede elemosina in modo aggressivo
e insistente, le prostitute di strada, gli ubriachi e i tossicodipendenti che
stazionano in luoghi pubblici, i barboni e così via. Merita di essere sottolineato che ai due teorici della tolleranza zero non solo non interessano le
«ragioni» dei comportamenti devianti (se essi siano o meno manifestazione
di disagio sociale, un segnale di problemi che vanno risolti, o altro) ma non
interessa neppure che questi fenomeni vengano realmente estirpati dalla
società: ciò che è rilevante è che i comportamenti «incivili» non avvengano
in pubblico [De Giorgi 2000, 106-107].
La tesi di Wilson e Kelling appare una versione behavioristica di quella che
Herbert Hart [1968], polemizzando con Lord Patrick Devlin, Parsons e Durkheim, ha definito la «teoria disintegrativa», di quella teoria cioè per cui compito del diritto penale è non solo reprimere e prevenire i comportamenti che
causano danni materiali ai consociati, ma in primo luogo tutelare i valori socialmente condivisi. Secondo questa tesi, che rigetta la distinzione tra diritto (penale) e morale, cuore dell’ideologia liberale, se il diritto penale non tutela i valori condivisi, la società presto si disintegrerà, perderà il proprio collante,
diventerà anomica. Anche secondo i due autori americani compito dell’apparato penale è in primo luogo tutelare i valori socialmente condivisi. I valori da
tutelare non sono però quelli fondamentali dell’organizzazione sociale, quelli
sui quali, secondo la concezione classica, si basa il contratto sociale: questa
tutela è un prodotto succedaneo. Quello che va garantito è il valore esteriore
della nitidezza dell’ambiente in cui l’interazione sociale avviene. Wilson e
Kelling naturalmente non danno alcuna indicazione circa i criteri sulla base
dei quali si devono distinguere i comportamenti pubblici ammissibili e quelli
inammissibili, quelli ordinati (orderly) e quelli disordinati (disorderly): questo
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CASTIGO E DELITTO
compito è affidato alla polizia a cui viene conferito lo status di unico interprete legittimo del comune sentire dei cittadini. La polizia emerge dunque come
voce autentica della comunità angosciata dalla paura del crimine. Ad essa viene affidato il compito di reprimere i comportamenti che offendono il comune
sentire: che questo poi, nel concreto, voglia dire che offendono norme giuridiche, giudizi morali o convinzioni estetiche non ha importanza di fronte alla
promessa che questa strategia garantisce la sicurezza e la restaurazione dell’ordine.
Con le nuove politiche penali lo stato rinuncia al proprio ruolo di garante
della sicurezza: al diritto alla sicurezza sostituisce una politica di socializzazione
del rischio che mira a rendere questo più accettabile. I fattori che mettono a
repentaglio la sicurezza pubblica vengono gestiti, esattamente come aveva fatto
lo stato del benessere per la gestione dei rischi sociali e della perdita del lavoro, utilizzando metodologie di quantificazione e di trattamento di tipo assicurativo. Da ciò deriva la definizione di «criminologia attuariale» che sottolinea
come le nuove strategie di controllo si fondino sui procedimenti tipici della
matematica delle assicurazioni [Ewald 1991; De Giorgi 2000]. Alla base di
questa impostazione sta una significativa riconcettualizzazione del criminale
che passa dall’essere visto «come soggetto in sé a rischio», che deve essere
riabilitato, all’essere considerato «come soggetto che crea rischi» [Kemshall
1996, 35].
Il fulcro delle nuove politiche penali è la dissociazione tra la nozione di rischio e quella di pericolosità. La nuova criminologia attuariale sostiene di
poter ricostruire le condizioni oggettive dell’emergere del pericolo e quindi di
poter dedurre da queste le modalità di intervento. La relazione con il soggetto
non è più l’elemento fondamentale, perché non c’è più il soggetto. Le nuove
politiche penali non si rivolgono a invidui, ma a fattori di rischio, a correlazioni
statistiche di elementi eterogenei. Decostruiscono i soggetti e al loro posto
collocano una lista di circostanze da cui nasce il rischio. Il fine delle nuove
politiche criminali non è quello di risolvere una situazione concreta, di affrontare e contenere uno specifico soggetto «pericoloso», ma quello di prevenire
il possibile manifestarsi di comportamenti indesiderati. La prevenzione promuove il sospetto al rango scientifico di calcolo delle probabilità. Per essere
sospettati non è più necessario manifestare sintomi particolari di pericolosità,
essere un deviante primario, è sufficiente avere quelle caratteristiche che gli
specialisti responsabili della sicurezza ritengono, in base a induzioni statistiche, fattori di rischio. Una concezione della prevenzione che si limiti a predire
il verificarsi di un determinato evento appare ormai arcaica e artigianale. Il
rischio non è più ricondotto a specifiche persone pericolose, ma a una serie di
fattori astratti che rendono più o meno probabile la commissione di un delitto. La presenza di alcuni di questi fattori crea automaticamente una situazione di allarme: non serve che un operatore sociale, o un magistrato, riscontri
l’effettiva pericolosità di un determinato soggetto. Il rischio viene svincolato
completamente dall’esistenza di effettivi conflitti e dedotto da categorie generali e astratte [Castel 1991, 287-288].
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CAPITOLO 3
Le «ingiustizie» che derivano dal metodo attuariale sono messe in conto dal
primo documento che in Europa propone una politica criminale basata su
questo metodo: il Floud Report 7, redatto in Inghilterra nel 1981, quindi in
piena epoca thatcheriana. Dal rapporto emerge la consapevolezza che la strategia attuariale non è priva di ingiustizie. Si osserva infatti che ogni giudizio
predittivo può essere errato in due sensi: si può trattare di un «falso positivo»,
quando si prevede un evento che non si verifica, o di un «falso negativo»,
quando si esclude preventivamente un evento che poi accade. È chiaro che
più «falsi negativi» si verificano, meno il sistema attuariale è efficiente, meno
sicurezza garantisce. I «falsi positivi» si risolvono invece inesorabilmente in
un ingiusto pregiudizio per i diritti degli individui riguardo al cui comportamento la predizione è sbagliata. È infatti evidente che se si reclude una persona quando questa non è in effetti pericolosa, si commette una grave ingiustizia
senza alcun giovamento per la sicurezza pubblica. Questo rischio è freddamente messo in conto e candidamente giustificato: le nuove politiche penali
ridistribuiscono un carico di rischio che lo stato non è in grado di ridurre e il
miglior modo per farlo è quello attuariale.
Questa risposta evidenzia che, al contrario della criminologia positivista e
di quella struttural-funzionalista, che promettevano l’eliminazione del crimine, la nuova criminologia «attuariale» considera la criminalità come un
fattore ineliminabile le cui conseguenze negative vanno distribuite socialmente. Essa considera normale il rischio derivante dalla criminalità, esattamente come fanno le assicurazioni con il rischio di un incidente, la sua unica
preoccupazione è quella di ridistribuire i costi. In questo senso si può dire
che la criminologia attuariale ha accolto l’essenza della lezione durkheimiana
e di quella interazionista. Si prende atto dell’impossibilità di rimuovere il
rischio rappresentato dal crimine e ci si rifugia in una strategia puramente
difensiva: si cerca di distribuire questo rischio in modo socialmente accettabile. Come «socialmente accettabile» viene presentata una strategia che prescinde dal singolo soggetto possibile creatore del rischio per concentrarsi su
una valutazione del pericolo nel suo insieme. Questa politica comporta che
la gravità della sentenza di condanna a cui due autori dello stesso delitto
vengono condannati sia decisa da indici presuntivi legati alla condotta, ai
precedenti o alle modalità del reato, e al gruppo in cui essi vivono abitualmente o che frequentano saltuariamente, in poche parole alla classe di soggetti pericolosi in cui sono inseriti.
Per esemplificare, se un soggetto «spaccia» eroina per strada, viene da uno
dei paesi del Maghreb, non ha un lavoro in Italia, non ha una dimora fissa, è
entrato nel territorio nazionale illegalmente, secondo i criteri della nuova politica penale deve essere sottoposto a misura cautelare detentiva e incorrere in
una sentenza molto più dura di quella che deve essere inflitta a un «venditore» di cocaina italiano, che lavora come intermediario finanziario, ha una bel-
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Cfr. Floud e Young [1981]; un commento dell’autrice Jean Floud è pubblicato con lo stesso titolo del Report in «The British Journal of Criminology», vol. 22, 3, 1982, pp. 213-228.
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CASTIGO E DELITTO
la casa e una famiglia, distribuisce la cocaina esclusivamente a party ben frequentati e in queste occasioni la consuma egli stesso. Il primo infatti appartiene a una classe pericolosa, il secondo no: tanto basta a giustificare un trattamento sanzionatorio differenziato. Questo esempio evidenzia che la retorica
dell’inevitabilità del rischio e della necessità di distribuirlo in modo socialmente accettabile è tanto forte da oscurare quella dell’uguaglianza che dall’illuminismo in poi ha costituito una delle principali fonti di legittimazione del
potere punitivo. I nuovi criteri di gestione della popolazione invece di segregare gli elementi indesiderabili e mirare alla reintegrazione grazie a trattamenti correttivi o terapeutici più o meno forzati, assegnano ai soggetti un loro
destino sociale in virtù della loro corrispondenza agli standard ritenuti fondamentali dal corpo sociale (che sono oggi quelli della competitività e della capacità di fare profitti). Le moderne tecnologie della prevenzione sono il prodotto del sogno di un assoluto controllo, almeno sul piano classificatorio, di
tutto ciò che è accidentale, che viene vissuto come qualcosa di spaventoso in
quanto imprevedibile.
Alla metà degli anni Ottanta Nils Christie ha spiegato lo sviluppo delle nuove
«politiche» penali attraverso la nozione di suitable enemy («nemico appropriato»). A monte di tutto starebbe la crisi fiscale del welfare state. Il progressivo assottigliamento delle reti di assistenza sociale, che negli Stati Uniti è
cominciato almeno dalla prima metà degli anni Settanta, produce sentimenti
di insicurezza sociale, precarietà, insoddisfazione politica che i mass media, la
stampa, le agenzie governative riescono a catalizzare verso un nemico interno
(nel caso degli Stati Uniti la microcriminalità degli afroamericani e degli
ispanici) attraverso un processo di semplificazione che consiste nell’isolare
un’intera classe di soggetti pericolosi individuati come la principale causa di
disgregazione del tessuto sociale. I suitable enemies sono quei soggetti sociali
che periodicamente diventano oggetto di campagne di panico morale, come
quella sulla microcriminalità urbana, sui pedofili, sui terroristi, sulle prostitute, sugli immigrati ecc. Secondo Christie [1986, 42], ogni capo di stato spera
che ogni anno appaia «un nuovo nemico, odiato dall’opinione pubblica, apparentemente forte ma in realtà debole». Un tale nemico permette infatti alle
élite al potere di rafforzare la propria immagine, di legittimare il proprio ruolo e, soprattutto, di incrementare il livello di coesione sociale. Secondo questa
tesi di chiara ispirazione durkheimiana ogni fase politico-economica di transizione (il sociologo francese avrebbe detto «anomica») richiede la costruzione
di un «nemico appropriato», di un nemico cioè dotato di quei «requisiti» che
lo rendano un potenziale capro espiatorio, un soggetto su cui può essere facilmente scaricata l’insicurezza collettiva.
I requisiti caratteristici del «nemico appropriato» sono, non certo casualmente, quelli individuati da Harold Garfinkel in un celebre saggio degli anni Cinquanta, sulle «condizioni di successo delle cerimonie di degradazione», cioè
di quei meccanismi procedurali che presiedono all’allocazione sociale del biasimo. Essi sono requisiti che facilitano la trasformazione dell’identità pubblica «totale» di un attore «in qualcosa considerato come inferiore nello schema
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C APITOLO 3
locale dei tipi sociali»: chi attraverso il meccanismo innescato dalla denuncia
subisce una degradazione di status
diventa letteralmente una persona diversa e nuova agli occhi di coloro che la
condannano. Non è che i nuovi attributi vengano aggiunti al vecchio «nucleo».
[...] La vecchia identità, al più, riceve la connotazione di mera apparenza. Nel
calcolo sociale delle rappresentazioni e del controllo della realtà la vecchia identità ha uno status accidentale; la nuova identità è la «realtà basilare». Ciò che
egli è ora, è, «alla fine», ciò che è sempre stato [Garfinkel 1956; trad. it. 2004,
252].
Il nemico appropriato deve in primo luogo essere un nemico che è, insieme,
parte della società ed estraneo a essa: è un «estraneo» in quanto non ne condivide i valori di fondo, mentre è parte della società in quanto vive in essa e
proprio questa sua vicinanza lo rende pericoloso. Deve poi essere precisamente individuabile ma anche percepito come onnipresente, come capace di
poter colpire chiunque, indiscriminatamente, in modo del tutto imprevedibile e casuale, deve essere avvertito come una minaccia per tutta la società, non
per qualche suo specifico membro. Deve infine essere un nemico contro il
quale si può pensare di vincere solo «a costo di grandi sforzi e con il contributo di tutti», la sua sconfitta non deve mai apparire a portata di mano.
La necessità di costruire nemici appropriati spiegherebbe quelle politiche criminali (Law and Order, War on Drugs, Zero Tolerance) che negli ultimi vent’anni
si sono succedute nei paesi anglosassoni, e che si stanno diffondendo in tutta
Europa [Wacquant 1999], miranti, più che alla risoluzione del problema della
devianza, a produrre senso di sicurezza, identificando chiaramente i nemici.
L’esempio degli Stati Uniti, che per primi e più decisamente si sono mossi
lungo linee di politica criminale attuariale, mostra che la strategia della sicurezza si fonda su pratiche repressive rivolte contro intere categorie sociali,
individuate normalmente in base alla loro marginalità sociale, che vengono
costruite come pericolose. Si delinea una dinamica riflessiva per cui strategie
di controllo dell’emarginazione producono emarginazione dovuta al controllo. L’insegnamento di Lemert sembra essere stato accettato in pieno, ma non
come fonte di dubbi sulle politiche di criminalizzazione, bensì come strategia
capace di produrre legittimità. La costruzione sociale del «marginale» come
«pericoloso» finisce per accentuare la sua pericolosità materiale, reale, e quindi legittima nuove strategie di esclusione e criminalizzazione di classi di individui marginali. Cinicamente si dovrebbe probabilmente gioire perché il potere finalmente rinuncia alla maschera della retorica dell’uguaglianza dietro
cui si era a lungo nascosto, ma forse quella che chiamiamo civiltà (giuridica)
non è che un insieme di maschere che ognuno deve indossare, primo fra tutti
il Leviatano statale.
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Finito di stampare nel mese di gennaio 2008
dalla litosei, via rossini 10, rastignano, bologna
www.litosei.com