Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi

Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi. Noi no. Donate all'UNRWA.
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sabato 15 febbraio 2025

Volete farci rimpiangere Amadeus, ma dobbiamo resistere

Io capisco che a questo punto la tentazione di rimpiangere il Sanremo di Amadeus sia molto forte. Vorrei comunque invitarvi a resistere, a rifletterci un attimo sopra. Due anni fa, quando si paventava che la destra al governo volesse prendersi la Kermesse con la forza, un coglione scriveva: "Può darsi che Sanremo stia diventando quel che per gli americani è Hollywood: cioè in un certo senso un grosso equivoco, la ridotta di un progressismo ormai più immaginario che reale". " Sanremo come riserva di un progressismo in via d'estinzione/assimilazione, dove anche istanze interessanti come l'antiproibizionismo o l'emancipazione sessuale vengono difese da fenomeni da baraccone che alla lunga si rivelano controproducenti". Rosa Chemical aveva appena molestato Fedez in diretta: un episodio più ridicolo di altri (se ve lo siete dimenticati, vi invidio) ma che col tempo ha assunto un peso simbolico, non sono sicuro che si possa dire peso simbolico ma stasera passatemela. 

Amadeus e Conti hanno tanto in comune, come sa bene chi li ha confusi per anni inciampando nel preserale di Rai1. Stessa età, stesso apprendistato nelle radio private italiane proprio nel momento in cui cominciavano a diventare network commerciali, col conseguente tragico abbassamento dell'offerta culturale. Stessa stella polare: dare alla gente quello che la gente vuole. Dei due, Amadeus è il settentrionale: più aperto alle novità, e convinto (con maldissimulata arroganza) di poter fondare la sua legittimità su parametri oggettivi, economici. Che questi parametri fossero sistematicamente falsificati, per lui faceva parte del gioco. C'era una clausola non scritta per cui il Sanremo di Amadeus doveva andare bene, benissimo, sempre meglio, tutti lo stavano guardando e questo faceva di Amadeus il miglior conduttore e direttore artistico di questo Sanremo che il mondo ci invidiava. Perché i numeri dicessero davvero qualcosa del genere, Amadeus doveva portare la diretta fino alle tre del mattino, né la cosa gli veniva più di tanto contestata perché alla fine la Rai è da vent'anni che fa i numeri così – andate a vedere a che ora del mattino finisce Ballando con le stelle, uno show il cui target di riferimento sonnecchia già alle dieci e mezza. Un trucco noto a tutti i professionisti del settore e praticato in piena luce, con la complicità dei network concorrenti, l'omertà dei giornalisti e immagino la rassegnazione degli inserzionisti, che pagavano cifre importanti per andare in onda a mezzanotte o all'una davanti a spettatori tramortiti. Nel frattempo il palinsesto è diventato il cimitero delle idee, che anche quando sono originali vengono stiracchiate per ore e ore (Geppi Cucciari ne sa qualcosa). Non credo sia una coincidenza che, scaduti i cinque anni del contratto, l'Auditel abbia improvvisamente rivisto i criteri – probabilmente la coperta era stara tirata così forte e così a lungo che gli strappi erano inemendabili. Ed è arrivato Carlo Conti. È arrivato lasciando subito capire che il senso dell'operazione era tirare il Remo in barca: i dirigenti Rai mettevano le mani avanti già alla conferenza stampa di martedì: ogni confronto statistico con le edizioni di Amadeus sarebbe fuorviante perché, perché, le piattaforme, ecc. ecc. (poi i confronti li hanno fatti lo stesso, perché da qualche parte sono riusciti a distillare uno zerovirgola in più), ma non era più così importante perché non è sui numeri che Conti costruisce il suo consenso. 

Carlo Conti viene da quell'isola culturale che è la Toscana, dove ogni novità dall'estero giunge attutita e annacquata; la sua capacità di fornire alla gente "quel che la gente vuole" non si basa su numeri veri o gonfiati, ma sull'intuito, su una connessione profonda con la media gaussiana del Paese – che magari è altrettanto illusoria dei numeri di Amadeus, ma gli consente di regnare sul caos con più serenità, laddove il collega del nord tradiva a ogni passo falso il nervosismo. Conti ha una sensibilità musicale più retriva, incline a quel cattivo gusto melodrammatico che quando arriva a Sanremo purtroppo fa il pieno: cantanti ciechi, bambini sapienti, il Volo... e mamme malate, è stato l'anno delle mamme malate. Non sono venuto a difenderlo. È un cattivo gusto che non nasce evidentemente dal nulla; ha radici profonde, più centromeridionali  e purtroppo non ci sono più in giro artisti in grado di farci qualcosa di interessante, anche solo di provarci (Modugno, Lucio Dalla). Dico "purtroppo" ma le radio commerciali hanno terribili responsabilità. e Conti viene da lì. 

Conti lavora di bilancino, che dopo decenni di Rai1 riesce a muovere con la destrezza del prestigiatore. I conflitti, lo ha capito da Pippo Baudo, non si nascondono sotto il tappeto (a rischio di inciamparci), ma si mimano in scena, in una versione talmente edulcorata da poter passare liscia anche le rare volte che gli spettatori sono svegli. L'anno scorso hanno litigato per la Palestina? Carlo Conti ci sbatte sopra un video del papa (all'insaputa di quest'ultimo!) chiama due artiste israeliane a cantare Imagine – e pazienza se in inglese la canzone dice che il mondo sarebbe più pacifico senza religioni; ognuno la canta e la capisce nella lingua sua. Nel frattempo il loro governo, perseguendo una politica di segregazione su base religiosa, continua a bombardare Libano e Cisgiordania alla faccia di un Cessate il Fuoco ma ehi, non si può dire che Carlo Conti non si sia posto il problema. Laddove Amadeus, l'anno scorso, dava alle maestranze l'impressione di non riuscire a gestirlo; Ghali e D'Amico fecero impazzire giornalisti e politici dicendo semplicemente "stop genocidio": quest'anno non lo ha detto ancora nessuno. C'è da ospitare Benigni che deve lanciare il suo ritorno in Rai? Conti lo ospita molto volentieri, ma pretende da lui non soltanto il solito ecumenismo (viva il Presidente della Repubblica), ma anche l'Inno del corpo sciolto, la rivincita dello Strapaese sul vecchio attore che ancora si illude di essere un maître à penser – no, sorride Conti (ed è la cosa più diabolica che ha fatto in tre serate): tu se vieni qui devi ricordare a tutti che eri un guitto, e un guitto ritornerai. ("Dovunque sei, lì sei in Toscana").

E poi c'è la Minaccia Gender: Amadeus era stato molto criticato, dalla stampa di destra, per l'episodio di Rosa Chemical che sembrava costruito a tavolino per fornire proprio alla destra un casus belli; l'archetipo del travestito pericoloso che molesta eterosessuali a tradimento. Un archetipo che non ha riscontri nella cronaca o nel mondo reale, ma che evidentemente fa parte dell'immaginario di tanti italiani. Conti lo sa e il suo bilancino non ha un sussulto: in questi casi si chiama Malgioglio. Malgioglio è il travestito rassicurante – lo è talmente che passa più tempo in tv dello stesso Carlo Conti, e quando passa fa il picco. La copia edulcorata della copia edulcorata della copia edulcorata della copia edulcorata di un travestito che nessuno si ricorda più chi fosse talmente la copia è stata edulcorata, forse Paolo Poli ma non vorrei offenderne la memoria. Se devo essere sincero non lo sopporto – più per saturazione che per omofobia, ma evidentemente il Paese Reale lo trova ancora buffo e bisogna ammettere che per uno della sua età (l'età della maggior parte del pubblico) ha i tempi comici. Giulia Blasi rimpiange Drusilla Foer e posso capire, ma ho qualche dubbio che si tratti di una differenza sostanziale, ovvero: la Foer aveva testi migliori, ma passava soltanto una sera su cinque e metà dei suoi testi li interpretava davanti a un pubblico sonnecchiante. Malgioglio in Rai c'è almeno una sera alla settimana: la quota Lgbt, in Rai, è rappresentata da Malgioglio. È senza dubbio un problema, ma Conti ha la sola colpa di mettervelo sotto il naso, laddove forse con Amadeus qualcuno si illudeva davvero che la galassia Lgbt avesse trovato un portale per connettersi con il Paese Reale in prima serata. Forse un po' ogni tanto davvero il portale si è aperto, a sprazzi, anche grazie a un artista (Mahmood) che in questi anni è veramente cresciuto e qualcosa di nuovo lo ha portato. E infatti Conti lo è andato a riprendere anche se quest'anno non era in gara, perché il bilancino funziona così. Significa che lo ha normalizzato? Tutto si normalizza, dopo un po' (Continua!)

lunedì 20 gennaio 2025

Sotto scroscianti applausi


Nel giorno dell'incoronazione, spendo un pensiero per la persona che più di tutte ha incarnato la sconfitta: l'ex vicepresidente Kamala Harris. Le sue responsabilità in questo disastro (che forse annuncia la fine della democrazia in Occidente) sono tante e tali che è difficile metterle in ordine dalla più grave. Come membro più prestigioso dello staff di Biden, Kamala Harris avrebbe potuto sollecitarlo molto prima a rinunciare a una candidatura insostenibile alla sua età e nella sua condizione; e non l'ha fatto. Il che ha privato i Democratici della possibilità di indire delle Primarie che forse avrebbero portato aria nuova, e messo sotto i riflettori almeno un candidato più interessante di Biden o di lei. Dopodiché Biden si è squagliato al primo confronto televisivo con Trump, così che la Harris si è trovata, senza un'investitura popolare, a interpretare il ruolo di contendente al titolo presidenziale; col senno del poi possiamo anche supporre che si sia sobbarcata di un ruolo di perdente cui nessun altro notabile democratico aspirava. Non è neanche escluso avesse qualche possibilità di vincere; nel caso, le ha bruciate. Come aveva annunciato già prima delle elezioni, in qualità di Vicepresidente avrebbe ratificato la sua sconfitta e la vittoria di Trump; cosa che ha fatto qualche settimana fa, e ad alcuni è sembrata una vittoria della democrazia. Non a me. 

Per me la democrazia finisce con Kamala Harris, che più di altre figure si è prestata a interpretare il ruolo di chi cede il potere perché avrebbe troppa paura di usarlo. Lo cede a un conclamato golpista già condannato per aver falsificato documenti, il che è vergognoso; ma d'altra parte se non lo cedesse dovrebbe richiedere l'uso della forza contro un conclamato golpista già condannato per aver falsificato documenti, e non ne ha evidentemente il coraggio. Una democrazia seria, e preoccupata della sua sopravvivenza, avrebbe identificato in Trump una minaccia almeno dal 6 gennaio 2020; e invece per tutto questo tempo la minaccia è stata lasciata in pace, forse nell'illusione che qualche processo penale avrebbe potuto alienargli la base e i finanziatori: uno dei tanti calcoli sballati dello staff di Biden. Quindi la democrazia finisce così? Perché non ha avuto il coraggio di difendersi?

Noi italiani conosciamo il dilemma meglio di altri. Anni fa, Alberto Asor Rosa fu pubblicamente deriso per aver obiettato a quei politici, veramente poco avveduti, che continuavano a ripetere di voler e poter sconfiggere Berlusconi nelle urne (con che risorse? con che giornali? con che televisioni?): poiché lo stesso Berlusconi aveva già dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio di truccare la competizione elettorale, disponendo dei media ben oltre i termini di legge (che modificava a suo piacimento nei periodi in cui era al governo), poiché era evidente quanto il suo conflitto d'interessi fosse una minaccia alla democrazia, Berlusconi andava arrestato dalla forza pubblica, che anche a questo dovrebbe servire. Asor Rosa era molto ingenuo, ma secondo me aveva ragione, e Trump andrebbe arrestato. Qualcuno da fuori potrebbe considerarlo un colpo di Stato, ebbene esistono situazioni di emergenza in cui lo Stato deve difendersi da minacce concrete. Qualcuno all'interno potrebbe insorgere: è il rischio da correre. Se Trump deve trionfare, che almeno questo succeda perché i suoi sostenitori sono disposti a morire per lui. Se la democrazia deve cedere il passo, che almeno faccia resistenza. Armata. Quella che Kamala Harris non consentirebbe mai: suppongo che tra Trump e una guerra civile, lei veda in Trump il male minore. Neanche esattamente un male. Il suo partito continuerà a interpretare il ruolo dell'opposizione parlamentare, istituzionale, pacata, inutile; e a emarginare il dissenso a sinistra. Inoltre l'amministrazione Biden si era infilata in due gineprai così complicati – l'Ucraina e Gaza – che dev'essere un sollievo per i Democratici lasciare ai trumpiani la responsabilità di uscirne. 


In questi giorni sembra obbligatorio lasciare un'opinione sulla fiction di Joe Wright, M il figlio del secolo. A me il Mussolini grottesco di Marinelli tutto sommato sembra che funzioni. L'aspetto più discutibile, fino alla quarta puntata, mi sembra l'assenza degli industriali. In due ore si sono visti in scena per cinque secondi, in un siparietto brechtiano in cui coprono Mussolini e Cesare Rossi di banconote in cambio del loro sostegno contro i socialisti che insistevano a vincere le elezioni. Non sarò io a prendermela se per una volta gli autori televisivi si cimentano coi siparietti brechtiani, anzi ne vorrei più spesso: ma Mussolini era in buoni rapporti con Fiat e Ansaldo già da quando nel 1914 aveva cambiato idea sulla Grande Guerra, trascinando tanti socialisti come lui nella follia suicida dell'interventismo. Capisco che gli autori abbiano preferito scorciare, semplificare (la fiction comincia nel 1919), ma anche durante la marcia su Roma sembra che Mussolini sia un uomo solo tra gli esagitati in camicia nera e le istituzioni, un equilibrista che riesce a bleffare e ingannare un re che avrebbe potuto schiacciarlo con un tratto di penna. Sarà andata davvero così? Il re ne aveva paura, o preferiva davvero il buffone ai socialisti? E gli industriali, nel frattempo, non avevano dato qualche segnale? 

Forse qua sopra ho commesso un errore simile, attribuendo ai Democratici di Kamala Harris lo stesso ruolo tremebondo di re Vittorio, che avrebbe ceduto la nazione non perché tutto sommato gli conveniva, ma per paura. Come se non ci fossero interessi ben più potenti delle nostre paure. I democratici si sono arresi perché il Capitale aveva scelto Trump, e contro il Capitale non avevano nessuna intenzione di combattere. Vincere contro Trump avrebbe significato interpretare le necessità di gruppi sociali che vogliono un welfare state come ce l'hanno gli stati normali; che non capiscono la necessità apocalittica di sostenere Israele in un'operazione di pulizia etnica; che sanno di non poter vivere ancora di idrocarburi per un'altra generazione. Non ho idea di quanto queste istanze siano diffuse nel popolo americano (che per lo più non vota); ma di sicuro non erano istanze che i Democratici potevano difendere. Il loro programma era un blando capitalismo dal volto umano, ma per l'umanità c'è sempre meno mercato. La democrazia è una società aperta: si dovrebbe difendere mantenendo il pluralismo, combattendo chi sparge paure e ci specula sopra. Non è mai stato chiarito se sia compatibile col capitalismo: forse no, non a lungo perlomeno. In Italia è stata sconfitta vent'anni fa da Berlusconi; negli Usa forse oggi. 

mercoledì 6 novembre 2024

Pavia è una provincia della mente


Tutti con in mano birra e Camogli / noi senza fidanzate troie né mogli. Sidney Sibilia continua a raccontare la stessa storia, il che non è per forza un male, finché la sa raccontare. Ci sono scelte che a questo punto dobbiamo accettare come autoriali, ad esempio il fatto che non senta la necessità di costruire un personaggio femminile non dico complesso (neanche i personaggi maschili sono molto complessi), ma almeno un filo simpatico. Era una cosa che saltava agli occhi già al secondo Smetto quando voglio, nel momento in cui persino la necessità di raddoppiare i membri della banda non portava all'ingresso di nessun cervello in fuga femminile: in un film di simpatici mascalzoni le donne dovevano restare esclusivamente Principi di Realtà incarnati, poliziotte o fidanzate incazzose. In dieci anni Sibilia avrebbe avuto tutto il tempo per imbarcare qualche ragazza terribile nelle sue ciurme di simpatici corsari, ma se controllate non è successo, anzi il contrario: mentre Hollywood persevera nel piano di portare le donne a vedere i supereroi ficcando attrici donne nei costumi da supereroi, Sibilia persiste ostinato in un immaginario anni '80 in cui le ragazze sono confinate ai bordi della storia, donzelle da salvare o trofei da conquistare. La Silvia dell'Uomo ragno è persino più antipatica della Gabriella dell'Isola delle rose: gli sceneggiatori non si preoccupano nemmeno di occultare quanto il suo interesse per Max sia direttamente proporzionale all'affermazione commerciale di quest'ultimo. Le storie di Sibilia, dobbiamo accettarlo, sono storie di maschi: forse non è in grado di raccontarne altre, forse filano così bene proprio perché non prova nemmeno a farle diverse. E anche al pubblico femminile piacciono così, mi pare.

– Potrebbe essere una forzatura considerare Hanno ucciso l'Uomo Ragno come un prodotto di Sidney Sibilia, che credo abbia diretto solo la prima puntata. E però tutta la serie aderisce perfettamente a un genere che ha inventato lui, e che malgrado funzioni così bene, continua a girare quasi solo lui: come definirla, una storia alla Sibilia? È indicativo che in italiano non mi venga in mente nessuna etichetta, e in inglese subito una: Rag to Riches, dalla miseria al successo. (È indicativo che in italiano un modo di dire similmente allitterante indichi la situazione inversa: dalle stelle alle stalle). Dove la miseria iniziale non è certo quella dei romanzi anglofoni ottocenteschi; è più una marginalità, una provincialità, dalla quale i protagonisti lottano per affrancarsi con mezzi quasi sempre scorretti: i cervelli in fuga di Smetto quando voglio sintetizzavano molecole proibite, l'ingegnere matto dell'Isola delle Rose costruiva una piattaforma esentasse, Erry taroccava le cassette, e gli 883... no, gli 883 non hanno fatto quasi niente di male, dai. O no? Perché a volte mi viene il dubbio di averli odiati molto, ma a questo punto non ne sono più sicuro.


Ma chi sarai per fare questo a me. Guardando Hanno ucciso l'Uomo Ragno, mi sono reso conto che conoscevo tutte le canzoni del loro primo disco. Questo è imbarazzante. Ufficialmente io appartengo a quella comunità di persone che gli 883, all'inizio dei Novanta, "non li calcolavano", non riuscivano nemmeno a disprezzarli: erano semplicemente non-musica. Anche dopo le rivalutazioni di rito, credevo di aver sempre provato nei loro confronti una gamma di emozioni che va dall'indifferenza al fastidio. Il fastidio, in particolare, dipende dall'estrema cantabilità dei loro pezzi, che mi restano in testa per settimane intere; l'unica possibilità è sempre stata cambiare immediatamente la frequenza appena li sentivo arrivare, ed evitare come la peste ogni network che frequentavano, ovvero tutti. Dunque io da trent'anni mi sto raccontando di avere sempre evitato gli 883; e tuttavia questo "fastidio" non è mai diventato "odio", come avveniva anche solo pochi anni prima per contenuti merceologicamente simili: tuttora io so di avere odiato il giovane Jovanotti, con un'intensità che lascia alcune tracce nella mia psiche. Laddove no, non ho mai odiato Max Pezzali, perché avrei dovuto? La spiegazione che mi sono sempre dato è cronologica: quando sentii Non me la menare su K Rock Scandiano, io avevo già 18 anni. Non potevo che considerarla roba da ragazzini, e perché mai avrei dovuto prendermela coi ragazzini? Jovanotti era diverso, era un coetaneo che faceva lo scemo, sembrava volerti cavare gli schiaffi dalle mani a forza di sorrisi idioti. Gli 883 sono stati forse il primo prodotto che sembrava destinato a una generazione più giovane. Detestarli sarebbe stato come strappare caramelle ai bambini. D'altro canto, non potevo neanche permettermi di ascoltare un ragazzo più o meno della mia età che cantava "a me piacciono le birre scure e le moto da James Dean" senza provare vergogna per lui. Avrei ascoltato altro, francamente non ricordo nemmeno cosa. I Soundgarden, o gli Stone Roses. 

E allora come mai quel primo disco lo so quasi a memoria?

Basta uscire più di dieci chilometri / Che noi stronzi ci perdiamo. C'è una spiegazione quasi convincente, ovvero: mi avevano bocciato alla prova pratica per la patente. Il primo disco degli 883 esce in un momento in cui non ho ancora il controllo dell'autoradio, e tuttavia esco due o tre sere alla settimana. E siccome vivo in provincia, "uscire" significa infilarsi nell'auto di un coetaneo, sperando che sappia guidare, una cosa che a rifletterci mi dà ancora oggi brividi retroattivi. Il primo disco degli 883 è una delle cassette che imparo a memoria sul sedile posteriore dei miei amici o amiche. Se penso a un altro disco che ho conosciuto in questo modo, mi viene in mente il primo di Ligabue. Non coincidentalmente, in entrambi i dischi c'è almeno un brano che sembra parlare di "noi" che ci aggiriamo nella provincia di notte cercando la vita (e scansando la morte a ogni sorpasso). Ma se la comitiva di Sogni di rock'n'roll sembra quella dei miei amici più vecchi ("qualcuno ha imbarcato, il più scemo le ha prese e ha una faccia così"), quelli di Con un deca e di Rotta per casa di Dio sono di un lustro più giovani, e completamente sterilizzati: nessuno imbarca, nessuno le prende, è tutta gente ancora orfana della sala giochi. Sogni di rock'n'roll mi commuove al primo ascolto, Con un deca mi deprime. Forse per lo stesso motivo per cui a tutti oggi piace rivalutarla. Magari oggi vi piace riconoscervi nelle foto brufolose di quegli anni, ma gli specchi non sono belli quando ti arrivano in faccia senza preavviso. Ligabue ci consentiva di immaginarci un po' più stagionati, un po' più vissuti. Questa casa non è un albergo ci ricordava che vivevamo ancora coi nostri genitori.

Aeroplano che te ne vai / lontano da qui chissà cosa vedrai. Ci sono altre spiegazioni, apparentemente più profonde, legate ai contenuti. Oggi se un cantante riesce a specchiare due o tre atteggiamenti della sua generazione, ne siamo già abbastanza contenti. Nel 1992 non mi bastava. Ero esigente. Avevo degli ideali, non mi ricordo neanche quali, in ogni caso non tolleravo la mediocrità. I cantanti avrebbero dovuto cambiare il mondo, o almeno provarci; questo Pezzali che si struggeva perché a Pavia c'erano poche discoteche mi ispirava un disgusto abbastanza ideologico. Doveva sembrarmi un involucro vuoto; la sua adolescenza era una sala giochi, il suo obiettivo una discoteca piena di tipe in tacchi alti. Tutto qui, in confronto Ligabue era un esistenzialista. Nel frattempo crescevo, mi diplomavo, università, e intanto facevo volontariato nell'Agesci. Un altro flash: io che tiro giù testo e accordi di Aeroplano per cantarla coi lupetti. I lupetti (10-13 anni) volevano cantare Aeroplano, e io acconsento ad accompagnarli con la chitarra. Capite cosa fa il volontariato alla gente. 

Ma non so se crederci o no. I personaggi di Sibilia vogliono evadere da una mediocrità che può essere economica (Smetto quando voglio), culturale (Mixed by Erry), o... geografica? Hanno ucciso l'Uomo Ragno potrebbe essere sottotitolata 1991 fuga da Pavia. A differenza di tanti altri eroi che "hanno un sogno", per buona parte del percorso Max non sa nemmeno esattamente cosa vuole. Tutti in quegli anni credevamo di poter fare i musicisti e i cantanti: lui nemmeno tanto, sembra arrivarci per caso (un altro flash: a vent'anni finisco di scrivere una canzone. Non so più perché mi ostino a scriverle, tutti i gruppi si sono sciolti, non ho un target preciso, mi aggiro esausto in un sogno inflazionato. La registro, la riascolto. Non è male, è molto cantabile. In effetti è troppo cantabile. Sembra un pezzo di Pezzali. Smetto di scrivere canzoni. Maledetto Aeroplano). 

Due discoteche, centosei farmacie. Quel che Pezzali ha chiaro sin da subito è che non vuole studiare e non vuole lavorare, perlomeno non nel dignitosissimo negozio di suo padre. E ce l'ha con Pavia, ce l'ha con la provincia, dove "non succede mai niente". Una cosa che in quegli anni ho sentito dire da centinaia di persone, che si incontravano in posti dove stava succedendo qualcosa. Un altro flash. Ho lasciato lo scoutismo, ho fondato un circolo culturale con ex compagni di liceo. Fondiamo una rivista, poi ne fondiamo un altra, cominciamo ad attirare un po' di gente. A un certo punto arriva un coetaneo altissimo che s'intende già di musica, mi sembra di conoscerlo perché ai concerti la sua testa spunta sempre tra me e il palco. Ci spiega, dati alla mano, che viviamo in una delle zone più interessanti del mondo per offerta musicale. Ci guardiamo smarriti: siamo in via Giardini, tutt'intorno c'è Modena, tutt'intorno c'è la provincia di Modena. Sbagliato, ci spiega paziente il giovane Damir Ivic: tutto intorno a noi c'è una conurbazione che da Bologna arriva almeno fino a Reggio, dove nel giro di una sera un automunito può spostarsi dal Link al Maffia e godere di una varietà di proposte che si può paragonare solo a quella di Londra (o forse Berlino). Quindi, insomma, cos'è la provincia? È vivere su un'autostrada piena di possibilità, e concedersi il lusso di ignorarle ? In Italia sicuramente esistono province vere, lontane centinaia di chilometri dal progresso economico e culturale: ma non era la realtà mia, o di Pezzali. Si potrebbe argomentare il contrario: gli 883 ce la fanno perché la loro supposta provincialità si può aggirare in cinquanta minuti d'autostrada, che in quei beati anni senza autovelox di notte potevano contrarsi fino a una mezz'ora. Certe zone suburbane di Milano sono peggio servite. Mentre si strugge perché "in questa città non c'è niente", i suoi coetanei probabilmente gravitano già sulla Capitale Morale due o tre sere a settimana, o si godono il clima della città universitaria. Il "niente" che opprime gli 883 è qualcosa di più profondo che anticipa il sottovuoto spinto di molti interpreti della generazione successiva; è uno spazio arredato con accessori/feticci quasi sempre immaginari, in cui ogni tanto irrompe una realtà di mediocrità sconfinata: tappetini nuovi e arbre magique. È una qualità essere i portavoce di una generazione, se poi di quella generazione restituisci un ritratto piatto e sconfortante? 

Appuntamento alle nove e mezza ma io / L'ultimo flash: alla biblioteca Delfini appena aperta attacco una pezza a una ragazza, o forse è lei che attacca me. In ogni caso io nel frattempo ho preso la patente, così le propongo una serata al Circolo Left di Ponte Alto, dove al mercoledì non si balla lo ska, bensì c'è Tommaso Labranca che presenta a una dozzina di persone Andy Warhol era un coatto, leggendoci una disamina di Sei un mito che ricordo ancora. Era probabilmente la prima volta che riuscivo a portare fuori una ragazza. A Modena, anzi a Ponte Alto. Il mercoledì sera. Tommaso Labranca in carne ossa faceva l'esegesi degli 883. Ci credevamo in provincia, ci crediamo ancora.

giovedì 24 ottobre 2024

Il drone, il bastone e la borsetta

(Continua da qui)


Yahya Sinwar è morto da uomo, questo non si può più negare. Mutilato, annidato tra i detriti della guerra che ha scatenato, ha usato il suo ultimo respiro per impugnare un'arma e scagliarla contro il nemico. Ciò che ha reso ancora più simbolica la scena è il fatto che l'arma fosse una delle più primitive (un bastone), e il bersaglio uno dei più moderni e automizzati: un drone. Ci siamo chiesti a lungo cosa sarebbe successo quando le macchine si sarebbero rivoltate contro gli uomini: in un certo senso ci siamo. Anche se come sempre la realtà che si avvera è più sfumata delle previsioni fantascientifiche: da una parte uomini regrediti, costretti a usare pietre e bastoni; dall'altra una tecnologia che non solo uccide con spietata efficienza, ma che ormai stabilisce anche cosa valga la pena di uccidere e cosa no (gli ufficiali israeliani perlomeno sostengono di bombardare determinate aree in base a un "algoritmo"; se un giorno molto ipotetico qualcuno mai li portasse a processo, si difenderanno sostenendo che prendevano gli ordini da un computer). Questa tecnologia ufficialmente è ancora in mano ad esseri umani, i quali tuttavia tendono a delegare sempre di più, anche perché uccidere è oggettivamente un lavoraccio che produce danni psicologici – vedi il tizio che non può mangiare più carne dopo che ha schiacciato centinaia di umani con un bulldozer, come non empatizzare? C'è una vasta letteratura sull'argomento; purtroppo è quasi tutta basata sui nazisti e quindi adoperarla per descrivere gli israeliani è vietato, non si può fare, antisemitismo. Ma forse l'atteggiamento da gamer giulivi che molti soldati IDF stanno eternando su Tictoc è un tentativo inconsapevole di restare umani: e quindi stupidi, goffi, ridanciani, mentre le armi che usi diventano sempre più precise e spietate. Di Yahya Sinwar si racconta che uccidesse i traditori con le proprie mani, ed è previsto che la cosa ci inorridisca perché le persone vanno uccise a macchina. Il che implica che solo chi controlla la macchina abbia il diritto di uccidere; se poi la macchina si controlla da sola, tanto meglio per chi non può essere più ritenuto responsabile. Sinwar non poteva permetterselo, era un barbaro: un drone lo ha scovato e un razzo lo ha colpito. E non ne staremmo parlando nemmeno più. 

Ma gli israeliani hanno deciso di mostrarci le immagini. 

Cosa gli ha detto il cervello. 

Se c'era una cosa in cui Israele sembrava imbattibile, fino al 7/10, era la propaganda. Glielo riconoscevamo tutti: non importa quanti errori commettesse, Israele sapeva raccontarsela e raccontarcela. Dopodiché è successo qualcosa che può veramente essere spiegato da una crisi di panico: ammesso che gli israeliani si rendano conto di quello che stanno facendo, è abbastanza chiaro a questo punto che non si rendono più conto di quello che stanno raccontando. Stanno radendo al suolo una zona in cui vivono due milioni di persone, il che è incredibile: ma è molto più incredibile che i soldati, mentre lo fanno, si riprendano e condividano pubblicamente le prove dei loro crimini di guerra. Politici e militari citano allegramente versetti della Bibbia come se per il resto del mondo fosse una cosa normale ispirarsi a mitologie vergate migliaia di anni fa. Il senso di impunità che trasmettono rimane dopo mesi sbalorditivo: sembrano semplicemente non rendersi conto che qualcuno potrebbe giudicare anche loro.  

L'ignoto addetto alla propaganda che decide di condividere le ultime immagini di Sinwar deve avere pensato che esse avrebbero dimostrato la gloria e la potenza di Israele e l'umiliazione dei suoi nemici. È successo l'esatto contrario: quell'umanissimo lancio di un bastone contro il drone ha commosso anche tanta gente che in Hamas non si riconosce, ma che tra uomo e drone non può certo scegliere il secondo. Dopotutto non è così comune vedere un leader che muore con le armi in mano: di Allende abbiamo la foto vivo con le armi, di Guevara quella in cui è già morto, ma insomma stiamo parlando già di Guevara e Allende, mentre la consegna prevedeva che Sinwar fosse trattato da lurido tagliagole circondato da ostaggi seviziati. I propagandisti israeliani forse non si rendono conto di quanto sia scontato, per chiunque non viva nella loro comunità psicopatizzante, stare dalla parte dell'uomo contro il drone. Forse avrebbero dovuto riguardarsi Metalhead, uno degli episodi meno noti di Black Mirror, perché in effetti non contiene nulla di controverso: ci sono umani che lottano contro macchine assassine. Non abbiamo la minima idea di che umani siano: non conosciamo le loro idee politiche o fedi religiose; l'unica cosa chiara è che non vogliono essere ammazzati da queste macchine, ed è tutto quello che ci serve per stare dalla loro parte, nella speranza che un giorno non succeda anche noi, o ai nostri figli. 


Se c'era una cosa in cui Israele sembrava imbattibile, fino al 7/10/2023, era la propaganda; dopodiché non sono più riusciti a raccontarsi senza autoaccusarsi, in un delirio che in certe vecchie detective stories era il sintomo del senso di colpa dell'assassino. Nessuno avrebbe mai immaginato un Sinwar così umano nei suoi ultimi minuti, ma gli israeliani sono stati così poco avveduti da mostrarcelo, dopodiché – una volta preso atto dell'incredibile autogoal – hanno divulgato un altro video in cui Sinwar, ci spiegano, "poche ore prima del massacro etnico degli ebrei da lui organizzato, scappa nel tunnel che si è fatto costruire sotto casa sua a Gaza". Ecco, ora sì che Sinwar dovrebbe sembrarci un mostro; e codardo, per di più, visto che gli altri uccidono e lui scappa. Senonché. 

Senonché nel video si vede una famiglia che si sposta con un po' di bagagli. Madre, padre e bambini. Se non fosse per il tunnel, potrebbero essere i tuoi vicini di casa che vanno in vacanza. Certo, la maggior parte dei giornalisti non ha vicini di casa così: ma io un po' sì e magari anche tu, pazientissimo lettore, non vivi nel quartiere 100% ariano da cui i corsivisti di Foglio e Linkiesta ci spiegano cos'è l'antisemitismo. Per accettare che il video mostri un leader crudele mentre volge sadicamente le spalle ai suoi stessi combattenti, dobbiamo credere che sia stato girato proprio il sei ottobre, e passi; e che Sinwar non stia semplicemente aiutando la famiglia a trasferirsi in un luogo sicuro, con altre famiglie di altri combattenti. Che non abbia disertato il fronte lo dimostra il fatto che sul fronte sia morto più di un anno dopo, a guerra ormai abbondantemente persa; per il resto anche Churchill durante i bombardamenti mandava i parenti nei rifugi, forse ci entrava pure lui; forse se i suoi nemici avessero messo le mani su un filmato in cui scendeva le scale lo avrebbero anche loro montato a scopo propaganda – salvo che ehi, no, non si possono paragonare i nemici di Churchill, dimenticavo che è proibito, scusate, scusate. 

Che anche questo secondo video non stesse funzionando, lo dimostra una definitiva ondata di tweet che a partire da un'ora dopo la diffusione del video da parte del portavoce dell'IDF, e per due giorni buoni, hanno sentito la necessità di avvertirmi che la borsetta in mano alla moglie di Sinwar fosse un modello Hermès da 32000 euro.

ah beh, uguale

Lo scrivo per ricordarmelo, perché per quanto ridicolo, è stato uno dei momenti più genuinamente orwelliani che ho mai vissuto in vita mia. I tweet provenivano tutti da opinionisti e attivisti che avendo scelto un anno fa di sostenere Israele "a ogni costo", stanno pagando evidentemente un costo altissimo in termini di credibilità e... umanità. A proposito di macchine: ormai quasi indistinguibili da bot litigiosi che ti compaiano davanti soltanto per massimizzare il fastidio e strapparti la reaction. Tutti coordinati da un algoritmo neanche troppo sofisticato, tutti improvvisamente convinti che una borsetta che si intravede per pochi secondi corrisponda a una Birkin – tutti ormai disposti a cavarsi gli occhi per evitare che vedano cose che Israele non vuole. Tutti hasbaristi improvvisati, salvo che se dopo mesi e anni di improvvisazioni ancora non siete capaci vuol dire che non era proprio il vostro campo. E tanti italiani. Troppi. Italiani che non sanno riconoscere una borsa? Ammettiamolo pure. Italiani che non si rendono conto che un modello di borsa nera vagamente simile a una classica Hermès lo puoi trovare su una bancarella del mercato a cento euro regalati? Quanta esperienza di vita, quanta intelligenza, quanto cervello dovete sacrificare per ritrovarvi a condividere una scemenza del genere? L'IDF vi vende una Hermès da trentaduemila euro e voi comprate? Che non capiate nulla di diritti civili e diplomazia, è abbastanza normale: se cercavo degli esperti mica stavo su Twitter; ma che non capiate niente di borse è inverosimile, inaccettabile, no. Nel prossimo captcha ci potrebbe essere una Birkin da riconoscere, e voi fallireste il test.  

domenica 14 aprile 2024

Altri 100 minuti


Arrivo tardi, ma lo voglio lasciare scritto: quello che ha fatto Alberto Nerazzini lunedì scorso, con la sua inchiesta sulle narcomafie di Roma e Velletri, è qualcosa di clamoroso e prezioso. Oltre a raccontarci una storia complicatissima che negli ultimi anni era scomparsa dietro l'orizzonte, è anche una lezione su come dovrebbe funzionare un'inchiesta televisiva, e su quanto funziona bene quando funziona. Tante cose che ormai diamo per scontate, che una volta sembravano tv d'assalto e adesso infastidiscono, Nerazzini si ricorda ancora andrebbero fatte. 

Disturbare i personaggi della storia per strada, o al telefono, ad esempio, è una pratica che di solito mi fa cambiare canale all'istante: colpa di Iene, di Striscia, di un'estetica che punta tutto sul mettere alla berlina il personaggio preso a bersaglio, e ti propone di trovare divertente il suo imbarazzo. Forse solo Nerazzini si ricorda che può servire a costruire un racconto a farci immedesimare in un personaggio: questo reporter che si aggira per Roma e dintorni a piedi o in automobile, con una giacca a righine che fa impazzire la videocamera. Non possiamo cambiare più canale, non fosse altro perché siamo preoccupati per lui. 

Come i detective delle storie seriali, ha un suo stile, il suo modo di appoggiare battute che può fare solo lui ("eh, ma dipende da quale Porsche...") e che forse serve un po' di abitudine per capire. Come quei detective, alla fine fa rapporto a un superiore, trova una soluzione decente a un mistero, sipario. Nella vita vera sarebbe promosso, diventerebbe famoso, tutti i canali se lo disputerebbero: ma purtroppo siamo nella tv italiana. Lunedì c'è un'altra puntata e io spero di trovarlo di nuovo, per più tempo possibile. 

venerdì 9 febbraio 2024

Tutto intorno a Fiorello (che non ne può più)


Ci sono cose molto più orribili che succedono tutti i giorni, ma parliamo pure di Fiorello. È più interessante di quanto sembri, giuro. 

La tv ormai è un medium anziano, con una terribile sensibilità per la storia, la tradizione, e per il Canone – non quello che si paga, ma una galleria di artisti e contenuti il cui valore dovrebbe essere tramandato di generazione in generazione. Per cui il banale format falloniano – prendi una celebrità, costringila bonariamente a fare qualcosa di molto stupido – doveva comunque essere intinto in una soluzione di malinconia. In effetti se vi ricordate, io inspiegabilmente me lo ricordo, John Travolta a Sanremo ci era già andato e credo con Victoria Cabello aveva già fatto lo stesso inutile siparietto di coreografie: Stayin' Alive, Grease e Pulp Fiction. Che altro fargli fare, del resto. Ecco, se lo domandi a qualsiasi autore di media sensibilità, probabilmente scuoterà la testa: nient'altro. 

Ma se lo domandi a Fiorello (o ai suoi autori), il risultato è qualcosa che può indurre a vergognarsi persino l'immortale interprete di Senti chi parla 3 e il produttore di Battaglia per la terra. Il ballo del qua qua è oltre, ma perché? Una chiave ce l'ha data lo stesso Fiorello (Fiorello queste chiavi le fornisce sempre, perché parla molto): noi oggi qui ti roviniamo la carriera. Stava scherzando, ma Fiorello ha questo modo di scherzare, lasciatemelo dire, siciliano, che a me dà spesso un brivido. Non perché Fiorello possa veramente rovinare la carriera di JT (più di quanto non se la sia già JT complicata da solo). Ma perché non gli dispiace veramente farci capire che ne sarebbe capace. Scherzandoci su, per carità. Che poi davvero ha mai rovinato la carriera di qualcuno, Fiorello? Mi vengono in mente solo personaggi che ha aiutato. Magari quelli che cancella lui scompaiono sul serio, anche dalla mia memoria. O forse sotto quella bonarietà da imbonitore che mi induce sempre a diffidare, Fiorello non è una persona cattiva. Vuole solo che ogni tanto lo sospettiamo.  

Da giovane Fiorello è diventato molto famoso e molto in fretta, al punto che è quasi un caso se non ci è rimasto secco. Da lì in poi ha goduto di una specie di rendita di posizione. Mentre tutti davano per scontato che fosse il mattatore che avrebbe salvato la tv generalista, Fiorello ha avuto un po' di tempo e di agio per capire i suoi limiti. Fiorello voleva fare il cantante, ma avrebbe dovuto lavorarci di più. La tv lo voleva come Grande Presentatore di Varietà, l'unico degno successore di Pippo Baudo: ma avrebbe dovuto fare quel passo indietro che non è mai stato in grado di fare. Baudo sapeva far brillare gli ospiti, e ai comici faceva da spalla; Fiorello vuole essere capocomico e gli ospiti tende a eclissarli, ormai lo sa e ci scherza sopra: se vai ospite nel suo programma ti può capitare di esibirti ai semafori. Rispetto a Fallon c'è una punta di cattiveria che rivela una mentalità più feudale: Fiorello nel suo spazio televisivo è signore assoluto, se lo è conquistato vincendo determinate battaglie e cedendo soltanto ad alcuni compromessi, e se vuoi essere suo ospite devi svegliarti all'ora che piace a lui, giocare al gioco che ha scelto lui. Lui suona e tu balli e chissenefrega se sei Hollywood (la solita Hollywood a cui Sanremo chiede una scintilla consunta di internazionalità): qui comando io e questo è il ballo del qua qua, John, balla.

Per un'ironia della situazione (la situazione è quella di una regressione culturale pluridecennale) il feudo personale di baron Fiorello è comunque il programma più innovativo di tutti i palinsesti Rai, se non l'unico. Se ci pensate è una cosa di cui nessuno sentiva l'esigenza – un varietà alle sette del mattino – e che mescola con una fluidità impressionante il linguaggio radiofonico e quello dei social. A riprova del fatto che ogni innovazione nasce da un errore di percorso, da una mutazione imprevista che si dimostra più efficace nell'adattarsi all'ambiente, Viva Rai 2 non è nata a tavolino come uno spazio per la sperimentazione, ma è semplicemente quel che è successo quando hanno chiesto a Fiorello: va bene, il varietà tradizionale no, e allora cosa ti piace fare? e lui deve aver risposto: mi piace svegliarmi presto. E si sono tutti messi a svegliarsi presto per adattarsi al bioritmo di Fiorello. Il programma è centrato su di lui al punto che letteralmente si mangia l'inquadratura: non gli basta essere il centro, a volte gioca col chroma key per fare anche da sfondo. Tutto è basato su di lui, va bene, e allora qual è la novità?

Che lui è stanco. Non ne fa mistero: ha sessant'anni, una paura sincera di perdere il filo mentre parla (le due spalle dovrebbero aiutarlo in questo, ma fanno comunque fatica a reggere il ritmo). Come è tipico di chi fa lo stesso mestiere da troppi anni, si è rotto i coglioni soprattutto di provare: gli sketch con Biggio sono sotto il livello delle scenette dei turisti ai villaggi, non tanto per i testi ma perché questi due professionisti non riescono a stare seri per due minuti, non gliene potrebbe fregar di meno, buona la prima e vai con lo stacchetto. Qualcuno ogni tanto tira fuori Arbore, ecco, la prima differenza è che dopo una stagione Arbore salutava, passava in cassa e andava a inventarsi qualcos'altro. Fiorello non ce la fa, gli piace troppo presentare, invitare gli ospiti e cantarci sopra, e soprattutto, sospetto, gli piace comandare. Ogni tanto ci mostra il telefono e ci fa vedere che può chiamare chiunque, in qualsiasi momento: anche alle sette del mattino. L'agente del tal cantante gli manda una canzone pregandolo di non farla ascoltare entro la tal data, come è prassi nell'ambiente: lui ridacchia e la mette su il giorno prima, tanto è Fiorello, chi è che può permettersi di litigare con Fiorello? 

Un'altra differenza con Arbore è che quest'ultimo veniva dal jazz: l'idea era imparare un tema, chiamare dei professionisti che l'avrebbero saputo suonare a occhi chiusi, e farli improvvisare. Fiorello viene dai villaggi, infierisce ancora sugli ospiti come gli animatori sui turisti: dai, balla il ballo del qua qua che è divertente. Gli altri turisti in effetti in quel momento ridono: tu no ma vabbe', riderai domani, e poi non si può piacere a tutti. 

martedì 23 maggio 2023

Non lo ucciderete neanche morto

Non sono più sicuro che mi piaccia Succession. Probabilmente capita a tutti di seguire una serie per inerzia, però questo mi sembra un caso più complicato. All'inizio c'erano gli intrighi di tre fratelli e altri parenti/cortigiani per succedere al padre; l'elemento di novità è che a turno tutti i protagonisti si rivelavano dei deficienti. Ogni volta che uno dei tre sembrava finalmente fare la mossa giusta, riscattarsi, diventare adulto, magari pure uccidendo il padre – niente da fare, subito dopo inciampava nei lacci di scarpe. È un meccanismo che distingue Succession da tanta altra fiction, dove bene o male un eroe c'è: avrà dei difetti e potrebbero anche essere terribili, e forse nemmeno si emenderà, ma a un certo punto la storia viene a coincidere con un suo percorso verso il riscatto, la maturità. Succession non esclude mai che questo prima o poi succeda – il caso più eclatante mi sembra il finale della seconda stagione, quando Kendall fa una mossa veramente arrischiata che ci lascia sospettare che possa essere il Successore, per un attimo, anzi per un anno: dopodiché quando riparte ci accorgiamo in pochi minuti che è il solito pirla, niente da fare.

Esiste sempre un punto in cui ogni fiction avrebbe dovuto fermarsi per non ripetersi, e probabilmente anche in Succession questo punto è stato superato: il meccanismo continua a ripetersi, episodio dopo episodio, in modo sempre più automatico: pensiamo che Kendall/Roman/Shiv finalmente abbia in pugno la situazione, ma nella puntata seguente, a volte ormai nella scena seguente, ha in mano un pugno di mosche: la situazione era più complessa, la situazione continua a complicarsi e quei tre a girare a vuoto. Succession si ripete come tutte le fiction, ma somiglia meno a una fiction e più alla vita, dove malgrado tutti i momenti topici in cui pensi di aver finalmente capito e di essere cambiato, ti svegli il giorno dopo e sei esattamente il pirla di prima, in affanno dietro a un progetto che cambia tutti i giorni, una volta si trattava di ereditare, poi di vendere, poi di comprare, anzi di vendere per comprare un'altra cosa che alla fine è la stessa cosa, ma forse è meglio non vendere e non comprare, e intanto il tempo passa, i vecchi muoiono o si ammucchiano sullo sfondo ma continuano a guardarti scuotendo la testa, you're not serious people. I love you, but you're not serious people.

domenica 26 febbraio 2023

Costanzo ha una responsabilità

La scorsa settimana Rihanna ha fatto quello show al Superbowl, l'avrete vista no? Poi l'altro ieri è scomparso Maurizio Costanzo – nei confronti del quale mi dichiaro neutrale, non sono mai riuscito a trovare niente di interessante in quello che faceva che comunque non ho mai visto per più di dieci minuti senza cambiare canale. Può darsi che questa sostanziale immunità ai talk notturni fiume sia una menomazione, eppure ho il sospetto che se in Italia ci fossero stati più menomati come me Vittorio Sgarbi avrebbe fatto il... il... (scusate lo stallo, ma non riesco a trovargli un solo mestiere onesto, giuro, è da tre minuti che ci provo e qualsiasi uniforme o camice gli metto addosso non c'è niente da fare, nella mia testa lo cacciano a pedate il secondo giorno e/o finisce al gabbio, no ma grazie Maurizio Costanzo).

Beh certo, qui avrei potuto mettere una foto di Costanzo.

La coincidenza di questi due eventi totalmente irrelati – Rihanna pregna, Costanzo defunto – mi ha riattivato un ricordo abbastanza remoto, non saprei dire in che anno fossimo, ma doveva essere l'anno Uno da Umbrella, ve la ricordate Umbrella? Vi ricordate che per tre mesi non si era sentito altro, ed era il momento in cui le canzoni si cominciavano a sentire anche al telefono, e da tutti i telefoni si sentiva Umbrella? Era lievemente pervasiva, ecco. Io ero al ristorante con gente di un certo spessore intellettuale,  e a un certo punto uno di loro si lascia sfuggire che Maria De Filippi era un genio.

Io lo giuro, al ristorante sono una persona molto più conciliante che qua sopra, epperò questa cosa di chiamare X un genio non la sopporto, perché alla fine cos'è un genio? Per prima cosa è una persona più brava di me, e questo già mi mette in una cattiva disposizione d'animo. Anche per evitare questa cosa milito da anni in una corrente di pensiero che si rifiuta di considerare la "genialità", di solito prendiamo i geni del passato, li passiamo al microscopio finché non scopriamo che erano semplicemente le persone giuste nel momento giusto, gran parte delle loro innovazioni in realtà le avevano scopiazzate, altre non funzionavano ecc. ecc. Nel caso di Maria De Filippi, però che microscopio vuoi usare? Cos'è che avrebbe inventato che non sia una copia cheap di qualcosa che era già bruttino in partenza?

Io insomma obiettai che un genio forse sarebbe stato in grado di fare una televisione più interessante di un'infinita diretta dal salone di una parrucchiera (ero ancora sotto choc da quella volta che un dentista mi aveva ricevuto al pomeriggio e alzando la poltrona verso il soffitto mi ero ritrovato immobilizzato davanti a un televisore che mandava Uomini e Donne, io cercavo di concentrarmi sul dolore che stavo provando mentre mi trapanava il dente, ma niente da fare, Uomini e Donne a metà pomeriggio, vi rendete conto). 

Comunque questo tizio, cominciate a immaginarvi il tipo, l'accento metropolitano con qualche sprezzatura da fuorisede e gli anglismi da laureando in scienze della comunicazione, riuscite a vederli i baffetti? Insomma questo tizio a spiegare che invece no, era proprio quello il suo genio, questo lungo protrarsi della diretta pomeridiana, "la tv come flusso" deve avere detto così, e io obiettavo che vabbene il flusso, ma se non riesci neanche ada annunciare i break pubblicitari e il regista esasperato ti stacca a metà discorso forse non rispetti il mezzo che stai usando, quel minimo di sintassi che ti impone la tv commerciale. A quel punto lui comincia a sospettare che io sia l'astruso intellettuale nella torre d'avorio e che non capisca il popolo, perché è quello che fa Maria, no? dare la voce al popolo – io obietto che per quanta ne avevo visto io, la tv defilippiana non era poi così rispettosa del popolo, anzi piuttosto paternalista/maternalista nei confronti di una plebe messa davanti a un obiettivo talvolta davvero parecchio cinico, e non era un caso che piaccia a diversi intellettuali autopercepiti che almeno una volta alla settimana devono sincerarsi di essere migliori di qualche poveraccio. 

Ma lui a quel punto non mi sentiva più, aveva capito tutto di me, evidentemente passavo le mie serate a leggere l'epopea di Gilgamesh in lingua originale e non capivo le necessità della gente, di fare televisione da sola, di specchiarsi, di capirsi, io ci provavo anche a obiettare che lo specchio comunque è sempre qualche borghese romano che lo tiene in mano, che proprio perché la tv è una cornice c'è sempre qualcuno che decide cosa mostrare e cosa no, e che quel qualcuno ha immense responsabilità: può decidere di occupare il palinsesto con cose belle ed educative o con "flussi" di chiacchiere e fotoromanzi; che l'abbassamento del livello culturale era un fatto, la Mediaset aveva precise responsabilità, la Fascino aveva la sua parte di responsabilità, è inutile nascondersi dietro i flussi e dietro gli specchi quando il risultato è che dopo un po' tutto diventa lo stesso pastone sonnacchioso, nel quale anche qualche intellettuale certo ogni tanto ama indulgere... e a quel punto mi ero reso conto che dalla televisione si sentiva Rihanna. Ma dov'ero rimasto?

Ah sì, dicevo, anche l'intellettuale ogni tanto ama indulgere in questo pastone sonnacchioso, ma col cinismo del privilegiato che tra Rihanna e Mozart ogni tanto legittimamente preferisce Rihanna, e però in casa ha tutto il Mozart che vuole e può cambiare programmazione appena vuole, mentre il "popolo", se tu stai nella stanza dei bottoni e decidi di programmare soltanto Rihanna, non avrà scelta e ascolterà soltanto Rihanna, e a quel punto lui mi disse, a me intellettuale eburneo, disse:

– Chi è Rihanna?

giovedì 26 gennaio 2023

La macarena sulle vostre tombe

Vi vedo tutti immotivatamente entusiasti per un monologhetto sull'entusiasmo immotivato, un pezzo appiccicato alla benemeglio in un prodotto seriale per far contenta la guest star che se l'è scritto. Non c'entra niente con lo sviluppo della trama, è uno sbrego diegetico, è un attore che esce dal personaggio e ci intrattiene sui fatti suoi che secondo lui sono divertenti. Anche secondo voi sono divertenti – del resto sembra fatto apposta per essere trasformato in story e girare sui vostri smartofoni. È una variazione sul  tema delle chat scolastiche, nel 2023, ci vuole coraggio, no? Non sono mica tutti pronti all'ironia contro un avversario potente come le chat scolastiche. È un pezzo che si crede Mattia Torre, come probabilmente capita a tanti cartocci nel cestino della writing room della Littizzetto. È un pezzo che se la prende con l'entusiasmo dei genitori che vogliono fare qualcosa per migliorare l'offerta educativa del loro istituto. Hanno tutti una passione (la batteria, la danza, il ciclismo) e vogliono comunicarla, con tanto entusiasmo, che secondo il regista (appollaiato su una terrazza che dà su Piazza del Popolo) è "il sentimento più orrendo dell'essere umano". Non l'odio, non l'intolleranza, non l'impulso dell'audista che ti sorpassa a destra sull'A1: no, per il regista italiano il sentimento più orrendo è la voglia di insegnare qualcosa ai propri piccoli, e già che ci siamo ai piccoli degli altri. Capace che poi crescono più socievoli, ciò è sbagliato! Il regista italiano nel 2023 vuole stare in un angolo imbronciato, perché in questo consiste la sua coolness, in sostanza il regista italiano è una Mercoledì cinquantenne che si crede Nanni Moretti, e voi siete entusiasti di questa cosa. 

I genitori,per una volta che invece di lamentarsi dei compiti, dell'insegnante, del bullo o dell'insegnante bullo, provano a proporre cose, magari con un po' di ingenuità ma un minimo di buona volontà; i genitori che vedono i figli passare i pomeriggi senza staccare l'occhio dallo smartofono e la cosa li spaventa; i genitori si domandano se non c'è qualcosa di non scrollabile che potrebbe coinvolgere questi benedetti ragazzi; e invece di scrivere accorati appelli a Gramellini fanno un'assemblea con tante proposte, ognuno porta la sua cosa, a me sembra quasi commovente – ma al regista no. 

I genitori sono anche preoccupati per il traffico, in una città così complicata come Roma il ciclismo è ancora una scelta difficile (gli audisti ti menano se provi a usare le ciclabili) ma presto o tardi ineludibile, bisogna preparare i ragazzi a un mondo che sarà per forza diverso dal nostro, ma il regista dal terrazzo su Piazza del Popolo tutto questo traffico mica lo vede, e poi lui al pomeriggio giocava per i fatti suoi ed è cresciuto bene, i suoi figli idem, e questo chiude la questione: tutto è già come dev'essere, anche questi smartofoni prima o poi passeranno. Di questo, siete entusiasti.

Se i vostri figli lo sapessero vi soffocherebbero nel sonno – ah, ma lo sanno, vi leggono sullo smartofono. La macarena verranno a ballare: sulle vostre tombe.

sabato 1 ottobre 2022

Almeno l'acrobata lo sa

Per quel poco che ho visto e che m'interessa vedere, facebook è il social dei vecchi matti che dicono scemenze, tiktok è il social dei giovani matti che ballano scemenze, instagram è il social dei matti e basta: un luogo dove il disagio regna sovrano e investe ogni giorno nuovi marchesi baroni e duchesse del disagio. Dunque la notizia di ieri, tenetevi forte, è che una persona su instagram ha detto una scemenza. Avesse almeno morso un cane, e invece no, ha fatto esattamente quello che fanno tutti, che faccio pure io (scrivere, ballare o enunciare sciocchezze che al bar nessuno ci ascolterebbe), però certo, l'ha fatto da un palcoscenico di millemila follower per cui brrrr, chissà quante persone si sono sentite offese. 

Al che mi domando: ma almeno le ha dette in qualità di qualche cosa? Cioè, se fosse un rappresentante politico, i suoi rappresentati avrebbero la necessità di dissociarsi. Se invece ricoprisse ruoli che in qualche modo hanno a che vedere con quel che dice – per dire, ha parlato degli anziani, se fosse una direttrice di una casa di riposo sarebbe giusto farsi delle domande, farle delle domande. E altrettanto se lavorasse nelle forze di polizia, o al limite facesse l'insegnante (che è in assoluto il mestiere più esposto, e giustamente, perché se dici sciocchezze in giro il lettore può anche cominciare a pensare che tu le dica anche in classe e nell'esercizio delle tue funzioni). 

E insomma questa tizia a parte esercitare la nobile arte del disagio su Instagram, nella vita che fa? Da quel che ho capito, mette a posto gli armadi. Oppure insegna alla gente come si mettono a posto gli armadi, e vabbe', questo purtroppo non mi aiuta a scacciare il sospetto che l'ordine esteriore sia una spia di disagio interiore e quindi avrò un motivo in più per continuare a tenere la scrivania come un immondezzaio, però spiegatemi, davvero: perché l'opinione di una esperta di armadi dovrebbe essere in qualche modo interessante, dirimente? Cioè o vietiamo alla gente di esprimere opinioni fastidiose (e siamo lì lì), oppure accettiamo che la gente a volte le ha, le scrive, le dice, la sgradevolezza può persino diventare uno spettacolo, ma che possiamo farci?

Cambio apparentemente argomento: guardando il docu su Wanna Marchi mi è parso di capire che da un certo punto in poi lei e sua figlia sono diventate le peggiori nemiche di sé stesse: ovvero in una situazione in cui un processo era perso, i collaboratori avevano patteggiato, le prove erano state esibite in diretta tv, i testimoni c'erano e ne era già stata dimostrata l'attendibilità, insomma queste invece di scegliere un rito abbreviato e uno sconto di pena, hanno voluto il processo in grande stile e soprattutto con le riprese televisive. Convinte in un qualche modo perverso che la tv, che aveva dato loro tutta questa attenzione per tanto tempo, al momento giusto le avrebbe salvate, perché da qualche parte c'erano milioni di italiani che le avevano guardate per tanti anni, e come potevano quei milioni non amarle? Invece no, non le amavano affatto, le guardavano perché ne avevano paura, le trovavano fastidiose a un livello ipnotico, e anche il processo lo avrebbero guardato volentieri, ma per il gusto di vederle umiliate e condannate. Almeno l'acrobata lo sa, che la gente lo vorrebbe guardare spappolararsi al suolo. Noi no, noi siamo convinti che la gente ci segua perché è davvero curiosa e interessata a quel che diciamo, e forti di questa certezza continuiamo a capriolare di cazzata in cazzata finché

sabato 26 marzo 2022

I talk fanno schifo e nessuno li guarda davvero


1. Con gli anni '90 il dibattito politico in Italia si sposta irreparabilmente dai quotidiani al palinsesto tv. I talk show diventano il luogo primario in cui l'opinione pubblica, in teoria, si esprime. In pratica diventa da subito una grande caciara. Un'apparente varietà di voci nasconde (neanche troppo bene) una semplificazione brutale sia degli oggetti del discorso sia dei soggetti che discutono. La tv del resto è ancora metà Stato e metà Mediaset, due entità che non per coincidenza cominceranno ciclicamente a sovrapporsi. Un fantasma di pluralità veniva nobilmente concesso ai telespettatori mediante quella pratica primorepubblicana conosciuta come "lottizzazione". 

2. I talk sono un'arena in cui vince chi chiacchiera in modo più spigliato. L'approfondimento è un servizio di due o tre minuti; l'esperto deve semplificare e far sua la retorica degli imbonitori. A ogni tesi deve seguire un contraddittorio perché la sintassi del talk lo prevede, e se non si trova nessuno decente in grado di contraddire una tesi, lo si paga. Oppure se ne prende uno gratis, ma indecente.

3. I talk fanno schifo. Quelli fatti bene. Stanno al dibattito politico come il wrestling alla lotta libera. Le eventuali competenze degli invitati non si misurano sul campo, ma si esibiscono proprio come i muscoli dei wrestler. Chi vince e chi perde è già deciso in partenza, così come il premio partita per entrambi. Spesso i più bravi sono proprio i cattivi: farsi odiare è un'arte e non stupisce che gli ingaggi possano essere più alti. 

4. Nessuno li guarda davvero: il sospetto è che chi ne parla si sia visto perlopiù gli highlights ritagliati sui social, i clippini in cui l'Opinionista A "asfalta" l'Opinionista B (è wrestling, appunto). Sostutuendosi all'informazione e al dibattito, i talk hanno alienato milioni di persone nate e cresciute in un Paese in cui la politica era quella cosa lì, quella di cui si discuteva nei talk urlati e/o noiosi. Quando una deputata del M5S, all'indomani della vittoria elettorale del 2013, si ritrova a un tavolo con Pierluigi Bersani, il suo primo pensiero non è: sto discutendo a tu per tu con il rappresentante del primo partito italiano. Quando apre bocca, è per dire: "sembra di stare a Ballarò". In quale altra dimensione potrebbe Bersani discutere con qualcuno? La deputata esprime la sua incredulità, per essere passata come Alice dall'altra parte dello specchio: e insieme il suo rifiuto per tutto ciò che, essendo televisivo, non può essere autentico.  

5. Il motivo per cui i canali tv hanno insistito sui talk è meramente economico: costano poco. Meno della fiction, meno dei reportage. La maggior parte degli ospiti partecipano gratis, per conquistarsi la famosa visibilità che in molti casi serve ad accreditarsi in talk più importanti, in una spirale di fama e di follia che ha convinto molte persone di essere statisti proprio nel momento in cui venivano esibiti come pupazzi. 

6. È più di un decennio che stiamo selezionando la classe dirigente coi talk: direi che non sta funzionando. Del resto già i Cinque Stelle nel 2013 erano una reazione alla politica-talk: al tempo dovevano solennemente giurare di non andare in tv (in seguito si lamentavano di non essere invitati). La fine politica di Monti comincia proprio con le sue comparsate televisive: Draghi se ne tiene ben lontano, e del resto un altro politico che è sempre andato pochissimo in tv e non si è mai fatto coinvolgere nei talk è Silvio Berlusconi.

7. Prendete due persone ugualmente istruite: uno guarda i talk tutte le sere, uno non li guarda mai. Il primo non risulterà in nessun modo più informato del secondo. Io non ho mai guardato un talk per più di dieci minuti in vita mia. Non capisco come una persona possa arrivare all'undicesimo senza addormentarsi. Il contenuto di un talk di due ore si può sintetizzare in un testo leggibile in cinque minuti. 

8. I talk sono diventati il paesaggio informativo: non li guardiamo ma diamo per scontato che ci siano e che li guardino gli altri. Questo in parte potrebbe spiegare come mai molta gente si consideri oppressa dalla politica e dai dibattiti da talk show benché persino in televisione ci sia un'abbondanza mai vista di contenuti alternativi. Tutte le culture anti-"mainstream" insistono molto sul concetto che occorre spegnere la tv: se chiedi a un adepto di che tv stia parlando, invariabilmente si tratta dei talk show. Ed è sempre un talk show che hanno guardato più di te. Il novax medio dice di non avere la tv in casa ma sa distinguere un virologo televisivo dall'altro, io non ho mai imparato ad abbinare nomi e facce.

9. Non esistono ricerche in merito e non saprei come farle, ma ho il forte sospetto che il pubblico dei talk show sia per lo più composto da spettatori che detestano i personaggi – così come del resto chi guarda i programmi di cronaca nera detesta gli assassini e li vorrebbe catturati e puniti. La maggior parte dei pupazzi è sulla ribalta per farsi detestare, e lo sanno: si comportano odiosamente perché in questo consiste l'ingaggio. 

venerdì 14 maggio 2021

Chi ha cancellato i cancellatori di Woody Allen

Al termine di una settimana – non questa, la precedente – che la mia bolla sociale ha trascorso a discutere sulla Cancel Culture, e in particolare se esista o no (cioè non ne siamo ancora sicuri), domenica scorsa è apparso da Fazio nientemeno che Woody Allen, in carne e ossa e videochiamata, e... non è successo niente. 


Ma proprio niente, mi sembra che non ne abbia parlato nessuno. E stiamo parlando di Woody Allen, ovvero non solo uno dei registi americani più conosciuti e affermati in Italia, ma anche del caso più esemplare di questa benedetta Cancel Culture, tanto da essere citato credo in qualsiasi articolo che ne parli e che cerchi di spiegare cos'è (questo è l'ultimo che ho trovato). Woody Allen che malgrado il suo prestigio negli USA non è ancora riuscito a trovare un distributore per il suo ultimo film – forse proprio a causa della Cancel Culture. Woody Allen la cui autobiografia è uscita prima in Italia che negli USA, dove un editore addirittura ha rinunciato a pubblicarla a causa delle proteste degli stessi dipendenti. Woody Allen che tuttora è accusato da sua figlia di molestie, e a cui molte attiviste e attivisti non perdonano la relazione con la figlia (adulta) dell'ex compagna. Woody Allen che è talmente al centro del dibattito che la stessa Scarlett Johansson, nelle stesse ore, mentre accusava l'organizzazione che assegna i Golden Globe di pratiche discutibili ai limiti dell'abuso, è stata criticata da molti guerrieri social per avere lei stessa in passato difeso Woody Allen. Woody Allen insomma di cui sembra impossibile poter parlare senza accennare a tutto il dibattito sulla Cancellazione, e invece in Italia domenica scorsa ci siamo riusciti, grazie a Fazio, grazie alla Rai: abbiamo cancellato la Cancel Culture. È una cosa buona, è una cosa sbagliata? Non lo so. È comunque una cosa interessante, ne vorrei parlare.


Immagino che la richiesta di non toccare nemmeno di sguincio l'argomento sia arrivato dal management di Allen. Se una richiesta del genere fosse stata fatta a una redazione giornalistica, il caso si porrebbe. Può un giornalista accettare di intervistare un personaggio senza toccare un argomento così importante – diciamo pure l'unico argomento relativo ad Allen che ormai può interessare a uno spettatore sotto i quarant'anni? Può farlo senza venir meno alla sua etica professionale e senza perdere la faccia? Secondo me no. Fazio infatti non è un giornalista, o per lo meno non ha mai tentato di accreditarsi come tale. Fa promozione culturale, mettiamola così, e dopo tanti anni sappiamo anche come funziona e cosa produce. Si selezionano prodotti quasi sempre già rinomati, già ormai ridottisi in feticci, e li si usa per arredare il salotto ideale di un ceto medio riflessivo che vuole sentirsi culturalmente aggiornato, prima di ridacchiare per le battutacce della Littizzetto. Anni fa mi permettevo di prenderlo un po' in giro per la sua gerontofilia, la sua tendenza a circondarsi di vecchi nonni saggi: dopodiché è invecchiato pure lui, siamo invecchiati tutti – Allen un po' prima degli altri e Fazio domenica non vedeva l'ora di incorniciarlo nella posa dell'amabile vecchietto che non sa usare il tablet e nemmeno il telecomando.

L'intervista non si è scostata da un canovaccio che Allen ha perfezionato da decenni: tutti gli danno del genio, lui si schermisce, tutti gli danno del falso modesto, lui continua a schermirsi (incidentalmente, è la stessa strategia che adopererebbe un mostro criminale, un Kaiser Soze). La sua autobiografia, se gli avete dato un'occhiata, è un'interminabile rivendicazione di mediocrità che alla fine si trasforma in una specie di autodifesa: sono una persona qualunque molto fortunata, continua a dirci, e le persone qualunque non fanno le cose orribili che ad Allen sono state attribuite.


 

Per una scenetta del genere, Fazio era la spalla ideale: nessuno più di lui sa sintonizzarsi sulla falsa modestia dei suoi Grandi Vecchi. Lo fa benissimo perché ci crede: Fazio era sinceramente orgoglioso di intervistare Woody Allen in quanto monumento di una generazione, e del tutto indifferente al fatto che un'altra generazione lo consideri un mostro. È una generazione che non guarda la tv, quindi perché preoccuparsi. 

Viene il sospetto che il problema sia tutto generazionale: la Cancel Culture esiste soltanto da una certa classe in poi. Per i nati prima del 1970, azzardo, il caso Dylan-Farrow è un fatto di cronaca di più di vent'anni fa. Per i nati dopo il 1980 è l'unica cosa interessante, benché mostruosa, che il tizio abbia fatto. Io sto in mezzo a queste due generazioni che vorrei definire l'una contro l'altra armate, ma non è vero: ormai non si frequentano più, e le rare volte che si parlano non si capiscono. Per chi ha amato almeno qualche film di Allen, il tiro al piccione su Twitter è un'esperienza mortificante: la maggior parte di chi getta sassi, si capisce, non ne ha mai visto uno. Alcuni lo ammettono pure. Vien da pensare che un certo tipo di attivismo sia un modo economico di risolvere l'aggiornamento culturale: il tizio ha girato più di 40 film, se vuoi parlarne senza perderti i riferimenti dovresti averne visti almeno una metà. Se invece decidi che il tizio è un mostro, puoi sparare immediatamente il tuo giudizio tranciante e ti resta anche tutto il pomeriggio libero per guardarti una serie. Non è che il contrappasso non abbia una sua logica: Woody Allen per tanti anni ha potuto contare sulla benevolenza di un pubblico e di una critica pronti a degustare qualsiasi suo prodotto come un'eccellenza artistica. Nel frattempo è cresciuta una generazione che le rare volte che prova a guardarne uno, non capisce cosa ci sia di divertente e/o tragico. Lui d'altro canto ha sempre detto che il giudizio dei posteri non lo interessava, anche se forse non immaginava che i posteri piuttosto di perder tempo a capire e contestualizzare avrebbero scambiato Manhattan per un'apologia della pedofilia. 

Quindi alla fine questa Cancel Culture esiste o no? Non saprei. Di sicuro esiste una generazione che non ha timori reverenziali per i feticci del passato – il che è un bene – ma che tende a confondere questa naturale irruenza con un dispositivo morale. Col risultato che molte cose che comunque starebbero per finire nel dimenticatoio rimbalzano un po' più in là, nell'Indice dei Manufatti Culturali Proibiti e Quindi Interessanti. Un posto dove le generazioni successive potrebbero più facimente riuscire a recuperarli... e allora, se mi piace il cinema di Woody Allen, chi devo temere di più? Il mellifluo Fazio che troverebbe geniale anche un suo assolo jazz di peti con le ascelle, o i giovani aspiranti inquisitori che non sopportano la vista di un quarantenne a letto con una diciassettenne? Quale dei due atteggiamenti, nel medio-lungo termine, consentirà ai lungometraggi di Woody Allen di rimanere culturalmente rilevanti, anche se invece di trovarli su Netflix dovremo cercarli su Pornhub? 

sabato 6 febbraio 2021

Meglio un giorno da pecorella

Lo so che ci sono tante cose più importanti e interessanti, ma ieri sera, provato dagli scrutini, sono restato su una poltrona e ho visto un po' del Cantante mascherato; quanto basta per scoprire Alessandra Mussolini sotto la maschera della pecorella. Ecco, per me questa piccola cosa è abbastanza interessante.


Mi ha fatto venire in mente un tweet o qualcos'altro di un americano o di un inglese, non mi ricordo più, che qualche mese fa scoprì tutto scandalizzato che la sopradetta Alessandra Mussolini, nipote di tanto nonno, invece di vivere per sempre marchiata dall'indelebile infamia, partecipava alla versione italiana di Dancing with the Stars (Ballando con le stelle). Anche in quel periodo c'erano tante cose più importanti o interessanti per cui anche se avevo voglia di rispondergli non l'ho fatto. 

Però ripensandoci avrei dovuto, qualcuno avrebbe dovuto rispondergli, ehi Mister, Sir, qual è il problema? Con tutti quelli che abbiamo, una Mussolini che balla è interessante? È vero, a differenza di voi imperialisti abbiamo avuto un dittatore certificato. Non c'è dubbio, è successo, e molti di noi hanno ancora un grosso problema ad accettarlo; resta fermo però il principio che le colpe del padre non ricadono sul figlio (tantomeno sul nipote). Quindi la signora Mussolini non solo ha fatto la ballerina, e l'attrice, ma è stata pure eletta in parlamento: ne aveva il diritto, si è candidata, e qualcuno aveva il diritto di votarla. Però alla fine non ha funzionato, e adesso fa l'ospite televisiva. Il che dovrebbe essere avvilente, ma per chi? Lei si diverte, la gente è moderatamente contenta di riconoscere una faccia nota, il cognome così terribile si associa un po' meno agli orrori del Novecento e un po' più alle copertine dei rotocalchi, e questo in qualche modo dovremmo sentirlo ingiusto. Per me è il contrario, e forse è una delle particolarità italiane che esporterei. La tv come camera di compensazione per i rampolli di famiglie celebri per il motivo sbagliato. 

Remembering China’s last emperor, Puyi, 50 years after his death 

Ho sempre trovato incredibile il modo in cui i comunisti cinesi trattarono l'ultimo imperatore, quel Pu Yi che pure si era macchiato di un tradimento e aveva permesso orrori che fanno impallidire quelli del nostro Mussolini e del nostro Savoia. Come sa anche solo chi ha visto il film di Bertolucci, quando i comunisti riuscirono a farsi consegnare Pu Yi dai sovietici, lo trasformarono in un... giardiniere. Non fu un trattamento indolore: dovette passare per un campo di rieducazione. Ma l'idea era potente: prendere l'ultimo erede di una dinastia, e di una storia millenaria, e trasformarlo in un cittadino qualunque. Una cosa del genere noi non potremmo farla – è ingiusto anche solo sognarla – però qualche buona idea a volte ci viene, ad esempio prendere il nipote di un re esiliato, o la nipote di un dittatore ancora rimpianto da molti italiani e trasformarli in celebrità sospese tra mainstream e trash. Per loro è sempre meglio che lavorare; per chi rimpiange i fasti dei nonni è un'offesa alla memoria, per noi che guardiamo è un modo per confiscare loro un'eredità che non hanno richiesto e che non meritano, nel bene e nel male.  

Quindi, o popoli: avete figli di dittatori da gestire, o eredi a un trono che non c'è più, e vi sembra ingiusto fucilarli? Mandateli in tv a ballare e cantare, in Italia facciamo così e secondo me funziona. Non fate il contrario, come gli americani, non mandate i personaggi televisivi in politica: quello sì che è pericoloso. (Allo stesso Trump, forse sarebbe bastato offrire di nuovo una stagione di The Apprentice e magari avrebbe acconsentito a lasciare la Casa Bianca con meno strascichi). 

(E ora che ci penso, quando ci lamentiamo di Renzi che continua a far politica, dobbiamo ammettere che lui a un certo punto ci aveva anche provato, a passare alla televisione; e non era una idea così sbagliata: dopo che aver vissuto per anni in quel trip egotico che è la politica ad alto livello, circondato e riverito da lacchè, quale altra cosa puoi fare, che ti produca una soddisfazione lontanamente paragonabile? La tv generalista funziona, ha salvato Giulio Ferrara, Claudio Martelli, chissà quanti altri. Avrebbe potuto salvare anche lui, e lui ci ha provato, non dite di no. Ha fatto quel documentario... l'avete guardato? Sì, lo so. È tv generalista, bisogna essere molto stanchi o disperati. Tra un po' bisognerà pagare qualcuno per guardarla).

(Ho chiesto in classe: avete visto il Cantante Mascherato? Nessuno. E li capisco, però comincio ad aver paura). 

(Ma insomma quando qualcuno si mette a dire che Renzi è un sagace politico, ricordate un attimo che si è dovuto rimettere a far politica perché neanche in tv funzionava. Cioè la politica come camera di compensazione della camera di compensazione).

giovedì 21 gennaio 2021

In occasione dell'insediamento

Mi sono accorto non solo che questo blog è così vecchio da aver già visto quattro presidenti alla Casa Bianca, ma che per una manciata di giorni ha mancato la possibilità di averne già visti cinque: la mattina del 20 gennaio 2001 Bill Clinton era ancora formalmente presidente USA, il primo pezzo qua sopra è del 25. 
In ogni caso gli anni dell'infanzia sono sempre i più formativi, e così come io non riesco a scacciare l'impressione che ogni nuovo presidente sia una riedizione di Ronald Reagan (e in fondo hanno tutti preso qualcosa da lui), questo blog non ha mai veramente superato gli otto anni di George W. Bush. Questo in parte può spiegare la relativa flemma con cui ho accolto l'elezione di Trump quattro anni fa, e in generale il relativo disinteresse che ho avuto per un caso umano-politico pure così emblematico e spettacolare. Quattro anni fa ho scoperto che non avevo più abbastanza animo da preoccuparmi davvero: come se avessi già bruciato le mie cartucce migliori per l'altro presidente scemo. Ho cominciato a pensare "beh, fin qui non è ancora successo niente di grave" e ho continuato a farlo per quattro anni, sicché alla fine per me la cosa più notevole dell'amministrazione Trump è che si sia conclusa senza nessuna catastrofe globale (mentre scrivo questa cosa sento dal tg che le vittime del coronavirus negli USA hanno superato quelle della Seconda Guerra Mondiale, ma mi sembra ingeneroso attribuirle tutte a Trump).


Prima che Trump vincesse credo di aver scritto almeno un pezzo per contrastare l'idea che fosse il "Berlusconi americano" a cui i giornalisti italiani tenevano in particolare; non solo per la gran soddisfazione che traggo sempre a contraddire i giornalisti italiani, ma perché Trump i media non li possedeva, ne era posseduto: benché tuttora un sacco di gente sia convinto che Trump abbia ammaliato gli elettori con Twitter (il social più sfigato), il personaggio Trump è sostanzialmente una creatura televisiva. Questa cosa poi per quattro anni ho fatto finta di non averla detta, visto che le sue elezioni le aveva vinte – con un sistema elettorale assurdo, brevettato negli USA quando in molta Europa vigeva il feudalesimo – però le aveva vinte: e quindi ora era Berlusconi da considerare un'anticipazione, una prefigurazione di Trump. Poi però c'è stata quella lunga notte delle elezioni 2020 in cui sono restato sveglio anche se non vorrei voluto, e il momento in cui ho sentito il vento davvero cambiare è stato il momento in cui la Fox ha mollato Trump, in modo piuttosto improvviso. Il fatto che Trump sia diventato patetico anche per una parte dei suoi sostenitori, credo che dipenda soprattutto da quello, e non dal fatto che due o tre social network gli abbiano sospeso l'account. A Washington il 6 gennaio c'erano soltanto gli scoppiati (il che non significa che non fossero pericolosi) ma non l'America profonda: quella magari qualche tweet ogni tanto lo legge, ma soprattutto tiene accesa la Fox, e per la Fox Trump ha perso le elezioni, amen. 
Insomma avevo ragione io (ci mancherebbe anche che non mi dessi ragione in questo mio piccolo spazietto personale): Trump non è i media, è una creatura dei media, che lo hanno tenuto in vita finché lo hanno ritenuto affidabile; e più dei media tradizionali che di quelli 2.0. Ora dovranno inventarsi qualche nuovo personaggio, ma voglio immaginare che ci sono caratteristiche di questo modello che nel prossimo non troveremo. La vittoria di Biden è stata per me la notizia più bella dell'anno scorso: quella e i vaccini. Lo scrivo perché rileggendomi non sembra che me ne sia mai fregato un granché, ma scrivo più volentieri delle notizie cattive (ultimamente neanche di quelle).

Lascio qui un appunto sul dibattito del Free Speech, al quale non ho tempo di partecipare. Nel mio piccolo penso che i fanatici di Trump (il cui contributo alla vittoria del 2016 è probabilmente sovrastimato) siano per lo più bianchi razzisti. La cosa veramente nuova è la loro ritrosia ad ammetterlo, il fatto che in molti casi cerchino di essere bianchi razzisti "in modo ironico", una cosa che la mia generazione fa fatica a capire. Col senno del poi è un atteggiamento perdente, che rivela quanto Obama e l'egemonia hollywoodiana abbiano vinto; in questi anni per la prima volta abbiamo visto bianchi razzisti sfilare non per la supremazia della razza bianca, ma per difendere la Libertà di Parola, ovvero il diritto ad offendere parte del pubblico ("triggerare") affermando eventualmente che la razza bianca potrebbe essere superiore. Confesso di trovare esilarante il modo in cui Zuckerberg e Bezos li hanno infinocchiati, ventilandogli la possibilità di ospitare un simile spazio libero, facendosi consegnare password e dati e poi cacciandoli fuori – ma solo dopo che il vento era cambiato, non un attimo prima. L'abbiamo sempre detto che l'ironia è un'arma a doppio taglio, forse varrebbe la pena aggiungere che è anche a doppio manico, nel senso che dà al tuo interlocutore la possibilità di impugnarla contro di te in qualsiasi momento: per questo andrebbe usata solo con gente che non ha davvero intenzione di farti male. In realtà i monopoli on line sono un problema anche per me, e la libertà di parola qualcosa senza la quale non sono sicuro che potrei vivere. E allo stesso tempo non ci posso fare niente, ogni volta che trovo un razzista che frigna perché non gli danno libertà di parola, che ci posso fare? È un paradosso così grandioso che mi commuovo. 

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