Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi

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domenica 25 aprile 2021

Questa canzone fa impazzire i fascisti?

C'è una canzone di Bruno Lauzi su una balalaika che nelle steppe si annoia a suonare sempre le solite fredde canzoni e alla fine riesce a convincere un suo amico Flauto ad assumerla nell'orchestra Bolscioi. Come a Balalaika riesca questa opera di convincimento, Lauzi non lo spiega, siccome è una canzone per bambini; ma da lì in poi pende sulla protagonista come un sospetto di scarsa serietà che le strofe successive non dissolvono. Una volta approdata su un palcoscenico internazionale, Balalaika non tarda a perdere la testa per un Mandolino che se la porta a Napoli: addio Bolscioi, addio mie steppe.

La musica ovviamente segue l'evoluzione della storia, senza neanche troppo affaticarsi: balalaike e mandolino non è che suonino tanto diversi. Che è forse il motivo per cui i russi, con la loro pur straordinaria cultura musicale, appena riuscirono a captare sulla tv sovietica il Festival di Sanremo impazzirono. È come se la melodia italiana fosse kryptonite per loro. Ma la musica russa, agli italiani, che effetto faceva?

Il ragazzo nicchiava, una fiera, tarchiata e grinning figura. Da intorno e sotto aumentarono le insistenze e quello allora intonò «Fischia il vento, infuria la bufera» nella versione russa, con una splendida voce di basso. Tutti erano calamitati a quel podio, anche gli azzurri, anche i civili, ad onta della oscura, istintiva ripugnanza per quella canzone così genuinamente, tremendamente russa. Ora il coro rosso la riprendeva, con una esasperazione fisica e vocale che risuonava come ciò che voleva essere ed intendere, la provocazione e la riduzione dei badogliani. L’antagonismo era al suo acme sotto il sole, il sudore si profondeva dalle nuche squadrate dei cantori. 


storiaminuta.altervista.org

Poi il coro si spense per risorgere immediatamente in un selvaggio applauso, cui si mischiò un selvaggio sibilare degli azzurri, ma come un puro contributo a quell’ubriacante clamore. Qualche badogliano propose di contrattaccare con una loro propria canzone, ma gli azzurri, anche la truppa, erano troppo nonchalants e poi quale canzone potevano opporre, con un minimo di parità, a quel travolgente e loro proprio canto rosso? Disse Johnny ad Ettore che aveva ritrovato appena fuori della cintura rossa: – Essi hanno una canzone, e basta. Noi ne abbiamo troppe e nessuna. Quella loro canzone è tremenda. È una vera e propria arma contro i fascisti che noi, dobbiamo ammettere, non abbiamo nella nostra armeria. Fa impazzire i fascisti, mi dicono, a solo sentirla. Se la cantasse un neonato l’ammazzerebbero col cannone. 
(Fenoglio, Johnny).

Nell'estate '44 Johnny nelle Langhe ascolta ancora i partigiani della Garibaldi cantare Katyusha in russo. A cento km di distanza, nel savonese, la canzone ha già un suo testo in italiano, opera del comandante partigiano Felice Cascione. La canzone l'aveva portata dalla Russia un effettivo del Genio Pontieri, Giacomo Sibilla. Sulla musica che Sibilia aveva sentito cantare nelle retrovie dai ragazzi e dalle ragazze russe, Cascione aveva riadattato un testo scritto pochi mesi prima, quando ancora studiava medicina a Bologna. Il vento, la bufera, le scarpe rotte, tutto l'apparente realismo della composizione, Cascione lo stava immaginando, né avrebbe avuto molto tempo per goderselo: in febbraio era già morto in un conflitto a fuoco.



Per una meravigliosa coincidenza, la lirica russa comincia con un'immagine primaverile ("Meli e peri erano in fiore") e quella italiana col furore dell'inverno: fischia il vento, infuria la bufera. L'originale è una canzone d'amore, a modo suo: Katyusha è un'eroina tanto quanto il bel soldato, lui custodirà la patria tanto quanto lei custodirà il suo amore (il che è altrettanto eroico, evidentemente), insomma, tutti facciano il loro dovere e la vittoria non tarderà. Il che non impediva alle ragazze russe di cantarla agli italiani nelle retrovie. Fischia il vento sfoggia un romanticismo completamente diverso: il fiero partigiano è votato alla morte, non ha donne a casa che lo aspettano o comunque non deve pensarci, il che lo rende tremendamente sexy: ma le donne devono contentarsi di donargli un sospir. 

Fischia il vento è molto più cattiva dell'originale, e in effetti se da bambino il nonno ti faceva sentire la versione italiana, quando ascolti certe versioni orchestrali russe ci resti di sasso a scoprire che l'inno della Garibaldi, in madrepatria, è una specie di Fin che la barca va. È un fantastico equivoco: un alpino ascolta una languida canzone d'amore stalinista e la porta in Italia dove le stesse note, le stesse arcane sillabe sembrano talmente minacciose da far impazzire i fascisti al primo ascolto. Balalaika e mandolino magari non sono fatti per capirsi, ma in amore è anche bello fraintendersi.

giovedì 23 gennaio 2020

Lo sai che si dice dei cattolici

Ci sono ebrei al mondo, e buddisti,
mormoni, islamici e sikh.
Ci son Testimoni e battisti,
ma io... io non sono così.



Son tra i cristiani cattolici,
ci sono da sempre, e lo sai
che c'è di bello a esser cattolici?
Vai bene così come sei.

Non serve essere alto e prestante,
o un nobile o un genio, perché
cattolico sei dall'istante
in cui tuo padre è venuto per te.

Infatti...

Ogni sperma è sacro,
ogni sperma è santo.
Se sprechi lo sperma
Dio si altera alquanto.

Lascia gli infedeli
tristi a sgocciolare:
ogni goccia persa
Dio la sta a contare.

Ogni sperma è santo,
ogni sperma è sacro.
Se sprechi lo sperma,
Dio sa che è un massacro.

Indù, ebrei, taoisti
spruzzano qua e là,
ma Dio salva soltanto
chi si conterrà.

Ogni sperma è santo,
Dio ce l'ha donato.
Ogni sperma è una risorsa
per il vicinato.

Ogni sperma è santo,
ogni sperma è buono.
Ogni sperma è utile,
ogni sperma è un dono.

Lascia che i pagani
innaffin monti e mare:
ogni goccia persa
Dio la fa pagare

Ogni sperma è sacro,
ogni sperma è santo.
Se getti lo sperma,
Dio si arrabbia,
tanto.

Every Sperm Is Sacred, musica di André Jacquemin e David Howman, testo di Michael Palin e Terry Jones (1942-2020).

(Ho sempre pensato che sarebbe stato giusto averne una traduzione cantabile in italiano, non importa quanto inferiore all'originale).

sabato 29 dicembre 2018

E un re perplesso scrisse l'Alleluja

29 dicembre, San Davide Re e Profeta¹

Fu una segreta melodia
che suonò Davide al suo Dio,
– ma a te, lo so, la musica già annoia –
dal Do lei sale al Sol maggiore
e sale ancora (ma in minore)²,
e un re perplesso scrisse l’Alleluja:

Alleluja, Alleluja.

Credevi, ma chiedesti un segno:
era sul tetto a farsi un bagno³,
e mai ci fu una notte meno buia...
Ti legò al tavolo in tinello
ruppe il trono, i tuoi capelli
ti strappò, e di bocca un’alleluja!

Alleluja, Alleluja.

Dici che ho preso un nome invano:
non so cosa ci sia di strano.
(Non so neanche quale nome Lui ha).
Ogni parola ha la sua luce,
che importa a quale dai la voce:
sia santa o sia perduta, è un’alleluja.

Alleluja, Alleluja.

Feci il mio meglio, non granché:
non ero pronto a entrare in te;
l’amore non è un tema che si studia.
Ma ad ogni sciocco errore mio
renderò sempre lode a Dio,
e sulle labbra avrò solo: alleluja.

Alleluja, Alleluja.

Io queste stanze le rammento4
ho già spazzato il pavimento:
amarsi, sai, non è un inno alla Gioia.
Che importa se dalla ringhiera
sventola la tua bandiera?
Io sento solo un gelido Alleluja.

Alleluja, Alleluja.

E se mi chiedi se c'è un dio
quel che in amore ho appreso io
è a fare fuori il primo che ti incula5.
Perciò non è un pianto stasera
quel che senti, o una preghiera:
è solo un crudo e gelido Alleluja.

Alleluja, Alleluja6.

1. Non so perché il calendario cattolico festeggi re David il 29 dicembre, però è da anni che mi intestardisco a scrivere un testo italiano cantabile per questa canzone dalla storia bizzarra, che grazie a un cartone animato e al titolo apparentemente liturgico è entrata a far parte del repertorio nuziale in Italia: esatto, c'è gente che la vuole sentir cantare al proprio matrimonio. Benché parli di frustrazione affettiva e sessuale? O proprio per questo motivo? E ho sfidato la prosodia e il ridicolo perché voglio informare questo tipo di gente dell'errore, o perché continuava a girarmi in testa e non ne potevo più? A volte tradurre una canzone è un modo per ammazzarla. Non spesso, ma è probabilmente il mio caso.

2. Naturalmente non è obbligatorio suonarla in Do, io una volta a un matrimonio l'ho suonata in Do ma non vuol dire. Se avete una traduzione migliore fatevi avanti, coraggio.

3. Dopodiché mi sono chiesto: ma sul serio Betsabea, una donna sposata, si faceva il bagno nuda sul tetto a rischio di invaghire un sovrano in grado di inviare il marito in missione suicida? E infatti no, è Davide che sta sul tetto del suo palazzo reale, da dove può vedere ciò che gli altri non sospettano. Apparentemente è un malinteso causato dalla struttura del verso "You saw her bathing on the roof", ma a quanto pare questa brutta diceria su Betsabea dura da secoli (su Internet trovi decine di blog che difendono l'onore di Betsabea) (su Internet trovi di tutto).

4. Queste ultime due strofe Cohen le scrisse ma non le incise; si trovano invece nella versione di Jeff Buckley che è poi quella che scatenò l'hallelujah-mania.

5. Lo so, lo so, ma una volta che mi è venuta in mente non sono più riuscito a non sentirla così nella mia testa. Voi senz'altro avete una traduzione migliore di overthrew ya, non è vero? È il colpo di grazia alla canzone moribonda, mettiamola così. Provate a suonarla a un matrimonio, adesso.

6. [Le tre di un mattino di fine dicembre, ti scrivo per dirti che qui è come sempre. Fa freddo in città però non si sta male, qui fuori c'è musica, è ancora Natale. E tu? Stai in campagna? E fai il solitario? E vivi di niente? Spero almeno tu tenga un diario].

domenica 2 luglio 2017

Vasco Rossi, Andrea Pazienza, un piccolo mistero

Vergine di servo encomio, e di codardo eccetera, io in questi giorni ho preferito pregare che tutto finisse bene; e senz'altro mi perdonerete se non sono passato di qui a scrivere che come un po' tutti Vasco l'ho odiato e poi amato e poi odiato e da un certo punto in poi era semplicemente parte del paesaggio.

Potrei anche aggiungere che questo concerto - con tutte le sue assurdità logistiche, traslochi di ospedali, caselli bloccati, vigili in trasferta da tutta la regione - è stato per me perfettamente coerente con quello che Vasco è stato sin dall'inizio: un personaggio un po' fuori, non cattivo no, ma vagamente molesto, imposto di prepotenza dai fratelli maggiori. È così oggi, era così trent'anni fa. Io non ho, in realtà, fratelli maggiori, ma i miei amici sì, ed erano quelli che sul pulmino ci imponevano Vasco nei rari momenti in cui avremmo voluto e potuto condividere qualcosa di culturalmente più rilevante, oh, niente di trascendentale, i Simple Minds o i Cure, ma no: bisognava ascoltare Vasco, perché c'erano le parolacce che facevano ridere, il negro e la troia e la nostra cultura doveva essere quella lì. (Il punto è che dieci anni dopo ci erano riusciti, eravamo intorno a un fuoco e cantavamo il negro e la troia e ridevamo, di Vasco e di noi).

La BBC era la radio di Red Ronnie, credo.
Magari nel frattempo avevamo messo su dei gruppi, cominciavamo a fare musica nostra - ma prima o poi ti toccava suonare Vasco. Perché funzionava, era davvero parte del paesaggio, veramente facile da eseguire e di presa sicurissima, insomma, dopo un po' ci si arrendeva a quella pronuncia strascicata che sui treni deliziava coetanee calabresi e pugliesi (siete di Modena? Ma vicino a Zocca?) Il fenomeno più inquietante però era una specie di rinvaschimento, una cosa delle cose più orribili a cui mi sia capitato di assistere: vedere una persona amica, in seguito a un trauma sentimentale o professionale, smettere di ascoltare, chessò, i Depeche Mode e i Joy Division, cambiare guardaroba e tornare a Vasco (il modo poi in cui Vasco è riuscito a passare da emblema del fattone drughè a cantore della medissima borghesia artigiana meriterebbe uno studio a parte: come un certo tipo di immaginario a un certo punto sia slittato dalla bohème alla birreria).

A tutti.
Di tutto questo probabilmente ho già parlato - colgo invece l'occasione per mettervi a parte di un enigma che mi ha tormentato per anni, e della sua banalissima soluzione. Tra le cose molto più culturalmente rilevanti che gli anni Ottanta emiliani hanno contribuito a produrre, c'era Andrea Pazienza. Ovviamente ai tempi di Colpa d'Alfredo non lo sapevamo - avrebbe dovuto morire perché io me ne accorgessi almeno un po'. Poi ci furono anni di immersione integrale - in un materiale che assomigliava stranamente ai miei ricordi pre-puberali: siringhe dappertutto, scoppiati misteriosi, un senso di crudeltà incombente che nei primi anni Novanta non sentivo più. Ne riaffiorai esausto, con la sensazione di aver ritrovato un tempo perduto e un curioso interrogativo: com'è che Pazienza non ha mai parlato di Vasco Rossi? Neanche in una vignetta - e se qualche fanatico qui ha presente la Prolisseide, sa che Pazienza una vignetta l'ha elargita a tutti. A Vasco no.

Da un punto di vista biografico, i due si dovevano essere incrociati per forza: non è poi così grande Bologna. Rossi (che in un primo momento avrebbe voluto iscriversi al Dams, poi optò per Economia e Commercio) la molla nel '75 perché a Modena i subaffitti costano meno, Pazienza era arrivato da un anno. Da un punto di vista antropologico, per quanto entrambi fuoricorso cronici, erano di due tribù diverse: Vasco è un provinciale di collina, radicato nel territorio; non diventerà nessuno finché non riscoprirà la sua gente, irrorandola con la radiolina locale. Pazienza è un fuorisede, sradicato e apparentemente più cosmopolita: e poi soprattutto non aveva fratelli maggiori che gli imponessero Siamo solo noi mentre lui voleva ascoltare The Torture Never Stops. E però, insomma, parliamo più o meno della stessa città, più o meno degli stessi anni, più o meno delle stesse droghe - possibile che non si siano incontrati mai? Neanche quando erano diventati famosi e Pazienza si era messo a disegnare copertine di 33 giri per Vecchioni, per la PFM, per Caputo, per tutti? O c'era qualcosa dietro, una rimozione? Quale orribile sgarbo avrebbe dovuto commettere VR ad AP, perché lui lo condannasse alla damnatio memoriae? E quale morale dovevamo trarre da una storia che aveva fatto sopravivere VR e morire giovane AP, gradito agli Dei ma sostanzialmente sconosciuto dai duecentomila spettatori di ieri sera?

A un certo punto mi ero anche affezionato all'enigma, una specie di versione emiliana di "perché Freud e Schnitzler, vivendo a Vienna, non andavano a bersi birre insieme?" Mi faceva in un certo senso comodo, per come chiudeva due immaginari potenzialmente sovrapponibili in due compartimenti stagni: '77 bolognese e anni Ottanta in provincia, nessuna comunicazione. Alla fine si trattava di due universi paralleli: in quello di Vasco, Pazienza non aveva mai disegnato Pentothal; in quello di Pazienza, Vasco è uno sballato che mastica nel buio in un angolo di vignetta e poi scompare. Le cose non potevano che stare così, finché qualche anno fa non incappo in un video che aveva tirato fuori Red Ronnie.

Avrei dovuto immaginarlo che l'anello mancante era Red Ronnie. A proposito di rimozioni: si vorrebbe sempre farne a meno di RR, mentre è figura centrale come poche: anche lui come Vasco dj radiofonico improvvisato, ma a Bologna; tutti gli anni che noi abbiamo avuto a disposizione per sottovalutarlo, Pazienza non li ha vissuti. Lui quando disegnava a Bologna ascoltava la diretta di Red Ronnie, e quando da Bologna se ne dovette andare, Red Ronnie andò a trovarlo e lo intervistò, nell'84. Secondo RR, Pazienza aveva proprio in quel giorno appreso che la sua ex compagna stava col migliore amico. Non è che dobbiamo crederci per forza. Sicuramente era molto scosso da una vicenda sentimentale. Quando RR se ne accorge, decide di infilare il dito nella piaga, ottenendo un risultato che per anni decise di non divulgare - forse un soprassalto di pudore, o forse troppo forte lo choc della scoperta: il fumettista cinico che aveva appena pubblicato le storie più crudeli di Zanardi, era un tenero ragazzo che si struggeva perché una ragazza lo aveva lasciato. Sosteneva di avere 28 anni, ne dimostrava meno. A un certo punto - e sembra un modo di cambiare argomento, ma non lo è - Red Ronnie gli domanda di Vasco Rossi e Andrea Pazienza (che nei suoi fumetti citava Zappa, i Sex Pistols, i Residents), risponde che gli piace; con un'intuizione folle, Red Ronnie gli chiede di intonare Albachiara di Vasco Rossi: e Andrea Pazienza, disperato, vergognandosi molto, lo fa.

E all'improvviso tutto è chiaro. Un caso, fin banale, di rinvaschimento. Andrea Pazienza non ha mai parlato di Vasco Rossi perché, probabilmente, gli piaceva davvero: e di questo piacere si vergognava. Per quanti motivi avesse, come noi per non sopportarlo, di fronte a un'Albachiara e a un cuore spezzato tutti i motivi del mondo sparivano. Respiri piano per non far rumore, ti addormenti di sera e ti risvegli col sole. Sei chiara come un'alba, sei fresca come l'aria. Diventi rossa se qualcuno ti guarda e sei fantastica a... 28 anni. Ci ho 28 anni. Non ne avrebbe compiuti 33. Forse gli sarebbe piaciuto rinvaschirsi, trasformare il suo materiale ancora tanto infiammabile in qualcosa di più commerciale, più popolare; gli sarebbe piaciuto invecchiare e diventare un monumento come quello che abbiamo ammirato in tv. Forse: ma qualcosa è andato storto; e non me ne faccio una ragione.

lunedì 28 luglio 2014

In soffitta e così siae

(di Mogol, Bacal, F'nqul)

C'era una volta una gatta
che aveva una macchia nera sul muso,
e una vecchia
soffitta vicino al mare,
con una finestra
a due passi dal cielo,
o no?

Gino Paoli, pittore e compositore.
Se la chitarra suonavo
la gatta faceva le fusa,
e una stellina
scendeva vicina vicina,
poi mi sussurrava:
"Non male, il giro di do".

Ora non abito più là.
Tutto è passato, non abito più là...
Ho una casa bellissima: bellissima, come vuoi tu.

Ma devo tutto a una gatta
che aveva una macchia nera
sul muso, e una vecchia
soffitta vicino al mare,
e un bel giro di do,
e milioni di borderò.

C'era una volta un cartello
di autori e di musicisti. Era molto bello.
Scuciva miliardi per due strofe ed un ritornello.
Bastava un giro di do...

Se dalla radio passava,
il cartello incassava i diritti - poi c'erano i dischi,
ai concerti la gente pagava
(anche per far fischi),
che gran cosa i borderò!

Ora non mi rendono più.
Tutto è passato, le radio non van più.
Ho una casa carissima, da ristrutturare anche un po'...

Gino Paoli, presidente della Siae
Ma quella troia di gatta
ormai non mi rende un euro, puttana vacca.
Sì che ho preso già più di Bach
per un giro di do
copiato a Burt Bacharach.

C'era una volta una lobby,
che infine ha spuntato un aumento
su tutti i supporti
sui quali potresti ascoltare, in qualsiasi momento,
la gatta che ho scritto io.

Tu che magari ci hai l'hobby
di fare le foto ai tuoi gatti,
e le metti su un disco
che è rigido oppure no
- quel che vuoi, me ne infischio -
ma devi i diritti a me. 

Ora non me li paghi più,
né ipad né tablet, tu non li compri più.
Li ordini on line all'estero,
ti costan meno, bastardo, perché?

Che cos'hai contro la gatta?
Vuoi proprio vedermi finire i miei giorni in soffitta
da solo a guardare il mare
da una finestra
a due passi dal cielo blu?

Col cazzo, che torno in soffitta.
Io sono un artista famoso, ci ho i miei diritti,
Anche ora canticchi La gatta... beh, io l'ho scritta!
Compilami il borderò.

Sono miei tutti i giri di Do!
Volete pagarli o no?

giovedì 29 agosto 2013

I was tripping up and down

*

1991

Sono nato quando Ibiza era un isola di Spagna
(Syd già si era ritirato dalla mamma, su in campagna).
Son cresciuto mentre Ibiza era una vacanza premio;
mi ricordo molto meglio dei periodi in cui ero astemio.

Qui passò Cesare Claudio su una cabriolet a pedali
regalando ingressi omaggio e tastiere digitali.
Fu un dj bassolombardo assunto in quota socialista
che ci fece alzare in piedi senza neanche un batterista.

E da Ibiza trasmettevano sogni di carne al sole,
senza più sabbia negli incavi tra pelle e silicone.
Lunghe piste sempre in tiro fino all'alba anzi più in là
- l'importante era non interromper la pubblicità.

È passato qualche anno, per me sono stati tanti;
sono diventato grande, o più piccoli voialtri.
Syd l'ho perso, ho visto Roger nella Terra di Nessuno,
non so bene da che parte di quel muro.

È passato qualche anno, via non è che sia volato.
Son crollate molte cose, me non mi han neanche sfiorato.
Suono ancora le tastiere, ma con meno convinzione
da che seppi che anche Ibiza era un posto giù a Riccione.

Se tu quindi vai all'Ibiza, non mandarmi cartoline,
non particolareggiarmi di spagnole od inglesine.
Quando passi dall'Ibiza, non spogliarti, tanto vale
che anche in questo lasci fare al personale.

Se tu passi per Ibiza, non giocare all'autoscontro;
non comprare pilloline se le danno con lo sconto.
Quando tornerai da Ibiza, non ti manderò affanculo,
tanto là ci sarai andato di sicuro.

Quando tornerai da Ibiza però vienimi a trovare;
è da un pezzo che non trovo più un compagno con cui bere.
Sono tutti incolonnati tra l'Emilia e la Romagna...
Era meglio quando Ibiza era un isola di Spagna.

domenica 11 agosto 2013

Il mio cuore è un... albatro?

Tentativo di tormentone estivo 1991



Cosa vuoi, cosa vuoi?

Presumibilmente i tropici,
dove tra sogni esotici
il mare attende te.

Ma vedrai, ma vedrai:
ti accontenterai di Rimini,
borse di spiaggia in vimini
e cartoline osé




RIT: Vacanze solari, 
mondi di mare e plastica
la pelle fa ginnastica 
sotto ombrelloni blu

Vacanze di mare, 
salmastre ma romantiche
i ricordi sono amanti che
non ti lasciano mai più.




Cosa vuoi, cosa vuoi...
notti lunghe e ludiche,
passerelle impudiche
per peccati hot.

Ma vedrai, ma vedrai,
finisce in mucillagine
l'impero dell'immagine,
la spiaggia è un solo spot.

Vacanze solari, 
la noia è inammissibile
il conto prevedibile
il resto è la realtà.

Vacanze di mare, 
il mio cuore è un albatro
che annusa il mare fetido
e si allontana già.

(Inciso:) Sentirai la nostalgia
(vita mia, vita mia)
per questo imbarco per il nulla che c'è in te?
Ma vedrai, ma vedrai,
sarà tutta mucillagine
amore e melensaggine,
e il resto è la realtà.

Vacanze solari
vacanze solari
vacanze solari.

martedì 6 agosto 2013

Il confine

A settembre (1991)

Così adesso eccomi qui, dormo anche se è lunedì
e mi sento così pienamente vuoto.
Non son più quello che fui, è finito il tempo in cui
mi sbattevo per arrotondare un voto.
Ora me ne sto in disparte, leggo poco, gioco a carte,
ma mi stufo presto anche di un solitario.
È una buffa condizione, sembra d'essere in pensione,
avrei tempo anche per scrivere un diario.

Ma se tu qui non ci sei, di che cosa scriverei?
Non mi viene in mente niente di importante...

Dimmi dimmi che verrai, dimmi che ritornerai
a settembre.

Così adesso penso a te: di altri sogni non ve n'è
tu a quest'ora avrai passato già il confine(*),
chissà dove quando e chi, se non ti è piaciuto o sì;
io qui a letto aspetto le tue cartoline.
Forse non ne spedirai - anche tu concluderai
che non hai da dirmi niente di importante.

(Temo che non ti vedrò, non ti riconoscerò
a settembre).

Così adesso resto qui. Più tranquillo di così.
Ho imparato a preservarmi disperato.
Tu sei tutto quel che manca... sì, lo so, alla lunga stanca
un amore così inutile e scontato
che se fossi qui con me, temo che scoprirei che
non sarebbe infine niente di importante;

ma può darsi anche chissà che se ne riparlerà
a settembre.

(*) a 18 anni, figurati.

martedì 30 gennaio 2007

Angela credimi, io non volevo


Di un amore, ormai troppo lontano

#1. Mentre i ventennali e i quarantennali di solito funzionano bene, i trentennali hanno un che di bolso. Saranno i capelli grigi e radi, o i chili superflui, ma insomma, è così. Io non ho veramente voglia di sentire Lucia Annunziata che parla del ’77. Piuttosto rimettete su Tenco, lui sì che si è conservato in forma.

#2. Come fa a non piacerti Tenco? E d’altro canto: chi può dire di amarlo davvero? Quanto resiste una raccolta di Tenco sul tuo lettore? Se è ancora un amore, è comunque molto impegnativo. Con quella voce così educata. Un po' troppo perfetta.

#3. Nessuno canta come Tenco. Ieri sera Baglioni in tv è uscito a pezzi da Lontano lontano. Non c’è verso di cantarla senza sgolarsi. Tenco (almeno in studio) non si sgolava mai. Arrivava a tutte le note che voleva, col timbro giusto e l’espressione adatta. Ma è una perfezione un po’ fredda, ecco.

#4. Di Tenco conosciamo tutti solo una manciata di canzoni, eppure è stato un artista prolifico e, a suo modo, versatile. Ha svariato in tutti i generi a disposizione in quel momento: rock’n’roll alla Celentano, jazz, spiritual, canzone di protesta. Ha fatto in tempo a scoprire lo yé-yé (non fu una grandissima scoperta). Ma sotto tante maschere la voce era sempre la stessa, scolpita e inconfondibile.
Su alcuni esperimenti è calato un omertoso silenzio: per esempio, è molto difficile trovare la sua versione beat di Blowing in the wind in italiano. Ripeto: esiste una versione beat di Blowing in the wind in italiano. Cantata da Luigi Tenco. Funziona? Mica tanto. A Tenco venivano bene le canzoni confidenziali. Ma a lui stavano strette. Era uno sperimentatore, mettiamola così. La leggenda dell’artista maledetto fa a pugni con un repertorio molto più paraculo: uno che il successo lo ha corteggiato in tanti modi, senza mai trovarci la soddisfazione che cercava.

#5. (Ma le hai mai sentite le versioni jazz di Tiziana Ghiglioni, magari con Fresu alla tromba? Io le preferisco spesso agli originali. Ma conosco gente che non le sopporta). Qui c'è Mi sono innamorato di te.

#6. Di solito una canzone mette in versi una storia, o un sentimento. Ma Tenco a volte quando canta lascia l’impressione di dire le cose come stanno, senza neanche un grammo di poesia. “Tu non hai capito niente”. “Quando la sera ritorno a casa non ho neanche la voglia di parlare”. Questa non è poesia, è prosa. Vedi una strofa come questa:
Io sono uno che sorride di rado, questo è vero, ma in giro ce ne sono già tanti che ridono e sorridono sempre però poi non ti dicono mai cosa pensano dentro.

Non mancano solo le rime: manca qualsiasi figura retorica, anche minima; qualunque velleità di far poesia. Mondo Marcio è molto, molto più formale. Luigi Tenco, il Grado Zero della canzone.

#7. La retorica dell’uomo di poche parole che dice solo la verità col tempo stucca. Ma alcune di queste canzoni a grado zero sono davvero capolavori di chiarezza e di sintesi: strofe che puoi scolpire sulle lapidi. Tra trenta o novant’anni sarà difficile capire quel che avevano da dire De Gregori o Frankie Hi-NRG. Troppi riferimenti culturali, che col tempo scadono.
Invece Ciao Amore Ciao vorrà sempre dire Ciao Amore Ciao. Per anni in quella canzone non ho trovato niente di speciale, niente per cui valesse la pena spararsi in testa. Poi forse ho capito: è un inno scritto col lessico di una lista della spesa. Le parole del ’67 suonano uguali nel ’07, e i nostri nipoti le riascolteranno tali e quali nel ’47.

#8. Anche Tenco sapeva raccontare una storia, quando voleva. La mia preferita è Angela, una delle poche canzoni italiane ‘teatrali’ che reggono il confronto con Jacques Brel. Guarda il bel tenebroso trasfigurarsi in un libertino senza cuore…
Volevo farti piangere
vedere le tue lacrime
sentire che il tuo cuore
è nelle miiie mani.

(Senti quanto freddo in quelle suuue mani).
…finché il sipario non si strappa e non rivela altro che un vitellone sfigato! Ti prego, Angela, no, non andartene, non puoi lasciarmi quaggiù da solo… E tutto in meno di tre minuti! Avesse inciso solo questa canzone, sarebbe già il grande Luigi Tenco. Ed era una delle sue prime canzoni.

#9. Invece la canzone più brutta di Tenco (secondo me) si chiama No, non è vero. È un esperimento strano, ispirato al call-and-response degli spiritual americani: c’è un coro che martella, e Tenco in mezzo vocalizza. Il problema è che il coro esordisce con amenità del tipo “La tua donna se n’è andata e mai più ritornerà”, mentre Tenco continua a sgolarsi cantando “No, non è possibile, vi prego, no, no, no”. Tre minuti di sgozzamento emotivo.

#10. Il rovescio di Angela è Lontano lontano, una fantasia di morte da adolescenti. Sindrome di onnipotenza: per quanto tu possa andare lontano, ti porterai sempre con te il mio fantasma. Sempre.
Crescendo scopriamo che non è così: che le persone amate si dimenticano, eccome. Si dimenticano anche i morti. Si dimentica tutto, per sopravvivere. C’è gente al mondo, neanche troppo lontano da qui, che non mi ricorda più: a cui non capita più di parlare di me con nessuno, né per caso né per scelta. E anch’io faccio lo stesso.

Ma questo forse non vale per Tenco. Ancora adesso, senza un perché, mi capita di pensare a lui.

mercoledì 15 settembre 2004

Se il narcisismo è la pretesa che il proprio autoritratto in quanto tale risulti di grande interesse per chiunque, l’autoreferenzialità estende il quadro all’album di famiglia e alla cerchia delle frequentazioni. Il riferimento funziona come referenza, cioè come riga di curriculum, quando evoca un padre nobile in qualità di garante delle ambizioni artistiche”

Enrico Terrone, Architettura di un luogo comune
(in realtà l'ho trovato su Dillinger).

Vasco – Resto del Mondo

Magari è un bellissimo film, Le chiavi di casa, io non lo so. Non l'ho visto.
Mettiamo che non abbia nemmeno letto niente: ho solo visto il trailer. Be', per capire che non può farcela a Venezia, con una giuria internazionale, basta il trailer. Basta Vasco Rossi, insomma.

Magari è pure una bella canzone, non lo so, ho sentito dieci secondi – che è quello che basta, a un italiano della mia età, a capire che si tratta di una canzone di Vasco (magari bella). E ad appuntarla nella mia memoria, giusto nel cassetto che contiene tutti i ricordi associati a lui. Con Vasco, da vent'anni, non è più questione di odio o amore, è questione di rumore di fondo, di paesaggio urbano. Riconosci la sua voce come riconosceresti un cartello stradale, o un'insegna di un tabaccaio, o la facciata del Duomo di Milano. La forza della voce di Vasco: qualcosa di identificabile immediatamente.

Questo cassetto, piuttosto fondo e disordinato, ce l'hanno tutti gli italiani della mia e di altre età. Anche quelli che Vasco non l'hanno mai particolarmente amato od odiato, come me, appunto.
Il mio cassetto poi non è che contenga un granché, alla fine. Partendo dall'infanzia: lo stereotipo del vitellone scoppiato di provincia, il fratello maggiore cattivo che vivaddio non ho avuto (quello che ti frega le merendine e ti finisce il vinavil a sniffate); Colpa d'Alfredo sul pulmino delle medie; il giro di chitarra di Colpa d'Alfredo (uguale a Siamo solo noi, a Brava, a Baba O'Riley, tutte canzoni di presa sicura intorno a un fuoco); lunghe serate passate in giro per le provinciali nei sedili didietro, da una pizzeria a una birreria, con l'autoradio che mi pettina con qualche versione live (il tutto prima che sopraggiungesse Ligabue a cantarci delle sue eroiche serate passate in giro per le provinciali nei sedili didietro da una pizzeria a una birreria); poi, un ricordo abbacinante: un valico alpino in Valtellina, il profilo terribile del Monte Disgrazia, e da dietro il monte una voce, anzi un coro, un coro di angeli che intona un'arcana melodia a tratti percepibile, che alla fine si rivela

Ti vesti svogliatamente
Non metti mai niente
Che possa attirare
Attenzione


Finché a un certo punto l'immagine di Vasco si cristallizza definitivamente nella figura dell'anziano vitellone too old to rock'n'roll, to young to die. Che poi tra il rock and roll e la morte ce ne passa di spazio, fortunatamente, ma è quasi tutto occupato dal Rimpianto. Così, da Liberi liberi in poi, la canzone-tipo-di-Vasco è una lagna intorno al male di vivere, e di convivere coi propri errori, e domani è un altro giorno, però ieri ho fatto un sacco di cazzate, ma magari le rifarei, a qualcosa sarà pur servito, etc.. Molto più simpatico le rare volte che si riscuote e si rende conto che è un organismo ancora perfettamente funzionante, e magari si masturba reggendo il telecomando del vhs con la sinistra. Per finire con lo spot di un cellulare pieno di gente in barca che si distingue dall'uomo comune, cioè io, che stavo in casa a sudare perché avevo da finire un lavoro. Ecco, è tutto qui il mio dossier mentale su Vasco.
Mica male, però, per un cantante che non ho mai né amato né odiato. Gli bastano dieci secondi, lo spazio di un trailer, e mi apre un cassetto con vent'anni di ricordi. Per forza lo chiamano a fare le colonne sonore.
Quest'anno ha fatto una canzone anche per il film di Castellitto-Mazzantini. Quella canzone – posso dirlo perché l'ho ascoltata per intero – è orribile, ai limiti dell'autoparodia. Il testo è tutto così:

Voglio trovare un senso
A questa situazione
Anche se questa situazione
Un senso non ce l'haaaaaa

(eeeeeeeeeeh)


Tutto nel solito birignao da modenese sfattone, che già ci faceva ridere sul pulmino delle medie, figurati da laureati. Nel frattempo Castellitto correva per i corridoi di un ospedale per salvare il cranio della figlia, o l'utero dell'amante, non ricordo, comunque qualcosa di tristissimo e solenne. E dagli altoparlanti Vasco proseguiva

Voglio trovare un senso
A questa condizione
Anche se questa condizione
Un senso non ce l'ha

(eeeeeeeeeeh)


Davanti a noi una coppia di sessantenni, educata, ascoltava la performance del rocker di Zocca mentre seguiva i disperati sforzi di Castellitto per rianimare il rianimabile. In quel momento ho capito un paio di cose.
Prima cosa: Vasco era diventato nazionalpopolare. Incolore. Non più appassionante o detestabile, ma parte del rumore di fondo, come gli spot pubblicitari o i cartelloni stradali. Negli '80, un sessantenne al cinema in quelle condizioni sarebbe uscito sdegnato: ma i tempi cambiano. Il programma di liscio romagnolo su TeleEmilia ha cambiato palinsesto, tra Castellina Pasi e Casadei mette su Doors e Steppenwolf. E Vasco Rossi è diventato adatto a un film per la grande distribuzione nazionalpopolare. Lo metti su, e a più di metà del pubblico gli si scoperchia un cassetto nella testa. Non stanno neanche ad ascoltare le parole (che son ridicole): la voce basta. La voce degli anni Ottanta, eravamo tutti più giovani e felici. Ma anche la voce del Rimpianto, la voce dei Quarant'anni: voglio trovare un senso a tutte le stronzate che ho fatto, un mantra che ti penetra e ti consola.

Seconda cosa: Malgrado le previsioni del saggio, Castellitto non avrebbe avuto la nomination. Ma neanche di striscio. Come il Leone ad Amelio: come si fa? Vasco Rossi in colonna sonora può funzionare più o meno dalla Valtellina a Lampedusa: niente male per uno di Zocca, Mo, ma non un centimetro di più. Appena metti il naso fuori dai confini, la sua voce evocativa non ti evoca più niente. Resta solo un signore di mezza età che sembra faccia apposta a stonare, su basi rock che ormai han fatto il loro tempo anche in Polonia. Come i cartelli stradali, che da una nazione all'altra possono cambiare di forma e di significato; come la facciata del Duomo di Milano, che oltre confine resta confusa tra le facciate di cento altre cattedrali; come l'insegna di un tabaccaio, che a uno straniero non può dire proprio niente: così la voce di Vasco Rossi. Inesportabile, incomprensibile: e quindi imbarazzante, sgradevole. Tutta l'ironia con cui l'abbiamo sdoganata per vent'anni, tutta quell'ironia lì, alla frontiera non ce la fanno passare.

Poi, chissà, magari il film di Amelio è un capolavoro. Ma la voce di Vasco è una spia importante, segnale di un provincialismo definitivo, almeno in fase di postproduzione. Tra la voce di Vasco e il resto del Mondo passa una frontiera linguistica, culturale. Noi vorremmo esportare il nostro cinema, vorremmo avere capolavori da mostrare a una giuria di esperti mondiali, ma non ci rendiamo nemmeno conto di dove passano le frontiere che vorremmo oltrepassare. E poi ci ritroviamo tutti qua, a riaprire i vecchi cassetti, a lucidare i vecchi giocattoli, a raccontarci le solite storie che sappiamo solo noi, che interessano solo noi. Come in un bar, un dignitoso bar di provincia. In attesa del Tarantino che verrà a rivalutarci, tra vent'anni però (se nel frattempo non svalutano lui).

martedì 23 marzo 2004

Dedicato a un bambino che domenica sera non è morto, anzi, non è proprio mai vissuto. Che non so se sia preferibile (nessuno lo sa). Immagino di sì.

Karaoke esistenziale, ciak! 13


Era un piccolo, povero ultrà,
ultrà,
E non l'avrebbe mai più fatto, si sa
No non lo avrebbe mai più fatto
(fino alla prossima volta)

Proprio lui, povero ultrà,
ultrà,
Giurò di non rifarlo mai più, si sa
No non lo avrebbe mai più fatto
(fino alla prossima volta)

Povero vecchio
perse un orecchio in un "incidente"
al reparto saldatura
ma è tutto ochei,
tanto si sa la vita è dura

Povera donna
strangolata nel suo stesso letto
mentre leggeva Tolstoi
ma è tutto ochei,
tanto era vecchia e moriva prima o poi
(di chi è la colpa?)

E cosa dire dell'ultrà,
sì, dell'ultrà,
che non lo avrebbe mai mai mai mai più fatto, si sa
(non fino alla prossima volta)

Perciò signori della corte
ora sapete ogni cosa,
ma prima di condannarmi a morte
date un'occhiata a questo bocciolo di rosa:

Vi amo per quello che siete, amori miei, amori miei amori miei

Ma non sarà mica colpa dell'ultrà,
piccolo ultrà,
lui non lo avrebbe mai più fatto, si sa,
e in mezzo a questo campo siamo al verde, eccetera.

E non scordatevi l'ultrà,
il piccolo ultrà,
che non l'avrebbe mai più fatto si sa
e in mezzo a questo campo siamo al verde,
eccetera.

Eccetera,
Eccetera,
Eccetera,
Eccetera;
Nel mezzo del cammin della partita,
Eccetera.
Dai, liberatemi,
e ritrovatemi,
su liberatemi,
e ritrovatemi,
dai liberatemi, liberatemi, liberatemi
Giurati, liberatemi,
e ritrovatemi, e liberatemi, e ritrovatemi,
e ritrovatemi, ritrovatemi, ritrovatemi,
Ed Eccetera,
Eccetera,
Eccetera,
Eccetera,
Nel mezzo del cammin della partita, Eccetera,

Ed Eccetera,
Eccetera,
Eccetera,
Eccetera,
Nel mezzo del cammin della partita, Eccetera.

The Smiths, Sweet and tender hooligan. (198?)


Note:

1. Non è che la cosa abbia comunque molto senso.

2. In un periodo della sua vita, Morrissey ebbe palazzetti di folle adoranti che si sarebbero bevuti qualsiasi slogan, e lui nei ritornelli cantava “Eccetera”. Credo che si tratti di genio.

3. “In the Midst of life we are in debt” è un modo di dire, la parodia di un verso famoso di Coleridge (che si trova anche su un libro di preghiere anglicano per gli offici funebri), “In the Midst of Life we are in Death. Anche se col tempo la parodia è diventata più famosa del verso originale.
A questo punto si trattava di trovare qualcosa di omologo in italiano: si accettano suggerimenti.
Io, naturalmente, non riuscivo a pensare che a “Nel mezzo del cammin di nostra vita”, che è lievemente più cheap di Coleridge. Poi bisognava parodizzarlo, per cui: “Nel mezzo del cammin della partita”. Che non fa ridere e non vuol dir niente. La situazione finanziaria delle squadre romane, e i conciliaboli a centrocampo ieri sera, mi hanno suggerito una variante: “in mezzo a questo campo siamo al verde”: non c’entra più niente con Coleridge, ma è un endecasillabo. Sì, probabilmente ci sono modi più proficui di impegnare questo settore del mio cervello.

4. Dice: ma come fai a sapere tutte ‘ste cose? Qui c’è un sito con i più strani riferimenti delle canzoni degli Smiths, dove si scopre che alcuni capolavori di nonsense sono in realtà citazioni da un mondo che non conosciamo: per esempio, There is a Kenny Everett (late British 80s comedian) sketch where he is burned at the stake whilst wearing a Walkman, e In the 1968 film "The Killing Of Sister George", one of the murder methods discussed is that of a ten-ton truck…

5. Naturalmente, questo è il mio karaoke, per cui decido tutto io. Per eventuali lamentele, Morrissey può scrivermi. Astenersi filologi.

martedì 24 febbraio 2004

Si capisce a occhio che io ed Ella Fitzgerald non abbiamo niente in comune.

Maestri di vita (13): la voce di Ella Fitzgerald

Lei era una donna afroamericana e statunitense, formidabile cantante swing e jazz (come ti hanno detto da piccolo e tu non avevi motivo di dubitarne) che dopo una lunga gavetta ha cantato con tutti i grandi. Io sono un trentenne caucasico di mediocri speranze con una voce abbastanza maleducata (senza accompagnamento, stono), e quando non sto dormendo, lavorando, mangiando o scrivendo, probabilmente sto guidando.
In effetti io guido molto. In un certo senso mi piace. Mi fa anche molta paura. Guidare è la cosa che faccio più vicina alla morte. Ogni giorno posso uccidere ed essere ucciso.
È anche la cosa più vicina ai miei simili. Quando sono in macchina, nessuno fa caso a dove sto andando e perché. Ho diritto ad attraversare il mondo a una determinata velocità. Ci sono delle regole scritte e non scritte e io so quando le posso e non le posso rispettare. Tutto questo si riassume in una piccola liturgia: quando sono in macchina è come se stessi lavorando, quando alla fine arrivo a casa ho il diritto di essere stanco e che qualcuno si occupi di me. Gli uomini hanno bisogno di questi piccoli mondi dove tutto è chiaro e regolato: la strada, il bar, il campionato. Le donne forse no, ma gli uomini, se lasciati liberi, amano occupare il loro tempo in questo modo.

In effetti la strada è molto simile alla guerra: un posto dove gli uomini uccidono e si lasciano uccidere in base a un certo numero di regole precise, e in questo modo occupano gran parte del loro tempo senza che ormai nessuno si chieda più il perché. Sì, c’è una guerra dalle mie parti: ve ne siete accorti? Io me ne accorgo quando incrocio qualche vecchio amico della mia età: classe di ferro. Ma non siamo rimasti mica tanti, sapete.
“E hai saputo di Xxxxxxxx?”
“Tremendo, ma com’è stata?”
“La curva del Cantone, sai quanti ne ha presi”.
“Nebbia?”
“Ghiaccio”.
“Sfiga”.
Nessuno sa esattamente perché combattiamo, e contro chi: combattiamo perché è il nostro destino, il nostro modello di sviluppo. Negli anni ’50 c’era una piccola ferrovia, poi la smantellarono; noi siamo cresciuti con una sola idea fissa: prendere la patente: uccidere ed essere uccisi. I nostri amici partivano in avanscoperta e tornavano sulla sedia a rotelle o non tornavano affatto: sfiga. Sembra assurdo, vero? Vi garantisco che non è assurdo, quando ci vivi dentro. È la tua vita e non hai mai pensato che potrebbe essere migliore, perché sei troppo occupato a guidare.

In questa vita io mi destreggio come posso e, modestamente, sono un veterano. Ma non devo la mia vita al mio buon senso, alla mia prudenza o alla mia concentrazione. Chi mi conosce può testimoniare quanto io sia povero di queste tre preziose qualità. Devo la vita forse a San Cristoforo (protettore della mia prima Golf, ma in seguito è stato tolto dal calendario) e Sant’Antonio da Padova; alle preghiere di mia madre e alla musica. La musica in particolare ha per me la stessa importanza che avevano le razioni di tabacco nelle trincee: rendere sopportabile una guerra, colorare quello che e grigio, senza però mai distrarre da quello che accade davanti e dietro.
Diciamo allora che io non sono un appassionato di musica: io ho bisogno della musica. Senza musica non riuscirei ad alzarmi da letto la mattina, perché l’idea di affrontare 100 km. in compagnia del mio cervello che ronza sarebbe inaccettabile. Senza musica mi addormenterei, mi distrarrei. Senza musica mi ucciderei, o ucciderei qualcuno. Non stiamo parlando di un genere voluttuario, ma di un bene di prima necessità.

Molto spesso mi distraggo ugualmente, e il colpo di sonno è sempre in agguato. Oppure sono soprappensiero per via dei miei numerosi problemi. In queste situazioni di solito la musica deve soccorrermi come una scossa, come se l’autoradio si accendesse bruscamente e ti costringesse a cantare. Le cassette da viaggio erano organizzate in modo che nessuna canzone potesse suggerire la successiva: ogni pezzo non aveva niente a che vedere con il precedente. Era anche impossibile memorizzare le sequenze. In questo modo il cervello è continuamente portato a chiedersi: “E adesso cosa succederà? Aspettiamo il prossimo pezzo”. Basta un pizzico di suspance per mantenere il cervello sveglio. E il cervello sveglio porta il guidatore a casa.

Del resto, non tutta la musica va bene. Mi dispiace tanto per il jazz, ma qui si tratta di vita e di morte, e se un pezzo non è abbastanza cantabile la percentuale di rischio aumenta in modo esponenziale. Meglio tanti pezzi brevi. Inconsciamente, finisci per ricostruire un palinsesto radiofonico, di come sarebbero le radio private se non fossero diventate tutte veicoli promozionali di qualcosa. Con gli anni, acquisisci un gusto eclettico o superficiale: ti piacciono i primi tre ritornelli di ogni disco che hai sentito. Peraltro, molto spesso continui ad annoiarti, a farti assorbire dai tuoi pensieri, a fermarti a dormicchiare per tre minuti in un parcheggio.

Però a volte succede un’altra cosa: che improvvisamente ti accorgi che stai cantando, e non ti ricordi quando hai cominciato. Un minuto fa avevi la fronte pericolosamente aggrottata; ora hai gli occhi spalancati, canti e sorridi. La percentuale di uccidere qualcuno è calata bruscamente. Cosa è successo? Molto probabilmente la tua radio personale ha fatto passare un brano di Ella Fitzgerald.

Allora capisci quello che ti hanno detto da piccolo e che non avevi motivo di dubitare: Ella Fitzgerald è la più grande. Perché quando canta lei, anche i bianchi stonati caucasici si mettono a cantare, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Lei non ha bisogno di dimostrare nulla: niente vocalizzi audaci, niente acuti acutissimi: ma la sua voce è come una ragazza che viene a prenderti dal tavolino del ballo delle Medie e ti dice: “Dai, vieni, è facilissimo”. E tu ci vai, e cavolo, per un attimo sembra facile davvero. Perciò, quando gli altoparlanti mandano i pezzi di Ella, i ragazzi nelle trincee canticchiano, e per un attimo si sentono a casa, in salvo.

I’ll be down to get you in the taxy, honey
You better get ready, half past ten
I mean, don’t be late...


Ella è anche il simbolo del tipo di arte che piace a me, quella che vorrei fare io, se ne fossi capace. Un’arte che ti fa cantare e muovere il piede. Tutto qui? Sì, direi che è tutto. Certo, ogni tanto è bene anche dare un po’ di fastidio, scandalizzare, sperimentare. Ora dico una cosa un po’ snob: a me piacciono gli Area. Complessivamente credo che siano pretenziosi e inascoltabili, ma in ogni disco che ho ascoltato ci ho trovato almeno una o due canzoni belle e originali, e non è da tutti. Però ve lo immaginate il supplizio di svegliarsi la mattina con in testa una canzone degli Area? Se cerchi di cantarla sembri Tarzan con le adenoidi; non puoi battere il tempo perché è in tredici sedicesimi; così te ne resti tutto il tempo con questa canzone degli Area che non va né su né giù. Gli Area mi piacciono, ma non possono salvarmi la vita. Qualche pezzo ogni tanto va bene, ma io ho bisogno di Ella Fitzgerald.

Rimane il dubbio: Ella mi salva la vita, o è un modo in cui la vita mi costringe a restare al mio posto, dove uno di questi giorni potrei uccidere ed essere ucciso?
Ma il dubbio è un lusso che mi consento la sera, dopo un caffè, quando ho le idee abbastanza chiare. Di giorno c’è troppa confusione, troppa fretta, troppo pericolo. La musica non è un lusso: è qualcosa che mi salva la vita quando ne ho bisogno. Un giorno forse mi ribellerò, ma ora non ho tempo. Ho bisogno di Ella Fitzgerald.

...see you tomorrow night, at the darktown stutters' ball.

martedì 3 febbraio 2004

a volte rischio di dimenticarmeneChiedo scusa a quelli che questo pezzo l'hanno letto ieri su Polaroid, ma ho pensato che non succede niente se lo metto anche qui.

Sai che c’è? C’è che non va

Sabato sera i Lomas hanno suonato al TPO di Bologna. Non lo sapevate e non vi siete persi un granché.
Io l’ho saputo e ci sono andato, perché amo i Lomas e i loro pezzi. Cioè, “amo” è un po’ forte da dire a persone che hanno la barba (e i basettoni). Dirò allora che gli “voglio bene”. Sì: “voglio bene” va benissimo. Io voglio un gran bene ai Lomas e ai loro pezzi. A volte mi chiedo come sia possibile, da un punto di vista meramente statistico, che l’unico gruppo italiano degli anni ’90 a cui non abbia smesso di voler bene sia proprio nato a pochi km da casa mia (e non sia mai andato molto più in là).

Bisogna ricordarsi che nei ’90 la via Emilia era… “trendy” non mi sembra la parola adatta, eh? Assolutamente. Direi piuttosto che la Via Emilia era molto pompata… esclusivamente sulla Via Emilia. Sulla via Emilia c’erano scrittori, musicisti, filmaker, artisti, giornalisti, che non facevano che parlare di scrittori, musicisti, filmaker, artisti, giornalisti sulla Via Emilia. La cosa poteva andare avanti all’infinito e mi dava una certa nausea. Sulle Feltrinelli della Via Emilia, io trovavo libri di scrittori della Via Emilia: li aprivo, mi mettevo a leggere e… rimettevo il libro al suo posto, perché si parlava di una ragazza che anch'io avevo incontrato, mentre passeggiava per la Via Emilia, e allora, insomma, mi suonava tutto così incestuoso.

Che poi, d’accordo, in teoria saremmo la regione più europea d’Italia “per offerta culturale”, ma in pratica finiamo per andare sempre negli stessi posti a fare le stesse cose: in dieci anni di consumo culturale ci siamo praticamente conosciuti tutti, ma proprio tutti, e non sto parlando di sei gradi di separazione. Per tacere del groviglio di relazioni sentimentali e sessuali che, ecco, appunto, taciamone.

I Lomas, in tutto questo? Apparentemente c’erano dentro fino al collo. Basta leggere i titoli delle loro tre raccolte: “Modena, stazione di Modena per Carpi Suzzara Mantova si cambia”; “Porci Ceramiche”; “Mutina Punkae Lomas”; “0.5.9. 1.9.9.8”. Bisogna aggiungere che 059 è il prefisso di Modena, che i suini e le ceramiche sono il principale contributo modenese al Prodotto Interno Lordo, che Carpi-Suzzara-Mantova sono le uniche coincidenze su cui l’altoparlante della Stazione FS tenga informati, da epoche immemori, i viaggiatori? Tutto questo però può suonare incomprensibile se abiti appena a… a… Casumaro.

E se i titoli degli album non ti hanno convinto, prendiamo quelli delle canzoni: “Elena Morselli”, “Claudio Bellei”: sembra l’appello di una scuola media di Bomporto. (Non sto scherzando, io ho fatto e faccio le medie di Bomporto e avevo un compagno che si chiamava così). Però tutto questo localismo secondo me era riscattato da una cosa: i Lomas erano bravi. Di un tipo di bravura che non c’entra tantissimo col saper usare gli strumenti, quanto nel saper cogliere problemi universali con un linguaggio semplicissimo e divertente. Questo è il dono dei classici. E i Lomas, per me, sono dei classici.

Credo che non lo siano soltanto per me, ma per almeno una mezza dozzina di persone, con le quali a volte mi trovo e ci mettiamo a cantare che “dietro un banco c’è un mutuo che il cliente non sa”, oppure “non dire niente, non tacer nemmeno”, oppure “Oh Peggy Peggy uonderbra / non va più lontano di tanto il primo appuntamento”; o anche “lui suona male / ma sei peggio te che non conosci le scale”; oppure “lui verrebbe a prenderti stasera / ma tu trovi sempre un'altra scusa / bussi ma la porta è sempre chiusa / bussi ma nessuno ti aprirà" o anche "e sei tu sei come me non hai mai concluso un cazzo nella vita di concreto / e sei uscito dalle Medie con discreto"; e più spesso “Carpi, che è un posto come tutti gli altri /e sei tu che hai problemi, e non loro”.
E potrei continuare per parecchio, ma temo che mi stia divertendo solo io.

Infatti quelle che ho scritto, che a voi alieni potranno sembrare casualità sconnesse, per noi modenesi sono invece grandi verità della vita, che nessuno ha saputo raccontarci e cantarci meglio dei Lomas. Nessuno, in Italia e forse nel mondo. A me piacciono i Beatles, i Clash, i Lomas. Il resto viene da sé, è una naturale conseguenza: se mi piacciono quelli, mi devono piacere anche gli altri (un sacco di altri).

Poi, naturalmente, mi dispiace che al contrario degli altri due gruppi citati i Lomas non possano essere classici se non per una ristrettissima comunità di persone.
- A volte mi dico che non importa, anzi: i Lomas sono il simbolo di qualcosa di nuovo e importante: la Piccola Proprietà Intellettuale (un po’ come i blog, ogni tanto bisogna parlare un po' di blog). Non importa che tutte le orecchie del mondo ascoltino i Lomas. Ma sarebbe bello che in tutte le piccole città del mondo nascesse un gruppo autoctono e geniale come i Lomas. Prendete le loro canzoni e cambiate i nomi, cambiate i testi, fate quello che vi pare, non credo che s’incazzeranno, e se anche s’incazzano, poi gli passa. Sono anarchici e, se tutti gli anarchici fossero persone ammodo come loro, saremmo anarchici anche noi.

- Altre volte però mi domando se questa ossessione toponomastica non sia stato un po’ un modo per non crescere mai (anche se come uomini sono diventati grandi e lavorano fuori di casa). Varrebbe per loro quello che vale per molti scrittori, musicisti, filmaker, giornalisti sulla Via Emilia: che a furia di parlare di Via Emilia si sono persi sulla Via Emilia, come Pier Vittorio Tondelli quella volta che continuava ad andare avanti e indietro sullo stesso tratto per non perdere il segnale di MondoRadio (cfr. Un Weekend postmoderno). E insomma, quando vi decidete, tutti quanti, a crescere e ad andare per il mondo? (Detta da me, questa frase, è come spiccare un salto per infilare con la testa un cappio al volo. Canestro!).

I Lomas a Bologna sembravano i marziani su Saturno. Fox tra un pezzo e l’altro continuava a dire: “Cioè, ragazzi… noi non vi vediamo, non vi sentiamo, non capiamo chi siete…” Probabilmente aveva ragione lui: non ci si vedeva e non ci si sentiva un cazzo. Ma questo sarebbe stato un problema come tanti sul palco del Left di Tre Olmi, o nella stalla di Libera a Marzaglia, o nel mitico mattatoio X, dove nel 1996 saltò la valvola quand’era pieno di fumo e persone.
A Bologna, invece, i Lomas non credevano semplicemente nella possibilità di comunicare con gli indigeni. E sarò anche stato anche il bere e il mangiare, siam d'accordo, che "dopo duecento birre siamo tutti fratelli, dopo trecento birre abbiamo tutti ragione", però... “Elena Morselli” è diventato un catalogo dei nomi degli istituti superiori modenesi; “Racconti di Modena Est”, senza l’omonimo cortometraggio, un flusso di in-coscienza di Fox. “Tortellino nero” ha funzionato anche, ma in coda nessuno si è accorto che Mucci da dietro i piatti stava cantando il pezzo inedito su Forza Nuova: acustica di merda, siamo d’accordo. Però.
Però non credo che nessun bolognese, davanti al palco, abbia avuto l’impressione che i Lomas cantassero per loro. E invece i Lomas ai bolognesi avrebbero tante cose da dire, secondo me. Non è questione di campanile, di gara a chi ce l’ha più lungo (comunque la Ghirlandina è più lunga): ma l’understatement dei Lomas a Bologna è merce rara, bisognerebbe aprire uno spaccio da qualche parte, e darne via a chili, quintali di understatement sotto i portici bolognesi. Che Bologna è poi un posto come gli altri (e sei tu che hai problemi, e non loro).

L’ho fatta molto lunga, e mi scuso, ma ci tenevo. Il titolo del post è preso da una canzone di Porci Ceramiche, dedicata a un amico che non viene più nel vecchio bar a bere con gli amici perché è diventato una promessa in qualche squadra di calcio locale: “Sai che tutti sanno ormai / che in Serie A tu giocherai / e se la tua squadra perde? / E se perde tornerai”.
I Lomas sono quel tipo di amici lì, per i quali una serata al bar con gli amici vale più di ogni cosa, compresa una folgorante carriera in Serie A. E serata dopo serata, briscola dopo briscola, i loro discorsi cominci a saperli a memoria. E pensi: ma si rendono conto che anche loro, con un po’ di sforzo, se non in Serie A almeno in C1 avrebbero potuto giocarci?
Poi forse hanno ragione loro: l’importante non è quel po’ di gloria che ti trovi per strada: l’importante è bere e mangiare tra amici in un posto ospitale, un banco del bar dove "a volte tiri fuori i tuoi gioielli". Io non lo so. Mi resta il dubbio.

(Se siete curiosi scaricate qui)

giovedì 15 gennaio 2004

Frammenti di Karaoke esistenziale, ciak! (8)

La Signora è in lacrime, e si ferma ad ascoltare:
attraversa e si blocca a metà della strada,
un colpo di vento la fa continuare.
La Signora, quando tace, sembra una volpe:
va al cinema da sola, ma ha paura ad entrare.

La Signora ha molti figli, molti figli da educare.
Qualcuno lo va a trovare, ma tanti,
li lascia sulla strada senza mangiare.
La Signora non ha padre, è figlia d’un figlio
d’un terremoto o d’uno sbadiglio.

La Signora la mattina sta male, si sente svenire,
il pomeriggio sparisce, ma la notte, la notte, mi viene a cercare.
È un amore bocciato che non può continuare,
come un cane in una stanza d’albergo mi sento solo.
Provo a far tutto quanto in orario, ma mi accorgo che è un gioco:
stan giocando alla radio e al telefono, qualcuno mi uccide a poco a poco.
La Signora è mio padre e mia madre quando alza la voce,
è una mano coi guanti che mi spegne la luce,
è una montagna di carte in un ufficio postale,
è un amico diventato nemico che mi ruba la voce.

La Signora è una fila di macchine da qui fino al mare,
la Signora ci stampa il giornale e ce lo fa comperare.
La Signora ha tanti nomi, tanti nomi,
così da nascondersi e non farsi trovare:
ma a volte si veste di luci e bandiere per farsi notare.
La Signora è mio padre e mia madre quando alza la voce,
è una mano coi guanti che mi spegne la luce,
è una montagna di carte in un ufficio postale,
è un amico che diventa un nemico e mi ruba la voce.

Lucio Dalla, La Signora, 1978.

dedicato a lei (uno scambio di favori e permalink degno della peggio massoneria blog).

lunedì 6 gennaio 2003

You don't have to put on the red light

Non tutta la telefonia mobile viene per nuocere, comunque.
Prendi l'auricolare. Io non ce l'ho, e non lo desidero, ma sono contento che ci sia gente che lo usi, nelle strade e negli abitacoli. Non solo perché ha meno scuse per metterti sotto agli incroci, ma per tutta una serie di ricadute positive sui nostri codici di comportamento.

Infatti, io ricordo molto bene come fino a pochi anni fa la gente che camminava parlando da sola non fosse vista di buon occhio. Parlare senza un interlocutore è tuttora considerata una cosa molto sconveniente, ai limiti dell'insania mentale, e dire che pochi vizi sono così innocui e poco dannosi per il prossimo. (Non è già più fastidioso il voler trovare a tutti i costi ascoltatori per le cose che diciamo?)
Oggi, però, se calcando un marciapiede t'imbatti in un signore in giacca e cravatta che chiacchiera nervoso con sé stesso, non pensi più a chiamare l'ambulanza, perché dai per scontato che stia discutendo di cose molto importanti via satellite.
Ed è solo l'inizio. Pensatori ad alta voce, ancora un po' di pazienza, ma se l'economia si rimette a girare in primavera potrete uscire allo scoperto e raccontare le vostre cose agli alberi in fiore, senza che nessuno ci faccia più caso.

Quanto a me, non posso che essere grato agli auricolari, per la gioia che mi dà cantare in macchina a ogni ora del giorno, con la pioggia e col bel tempo, e soprattutto in coda ai semafori. E ci do dentro, sapete, piango, rido, tiro tutti i muscoli della faccia, e se per radio ci sono i Police, io non mi tiro indietro.

Roooooox-èn,
non dovevi aspettare la red light
se ti sbrigavi era yellow
non dovevi aspettare la red light


Sicuramente fino a qualche tempo fa gli automobilisti intorno a me ci facevano caso, ma ormai quei tempi tristi sono finiti. Oggi se qualcuno mi nota pensa senz'altro che è tutto ok, sto solo litigando con qualcuno, qualcuno che si fa mettere sotto al telefono, e quindi non sono un matto, bensì uno che nella vita si fa rispettare.
E questo è un gran regalo che mi ha fatto la telefonia mobile. Gratis. Grazie.

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