storia-1-bulgarelli architettura
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Storia 1 Bulgarelli
STORIA DELL’ARCHITETTURA
Introduzione
Sebbene sia di Vitruvio il primo trattato di architettura a noi pervenuto, è Leon Battista Alberti che
quattordici secoli dopo scrive la prima grande opera di testi antichi e opere architettoniche: il De re
aedificatoria. Secondo la concezione dell’Alberti, l’architettura è una disciplina fatta da tutti gli edi-
fici costruiti nei vari secoli e compito dell’architetto è conoscere, studiare e capire tutte queste ope-
re, al fine di ricostruire questa tradizione e potervi apportare delle innovazioni. Secondo quanto egli
scriveva nel suo trattato, l’architetto ha il compito di pensare, mentre spetta al manovale il compito
di costruire, questo perché vi è una sostanziale differenza fra chi pensa e chi invece esegue: è
l’architetto ad avere dignità, fama e sapere e in lui coincidono figure quali l’intellettuale, il privile-
giato, lo studioso. L’architettura è l’arte pubblica per eccellenza, data la sua visibilità che spetta a
tutti, ma solo l’architetto ha le capacità e le conoscenze per individuare cosa vi è di prezioso e am-
mirevole in un’opera. A tal fine è indispensabile lo studio di tutta la tradizione precedente, senza
pregiudizio alcuno e senza imitazioni, ma solamente innovazioni. E’ proprio per questi motivi che
l’Alberti scrive il suo trattato in latino, al fine di rivolgerlo agli illuministi suoi pari, ma nonostante
ciò non disdegna nemmeno i manovali, poiché egli si concentra e pone la sua attenzione alle tecni-
che costruttive proprie delle botteghe artigiane. L’architettura è per l’Alberti la parte intellettuale
della progettazione, la parte aurea. E’ anche per questo motivo che molti architetti del ‘400 hanno
origini come pittori e scultori e fanno della Roma antica loro principale riferimento di studi e ricer-
che.
Il Quattrocento italiano
Il Quattrocento italiano è il momento nel quale prende avvio il Rinascimento. Tale termine è conia-
to solo nell’Ottocento e oltre ad individuare un preciso periodo storico e artistico, porta con sé il
pregiudizio di rinascita della cultura antica e classica su quella del Medioevo. E’ negli anni Settanta
del ‘400 che Antonio Puccio Manetti scrive la biografia di Filippo Brunelleschi, inquadrandolo co-
me l’iniziatore della nuova tradizione architettonica e artistica a Firenze. Firenze nei primi anni del
‘400 è il maggior centro artistico d’Italia, data la sua concentrazione di artisti, intellettuali e com-
mittenti. La città ha inoltre una politica e una società ben sviluppata ed è, assieme a Venezia, la sola
repubblica del territorio italiano, poiché le altre città della penisola sono organizzate in signorie.
Brunelleschi inizia, così, i lavori per la costruzione della cupola di Santa Maria del Fiore, prendendo
come esempi esperienze vecchie, prima su tutte quella del Pantheon. Secondo quanto scrive Manet-
ti, il Brunelleschi va a Roma con Donatello per studiare le opere antiche. Qui ha modo di osservare
la cupola del Pantheon, eseguita in calcestruzzo a getti successivi e formante un elemento unico
inserito in una struttura esterna che, salendo, la contiene. Egli, invece, per la Cattedrale di Firenze
progetta una doppia calotta di mattoni, più spessa e con funzione portante quella interna e più legge-
ra e con funzione protettiva quella esterna, con un’intercapedine centrale vuota. Altra differenza con
il Pantheon consiste nel fatto che il Brunelleschi non può assottigliare i muri della cupola man mano
che sale, poiché in sommità ci andrà la lanterna, assente a Roma. Trova allora spunto da un edificio
di fondazione romana fronteggiante la Cattedrale: il Battistero di San Giovanni. Questo ultimo pre-
senta la copertura a calotta a sesto rialzato, cui è aggiunto un involucro di marmo bianco e un attico
che chiude la cupola: in tal modo si crea nella parte bassa un’intercapedine fra la calotta e il rive-
stimento in pietra. Il Brunelleschi, così, progetta una struttura innovativa, traendo spunto dai due
esempi sopra indicati. Innerva tutta la struttura con costoloni di pietra, dei quali irrigidisce quelli
dell’intercapedine (più caricati) con degli archi traversi e lascia a vista quelli sullo spigolo delle ve-
le; dispone, poi, delle catene in pietra in senso longitudinale e radiale (di queste ultime si vede la
testa dall’esterno) ed una successiva catena lignea secondo la teoria del Ghiberti, il tutto per irrigidi-
re la struttura e permetterne la messa in opera. Realizza la parte inferiore della cupola con pietra,
per poi procedere in mattoni allettati con malta a presa rapida. Inoltre l’intercapedine è percorribile
da un sistema di scale e rampe e tra un costolone e l’altro è possibile individuare gli archi sopra ci-
tati; nella zona superiore la scala diventa radiale, fino a raggiungere degli ambienti in sommità che
cerchiano il foro centrale, sormontato dalla lanterna costruita in seguito sempre su progetto del Bru-
nelleschi. La forma della cupola, con richiami gotici, è dettata da necessità di carattere strutturale:
grazie alla minore inclinazione rispetto alla parete concava di una cupola emisferica, gli spicchi
possono essere costruiti senza bisogno di centinature e appoggi da terra, ma bastano dei semplici
ponteggi per stabilizzare la struttura; inoltre, viene sfruttata la coesione dei mattoni disposti a spina
di pesce, che costituiscono un dispositivo auto-portante. Importante caratteristica è inoltre la pre-
senza di nervature verticali nella muratura primaria, che permettono la messa in opera dei mattoni
all’interno della fila. Ancora una volta per studiare al dettaglio la cupola Brunelleschi trae esempio
dall’antichità: egli si rifà probabilmente alla villa di Diocleziano a Spalato del quarto secolo d.C.
che presenta una forma esterna ottagonale ed un’interna circolare chiusa con una volta a calotta rea-
lizzata in mattoni, i quali sono usati come riempimento regolare di corsi ad arco. Pare, infatti, che
fra le maestranze del Brunelleschi ci siano operai di origine dalmata, che possono aver conosciuto
l’edificio di Diocleziano. Per quanto riguarda le tonalità della cupola, essa compare con il rosso dei
mattoni e il bianco dei costoloni di pietra, che riprendono linearmente i contrafforti della parte sot-
tostante della Cattedrale e che sono richiamati anche nella lanterna. Tale bitonalità è scelta sia per
motivi visivi della struttura nel suo complesso, che per motivi estetici. Al proprio interno, invece, si
trovano numerosi dipinti e mosaici cinquecenteschi, proprio come voleva il Brunelleschi. Oltre a
tutto ciò, per la prima volta nella storia dell’architettura viene usato un rapporto di curvatura di 1:2
tra il raggio e l’altezza della cupola, una delle tante innovazioni che verranno introdotte durante il
Rinascimento.
Parallelo alla costruzione della cupola di Santa Maria del Fiore è l’ospedale degli Innocenti, iniziato
nel 1419 a spese dell’Arte della Seta, su committenza di un piccolo produttore. Tale edificio costi-
tuisce una struttura razionalmente studiata e funzionalmente attrezzata per rispondere ad
un’esigenza sociale pressante: il ricovero, la cura e l’educazione dei bimbi abbandonati: siamo
nell’epoca del più vivo impegno civile di Firenze, quello delle grandi opere pubbliche, realizzate
nella profonda fede nella dignità del bene comune. L’edificio ha un chiaro impianto simmetrico,
organizzato attorno al cortile centrale quadrato e al porticato che gira su tutti e quattro i lati, che
viene richiamato dal ritmo delle nove arcate della loggia in facciata. Quest’ultima è chiusa alle due
estremità da campate più ampie disposte su pilastri liberi poggianti su setti murari, che hanno lo
scopo di inquadrare la visione prospettica dell’intero fronte della piazza a distanza. Qui la geometria
diviene rigorosa, le proporzioni metriche controllate, la sintassi stringente: l’altezza delle colonne è
esattamente pari alla larghezza dell’intercolunnio e alla profondità della loggia (in rapporto 1:1),
mentre l’arco superiore è esattamente un semicerchio (in rapporto perciò con la colonna di 1:2).
Una delle tante novità introdotte dal Brunelleschi nell’ospedale degli Innocenti riguarda l’utilizzo di
una volta a vela a pianta quadrata in chiaro riferimento bizantino, anziché della tradizionale volta a
crociera innervata da costoloni di derivazione tardo-gotica. Materiali quali la pietra serena e
l’intonaco a calce, con una gotica distinzione tra membrature e superfici murarie, evidenziano la
chiarezza dell’impianto e la logica del disegno. Tutti questi accorgimenti saranno ripresi più volte
dal Brunelleschi, che pur cambiando l’architettura, lascia pressoché inalterati i dettagli, quasi come
se non contasse il loro rapporto con l’edificio: ciò è in netto contrasto con l’ideologia architettonica
del Quattrocento. Lo schema col piano terreno porticato a colonne e il piano superiore chiuso con
finestre sarà ripreso più volte in altri tipi d’edifici. Il Brunelleschi per l’ospedale degli Innocenti
giunge alla realizzazione di un capitello pseudo-composito, con due giri di foglie successive, volute
quasi uguali agli angoli e al centro e giro di ovuli sotto l’abaco; superiormente inoltre aggiunge un
concio di pietra strutturale al fine di appoggiarvi l’arco, che non è chiuso in corrispondenza del ca-
pitello, ma lascia alla forma una certa continuità. Anche questo accorgimento trova riferimento nel
peristilio del palazzo di Diocleziano a Spalato, mentre sarà pratica del Brunelleschi chiudere gli
archi ogivali di Santa Maria del Fiore, per creare una distinzione tra arco ed elemento orizzontale.
Le finestre del piano superiore, invece, presentano superiormente un timpano triangolare, composto
di architrave, fregio e cornice. A differenza della tradizione antica, che vede la trabeazione divisa in
tre fasce, quali architrave, fregio, cornice, tutte con modanature intermedie, come sottocornici e
gocciolatoi, come si osserva nel Pantheon, il Brunelleschi cambia le dimensioni ai vari elementi e
dona maggior spessore all’architrave, sopra la quale c’è il fregio e poi la cornice, che è ridotta ai
minimi termini. In tale occasione, l’architetto richiama diversi elementi della tradizione fiorentina,
in particolare con il già citato Battistero. Dall’attico di questo edificio, inoltre, egli trae spunto per
girare ad angolo retto l’architrave e farla scendere parallelamente alla parasta, in tal modo può man-
tenere la stessa forma su tutto l’edificio. Come scrive il Manetti, questa soluzione potrebbe non es-
sere riconducibile al Brunelleschi, ma sia invece una delle tante alterazioni successive che ha subito
l’ospedale degli Innocenti nel corso degli anni.
Queste prime prove parziali sono state importantissime per il Brunelleschi per mettere a punto la
propria idea di architettura, così come si manifesta in modo compiuto nella sacrestia Vecchia di San
Lorenzo. L’incarico gli viene conferito da Giovanni di Averardo de’ Medici nel 1419 e costituisce
la cappella funeraria della famiglia, che ha pure il patronato delle adiacenti cappelle. I lavori proce-
dono di pari passo con la ricostruzione dell’intera chiesa di San Lorenzo, che verrà finita in seguito
alla sacrestia Vecchia, mentre più tardi sarà affidata a Michelangelo la realizzazione della sacrestia
Nuova simmetrica a quella del Brunelleschi. L’impianto della sacrestia Vecchia presenta un vano
cubico coperto superiormente da una cupola in mattoni e pietra, non visibile dall’esterno, poiché è
sormontata da una copertura spoglia inclinata; tale vano quadrato si apre in un locale minore, la
“scarsella”, pure quadrato e coperto da una cupoletta su pennacchi. Lo schema d’insieme della sa-
crestia è del tutto simile per dimensioni, forme e particolari all’impianto del battistero della catte-
drale di Padova, città conosciuta dal Brunelleschi. Altro esempio risalente al quarto secolo che può
aver ispirato il Brunelleschi è la basilica costantiniana sulla tomba di Cristo a Gerusalemme, la qua-
le presenta attorno al sepolcro una rotonda con tre nicchie lungo gli assi e in capo una copertura
tronco-conica. Brunelleschi riprende l’idea delle tre nicchie e della copertura tronco-conica, sopra la
quale però pone una lucerna. La soluzione degli interni, però, è del tutto nuova. Egli dispone
all’interno dell’invaso quadrato delle paraste in pietra serena, che mette a confronto con le pareti
bianche e lisce. Questo porta ad avere un’architettura sobria e lineare, nella quale solo la parete in
cui vi è l’altare è maggiormente decorata. La sacrestia è segnata agli angoli da paraste piegate, che
sorreggono una trabeazione tripartita all’antica, con il fregio ornato con teste di rossi cherubini e di
azzurri serafini, e la cornice molto ridotta, che gira tutta intorno alla sacrestia ed entra anche nella
scarsella. A sua volta la trabeazione sostiene gli archi, che sono più fini in corrispondenza delle se-
mi-paraste e più grossi dove la parasta è intera. All’interno della scarsella le paraste assumono
aspetto filiforme. Oltre gli archi sono erette le cupole su pennacchi. Ancora una volta il Brunelle-
schi si rifà al Pantheon, nel quale già compaiono le paraste piegate. Con la sacrestia Vecchia egli
mette a punto il suo capitello personale, che userà sempre: questo è abbastanza simile a quello
dell’ospedale degli Innocenti, ha quindi due giri di foglie d’acanto (in cui non si vedono gli steli,
poiché sono su due file successive), ma non compaiono più gli ovuli sopra le volute, e queste ultime
trovano differenze artistiche a seconda della loro posizione sul capitello; inoltre, l’abaco presenta
una rosetta. Il capitello, pertanto, non può di certo essere considerato di tipo organico.
Altra architettura sacra di quei tempi, ma non eseguita dal Brunelleschi, è il tabernacolo per la Parte
Guelfa di Orsanmichele, progettato da Donatello e Michelozzo. Il tabernacolo è composto di due
paraste che sorreggono una trabeazione ed un timpano triangolare raffigurante la trinità a tre teste; il
fregio presenta teste alate e ghirlande. La nicchia è ricavata all’interno delle due paraste ed ha la
calotta decorata con conchiglie. Viene ripreso per questa architettura il mausoleo di Adriano, dal
quale Donatello e Michelozzo prendono alcuni elementi e gli conferiscono una visione più cristiana.
A differenza del Brunelleschi, che presenta un’architettura chiara, lineare, continua, uniformemente
illuminata, con ombre minime e rilievi bassi, Donatello ricerca maggiormente gli effetti di volume e
considera in maniera più larga ombre, rilievi e scavi, al fine di creare giochi ottici e accorgimenti
vari per una migliore visione delle sue architetture. Caratteristica di Donatello, inoltre, è quella di
lavorare allo stesso tempo con forme diverse, ovvero di inserire nel tabernacolo un’altra struttura
come la nicchia, formata da paraste e arco. Caratteristica questa che diverrà tipica del Quattrocento
fiorentino e di Donatello. Una soluzione simile la troviamo anche nella Trinità del Masaccio a Santa
Maria del Fiore, che presenta capitello e paraste in stile brunelleschiano, colonne ioniche e volta
scavata a cassettoni con la costola centrale in asse, pratica sconosciuta al Brunelleschi e
all’architettura antica, che era solita posizionare il vuoto al centro. Inoltre, la Trinità del Masaccio
costituisce uno dei primi dipinti in prospettiva lineare, introdotta dal Brunelleschi nei suoi disegni
del battistero e del Palazzo Vecchio fatti su tavolette. La pittura, pertanto, non rimane più una sem-
plice rappresentazione simbolica, ma con l’introduzione della prospettiva assume finalmente carat-
teristiche spaziali e di profondità.
Nel 1428, quando si terminano i lavori della parte della sacrestia Vecchia affidata al Brunelleschi,
Cosimo de’ Medici cede l’incarico di continuare gli interventi al Michelozzo e a Donatello. Si dice,
infatti, che Cosimo avesse dei gusti più antichi rispetto a suo padre e ciò non senza critiche da parte
del Brunelleschi. Michelozzo e Donatello realizzano i due portali laterali alla scarsella, completi di
battenti e colonnine e interamente realizzati in piombo e bronzo, per dare un aspetto dell’insieme
più antico, in chiaro riferimento al Battistero. Le colonnine ai lati delle porte sono lisce e presentano
capitello pseudo-ionico e hanno l’effetto di proiettare nello spazio le due aperture: soluzione che
non piace per niente al Brunelleschi. Sopra i portali dipingono due nicchie. Oltre a ciò, è realizzato
anche un sarcofago posto al centro della sacrestia e formato da una lastra superiore di marmo con
intarsiato un cerchio di porfido rosso (che riprende la tradizione antica delle tombe degli imperatori
romani) sorretto da pilastri di pietra negli angoli e pilastrini di piombo al centro dei lati lunghi. Do-
natello e Michelozzo realizzano anche la balaustra che divide la sacrestia dalla scarsella e disegnano
i cerchi sotto le due cupole, riprendendo, per entrambe le realizzazioni, forme antiche. Esempi da
cui traggono ispirazione sono il portale esterno della villa di Diocleziano, raffigurato nei disegni di
Giuliano Massimiliano e le volte a botti sorrette da un sistema di archi e pilastri presenti nelle aule
delle basiliche vaticane. La qualità architettonica ed artistica della sacrestia Vecchia farà sì che essa
diventi uno dei migliori esempi del Quattrocento, ripreso e riadattato per diversi edifici. Lo stesso
Brunelleschi torna a trattare il tema della sacrestia Vecchia sviluppandolo nella cappella dei Pazzi
nella chiesa di Santa Croce a Firenze.
Intorno al 1424 Andrea de’ Pazzi, con l’intento di contribuire alla ricostruzione del convento fran-
cescano di Santa Croce distrutto in parte da un incendio, si offre di far attuare, in forma di cappella,
il nuovo capitolo dei frati. E’ probabile che la realizzazione dell’interno sia stata portata avanti sen-
za il controllo dell’architetto, morto nel 1446, nella definizione esecutiva dei particolari, qualitati-
vamente meno rigorosa ed elevata che in altre opere del Brunelleschi. Certo è sorprendente
l’ingegnosità progettuale nell’inserimento di uno spazio così prestigioso in un’area costretta e pe-
santemente vincolata su tre lati dalle cappelle trecentesche della chiesa ed il convento. Lo spazio
quadrato centrale è affiancato ai lati da due spazi rettangolari a botte cassettonata e vi è, come nella
sacrestia Vecchia, cupola a creste e vele (qui a doppio guscio di mattoni e tubi fittili di terracotta per
alleggerire la struttura) su archi e pennacchi e la piccola scarsella. E come lì tutto l’edificio è strut-
turato da un ordine di paraste e archi che ne misura e descrive l’impianto a contrasto con i fondi
bianchi. Un ruolo di particolare importanza è affidato alla parasta d’angolo. Per ragioni legate a
specifici problemi visivi, metrici e progettuali, questa non può essere piegata a metà sull’angolo o
divenire filiforme: pertanto essa è interna e posta solo sui lati lunghi. Questa soluzione trova certa-
mente spunto dal vestibolo coperto a botte cassettonata del Pantheon. Tuttavia, sui lati corti, la tra-
beazione sarebbe apparsa precariamente appoggiata sulle estremità delle paraste dei lati lunghi. Per-
tanto il Brunelleschi fa girare la parasta anche sul lato corto con un piccolo risvolto asimmetrico,
ovvero sei scanalature sul lato lungo, una sul lato corto. Le facciate mostrano il gusto seguente il
Brunelleschi del Michelozzo, che presenta un apparato decorativo enorme, mentre il porticato è rea-
lizzato da Bernardo Rossellino. Il disegno della loggia richiama il pensiero del Brunelleschi e vede
la sovrapposizione di archi a paraste, in cui la ghiera centinata finisce dietro di queste ultime.
Intorno al 1435 inizia anche la costruzione della Rotonda degli Scolari a Santa Maria degli Angioli,
nel monastero dei camaldolesi. La realizzazione della chiesa è presto interrotta a meno di un terzo
dell’altezza prevista a causa della guerra fiorentina contro Lucca. Tuttavia, i disegni e le descrizioni
lasciateci dal Brunelleschi ci permettono di farci un’idea abbastanza attendibile del progetto. La
Rotonda presenta ottagono centrale a cupola, sui quali lati sono aperte cappelle quadrate collegate
fra loro e sorrette da piloni murari a pianta triangolare. Questi, tuttavia, sono incavati da nicchie che
articolano i lati delle cappelle e scandiscono all’esterno il perimetro a sedici lati. Il Brunelleschi per
questo edificio può aver trovato ispirazione dal tempio di Minerva a Roma, nel quale compare la
pianta centrale, dalla basilica bizantina di San Vitale, in cui vi è una pianta ottagonale e struttura di
nicchie e piloni triangolari, e dallo stesso Duomo di Firenze, dove le cappelle sono intervallate da
speroni. Le cappelle della Rotonda sono coperte a volta e sono inquadrate da un ordine di paraste
sorreggenti arcate, che a loro volta sono tangenti alla trabeazione continua sormontata da archi più
piccoli contenenti un occhio, in modo da articolare il tamburo della cupola. Il basamento dei piloni
presenta una struttura composta di plinto, toro, scozia e ancora toro che gira tutto attorno alla pianta
dell’edificio senza interruzioni. Ciò non si ripete per quanto riguarda la parte alta dei piloni, che
saranno reinterpretati da Giuliano da Sangallo in un suo disegno, in cui porta la continuità anche
superiormente. Altro disegno riguardante la Rotonda è quello di un disegnatore senese appartenente
alla scuola di Francesco Di Giorgio Martini, in cui è rappresentata una mappa della zona, l’esterno
dell’edificio e in cui sono visibili muri semplici, lisci e meno decorati e una seconda trabeazione
sotto la cupola. Ma nuovi disegni compaiono anche nel Novecento, per opera di Marchini, Bruschi,
Miarelli Mariani e altri ancora, in cui sono presenti diverse filosofie di pensiero in rapporto
all’opera del Brunelleschi.
Terminata la cupola di Santa Maria del Fiore nel 1434, il Brunelleschi due anni dopo pone in opera
la lanterna. Essa è pensata come una costruzione muraria ottagonale di circa 46-47 metri d’altezza
realizzata in marmo bianco, con un sistema di contrafforti scanalati trasversalmente che continuano
le linee di forza della cupola, che proseguono verso l’alto con forma di paraste. L’impianto della
lanterna, ad archi rampanti, trabeazione e copertura (pergamena) a cono increspato in cui sono evi-
denziate le verticali, può richiamare immagini gotiche. La resa architettonica dei dettagli non è mol-
to lavorata, ma le decorazioni esistenti hanno dimensioni tali da poter essere viste dal basso, così
come sono intelligentemente previsti archi rialzati che permettono una visione dal calpestio a tutto
sesto. Il tempietto della lanterna non è formato da colonne, bensì da pilastri e paraste a sei scanala-
ture e base attica, sui quali vi sono dei capitelli che raffigurano dei gemelli siamesi con sembianze
di mostro. Riferimento per i capitelli può essere preso dall’antica Cattedrale di Firenze, in cui sono
presenti foglie lisce, baccelli e ovuli. Il Brunelleschi, negli stessi anni, progetta sempre per la chiesa
di Santa Maria del Fiore due cantorie, nelle quali potevano trovare sistemazione i cantori. Le deco-
razioni a rilievo sono opera del fiorentino Luca Della Robbia, scultore e ceramista, e sono inquadra-
te in una struttura architettonica classica, scandita da lesene corinzie e figurano gruppi di bambini
scolpiti che cantano, danzano e suonano strumenti musicali, serena illustrazione del salmo 150, ri-
portato in caratteri capitali nelle cornici. Anche Donatello più avanti disegnerà una propria cantoria,
caratterizzata da vistose decorazioni di conchiglie, molteplicità di materiali e con connotazioni etru-
sche. Del 1435, sempre ad opera di Donatello, è il tabernacolo dell’Annunciazione nella chiesa di
Santa Croce, in cui sono presenti decorazioni di foglie, maschere, modanature ad ovulo e piccole
mensole dalle forme gotico-fiorentine. Sono questi gli anni in cui Donatello e Brunelleschi hanno
maggior successo e le loro opere influenzano anche altri artisti. Bernardo Rossellino nei lavori per
l’edificio per una confraternita ad Arezzo fa uso, infatti, di tabernacoli, nicchie, statue, colonne sca-
nalate, paraste e ghirlande, e utilizza l’arco segmentato tipico del ‘300 assieme all’arco a tutto sesto
tipico invece del ‘400.
Ma certamente il maggior capolavoro del Brunelleschi è la ricostruzione della vecchia chiesa degli
agostiniani di Santo Spirito. Il disegno risale al periodo tra il 1428 e il 1434, ma solo pochi giorni
prima della morte del Brunelleschi (la notte tra il 15 e il 16 aprile 1446) è portata in cantiere la pri-
ma colonna. E’ indubbiamente nel Santo Spirito che si attua nel modo più compiuto l’idea di una
chiesa nella quale il tradizionale impianto longitudinale a colonne con cappelle laterali si conclude
con un nucleo centrico a cupola. Gli elementi della sua organizzazione sono simili a quelli del San
Lorenzo, ma la soluzione fondamentale è quella di far girare lungo tutto il perimetro, attorno alla
croce della navata, del coro e del transetto, e perfino in facciata, il modulo base del ciborio su co-
lonne. La chiesa, nel progetto di Giuliano da Sangallo, era disegnata con una colonna in più sul lato
corto, il che richiedeva la necessità di avere quattro porte in facciata, quindi un pieno in asse. Si
sceglie, allora, di posizionare due colonne e non più tre sul lato corto, in modo tale da avere tre na-
vate e un vuoto in asse sulla facciata d’ingresso. La chiesa è segnata da contrafforti che disegnano
l’ambulacro (spazio per passeggiarvi) con cappelle semicircolari a nicchia che corrono lungo tutto il
perimetro e significativamente innalzate fino a coincidere con l’altezza degli archi della navata. Si
presentano in questo modo semivolte in corrispondenza del muro perimetrale delle nicchie e volte
intere sopra l’ambulacro. La struttura portante del Santo Spirito è basata solo su archi e colonne
monolitiche di pietra serena, che reggono la copertura piana dell’impianto longitudinale, mentre le
nicchie sono risolte con semicolonne. In corrispondenza degli angoli della chiesa sono, inoltre, usati
particolari artifici ottici che modificano la concezione di colonne e capitelli in maniera funzionale.
La situazione fiorentina
Attorno alla metà del Quattrocento, a Firenze si assiste ad un forte cambiamento della committenza
artistica, che passa da statale, come quella della Fabbrica delle Arti, ad una largamente privata, che
porta alla realizzazione di circa una ventina di palazzi di famiglia. Viene a mutare, così, il fenomeno
architettonico, che diventa più deciso, distinto e riconoscibile, rendendo gli edifici più formalizzati.
Tutto ciò ha connotati nettamente politici. Si assiste, infatti, in questi anni all’ascesa al potere dei
Medici, che grazie a Cosimo potenziano il loro prestigio a Firenze, garantendosi un primo controllo
sulle elezioni delle cariche repubblicane. Più tardi, Cosimo fa eleggere un istituto straordinario di
potere, detto balia, della durata di dieci anni, con il quale toglie potere agli avversari, acquisendo
una maggiore egemonia. Per testimoniare questa presa di potere, Cosimo fa costruire una seconda
abitazione per sé e la sua famiglia, oltre a quella già presente in Via Cavour: per fare ciò, acquisisce
ben ventidue lotti e demolisce poi tutti gli edifici presenti per costruire ex-novo. Il nuovo palazzo,
progettato direttamente dal Michelozzo, ha un aspetto sobrio e regolare, con diversi ingressi al pian
terreno e stanze interne chiuse, ad eccezione di una loggia ad angolo aperta al pubblico ed adibita a
bottega, che Michelangelo chiuderà nel corso del Cinquecento. L’edificio si sviluppa su tre piani,
resi distinti dal diverso uso delle superfici, che presentano grosse bugnature al piano terra e invece
sono lisce ai due livelli nobili. Il tutto è segnato ad ogni piano con cornici e mensole. Particolari
soluzioni sono adottate nell’angolo della facciata, che Michelozzo decora con gli stemmi di famiglia
Medici, e in corrispondenza del portone d’ingresso principale, scandito con posizione diversa rispet-
to alla parte superiore, quindi con una discordanza di simmetria. Il Michelozzo trae esempio da Pa-
lazzo Vecchio, o Palazzo della Signoria, una delle opere principali di Arnolfo di Cambio, che lo
realizza nel 1299. Il severo edificio, più vicino ad un castello, presenta rivestimento murario bugna-
to, bifore con archi polilobati, caditoie nell’apparato superiore e una torre di 94 metri. Michelozzo,
oltre al trattamento delle superfici, ripresenta le bifore, in cui introduce disegni e stemmi tipici dei
Medici. Questo richiamo alle forme pubbliche del Palazzo Vecchio è voluto per marcare la potenza
di Cosimo e della sua famiglia: presunzione che è poi criticata sia da Giovanni Cavalcanti sia dal
Rucellai. Inoltre prende a modello anche l’apparato murario bugnato del foro d’Augusto. A Firenze
il Michelozzo adotta archi a tutto sesto incorniciati da paraste con capitello scanalato e disegna
abilmente le fughe dei mattoni, in cui la verticale coincide con la metà del mattone sottostante, e
propone, invece, nelle fila orizzontali una continuità in corrispondenza del primo mattone dell’arco.
Oltre a ciò, egli utilizza una cornice superiore molto particolareggiata e, in richiamo alla tradizione
classica, ripropone nell’angolo la tipica spazzola all’antica. L’interno del complesso presenta nume-
rosi spazi come sale, giardini, accessi, scale adibiti ai rapporti con le persone, proprio per testimo-
niare la centralità di Palazzo Medici nella società fiorentina. Ricorrenti sono poi le decorazioni in
stile brunelleschiano. All’interno del giardino sono sistemate poi le statue bronzee del David e de
La Giuditta, entrambe di Donatello, mentre sopra gli archi vi sono una serie di cerchi scultorei fi-
nemente decorati e dall’aspetto tutto altro che militare. Sul retro il palazzo si conclude con un mer-
cato, mentre l’angolo dell’edificio è risolto come un’enorme parasta.
Oltre al Palazzo Medici, la famiglia fiorentina fa costruire al Michelozzo anche altre architetture,
come ad esempio numerosi interni di chiese in chiaro stile antico e operano per la ricostruzione di
buona parte della chiesa della Santissima Annunziata (esclusa la tribuna, opera dei Gonzaga). Qui il
Michelozzo costruisce per i Medici un tabernacolo spettacolare interamente realizzato in marmo,
composto di quattro colonne libere che sorreggono l’enorme trabeazione e il cassettonato piano. Per
quanto riguarda proporzioni e decorazioni il tabernacolo si allontana dallo stile del Brunelleschi, in
favore della tradizione antica: forme e dimensioni, infatti, sono più vicine all’architettura classica e
sono ripresi da essa le decorazioni di delfini, ovuli, baccelli, foglie e vasi (in relazione alla figura
della Madonna, come segno di fertilità). Vi sono, poi, anche conchiglie e dardi, mentre la patera è
raffigurata con la testa più ingentilita rispetto alla tradizione antica, e con una ghirlanda sopra. Le
decorazioni appaiono quasi tutte come mosaici dorati. Per quanto riguarda le colonne, il Michelozzo
usa due diversi tipi di capitelli nella stessa architettura: uno pseudo-composito, formato dall’unione
di stile ionico e corinzio, con l’abaco intagliato e particolari scanalature (che invece il Brunelleschi
non utilizza mai), e l’altro prettamente corinzio, in richiamo al Pantheon, con forme vegetali che
chiudono la scanalatura. La mensa del tabernacolo presenta strigillatura, vale a dire un cerchio con
tre teste all’interno. Oltre a questa architettura, all’interno della Santissima Annunziata i Medici
fanno realizzare una piccola stanza privata per la devozione alla Madonna.
Altra piccola architettura, presente nella chiesa di Santa Croce, è la tomba dello storico fiorentino e
cancelliere della repubblica Leonardo Bruni, morto nel 1444, per il quale Bernardo Rossellino ese-
gue il tabernacolo. Anche qui vi sono capitelli sofisticatissimi, con scanalature e spigoli molto parti-
colari e basi e plinti decorati. Nell’arco, il quale questo cade in falso, poiché non ha la stessa lar-
ghezza delle colonne sottostanti, compaiono molteplicità di decorazioni; mentre viene ripreso dalla
colonna di Traiano la figura dell’angelo. Inoltre, sempre in richiamo alla tradizione antica, è usata
una bicromia di colori, quali il rosso e il bianco.
A partire dagli anni ’40 del Quattrocento l’architettura fiorentina viene esportata fuori Firenze, su
committenze nobili. Ciò non avviene, però, per le opere di Filippo Brunelleschi. Uno tra tanti, è il
signore di Urbino Federico Montefeltro, capitano di ventura e generale delle truppe degli Aragona,
persona estremamente colta e di formazione classica, che nel 1447 commissiona la facciata per la
chiesa di San Domenico. Il portale presenta impianto archivolto su due colonne libere e con paraste
murarie abbinate, in richiamo delle architetture antiche come l’arco di Costantino; il timpano denota
un fregio con ghirlande (tipico fiorentino) e nell’angolo vi è la raffigurazione della testa di Giove
barbuto e cornuto, nel solito rimando a figure dell’antichità. Altra architettura fiorentina esportata è
quella di Luca Fancelli, allievo del Michelozzo, chiamato a Mantova verso la fine degli anni ’40 da
Ludovico Gonzaga, per realizzare a Revere il portale del Palazzo Ducale, di caratteristiche più simi-
li ad un castello, con merli, torri e caditoie. Il Fancelli disegna sul portale paraste con capitello in
pieno stile corinzio, trabeazione e timpano, sopra il quale apre una finestra rettangolare: compaiono
qui due elementi particolari, il timpano, che è associabile alle architetture religiose e perciò è sim-
bolo di magnificenza, e la finestra rettangolare, di derivazione antica (Pantheon) e riscontrabile a
Firenze nel Battistero. All’interno del palazzo vi è una loggia simile alle architetture veneziane del
Trecento, mentre sotto gli archi compaiono peducci, capitelli singoli senza fusto superiore, che ri-
portano a Firenze. Questo mescolamento di elementi può essere possibile poiché a Mantova non vi
sono consuetudini artistiche e architettoniche ben radicate e il Fancelli può permettersi una più libe-
ra inventiva.
Si può, quindi, ricollegare l’architettura italiana del Quattrocento a due principali correnti stilistiche:
una più austera, sobria e dalle decorazioni povere, identificabile in architetti come il Brunelleschi, il
Michelozzo e Rossellino, e una più esorbitante, ricca e piena di effetti visivi, quale quella propria a
Donatello. Dal 1454, però, questo quadro stilistico vede il sorgere di un altro tipo di architettura,
che ha a capo Leon Battista Alberti.
Nasce a Genova nel 1404, figlio di un nobile fiorentino esiliato, riceve un'ottima educazione e in-
traprende studi giuridici dapprima a Padova, in seguito a Bologna. Studia il greco, ma s’interessa
presto anche di discipline come la matematica e le scienze naturali. Nel 1432 è a Roma dove viene
nominato segretario apostolico presso Eugenio IV e inizia il suo apprendistato architettonico con lo
studio degli antichi monumenti; al seguito della corte papale negli anni seguenti è a Firenze, Ferrara
e Bologna. Ha modo, così, di frequentare artisti come Donatello e Brunelleschi: con quest’ultimo
intenso è lo scambio d’idee e riflessioni sulla teoria della prospettiva. Nel trattato Della pittura,
composto prima in latino e quindi in volgare, e dedicato proprio al Brunelleschi, Alberti enuncia le
leggi matematiche che sottostanno alla rappresentazione della profondità spaziale, punto di riferi-
mento fondamentale per la tutta la successiva pittura occidentale. La maggiore opera teorica di
Leon Battista Alberti è il trattato De re aedificatoria, primo testo stampato sull'architettura del Rina-
scimento. Alberti scrive, inoltre, un trattato sulla scultura e un regesto delle più significative opere
architettoniche della Roma del tempo.
Uno dei suoi primi capolavori è la facciata della chiesa di San Francesco, già mausoleo dei Malate-
sta signori di Rimini, iniziata nel 1450 e lasciata incompiuta nella parte superiore. I primi lavori nel
Tempio Malatestiano iniziano già nel 1447, quando Matteo de’ Pasti (pittore e allievo di Pisanello)
costruisce due cappelle per Sigismondo e sua moglie. Alberti, data la sua indole da illuminista e
intellettuale, fa solo il progetto della facciata, mentre i lavori sono affidati e seguiti da un altro ar-
chitetto. Per gli esterni decide di usare la pietra d’Istria, in forti spessori e poche decorazioni, in
modo tale da provocare un brutalismo estetico. La sua opera è concepita quale apparato trionfale:
per fare ciò usa la parete di base e vi appoggia una serie di semicolonne. Nel progettare questa solu-
zione trae esempio da un’architettura antica, l’arco di Augusto, senza però copiarlo, ma riadattando-
lo al caso. Le due colonne centrali salgono verso l’alto con forma di paraste, per sorreggere un ipo-
tetico arco, così come compare in una moneta del tempo scolpita dal de’ Pasti, e rappresentante
sull’altro lato il ritratto di profilo di Sigismondo. Sulla moneta vi è una concordanza di proporzioni
per quanto riguarda la parte rettangolare dell’edificio, mentre la porzione superiore compare qui più
alta, al fine di mettere in evidenza la cupola che si trova dietro, progettata dall’Alberti ma non rea-
lizzata. Altre differenze sono relative ad alcune linee e curvature della parte alta del rilievo della
moneta, a una finestra disegnata nell’arco superiore e a delle decorazioni nei due archi laterali in
corrispondenza delle due tombe (che non saranno più posizionate nella facciata). Alberti apre inol-
tre sulla facciata principale dei fori-ovuli, ottenuti sezionando delle colonne, con un taglio dritto per
ottenere dei cerchi, con un taglio obliquo per ottenere degli ovali. Compare qui un’epigrafe che co-
pre l’intera facciata, riportante i nomi del committente e quelli dei due artisti che hanno lavorato nel
Tempio: Agostino di Duccio e Matteo de’ Pasti. Nelle arcate delle facciate laterali, che fanno rife-
rimento al mausoleo di Teodorico e alla chiesa degli Eremitani a Padova, sono posizionati i sepolcri
di altri personaggi. Altra testimonianza che ci rimane di quei tempi è una lettera scritta dall’Alberti
stesso, in cui sono riportati pensieri e idee dell’architetto e in cui egli riafferma il primato delle ope-
re antiche. Nel corso degli anni diversi artisti interpreteranno a loro modo il Tempio Malatestiano e
il pensiero di Alberti: troviamo, ad esempio, Aristotele da Sangallo che in un suo disegno propone
la facciata della chiesa del Loreto con sottostanti dei sepolcri di tipo romano; o ancora Antonio da
Sangallo detto il Giovane che cambia alcuni elementi di facciata del Tempio e introduce all’interno
di quest’ultimo i due elefanti simbolo di Sigismondo. Nel corso del Quattrocento è Bonaccorso
Ghiberti a realizzare il proprio disegno della chiesa di San Francesco, apportando delle modifiche
tipiche dell’architettura romanica fiorentina come quella di San Miniato al Monte: egli propone del-
le colonne sugli angoli, un timpano con cornice ben marcata e riprende le statue e i decori di Ago-
stino di Duccio. Ma un’ulteriore interpretazione la troviamo addirittura a Venezia, per opera di un
disegnatore dei primi del Cinquecento che fa diventare il Tempio un edificio a pianta centrale co-
perta da una cupola, avvicinandolo così ai canoni veneziani e adottando al tempo stesso anche ele-
menti antichi. Al posto della finestra centrale dell’arco troviamo qui una nicchia, mentre i semitim-
pani laterali sono più allungati verso l’alto, secondo lo stile veneziano. Compare, inoltre, anche la
scritta “provvidenza”, che riporta al Tempio Malatestiano e alle monete dell’antica Roma. Non è
comunque del tutto sbagliato associare alla chiesa in esame degli elementi tipici dell’architettura di
Venezia, poiché è probabile che l’Alberti, quando ha disegnato nel suo progetto la cupola del Tem-
pio Malatestiano, si sia ispirato alla copertura della basilica di San Marco che è organizzata su due
livelli, di cui uno interno più basso ed uno esterno più gonfio e poggiante su centine di legno rivesti-
te in piombo. Compaiono, infatti, sulla moneta del de’ Pasti delle vele che compongono la cupola,
mentre nella lettera l’Alberti fa riferimento ad una botte lignea da utilizzare nella chiesa di San
Francesco: unico luogo dove poteva aver visto tutto ciò era appunto a Venezia. In un altro disegno
datato nel Cinquecento, Sallustio Peruzzi, figlio di Baldassarre, interpreta il Tempio Malatestiano
come una chiesa romanica, ma coperto con una cupola con caratteristiche tipiche veneziane.
L’Alberti, quando disegna la facciata, si rifà alla tradizione antica, per lo più studiando gli esempi
locali, per far sì che l’edificio non sia fuori luogo, e utilizza anche degli elementi veneziani nella
parte alta, sebbene tutta questa mescolanza di soluzioni non compaia né nella moneta né nella lette-
ra. Per quanto riguarda i dettagli della facciata, si notano le decorazioni composte di campiture in
porfido incorniciate da modanature di bronzo. Soluzioni particolari sono adottate in prossimità
dell’angolo nell’ingresso, in cui compare una parasta interna alla nicchia del portone, non presente
però sulla facciata del Tempio, mentre il capitello, ricco di motivi floreali, e le varie modanature
sono aperte e libere di girare attorno all’angolo. Inoltre, compaiono capitelli bipartiti, in cui vi è una
parte superiore con ovuli, una faccia alata e al posto dell’abaco una corona gotica, e una parte infe-
riore con piatto di foglie d’acanto molto ristrette, sempre s’ispirazione antica. Il fatto che Alberti
abbia lavorato solo sull’esterno, comporta, però, una mescolanza di stili nel Tempio Malatestiano,
poiché l’interno è stato eseguito prima del suo intervento sulla facciata. Dentro vi sono sei cappelle,
disposte sui due lati della chiesa e di cui quelle speculari hanno caratteristiche simili: vi è, ad esem-
pio, la cappella dell’acqua e quella di Sigismondo che presentano forme gotiche, policromie, ricchi
decori e piedritti che reggono trabeazioni con mensole alla fiorentina, mentre la cappella d’Isotta e
quella ad essa speculare hanno volte a crociera gotica, archi acuti e capitelli dalle forme ibride. Al
sistema interno alla chiesa di archi è sovrapposta una struttura di paraste, con parastine in sommità e
figure reggiscudo, che scandiscono e danno ritmo al Tempio. Questa soluzione, sebbene sia prece-
dente, può essere sempre avvenuta su indicazione di Alberti al de’ Pasti, poiché troviamo una me-
scolanza di stili propria dell’architetto genovese.
Il progetto del Tempio Malatestiano costituisce il primo progetto notevole di Alberti di cui abbiamo
notizia, ciononostante non si pensa sia stata la sua prima prova da architetto. Di quegli anni è, ad
esempio, il campanile interrotto del Duomo di Ferrara, nel quale Alberti avrebbe potuto dare delle
indicazioni per risolvere la facciata esterna. Ma è nella Firenze della seconda metà del secolo che
Alberti trova fama e prestigio, grazie alle committenze di Giovanni di Paolo Rucellai, mecenate e
mercante attivo nella produzione e nel commercio della lana. I Rucellai assumono grande influenza
anche per le cariche pubbliche ricoperte da molti dei loro membri nel governo della Repubblica di
Firenze e anche per questo si trovano spesso in contrasto con i potenti Medici. E’ così che Giovanni
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Rucellai, per testimoniare l’importanza del suo casato, a partire dal 1457 commissiona all’Alberti di
realizzare tre notevoli opere: Palazzo Rucellai, una cappella di famiglia e la facciata di Santa Maria
Novella, tutte costruite in chiaro stile antico, secondo i gusti di Giovanni di Paolo, opposti a quelli
di Cosimo de’ Medici, più vicini ai canoni fiorentini.
Per realizzare il palazzo di famiglia, Giovanni di Paolo acquisisce poco per volta i lotto adiacenti di
Via della Vigna Nuova, grazie ai quali può iniziare l’ampliamento della residenza dei Rucellai. Il
lavoro di riprogettazione (a differenza di Cosimo, il Rucellai conserva i vecchi edifici e li allarga
semplicemente) è affidato a Bernardo Rossellino, mentre il compito di disegnare la facciata spetta
all’Alberti. Poco più in là, apre in mezzo alle strade un’omonima piazza, con una loggia che vi si
affaccia sopra. La facciata del palazzo è ancora una volta una novità assoluta, perfettamente scandi-
ta e ritmata dall’ordine delle paraste, sebbene l’Alberti non possa terminare l’intero prospetto, poi-
ché il Rucellai non riesce ad acquisire l’ultimo lotto. Il palazzo si compone di tre piani divisi da tra-
beazioni con cornice ridotta (alla fiorentina), sorrette da paraste che inglobano ai piani superiori le
bifore, presenti anche a Palazzo Medici. E’ questa una soluzione ripresa dall’architettura antica
dell’anfiteatro (n’è un esempio il Colosseo), in cui vi è una sovrapposizione di archi e quadrati.
L’Alberti introduce un capitello pseudo-ionico, con baccelli in basso e ovuli, e studia nei minimi
particolari la combinazione tra il bugnato piatto e gli ordini architettonici: così, fa coincidere
l’ultima fila del paramento murario con l’altezza del capitello e prolunga la modanatura dell’abaco
su tutta la facciata, con riferimento al mausoleo di Adriano. Decora, inoltre, tutto il prospetto con le
vele, simbolo di fortuna dei Rucellai. Il portale d’ingresso è circondato da un riquadro e ha mensole
sporgenti sopra la modanatura di chiusura, in pieno stile antico del già citato mausoleo di Adriano;
mentre le modanature orizzontali si sovrappongono al fusto della parasta, così come accade nel Pan-
theon. Sopra il portale vi è una falsa finestra quadrata, che riporta alla tradizione aulica fiorentina.
Alberti sul livello più basso disegna le finestre quadrate, molto in uso nel palazzo fiorentino, ma le
incornicia su tutti e quattro i lati, con connotazione più antica, ed esibisce in questa zona una strut-
tura delle bugne pseudo-isodoma, ovvero alterna file di bugne con dimensioni diverse in rapporto
1:2, per dare più ordine alla facciata. Attorno al perimetro della cornice corre una fuga dello stesso
spessore di quella delle bugne, tranne che sul lato inferiore, dove è finto un appoggio. Lavora, inol-
tre, dando un po’ di rilievo rispetto alla facciata alle paraste. Alberti riprende la forma delle bifore
del piano primo e secondo da Palazzo Vecchio e Palazzo Medici, ma inserisce sopra i piedritti un
architrave, e porta le bugne che inquadrano la finestra fino alla base dell’apertura, come per chiu-
derla, così come si vede nel Colosseo. Anche le bifore del terzo livello poggiano sulla cornice sotto-
stante, in richiamo alle finestre quadrate del piano terra. Vi è, inoltre, corrispondenza di spessore tra
le fila delle bugne e gli elementi delle bifore, quali capitelli, basi e architravi, per creare una certa
continuità lineare sulla facciata. Riguardo all’architrave delle bifore, nel suo De re aedificatoria,
Alberti sostiene che, per coerenza architettonica, tal elemento serva proprio per consentire
l’appoggio all’arco, mentre le colonne ed i pilastri devono servire da sostegno alla trave. Nel Palaz-
zo Rucellai ciò avviene anche come critica all’architettura dei Medici, che tendono ad appropriarsi
la tradizione fiorentina per celebrare la potenza della loro famiglia: ecco perché Giovanni di Paolo
non rade tutto al suolo e vuole per il suo palazzo un sottile rivestimento, a differenza di quanto ac-
cade per Palazzo Medici. Quella di Alberti è, inoltre, anche una critica allo stile di vita della nobiltà
fiorentina. Tale accusa avviene anche nei confronti del Palazzo Vecchio, dal quale riprende la fine-
stra rettangolare a bifora della torre, e verso il Michelozzo, da cui copia il capitello delle colonne,
ma nel momento in cui critica questi elementi li accentua ed amplifica nelle sue opere, quasi con
l’intento di ironizzarli. La condanna della società fiorentina è presente non solo nell’Alberti, ma
anche nei quadri di numerosi pittori che la pensano come lui. Altra caratteristica del pensiero alber-
tiano consiste nell’esplicitare la funzione chiaramente decorativa di alcuni suoi accorgimenti, come
compare nella trave tripartita sopra le bifore, evidentemente finta. Come già detto, l’Alberti presta
particolare attenzione al trattamento delle superfici: egli prevede, infatti, la distinzione tra conci e
bugne, realizzando un disegno di queste ultime molto accurato e spesso scolpito sul concio. Inoltre,
fa in modo che in corrispondenza dell’asse delle finestre vi sia un vuoto in chiave e non una bugna
come sarebbe ovvio pensare, proprio per portare avanti l’intento di mostrare artifici e soluzioni. An-
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che nella zona basamentale presta molta cura alla lavorazione delle superfici, scolpendo una sorta di
griglia con riquadri proprio sopra la panca (come si trova pure a San Miniato); disegna poi i piedi-
stalli sotto le paraste e prolunga su tutta la facciata base, scozia e toro di queste ultime. Sempre sul
primo livello, appena sopra il basamento, crea delle piccole finestre rettangolari che hanno la stessa
altezza delle bugne vicine, quasi come se ne mancasse una, e le priva di cornice, eccezion fatta per
la fuga che le corre attorno, scavando verso l’interno l’apertura. Facilmente individuabile è la por-
zione di facciata corrispondente al progetto iniziale, che prevedeva solo cinque campate: infatti, in
questa parte le pietre del bugnato passano dietro le paraste, cosa che non accade tra la quinta e la
sesta campata, che viene aggiunta in un secondo momento alle proprietà del Rucellai. Si può, quin-
di, ricondurre la facciata a due sistemi contrastanti, quali il muro e le paraste, il tutto caratterizzato
da un bugnato piatto, di derivazione antica: in questo edificio troviamo, infatti, lo scontro ed il con-
fronto tra le forme antiche e quelle fiorentine, in un complesso del tutto armonioso ed equilibrato. Si
assiste a ciò che gli antichi chiamavano concinnitas, ovvero il perfetto equilibrio delle forme. La
splendida facciata del Palazzo è ripresa da Bernardo Rossellino (che vi ci aveva lavorato) per il pro-
getto di rinnovamento urbanistico della cittadina di Pienza, voluto da Papa Pio II, dove, tra il 1459 e
il 1462, viene edificato Palazzo Piccolomini. L’edificio presenta sulla facciata a bugnato liscio tre
ordini di lesene in cui sono inquadrate bifore incorniciate da archetti. Lo stile del Rossellino è più
fiorentino e presenta, quindi, alcune soluzioni diverse da quelle adottate nel Palazzo Rucellai, che è
ammirato e ripreso dallo stesso Filarete in diversi progetti.
Altra commissione affidata da Giovanni di Paolo Rucellai all’Alberti è la realizzazione della cap-
pella funeraria di famiglia all’interno della chiesa di San Pancrazio. L’Alberti riprende alcuni ele-
menti tipici del Brunelleschi, ovviamente interpretandoli a proprio modo: la chiesa è ripartita da
lesene scanalate (con sette solchi e non sei), che reggono un vistoso fregio riccamente decorato e
dalla cornice ben più sviluppata rispetto ai canoni brunelleschiani; lo spigolo è risolto con una para-
sta filiforme e l’ingresso è segnato dall’uso di due colonne libere, soluzione più vicina alle architet-
ture antiche, dato che compare in edifici come il Battistero di Firenze e il Pantheon. Internamente
vi è una copia della tomba di Cristo, che Alberti rivisita secondo i propri gusti, decorandola con
un’epigrafe a lettere capitali tratta dal Vangelo, con i simboli dei Rucellai ed il giglio di Firenze,
adottato a scopo ornamentale. Il sepolcro è coperto con un cupolino a cipolla, che rimanda al Bru-
nelleschi ed alle architetture orientaleggianti veneziane, e il tutto è risolto in marmo bianco e verde
e con colorazioni gialle e rosse.
L’ultima delle tre commissioni affidate dal Rucellai è la facciata della Basilica domenicana a tre
navate di Santa Maria Novella, rimasta incompiuta alla parte più bassa. E’ questo un intervento
molto costoso, che il Rucellai può compiere grazie all’eredità avuta dagli Strozzi, con i quali è im-
parentato. La facciata della Basilica, che rimanda per certi versi alla chiesa di San Miniato e all’arco
di trionfo antico, presenta la parte basamentale formata da paraste e semicolonne, che delimitano la
campata centrale, fortemente più stretta delle due laterali. A chiusura del fronte principale vi sono
due grossi pilastri, dalle tonalità bicrome (verde e bianco), mentre le colonne sono interamente verdi
e presentano basi e capitelli bianchi. E’ possibile che nella scelta dei colori, che unificano fortemen-
te la facciata, l’Alberti si sia rifatto al Battistero ed alla Basilica Fulvia Emilia, con alcune varianti
fondamentali, giacché il capitello pseudo-dorico dei pilastri è più vicino alla tradizione fiorentina e i
rapporti tra la larghezza e l’altezza sono di 1:11 per la colonna e di 1:7 per il pilastro, che viene
quindi molto compresso. La facciata, nella zona più bassa, compare quasi come l’intersecazione tra
il basamento di un mausoleo con il sistema formato dalle quattro semicolonne e l’arco centrale, che
l’Alberti mette in risalto assieme ai due pilastri angolari con ricorrenti sovrapposizioni di strati dif-
ferenti, come per sottolineare le diverse profondità. Per la prima volta nel panorama architettonico
fiorentino, egli introduce il piedistallo sotto le colonne centrali e sul loro lato, mentre verso l’interno
dell’arco posiziona due paraste per lato, a sei scanalature e con le basi e i capitelli sfalsati, al fine di
alludere ad una maggiore profondità. Con l’Alberti, pertanto, incominciano ad essere utilizzati an-
che nell’architettura delle illusioni ottiche, che, invece, erano ricorrenti nella scultura: basti pensare
al David di Michelangelo o alla raffigurazione nel Duomo di Siena della Madonna col Bambino ad
opera di Donatello. Il portale d’ingresso presenta il pieno in asse, che l’Alberti può aver richiamato
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dalla Trinità del Masaccio, custodita all’interno della chiesa stessa. Superiormente all’arco
d’ingresso compare una piccola fascia con le vele del Rucellai e una più alta con riquadri disegnati
(tarsie), sopra la quale vi è la ripresa delle sole paraste centrali, alle quali è interposto un grigliato
con decori e con un’ulteriore striscia recante un’epigrafe, il tutto sormontato dal timpano. Riprende
poi la forma delle volute, la modifica e disegna così i due elementi curvi ai lati della parte superiore
della facciata, decorati con dei cerchi concentrici, che sono richiamati dal grande loculo centrale
vetrato. La struttura ripartita in fasce della parte superiore è copiata da edifici antichi, come ad
esempio il Battistero, in cui vi è una fascia intermedia con riquadri che alternano decori e finestre,
soprastante il basamento e sottostante, invece, ai dipinti della copertura. Anche nel Pantheon è pre-
sente questa tripartizione, che si basa sostanzialmente su tre livelli, non in asse tra loro: uno inferio-
re caratterizzato da colonne e paraste, uno intermedio che alterna piccole lesene a finestre, e uno
superiore che presenta cassettoni con lacunari.
Al seguito di Papa Pio II, nel 1459 l’Alberti arriva a Mantova, un piccolo stato signorile retto dai
Gonzaga e meno arretrato di Firenze, con una forte connotazione di edifici medievali. Qui, proprio a
ridosso dell’antica chiesa di Sant’Andrea, ha modo di osservare l’abitazione del mercante Giovanni
di Boniforte, che presenta un loggiato inferiore trabeato e decorato, con le forme delle finestre tipi-
camente veneziane e molti elementi ibridi, sia nelle finestre sia nei capitelli. Giovanni di Boniforte
fa inoltre sistemare sotto la loggia un’epigrafe in tre diverse lingue (lombardo, volgare, latino), il
che testimonia la mescolanza di tradizioni nella Mantova di quei tempi. Per di più, è probabile che
la casa sia stata realizzata da Luca Fancelli, allievo del Michelozzo, e perciò in chiaro stile fiorenti-
no, sebbene vi siano delle differenze: nell’incrocio angolare fra due archi, ad esempio, non compare
una sola colonna, ma ben due, con retrostante un pilastro il cui capitello non è raccordato con quello
delle colonne. In occasione della dieta, è realizzato di fronte alla piazza della chiesa di Sant’Andrea
il Palazzo di Potere e Potestà, di connotazione più simile ad un castello medievale, segnato dall’uso
delle finestre rettangolari che diverrà tipico dell’architettura mantovana. Ma nella dieta del 1459 si
parla anche d’architettura e viene proposto a Ludovico Gonzaga di intervenire sulla città: è in
quest’occasione che si fa avanti l’Alberti, con ben tre progetti, dei quali viene realizzato solo quello
riguardante la chiesa di San Sebastiano (mentre degli altri due, una loggia e un’opera dedicata a
Virgilio, non si avrà più traccia).
Nel 1460 si realizza, così, la chiesa di San Sebastiano, che è seguita nei lavori dal Fancelli.
L’edificio presenta pianta centrale la cui forma richiama un gran quadrato intersecato da una croce:
dalla figura di base fuoriescono, infatti, tre braccia; sul lato d’ingresso compare una loggia, mentre
sotto la chiesa vi è una cripta fortemente caratterizzata dalla presenza di pilastri. Non si sa con cer-
tezza se l’Alberti avesse previsto anche i sotterranei della chiesa, in quanto nei disegni a noi perve-
nuti questo livello non compare. Vi sono anche alcune differenze per quanto riguarda certe misure e
l’avancorpo della chiesa. Pure le due rampe di scale in facciata non sono pertinenti al progetto al-
bertiano, bensì sono state aggiunte durante il restauro del 1930 da Luigi Schiavi. Inizialmente, infat-
ti, vi era una scala laterale che portava l’accesso alla chiesa direttamente da una delle nicchie della
loggia. Nel progettare l’edificio è probabile che l’Alberti si rifaccia agli antichi sepolcri romani,
caratterizzati dalla presenza di molte colonne. L’avancorpo dell’opera è composto di tre livelli: la
cripta, la chiesa e una stanza superiore oggi inutilizzata, ideata forse come luogo privato di devo-
zione dei Gonzaga, poiché inizialmente era possibile l’affaccio verso l’interno direttamente da una
piattaforma in seguito tolta. Da alcuni rilievi araldici ritrovati nell’edificio sappiamo che numerose
statue erano disposte nei bracci della chiesa e all’interno della cripta. Questa ultima presenta
un’architettura davvero notevole, con grossi pilastri monumentali che reggono campate a crociera e
archi, di possibile derivazione dalle antiche cisterne romane per la raccolta dell’acqua. In facciata, il
portale centrale ha dimensioni maggiori rispetto agli altri due, con decori a volute e ghirlande, men-
tre la trabeazione superiore è interrotta per lasciare il posto ad una finestra rettangolare, sopra la
quale compare un arco di raccordo. Una soluzione simile compare in diverse architetture antiche,
come la Cattedrale di Palestrina in provincia di Roma, il Duomo di Pienza e il palazzo di Dioclezia-
no a Spalato, di cui può aver visto dei disegni a Firenze, dove erano presenti diverse maestranze
dalmate.
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Nel 1460, mentre l’Alberti è impegnato a lavorare per i Gonzaga, arriva a Mantova il Mantegna.
Egli viene direttamente da Padova, dove ha avuto modo di studiare le arti antiche e di stare in con-
tatto con Donatello, impegnato in diverse opere presso la basilica di Sant'Antonio, detta popolar-
mente il Santo, costruita fra il XIII e il XIV secolo. Qui realizza l’altare maggiore con le statue della
Madonna e dei santi, il Crocefisso di bronzo e il recinto del coro, del quale ci rimane una parte della
transenna, eseguita in pietra rosa di Verona, bronzo e marmo e dai ricchi decori scanditi dal sistema
di parastine a capitello pseudo-dorico con trabeazione superiore e cornice disegnata da archetti. Nel-
la parte inferiore dell’altare realizza, inoltre, il rilievo del Santo, inserito in un ambiente ritmato da
volte a botte e grandi paraste, con riferimento all’antica Basilica di Massenzio a Roma. Donatello
esegue anche il celebre monumento equestre in bronzo al Gattamelata, capitano di ventura prima di
Firenze, poi del papato e della Repubblica di Venezia, situato sul sacrario della piazza del Santo. La
statua poggia sopra un grande basamento, che presenta al centro una porta: vi è qui l’ennesimo ri-
chiamo ai modelli antichi, soliti posizionare le aperture in asse, oltre al fatto che Donatello trae ispi-
razione dalle statue equestri degli imperatori romani. Non lontano vi è la chiesa degli Eremitani, dai
preziosi affreschi, a cui lavora anche il Mantegna, caratterizzata dall’altare di una delle cappelle in
cui le decorazioni vegetali delle cornici scompartano, e allo stesso tempo vi fanno parte, le varie
illustrazioni. Dalla collaborazione con Donatello, il Mantegna trae esperienza per alcuni suoi lavori,
come, ad esempio, per la chiesa di San Zeno a Verona, in cui disegna le illustrazioni dell’altare
all’interno di un sistema di colonne e trabeazioni. Vi è, tra i vari artisti affrontati e nelle diverse città
incontrate, una propensione all’antico assai differente: il Mantegna, infatti, ricrea nelle sue opere la
tradizione antica, imitandola; l’Alberti, invece, si rifà all’antico, ma è spinto continuamente a modi-
ficarlo e interpretarlo in maniera moderna. I due maestri s’incontrano a Mantova alla corte di Ludo-
vico Gonzaga, per il quale il Mantegna diviene pittore ufficiale. Qui dipinge la Circoncisione di
Cristo nel Tempio di Gerusalemme, ora conservata agli Uffizi a Firenze, in cui vi è un accostamento
di marmi, porfidi, materiali preziosi e bronzo. L’apparato architettonico dell’opera, fatto di colonne
a capitello decorato e fusto a candelabro e archi, è disposto su una parete di incrostazioni lapidee
montata su di un telaio di pietra, in richiamo all’opus romano. Ma il capolavoro del Mantegna a
Mantova è senz’altro la Camera degli Sposi, dipinta tra il 1465 e il 1474 a Palazzo Ducale, dove
l’arte della prospettiva illusionistica toccò uno dei più alti vertici espressivi. Il dipinto, nel quale
compaiono i Gonzaga, la loro corte e altri monarchi, è organizzato da una finta struttura di paraste
dipinte su un basamento decorato con tondi, di derivazione antica, in cui le due scene principali so-
no sopraelevate rispetto l’occhio umano. Compare, quindi, il confronto tra la struttura reale della
camera e quella dipinta; confronto che a volte viene a coincidere. L’elaborato dipinto presenta con-
tinue raffigurazioni umane e vegetali, mentre il soffitto è riprodotto come una struttura d’archi in-
trecciati, entro cui sono inseriti medaglioni e stucchi; al centro uno splendido loculo retto da angio-
letti si apre sul cielo dipinto.
Alla fine del 1470, l’Alberti scrive una lettera a Ludovico Gonzaga, comprensiva di schizzi e dise-
gni, in cui propone al suo committente la ricostruzione della chiesa di Sant’Andrea. Ludovico è col-
pito dal progetto, poiché fra le sue intenzioni vi è quella di prendere possesso della chiesa e della
reliquia del Santo Sangue al suo interno: ciò, infatti, gli avrebbe conferito un maggior consenso po-
polare e quindi un più rilevante peso politico. Già i suoi avi, di fatto, avevano reintrodotto il culto di
Sant’Andrea, esponendone la reliquia nei giorni dell’ascensione. Così, morto nel ’71 l’abate della
chiesa, questa è affidata a Francesco Gonzaga, figlio di Ludovico ed ecclesiastico, con il quale la
famiglia può appropriarsi dell’edificio.
Antonio di Manetti Ciaccheri, architetto alla corte dei Gonzaga e presente già nella realizzazione
del Palazzo Ducale a Revere, realizza per primo un modellino ligneo della nuova chiesa, che Ludo-
vico intende costruire di sana pianta demolendo quella precedente. Alberti studia e osserva tale mo-
dello e ne rimane colpito, sebbene non gli sembri molto adatto ai fini dell’ostensione del Santo San-
gue, poiché troppo ridotto e non congruo alla città. Fattore, poi, non trascurabile è che il Manetti
progetti in stile fiorentino (aveva lavorato spesso con il Brunelleschi), quindi con caratteristiche
assai diverse da quelle albertiane. L’Alberti, allora, propone una chiesa ad una sola navata, con cap-
pelle laterali, transetto piuttosto largo sormontato da una cupola e altare delimitato da un muro cir-
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colare sul fondo, mentre ad un livello inferiore si trova una cripta con pianta a croce. In tutto ciò,
però, le dimensioni dell’edificio sono abbastanza simili a quelle del Manetti, ma lo spazio è meglio
studiato, poiché non vi sono le navate laterali disegnate da questo ultimo e quindi è possibile una
visione più libera sulla reliquia. Il Manetti, inoltre, propone una copertura della navata centrale li-
gnea, mentre l’Alberti la realizza in mattoni, più durevoli e resistenti agli incendi, e meno costosi,
fattore non trascurabile al Gonzaga. Sono poi evidenti nel progetto albertiano i richiami al tempio
etrusco, voluti dall’architetto con precisi scopi persuasivi e utilitaristici: prospettare un tale modello
a Ludovico vuol dire, infatti, avvantaggiare il proprio edificio. Mantova, difatti, è una città di origi-
ne etrusca, più volte nominata nei libri: Virgilio, che era mantovano, ne scrive nell’Eneide e anche
Dante nella Divina Commedia attribuisce la sua fondazione ad una maga dell’Asia Minore. In ogni
caso la sua creazione ha sempre caratteri antichi e per certi versi mitologici. Inoltre l’Alberti, con-
sapevole di essere ormai prossimo alla morte, sa di dover realizzare un modello in grado di colpire
così tanto Ludovico che questo continui su tale progetto anche dopo la scomparsa dell’architetto.
Così è e il cantiere è affidato al Fancelli e forse allo stesso Manetti. Evidenti sono quindi i richiami
all’architettura antica: egli dispone di una descrizione vitruviana del tempio etrusco da cui è a cono-
scenza dell’antico impianto con pronao e cella tripartita, che interpreta a suo modo posizionando le
celle ai lati della chiesa; conosce, poi, anche i sepolcri etruschi della Via Appia e le terme imperiali
di Roma, considerati come dei piccoli templi. Confronta, ancora, queste soluzioni con la Basilica di
Massenzio a Roma, che diviene nel Quattrocento il Tempio della Pace.
La chiesa di Sant’Andrea è ultimata nel Settecento con la cupola realizzata da Filippo Juvarra e pre-
senta elementi di diversi architetti, salvo poi essere aboliti più tardi, in favore del vero progetto di
Alberti. Al centro del transetto, sotto la copertura della cupola, vi sono quattro grandi cavità per le
scale a chiocciola, traslate verso l’esterno, per permettere alla cupola settecentesca di scaricare sulla
muratura. Il progetto albertiano prevedeva inizialmente un transetto che non si protraeva dalle mura
laterali della chiesa ma contenuto in essa: lo dimostra il fatto che vi è un distacco di fondazioni tra
questa parte e quelle introdotte ai lati nel corso del Cinquecento. Altro esempio a cui si rifà è la Ba-
dia fiesolana, il cui interno della chiesa è poco decorato e presenta paraste a sette scanalature di ri-
mando alla tradizione antica e in distacco con quella fiorentina; la navata è coperta a botte e la man-
canza di pilastri e colonne le dona un aspetto molto sobrio, poiché la funzione portante è affidata ai
setti murari. E’ così che l’Alberti copre la propria navata con una volta a botte, in modo tale che i
carichi sono distribuiti ugualmente, e crea un sistema di trabeazioni e paraste che scandisce le cap-
pelle, che alternativamente sono quadrate e voltate a botte o rettangolari e voltate a calotta. Tra una
cappella e l’altra vi sono parti di muratura piena su cui continua la trabeazione delle nicchie; in
sommità ci sono delle finestre circolari che permettono l’illuminazione naturale della chiesa, poiché
retrostanti ad esse vi sono delle camere in cui la luce solare entra dall’esterno e viene incanalata in
direzione della navata. La vera struttura portante della chiesa è affidata a dei setti di rinforzo, che
scaricano la struttura e permettono una più equa distribuzione dei carichi sulle parti piene. Proprio
nel Tempio della Pace compare un sistema simile, in cui gli archi sono contraffortati in corrispon-
denza dei muri d’ambito. La facciata dell’edificio costituisce un nuovo approccio architettonico:
infatti, essa rappresenta un corpo autonomo dal resto della chiesa, riprendendo e amplificando ciò
che è avvenuto per San Sebastiano. Si presenta come un arco di trionfo con paraste e modanature
che sorregge un timpano, in richiamo agli edifici antichi e al Battistero di Firenze. Inoltre, così co-
me si vede nel Pantheon, le paraste in corrispondenza degli angoli sono piegate a metà e s’infilano
nel muro, mentre la volta di accesso è perpendicolare a quelle degli archi laterali. All’interno di
questo avancorpo sono dislocati diversi ambienti, di cui i due superiori laterali accessibili
dall’interno e altri sopra la volta principale, usati per ospitare la reliquia durante i giorni
dell’ostensione, mentre la funzione era svolta su un balcone che dava verso l’interno, non più pre-
sente. Sulla facciata retrostante all’avancorpo, la parete inferiore della navata presenta in posizione
centrale un grande loculo vetrato con volta ad ombrellone, che serviva per l’ostensione. Tutti questi
ambienti erano serviti da due torri scalari non conservate sino ad oggi, che arrivavano alla quota del
loculo. Il timpano fatto da Alberti è piuttosto basso, in modo tale da rendere ben visibile il loculo
che ospitava l’ostensione del Santo Sangue, il quale ripristino della funzione ha per i Gonzaga carat-
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tere più politico che religioso. Coniano, infatti, delle monete in cui l’ostensorio del Santo Sangue,
detto pisside, compare come simbolo di famiglia, valorizzando ancora più il proprio potere governa-
tivo: la stessa monumentalità del simbolo sacro che l’Alberti riprende nel progettare le proporzioni
dell’ombrellone. Egli trova precedenti esempi nel Duomo di Prato, che presenta nella controfacciata
interna un’apertura con balcone che serviva durante la cerimonia dell’ostentazione della Cintura
della Vergine, funzione che è ripresa nel Quattrocento da Donatello e Michelozzo che realizzano un
balcone ad angolo coperto sull’esterno. Anche la Cappella Palatina di Aquisgrana, in Germania, può
aver ispirato l’Alberti. Essa ha pianta ottagonale e doppia galleria con coperture a volta tipiche delle
prime chiese bizantine, mentre le volte imponenti e i pilastri massicci preludono all'architettura ro-
manica. La Cattedrale di Aquisgrana presenta analogie con la basilica di San Vitale a Ravenna, ben
conosciuta ad Alberti. Ancora, la chiesa del Santo Sepolcro a Milano, che presenta due livelli, in cui
quello inferiore conserva le reliquie del santo, e un avancorpo per le funzioni servito da due torri
scalari. Tuttavia, è probabile che già il Sant’Andrea dell’undicesimo secolo presenti un avancorpo
simile, che Alberti ha ripreso e modificato, secondo la sua prassi di prendere spunto dalle architettu-
re locali. Vi è, quindi, una duplicità di natura tra i vari riferimenti: il modello aulico del tempio etru-
sco richiama, come già visto, l’origine di Mantova ma è un fatto noto solo agli illuministi; mentre la
riproposizione dell’avancorpo di Sant’Andrea è un qualcosa che tutti conoscono, per permettere a
chiunque un’immediata riconoscibilità.
La facciata della chiesa che noi vediamo oggi è relativa ad un restauro dell’Ottocento, invece da un
dipinto della metà del Cinquecento possiamo sapere che essa era riccamente colorata, a differenza
di oggi: infatti, il marmo verde usato inizialmente è stato sostituito da una pietra bianca più resisten-
te e durevole. E’ molto probabile che su questo prospetto l’Alberti e il Mantegna si siano confronta-
ti a lungo e a morte avvenuta, sia questo ultimo a dipingere la facciata di Sant’Andrea. Egli disegna
due nicchie, per il santo e per l’ascensione di Cristo, in modo tale da identificare la chiesa. Realizza,
poi, un reticolo che finge di essere lapideo, i cui listelli laterali richiamano la pietra verde della fac-
ciata, quelli interni sono in finta pietra rossa e gli incroci sono tinti in porfido e marmo scuro: ricrea
in tal modo una sorta di opus sectile romano, ovvero un rivestimento pavimentale costituito da la-
stre di marmo o pietra colorata disposte a formare motivi figurativi o geometrici, chiaramente visi-
bili nel Pantheon, a San Marco a Venezia e nelle basiliche romane a Murano e Torcello. Il reticolo
presenta una deformazione prospettica man mano che si procede con l’altezza, che porta i riquadri a
diventare sempre più grandi. A differenza di altri edifici albertiani come il Tempio Malatestiano e la
chiesa di Santa Maria Novella, qui non compaiono epigrafi sulla facciata. Sicuramente protagonista
della facciata è il sistema arco-paraste sottostante al timpano. L’Alberti prevede un arco con diverse
modanature, composto di tre fasce sottili, una successiva più grossa e dipinta con ghirlande e altre
due sovrapposte con ovuli e dardi, per concludere il tutto con un’altra modanatura più sporgente
delle altre, perché con funzione di gocciolatoio, mai usata sia nell’antichità sia nel Quattrocento. Il
concio di volta dell’arco è incluso nella modanatura, negando, in tal modo, la sua funzione portante
e di chiusura. Lo sporto di tutta questa struttura risulta piuttosto evidente. Il Mantegna disegna an-
che delle decorazioni con conchiglie nella parte bassa delle nicchie e decori a candelabri (arabeschi)
sulle paraste, con capitelli in pietra bianca e tufo decorati con tonalità rosse e verdi, in richiamo del-
la livrea gonzalesca. Questi capitelli tufacei (oggi custoditi al museo di Mantova) presentano ma-
schera con ciuffo di foglie di palmetta a fiamma, volute a “S” decorate e foglie di acanto arrotolate
e chiuse in posizione centrale. Questo decoro richiama un po’ il capitello bizantino, che presenta
“foglie mosse dal vento”. Questi capitelli sono poi sostituiti nel Settecento con altri ugualmente de-
corati ma realizzati in marmo. E’ probabile che lo scambio di idee tra l’Alberti e il Mantegna sia
avvenuto anche nella realizzazione della Camera degli Sposi di questo ultimo, i cui lavori sono ini-
ziati cinque anni prima di quelli della chiesa. Infatti, si può vedere nel dipinto del Palazzo Ducale
che il personaggio davanti la parasta decorata a candelabro indossa un cappello le cui piume sem-
brano coincidere con le foglie di acanto mosse del capitello della lesena retrostante. Lo stesso volto
del Mantegna, come già detto, compare all’interno dei decori, il che fa pensare ad un procedimento
di scena con casualità richiamanti la storia della creazione del capitello corinzio, introdotta da Vi-
truvio e visibile nell’arco romano dei Gavi a Verona, forse proprio di questo ultimo. Altra particola-
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rità della facciata riguarda il capitello di sinistra, in cui la rosetta presenta foglie disposte verso il
basso, mentre su tutte le altre esse sono verso l’alto: il primo, infatti, è il capitello disegnato diret-
tamente dall’Alberti e richiamante l’architettura bizantina (come ad esempio è a San Marco). Anche
l’arco è piuttosto anomalo, poiché non è a filo con la parasta sottostante, ma un po’ in rilievo, men-
tre superiormente si sovrappone alla trabeazione; inoltre, tutta la struttura dell’arco emerge dalla
facciata di ben un metro. Vi è qui un’infrazione voluta dall’Alberti della logica architettonica, in
quanto la prassi vuole che l’arco sostenga la trabeazione e non la sormonti. Tale soluzione è riscon-
trabile in un disegno dell’arco di Marco Aurelio conservato al museo capitolino di Roma; ma si può
vedere ciò anche negli archi dell’anfiteatro di Pola (che era ai tempi possedimento veneziano) e
nell’arco di Adriano ad Atene, in cui l’archivolto sormonta e sostituisce l’architrave, per evitare di
avere due strutture del genere. Alberti conosce anche questo esempio, poiché egli è amico di un
gran viaggiatore del tempo, Ciriaco di Ancona, che in uno dei suoi viaggi è stato in Grecia e ha ri-
portato in patria numerosi suoi disegni e schizzi. Ma questo artifizio lo troviamo anche in opere
successive come nel transetto della Giocosa di Pavia e nella cappella del Duomo di Fidenza, in cui
il concio di chiave è compreso nella modanatura superiore. A Sant’Andrea, poi, le paraste maggiori
sporgono lievemente dalla muratura, a differenza, invece, delle modanature dell’arco, privilegiate
dall’Alberti. La facciata è scavata ed è come se la parasta sia usata come attacco per le varie moda-
nature di diverse inclinazioni e piegature, così da rendere uno slittamento dei piani ed uno sposta-
mento verso l’interno del muro. Probabilmente egli nel realizzare la chiesa guarda al Pantheon, che
presenta un avancorpo, timpano murario e diversità di rilievi e materiali, che egli può aver ripreso.
Lo stesso Mantegna disegna un dipinto su un cassone nuziale in cui compare un Pantheon privo di
pronao: proprio ciò a cui può alludere la facciata di Sant’Andrea. Altro grande edificio è cui si è
ispirato per questo edificio è senz’altro la chiesa di San Marco, da cui riprende diversi elementi,
comprese le cripte. Vi è, infatti, una similitudine fra le due architetture: a Venezia si può vedere
un’alternanza di archi e cupole, un nartece sistemato con volta a botte, decorazioni con foglie e ma-
schere, un podio superiore di affaccio sul livello inferiore e proporzioni simili. Alberti stesso men-
ziona tutti questi esempi e modelli nei suoi trattati, che non sono presi a caso, ma sono scelti soprat-
tutto per il loro significato storico e politico, in un continuo rimando alle origini molto forte e senti-
to.
A partire dalla seconda metà del Quattrocento papa Pio II, insigne umanista, vuole dare un nuovo
assetto urbanistico e architettonico alla città di Pienza: i lavori iniziano nel 1459 e trasformano il
borgo in una piccola città ricca di preziose opere architettoniche e dalle armoniche distribuzioni
spaziali, che riflettono perfettamente gli ideali estetici rinascimentali. Protagonista di questo rinno-
vamento è Bernardo Rossellino. Sulla Piazza Pio II, capolavoro di ricerca prospettica e compositiva,
si elevano il mirabile Palazzo Piccolomini a bugnato liscio, con un grande loggiato sul giardino
pensile, e la cattedrale in travertino, a tre navate di uguale altezza che le conferiscono carattere di
grande aula. Notevoli sono anche il Palazzo Pubblico, quello Papale e altri lungo il Corso Rosselli-
no, asse viario principale, costruiti da cardinali sollecitati dal papa a partecipare al grande progetto,
rimasto tuttavia incompiuto per la morte, nel 1464, sia di Pio II sia di Rossellino.
Per la costruzione del Duomo, Rossellino fa demolire la vecchia chiesa romanica e costruisce tutto
ex-novo cambiando l’orientamento, in modo tale da avere l’ingresso alla cattedrale direttamente
sulla piazza. L’edificio, che presenta tre navate, ambulacro e tre cappelle angolari, è caratterizzato
da una commistione di proporzioni gotiche e tardo-gotiche con forme che alludono, però,
all’architettura antica. Vi sono colonne a base quadrata, capitelli con decori ad ovuli a baccelli, tra-
beazione con fregio molto allungato, mentre sui muri sono addossate semicolonne, che negli angoli
tendono a diventare quadrate e sono incorniciate da due fasce raccordate ad un unico abaco, mentre
sono proiettati gli archi delle crociere alla stessa altezza in tutte e tre le navate. Nella zona presbite-
riana, vi sono finestre con trafori tondeggianti ad archi acuti, mentre in corrispondenza degli spigoli
vi è un sistema di pilastri con modanature orizzontali continue che girano attorno alle finestre: tutto
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in pieno stile gotico, il qual è ammirato da papa Pio II. Il timpano sopra il transetto è segnato da un
pilastro centrale, che rende un pieno in asse. Sul fianco della navata il portale è all’antica, con una
finestra superiore a bifora ad archi a tutto sesto interrotta da un elemento orizzontale in mezzeria e
con diversi cerchi nella lunetta superiore. La facciata, realizzata in travertino, ripropone le modana-
ture ed il timpano, in pieno stile antico, mentre dal Battistero di San Giovanni viene ripreso il telaio
di piedritti e trabeazione e la proiezione all’esterno della struttura interna dell’edificio. Da Santa
Maria Novella di Alberti, che a sua volta s’ispira alla Basilica Emilia, invece, Rossellino trae spunto
per affiancare ai pilastri delle piccole colonne poggianti sulla stessa base, così come si vede anche
negli edifici gotici, che usano lo stesso sintagma sebbene di forme e dimensioni differenti. Nel tim-
pano compare un terzo ordine di paraste decorate e risaltate dalla cornice superiore, mentre al centro
vi è un loculo tondo con ghirlanda antica e stemma papale: le paraste hanno riferimento all’arco di
trionfo antico, invece dall’architettura fiorentina sono riprese le nicchie incassate (che già ha usato
nella chiesa per una fraternità dei laici aretini) e il capitello pseudo-composito con decorazioni a
delfini.
Per quanto riguarda, invece, il Palazzo Papale si nota subito la sua somiglianza con il Palazzo Me-
dici, data dall’uso della pianta quadrata, dalla presenza di piani e ambienti man mano più nobili e di
due giardini, di cui uno pensile, poiché assieme al loggiato, sono costruiti su una piattaforma artifi-
ciale soprastante delle grotte.
Altro architetto che probabilmente lavora a Pienza è il senese Francesco di Giorgio Martini, artista
con formazione di pittore e scultore, ma anche di tecnico: è lui a realizzare gli acquedotti sotterranei
di Siena, che aumenta di circa ⅓ rispetto ai precedenti, risolvendo importanti problemi idraulici e
ingegneristici. A partire dal 1472 è alla corte di Federico da Montefeltro ad Urbino, dove si dedica
prevalentemente all'attività di architetto militare e civile. Qui, infatti, realizza il palazzo del signore,
che lo scrittore Castiglione Baldassarre definisce con dimensioni di vera e propria città, dato che
ospita un apparato di ben cinquecento persone. La costruzione del palazzo, però, inizia prima
dell’arrivo ad Urbino del Di Giorgio ed è affidata ad altri architetti fiorentini quali Maso di Barto-
lomeo, Pasquino di Montepulciano e Luciano Laurana, realizzazione che dura una ventina d’anni.
L’edificio è una via di mezzo tra una fortificazione ed un palazzo: Federico da Montefeltro, infatti,
è il principale capitano di ventura degli Aragona e del papa e può pertanto permettersi un enorme
dimora senza il bisogno di gravare sui propri sudditi con apposite tasse. Il primo nucleo è rappre-
sentato dalla parte mediana della lunga facciata prospettante sulla piazza del Rinascimento, l’ala
delle Iole, ispirata al Rinascimento fiorentino e adorna di cinque eleganti bifore: questa è la sola
parte rimasta intatta della primitiva costruzione affidata da Federico a Maso di Bartolomeo, scultore
e fonditore, già aiuto di Donatello e Michelozzo, che è tra i primi ad usare il timpano sui portali di
un edificio non sacro. In seguito il duca chiama il Laurana, allievo del Brunelleschi, a cui commis-
siona l’ingrandimento e la trasformazione della reggia, che l’architetto dalmata inizia subito co-
struendo il cortile, lo scalone, il salone del trono e dando inoltre assetto al prospetto verso valle.
Tutto attorno al cortile interno costruisce un loggiato, i cui angoli presentano una soluzione comple-
tamente inedita: vi è una separazione di fatto tra le quattro facciate per mezzo dell’introduzione di
un sistema di doppie paraste nello spigolo. A Firenze ciò non avviene, poiché la continuità è resa
grazie all’introduzione nell’angolo di una colonna; tipico fiorentino è, invece, il complesso di co-
lonne, archi e pennacchi con decori circolari, che lo stesso Brunelleschi usa più volte, come ad
esempio nell’Ospedale degli Innocenti. Inoltre, le paraste angolari sono disegnate realizzando sui
due fianchi porzioni verticali di lesene, per accentuare la divisione tra i quattro prospetti. Sebbene vi
siano alcune caratteristiche tipiche brunelleschiane, l’architettura del Laurana se ne distacca per il
fatto di utilizzare lungo tutto il cortile, un epigrafe che serve come appoggio ad un sistema di fine-
stre rettangolari all’antica e paraste a fusto liscio con capitello decorato di stile composito imperiale.
Questo apparato si ripresenta anche a Gubbio verso la fine degli anni ‘70, dove il Di Giorgio co-
struisce per Federico un altro palazzo, più piccolo e umile, ma con alcune differenze significative: il
cortile ha forma più irregolare e non è porticato su tutti i lati, non compare più nell’angolo la parasta
minore a fianco della maggiore e, inoltre, dispone accanto alle finestre lesene e trabeazione.
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Tornando ad Urbino, la parte più suggestiva e originale della costruzione è certo la facciata dei Tor-
ricini, dovuta al genio del Laurana, appartenente al prospetto occidentale. Sporgente rispetto al cor-
po del palazzo, la facciata è chiusa da due slanciate torri terminanti con due agili guglie; al centro,
fiancheggiati da finestre rinascimentali, si aprono tre logge sovrapposte, di cui particolarmente belle
sono le due superiori. La facciata è rivolta verso valle, in direzione del mercato e della via per Ro-
ma, con caratterizzazione prettamente medievale, in cui il signore ha il controllo ed il dominio su
tutto il suo territorio. Federico da Montefeltro è ritratto da Piero della Francesca in un dittico, in-
sieme all’immagine speculare della consorte del duca, Battista Sforza, anch’essa rappresentata di
profilo. I due dipinti, conservati nella Galleria degli Uffizi a Firenze, rispondono ai canoni della
ritrattistica rinascimentale: fedeltà alla fisionomia e alla psicologia del soggetto, cura dei dettagli
rivelatori dello status sociale. Sullo sfondo delle tavole compaiono le colline di Montefeltro, territo-
rio del duca, mentre proprio nel dipinto di questo ultimo si nota il naso segato nella parte superiore,
che Federico aveva voluto per vedere meglio in battaglia, dato che aveva perso l’occhio destro in un
combattimento. Le logge in facciata, sempre più ricche e decorate man mano che si sale, richiamano
per certi versi l’arco di trionfo di Alfonso d’Aragona a Napoli, del 1440, in cui compare il rilievo di
una parata che celebra la presa della città, con tanto di carri trainati da cavalli e incoronazione del
signore da parte della vittoria alata, in chiaro riferimento all’iconografia antica. Compaiono nella
soluzione delle logge alcuni elementi tipici dell’architettura di Alberti, il che fa pensare ad un pos-
sibile incontro con il Laurana: in corrispondenza del terzo livello vi è, innanzitutto, un sistema di
paraste scanalate con capitelli corinzi che reggono la trabeazione sopra le porte, mentre i riquadri
sopra di esse presentano tutti una cornice attorno e la volta è cassettonata e ricca di decori; inoltre,
anche il parapetto a doppio bulbo della balaustra ha caratteristiche tipiche fiorentine. Internamente,
si trova lo studiolo di Federico, impreziosito da tarsie lignee di essenze diverse accostate in modo
tale da rendere la prospettiva sui decori e i dipinti, anch’essa in connotazione fiorentina: tutte le
scene disegnate sono pertanto non reali, e vogliono riproporre gli oggetti e gli strumenti che più
rappresentavano il duca di Urbino, amante di musica e letteratura antica. Il tutto è scandito da un
sistema di paraste, a cui lavora anche il Di Giorgio, che disegna una lesena telescopica che
s’interrompe in corrispondenza dell’imposta dell’arco. Su questo livello si trovano anche gli appar-
tamenti ducali: è, pertanto, garantita una via di fuga segreta.
Scendendo di piano, l’architettura si semplifica molto nei suoi dettagli e decori: paraste, capitelli e
cassettoni sono più poveri, mentre cambia il tipo di balaustra, che diventa un semplice reticolo, di
possibile derivazione da quello della Porta Marzia a Perugia. Gli ambiente interni presentano due
cappelle di dimensioni ben ridotte, ma molto decorate e con policromie di marmi. Una delle due, la
Cappella del Perdono, presenta decorazioni di Ambrogio Barocci, artista che ha lavorato alla co-
struzione del Palazzo Ducale, sebbene la struttura non si sa bene chi l’abbia realizzata, se lo stesso
Di Giorgio oppure altri artisti come Bramante o Pietro Lombardo, dato che il carattere di questi am-
bienti è assai particolare rispetto al contesto del palazzo. Il Di Giorgio, infatti, interviene nei lavori
solo verso la metà degli anni ’70 e, pur attenendosi all’impostazione architettonica del predecessore,
espresse note personali di grandiosità e di finezza decorativa davvero personali. E’ lui che intervie-
ne anche negli spazi del primo livello, realizzando un bagno all’antica riscaldato e dotato di acqua,
in un contesto di ambienti irregolari recintati da una struttura continua di paraste e trabeazione. Sua
è pure la sistemazione delle due ali della parte nord-occidentale del palazzo, a fianco del giardino
pensile, a cui lavora assieme al Barocci, che effettua il rivestimento parziale delle pareti. Crea anche
un complesso di vani sotterranei quali stalle, depositi, armerie, cucine, ecc collegato ai piani supe-
riori per mezzo di un sistema verticale di scale percorribili a cavallo, con il centro cavo attorno al
quale sale la rampa in lieve dislivello. Per quanto riguarda la facciata delle due ali, essa è compro-
messa dalla presenza degli ambienti interni e dalle scale e presenta, pertanto, delle aperture sfalsate,
con una lavorazione della superficie non finita ad opus isodomum, che implica l’uso di blocchi
uguali per lunghezza, altezza e profondità. Il prospetto presenta soluzioni decorative molto sofisti-
cate, con paraste a doppio meandro, capitello aggettante continuo alla trabeazione, fregio complesso
inserzione della finestra in risalto e con stacco dalla mensola.
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Verso l’inizio degli anni ‘80, il Di Giorgio progetta e realizza il Duomo di Urbino, vicino al Palazzo
Ducale e in concomitanza con la costruzione della Cattedrale di Pienza per merito del Rossellino.
La chiesa ha caratteristiche albertiane: presenta, infatti, tre navate di cui la centrale coperta a botte e
le laterali a crociera; vi sono nicchie depresse scavate nei muri, transetto più grande della navata
principale e zona centrale del presbiterio con due ambienti laterali. A causa di un terremoto del Set-
tecento, il Duomo è ricostruito, con caratteristiche pressoché uguali al precedente. La facciata della
chiesa ha chiari rimandi al Sant’Andrea di Mantova, soltanto è più piana e priva di rilievi: è, infatti,
vero che le due corti sono in ottimi rapporti e avviene uno scambio di disegni in merito a ciò. Il
Duomo presenta timpano incompiuto, pilastri senza base e con decori simili a quelli di Alberti, pen-
nacchi sferici sostituiti da trombe gotiche e cupola ottagonale. Nel transetto è ripresa l’architettura
dello studiolo di Federico nel Palazzo Ducale, in particolare vi è il risalto del sistema costituito dalle
paraste telescopiche e dalla trabeazione.
Altro edificio costruito dal Di Giorgio è la chiesa di San Bernardino, situata sul colle antistante Ur-
bino e realizzata per i frati francescani e anche per custodire il sepolcro di Federico. La chiesa ri-
manda all’architettura funeraria antica e presenta impianto ad una sola navata senza cappelle latera-
li, ma con transetto quadrato e ben tre absidi. Qui, l’arco si sovrappone alla trabeazione (in risalto,
mossa da colonne angolari e segnata da epigrafe) ed è inquadrato da semicolonne, in richiamo allo
stile albertiano di Sant’Andrea. La decorazione si concentra nella zona del presbiterio e, seppure
conservi una certa sobrietà, è ben raffinata, come ad esempio nel capitello tripartito con volute, bac-
celli, foglie di acanto a scendere e palmetta a salire. Le finestre rettangolari della navata presentano
timpani triangolari e curvilinei, così come è nel Pantheon, e hanno una colonna al centro. L’esterno
è molto semplice e il ritmo di facciata è dato dalle modanature continue e dai contrafforti angolari,
mentre il chiostro è piuttosto spoglio, secondo la tradizione francescana di rimando alla povertà as-
soluta, e presenta pilastri murari bassi e larghi, come se fossero schiacciati dal peso superiore. Il
disegno della chiesa è eseguito dal Di Giorgio a filo di ferro, perciò molto schematico e lineare,
senza la presenza di spessori e profondità: ciò gli causa diverse errori di simmetria e proporzioni
durante la realizzazione dell’edificio.
La chiesa di San Bernardino, per certi versi, è abbastanza simile agli edifici militari: vi sono pochi
ornamenti e le membrature orizzontali marcano le pareti esterne ed interne. Proprio questi elementi
vengono ripresi dal Di Giorgio per costruire la rocca di Sassocorvaro, eretta in soli due anni a parti-
re dal 1476. L’edificio conserva una certa impronta del bastione classico, ma l’uso sempre più fre-
quente della polvere da sparo, e l’uso del cannone in particolare, porta l’architetto senese a adottare
particolari accorgimenti. Le mura si abbassano drasticamente, sono aumentate di spessore e inclina-
te a scarpa, per diminuire l’impatto con il colpo. La difesa non è più frontale, né a caditoia, ma di-
venta radente, disponendo le armi da fuoco tutto attorno. Sono protette anche le gallerie sottostanti,
per evitare che il nemico le faccia saltare con opportune cariche esplosive. Nel trattare le superfici,
non vi è molta differenza con la chiesa di San Bernardino: la muratura è liscia, in pietre e mattoni,
ed è percorsa da cordoli che interrompono la facciata, senza alcuna funzione portante, fatto che ci fa
capire che sebbene l’architettura militare sia di tipo tecnico, non rinuncia alla forma. Questo punto
sarà ripreso più volte nel corso del Cinquecento, in costante polemica fra la figura dell’ingegnere,
più tecnico e funzionale, e l’architetto, a cui interessa anche la forma. Nel cortile interno della rocca
troviamo pilastri semplici a base quadrata, trabeazioni e archi lisci non segnati da modanature (non
vi è l’archivolto).
Tra gli anni ’80 e ’90, il Di Giorgio costruisce la rocca di Mondario, in cui rinuncia a simmetria e
forma in funzione di fini puramente militari. L’impianto presenta un grosso torrione (il maschio), su
cui è centrato il sistema di difesa; anche qui le mura sono inclinate e concave, in modo da offrire il
minor campo possibile all’artiglieria nemica, determinando, così, linee spezzate e irregolari. Inoltre,
abbassa e interra la sua architettura, alzando il fosso murario che vi gira attorno, che viene protetto
da un sistema di cannoniere radiali. Per come sono trattate le superfici e le linee, che la fanno asso-
migliare più ad un’opera scolpita, questa architettura risulta completamente nuova rispetto alle altre
del Quattrocento.
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Tornando agli edifici religiosi, troviamo il convento femminile di Santa Chiara, posizionato su uno
dei colli di Urbino. L’edificio, costituito da un doppio ambiente distinto per i fedeli e le monache,
presenta una rotonda antistante lo spazio rettangolare della chiesa ed è sviluppato su tre livelli con
elementi arcuati e celle sopratanti. Il modello di base che il Di Giorgio utilizza, e che riprende più
avanti nelle sue ville, presenta due corpi laterali sporgenti, un loggiato di due livelli e paraste tele-
scopiche. Realizza attorno agli anni ‘90 anche la chiesa della Madonna del Calcinaio a Tortona, che
serve ad ospitare l’immagine della Vergine. L’impianto è quello semplice a croce latina, con una
sola navata voltata a botte, che comporta dei carichi strutturali consistenti: decide in questo caso di
non usare né contrafforti né sistemi di scarico particolari, bensì di gravare tutto il peso sui muri, che
eleva di spessore. E’ così possibile scavare al loro interno delle grosse nicchie e di inserirvi sopra
delle finestre rettangolari con timpano. Centralmente al transetto vi è una cupola di spessore ridotto
poggiante su archi ogivali, di connotazione gotica. All’interno delle nicchie il sistema delle paraste
presenta struttura a stipite, come se fossero piegate, e sia per queste sia per gli archi separa la moda-
natura superiore su due livelli successivi, su cui inserisce il capitello. Egli trae esempio dalle nicchie
romane di Todi, che presentano decorazione ridotta a trabeazione dorica, mentre all’interno delle
cavità delle pareti gli elementi orizzontali sono estremamente ridotti ed il capitello è molto sempli-
ficato. Errore che compie il Di Giorgio, che disegna a filo di ferro e privilegia l’architettura interna
a quella esterna, è quello di non tener conto degli spessori dei suoi elementi: ecco perché lateral-
mente al transetto la nicchia e la finestra soprastante non appaiono centrate nel muro e nel rapporto
visivo tra interno ed esterno non hanno corrispondenza (gli sarebbe bastato inclinare gli sguinci del-
le aperture perché ciò avvenisse). Successivamente a questi lavori, il Di Giorgio è chiamato anche a
Napoli e Milano, dove realizza il tiburio del Duomo di Milano, a cui lavora assieme a Bramante,
Fancelli e Leonardo. L’architetto senese muore nel 1502.
Architetto italiano considerato, insieme a Michelangelo e a Raffaello, una delle maggiori personali-
tà artistiche del Rinascimento italiano è Donato Bramante. Bramante compie la sua formazione arti-
stica come pittore, probabilmente presso la corte dei Montefeltro ad Urbino.
Uno dei suoi principali maestri è Fra Carnevale, noto anche come Bartolomeo Corradini, pittore
fiorentino noto per una serie limitata di opere: le principali sono le Tavole Barberini, due dipinti
raffiguranti la Natività della Vergine e la Presentazione al tempio, in cui le architetture antiche sono
dominanti sulle figure umane. Nella prima tavola è rappresentato un palazzo con un grande piano
terra loggiato aperto, dal quale si può vedere sia l’interno che l’esterno: compare un arco inquadrato
da colonne libere con capitello pseudo-composito, trabeazione e pennacchi di materiali preziosi, il
tutto in chiaro stile antico, mentre superiormente ci sono delle finestre con paraste laterali ed ele-
mento centrale tipo bifora. Le scene dipinte sono riprese dagli antichi sarcofagi. Nella seconda tavo-
la, invece, compare una chiesa ad impianto basilicale divisa in navate, con la maggiore coperta da
capriate. La facciata dell’edificio rimanda all’arco di trionfo: ha, infatti, colonna libera monolitica in
marmo eretta su un basamento e trabeazione che la ribatte, con decorazioni antiche; il pavimento è
dipinto come opus sectile, prettamente romano (lo stesso che usa Alberti a Sant’Andrea).
Altre figure che segnano la formazione di Bramante sono il Mantegna e Piero della Francesca. Di
questo ultimo è la Flagellazione di Cristo, conservata al Palazzo Ducale di Urbino, in cui compare
un’architettura molto complessa simile a quella antica, con un colonnato trabeato, copertura casset-
tonata e pavimento in porfido. Altro dipinto molto importante, realizzato per la chiesa di San Ber-
nardino è la Pala di Brera, che ripropone l’architettura fiorentina ed urbinate, dalle caratteristiche
paraste, trabeazioni e cassettonati. Piero della Francesca è uno dei primi maestri ad introdurre la
prospettiva, ma nei suoi quadri questa non compare così rigorosa e geometrica come dovrebbe.
Bramante compie i suoi primi lavori a Bergamo, dove riscuote grande successo con gli affreschi di
Filosofi, eseguiti nel 1477 nel Palazzo del Podestà. Interessante sotto certi aspetti è la cappella a
Giovanni Amadeo Cuorleoni, con impianto simile alla sacrestia Vecchia del Brunelleschi, con im-
pianto quadrato sormontato da una cupola, nella quale si sovrappongono diversi motivi, in una li-
bertà compositiva assoluta: in basso vi è un portale con paraste telescopiche e timpano con fregio
pseudo-dorico, sottostanti a finestre simili al tardo gotico lombardo inquadrate tra colonne. Salendo
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di livello vi è un rosone decorato, balaustrini che assumono talvolta funzione di piedritti alternati a
colonne, nicchie scavate e trabeazione. La cupola presenta decori con paraste. A Milano, dove
giunge intorno al 1482, inizia a lavorare come architetto, occupandosi del progetto per la chiesa di
Santa Maria presso San Satiro, a fianco del sacello carolingio. L’impianto ha pianta quadrata con
croce inscritta ed è composta di tre navate, la quale centrale ha una struttura ad avancorpo che si
apre su di essa. Straordinaria è in questo edificio la sua soluzione per l'abside, che non poteva essere
realizzata secondo i canoni tradizionali per mancanza di spazio oltre la parete di fondo: Bramante la
rappresenta allora pittoricamente, dipingendo una falsa prospettiva che suggerisce la profondità
spaziale. Con questo espediente, che gli permette di non rinunciare allo schema rinascimentale della
chiesa a pianta centrale (sancito dalla formulazione teorica e dall'opera dell'Alberti, al quale Bra-
mante trae esempio guardando a Sant’Andrea), dimostra un uso della prospettiva evoluto e sicuro.
Per Ludovico Sforza il Moro dà il suo contributo per numerose opere, elaborando tra l’altro i pro-
getti per i chiostri e la canonica per Sant’Ambrogio. Oltre alle cappelle laterali che ospitano le ca-
noniche, Bramante realizza un loggiato esterno che copre parte del cortile. Il tutto presenta la tradi-
zionale struttura di paraste, colonne ed archi, il quale capitello è composto di architrave, fregio e
cornice, nel pieno stile del Brunelleschi. Vi è qui il ricorso alla colonna alveolata, di stampo bizan-
tino, usata per non creare sgraziate sporgenze dal muro. Centralmente, viene inserito un arco più
grande che marca la porta d’ingresso alla chiesa, forse con l’intento di creare una piazza quadrata
chiusa nel loggiato, così come ne parlavano Vitruvio e Alberti nei loro trattati. Il cantiere di
quest’opera è gestito in maniera gotica: viene in pratica lasciata ampia libertà di lavoro agli scalpel-
lini.
Sempre per gli Sforza, nel 1488 Bramante costruisce il Duomo di Pavia, a pianta centrale, che per
proporzioni e verticalismo ricorda le strutture tardo-gotiche. Compaiono a sostegno della cupola gli
stessi piloni che riprenderà, poi, anche per San Pietro, presi a loro volta dalla chiesa di San Lorenzo
di Milano; usa un sistema di paraste ribattute e realizza sotto l’abside una cripta con semivolta ad
ombrello retta da pilastrini alternati a nicchie scavate e illuminate per mezzo di bocche di luce che
danno sull’esterno. La copertura della cripta rimanda all’antica struttura del caveau di Villa Adriana
a Tivoli, un grande complesso con colonne e archi trabeati disposti attorno ad uno specchio d’acqua
che finisce in un piccolo edificio voltato ad ombrello. A causa però dell’arrivo a Milano dei France-
si, nel 1499 Bramante è costretto a spostarsi a Roma, dove si dedica allo studio dell’antichità; qui
entra in contatto con circoli ed ambiente vicini alla corona di Spagna e al clero aragonese. E’ pro-
prio grazie a questi contatti che ha la possibilità di realizzare il chiostro di Santa Maria della Pace,
nella chiesa ottocentesca di Piazza Navona. Il chiostro porta con sé diverse innovazioni, sebbene
conservi alcune caratteristiche delle prime architetture di Bramante: fa uso di archi riquadrati (ripre-
si dal Colosseo), di paraste appiattite e archi senza archivolto, mentre, punto più importante, abban-
dona la pratica quattrocentesca del ricorso alla decorazione libera in favore di un uso più uniforme e
razionale dei decori, organizzato attorno ai cinque ordini classici (dorico, ionico, corinzio, tuscani-
co, composito). Con Bramante si assiste, infatti, ad uno stile architettonico più uniforme e universa-
le, che viene usato per tutto il Cinquecento. Il chiostro presenta paraste sia sulla muratura della log-
gia sia sulla faccia dei pilastri, di tipo ionico, rialzate su piedistalli e prive di capitello, con la sola
cornice in risalto (come era solito fare il Di Giorgio), mentre l’arco è impostato su un pilastro dorico
e, anziché basarsi sugli assi delle strutture, fonda sull’intercolunnio degli elementi verticali. Solu-
zioni particolari sono negli angoli, in cui le due colonne gemini si avvicinano quasi a diventare una
sola, in rimando a Palazzo Barbo, vicino al Campidoglio, a cui può aver collaborato anche l’Alberti.
Superiormente, compare una trabeazione con mensole nel fregio (come nel Colosseo) e un altro
sistema di paraste su pilastri con capitello composito, mentre in asse con le aperture vi sono delle
colonnine con capitello corinzio. In corrispondenza dei pilastri Bramante addensa le mensole: negli
angoli ne compaiono sei, mentre nelle altre due campate (ve ne sono quattro totali su ogni facciata)
ci sono sette mensole. Questo perché vi è un dimensionamento progettuale non uniforme nelle cam-
pate della loggia, in cui le due centrali, non si sa bene per quale motivo, sono più larghe.
Nel 1502 il cardinale Carvajal, su incarico del re di Spagna, commissiona a Bramante la costruzione
del Tempietto di San Pietro in Montorio, sul luogo in cui, secondo la tradizione, fu crocefisso l'apo-
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stolo Pietro. L’edificio, che si presenta come una cappella soprastante una cripta, segna l’inizio del
Rinascimento maturo, poiché è completamente all’antica, dati gli ordini architettonici con cui è rea-
lizzato. Per la sua realizzazione sono presi a modelli diverse architetture come, per esempio, la Si-
billa di Tivoli, un piccolo tempio di età repubblicana a cella circolare, perimetro con colonne, co-
pertura a cassettoni radiali e decori funerari con teste di bue, ghirlanda e patere; altro modello è il
Foro Boario, di età imperiale, che presenta cella circolare circondata da colonne corinzie realizzata
in conci lapidei pseudo-isodomi. Di entrambi gli edifici Giuliano da Sangallo realizza diversi dise-
gni. La piccola struttura periptera a pianta circolare del Tempietto di Bramante è amplificata e mo-
dulata dal ritmo delle sedici colonne, dalla balaustra superiore e dal tamburo che regge la cupola
seicentesca. E’, infatti, probabile, come si vede da alcuni disegni del Cinquecento, che la copertura
iniziale fosse a semicalotta, oppure ribassata a gradoni anulari, simile al Pantheon, così come la di-
segna il Peruzzi. Il tamburo presenta sull’esterno nicchie rettangolari alternate ad altre a conchiglia
ed ha in sommità una trabeazione a sostegno della copertura, che è in asse con la croce della cripta.
La zona bassa del tamburo, inoltre, non è del tutto lavorata, ma è lasciata in bianco, visto che tale
porzione non è visibile dal basso, mentre la parte superiore presenta decori molto dettagliati. Il
Tempietto ha decori ed elementi dorici, con un uso di simboli cristiani come calici e croci: tale or-
dine classico, imponente e severo, è, infatti, assegnato ai santi guerrieri come San Pietro, San Gior-
gio, ecc. L’interno ha alternativamente campate strette con finestra rettangolare e nicchia superiore
e campate larghe con arco e nicchia, simile al Sant’Andrea di Mantova, soltanto che in questo caso
le cavità non sono in corrispondenza delle diagonali. Un’attenzione particolare è resa agli elementi
architettonici disposti lungo le pareti, che non sono piatti ma incurvati secondo il muro; al centro
del pavimento vi è un foro che mette in comunicazione i diversi livelli. Infine, vi è un infittirsi di
elementi verticali sia all’interno che all’esterno: il portale si sovrappone alle paraste, inglobandole,
mentre rimane una certa connotazione nella base e nella continuità delle linee orizzontali, al fine di
mantenere una certa identità architettonica. Presumibilmente il progetto di Bramante non è stato del
tutto compiuto, poiché egli aveva previsto un cortile circolare attorno al Tempietto con una circon-
ferenza intermedia di colonne, come compare in un disegno del Serlio, dove tutti gli elementi con-
centrici sono disposti lungo le diagonali che escono dal centro dell’edificio. Anche per questa idea
può aver preso ispirazione dal Teatro Marittimo di Villa Adriana, in cui vi è un muro perimetrale
con loggia di colonne voltata a botte e con trabeazione con decori di tritoni, costruita attorno ad una
vasca d’acqua recante al centro un’isola. Siccome l’imperatore Adriano era di origini spagnole, è
possibile che Bramante volesse riprendere tale architettura e riproporla al re di Spagna proprio per
questa uguaglianza di patria.
Dopo questi due incarichi romani, Bramante diventa l’architetto di fiducia di papa Giulio II, il quale
dal 1505 dà avvio a due imponenti lavori per i Palazzi Vaticani e la Basilica di San Pietro.
L’architetto progetta il Belvedere, un cortile lungo trecento metri su tre livelli che mettono in co-
municazione i Palazzi Vaticani con la villa del papa. La corte iniziale presenta una lunga e ampia
scalinata centrale, in asse con la grande nicchia del livello successivo, con due rampe doppie sui lati
culminanti in un’ampia corte con logge laterali e nicchione centrale, destinata a rappresentazioni
teatrali e cerimonie religiose. Il loggiato presenta archi dorici inquadrati con due livelli superiori, di
cui uno con finestre a timpani alterni triangolari o curvilinei e paraste con ulteriori semi-paraste ac-
costate ai lati (a diventare una sorta di fascio), e un ultimo livello ad archi trabeati con un’enorme
targa. A conclusione del percorso realizza una scala a chiocciola che permette di salire ai vari livel-
li, la cui rampa presenta pendenza dolce, in modo tale da permettere la salita anche agli animali. Il
centro è cavo ed è caratterizzato da colonne portanti presenti in tutti e cinque gli ordini architettoni-
ci, che si alternano ai vari livelli. Inoltre, le modanature orizzontali di basi e capitelli sono inclinate
e ruotate, in modo tale da permettere una giusta visuale. E’ probabile che Bramante per disegnare
gli edifici del Belvedere abbia preso ispirazione dal tempio repubblicano della Fortuna a Palestrina,
feudo dei Colonna durante tutto il Quattrocento. I giardini non sono tuttavia realizzati secondo il
progetto bramantesco, per l'introduzione di un corpo di fabbrica trasversale che ne altera completa-
mente proporzioni ed effetto scenografico e per la fontana di fine Cinquecento che chiude l’invaso
centrale. Anche le due torri laterali alla corte intermedia inizialmente previste non sono più state
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La storia del Vaticano inizia in epoca romana, quando la piazza, recante al centro un obelisco, è
usata come necropoli e presenta sotto di essa una fitta rete di sepolcri, disposti lungo un’asse che va
da ovest ad est, con l’ingresso disposto verso sud. Il centro degli edifici che nei secoli si sono suc-
ceduti corrisponde al luogo in cui la tradizione vuole sepolto l’apostolo Pietro, in corrispondenza di
una doppia edicola sovrapposta (detta Trofeo di Gaio) chiusa da un muro rosso d’intonaco, situata
sotto l’altare papale, nel Campo P, che reca una cassetta con le ossa del Santo. In tale punto gli anti-
chi romani hanno sentito il bisogno di edificare una prima basilica, che Costantino realizza attorno
agli anni ’20 del quarto secolo d.C. intervenendo prima sul terreno in pendenza del colle vaticano,
per mezzo di opere murarie dette sostruzioni, con lo scopo di livellare la superficie e permettere la
costruzione della chiesa. La basilica costantiniana ha un’estesa piattaforma di 250×90 metri divisa
in cinque navate, con la centrale grande più del doppio delle laterali, con transetto e abside circolare
disposto verso ovest (è una chiesa occidentale), sopra la tomba di San Pietro, a differenza della tra-
dizione, che vuole invece l’abside ad est. La struttura portante è fatta di colonne di marmi preziosi
reggenti una trabeazione, sopra la quale vi è un paramento murario che porta le capriate lignee della
copertura. La basilica è arricchita ed ampliata negli anni successivi: papa Gregorio Magno, tra il
sesto e il settimo secolo alza il pavimento del presbiterio, al fine di rendere più agibile la cripta, e
realizza un percorso tutto attorno per permetterne la visita. Superiormente crea, inoltre, una piccola
finestra per dare modo ai fedeli di calare delle bende a contatto con la tomba. In seguito, si costrui-
sce il nartece e un cortile d’ingresso con un atrio porticato su tutti e quattro i lati: questo ospita una
cappella per il rito dell’incoronazione dell’imperatore, mentre al centro dell’atrio è posizionata la
Pigna bronzea con i due pavoni laterali, simbolo dell’immortalità della fede cristiana. Di questo ini-
ziale San Pietro resta ben poco, poiché viene man mano distrutto tutto, se non per un piccolo spazio
interrato che reca i sepolcri dei vecchi papi.
Nella prima metà del Cinquecento, la Città del Vaticano, ricco centro della cristianità, si presenta
come un laboratorio di idee e progetti: vi si trovano, infatti, i migliori artisti del secolo, quali Bra-
mante, Giuliano e Antonio da Sangallo, Baldassarre Peruzzi, Gian Lorenzo Bernini, Francesco Bor-
romini, Michelangelo Buonarroti, Raffaelo Sanzio, ecc. Al termine della cattività avignonese, papa
Niccolò V (1447-1455) concepisce l'idea di una prestigiosa sede papale, che testimoni l’importanza
e la potenza dello Stato Pontificio, affidandone il progetto all’Alberti, che propone, tra i molti inter-
venti volti a edificare un unico grande complesso, la preservazione della vecchia basilica. I lavori,
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però, si fermano a livello fondazionale con la morte del papa e del progetto albertiano non si ha più
traccia. Ne ritroviamo più tardi qualche disegno, che Martino Ferrabosco realizza nel 1619 basan-
dosi su ciò che scrive verso la metà del Quattrocento Giannozzo Manetti, biografo di papa Niccolò
V: compare qui un edificio a pianta centrale coperto a cupola con croci più strette e voltate a crocie-
ra su tre lati, realizzate quale ristrutturazione di quelle antiche, mentre il transetto presenta alte linee
gotiche (soluzione questa poco credibile). Poiché la vecchia basilica non si conserva, ma viene in-
vece distrutta, è facile che il progetto di riferimento non sia dell’Alberti, bensì del Rossellino, che
realizza la parte del coro che porta per l’appunto il suo nome. Perché i lavori riprendano bisogna
aspettare circa mezzo secolo, sotto papa Giulio II Della Rovere (1503-1513): uomo ambizioso e
assetato di fama, di larghe vedute ma irrequieto, da prima commissiona a Michelangelo di realizzare
un complesso scultoreo per la sua tomba, che da lì a poco il grande artista chiama “il Dramma della
Sepoltura” dato che il papa cambia idea più volte, interrompendo e riprendendo spesso i lavori. Del-
le cinquanta statue previste all’inizio attorno alla camera sepolcrale papale, se ne realizza un nume-
ro più contenuto e destinato ad un altro sito, probabilmente per il transetto del nuovo San Pietro, ma
a causa di ristrettezze economiche Giulio II deve abbandonare il progetto scultoreo per puntare
maggiormente sulla costruzione della nuova basilica. Michelangelo, nel suo smisurato disappunto,
sospetta il complotto e dubita perfino che i suoi rivali, soprattutto Bramante, architetto della nuova
San Pietro, lo vogliano avvelenare. Abbandona così Roma, per andare a rifugiarsi alla corte di Fi-
renze. Nel 1506 è comunque consacrata la fondazione della nuova basilica, per la quale si ricorre
alla pratica delle indulgenze per finanziarne la costruzione. Bramante, che ha già realizzato il Bel-
vedere per i Palazzi Vaticani, propone inizialmente di ruotare l’edificio di 90° in modo tale da avere
la facciata della chiesa di fronte all’obelisco: ciò avrebbe comportato lo spostamento della tomba di
San Pietro e non trova, pertanto, il consenso del papa. Anche un altro architetto, Fra Giocondo, pre-
senta al papa un suo progetto, in cui compare un impianto con croce latina, nartece ad “U” e un si-
stema di quattro cappelle sui lati lunghi e cinque in corrispondenza del coro, il tutto coperto da di-
verse cupole, così come appare a San Marco. A causa della sua utopia il progetto non è neanche
considerato. A Bramante tocca allora fare una nuova proposta, nella quale affianca la vecchia basi-
lica ad un sistema di doppi pilastri, colonne, nicchie e cupole, sebbene sappia già che non può fun-
zionare. Nella realizzazione della nuova basilica interviene Antonio da Sangallo il Giovane, che
riprende, specchiandolo, il progetto di Bramante: compare, così, un impianto a quincux (a cinque di
dado), in cui vi è una croce greca inscritta in un quadrato, con diversi ambienti sviluppati lungo le
diagonali. Entrambi si presentano quindi al papa e in tale occasione Bramante prende il disegno del
Sangallo e vi abbozza sopra: aggiunge tre ambulacri che circondano gli absidi, a realizzare delle
zone percorribili, e a questa nuova struttura attacca un corpo longitudinale. Ha in mente la chiesa di
San Lorenzo e il Duomo di Milano, che abbozza, da cui trae spunto per i grossi piloni che reggono
la cupola, larghi quanto una navata minore e con nicchie scavate attorno; inserisce, poi, anche una
serie di cappelle con altrettante nicchie, anch’esse coperte con cupole. Ancora una volta, però, il
papa non è contento, poiché è sua intenzione lasciare il coro già esistente e, inoltre, il nuovo proget-
to è di dimensioni troppo esagerate per poter essere realizzato in breve tempo. Si decide allora per
una soluzione ibrida di tutti questi progetti, ciò che il Di Giorgio chiama una figura composita con
testata centrale e corpo longitudinale. La prima pietra è posta in opera nell’aprile del 1506, quando
si inizia con il costruire i pilastri della crociera e i pennacchi trapezoidali, disegnati in modo tale da
meglio reggere la cupola (grande quasi come quella del Pantheon), che progetta lo stesso Bramante,
prevedendo un sistema di colonne tetragoni (formate, cioè, dall’insieme di ben quattro elementi por-
tanti) alternate a tratti pieni di muratura. Tutto intorno è posizionata una fila intera di semplici co-
lonne e si sceglie lo stile dorico per decorare sia queste, sia le slanciate paraste, sia la trabeazione. A
papa Giulio II succede Leone X de’ Medici, che affianca a Bramante Giuliano da Sangallo e Fra
Giocondo, che collaborano per creare nella prima parte del braccio della basilica una volta a botte,
mentre per l’abside si decide per una volta a conchiglia. Intanto, per preservare l’altare di San Pietro
durante i lavori e dagli agenti atmosferici (l’edificio è ancora privo di copertura) si costruisce un
piccolo tempio, detto tiburio, che ospita la sacra architettura. Nel 1514 Bramante muore, lasciando
la chiesa incompleta, nel progetto e nella realtà; intanto, anche il Belvedere è soggetto a crolli e dis-
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sesti, che contribuiscono a mettere in cattiva luce il suo operato. Gli succede Raffaello, poco più che
trentenne, che ridefinisce le idee del suo antecedente: prevede tre parti simmetriche con ambulacri,
quattro cappelle angolari di cui due nel corpo longitudinale e un nartece d’ingresso, e sostituisce il
coro bramantesco con un’abside simile agli altri tre. Fra i disegni di Raffaello, però, compare anche
una versione alternativa, in cui è lasciato il coro e sono posizionati in facciata due campanili. Nel
1516 il papa gli affianca Antonio da Sangallo il Giovane, che resta in cantiere per ben trenta anni, il
quale da subito realizza il deambulatorio esterno, con paraste, colonne e trabeazione in stile dorico e
con nicchie a timpano triangolare e loculo soprastante. Nel 1520 Raffaello muore e il Sangallo, ri-
masto l’unico architetto della basilica, scrive una lettera al papa nella quale critica la sua opera, di-
cendo che così come l’ha progettata Raffaello la navata centrale risulta troppo alta, stretta e buia.
Propone allora diverse soluzioni per correggere tale punto, come quella di introdurre tante piccole
cupole sulla navata centrale e sul transetto, di creare un ritmo alternato di cappelle grandi e piccole
lungo la zona principale o ancora di interrompere questa ultima con degli assi trasversali che distol-
gono lo sguardo. Studia attentamente anche la facciata, proponendo il ricorso all’intersezione degli
ordini architettonici. Gli viene affiancato Baldassarre Peruzzi, che torna a proporre la pianta centra-
le a croce greca e le cappelle angolari, tutto decorato da uno zoccolo di base e da lesene sulle faccia-
te. A papa Leone X succede Clemente VII de’ Medici (1523-1534), sotto il cui pontificato avviene
l’invasione dei lanzichenecchi, che distruggono e mandano in rovina il cantiere di San Pietro. Qual-
che anno dopo diventa vescovo di Roma papa Paolo III, della famiglia dei Farnese (1534-1549), che
fa riprendere i lavori della basilica e ordina di ridurre e semplificare le operazioni di costruzione, al
fine di ultimare l’edificio. Muore intanto anche il Peruzzi e Antonio da Sangallo procede realizzan-
do il muro divisorio tra la vecchia chiesa e la nuova e alza la quota del pavimento, così da migliora-
re la navata stretta e alta fatta da Raffaello. Progetta, però, un impianto longitudinale e ciò va contro
il volere del papa, che preferiva un impianto centrale, più veloce da edificare. Dal 1539 al 1546 i
lavori sono ancora interrotti, poiché il Sangallo realizza un modello ligneo costosissimo in scala
1:29 in cui espone un nuovo progetto a pianta centrale dove è aggiunto un atrio e diversi ambienti
secondari, ma si tratta di una soluzione troppo dispendiosa. Dopo la sua morte torna al Vaticano
Michelangelo, più che settantenne, che lavorerà alla basilica per ben 17 anni. Da subito egli critica
il costosissimo modello del Sangallo, sia per motivi strutturali che formali, trovandolo eccessiva-
mente sproporzionato, caotico e buio, troppo simile in ciò al gotico; ma disapprova anche la gestio-
ne del cantiere, fatto da una setta gallesca di persone corrotte e vicine ad Antonio e pertanto le fa
sostituire, e muove le sue accuse anche contro i prelati della basilica, anch’essi immorali, inutili
intermediari tra lui e il papa. Michelangelo è un profondo credente ed è inorridito dalla vendita delle
indulgenze e dalla situazione che gravita attorno alla costruzione della chiesa: è perciò che decide di
lavorare gratuitamente. Realizza un suo progetto, di minore forma ma maggiore grandezza, in cui
riprende la pianta di Bramante, isolata, centralizzata, semplice e ben illuminata, in cui elimina i
deambulatori e chiude le aperture degli archi di passaggio, trasformandole in cappelle. Torna quindi
alla pianta centrale coperta a cupola, con le cappelle angolari da cui emergono gli assi per le absidi
e con diverse scale di servizio laterali: l’impianto si presenta, così, come un quadrato intersecato da
un secondo ruotato. Lavora con un modello di creta, molto meno costoso di quello del Sangallo, a
cui opera per tappe. Con questi metodi Michelangelo arriva nel 1555 ad iniziare la costruzione del
tamburo e nel 1557 a livello della copertura dell’abside, sebbene perda i due anni successivi a de-
molirne una buona parte a causa di discrepanze tra gli elementi (è piuttosto vecchio e non va molto
spesso in cantiere). Inizia anche a progettare l’esterno, trattandolo in maniera plastica, per mezzo
dell’uso di paraste, nicchie e finestre, senza riuscire, però, a completarlo: muore, infatti, nel 1564.
Negli anni successivi la fabbrica della basilica continua, con numerosi interventi, non sempre vicini
al progetto di Michelangelo. Il nuovo San Pietro è affidato al Vignola, a Pirro Ligorio e infine a
Giacomo Della Porta, che realizza nel 1593 la cupola, con un tamburo sottostante con speroni strut-
turali sporgenti, due colonne laterali e trabeazione aggettante, probabilmente non del tutto simile al
disegno di Michelangelo. Nel primo Seicento Carlo Maderno allunga la navata, stravolgendo, così,
la visione della cupola, mentre sotto il pontificato di Alessandro VII (1655-1667) Gian Lorenzo
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Bernini compone il geniale, grande abbraccio della piazza ellittica con il colonnato a portico, recan-
te al centro l’obelisco.
Raffaello Sanzio
Raffaello Sanzio è tra i pittori e architetti più importanti del Rinascimento italiano. Nasce ad Urbi-
no nel 1483, figlio del pittore Giovanni Santi, con il quale inizia la sua formazione artistica, fino al
1500. A Firenze, nel primo periodo di attività, dipinge sotto l'influenza dello stile del Perugino, suo
maestro, come testimonia lo Sposalizio della Vergine del 1504, esempio classico di prospettiva pit-
torica. Nel dipinto, alle spalle delle figure in primo piano lo spazio si amplia a dismisura, strutturato
secondo linee di fuga convergenti in un punto immaginario, situato oltre una porta che si apre
sull'infinito. Alcuni elementi del quadro sottolineano la precisione del taglio prospettico: il pavi-
mento decorato a grandi rettangoli paralleli, le scalinate dell'edificio a pianta poligonale e le figure
sullo sfondo, progressivamente rimpicciolite dalla distanza. Il tempio posizionato sul fondo porta
diversi elementi caratteristici dell’architettura del Di Giorgio. Nel 1508 Raffaello è chiamato da
papa Giulio II a Roma, che gli commissiona la decorazione ad affresco di quattro stanze in Vatica-
no. Tra i vari dipinti, il più famoso è senz’altro la Scuola di Atene (1509-10) nella Stanza della Se-
gnatura. Il quadro, che raffigura Aristotele e Platone insieme ad altri filosofi dell'antichità, appartie-
ne al periodo della maturità artistica del pittore. La grandiosa concezione e il possente impianto pro-
spettico, uniti allo straordinario fascino della rievocazione di uno fra i momenti più alti nella storia
della civiltà occidentale, fanno di questo affresco uno dei più celebri capolavori del Rinascimento.
L’architettura illusionistica, ispirata probabilmente al Bramante e ai suoi progetti per la nuova basi-
lica di San Pietro, è riccamente disegnata da paraste, archi, volte a botte e cupole. Nella seconda
stanza vaticana, Raffaello affresca sulle pareti alcuni episodi che testimoniano l’intervento di Dio
nella storia della chiesa, tra cui anche la Cacciata di Eliodoro, in cui compare una rara tecnica ar-
chitettonica con colonne portanti che salgono davanti ai pennacchi fino a sostenere la base della
cupola, riprendendo il modello bramantesco. Soluzione diversa, questa, da quella che appare nella
chiesa di San Bernardino del Di Giorgio, in cui la colonna ha funzione decorativa, mentre il soste-
gno alla cupola è dato dalla trabeazione. La Cacciata di Eliodoro è una figurazione drammatica,
percorsa dal rapido ritmo del moto dei personaggi: le figure sono spinte ai lati, al centro vi è il vuoto
prospettico, che corre dritto all’orizzonte; le luci, che irrompono dall’alto, si ripetono a vortice sulle
curve delle cupole, con mirabili effetti di illuminazione scenica, il tutto sorretto da un basamento di
figure scolpite che rimandano alle cariatidi vitruviane. Poco dopo realizza la chiesa di Sant’Eligio
degli Orefici, vicino alla Via Giulia, con impianto a croce greca e cupola centrale, in cui riprende
l’uso di schemi a serliana; utilizza qui un ordine dorico e risolve il problema nell’angolo della tra-
beazione lasciando inalterate le metope e collocando una patera a segnare lo spigolo, con una semi-
parasta inferiore accanto a quella angolare. Tra le sue prime opere architettoniche va ricordata an-
che la cappella ad Agostino Chigi in Santa Maria del Popolo, interessante per la soluzione di ricerca
spaziale, per la policromia e lo sfarzo che caratterizzano l’ambiente interno, per la quale trova ispi-
razione direttamente dal Pantheon. Nel 1514 è nominato architetto della Basilica di San Pietro da
Giulio II, incarico affidatogli alla morte del Bramante, che ne aveva iniziato la costruzione nel
1506. In questo periodo Raffaello è l’architetto più importante di Roma, oltre che il primo pittore, e
l’anno successivo papa Leone X gli affida anche l’incarico della conservazione e della registrazione
dei marmi antichi. Costruisce Palazzo Branconio dell’Aquila, altra importante architettura in stile
dorico, con trabeazione contratta senza triglifi e metope, con residui delle regule sottostanti e slit-
tamento dei diversi elementi architettonici verso l’angolo; internamente si cela un cortile con quat-
tro alzati uno diverso dall’altro, in stile dorico completo. Sempre nello stesso periodo progetta e
realizza la residenza per Jacopo da Brescia e Palazzo Querini.
Su commissione del cardinale Giulio de’ Medici, cugino di papa Leone X e futuro pontefice sotto il
nome di Clemente VII, cominciano i lavori per una villa (chiamata in seguito Villa Madama, in
onore di Margherita d’Austria) ai piedi di Monte Mario, la cui progettazione di massima viene affi-
data allo stesso Raffaello, che si avvale dei suoi discepoli per i dettagli dell’esecuzione dei lavori.
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Per questo edificio numerosi sono gli esempi presi in riferimento: vi è, ad esempio, la villa quattro-
centesca di Poggio Accaiano costruita per Lorenzo de’ Medici da Giuliano da San Gallo, che si pre-
senta come un’architettura all’antica attorno ad un giardino regolare, con impianto ad “H” e facciata
con fronte di tempio, antistante un loggiato voltato a botte, come pure il soffitto del salone principa-
le. Altro rimando è quello a Villa Chigi del Di Giorgio, caratterizzata da pochi decori, recinti e cor-
nici che sottolineano le verticalità, impianto ad ali con pilastri esili in corrispondenza degli archi e
paraste pseudo-corinzie sugli angoli; possibili riferimenti sono anche al teatro marittimo di Villa
Adriana e al complesso dell’Alhambra di Granada, col quale Raffaello viene a contatto grazie ad
architetti spagnoli che agli inizi del ‘500 si trovano a Roma. Villa Madama presenta una facciata ad
emiciclo con un solo ordine di grandi finestre, inquadrate da una doppia cornice di colonne; sono
proposti preziosi stucchi di Giovanni da Udine, con fasce verticali di delicate composizioni a spighe
e piccoli medaglioni o riquadri di varia forma geometrica con figurine e scenette di netta derivazio-
ne classica, probabilmente riprese dalle terme romane. Alle figurazioni in bianco del vestibolo fa
invece contrasto la decorazione ricca di colore della loggia, ispirata ad antichi edifici romani e ini-
ziata, secondo la tradizione, da Raffaello e portata a termine dai suoi allievi, tra cui lo stesso Gio-
vanni da Udine e Giulio Romano. Tutta la parte bassa di questa decorazione è stata cancellata quasi
completamente, ne rimangono dei piccoli affreschi di soggetto mitologico e letterario in un quadro
ricco di elementi ornamentali come fiori, foglie, panneggi, figurine mitologiche, bestioline e bizzar-
ri disegni geometrici. Ricca di motivi araldici è anche la decorazione delle due sale sul lato destro
della loggia, con belle finestre a crociera di sapore quattrocentesco. Ma quella che, dopo la loggia
raffaellesca, costituisce il maggior pregio artistico della villa è la sala detta di Giulio Romano, con
uno splendido soffitto a volta e decorazioni di vario stile in un ambiente molto grande.
L’attività di Raffaello, oltre alle già citate architetture, si fonda inoltre su un numero considerevole
di affreschi, pale d’altare e tele, che fanno di lui uno dei disegnatori più grandi e prolifici del tempo:
di lui sopravvivono oggi oltre 400 disegni, mentre molti altri sono andati perduti nel corso dei seco-
li. Muore la notte del 6 aprile 1520, alla giovane età di trentasette anni. Sulla sua tomba, collocata
nel Pantheon, Pietro Bembo scrive: «Qui giace Raffaello, dal quale la natura temette mentre era
vivo di essere vinta; ma ora che è morto teme di morire».
Baldassarre Peruzzi
Tra le figure più rilevanti del Cinquecento vi è anche Baldassarre Peruzzi, pittore e architetto italia-
no che nasce a Siena nel 1481. Conduce il suo apprendistato pittorico nella città natale e a Roma,
dove si dedica allo studio dell'antichità, in particolare l'architettura, e subisce l'influsso dell'arte pit-
torica del quasi coetaneo Raffaello, con il quale stringe una forte amicizia. Suo principale maestro è
Francesco Di Giorgio Martini, del quale ammira notevolmente l’austera Villa Chigi: caratterizzata
da pochi decori in favore di recinti e cornici che sottolineano le verticalità, l’edificio ad ali presenta
pilastri esili in corrispondenza degli archi e arretramento delle paraste pseudo-corinzie sugli angoli,
in modo tale da far perdere la definizione di chiusura delle facciate. Opera del Peruzzi è, invece,
Villa Farnesina, situata nel quartiere di Trastevere, nei pressi di Porta Settimiana, commissionata
dal banchiere senese Agostino Chigi (da cui la frequente denominazione di Villa Chigi) e iniziata a
partire dal 1505. Luogo di feste e incontri mondani, cui partecipano cardinali, diplomatici, principi,
artisti e letterati, la villa è lasciata in rovina dopo la morte di Chigi. Nel 1577 la compra Alessandro
Farnese e da allora viene chiamata Farnesina. Simile per certi versi al Palazzo della Rovere costrui-
to nel 1495 da Giuliano da Sangallo a Savona, qui il Peruzzi ripropone l’impianto ad ali, con conno-
tazioni più definite, e lega tutto l’edificio con l’uso attento degli ordini, chiaramente visibili e indi-
viduabili, grazie alla cornice che attraversa i capitelli, che appaiono così immersi nella trabeazione,
e alla marcatura su ogni facciata delle paraste doriche: ciò pare inquadrare ogni prospetto da un
consistente telaio architettonico che scomparta e regolarizza i vari ambienti interni. In alto, un ele-
gante fregio a festoni e putti corre sotto la cornice. Ogni finestra presenta sulla facciata un lieve ri-
salto inferiore, fino al livello del calpestio interno, mentre ne introduce di nuove aperte nella trabea-
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zione ed altre appese, per dare luce ai mezzanini superiori ai due livelli principali, in rimando alla
tradizione antica e ai lavori dell’Alberti e del Di Giorgio. Superiormente si trova una piccola loggia
di affaccio sul Tevere caratterizzata da paraste angolari irrobustite da doppie lesene laterali, mentre
le altre in campata sono ribattute ed inquadrano l’arco. Un’altra loggia, più ampia, viene aperta al
piano terra sul giardino ed è connotata dall’uso di tarsie marmoree sul pavimento, pilastri associati a
paraste e reggenti gli archi e diverse nicchie che probabilmente ospitavano dei busti scultorei. Tale
ambiente è chiamato Loggia di Psiche, dal nome del raffinato ciclo di affreschi eseguiti sulla volta
da artisti della scuola di Raffaello, dedicati alla favola di Amore e Psiche (terminati entro il 1518).
Le scene mitiche sono incastonate entro l’intreccio di un finto pergolato dipinto da Giovanni da
Udine, in una commistione tra il reale ed il fittizio di colonne, trabeazione, paraste, ecc. In una delle
sale contigue con la loggia si trova l'affresco di Raffaello Il trionfo di Galatea, mentre Sebastiano
del Piombo affresca dodici lunette con immagini mitologiche. Dipinge, inoltre, l'immagine del ci-
clope Polifemo affiancata all'affresco raffaellesco, mentre il soffitto della sala di Galatea è dipinto
da Baldassarre Peruzzi, che raffigura attraverso temi mitologici l'oroscopo di Agostino Chigi. In
realtà una delle lunette risulta estranea alle altre, quella con la cosiddetta testa gigante, poiché non
risulta dipinta da Sebastiano e vi è disegnato a carboncino, senza colori, un grande volto che occupa
tutta la lunetta. La leggenda vuole che questo disegno appartenga alla mano di Michelangelo, venu-
to in visita all'amico Sebastiano del Piombo, che avrebbe disegnato questo valido esempio di studio
anatomico per "dare una lezione" al rivale Raffaello, che lavorava al Trionfo di Galatea: leggenda,
però, infondata, poiché è stata dimostrata la paternità del disegno al Peruzzi. Al piano superiore si
trova la Sala delle Prospettive, decorata dal Peruzzi, secondo tre temi fondamentali di rimando alla
tradizione architettonica antica, alla cultura prospettica (resa dall’attento studio della cromia e della
luminosità) e all’esibizione del simulato di colonne e paraste in cui irrompono elementi reali della
camera, come finestre e camino. Data l’immensa fama dei suoi stucchi e delle sue decorazioni di
connotazione antica, il Peruzzi viene incaricato di realizzare la volta dorata per lo studiolo di un
cardinale nel Palazzo della Cancelleria a Roma ed il fronte della chiesa di Santa Maria in Castello,
detta la Sagra, esempio di facciata a intersezione di diversi schemi e ordini architettonici. Nel 1518
papa Leone X Medici indice un concorso per la realizzazione della Chiesa nazionale di San Gio-
vanni dei Fiorentini a Roma, il quale è vinto dal Sansovino, sebbene non vi siano disegni che ci mo-
strano il suo progetto. Si hanno, però, esempi del Sangallo, di Raffaello e anche del Peruzzi, in un
confronto di forme ripreso direttamente dal Pantheon. Qui l’architetto senese propone la costruzione
di una corona circolare con cappelle, vani e nicchie di diversa configurazione planimetrica, in un
impianto di partenza a pianta esagonale caratterizzato da alcuni ambienti lungo gli assi. Il Peruzzi,
inoltre, in quegli stessi anni ha modo di distinguersi per i suoi affreschi nella chiesa di Santa Maria
della Pace, soprattutto per la Presentazione di Maria al tempio, in cui compaiono architetture anti-
che. L’anno 1520 è segnato dal dolore, in quanto vi muore Agostino Chigi e l’amico Raffaello. Del
1524, invece, è la realizzazione del palazzo per il vescovo di Norcia (non pervenuto fino ad oggi),
antistante Palazzo Farnese, che propone piedritti e trabeazione dorici e tuscanici, e colonne tuscani-
che, con aspetto simile all’arco di trionfo antico e con rimando alla serliana. L’esterno presenta
mensole triglifate, che saranno molto usate negli ani seguenti, e finestre incorniciate; una soluzione
particolare è usata attorno alle cornici delle aperture, le quali presentano una mensola in corrispon-
denza della membratura verticale nel caso delle finestre e due nel caso si tratti di porte. Sebastiano
Serlio, allievo del Peruzzi, nei suoi trattati studia e rileva queste soluzioni, proponendole in diversi
disegni. Dal 1514 il Peruzzi è coinvolto nella fabbrica di San Pietro, per la quale costruzione sugge-
risce una facciata caratterizzata dalla presenza di tre templi e a partire da questa presenta numerose
altre soluzioni, in particolare nella disposizione planimetrica delle cappelle parietali. Durante il Sac-
co di Roma, nel 1527, ad opera delle truppe dell'imperatore Carlo V, il Peruzzi si rifugia a Siena,
dove diviene architetto della Repubblica. Qui viene incaricato di rinnovare il sistema difensivo della
città: aumenta lo spessore dei muri, realizzandoli a scarpa, e introduce numerosi bastioni collegan-
doli tra loro con un percorso continuo coperto a botte, creando in sommità diverse camere di sparo
con più aperture per i cannoni (sebbene risultino poco funzionali). Tutta l’architettura è caratterizza-
ta dalla sporgenza di tori e mensole nella trabeazione. Altri interventi del Peruzzi sono quello ri-
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guardante la costruzione di Palazzo Cesi-Follini, dai caratteristici giardini pensili, in cui riprende
alcuni elementi, come i muri a scarpa e i tori sporgenti; altri numerosi progetti sono per una resi-
denza in Via Fusari, una zona difficile da edificare data l’irregolarità del lotto, che prevede di rea-
lizzare con un portico in facciata, e diversi disegni per il Duomo e la chiesa di San Domenico. Su
volere del papa, che intende finire l’opera del nuovo San Pietro, torna a Roma nel 1530. Propone un
intervento all’interno economico e veloce, che non prevede la demolizione delle parti già costruite,
che intende soltanto chiudere e usarle come facciata per abside e transetto, in un invaso centrico a
tre campate. Parallelamente, però, porta a limiti estremi la facciata della basilica, per la quale conti-
nua con la precedente idea dei prospetti dei tre templi, stavolta riaccostando i due laterali a quello
centrali per mezzo di due portici. Negli stessi anni, la famiglia Savelli chiede al Peruzzi di interveni-
re nel progettare la veste definitiva di residenza Orsini, sulle rovine del Teatro di Marcello, per la
quale prevede di ripristinare il livello più basso, interrato per ⅔ dell’altezza; irrobustire la struttura
portante, ricavare nuovi ambienti interni e completare il tamponamento ad arcate ioniche. Nel 1535
inizia uno dei suoi maggiori capolavori, il Palazzo Massimo alle Colonne, notevole per la sobrietà
dei decori e per la convessità della facciata. Già nel suo progetto di partenza, il Peruzzi prevede di
costruire un portico d’ingresso in facciata, simbolo di prestigio e potenza, che rimane come punto
base del programma; nella versione definitiva conserva le murature iniziali e introduce la facciata
curva, della quale rifinisce il bugnato e gli elementi decorativi completamente in stucco. Interna-
mente, vi sono tre portici di diverse varietà architettoniche. Baldassarre Peruzzi muore a Roma il 6
gennaio 1536. Il suo corpo è sepolto nel Pantheon, assieme ad altre personalità della storia dell’arte
italiana, tra cui anche l’amico e collega Raffaello Sanzio.
Giulio Romano
La Roma cinquecentesca vede la concentrazione d’illustri personaggi nel campo artistico e architet-
tonico, spesso e volentieri a disposizione di papa Giulio II, intenzionato a rilanciare il papato pun-
tando su un’immagine imperiale che si rifà direttamente all’epoca romana. Il rifacimento agli ordini
classici avviene qui senza particolari intermediazioni, data la mancanza di una tradizione architetto-
nica ed artistica locale, com’è invece per Firenze: vi è, quindi, una totale libertà di movimento, che
si coniuga perfettamente con la larga presenza di straordinari talenti. Fra i tanti artisti vi è anche il
pittore e architetto Giulio Romano. Allievo prediletto di Raffaello, assiste il maestro in molte delle
sue ultime opere. Dopo la morte di Raffaello ne eredita una parte del patrimonio e porta a compi-
mento il progetto delle Stanze Vaticane con gli affreschi, eseguiti in collaborazione. Sua prima ope-
ra nota, realizzata all’età di venti anni, è Villa Turini, vincolata dalle rovine di una dimora antica sul
Gianicolo: l’edificio è una struttura completamente chiusa, salvo per una loggia aperta sul Tevere,
ed è caratterizzata dal succedersi di ordini architettonici, come semicolonne e paraste pseudo-
ioniche che segnano l’arco di accesso, con queste ultime che al piano superiore sembrano immerse
nella muratura (è una soluzione presa dallo stesso Raffaello, che tende a togliere la funzione di so-
stegno a tali elementi per farli apparire come pure decorazioni) salvo per le volute ben visibili, che
espande anche negli angoli delle finestre. Le paraste scompaiono nel mezzanino ed è presente una
trabeazione dorica contratta e senza fregio; la loggia ha colonne rette da piedistalli, modanature ap-
piattite in sommità, verticali tra gli ordini successivi ben pronunciate, concatenazione di archi senza
archivolto ed elementi a serliana. Le finestre sono appese alla facciata e non hanno quindi sostegni
sottostanti; come già detto nelle mostre di queste aperture sono riprese le volute dei capitelli. Altro
edificio che realizza negli stessi anni è Palazzo Stati Maccarani, situato tra Piazza Navona ed il Pan-
theon, per richiesta di un nobile romano. Qui propone un basamento con bugnato pseudo-isodomo
che presenta in corrispondenza dell’ingresso un timpano superiore al portale con bugne interne al
triangolo; superiormente vi sono due piani nobili con finestre a timpano alterno triangolare o curvi-
lineo inquadrate da fasce continue a quelle del basamento e con trabeazione architravata senza fre-
gio. Al piano terra il bugnato si interrompe in corrispondenza della trabeazione e vi è uno svuota-
mento murario attorno alle finestre delle botteghe, il che fa apparire i conci vicini come un grosso
assemblato a forma di parasta, ripreso anche nella trabeazione. Molta cura Giulio Romano presta
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nell’inserire nella struttura pseudo-isodoma delle bugne le aperture, che connota con una piattaban-
da superiore. Internamente si cela un cortile, configurato tutto attorno da una sovrapposizione di
paraste esili ed allungate rette da piedistalli che riquadrano le diverse altezze delle facciate che dan-
no sullo spazio aperto. Per se stesso, invece, progetta una residenza in un lotto gotico (ovvero stretto
sulla strada e lungo verso l’interno) a Roma, in cui usa un bugnato molto raffinato nel basamento e
grosse paraste in cui sono ripresi i conci con un’esile trabeazione superiore, sopra la quale è ripreso
il bugnato. Per fare ciò trae riferimento dal tempio di Claudio, che presenta tre tabernacoli con co-
lonne e semicolonne conformate da rocchi grezzi non lavorati: l’intento degli antichi era quello di
montare in loco pezzi naturali e di rifinirli in un secondo momento, per non danneggiarli.
Nella sua abitazione, inoltre, vi sono finestre che si stringono leggermente verso l’alto e presentano
la parte inferiore raffigurata. Tale facciata è ricostruita di recente in scala 1:1 in una mostra su Giu-
lio Romano a Palazzo Te, sua massima opera.
Nel 1524 accetta l’invito di Federico Gonzaga, signore di Mantova e grande mecenate, e si trasferi-
sce nella città lombarda per progettare una serie di opere ingegneristiche, architettoniche e pittori-
che. Qui la sua prima opera architettonica è Palazzo Te: si tratta di un edificio di un solo livello (vi
è soltanto un mezzanino superiore) a pianta quadrata, con al centro un grande cortile anch’esso qua-
drato, con quattro entrate sui quattro lati. L’entrata principale verso il giardino è una loggia, che
presenta arcate tetrastile e serliane. Inizialmente tale loggia ha la campata centrale più ampia delle
due laterali, che Andrea Pozzo regolarizza nel Settecento, per dare un aspetto più antico. Tra le sue
modifiche vi è anche il grosso timpano superiore dotato di un lungo percorso aperto e il riordino
delle verticali della facciata, a cui Giulio Romano non dà alcuna simmetria. Originali del Cinque-
cento è, invece, la successione di ordini quali grosse colonne doriche inferiori sormontate da altre
ben più piccole con volute ioniche: tale salto di proporzioni è riscontrabile in epoca antica nelle
terme di Diocleziano, che presentano nicchie con tabernacoli decorati da colonne e trabeazione, o
anche nell’arco di Costantino, con schermo di colonne libere su piedistallo e trabeazione su un fon-
dale retrostante di paramento raffigurato. Tutta la superficie esterna di Palazzo Te è trattata a bugna-
to, comprese le cornici delle finestre e delle porte, e presenta un ordine gigante di paraste lisce dori-
che, che si addensano sugli angoli; molto usati sono gli stucchi, i mattoni ed i materiali gettati. Gli
intercolunni non sono tutti uguali e danno l’impressione di disordine, mentre le campate sono carat-
terizzate da finestre disegnate da conci e segnate dalle verticali. In facciata, in corrispondenza
dell’angolo dell’arco di accesso, vi è un’interruzione delle scene raffigurate risolta con l’utilizzo di
una piccola colonna posta proprio sullo spigolo, che torna ad offrire una discordanza di scala. Nella
sala di Psiche la decorazione a fresco dedicata alla potenza dell'amore è tra i cicli più noti della pit-
tura italiana: sono qui raffigurati grossi capitelli pensili ed esili padiglioni da giardino che fingono
di reggere la struttura della stanza. La stessa funzione è data ad una statua di cariatide dalle alte
proporzioni posta a lato. L’innovazione e la varietà sono componenti fondamentali in questa archi-
tettura di Giulio Romano: troviamo sul lato ovest un’apertura a vestibolo quadrato, con quattro co-
lonne che lo dividono in tre navate, la centrale coperta con una volta a botte e le due laterali con un
soffitto piano, con grosse colonne doriche non finite e volta scavata a grandi lacunari ottagonali. La
loggia delle muse, così chiamata per le immagini rilevate a stucco sulla volta, dà accesso all'ampio
cortile, la cui trabeazione presenta il motivo dei triglifi cadenti, in cui è lasciata una parte vuota nel-
la zona superiore, per dare l’idea di caduta e di rovina dell’architettura. Nella zona sottostante al
triglifo compare un concio del bugnato più grosso e sporgente rispetto agli altri, mentre ancora più
sotto vi è il timpano bugnato delle finte finestre che pare spingere verso l’alto, a contrasto del trigli-
fo. Famosa è la sala dei Giganti, celebrata per il potere di coinvolgimento che esercita sullo spetta-
tore: in una sorta di configurazione a grotta, la volta e le pareti, dipinte senza soluzione di continuità
lineare e di sostegni, rappresentano la rovina dei giganti fulminati da Giove e travolti dal crollo del-
le falde dell’Olimpo. Unico punto saldo è il loculo centrale alla volta, attorniato da un giro di lacu-
nari circolari. A fianco, la sobrietà torna ad essere protagonista nell’imponente e trionfale sala dei
cavalli, dalle pareti ornate da una ricca architettura dipinta scandita da lesene corinzie e nicchie con
finte statue, che inquadrano sei cavalli delle famose scuderie dei Gonzaga.
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Degli inizi degli anni ’30 è l’appartamento Troia all’interno del Palazzo Ducale, con numerosi busti
e raffigurazioni che celebrano l’omonima guerra antica. La loggia ha una testata che rimanda alla
serliana e denota caratteristiche tipiche della scuola raffaellesca; è anche evidente il dialogo con lo
stile dell’Alberti (che introduce per primo l’arco che sormonta la trabeazione), poiché qui Giulio
Romano crea il meccanismo opposto della trabeazione che taglia l’archivolto, tornando a mettere in
dubbio la funzione portante dei due elementi, in favore della pura decorazione. Questo ambiente è
affiancato dal giardino, che si trova in posizione centrale rispetto ai due contrapposti spazi abitativi.
La facciata presenta sequenza di archi inferiori bugnati con un livello superiore di colonne tortili a
scanalature spiraliformi (con riferimento alla pergola costantiniana di San Pietro) con fregio sopra-
stante dorico e attico. Qui la soluzione delle bugne acquista forma a diamante ed è posto il triglifo
in asse con il capitello delle colonne, sebbene compaiano diversi errori nella simmetria di metope e
triglifi. Sotto l’appartamento vi è una grotta artificiale voltata in richiamo alla natura. Anche qui a
Mantova Giulio Romano realizza un’abitazione personale, intervenendo su un edificio già esistente,
a cui cambia alcuni spazi interni e crea una facciata. Non vi è un uso proprio degli ordini architetto-
nici, piuttosto il bugnato è impiegato in forma di parasta, e vi è un uso antico dei decori a doppio
meandro delle cornici delle finestre; è ripreso da Palazzo Te il timpano bugnato con la chiave di
concio che spinge verso l’alto. Pure su quest’architettura interviene secoli dopo Andrea Pozzo, ag-
giungendo delle campate, spostando il portale in posizione più simmetrica, portando alcune modifi-
che al taglio delle finestre e alla forma delle nicchie.
Ridisegna in seguito la chiesa di San Benedetto in Polirone, un edificio a tre navate con cappelle
laterali a cui lascia la struttura a serliana e aggiunge il nartece e la copertura dell’abside (detta cati-
no); riveste, inoltre, le volte a crociera ed i pennacchi e per le campate interne usa capitelli immersi
in differenti soluzioni. La campata ritmica in facciata risale al Settecento, mentre egli interviene
introducendo una sequenza di timpani e semitimpani sopra gli archi (in richiamo all’antico emiciclo
degli archi traianei) e allarga sempre più le campate dalle paraste, in modo tale da far coincidere i
loculi aperti nel prospetto con le cappelle. Si trova pertanto ad avere un’irregolarità in facciata, che
riorganizza mantenendo inalterato l’arco e modificando la trabeazione. Impiega capitelli pseudo-
corinzi con vaso scanalato e foglie di palma al posto dell’acanto, mentre vi sono in corrispondenza
dei portali delle unità murarie sporgenti dalla facciata. Altro edificio sacro frutto del suo talento è il
Duomo di Mantova, la cui facciata è ritoccata nel Settecento. La chiesa ha origini romaniche, su cui
Giulio Romano interviene per ordine del cardinale Ettore Gonzaga e porta le navate da tre a cinque,
man mano più basse e con le laterali voltate a botte con lacunari, oltre alle cappelle marginali, alter-
nate a botte e rettangolari (com’era solito fare Alberti). Sostituisce i pilastri ottagonali in cotto con
colonne (corinzie per base e capitello, in rimando al Pantheon) portanti che reggono la trabeazione
soprastante e utilizza una sorprendente varietà artistica su paraste ed altri elementi decorativi. Lo
stesso Sansovino s’ispirerà a Giulio Romano, riprendendo tecniche e motivi architettonici, fino ad
acquisire un proprio stile autonomo e personale.
Jacopo Sansovino
Come ben sappiamo, la costruzione della cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze è intrapresa
nel 1296, su progetto di Arnolfo di Cambio, e si conclude con la cupola quattrocentesca realizzata
dal Brunelleschi. La facciata progettata da Arnolfo di Cambio, però, rimane incompiuta e di essa
oggi ci restano solo alcuni frammenti, poiché nel Cinquecento i Medici la fanno demolire: essa era
caratterizzata da motivi antichi, con raffigurazioni di scene sacre, statue di personaggi biblici e volta
d’ingresso a cassettoni. Viene ripresa nel 1515, in occasione del ritorno a Firenze di papa Leone X,
al secolo Giovanni de' Medici, per il quale sono chiamati diversi architetti illustri per realizzare lun-
go il percorso di rientro alcune opere d’arte. Per la riqualificazione della facciata del Duomo di San-
ta Maria del Fiore è dato incarico allo scultore e architetto fiorentino Jacopo Tatti, la cui formazione
è avvenuta nella bottega di Andrea Sansovino, in onore del quale assume il nome. Egli realizza il
binato di archi e nicchie, riprendendo la forma dell’arco di trionfo e il timpano nella parte superiore.
Poco più tardi gli viene affidata anche la facciata del San Lorenzo, chiesa medicea per eccellenza,
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sebbene l’opera sia ancora rimasta incompiuta. In questa occasione il Sansovino riprende per certi
versi l’allestimento voluto dall’Alberti per Santa Maria Novella, con basamento di piedritti e para-
ste, arco centrale di connotazione antica, estese superfici trattate in modo narrativo e apparato cele-
brativo sul timpano, con una netta ostentazione delle decorazioni dell’apparato architettonico.
Dal 1516 l’artista soggiorna a Roma e qui vince il concorso per la realizzazione della chiesa di San
Giovanni dei Fiorentini, il quale progetto a pianta centrale mostra i suoi gusti classicisti, malgrado
problemi tecnici che fanno subentrare Antonio da Sangallo il Giovane nel disegno dell’opera. E’
invece realizzato Palazzo Gaddi, dimora di ricchi banchieri fiorentini incentrata attorno a due suc-
cessivi spazi aperti che articolano l’architettura, la cui esecuzione è tuttavia spesso attribuita a Giu-
lio Romano. Il primo cortile ha aspetto più aulico e decorato, a dispetto del secondo, più povero e
sobrio, e ritroviamo le serliane a nicchia interna incluse nell’arco tipiche di Villa Lante, Palazzo
Madama e Palazzo Te, e paraste a candelabro allungate con ghirlanda, di rimando alla Farnesina-
Chigi del Peruzzi ed al Pantheon. Nel 1527 Sansovino fugge da Roma a causa del sacco e si stabili-
sce a Venezia, dove rimane per tutta la vita, progettando numerosi palazzi, chiese e edifici pubblici.
Tra i suoi primi incarichi vi è il palazzo per il cardinal Grimani sul Canal Grande, vicino San Sa-
muele. L’edificio rimane incompiuto, poiché egli non conoscendo ancora la tradizione architettoni-
ca veneziana impiega qui il modello romano di Palazzo Gaddi, a corte interna, mentre i palazzi di
Venezia sono soliti avere un ambiente centrale di passaggio, grande sala sui vari livelli che introdu-
ce lateralmente ai vari appartamenti e muri ortogonali alla facciata che reggono le travi, alleggeren-
do e liberando il prospetto principale. Date le linee irregolari del lotto su cui interviene, egli intro-
duce diversi assi di percorso e, oltre alla corte centrale, crea due grossi scaloni trionfali a doppia
rampa accessibili dalle logge interne. Nel 1529 è nominato proto, cioè massimo architetto della Re-
pubblica, e in tale occasione gli viene affidata la ristrutturazione completa di Piazza San Marco, che
prevede la costruzione della Zecca, della Libreria Marciana e di una piccola loggia sotto il campani-
le, punto di ritrovo di politici e magistrati. Inizia con la progettazione della Zecca, un edificio di
forte carica simbolica a ridosso del palazzo dogale, con caratteristiche gotiche ed innovazioni roma-
ne: qui sono contenuti tutti i macchinari per la coniazione delle monete della Serenissima, oltre ad
alcuni uffici. Lo stabile, di forma pressoché rettangolare, ha un accesso diretto dall’acqua ed un al-
tro laterale da terra, e presenta l’affaccio sul bacino con basamento bugnato molto raffinato in pietra
(materiale usato anche all’interno, poiché a prova d’incendio, contrariamente a quanto accadeva per
le opere di Giulio Romano e Bramante), con tessitura isodoma a concio intero sporgente e rientrante
quello doppio. Il piano inferiore presenta archi, mentre superiormente si alzano colonne doriche
bugnate e in rilievo, con membrature laterali sporgenti che richiamano la trabeazione sopra le fine-
stre (che a sua volta rimanda al disegno delle presse della Zecca). Un successivo livello e l’aggancio
laterale con la Libreria sono aggiunti nella seconda metà del Cinquecento. Gli spazi interni presen-
tano un grande cortile, coperto nel Novecento, che ripresenta al piano terra lo stesso bugnato della
facciata, da cui salgono le paraste legate agli archi, il tutto caratterizzato da decori poveri come tri-
glifi lisci, balaustre semplici e scarsi segni architettonici. Gli edifici produttivi a lato sono coperti da
grossi archi di pietra in cui è applicato un bugnato scolpito tra le volte, mentre la copertura della
zona intermedia tra il cortile e l’ingresso dal bacino presenta figure astratte scolpite nella pietra con
travi bugnate di divisione. Un grande scalone a farfalla sale ai livelli superiori e divide in due gli
spazi interni.
A lato della Zecca si trova la Libreria Marciana, in cui il Sansovino interviene allontanando gli edi-
fici dal campanile e dando così un nuovo assetto alla piazza. Prevede per quest’altra architettura di
inserire ben diciassette campate a partire dal campanile fino a ridosso della Zecca, un tempo stacca-
ta e in seguito portata a filo. Il livello inferiore presenta una loggia, il cui ingresso è scandito da
grosse cariatidi (come per il precedente intervento), mentre il piano superiore ospita gli ambienti per
la lettura ed il deposito dei libri: in tal modo la facciata è scandita in due ordini sovrapposti con ar-
chi (in richiamo al Palazzo Ducale) e semicolonne doriche al piano inferiore e ioniche a quello su-
periore; il secondo livello presenta finestre con balaustra e due colonne laterali per parte, in rimando
alla serliana, che comporta, però, un restringimento della campata, che non è più in asse con quella
sottostante. Inoltre, la facciata presenta una trabeazione riccamente scolpita, con modanature, ovuli
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e rilievi a festoni, ed è coronata da una balaustra sopra la quale svettano statue realizzate in stile
greco-romano, a connotare la tipologia dell’edificio politico. Nel corso del Cinquecento la volta del
livello superiore è decorata dai maggiori pittori veneziani, sebbene essa abbia dato enormi difficoltà
costruttive al Sansovino: inizialmente, infatti, non conoscendo ancora in maniera esauriente la tradi-
zione veneziana basata su false volte a pianta quadrata, egli costruisce degli archi a tutto sesto che
ben presto crollano ed è pertanto mandato in prigione. Dopo essere uscito da carcere, interviene
costruendo finte volte ribassate su cui nasconde le capriate portanti l’intero peso della copertura, più
adatte al terreno su cui Venezia poggia, di scarsa o quasi nulla portanza. Particolare attenzione è
prestata nell’angolo della Libreria, articolato con un pilastro che presenta sulle due facce laterali
delle paraste, a cui sono affiancate le semicolonne delle campate. Egli conserva il ritmo dei triglifi
ponendo una semimetopa che rigira sull’angolo; tuttavia si tratta di una soluzione debole, poiché
comporta asimmetrie nei capitelli e nelle basi delle paraste negli spigoli della facciata. La simmetria
è, invece, data secondo la visuale diagonale all’angolo del pilastro, operazione che il Sansovino ri-
prende direttamente dal Palazzo Ducale. Ultimo intervento su Piazza San Marco consiste nella log-
gietta sotto il campanile, un unico ambiente che presenta facciata trionfale ad archi con balcone an-
tistante. A lato vi è una struttura a serliana, il cui gioco di cerchi (intero sull’arco e a metà a ridosso
della trabeazione inferiore) rimanda a Bramante e a Palazzo Rucellai di Alberti, in cui compare il
sistema di trabeazione ed arco. Vi è un uso ricco dei materiali, con fusti monolitici, marmi diversi,
rilievi e statue scolpite dallo stesso Sansovino, e una panca inferiore sostenuta da grosse mensole,
per consentire una sosta ai dirigenti che dovevano entrare a palazzo. Ciò che oggi si vede di questa
architettura, non risale al Cinquecento, ma risulta essere una ricostruzione, poiché circa un secolo fa
campanile e loggietta sottostante sono crollati, insieme a parte della Libreria.
Dopo la sistemazione di Piazza San Marco, il Sansovino realizza Palazzo Corner a San Maurizio,
un impianto che affaccia direttamente sul Canal Grande, con ambiente passante centrale che apre su
un cortile. Il prospetto presenta apertura tripartita con bugne in rilievo ad inquadrare la sala passan-
te, in richiamo al fronte nord di Palazzo Te di Giulio Romano. Vi è qui un’enfatizzazione della fac-
ciata libera e scarica dai pesi, con il conseguente utilizzo di diverse vetrate, mentre compare un par-
ticolare gioco in corrispondenza dell’angolo sinistro, in cui sono interrotte le linee verticali, il fregio
e la cornice in vicinanza dello spigolo, in modo tale da lasciarlo in bianco. Ciò ha l’intento di mo-
strare la sua architettura come uno schermo applicato ad una struttura sottostante, come se fosse un
semplice disegno decorativo. Al piano inferiore le colonne in facciata presentano schema a conci,
ed il bugnato è ripreso nei triglifi della trabeazione, non definiti quelli sopra le finestre e lavorati
quelli sopra le colonne, pensati come portanti secondo la concezione vitruviana. Altro intervento è
Villa Garzoni a Ponte Casale, composta di due porzioni laterali piene con un loggiato centrale di
due livelli di ordine dorico e ionico sovrapposti, in riproposizione al tema architettonico proprio
della Farnesina e del Belvedere vaticano. Internamente si cela una volta ribassata con scomparti ed
intagli, mentre l’impianto ad “U” della villa si apre sul paesaggio tramite un cortile.
Altre opere veneziane sono l'interno di Santa Maria della Misericordia, la chiesa di San Francesco
alla Vigna, la Tribuna del Duomo, la chiesa di San Martino, la Scala d'oro nel Palazzo Ducale.
Andrea Palladio
Tra i maggiori architetti del tardo Rinascimento c’è anche Andrea Palladio, nato a Padova e formato
nella città di Vicenza, parte della Repubblica Veneziana, dove intraprende le sue prime opere. Cre-
sce nella bottega di Gian Giorgio Trissino, dimostrando da subito grande talento e grazie al quale ha
modo di venire a contatto con ricchi committenti e illustri artisti come Giulio Romano, il Sansovi-
no, Sebastiano Serlio e Michelangelo. Con il suo maestro si reca a Roma, dove può conoscere e stu-
diare gli antichi monumenti, le rovine romane e Vitruvio. Scrive, così, un saggio sulle rovine roma-
ne e il trattato I quattro libri dell'architettura del 1570, di grandissimo successo, nel quale esprime i
principi teorici della propria arte. Tra le sue prime opere vi è Villa Pisani, imperniata attorno ad uno
spazio centrale che articola i lati dell’edificio, ognuno composto di tre ambienti; la parte centrale
presenta un loggiato bugnato, mentre i due avancorpi laterali sono simili a due torri, con bugne che
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vengono riprese nell’angolo della facciata e nelle cornici delle finestre inferiori. Altra architettura
palladiana è Villa Poiana, d’ispirazione agli antichi ambienti termali di Roma: qui rinuncia quasi
totalmente ai particolari decorativi, vi sono mensole appiattite, linee misurate, superfici sobrie, di
grande armonia. Punti focali del prospetto sono l'originale serliana con cinque ovuli e il timpano
aperto e segnato ai lati. Privo di capitelli e trabeazioni, l'ordine è appena accennato nell'articolazio-
ne essenziale delle basi dei pilastri. Di tono completamente diverso è Villa Barbaro a Maser (Tv),
realizzata per dei ricchi aristocratici e funzionari veneziani, che porta caratteristiche innovative: il
timpano questa volta è riccamente decorato e nel fregio compare un’epigrafe, mentre appena sotto
spezza la trabeazione in corrispondenza dell’arco (soluzione da lui criticata nei suoi trattati, proba-
bilmente usata su richiesta del committente). Netto è il richiamo per la parte centrale alla forma del
tempio antico, il quale ai lati presenta due barchesse con funzione di deposito e magazzino, mentre
sul retro viene fatto un ninfeo (sempre per volere del committente) in rimando alla tradizione classi-
ca, con statue in nicchie rettangolari e circolari e timpano ricurvo che sale. A ridosso della villa rea-
lizza il tempietto, in rivisitazione del Pantheon, con pronao esastilo, cupola e lanterna.
Tra le sue opere più famose vi è Villa Foscari la Malcontenta, costruita a Mira sul canale del Brenta.
Il magnifico prospetto in stile classico verso il fiume è dominato da un pronao ionico poggiante,
come l’intero edificio, su un alto zoccolo, con a lato una scala a doppia rampa che consente
l’accesso. In alto si nota il doppio timpano, mentre meno solenne risulta la facciata bugnata verso
terra, aperta da numerose finestre, per consentire la piena illuminazione degli ambienti interni.
Completamente diversa è la facciata retrostante, in rimando all’età imperiale.
Altra magnifica architettura è quella di Villa Capra, detta la Rotonda, senza dubbio ispirata al Pan-
theon e prevista quale soggiorno unicamente diurno. La pianta è quadrata con ripartizione simmetri-
ca degli ambienti, raggruppati intorno ad un salone circolare ricoperto da una cupola di undici metri
di diametro. In ognuna delle quattro facciate si trova un classico pronao con colonne ioniche e tim-
pano a dentelli. Inizialmente la cupola centrale è pensata dal Palladio come una copertura aperta e
per tale scopo pone al centro della sala sottostante un cerchio per lo scolo dell’acqua. Altro inter-
vento di rilievo è la sistemazione della facciata e della struttura esterna della Basilica, o Palazzo
della Ragione, a Vicenza. Nel 1549 è indetto un concorso, al quale partecipano anche Sansovino,
Serlio, Sanmicheli e Giulio Romano, ma vinto dal quarantenne Palladio: con le sue logge classi-
cheggianti risolve i difficili problemi statici e con l'uso della serliana scandita da semicolonne adot-
ta un ingegnoso stratagemma per nascondere le differenti distanze tra i pilastri ereditate dai prece-
denti cantieri, mantenendo inalterata la dimensione dell'arco e variando quella delle aperture latera-
li. In sostegno alle serliane, che presentano i classici ovuli, pone due colonne per lato e propone la
soluzione dell’angolo irrobustito con doppia semicolonna ed elementi di scarico come pilastri e tra-
beazione. Sempre a Vicenza, di fronte alla Basilica, nel 1571 il Palladio realizza la loggia del Capi-
taniato, residenza del Capitanio (autorità militare istituita dal governo di Venezia). Le tre arcate im-
ponenti del portico sono sottolineate dalle semicolonne dell'ordine gigante che giungono fin sotto la
balaustra dell'attico, secondo uno stile caratteristico delle opere più tarde del grande architetto vene-
to; stucchi bianchi e statue di pietra creano un effetto di contrasto sulla superficie dei mattoni rossi
del paramento murario.
A partire dagli anni ’60 il Palladio è a Venezia, in qualità di proto della Repubblica. Qui gli viene
da subito affidato l’incarico di costruire il convento di Santa Maria della Carità, un grande chiostro
con ordini sovrapposti di archi inquadrati e soprastante paramento murario. L’atrio ha connotazione
antica di un enorme loggiato aperto che combina dimensioni ristrette con le proporzioni giganti del-
le colonne, voluto con il preciso intento di colpire i visitatori. Il complesso è andato distrutto in un
incendio, ma si è conservata una delle pareti, con l’ordine superiore e i decori (fregio e ghirlanda)
che rimandano al Colosseo; sopra le aperture, tra le varie modanature sono disposti dei mattoni che
assumono funzione di piattabanda, un tempo intonacata. L’edificio presenta ricchi decori nella parte
interna, mentre all’esterno scompaiono completamente gli ordini e sono lasciate sono le quote e le
linee orizzontali. Il Palladio, però, nel centro di Venezia non ha molta fortuna: a differenza del San-
sovino, egli non cerca un dialogo con la tradizione veneziana, ma usa uno stile del tutto estraneo; i
progetti da lui proposti per la ristrutturazione del Ponte di Rialto e di Palazzo Ducale non vengono
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realizzati, mentre gli sono affidati interventi in zone non proprio centrali della città, lontane da
Piazza San Marco, come la Giudecca, San Francesco della Vigna e San Giorgio. Tra gli edifici più
riusciti si trova il Redentore, sull’isola della Giudecca, che presenta impianto misto a pianta longi-
tudinale e centrale con ambienti laterali, con un singolare quanto splendido transetto costituito da
tre absidi comunicanti con la grande cupola centrale, dove trovava posto la classe nobile di Venezia.
La zona del presbiterio presenta un particolare pilastro ottagonale, pennacchi non triangolari e giro
di colonne a chiudere il terzo abside, mentre le campate laterali sono risolte con grandi semicolonne
con nicchie interne alternate agli archi delle cappelle, con richiamo ad alta scala dei pilastri a farfal-
la di San Pietro, che il Palladio usa come canale visivo a chiusura della prospettiva. Le alte colonne
reggono una trabeazione, sulla quale poggia una volta a botte in rimando all’età imperiale, sebbene
attaccati alla cupola vi siano due sottili campanili cilindrici, con tetto a cono, simili a minareti della
tradizione islamica; per la cupola ovvia è l’ispirazione a quella della Basilica di San Marco.
L’interno è a navata unica, con imponenti e decorate cappelle laterali. Grande importanza ha la luce,
come in tutte le opere palladiane, vera protagonista dell’interno, che valorizza volumi e decorazioni.
La facciata di marmo bianco, che combina due fronti di tempio in pieno stile bramantesco, presenta
al centro un pronao murario con paraste angolari e semicolonne centrali che inquadrano il portale;
le porzioni laterali hanno, invece, sostegni e linee meno definite e marcate, sebbene le membrature
intendono richiamare quelle del corpo centrale. Oltre a questa facciata principale, vi è un altro tim-
pano e due corpi laterali retrostanti il primo, in richiamo alla facciata del Pantheon: il timpano supe-
riore presenta, quindi, semitimpani laterali ripresi due volte, di cui quelli situati dietro con funzione
di contrafforti, più arretrati rispetto alla facciata; in profondità ne compaiono altri, a stabilizzare le
campate interne. Il livello di raffinatezza tra i vari ordini è portato dal Palladio ad un grado altissi-
mo: sebbene cambino gli elementi sono mantenute le stesse quote e proporzioni, in un contrapporsi
di superfici lisce, di lesene e di lunette con statue, ostentando stabilità e rigore classico. Un tema
simile a già affrontato qualche anno prima dal Palladio nella chiesa di San Francesco della Vigna,
iniziata dal Sansovino. Qui realizza la facciata con pronao centrale e semipronai laterali, non così
accentuati come per il Redentore. Il portale centrale presenta piccole colonne laterali che poggiano
sullo stesso piedistallo di quelle giganti che scandiscono la facciata a tempio. Anche qui le modana-
ture orizzontali sono riprese ed appiattite, come succede per il Pantheon e negli archi di trionfo.
Michelangelo Buonarroti
Scultore, pittore e architetto del tardo Rinascimento, artista geniale e inquieto, è tra i massimi prota-
gonisti dell’arte italiana. La sua longevità lo portano a conoscere tutti i maggiori maestri, commit-
tenti e pontefici del tempo, per i quali ha modo di realizzare numerosissime opere d’arte. A tredici
anni è già a bottega dai Ghirlandaio. Dopo un anno, tuttavia, preferisce avvicinarsi a Bertoldo di
Giovanni e studiare le sculture antiche nel giardino di Lorenzo de’ Medici, nel quale apre una pro-
pria bottega. Uno dei suoi primi lavori potrebbe essere una parte del cilindro superiore di Castel
Sant’Angelo, che presenta una campata centrale finestrata con paraste e piccole nicchie laterali, in
cui inserisce alcuni balaustrini fuori però dal contesto d’insieme: il perseguimento della novità sarà
una delle sue principali caratteristiche. Viene consultato anche per la facciata di San Lorenzo a Fi-
renze, il cui disegno prevede un sistema basamentale largo, con parte centrale con timpano, doppie
colonne, serliana e due tabernacoli con nicchie ai lati; posiziona pilastri dorici sul fondo e paraste
laterali ioniche in cui inserisce un ordine minore che regge una targa, in un complesso visto non
come una lastra, bensì come parte aggregata anch’essa costruita come il resto della chiesa. Miche-
langelo propone anche altre varianti, progettando la zona inferiore con al centro colonne libere che
connotano in maniera forte il fronte a tempio, oppure, riprendendo uno schema del Sansovino, pre-
vede di ridurre la facciata man mano che si procede verso l’alto, con la porzione centrale dominante
su due livelli e con le laterali che richiamo, in maniera più ridotta, gli elementi centrali, in un pro-
getto simile a quello raffaellesco. In un’altra soluzione non presenta più il basamento, ma un grande
unico schermo dal grande impatto decorativo, sebbene il progetto di cui realizza il modello ligneo
sia più sobrio e a schema unico, con elementi continui dei due livelli e colonne libere ai lati che si
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collegano al resto della chiesa. Altri disegni per questa facciata appartengono a Giuliano e Antonio
da Sangallo. Tra il 1515 e il 1516 Michelangelo interviene chiudendo la loggia basamentale di Pa-
lazzo Medici con quella che il Vasari chiama finestra inginocchiata, costituita come un tabernacolo
poggiante su grandi mensole inferiori, con membrature e decori ridotti a favore del volume e della
forma dell’architettura, che appare estranea rispetto all’intero palazzo. Con questo intervento egli
auspica di assumere l’incarico di ristrutturare l’intero edificio, ma i Medici gli commissionano la
Sacrestia Nuova e la Biblioteca Laurenziana, entrambe ospitate nella Basilica di San Lorenzo. La
Cappella Medici, così come viene chiamata la sacrestia michelangiolesca per il fatto di ospitare le
tombe di famiglia, è risolta in maniera differente da quanto fatto dal Brunelleschi per la Sacrestia
Vecchia. L’impianto è speculare a questo ultimo, da cui riprende il telaio bicromo di pietra, ma qui
Michelangelo allestisce tutte le pareti e v’introduce maestosi gruppi scultorei; la cupola emisferica è
retta da archi e pennacchi, in una struttura d’insieme molto semplici e dai decori ridotti, come se
fosse quasi una gabbia. A lato di ciascuna parete, dispone negli angoli alcune aperture riquadrate da
paraste e trabeazione, con tanto di archi nella zona inferiore; nella parte superiore, per evitare che
gli arconi taglino le piccole paraste (non identificabili in un ordine preciso) a fianco delle finestre,
interrompe entrambi gli elementi, affiancandoli semplicemente sopra la trabeazione. Si vede chia-
ramente come vi è un infittirsi di elementi in corrispondenza degli angoli delle pareti, specie attorno
alle nicchie e alle porte inferiori, con particolari volute che reggono il telaio del tabernacolo, che tra
l’altro invade e interrompe la trabeazione del timpano superiore, entrandovi dentro. Sulle pareti che
ospitano le tombe, continua il gioco tra la sobrietà delle architetture ed i pochi elementi decorativi,
come paraste con volute inverse e conchiglie al posto della rosetta dell’abaco. In contrapposizione
di tutto ciò sta la scarsella, più spoglia e sobria, che presenta cupola con lacunari trapezoidali radiali
dipinti che tendono a stringersi verso l’alto, in rimando alla finestra del tempietto di Tivoli.
Come già detto, Michelangelo progetta in questa basilica anche la Biblioteca Laurenziana, luogo in
cui ospitare i preziosissimi codici medicei. Problemi iniziali riguardano la struttura dell’edificio,
non proprio semplice, che viene orientato in modo tale da avere le finestre in posizione ottimale ad
est ed ovest. E’ previsto un ambiente cubico di accesso, una lunga sala longitudinale di lettura e un
ambiente triangolare conclusivo. Il grande quadrato d’ingresso presenta potenti colonne binate in
pietra serena che servono per alzare le pareti, in modo tale da aprirvi le numerose finestre necessarie
a far entrare la luce: per ragioni strutturali non può spostare le colonne dal filo del muro e perciò le
incassa al suo interno, con funzione monumentale e portante, a differenza di semicolonne che sa-
rebbero state puramente decorative (in ciò prende esempio dal Battistero di San Giovanni). Vi è un
attento gioco di nicchie commentate da rientranze murarie e di trabeazione, salvo lasciare alcune
campate completamente bianche per aumentare il contrasto con quelle lavorate: a tal fine usa para-
ste strette in basso e più larghe sopra (mai usate prima) e modanature interne alle nicchie, posiziona
ulteriori lesene dietro e a lato delle cavità in cui sono inserite le colonne, mentre il portale di acces-
so presenta timpano sporgente sulle colonne e riquadro della porta che emerge sulle paraste laterali.
La scalinata è realizzata dopo la partenza di Michelangelo per Roma, dove è impegnato per San
Pietro, e non si sa di preciso se corrisponda al suo progetto: non potendo costruire due rampe latera-
li per ovvi motivi tecnici, si decide per una scala centrale a tre rampe, in cui le laterali, divise da
balaustre e con tanto di panca, confluiscono in quella intermedia, dai caratteristici gradini ovali che
presentano un cambio di curvatura alle estremità, in contrasto con quelli rettilinei laterali. Viene
realizzata in pietra, sostituendo il legno di noce voluto dal Buonarroti. Inizialmente questo ambiente
è previsto di soli due livelli, cui ne è stato aggiunto uno più tardi per avere maggiore illuminazione.
L’interno della sala di lettura è, invece, scandito da paraste abbinate alle fila di banchi, disegnati
personalmente da Michelangelo come parte integrante dell’architettura e alti quanto il basamento su
cui poggiano le paraste, con spazio centrale percorribile. Tra le paraste si aprono le finestre inqua-
drate da cornici e campiture, mentre il soffitto presenta lacunari larghi come le campate dei banchi,
con disegni a losanghe e parte centrale che ripete le figurazioni del pavimento. Al termine della sala
si apre una stanza privata per la lettura, dalla particolare forma triangolare con nicchie a timpano
alterno sui muri perimetrali (sebbene Michelangelo sia solito utilizzare nei suoi progetti il solo tim-
pano circolare).
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Verso la fine degli anni ’20, dopo il Sacco di Roma da parte dei mercenari di Carlo V, Firenze è
assediata dall’esercito imperiale e da quello del papa: i Medici sono alle strette e Michelangelo pro-
getta allora nuove fortificazioni, partecipando attivamente alla difesa della città fino alla capitola-
zione. Le mura, disegnate dal Peruzzi qualche anno prima, sono rafforzate con bastioni dall’aspetto
zoomorfo con assetto circolare cavo verso l’interno, fino ad assumere forme innovative a linee
spezzate, per garantire una migliore copertura di fuoco da parte di Firenze, per cui il Buonarroti ef-
fettua un vero e proprio lavoro di design dell’architettura militare. Perdonato da papa Clemente VII
per avere appoggiato il governo repubblicano, a Firenze si sente ormai a disagio e dagli anni ’30 si
sposta prima a Venezia e poi si reca definitivamente a Roma dove, morto il papa Medici, compie
per Paolo III Farnese l'opera della piena maturità, il Giudizio Universale della Cappella Sistina. Ol-
tre ad occuparsi, come già detto, del progetto per San Pietro, il papa gli affida l’incarico di ripristi-
nare la piazza e gli edifici del Campidoglio, luogo del potere municipale di Roma. Il progetto, pur
rispettando l'impianto delle strutture preesistenti sui tre lati, prevede la demolizione delle torri, delle
logge e delle finestre ineguali che sono state aggiunte agli edifici nel corso dei secoli e comporta un
ingresso in salita alla piazza con una rampa percorribile a cavallo e balaustra finale con statue e tro-
fei, mentre l’ovale disegnato al centro della pavimentazione richiama caratteri tipici francesi; nel
1538 è posta al centro della piazza la statua equestre bronzea di Marco Aurelio (attualmente conser-
vata nei Musei Capitolini), che Paolo III fa portare qui dal Laterano, a cui Michelangelo aggiunge il
piedistallo sottostante. La trasformazione del Palazzo Senatorio è eseguita dopo la sua morte, tra il
1582 e il 1605, apportando alcune variazioni al disegno michelangiolesco: a quest’intervento si de-
ve il doppio scalone d’accesso e la fontana centrale, sormontata da statue antiche. Contemporanea-
mente sono realizzati i palazzi che delimitano la piazza ad est e ad ovest: Palazzo dei Conservatori e
Palazzo Nuovo, sede dei Musei Capitolini. Sul quarto lato, alla sommità della rampa d'accesso, so-
no collocate le statue dei Dioscuri, di età imperiale. Per il Palazzo dei Conservatori è riproposto
l’uso dell’ordine gigante tipico di Michelangelo, a scandire la facciata a colonne laterali al piano
terra e finestre a tabernacolo inserite in uno scomparto arretrato nel muro. Nel loggiato sono posi-
zionate colonne alveolate in nicchie circolari, paraste a rastrematura invertita e triglifi incompiuti,
mentre ogni campata è scandita da un lacunare che riprende le modanature degli elementi sottostan-
ti.
Negli anni successivi termina la costruzione di Palazzo Farnese, iniziato da Antonio da Sangallo il
Giovane: questi realizza l’atrio colonnato, il grande cortile quadrato e lo scalone monumentale nella
loggia d’accesso a sinistra, secondo lo schema classico dei palazzi romani del Cinquecento. E’, la
sua, una soluzione senza ordini, con piano basamentale e due nobili superiori, il primo a tabernacoli
alterni ed il secondo con i caratteristici timpani interrotti dagli archi delle finestre, mentre gli angoli
della facciata sono chiusi da cantonali. L’accesso, voltato a botte, richiama gli archi antichi di Vi-
truvio, con semicolonne addossate al muro e nicchie interposte che danno l’effetto di sporgenza. Il
cortile si alza su tre livelli, di cui i primi due realizzati dal Sangallo con singolare soluzione per
l’imposta degli archi del primo ordine, con capitello dorico e cornice contratta architravata, che vie-
ne ripresa al piano superiore, le cui finestre sono inquadrate da archi. Michelangelo modifica il bal-
cone sopra l’ingresso, disegnando un binato simile a quello di Palazzo dei Conservatori, e realizza
la cornice della facciata, costruendo dapprima un modello ligneo in scala 1:1 che colloca in prova
sul prospetto: essa presenta innovativo gocciolatoio e guscia superiore decorata con clave di Ercole
e leoni. Realizza anche l’ultimo piano dei tre che affacciano sul cortile, in cui riprende in maniera
del tutto nuova alcuni elementi antichi: usa una doppia cornice attorno alle finestre, semplice verso
l’interno e più elaborata quella esterna, con triglifi e teste di leone; innalza il timpano delle finestre
con elementi sottostanti a sorreggerlo, fuori asse rispetto agli elementi verticali delle cornici, perché
posizionati verso l’interno. Introduce singolari decori con ghirlande e protome ovine agganciate ai
due anelli laterali. Di ciò Filippo Juvarra realizza un disegno, in cui compare la trabeazione con ma-
schere grottesche nella seconda fascia, soluzione del triglifo con sporgenze inusuali e parte alta con
guscia, tipicamente medievale.
Tra i progetti di Michelangelo vi è anche quello definitivo per la chiesa di San Giovanni dei Fioren-
tini, ferma su carta da ben trenta anni. Infatti, né il Sansovino, né Antonio da Sangallo sono riusciti
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a darne una soluzione decisiva. Michelangelo propone una pianta centrale, interpretandola in diver-
se versioni: in una prima pensa ad un ambulacro con spazio laterale circolare interrotto da colonne
concentriche e ambienti vari, in maniera simile al Pantheon; al centro pone un baldacchino reggente
una volta a botte anulare, sostenuta anche dalle colonne addossate alla struttura sottostante: questo
sistema è ripreso, invece, dalla chiesa di Santo Stefano Rotondo, un’architettura antica ripristinata
dal Rossellino, che presenta molteplici giri concentrici di colonne. In una seconda versione lascia il
nartece di ingresso (presente anche in quella precedente), ma l’impianto presenta enfatizzazione dei
soli assi diagonali, caratterizzati da diversi ambienti, le cui verticali sono riprese dai costoloni della
volta soprastante. Di un ulteriore adattamento realizza anche un modello ligneo con colonne binate
e corona di quattro cappelle diagonali, alternate ad accessi identificati da quattro colonne libere
all’interno, di cui uno chiuso che conserva l’altare. Questa soluzione rimanda a diversi esempi del
Quattrocento e anche agli antichi sepolcri romani, che hanno accesso con quattro colonne. Un’altra
versione presenta, invece, le colonne traslate verso il muro, interno scandito da nicchie e ulteriori
colonne riprese anche al livello superiore, su cui poggia un tamburo indipendente privo di corri-
spondenze con l’esterno su cui fonda la cupola: anche per ciò attento è lo studio del Pantheon.
Altra opera di Michelangelo è la Cappella Sforza a Santa Maria Maggiore, un edificio di piccole
dimensioni, per il quale propone inizialmente diverse soluzioni per il tipo di invaso, salvo poi deci-
dere per un impianto centrale in cui sono aperti diversi spazi a curvatura schiacciata, di cui uno
ospita l’altare; posiziona delle colonne libere angolari quasi incassate nel muro, con elementi di
contorno come paraste semplificate senza base. Superiormente vi è una fascia neutra ed una trabea-
zione. Sua è anche la realizzazione di Santa Maria degli Angeli, posizionata all’interno delle terme
di Diocleziano, in cui propone un impianto centrale coperto a crociera, perimetro con volte ed atrio
con esedra. Progetta, inoltre, Porta Pia, la cui soluzione finale presenta elementi monumentali con
capitelli astratti ed enorme triglifo al posto della mensola, a reggere la compenetrazione dei timpani
superiori (modello che avrà molto successo nel Seicento); superiormente vi sono elementi tondi e
merli di totale invenzione, con capitello ionico e sfera soprastante, ripresi più tardi dal Borromini.
Tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento la Basilica di San Pietro subisce ulteriori modifi-
che: viene abbandonata l’idea di un edificio a pianta centrale, riprendendo la classica pianta basili-
cale a sviluppo longitudinale con l’aggiunta di una navata realizzata da Carlo Maderno, cui si deve
anche la facciata della chiesa. Egli realizza un grande schermo con alto nartece loggiato a includere
anche il livello superiore, facendo sporgere il fronte a tempio, e utilizza decori michelangioleschi
ripresi da Palazzo dei Conservatori. La presenza dell’attico superiore non rende, però, completa-
mente visibile la cupola di Michelangelo, inizialmente pensata per un edificio a croce greca. Proprio
nel cantiere di San Pietro s’incontrano Gian Lorenzo Bernini e Francesco Borromini, personalità
artistiche e architettoniche dominanti del XVII secolo: diversi in quanto a carattere ed approccio
all’arte, Borromini, contrariamente all’amico e avversario Bernini, scultore oltre che architetto, si
dedica esclusivamente all’attività costruttiva. Figlio dello scultore manierista Pietro Bernini, Gian
Lorenzo è artista precoce: nasce a Napoli, ma le origini fiorentine della sua famiglia lo portano vi-
cino ai gusti e alle tradizioni artistiche della Firenze rinascimentale. Il secondo, invece, nasce a Bis-
sone, in Lombardia, come figlio di uno scalpellino ed è presto ingaggiato come intagliatore e dise-
gnatore da Carlo Maderno, suo lontano parente, che lavora a San Pietro: questo ultimo rimane im-
pressionato dal talento del giovane Francesco e decide di nominarlo supervisore dei lavori per la
basilica. I due giovani sono pressoché coetanei, così come Pietro da Cortona, che si forma a Firenze
come pittore, per stabilirsi presto a Roma, dove trascorre il resto della sua vita. Bernini e Pietro da
Cortona trovano come principali committenti e sostenitori la famiglia Barberini, mentre sono i
Pamphili a privilegiare l’opera del Borromini.
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Primo di molti lavori eseguiti da Bernini per la basilica pontificia è il baldacchino di San Pietro, più
volte definito col nome di chimera per l’insieme di forme che lo costituiscono, su commissione di
Urbano VIII, al secolo Maffeo Barberini. Dal 1624, è realizzata un’imponente struttura architettoni-
ca e scultorea in bronzo alta circa trenta metri, in corrispondenza della cripta del santo, retta da co-
lonne tortili costantiniane impreziosite da incrostazioni dorate, collocata al centro dello spazio co-
perto dalla cupola di Michelangelo. La parte alta presenta una ricca trabeazione e rimanda agli anti-
chi baldacchini coperti con stoffe e tessuti preziosi, solitamente usati nelle processioni sacre. Le
volute a dorso di delfino che raccordano gli angoli del ciborio e i decori con angeli si devono al ge-
nio di Francesco Borromini, inizialmente affiancato a Bernini, ma che in seguito opera in aperta
competizione. Bernini decora, inoltre, i piloni su cui si imposta la cupola di Michelangelo con logge
destinate a contenere reliquie, sotto le quali, entro grandi nicchie sono sistemate le statue dei santi
(solo una è effettivamente realizzata da lui), impreziosite ai lati con altre colonne tortili, ben più
piccole delle precedenti. Per il baldacchino si parla di opera d’arte totale, poiché per la prima volta
architettura e scultura sono usate con la stessa fondamentale importanza, creando forme spettacolari
dal forte impatto teatrale: i dettagli sono studiati attentamente dai due architetti, che disegnano di-
verse soluzioni da porre in opera, decidendo per decori del fusto con api (emblema di casa Barberi-
ni), maschere, soli e, come già detto, delfini.
Fra il 1624 e il 1626 Bernini lavora per la ristrutturazione della chiesa di Santa Bibiana, della quale
vengono ritrovate le reliquie; realizza una statua che ritrae la santa in un momento di estasi, con le
pieghe del drappeggio che sembrano partecipare all’atteggiamento mentale della figura, e lavora
anche per la facciata, creando un sistema di logge su due livelli, in cui l’inferiore è scandita da para-
ste ribattute, mentre la superiore, usata per le funzioni di ostensione, è caratterizzata da timpano
centrale e innalzamento della struttura al di sopra dei capitelli, il tutto chiuso da una balaustra finale.
Alcuni affreschi interni sono affidati al Cortona, mentre tra i lacunari della copertura ne compare
uno aperto per l’illuminazione, come accade nella chiesa di Santa Maria della Pace di Bramante.
Agli inizi degli anni ’30 Bernini è a Bologna, dove progetta l’altare per la chiesa di San Paolo, pre-
vedendo un grande tabernacolo contenente una nicchia, caratterizzata da una trabeazione incurvata
e da colonne libere che la circondano, in una ricercata deformazione prospettica. Tornato a Roma si
dedica a Palazzo Barberini, per il quale, però, si limita ad alcune modifiche del progetto di Mader-
no: alla morte di questo ultimo nel 1529, Bernini diviene capo del cantiere e gli viene affiancato il
Cortona. L’edificio è centrato attorno ad un salone ovale monumentale dal quale si distribuiscono le
due ali sporgenti del corpo di fabbrica in cui sono collocati gli appartamenti e sul fondo si apre una
loggia; è progettato anche il giardino, sono definiti alcuni elementi decorativi dell’interno e viene
disegnato l’alzato, caratterizzato dal sovrapporsi degli ordini architettonici (triplo ordine nella parte
centrale) e da elementi di scansione come colonne, archi e paraste ribattute. Corpo centrale e alcuni
elementi architettonici, come ad esempio il cornicione, sono ripresi da Palazzo Farnese. Il Cortona
porta a termine il soffitto del gran salone, in un’esecuzione davvero stupefacente: crea una struttura
architettonica illusionista che in parte cela sotto una profusione di portatori di ghirlande, conchiglie,
maschere e delfini, in rimando alle cariatidi vitruviane, tutto dipinto in finto stucco. Tale struttura
divide l’intero soffitto in cinque aree separate, delle quali ognuna mostra una scena a sé stante.
Tra le opere giovanili del Cortona vi è una villa vicino Roma per i Sacchetti, purtroppo già in rovina
verso la seconda metà del Seicento. Il pianterreno dell’edificio presenta una sistemazione simmetri-
ca delle stanze e una nicchia monumentale nella struttura centrale, che si erge molto dalle ali meno
elevate, derivante dal Belvedere nel Vaticano. Le grandi nicchie divisorie delle facciate laterali, la
sistemazione di fontane, ninfei e grotte ed il complicato sistema di scale sono concepiti in rimando
ad architetture passate; costante è il riferimento agli archi di trionfo. I piedritti del primo livello ten-
dono a diventare astratti ai lati della nicchia, come accadeva negli archi antichi, e gli ordini architet-
tonici sono riproposti anche per gli spazi interni.
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Tra i primi progetti del Borromini, invece, vi è il monastero di San Carlo alle Quattro Fontane,
commissionatogli nel 1634. Costruisce prima il dormitorio, il refettorio ed i chiostri, secondo uno
schema studiato attentamente per sfruttare al meglio quel terreno piccolo e tagliato irregolarmente;
nel 1638 viene iniziata anche la chiesa. I chiostri contengono elementi di grande effetto, come
l’anello costituito da colonne disposte a formare un ottagono allungato, la trabeazione uniforme che
lega insieme le colonne e la sostituzione degli angoli con curvature convesse risolte da serliane, per
impedire che avvengano interruzioni nella continuità del movimento. Particolare importanza viene
data alle colonne, che adopera anche dentro la chiesa, la quale può essere vista come un ottagono
deformato lungo i due assi principali, con gli intercolunni ondeggianti accoppiati alle nicchie (ribas-
sate quelle in direzione trasversale) e alle modanature continue dei muri perimetrali. Borromini in-
serisce una fascia di pennacchi su cui appoggiare la cupola ovale di forma curvilinea, che scarica
quindi sui sostegni inferiori e sulla robusta trabeazione, che rende una visione contorta e deformata
degli archi e delle linee d’imposta inferiori. La zona ondulata sottostante presenta delle varianti nei
decori delle colonne, con quelle che reggono i pennacchi che hanno volute inverse, per suggerire la
funzione portante (così come compare a Villa Adriana a Tivoli), mentre soluzioni particolari e sta-
zioni prospettiche sono ricavate lungo i due assi principali. La copertura è decorata con un labirinto
di cassettoni profondamente incisi di forma ottagonale, esagonale e a croce, che diminuiscono note-
volmente di dimensione verso la lanterna; la luce entra non solo dalla lanterna, ma anche attraverso
finestre poste nei riquadri dei cassettoni, in parte nascoste alla vista dalla curvatura della cupola. Le
decorazioni sono ricche e lussureggianti, con ricorrenti decori a conchiglia trilobata in rimando alla
trinità; inferiormente si trova un’altra chiesa, dalle pareti spoglie e povere, probabilmente usata co-
me cripta per le tombe di preti e monaci. La facciata, iniziata dal Borromini ma conclusa nella parte
superiore dal nipote, riprende il tema della colonna libera, che ripete in due registri d’importanza
uguale ai due livelli, facendole ruotare secondo l’andamento del prospetto e legate insieme dalla
robusta, continua e ondulata trabeazione superiore ripresa da Michelangelo. Sotto, le colonnine dei
settori esterni incorniciano il muro con piccole finestre ovali, di supporto per nicchie con statue,
mentre sopra, le colonnine incorniciano nicchie e pannelli di muro chiusi; al centro si trova la statua
di San Carlo Borromeo, protetta da un arco formato dalle ali di grandi e vivaci cherubini e affianca-
ta da altre due statue collocate sopra i portali a reggere ancora l’arco superiore. In alto compare un
medaglione ovale sorretto da angeli, mentre a lato delle colonne compaiono paraste ribattute con
capitello quasi michelangiolesco.
Nel 1633 Pietro da Cortona, già chiamato per Palazzo Barberini, trasforma la chiesa di San Lorenzo
in Damaso in un ambiente ricco di colonne con nicchie e statue dorate di santi. La sua fama inizia a
farsi sentire ed è così che nel 1635 gli viene commissionata la ricostruzione della chiesa dei Santi
Martina e Luca, ai piedi del Campidoglio, dopo che erano state ritrovate le spoglie della santa. La
soluzione definitiva consiste in un disegno a croce greca, con l’asse longitudinale leggermente più
lungo di quello trasversale, sebbene ciò non sia avvertibile. I muri perimetrali sono ripartiti in tre
piani alternati, mentre tutto intorno alla chiesa pilastri e colonne sono elementi omogenei dello stes-
so ordine ionico. Lo spazio interno è completamente bianco, in contrasto con le volte delle absidi
riccamente decorate; le finestre sono incorniciate da archi sopraelevati e sopra di questi è posata una
seconda cornice di mensole sproporzionatamente grandi che reggono frontoni segmentati interrotti.
Similmente, il sistema di costoloni nella cupola è sovrapposto ai cassettoni. Si capisce da ciò la ten-
denza del Cortona a richiamare in maniera più diretta le architetture di Michelangelo. Sotto la chie-
sa viene realizzata una cripta molto sfarzosa e decorata, con una volta piana a lacunari e preziose
colonne angolari ruotate secondo l’andamento delle murature. La facciata della chiesa dei Santi
Martina e Luca rappresenta un’altra rottura con la tradizione: il corpo principale è dolcemente in-
curvato e piloni fortemente aggettanti fronteggiati da doppi pilastri sembrano aver schiacciato il
muro in mezzo. Nella fila inferiore le colonne sembrano essere state incastrate nella massa del mu-
ro, mentre nella fila superiore pilastri squadrati si ergono davanti al muro in chiaro rilievo; questo
principio è capovolto nei settori centrali: nella fila superiore colonne strutturali sono sprofondate nel
muro, mentre nella fila inferiore forme rigide simili a pilastri sovrastano la porta.
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Nello stesso periodo, la Congregazione di San Filippo Neri bandisce un concorso per costruire vici-
no alla loro chiesa un oratorio, da includere in un più vasto programma edilizio che prevedeva un
refettorio, una sacrestia, quartieri d’abitazione per i membri e una grande biblioteca. Nel maggio del
’37 il Borromini vince questo concorso, ma il suo intervento deve far fronte ai lavori già iniziati da
Paolo Maruscelli, architetto della Congregazione: egli accetta l’essenzialità di questo piano che
comprende anche la posizione dell’oratorio stesso, ma introduce alcuni perfezionamenti, creando ad
esempio un’asse centrale per l’intera facciata del complesso. Per quanto la facciata rammenti quella
di una chiesa, le sue fila di finestre da casa d’abitazione sembrano contraddire questa impressione.
Per richiesta della Congregazione, la facciata non è rivestita di pietra, in modo che non fosse in
concorrenza con la vicina chiesa: Borromini, perciò, elabora una nuova e molto sottile tecnica in
mattoni, di discendenza classica, che gli consente le più fini graduazioni e un’assoluta precisione di
dettaglio. La parte centrale del prospetto consiste di cinque settori, rigorosamente divisi da paraste,
sistemate secondo una pianta concava; il settore centrale della fila inferiore è curvo verso l’esterno,
mentre la fila superiore si apre in una nicchia di notevole profondità. A coronamento della facciata
si erge il potente frontone che, per la prima volta, combina un movimento curvilineo ed uno angola-
re. Le nicchie del primo livello gettano ombre profonde e danno al muro profondità e volume, men-
tre sopra di esse le finestre sembrano premere con i loro frontoni contro il fregio del cornicione;
isolate sono le finestre del secondo livello, con ampi spazi sopra e sotto. In contrasto con questa
complicata facciata, Borromini adopera motivi più semplici per i fronti ovest e nord del convento,
come corsi diritti a fascia che dividono i piani e larghi solchi orizzontali e verticali che sostituiscono
cornicioni e angoli. L’interno dell’oratorio è articolato da semicolonne sulla parete dell’altare e un
complicato ritmo di paraste giganti lungo le altre tre pareti, in rimando allo stile di Michelangelo.
Interviene anche nel cortile degli aranci del convento, in cui prevede un ordine minore di archi e
trabeazione inserito in uno gigante di paraste e nicchie arcuate; gli angoli del cortile sono risolti in
curva.
Fra il 1640 e il 1647 Pietro da Cortona è alla corte del Granducato di Firenze, per dipingere e deco-
rare quattro ambienti di Palazzo Pitti e per apportarvi alcune modifiche all’impianto, sebbene i suoi
progetti architettonici rimangono sulla carta. La ricchezza dei suoi decori è spettacolare: vi sono
figure e cariatidi, stucchi bianchi su sfondo dorato, stucchi dorati su sfondo bianco, ghirlande, tro-
fei, conchiglie, arazzi, sovrapposizione di elementi architettonici e decorativi, teste di leoni e pal-
mette, in un intreccio di motivi apparentemente illogico.
Quasi immediatamente dopo il completamento di San Carlo alle Quattro Fontane, il Borromini ini-
zia nel 1642 ad occuparsi della chiesa di Sant’Ivo, per quella che sarà la futura università della Sa-
pienza. Egli si trova davanti ad uno schema già compiuto in buona parte da Giacomo della Porta,
che ha previsto due ali laterali ad ambienti successivi, grande cortile centrale porticato su tre lati e
sul quarto vi doveva essere la chiesa a pianta centrale, con tre ingressi e alcune cappelle. La chiesa
viene quindi affidata al talento del Borromini, che ritorna ancora una volta ad utilizzare schemi
geometrici: qui usa il triangolo equilatero come elemento base e ne compenetra due sul perimetro di
un’ipotetica circonferenza, in modo da formare un regolare esagono a stella. Tale impianto rimanda
a precedenti del Palladio e di Baldassarre Peruzzi. Egli racchiude il perimetro in una sequenza con-
tinua di paraste giganti a sei scanalature, che seguono e assecondano tutta la muratura, accentuata
dalla sovrastante trabeazione (con fregio alto fuori scala) che delinea la forma a stella del piano ba-
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se. Innovative soluzioni sono negli angoli ottusi del corpo della chiesa risolti con doppie porte con
timpano superiore di cui una falsa, da cui trae spunto da Villa Adriana. Nella cupola, segnata
dall’enfasi della trabeazione sottostante, sono chiaramente distinguibili le modanature dorate che
proseguono le linee verticali delle paraste inferiori, in una chiara scelta di continuità che rimanda
per certi versi alle architetture gotiche; la curvatura degli spicchi della cupola passa in alcuni punti
da concava a convessa ed è mediata da alcune aperture. All’esterno Borromini incassa la cupola,
piuttosto che metterne in mostra la curvatura come ad esempio accade per Santa Maria del Fiore del
Brunelleschi. Realizza una prima struttura inferiore a tamburo esagonale convesso, a cui sovrappo-
ne una piramide a gradini divisa da costoloni radiali simili a contrafforti che distribuiscono i carichi
e che terminano nella lanterna a doppie colonne e rientranze concave tra l’una e l’altra. Sopra questi
tre elementi se ne erge un quarto, la spirale ad elica, monolitica e scultorea, che non corrisponde a
nessun tratto interno né continua direttamente il movimento esterno, e che termina con la colomba
di Innocenzo X Pamphili. Possibile per questa struttura è il riferimento alla Piazza d’Oro di Villa
Adriana a Tivoli, alla cupola di Michelangelo per il nuovo San Pietro e al mausoleo dei Calvezi.
Molta attenzione viene prestata nella continuità delle verticali dei costoloni, delle colonne e degli
elementi a fiamma della lanterna, e anche nell’uso dei decori; sono spesso impiegati cherubini con
ali aperte a reggere la struttura sovrastante e nella parte bassa paraste ribattute scandiscono le pareti
curve o incorniciano le finestre. Per l’accuratezza dei disegni e la concezione architettonica espres-
sa, Sant’Ivo viene considerato il capolavoro del Borromini.
Risale agli anni del pontificato di Innocenzo X la decorazione della Cappella Cornaro in Santa Ma-
ria della Vittoria, a Roma, per la quale Bernini elabora una composizione architettonica e scultorea
di stupefacente effetto teatrale: l’Estasi di santa Teresa, un vero e proprio capolavoro entro un ta-
bernacolo aggettante in marmi policromi la santa appare abbandonata nell’estasi, riversa su una nu-
vola, mentre sta per essere trafitta dall’angelo Cupido. La sensualità della scena rappresentata è ac-
centuata dalla luce che, proveniente da una camino esterno ed incanalata per mezzo di specchi, pio-
ve sul corpo e i drappeggi delle figure scolpite, facendo risaltare il bianco quasi trasparente del
marmo. Lungo le pareti laterali della cappella, sopra le porte, appaiono i membri della famiglia
Cornaro che, inginocchiati, parlano del miracolo che avviene sull’altare. Essi sono posizionati in
un’architettura illusionistica con volte a botte, colonne e nicchie, che sembra un’estensione dello
spazio in cui si muove l’osservatore. Estrema attenzione è data anche al pavimento, che Bernini
decora con ricche tarsie e rappresentazioni della morte secca.
Nel maggio del 1646 si rende necessaria una ristrutturazione totale di San Giovanni in Laterano, in
pericolo di crollo, e papa Innocenzo X Pamphili affida i lavori al Borromini, già impegnato nella
chiesa di Sant’Ivo. Questi realizza in fase progettuale diverse varianti, prevedendo ben cinque nava-
te, di cui la centrale più ampia e le laterali più piccole e basse; propone l’uso di paraste giganti e la
differenziazione delle campate con archi e tabernacoli e finestre superiori; un’altra soluzione pre-
senta delle campate più strette alle estremità con tabernacoli circolari alternati ad altri rettangolari
più bassi; o ancora, prevede un uso della parasta abbinata in rimando all’arco di trionfo antico. Dei
vari progetti realizza una sezione quasi definitiva da illustrare al papa, con la navata centrale larga e
le altre laterali più strette, arricchite da cappelle e illuminate da condotti verticali che incanalano la
luce solare, il tutto scandito da paraste a scanalature alterne, tabernacoli ovali con lesene che ribat-
tono le colonne e nicchie con le statue dei dodici apostoli; nella zona alta prevede degli ovali da
lasciare aperti sulle vecchie murature costantiniane, in modo tale da segnalare la continuità storica
tra le due basiliche. Le navate laterali sono alterante tra volte a botte parallele a quella centrale e
spazi aperti verso l’alto in cui piove la luce; le due navate estreme hanno volte molto ribassate e
sono caratterizzate da elementi scultorei che reggono le imposte degli archi ribassati. La controfac-
ciata è immaginata per due tratti in diagonale, mentre al centro la concavità è rivolta verso l’interno
della chiesa, per richiamare l’abside antico.
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Verso gli anni ’40 papa Innocenzo X vuole trasformare Piazza Navona, dove si trova il palazzo di
famiglia, nella piazza più grandiosa di Roma, a diventare quello che nelle sue intenzioni era il Foro
Pamphili, dominato dalla nuova chiesa di Sant’Agnese, in sostituzione di quella vecchia. Inizial-
mente l’intervento è affidato a Carlo Rainaldi, ma dopo una serie di crisi e problemi questi è licen-
ziato dal pontefice ed è chiamato il Borromini. Egli cambia il carattere dell’intervento e con partico-
lari espedienti fa credere all’osservatore che le braccia abbiano tutte la stessa larghezza, per far ap-
parire l’incrocio come un ottagono regolare. I contrasti di colore rafforzano quest’impressione, per-
ché il corpo della chiesa è bianco, mentre le colonne libere sono rosse. Un intenso verticalismo è
ottenuto con il cornicione aggettante sopra le colonne, dall’alto tamburo e dall’elevata curvatura
della cupola. La facciata del Rainaldi, appena iniziata, viene demolita e il Borromini può arretrarla e
disegnarla con un andamento concavo: a sua volta, però, non riesce a concludere il prospetto, poi-
ché viene estromesso dai Pamphili e l’intervento è concluso da un team di architetti, che finiscono
la facciata nella parte superiore e realizzano i due campanili laterali. Poco tempo dopo tocca al Ber-
nini costruire la fontana ad obelischi che ancora oggi si trova nella piazza.
Tra il 1646 e il 1649 Borromini segue il lavoro per il Palazzo Falconieri, dove amplia la facciata da
sette a dodici settori. Incornicia la facciata con enormi busti a teste di falco, in rimando alla tradi-
zione egizia, e aggiunge nuove ali in affaccio sul Tevere, che caratterizza con paraste astratte ribat-
tute di tipo ionico e ghirlande michelangiolesche. Il suo contributo più originale sono i dodici soffit-
ti con i loro complicati ornati floreali e la loggia, con colonne e serliane.
Attorno agli anni ’50 Borromini è impegnato nel progetto per il palazzo del conte Ambrogio Carpe-
gna, vicino alla fontana di Trevi. Dei suoi disegni poco è stato eseguito, compare comunque il corti-
le ovale con una sequenza interna di colonne che girano tutto intorno, l’atrio d’ingresso ottagonale
con due logge passanti, lo scalone monumentale caratterizzato da grosse nicchie e la loggia inter-
media. L’apparecchiatura decorativa presenta festoni e meduse alate. E’ probabile che per questo
progetto abbia preso più volte spunto da Villa Adriana.
Nel 1650 il Bernini disegna per la famiglia di papa Innocenzo X il Palazzo Ludovisi, ora Palazzo
Montecitorio. Cinque anni dopo, quando il papa muore, poco è in piedi del grande edificio, che vie-
ne ripreso solo quaranta anni dopo da Carlo Fontana. Bernini realizza la facciata con un’intera fila
di venticinque finestre divise in vani diversi, che s’incontrano ad angolo ottuso, così che l’intera
facciata sembra eretta su una pianta convessa. Le leggere sporgenze delle unità alle due estremità e
al centro sono importanti mezzi di organizzazione; ogni unità è delimitata da gigantesche paraste
che comprendono i due piani principali, ai quali serve di base il pianterreno con le formazioni di
rocce sotto le paraste alle estremità e i davanzali delle finestre.
Nel ’56 Pietro da Cortona è impegnato nel rinnovamento della chiesa di Santa Maria della Pace, su
commissione di papa Alessandro VII Chigi. Da un primo progetto, che prevede un loggiato curvo
sulla facciata quattrocentesca, si passa ad uno ben più ambizioso, voluto dal papa su una scala più
ampia ed urbana: nella nuova intenzione la chiesa appare come un palcoscenico e tutto ciò che vi
sta attorno viene visto come una scenografia teatrale. La facciata superiore, a doppio timpano di cui
uno scende verso il basso, per curvatura e verticalità rimanda alla chiesa dei Santi Martina e Luca, e
presenta ai lati colonne libere a girare l’angolo, in rimando al San Lorenzo di Michelangelo, mentre
la zona inferiore protende circolarmente verso l’esterno ed è complessiva di una loggia con capitelli
dorici e trabeazione ionica. Lateralmente le due ali concave sono messe in relazione con gli edifici
circostanti, a creare uno schema uniforme e regolare. Tema dominante dell’ideologia di papa Ales-
sandro VII è, infatti, la spettacolarizzazione di particolari aspetti e caratteri della vita religiosa, dato
che la sua chiesa viene sempre più rilegata al solo ruolo spirituale, mentre in Europa si vanno af-
fermando potenze come la Francia e la Spagna. Lo stato pontificio è percorso da profonde crisi, an-
che a causa di ingenti lavori come la sistemazione della piazza di San Pietro, così gravosa da deter-
minare lo svuotamento delle casse vaticane e la svalutazione della posizione del papa. Tale costru-
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zione dura più di dieci anni: l’intento era quello di realizzare uno spazio prospettico verso la basilica
e di dare una configurazione decorosa agli edifici vaticani accanto. Gli architetti accorsi nel proget-
to di tale intervento sono molteplici, così come le ipotesi da loro avanzate, ma la scelta finale ricade
su una soluzione puramente teatrale, spettacolare e scenografica.
Solo Bernini è in grado di realizzare un’opera così grandiosa, poiché solo lui ha le capacità di risol-
vere la serie di problemi che vi stanno all’origine. La scelta dell’ovale per la piazza viene spontaneo
per varie ragioni: la maestosa armonia delle ampie braccia avvolgenti dei colonnati è per Bernini
espressione della dignità e grandiosità che il luogo richiede; egli stesso paragona i colonnati alle
materne braccia della chiesa che richiama i fedeli a sé. Per il loggiato usa un enorme schermo di
colonne prive di decorazioni, con base tuscanica ad un solo toro, capitello dorico e trabeazione spo-
glia, che accentuano il carattere teatrale dell’opera, grazie anche alla fitta folla di statue auliche che
posiziona sulla balaustra superiore, disegnandone il corso secondo raggi di curvatura che si incon-
trano in un preciso punto focale. Trae esempio da diversi modelli di loggiato progettati da Miche-
langelo e dal Palladio, creando grandi percorsi cerimoniali di accesso alla basilica e ai palazzi, dei
quali quello centrale voltato a botte e percorribile dalle carrozze, mentre i laterali sono più stretti. La
scala dell’opera nel suo complesso si eleva ben sopra i borghi popolari vicini, proprio per enfatizza-
re la gloria della Chiesa. Egli riprende alcune particolari soluzioni di edifici religiosi del Cinquecen-
to, esempi antichi di circo, come quello del Palazzo Palatino, e guarda anche al Belvedere vaticano
del Bramante. Il raccordo con il loggiato ellittico è dato da una zona trapezoidale che disegna un
vero e proprio cannocchiale prospettico verso la piazza. Il Bernini realizza anche la cattedra di San
Pietro (1657-1666), all’interno della basilica, nella quale ancora una volta scultura e architettura si
compenetrano in una stupefacente orchestrazione di elementi simbolici ed effetti luministici. Pro-
getta qui una pala d’altare puramente scenografica con raggi metallici su nuvole che rappresentano
la gloria divina che colpisce le statue di angeli e santi, il tutto fatto dialogare perfettamente con
l’apparato architettonico della basilica. Altro suo intervento è la costruzione della Scala Regia
(1663-1666), che dal loggiato di destra dà accesso ai Palazzi Vaticani, costruendo un cannocchiale
spaziale risolto proiettando nello spazio i motivi a serliana, le colonne ioniche e le paraste ribattute
sui muri. Bernini completa anche l’apparato decorativo della basilica: pone sulla testata del nartece
la statua equestre di Costantino, in chiave simbolica; attua un restringimento della facciata man ma-
no che si sale di quota, lasciando però inalterate nicchie e paraste; internamente, interrompe i due
cannocchiali ottici dati dalle volte a botte per mezzo di un corridoio illuminato dall’alto, che gli
permette di abbassare la quota della seconda volta.
Attorno agli anni ‘40 il Borromini interviene nella costruzione di Santa Maria dei Sette Dolori, un
impianto a geometria semplice che ottiene accostando un ottagono con lati convessi verso l’interno
e un rettangolo dagli angoli smussati. Vi sono due ingressi contrapposti, che seguono gli assi prin-
cipali, caratterizzati da strutture architettoniche diverse e che rendono la pianta da longitudinale a
centrale. L’interno è articolato da un’imponente sequenza di colonne e semicolonne, collegate da
archi che partono dalla trabeazione ininterrotta che segue tutto il profilo interiore. L’esterno è una
massa imponente di mattoni crudi, forse lasciati volutamente all’antica, contrastati dalla facciata
concava del fronte con grandi paraste posizionate anche sugli angoli.
Nel 1653, invece, il Borromini viene incaricato dal marchese Paolo del Bufalo di finire la chiesa di
Sant’Andrea delle Fratte, iniziata anni prima. Il suo compito è di realizzare il campanile e il tambu-
ro della cupola, ma sebbene vi rimanga impegnato per diversi anni, egli deve abbandonarlo in uno
stato frammentario. Il vecchio impianto presenta un’imponente massa di murature impostate su spe-
roni diagonali commentati con colonne, con profilo fuoriuscente verso l’esterno, in ripresa di un
antico mausoleo a canocchia a Santa Maria Capua Vetere. Borromini riproduce alla lettera lo sche-
ma interno: racchiude la curva della cupola in una copertura a forma di tamburo, da cui sporgono
quattro contrafforti fortemente aggettanti, che creano quattro facce uguali, ciascuna consistente in
una grande cavità convessa del tamburo e in più piccole cavità concave dei contrafforti. E’ possibile
che per tale impianto egli si rifaccia alla sezione di un capitello corinzio in scala monumentale. Il
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Nel 1646 Borromini è nominato architetto del Collegio di Propaganda Fide: se in un primo momen-
to decide di lasciare inalterata la chiesa ovale costruita dal Bernini, in seguito interviene demolendo
il lavoro dell’avversario e progettando tutto ex-novo. Realizza una cappella rettangolare ad angoli
smussati a cui affianca delle cappelle laterali, come ha già fatto per l’oratorio dei Filippini; usa un
ordine gigante di paraste, volta a cesta ribassata segnata dai costoloni e trabeazione ben ridotta, al
fine di segnare maggiormente le verticali a scapito delle linee orizzontali. La facciata ovest è dise-
gnata dal Borromini, che la connota in maniera monumentale, svincolandola dal resto dell’edificio:
adotta paraste semplificate a fusto liscio e capitello scanalato, alle cui estremità ci sono due piccole
mensole che reggono la trabeazione ridotta a semplice cornice (come si vede anche nel chiostro di
Santa Maria della Pace di Bramante), il tutto con decori dorici molto sobri. Compaiono qui ampie
finestre che ricoprono piani diversi, mentre sopra la trabeazione le aperture conservano, come sotto,
il timpano alterno e sono inquadrate da paraste binate ben più piccole di quelle inferiori. La facciata
verso Piazza di Spagna è finita, invece, dal De Vecchi, sebbene sia possibile qualche suggerimento
da parte del Bernini: l’ordine architettonico qui è più povero e compaiono i cantonali bugnati in ri-
chiamo del portale centrale.
Tra le chiesa più importanti progettate dal Bernini vi è quella di Sant’Andrea al Quirinale, per il
noviziato dell’ordine dei gesuiti. Da un primo schizzo che riprende un’idea del Serlio con corona di
cappelle e colonne, si passa ad una soluzione più complessa ad ovale traverso. Attorno al perimetro
interno sono collocate delle cappelle che, contrariamente a quanto accadeva nel Quattrocento, sono
posizionate lungo assi diversi; ai lati di queste sono presenti delle paraste, che in corrispondenza
dell’altare (
che reca una pala raffigurante Sant’Andrea sulla croce) vengono abbinate a colonne. La cupola, di-
pinta con angeli, putti e colombe, è tagliata in alcuni punti da finestre posizionate nei cassettoni del-
la copertura, grazie ai quali viene illuminato lo spazio ellittico. Largo è l’uso di materiali preziosi
per l’interno. Lo spazio antistante la chiesa è creato arretrando dal bordo del lotto il filo dell’edificio
e inserendo due bracci laterali; al centro dell’ampio spazio concavo viene collocato un grande ta-
bernacolo convesso con colonne libere davanti, che proietta verso l’esterno l’altare.
Nel 1662 al Bernini viene affidato l’incarico di erigere la chiesa di Santa Maria dell’Assunzione ad
Ariccia, accanto all’antico Palazzo Savelli. Qui realizza una chiesa circolare con cappelle a coro-
namento, pronao loggiato esterno e sagrestia dietro l’abside commentata da due campanili laterali
(che sono ripresi più tardi dal Guerini). Palese è per questa architettura il richiamo al Pantheon: la
forma base della chiesa consiste in un cilindro sovrastato da una cupola semisferica con un’ampia
lanterna. Nella zona della cupola, che presenta ancora cassettoni e costoloni, si trova una decorazio-
ne con putti, angeli e ghirlande. La zona d’ambito della chiesa è circoscritta da un muro, a causa
della pendenza del terreno e della presenza di edifici vicini.
Tra il 1658 e il 1662 Pietro da Cortona fa la facciata alla chiesa di Santa Maria in Via Lata: consiste
in due piani completi con la porzione centrale spalancata e affiancata da pilastri rientranti anziché
sporgenti e con risalto di trabeazione. La parte centrale, che si apre sotto in un portico e sopra in una
loggia, è unita da un grande frontone triangolare nel quale, come in Santa Maria della Pace, è stato
inserito un elemento segmentato: vi è, però, non un secondo frontone, bensì un arco che collega le
due metà della trabeazione interrotta, in un disegno a serliana.
Nel 1664 una serie di architetti europei sono chiamati dal primo ministro Colbert alla corte del Re
Sole per progettare il palazzo imperiale del Louvre, futura residenza dei sovrani. Dall’Italia sono
chiamati Pietro da Cortona e il Bernini, ma questo ultimo si rifiuta di partecipare. Il Cortona, inve-
ce, propone nel suo progetto di chiudere il cortile e di creare un alzato a padiglione centrale e due
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laterali, secondo uno schema tipicamente italiano (caratteristico ad esempio di Palazzo Pitti a Firen-
ze) sovrastato da una cupola. Al piano nobile sono impiegate colonne al centro e paraste ai lati,
mentre inferiormente gli ordini sono poveri e poco decorati; finestre secondo lo stile di Michelange-
lo e Borromini aprono il fronte su più punti. Il progetto non viene approvato. Nel ’65 il Bernini si
decide ad andare a Parigi e qui disegna ben tre progetti, pagati profumatamente ma mai realizzati,
sebbene saranno ripresi negli anni seguenti in tutta Europa. Il primo progetto è centrato sulla faccia-
ta est, che connota con un colonnato con andamento concavo ai lati e convesso al centro, recante sul
retro un grande salone ovale che tiene due piani; il piano secondo, con finestre circolari, paraste
binate e decori con gigli di Francia, si eleva sopra il cornicione uniforme di tutta la facciata. In que-
sta facciata segue il modello di diverse architetture italiane, come Palazzo Barberini e opere del Pal-
ladio e Sansovino, delineando archi e serliane. Ma tale progetto rimane solo sulla carta. La seconda
soluzione ha un ordine gigante applicato al muro sopra il pianterreno a bugnato e presenta un ampio
movimento nella parte centrale concava, sempre in rimando a edifici italiani. Nel terzo progetto
Bernini ritorna al palazzo romano e nel disegnare la facciata est perde in originalità quanto guada-
gna nell’aspetto monumentale: divide il fronte in cinque unità distinte, con la centrale in rapporto
1:2 tra altezza e lunghezza messa in risalto dalle semicolonne giganti; questo motivo è ripreso nelle
paraste giganti delle ali, mentre le sezioni arretrate non hanno alcun genere. Seguendo l’esempio di
Palazzo Farnese, mantiene una vasta superficie di muro liscio sopra le finestre del piano nobile così
come il tradizionale corso lineare sotto le finestre dell’ultimo piano. Per quanto riguarda la facciata
est, il Bernini rimane fedele a tutti quegli elementi da lui considerati indispensabili, sebbene siano
contrari alla tradizione francese: conserva il cornicione unificante, il profilo continuo e il tetto pia-
no, e insiste nel trasferire la corte del re dal tranquillo lato sud all’ala est, la più imponente, ma an-
che la più rumorosa. Fra le altre idee inaccettabili vi è quella di circondare il cortile con porticati
secondo la moda italiana e di posizionare negli angoli scaloni monumentali. Gli architetti francesi
sono aspramente contrari a tutto ciò, così come il primo ministro Colbert, ma il re ha preso in sim-
patia il maestro italiano e lo appoggia: la prima pietra del Louvre, così, è messa in opera tre giorni
prima della partenza di Bernini per l’Italia. Nel giro di poco tempo, però, l’interesse del Re Sole si è
spostato su Versailles e questo è il segnale per Colbert di abbandonare i progetti berniniani.
Nell’estate del 1664, poco prima di partire per Parigi, il Bernini disegna il palazzo che il cardinale
Flavio Chigi ha acquistato dai Colonna. Egli mette una parte centrale riccamente articolata di sette
contrafforti fra due semplici ali rientranti a bugnato, di tre vani ciascuna. Il pianterreno funge da
base per i due piani superiori con le loro gigantesche paraste composite, così vicine le une alle altre
che le edicole delle finestre del piano nobile occupano tutto lo spazio. La relazione del pianterreno
con i due ordini superiori, il passaggio da semplici finestre con pesanti edicole del piano nobile alle
leggere e allegre cornici delle finestre del secondo piano, il ricco ordine composito delle paraste, il
robusto cornicione con mensole sovrastate da una balaustra aperta, la contrapposizione della parte
centrale altamente organizzata con le ali non rifinite, e infine, il forte rilievo dato all’ingresso con le
colonne toscane libere, balcone e finestra superiore: tutto ciò è qui combinato in un disegno di au-
tentica nobiltà e ingegnosità. Il Bernini ha qui trovato la formula per il palazzo barocco aristocratico
e l’immensa influenza di questo si estenderà oltre i confini d’Italia. Questa facciata ben equilibrata
viene sciupata nel 1745, quando il palazzo è acquistato dagli Odescalchi: i loro architetti, Salvi e
Vanvitelli, raddoppiano la parte centrale, che ha ora sedici pilastri invece di otto e due portali
d’ingresso anziché uno. La facciata attuale è troppo lunga rispetto all’altezza e non vi è più il senso
delle proporzioni voluto dal Bernini.
Guarino Guarini
Nasce a Modena nel 1624 e qui ha modo di crescere e formarsi, entrando a far parte dell’Ordine dei
Teatini nel 1639 e spostandosi a Roma dove studia teologia, filosofia, matematica e architettura. Di
ritorno a Modena nel 1647 è ordinato sacerdote e ben presto nominato insegnate di filosofia. In que-
sti anni lavora come architetto per la chiesa dell’Ordine Teatino, progettata con pianta a croce greca
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e cupola retta da piloni rivolti in diagonale verso la crociera della volta; prevede un’enfatizzazione
dell’alzato con ordini nobili sull’ingresso e poveri ai lati, mentre lo spazio centrale sotto la cupola
presenta uno spettacolare tamburo con elementi a serliana. Nel 1655 nascono divergenze fra lui e la
corte ducale e lascia Modena per trasferirsi a Messina. Qui progetta due importanti edifici, la chiesa
dei Padri Somaschi, con impianto simile alla Rotonda degli Angioli del Brunelleschi (mai eseguita)
e la facciata della Santissima Annunziata, distrutta nel 1908. Torna a Modena, da dove ben presto
parte alla volta dell’Europa, visitando la Francia, la penisola iberica e l’Europa centrale, dove lascia
opere come Sant’Anne La Royale di Parigi (demolita successivamente), Santa Maria della Divina
Misericordia di Lisbona (distrutta da un terremoto) e Santa Maria da Altötting a Praga. Si trasferisce
poi a Torino nel 1666, dove lavora per il casato dei Savoia. Durante la sua permanenza in Francia
egli ha modo di osservare e studiare i progetti del Bernini per il Louvre, in particolare il primo.
Chiara è anche l’influenza della lezione del Borromini, così come traspare nei trattati del Guarini; a
Parigi egli si occupa di palazzi di grandi dimensioni e segue uno schema che prevede un corpo cen-
trale avanzato, ingresso principale accentuato, padiglioni laterali, cortile con alzati uguali a due a
due, pareti inflesse con colonne libere addossate e facciata scandita da due logge sovrapposte, la
prima in dorico austero e la seconda a serliana. A Torino, nel 1676 il principe Emanuele Filiberto di
Savoia-Carignano (detto il Muto) gli affida la trasformazione del Castello Reale di Racconigi, gran-
diosa e complessa costruzione medievale, in villa residenziale. Viene progettato un vero e proprio
rifacimento, eseguito però solo in parte con la costruzione dell’attuale facciata verso il parco, a fa-
sce astratte che scandiscono il prospetto orizzontalmente e verticalmente (in proposizione di archi-
tetture presenti a Modena) e del padiglione centrale a chiusura del cortile interno; copre la sala cen-
trale del palazzo con una volta a botte traforata da sorgenti di luce nascoste, in rimando ad esempi
di Bernini e Borromini, della quale svuota il guscio e lo innerva di costoloni, lasciando aperti dei
grandi fori che permettono alla luce di entrare. Del 1679 è, invece, il magnifico Palazzo Carignano,
accentrato attorno ad un ambiente ellittico ad atrio esagonale e ambulacro circostante, con due spazi
laterali che conducono alle rampe di salita e diversi ambienti di suddivisione. L’alzato prevede cur-
ve e controcurve nella parte centrale, così come si vede nel primo progetto berniniano per il Louvre,
e presenta una loggia monumentale con grande tabernacolo e scansione dell’edificio con ordini ar-
chitettonici ben distinti. I decori ricoprono tutto l’edificio, più sterili però all’interno, e particolari
sono i fusti delle paraste abbinate in facciata, realizzate in cotto: al livello inferiore sono altamente
lavorate e inquadrano anche il mezzanino superiore, mentre al secondo livello i fusti sono lisci e
contengono ben tre mezzanini.
Carlo Emanuele II di Savoia gli affida la realizzazione della Cappella della Santissima Sindone, che
ha di per sé le dimensioni di una chiesa, già iniziata qualche anno prima da Amedeo di Castella-
monte all’estremità orientale del Duomo e strettamente congiunta al palazzo. Il Guarini lavora per
mesi con un gruppo di ebanisti, al fine di realizzare un modello fedele del suo progetto, e nella cap-
pella, che per forza di cose deve avere pianta centrale ed alzarsi come una torre per essere vista da
lontano, lascia inalterati i pilastri già presenti alternati a colonne libere e posiziona due accessi cir-
colari laterali, articolati sulla ripetizione di tre colonne in modulo, in riferimento alla Trinità. Viene
data una scansione ad arco di trionfo alla tribuna che porta la reliquia e realizza una struttura che
scarica il peso su piloni alterni, mentre su quelli non portanti sono messi archi e pennacchi senza
funzione strutturale. La struttura della cupola, che poggia su un tamburo molto alto alleggerito da
sei finestroni e cinghiato alla base con anelli lapidei, poggia su un sistema di archi portanti in mar-
mo nero che diventano più bassi man mano che si procede con la quota (per dare l’idea che sia più
alta) e poggiano sulla mezzeria di quelli sottostanti, fino alla stella a dodici punte che costituisce la
sommità. Dietro le vetrate superiori sono sistemate delle camere che diffondono e affievoliscono la
luce verso la parte bassa della chiesa, mentre tutta la cappella presenta decori con chiodi, passiflora
e corone di spine, simboli della passione di Cristo. All’esterno è caratterizzato dalle sei grandi fine-
stre del tamburo, unite sotto un cornicione ondulato che rimanda ad esempi di Bernini e Borromini.
Sopra a questo appare lo straordinario labirinto di gradini a zig-zag, che in realtà sono i costoloni
segmentati della cupola. Infine c’è il sereno motivo orizzontale ad anelli che diminuiscono di misu-
ra, coronati dalla struttura a pagoda alla quale nulla corrisponde all’interno.
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Nel 1668 Guarini incomincia a lavorare alla chiesa di San Lorenzo, vicina al Palazzo Reale dei Sa-
voia. La forma base della pianta è un ottagono con gli otto lati ricurvi verso lo spazio principale,
ognuno consistente in una serliana, che rende difficile o persino impossibile accorgersi della vera
forma dell’impianto. Dietro la transenna di sedici colonne di marmo rosso ci sono nicchie con statue
bianche davanti ad uno sfondo nero ed incorniciate da paraste anch’esse bianche. In tal modo esiste
una certa continuità di motivi interni, ma vi sono tante unità e motivi differenti ad arrivare a contare
fino a 8, 9 tipi di sostegni diversi. Il robusto cornicione sopra gli archi mette in evidenza la forma
ottagonale, ma nella zona adiacente c’è un inaspettato cambiamento di significato, con i pennacchi
esagonali posti negli assi diagonali e l’ottagono che a questo livello si trasforma in una croce greca
con bracci molto corti. Sopra la zona dei pennacchi vi è una galleria con finestre ovali, intervallate
da otto paraste dalle quali partono i costoloni della volta, sistemati in modo tale da formare una stel-
la a otto punte e un ottagono regolare aperto al centro. Sopra l’apertura centrale si erge una lanterna,
costituita da tamburo e cupola, alta esattamente come la cupola principale. All’esterno la cupola ha
di nuovo aspetto di un tamburo che è coronato da un secondo tamburo piccolo e da una cupola. Fra
la cupola e la lanterna è inserita una zona con finestre che gettano luce attraverso un anello aperto di
segmenti disposti intorno all’ottagono più interno della cupola e spostano la trabeazione sopra tali
aperture. Tutta la struttura grava su quattro grandi arconi nascosti, proprio dietro le file di cherubini
che fingono di reggere la cupola. Inoltre, realizza veri e propri pozzi di luce che illuminano lo spa-
zio interno, oltre alle numerose aperture che traforano la facciata; questa ultima non è tanto elabora-
ta, perché tende ad uniformarsi a quelle degli edifici laterali. Sempre per monumentalizzare l’opera
e trasmettere l’effetto di un’architettura miracolosa, esternamente realizza un campanile a forma di
colonna, in rimando ad esempi parigini, sebbene inizialmente ne preveda ben due. Possibili fonti
per questa chiesa sono, oltre agli stessi Bernini e Borromini, anche alcune architetture tipiche pie-
montesi ed arabe, come la moschea di Cordoba.
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ARCHITETTURA GRECA
Partenone
Artemision di Efeso
Tempio Heraion di Samo
Tempio di Era (Paestum)
Tempio di Atena (Paestum)
Tempio di Egina Atena
Tempio di Zeus
ARCHITETTURA ROMANA/PALEOCRISTIANA
Colosseo
Pantheon
Arco di Costantino
Arco di Settimio Severo
Mausoleo di Diocleziano
Basilica di Massenzio
Mausoleo di Galla Placidia
Basilica sant’Appollinare nuovo
Mausoleo di Teodorico
Santa Sofia Costantinopoli
San Vitale Ravenna
Chiesa santi Sergio e Bacco
ARCHITETTURA ROMANICA
Basilica di sant’Ambrogio
Basilica di San Michele
Basilica sant’Abondio
San Geminiano a Modena
San Marco Venezia
San Zeno maggiore
Battistero san Giovanni
Basilica san Miniato al Monte
Duomo di Pisa
San Ciriaco ad Ancona
San Nicola Bari
Cattedrale san Nicola pellegrino (Trani)
ARCHITETTURA GOTICA
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