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Storia contemporanea

30/09

Cose dette dal prof:

• Libro storia contemporanea dal XIX secolo al XXI secolo


• Capitoli da non fare 13-17
• Prova intermedia orale dal capitolo 1 al capitolo 7
• Esame: un argomento a piacere e domande

La storia
La storia è la disciplina che si occupa dello studio del passato e delle attività che
l’uomo ha compiuto nel corso dei secoli e dei millenni. Un momento cruciale che
gli studiosi hanno preso come riferimento è la comparsa della scrittura e delle
prime fonti scritte. Prima di allora si parla di preistoria. La preistoria è quel
periodo che va dalla comparsa dell’uomo sulla Terra fino alle più antiche civiltà
della Mesopotamia.
La storia ci consente di capire come si è evoluto l’uomo e la civiltà, i progressi che
sono stati fatti nel corso dei secoli e capire le cause di tanti fatti del passato e del
presente con maggiore consapevolezza. Questo è possibile grazie allo studio
delle fonti. Le fonti sono testimonianze storiche di diversa tipologia che ci
comunicano informazioni sul passato.
“La storia è testimonianza del passato, luce di verità, vita della memoria, maestra
di vita, annunciatrice dei tempi antichi.” - Cicerone
La parola storia deriva dal greco antico e sta a significare “ispezione”, “ricerca” e
“conoscenza”. Queste tre parole descrivono perfettamente il ruolo che hanno gli
storici che sono gli studiosi della storia. Lo storico è una persona che racconta e
descrive la storia. Il suo compito è raccogliere, analizzare e studiare le tracce e
renderle usufruibili da tutti.

Lo storico
Lo STORICO studia ed analizza i fatti sociali, politici ed economici delle comunità
e società nel corso del tempo. L’attenzione degli STORICI non si rivolge in modo
esclusivo ai grandi eventi, ma può riguardare anche la ricostruzione ed analisi
della vita quotidiana di persone, comunità e istituzioni. Gli storici sviluppano
conoscenze e competenze metodologiche necessarie a saper valutare ed
interrogare correttamente le fonti (per esempio, archivi, libri, locandine, filmati,
interviste, manufatti…) e a condurre analisi comparative volte a comprendere le
dinamiche dei mutamenti dei fenomeni sociali e politici. Anche grazie a queste
capacità di analisi comparativa, che sviluppano nel percorso formativo e
professionale, non sono rari i casi in cui gli storici si dedicano alla comprensione
di eventi contemporanei.

Le teorie storiche
Giambattista Vico
La storia per Giambattista Vico è una scienza che ha per oggetto una realtà
creata dall'uomo e quindi più vera e, rispetto alle astrazioni matematiche,
concreta. La storia rappresenta la scienza delle cose fatte dall'uomo e, allo stesso
tempo, la storia della stessa mente umana che ha fatto quelle cose.
Benedetto Croce
La storiografia si distingue, senza negarla, dalla scienza, essa - affermò il C.
all'inizio - può esser ridotta al concetto generale dell'arte, ma l'ulteriore sviluppo
della sua indagine è volto a distinguere tra arte e storia: la prima è una forma di
conoscenza che si distingue dalla storica e dalla scientifica, in quanto è
"intuizione", indipendente dalla conoscenza razionale, dall'utilità e dalla morale,
e s'identifica con la sua espressione.

Lezione 1
Introduzione
Storia contemporanea
La storia contemporanea inizia dal 1814. l’Ottocento viene definito in due modi:
• un secolo di confine ci sono degli avvenimenti
• sempre come il “secolo lungo ‘’ e coincide anche con un momento storico molto
dinamico sul piano sociale, politico.

La storia contemporanea è una materia recente nasce dalla storia del


risorgimento furono alcuni professori del risorgimento che non volevano studiare
la storia antica quindi il professore Giovanni Spadolini nasce a Firenze il 21
giugno 1925 e muore a Roma il 4 agosto 1994. Nel novembre 1947 si laurea in
giurisprudenza nell'ateneo fiorentino e intraprende subito un'intensa attività
giornalistica. Nel 1948 inizia a collaborare a "Il Messaggero" e l'anno successivo
a "Il Mondo" di Mario Pannunzio, il periodico più importante del secondo
dopoguerra. Giornalismo, ricerca storica, politica: sono le tre direzioni alla e quali
Spadolini ha rivolto nell'arco della vita la sua prodigiosa attività. Il giornalista. A
29 anni assume la direzione del quotidiano «Il Resto del Carlino», tenuta per
quattordici anni fra il 1955 e il 1968, lasciata da Spadolini quando è chiamato a
dirigere il «Corriere delle Sera», fra il 1968 e il 1972. È poi la volta della

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collaborazione fissa a «La Stampa» di Torino, durata fino alla morte. E nel
frattempo, fin dalla metà degli anni Cinquanta, ha diretto e animato la rivista
culturale «Nuova Antologia», uno dei più antichi periodici europei, nata a Firenze
nel 1866. Direzione che avrebbe lasciato solo con la scomparsa, nell'estate del
1994. Lo storico e il docente universitario. Nel 1950 Spadolini è incaricato
dell'insegnamento di Storia Moderna II alla Facoltà di Scienze politiche di
Firenze, titolare di quella che diverrà dieci anni più tardi la prima cattedra in
Italia di Storia contemporanea. I suoi filoni di indagine e di ricerca storiografica
sono i rapporti fra Stato e Chiesa, le vicende dei partiti e dei movimenti politici, la
revisione del Risorgimento, la storia di Firenze e della Toscana nel contesto
italiano ed europeo. Fra politica e cultura. Nel marzo 1972 Spadolini entra
direttamente nella vita politico-parlamentare e viene eletto senatore a Milano,
come indipendente nelle file del Partito repubblicano italiano. Soltanto due anni
più tardi è chiamato da Aldo Moro a far parte del suo governo come Ministro e
fondatore del Ministero per i beni culturali e ambientali. Dopo questa importante
esperienza nel 1979 è Ministro della pubblica istruzione e, pochi mesi dopo,
scomparso Ugo La Malfa, è eletto segretario nazionale del Partito repubblicano, a
cui darà un'impostazione dinamica e moderna. L'esperienza più eclatante di
Spadolini politico avvenne nel 1981 allorché il presidente della Repubblica
Sandro Pertini lo chiamerà a formare il primo governo laico, cioè non guidato da
un esponente della Democrazia Cristiana, dalla proclamazione della Repubblica in
poi. Nei successivi governi presieduti da Bettino Craxi, Spadolini è ministro della
Difesa (1983). Nel 1987 viene eletto a larghissima maggioranza presidente del
Senato, la seconda carica istituzionale dello Stato, ricoperta con continuità fino
all'aprile 1994, poche settimane prima della sua morte. Spadolini aveva istituito
nel 1980 la Fondazione Spadolini Nuova Antologia, nominandola erede universale
di tutti i suoi beni. Oggi la Fondazione assicura la puntuale uscita della «Nuova
Antologia» ogni trimestre, mette a disposizione del pubblico la sua ricchissima
biblioteca (di cui si sta completando l'informatizzazione), promuove pubblicazioni
e assegna borse di studio, oltre a organizzare convegni e mostre documentarie e
artistiche. Proprio per i suoi straordinari meriti culturali, Spadolini fu nominato
senatore a vita il 2 maggio 1991 dal presidente della Repubblica Francesco
Cossiga, per "aver illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo scientifico,
letterario e sociale". È stato inoltre accademico dei Lincei, ha presieduto
l'Università commerciale Luigi Bocconi di Milano (dal 1976 fino alla morte), la
Giunta centrale degli studi storici, l'Istituto italiano di studi storici di Benedetto
Croce, la Società toscana per la storia del Risorgimento.

Congresso di Vienna

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Congresso convocato a norma della prima Pace di Parigi del 30 maggio 1814 con
il compito di dare un nuovo assetto politico all’Europa dopo la sconfitta della
Francia napoleonica, cui presero parte tutti gli Stati europei, ma che in realtà fu
dominato dalle maggiori potenze europee uscite vittoriose dalla guerra. Sulle
prime i lavori andarono a rilento. Metternich per l’Austria, lo zar Alessandro I
insieme al conte di Nesselrode per la Russia, K.A. Hardenberg per la Prussia,
R.S. Castlereagh e poi Wellington per la Gran Bretagna, pur essendo tutti
d’accordo sulla necessità di fondare il nuovo ordinamento politico-territoriale
del continente su un equilibrio politico che fosse garante della pace futura del
continente e neutralizzasse la Francia, avevano tuttavia idee diverse e
contrastanti sulle modalità di realizzazione pratica di tale obbiettivo. In
particolare, Prussia e Russia premevano per l’annessione rispettivamente di tutta
la Sassonia e di tutta la Polonia, ma questo loro programma era avversato da
Metternich, il quale, con l’aiuto di Castlereagh, riuscì a contenere in più modesti
limiti le pretese delle corti di Berlino e di San Pietroburgo. Il principio
fondamentale della politica di Metternich, che fu il supremo moderatore del
Congresso, era quello di togliere alla Francia qualsiasi capacità di ripresa di mire
egemoniche su scala continentale e garantire un equilibrio europeo dominato
dalle potenze vincitrici del conflitto con Napoleone I, all’interno del quale fosse
però centrale la posizione dell’Austria. Anche questo disegno poté attuarsi solo in
parte, perché l’abilità diplomatica di Talleyrand seppe presentare gli interessi
della Francia come distinti da quelli napoleonici e trarre partito dalle divergenze
sorte tra le quattro potenze per la soluzione delle questioni polacca e sassone,
riuscendo a limitare al minimo i danni in materia di cessioni territoriali e
preparando il terreno per un futuro reinserimento della Francia nei centri
decisionali della grande politica europea. A causa di queste e altre divergenze i
negoziati tra le potenze, iniziati nel sett. 1814, si protrassero fiaccamente sin
verso il marzo del 1815, quando la notizia dello sbarco di Napoleone in Francia
ricostituì la solidarietà della Grande alleanza e accelerò e facilitò la ricerca di un
compromesso fra le parti. In poco più di due mesi si giunse alla redazione
dell’atto finale del Congresso, firmato dalle quattro potenze antinapoleoniche e
dalla stessa Francia, dal Portogallo, dalla Svezia e poi da tutti gli Stati minori, a
eccezione della Santa Sede. La Francia, nella quale fu restaurata la monarchia
borbonica con Luigi XVIII, grazie a Talleyrand ottenne il grande successo di poter
ritornare semplicemente ai confini del 1789 senza ulteriori perdite. Ai suoi confini
nacquero il regno dei Paesi Bassi, affidato a Guglielmo I d’Orange e
comprendente gli ex Paesi Bassi austriaci e l’ex Repubblica di Olanda, e la
Confederazione germanica formata da 39 Stati, fra cui Austria e Prussia, i cui
rappresentanti si riunivano a Francoforte in una Dieta federale presieduta

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dall’Austria; la Svizzera fu dichiarata neutrale in perpetuo; il regno di Sardegna
fu ingrandito della Repubblica di Genova. La Prussia perse una parte dei territori
acquistati a fine Settecento con la spartizione della Polonia, ma ottenne notevoli
ingrandimenti con l’acquisto della Pomerania svedese, di parte della Sassonia e di
territori sulla riva sinistra del Reno ricchi di giacimenti minerari, con grandi
potenzialità di sviluppo economico e posizione strategico-militare di cruciale
importanza nel contenimento di eventuali tentativi di rivincita francesi. Alla
Russia fu riconosciuta la sovranità solo sul granducato di Varsavia e non su tutta
la Polonia come avrebbe voluto, ma in compenso ottenne anche la Bessarabia e
la Finlandia tolte rispettivamente alla Turchia e alla Svezia. L’impero asburgico
compensò ampiamente la perdita dei Paesi Bassi con l’acquisto del Veneto a
danno della non restaurata Repubblica di Venezia (assieme alla Lombardia formò
il regno del Lombardo-Veneto), gli fu restituita la parte della Galizia che aveva
perso nel periodo napoleonico a favore del granducato di Varsavia e assunse una
funzione preminente nella Penisola Italiana e nella Confederazione germanica. La
Svezia fu compensata della perdita della Pomerania a favore della Prussia e della
Finlandia a favore della Russia ottenendo l’unione nella persona del sovrano con
il regno di Norvegia, tolto alla Danimarca alleata fedele di Napoleone.
L’Inghilterra ritornò in possesso dell’Hannover, conservò Malta e le Isole Ionie
nel Mediterraneo, Helgoland nel Mare del Nord, e ottenne, cedute dall’Olanda, la
Colonia del Capo in Sudafrica e l’isola di Ceylon nell’Oceano Indiano. In Italia non
furono restaurate né la Repubblica di Venezia, il cui territorio unito a quello della
Lombardia entrò a far parte del regno del Lombardo-Veneto sotto la sovranità
dell’Austria, né quella di Genova (la Liguria andò ai Savoia), né quella di Lucca,
eretta a ducato e data provvisoriamente ai Borbone di Parma in attesa
dell’annessione alla Toscana dei Lorena prevista dopo il loro ritorno a Parma, che
nel 1815 fu assegnata a vita a Maria Luisa d’Austria. Modena e Reggio furono
date a Francesco IV d’Austria-Este, che avrebbe avuto in eredità anche Mass
a e Carrara, temporaneamente assegnate a sua madre, Maria Beatrice d’Este-
Cybo. In Toscana tornarono gli Asburgo-Lorena. Lo Stato pontificio fu restaurato
con le Legazioni; la dinastia borbonica di Napoli riebbe il regno di Napoli e quello
di Sicilia che furono fusi nel nuovo e unico regno delle Due Sicilie. Queste
disposizioni garantivano la centralità dell’impero asburgico nel sistema delle
potenze europee, una centralità che si protrasse per tutta la prima metà del XIX
sec., nonostante i sussulti rivoluzionari nazional-liberali che la scossero
ripetutamente nel 1820-21, 1830-31, 1848-49. L’equilibrio politico territoriale
stabilito a Vienna andò definitivamente in frantumi tra il 1859-60 e il 1866-70
con l’unificazione politica dell’Italia e della Germania. Suoi principali strumenti di
difesa erano stati la Santa alleanza (Russia, Prussia e Austria) e soprattutto la

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Quadruplice alleanza (Austria, Russia, Prussia, Inghilterra) che avevano difeso i
deliberati di Vienna del 1815 fino al 1848-49 attraverso l’uso anche della forza
militare (principio dell’intervento, che tuttavia l’Inghilterra non aveva mai inteso
come rivolto alla soluzione di problemi interni dei singoli Stati)

Rivoluzione francese
Alla base della Rivoluzione Francese c’è, essenzialmente, il malcontento della
popolazione. La Francia, a seguito della Rivoluzione Americana, è finita sull’orlo
della bancarotta. Alla crisi economica si aggiungono pessimi raccolti ed epidemie
del bestiame. I contadini fanno la fame, mentre nelle città il prezzo del pane è
schizzato alle stelle. Il cosiddetto Terzo Stato, ovvero il 98% della popolazione
francese, è inoltre stanco dei soprusi e dei privilegi degli altri due ceti (nobiltà e
clero), che non sono tenuti a pagare le tasse. A spingere verso il cambiamento ci
sono inoltre l’inadeguatezza del sovrano e gli ideali dell’illuminismo dicono che il
potere non dipende da dio ma dipende dagli uomini lo esercitano dalla divisione
dei poteri:
• il potere legislativo è attribuito al Parlamento
• al governo spetta il potere esecutivo
• mentre la magistratura, indipendente dall'esecutivo e dal potere legislativo,
esercita il potere giudiziario.
• Informazione composto da due mezzi la stampa che serviva solo chi sapeva
leggere, il teatro era il primo mezzo immediato per tutti perché potevano vedere
uno spettacolo teatrale nasce così il teatro popolare
Per questo la monarchia non più è assoluta ma diventa una democrazia dove il
re deve tenere conto della borghesia che tiene conto delle di Napoleone.

Napoleone
La vita di Napoleone Bonaparte è stata un susseguirsi di eventi importanti, sia
per il periodo storico in cui è vissuto, sia per le sue gesta in sé. Ma andiamo a
piccoli passi e partiamo dalle cose più semplici. Ecco la sua biografia in sintesi,
dall'infanzia, alle campagne in Europa arrivando poi all'esilio e alla morte all'isola
di Sant'Elena. L'infanzia e l'arrivo in Francia Napoleone Bonaparte nasce il 15
agosto 1769 ad Ajaccio in Corsica. A 5 anni fu mandato alla scuola dell'infanzia e
poi seguito da alcuni familiari, ma fu nel 1779 che fu iscritto dal padre alla Scuola

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reale di Brienne-le-Château, nel nord della Francia, dove rimase fino al 1984.
Inizialmente, il piccolo Napoleone non si sentiva parte della Francia, tanto che
aveva difficoltà anche a parlare la lingua in maniera corretta. Con il tempo, però,
riuscì a sviluppare più sicurezza e ad acquisire le giuste competenze per iniziare a
fare carriera, soprattutto nell'ambito delle armi. Fu iscritto alla scuola militare di
Parigi e nel 1785 fu nominato sottotenente di artiglieria. La Rivoluzione
Francese, la Campagna d'Italia e quella d'Egitto Durante la Rivoluzione Francese,
Napoleone ebbe modo di distinguersi da tutti gli altri sottotenenti esponendosi in
prima linea sulla questione della Corsica. La piccola isola voleva approfittare della
situazione per dichiarare indipendenza dalla Francia, ma Bonaparte condusse una
ferrea campagna per evitare la secessione della sua terra natia. E ci riuscì. Nel
1976 gli venne assegnata la conduzione della campagna d'Italia, considerata
secondaria rispetto ad altri territori d'interesse francese. L'impresa in realtà si
rivelò molto positiva e i risultati andarono oltre ogni aspettativa: Napoleone
vinse la battaglia contro gli austriaci, conquistando il Piemonte, la Liguria, parte
della Lombardia e la Toscana. Il Direttorio fu molto colpito dall'esito di questa
campagna tanto che decise di mandarlo in Egitto, con obiettivi molto simili a
quelli italiani. Riuscì a conquistare le zone settentrionali della regione del Nilo,
cercò di arrivare in Siria, ma il peggiorare della situazione in Italia lo costrinse a
tornare in patria. Napoleone Console e il Codice Napoleonico Nel 1800, fu
approvata una nuova costituzione da parte del plebiscito e, secondo questo
nuovo testo, il primo dei consoli assumeva pieno potere. Di fatto, quindi,
Napoleone assumeva il controllo di tutto, con l'appoggio della borghesia e dei
diversi strati popolari. Questo suo nuovo incarico inizialmente portò molti frutti
molto positivi: l'istituzione della Banca di Francia, nel 1804 varò il codice
napoleonico, un insieme di leggi che garantivano la libertà delle persone,
l’eguaglianza giuridica, l’autonomia dello Stato dalla Chiesa, la libertà di
impresa. Napoleone Imperatore Seppur con poteri non del tutto ufficiali, nel
1804 fu nominato da un plebiscito come Imperatore dei Francesi. Poi, con la
benedizione del papa Pio VII, diventò anche Imperatore del Regno d'Italia. In
questi anni, fino al 1806, Napoleone riuscì a soggiogare diverse aree dell'Europa,
fino ad arrivare all'Impero Prussiano. Tentò una campagna di conquista della
Gran Bretagna ma fu sconfitto nella Battaglia di Trafalgar. L'Inghilterra istituì un
blocco navale nei confronti della Francia, che rispose con un blocco
continentale. Le prime sconfitte di Napoleone e esilio. Dopo il 1810, inizia il
declino di Napoleone: l'evento culminante è stata la campagna di Russia.
Bonaparte tentò di affrontare l'esercito dello zar Alessandro I. Fu un totale
fallimento, l'esercito napoleonico non riuscì a sopportare le tremende condizioni
climatiche che lo costrinsero alla ritirata. Napoleone fece ritorno a Parigi e

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dovette affrontare la delusione da parte di tutti: borghesia e membri del governo.
Tutti gli stati satelliti si ribellarono all'imperatore, finché non fu costretto ad
abdicare. Riuscì a coprire il regno dell'Isola d'Elba. Tentò un ritorno in Francia ma
il suo regno durò solo cento giorni. Napoleone uscì completamente perdente da
questo suo ultimo tentativo di presa del potere, tanto che fu costretto ad
accettare l'esilio nell'Isola di Sant'Elena, dove rimase fino alla morte il 5 maggio
1821.

1815

• spagna, Francia, il Regno Unito , portogallo sono detti stati nazionali è uno stato
costituito prevalentemente da una comune e omogenea entità culturale o etnica:
i suoi cittadini condividono, infatti, linguaggio, cultura e valori, diversamente da
quanto può avvenire in altri Stati di cui si conoscono esempi storici.
• Lo stato asburgico viene definito uno stato multinazionale è un'impresa che
possiede filiali in più stati del mondo come il sacro romano impero è detto
"impero" perché comprende, in una zona molto vasta, territori diversi posti sotto

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una sola autorità: dall'Italia centro-settentrionale fino alla Francia, alla Spagna e
alla Germania.
Si chiama "romano" perché, nonostante le numerose differenze (soprattutto dal
punto di vista organizzativo e politico), si ispira al modello romano antico.
Infine, l'aggettivo "sacro" deriva dal fatto che il nuovo potere è fondato
sull'alleanza tra il Papa e i Franchi, che risale ai tempi di Pipino il Breve.
• Il regno ottomano e il regno sono stati sovranazionali: Che è al disopra di una o
più nazioni: autorità, potere s., che ha giurisdizione, che si esercita su un gruppo
di nazioni, al disopra dei singoli poteri di ciascuna nazione. Comunità s., in senso
lato, ogni unione internazionale di stati istituzionalmente organizzata, dotata
cioè di organi proprî, agendo per mezzo dei quali viene naturalmente a porsi
«sopra gli stati». 2. Che trascende considerazioni e fini puramente nazionali, che
supera le divisioni di carattere nazionale: interessi s.; movimento, partito
sovrannazionale.

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Dopo il Congresso di Vienna del 1814-15, la penisola italiana era così suddivisa:
• il Nord-Ovest era occupato dal Regno di Sardegna, guidato dalla dinastia dei
Savoia
• regno lombardo-veneto è un regno istituito al Congresso di Vienna il 7 aprile
1815 riunendo gli ex-ducati di Milano e di Mantova, la Terraferma veneziana e
una parte della Legazione di Ferrara, passati sotto il dominio austriaco alla
Restaurazione. Costituì uno Stato solo nominalmente, consistendo piuttosto di
due regioni sottoposte al rigido controllo del governo centrale di Vienna; il
territorio a destra del Mincio prese il nome di Governo milanese, quello a sinistra
di Governo veneto. Ogni governo si divideva in province, formate da più distretti
a loro volta comprendenti vari comuni. Le congregazioni centrali e provinciali,
organi di rappresentanza locali, erano di fatto prive di autonomia. I codici

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austriaci, in vigore il 1° gennaio 1816, sostituirono quelli francesi. Dal 1856 a
capo dell’amministrazione fu posto l’arciduca Massimiliano. L’Austria favorì lo
sviluppo del Regno: l’istruzione venne curata, l’amministrazione fu competente e
si ebbe un crescente progresso economico e solide finanze. Ma gli attivi di
bilancio erano distratti a favore dell’amministrazione centrale, come a favore
delle regioni transalpine era ordinato il sistema doganale, la politica ferroviaria, il
controllo industriale. Ciò determinò, nell’atmosfera patriottica del Risorgimento,
l’avversione dei ceti urbani contro l’Austria e il Regno L. che la rappresentava.
Privato della Lombardia nel 1859 (pace di Zurigo), cessò di esistere nel 1866
quando anche il Veneto fu incorporato all’Italia.
• nell’Italia centrale si trovavano alcuni ducati, il Granducato di Toscana il
granducato di Modena, di parma
• lo Stato pontificio, governato direttamente dal Papa
• il Mezzogiorno continentale e la Sicilia costituivano il Regno delle Due Sicilie,
guidato dalla dinastia dei Borbone.

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Lezione 2
L’ Europa del 1815 è stata costruita perché nessuna delle grandi potenze potesse
acquisire un cosi poco potere da non dare fastidio a altri stati tanto che Austria,
Russia danno vita a un patto la santa alleanza è una dichiarazione politica, poi
sistema politico che regolò la vita dei principali Stati europei dal 1815 al 1830. La
dichiarazione, firmata a Parigi il 26 settembre 1815 da Alessandro I di Russia,
Federico Guglielmo III di Prussia e Francesco II d’Austria, fu voluta dallo zar e
affermò il principio che i tre sovrani, rappresentanti delle confessioni ortodossa,
protestante e cattolica, dovevano restare sempre uniti come fratelli e governare i
popoli con paterna sollecitudine per alimentare in essi lo spirito di fratellanza
evangelica e l’amore della religione, della pace, della giustizia. In seguito,
aderirono anche i re di Francia, dei Paesi Bassi, di Svezia e di Sardegna; non
aderirono invece Pio VII e il principe reggente d’Inghilterra. Tuttavia, il ministro
degli esteri britannico R.S. Castlereagh promosse il rinnovamento (20 novembre
1815) della quadruplice alleanza con Austria, Prussia e Russia del 1° marzo 1814,
che fu la base concreta della cosiddetta politica dei congressi condotta poi dalle
potenze alleate. L’apogeo della S. è rappresentato dalla repressione dei moti
italiani del 1820-21 e dalla campagna spagnola del 1823. Entrò in crisi con la
Rivoluzione francese del 1830 ha un compito specifico serve a dare ordine
all’Europa ed è la guardia della restaurazione ideologica e politica, geografica e
dello stato quo nessuno supera lo stato:
• Francia

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• Gran Bretagna
• Austria
• Ungheria
• Impero russo
• Impero ottomano

Questi stati possono liberare lo stato quo nessuno si può permettere di conquistare i
piccoli stati italiani questo è un principio della santa alleanza e della restaurazione
portata avanti dagli imperi multinazionali ma hanno sistemi assolutistici cioè non esiste
il sistema costituzionale e parlamentale ma questi due sistemi esistono soltanto in due
stati Inghilterra è una parte di un grande stato la gran Bretagna ma ci altri stati:

• Scozia
• Galles
• Irlanda è uno stato che divisa in due: Irlanda e Irlanda del nord
• Regno unito o gran Bretagna la quale a sua volta c’è un altro stato che ha un
importante costituzione ma è rimasto così ha un sistema democratico e
parlamentare la divide dal regno unito dalla forma di stato che è gli stati uniti che
sono repubblicani.
Nella nostra Europa ci sono stati multinazionali come
• Austria
• Russia
• Impero Romano
Sono stati che incidono tante nazionalità che non si sono ancora tenute
indipendenti questi sistemi hanno una forma di stato la monarchia dove la figura
cardine è l’imperatore
• Imperatore Ottomano
• Lo zar in Russia
• Imperatore romano
Negli imperi il potere è assoluto ma nella monarchia inglese il re deve
condividere il potere con il parlamento ma con la Rivoluzione francese la
necessità della costituzione e separare i poteri per quanto sconfitta negli altri
imperi è sostenuta dagli stati Uniti, gran Bretagna e dalla Francia dove viene
restaurata la dinastia di Luigi XVI. Il nuovo sovrano luigi XIII deve dividere in
qualche modo il suo potere con il parlamento.

Parlamento
Il Parlamento è un organo rappresentativo del popolo, esso ha una struttura
bicamerale: è formato dalla Camera dei deputati e dal Senato della Repubblica.

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Le due camere sono organi del tutto distinti ma hanno uguali poteri e questo si
dice bicameralismo perfetto.
• La Camera dei deputati è eletta a suffragio universale dai cittadini che abbiano
raggiunto la maggiore età. I deputati sono 630 e sono eleggibili tutti gli elettori
che hanno 25 anni.
• Il Senato della Repubblica è eletto a suffragio universale dai cittadini con almeno
25 anni e sono eleggibili i cittadini che abbiano compiuto i 40 anni. I senatori
elettivi son 315 ai quali vanno però aggiunti i senatori a vita che sono tutti gli ex
presidenti e quelli nominati dal Presidente della Repubblica, in numero massimo
di 5 tra cittadini che abbiano illustrato la patria in campo sociale, artistico
scientifico ma in alcuni casi esiste una sola camera come in Russia la duma
La Camera dei deputati e il Senato sono eletti per cinque anni, il periodo che
intercorre tra due elezioni è detto legislatura.
In ogni camera ci sono le commissioni parlamentari. Le commissioni sono organi
formati da parlamentari in proporzione alle forze politiche presenti in
parlamento.
Queste possono essere straordinarie se create di volta in volta al fine di indagini
su fenomeni di particolare gravità, o permanenti, e in questo caso hanno
competenza specifica per materia (Difesa, Giustizia, Esteri…).
in alcuni casi per disegni di legge di poca importanza possono deliberare al posto
della camera stessa (Commissioni in sede deliberante). Inoltre, il parlamento
accorda la fiducia al governo che senza questa fiducia è costretto a dimettersi.
L’elezione dei deputati è fatta a base circoscrizionale, mentre quella dei senatori
a base regionale. L’Italia adotta un sistema elettorale misto a prevalenza
maggioritario per ambedue le camere.
Il sistema maggioritario si ha quando in ogni collegio (il territorio nazionale è
diviso in tanti collegi quanti sono i candidati da eleggere) è attribuito un seggio a
chi ha ottenuto più voti.
Si ha un sistema proporzionale quando in ogni circoscrizione i seggi sono ripartiti
tra le liste presentate dai partiti in proporzione ai voti presi da ciascuna.
Il territorio nazionale è diviso in circoscrizioni per il Senato queste coincidono
con le regioni mentre per la Camera dei deputati ci sono 26 circoscrizioni.
A ogni circoscrizione è assegnato un certo numero di seggi di cui il 75% da
attribuire con il sistema maggioritario e il 25% con il sistema proporzionale. In
ogni collegio uninominale vengono svolte le elezioni.
I parlamentari godono della così detta immunità parlamentare in pratica loro
hanno libertà di opinione; possono usare le espressioni che credono e esprimere
le opinioni che ritengono più opportune.

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Mentre l’immunità penale che è stata modificata, infatti, la magistratura non
deve più richiedere l’autorizzazione al parlamento per indagare su un
parlamentare, necessaria però per procedere all’arresto.
PARLAMENTO ITALIANO: FUNZIONI
La funzione più importante del Parlamento è la Funzione legislativa: attuata
mediante la discussione e l'approvazione delle leggi ordinarie e delle leggi
costituzionali e di revisione costituzionale.

Le deliberazioni relative all’approvazione di una legge sono valide se al momento


della votazione in aula c’è la maggioranza dei componenti dell’assemblea
(Numero legale).
Di solito le deliberazioni sono prese a maggioranza dei presenti a meno che non
sia prescritta dalla costituzione un’altra maggioranza. Gli altri tipi di maggioranza
sono:
• la maggioranza semplice o relativa che consiste nel voto favorevole della metà
più uno dei votanti, senza gli astenuti;
• la maggioranza assoluta che consiste nel voto favorevole della metà più uno dei
componenti indipendentemente dai presenti e dagli astenuti;
• le maggioranze qualificate che consiste nel voto favorevole maggiore alla metà
più uno. Sono previste in casi eccezionali e possono essere i 2/3 o 3/5 dei
presenti o dei componenti.
Il processo per formare una legge è molto lungo e prende il nome di Iter
Legis (procedimento legislativo). La prima fase è l’iniziativa che consiste nella
presentazione di una proposta di legge. Quest’iniziativa appartiene:
• a ciascun membro del parlamento;
• al Governo;
• al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro;
• ai cittadini raccogliendo 50.000 firme;
• a ciascun consiglio regionale.
Poi la proposta di legge viene esaminata dalla commissione legislativa
competente che fa una relazione da dare alla camera di appartenenza.
Dopodiché la proposta di legge viene esaminata e approvata articolo per articolo
e poi anche nella sua globalità dalla prima camera. Una volta approvata viene
inviata all’altra camera che a sua volta deve discuterla e approvarla.
Se la proposta di legge è approvata da entrambe le camere allora si passa
alla promulgazione che è l’atto con cui il Presidente della Repubblica firma la
legge, il quale ha la possibilità, per una sola volta, di rinviare la legge e in questo
caso si parla di veto sospensivo e le due camere devono riesaminare la legge.

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Dopo che la legge viene firmata questa viene pubblicata sulla Gazzetta ufficiale.
La pubblicazione permette di far conoscere a tutti la legge. Però poiché questo
procedimento è molto lungo, per alcuni disegni di legge urgenti esiste una
procedura abbreviata: l’iter abbreviato.
L’iter prevede che la commissione competente per materia approvi la proposta
articolo per articolo lasciando alle camere la votazione globale. Inoltre, per
alcune leggi di poca importanza alla votazione ci pensano le stesse commissioni.
Questa procedura non è però concessa per alcune leggi importanti, cioè: le leggi
costituzionali; le leggi elettorali; i decreti legislativi; la ratifica dei trattati
internazionali; l’approvazione dei bilanci e consuntivi.
Al Parlamento compete anche l’eventuale modifica della Costituzione, la quale
però è limitata.
Per modificare la Costituzione il Parlamento deve svolgere un procedimento più
complesso dell’iter legis; infatti, la proposta deve essere approvata due volte da
ambedue le camere e nella seconda votazione è richiesta la maggioranza
assoluta.
Nella Costituzione è previsto il referendum abrogativo che permette ai cittadini di
votare direttamente per mantenere o no in vigore delle leggi vigenti.
Altre funzioni del parlamento sono le inchieste parlamentari e la funzione di
controllo nei confronti del governo e dei ministri.
La funzione di controllo avviene attraverso l’interrogazione che prevede una
semplice domanda al governo, con l’interpellanza che è una domanda scritta al
governo su determinate situazioni e prevede una risposta; la mozione che
promuove un dibattito da parte delle camere su un determinato argomento.
Termina con una votazione e se approvata produce effetti sul governo. Le
mozioni più importanti sono le mozioni di fiducia che se approvate costringono il
governo a dimettersi. Poi le inchieste parlamentari consento di procedere ad
indagini su materie di pubblico interesse.
Infine, in alcuni casi il Parlamento si riunisce in seduta comune precisamente
per:
• per eleggere il Presidente della Repubblica;
• per le elezioni del Consiglio Superiore della Magistratura. Per eleggere cinque
giudici ordinari della Corte costituzionale;
• per mettere in stato di accusa il Presidente della Repubblica per reati di
tradimento e attentato alla costituzione.

IL GOVERNO: FUNZIONI

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Il Governo è un organo costituzionale collegiale che ha potere esecutivo, e la
direzione politica dello stato. Il governo è formato da più organi: Presidente del
Consiglio dei ministri; Ministri; Consiglio dei ministri.
I ministri sono preposti alla direzione dei singoli ministeri. Fanno parte del
Consiglio dei ministri anche i ministri senza portafoglio che a differenza degli altri
non dipendono da un dicastero.
Il nostro è un governo parlamentare, perché non può rimanere in carica senza la
fiducia del parlamento. Infatti, quando il governo non ha più la fiducia del
Parlamento è costretto a dimettersi, e in questo caso si parla di crisi
parlamentare.
Vi possono essere anche delle crisi extra parlamentari, ad esempio, quando i
partiti che appoggiano il governo si ritirano dalla maggioranza.
La principale funzione del governo è quella esecutiva e consiste nell’amministrare
la cosa pubblica in pratica mette in atto le leggi. Questa funzione è esercitata dai
singoli ministeri.
Il governo svolge anche una funzione di indirizzo politico; cioè stabilisce gli
obbiettivi da raggiungere. Al governo è riservata anche una funzione legislativa
che permette al governo di emanare dei decreti legislativi che però possono
essere applicati solo su delega del Parlamento.
Poi il governo in caso di necessità e urgenza può emanare dei decreti-legge che
non hanno bisogno della delega del Parlamento e devono essere approvati dalle
camere entro 60 giorni.
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Il Presidente della Repubblica è al vertice dello Stato ed è un organo individuale.
È eletto dal Parlamento in seduta comune.
I requisiti per essere eletto Pdr sono la cittadinanza italiana; il compimento dei
50 anni e il godimento dei diritti politici e civili e esso rimane in carica per sette
anni.
Le sue funzioni si dividono in due gruppi:
• le funzioni ministeriali che sono atti formalmente del Pdr ma alla volontà del
governo. Consistono nella nomina dei ministri nell’emanazione dei decreti-legge
e altro.
• le funzioni presidenziali che sono atti solo del presidente e consistono nella
nomina di cinque senatori a vita, nel potere di scioglimento delle camere. Queste
funzioni presidenziali sono dei posteri che riguardano la funzione legislativa
giudiziaria ed esecutiva.
Nella nostra Europa della restaurazione il parlamento è presente solo in due stati
Gran Bretagna e Francia si è cercato di soffocare delle idee sulle invasioni e dei
cambiamenti che la Rivoluzione francese e Napoleone avevano di esportare fuori

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dalla Francia e di piantarli in tutti i paesi d’EUROPA non conta più l’Italia ma far
attecchire il sistema democratico francese nei nostri stai era molto difficile
perché i nostri stai sono diversi sia al livello politico ma che sociale.

Restaurazione
L’Età della Restaurazione abbraccia il periodo di Storia europea compreso tra il
Congresso di Vienna (1814-1815) e i moti rivoluzionari del 1830-31. Alcuni
storici, tuttavia, prolungano l’Età della Restaurazione fino all’epoca delle
rivoluzioni del 1848.
Tra il 1814 e il 1815 le quattro potenze che avevano sconfitto Napoleone
Bonaparte si riunirono nel Congresso di Vienna per ricostruire l’Ancien Régime, il
“Vecchio Regime”, ovvero il vecchio sistema politico di impostazione ancora
feudale, precedente alla Rivoluzione francese e inaugurarono l’Età della
Restaurazione.
La Restaurazione doveva comportare:
• il ritorno dei legittimi sovrani sui loro troni;
• una stretta collaborazione tra Chiesa e Stato;
• un’alleanza tra i vari Stati che si dichiaravano disposti a intervenire in aiuto degli
altri per contrastare ed eliminare ogni minaccia dell’ordine costituito. È la Santa
Alleanza siglata il 26 settembre 1815, per iniziativa di Alessandro I Romanov,
tra Russia, Austria e Prussia, cui aderirono in seguito tutti gli Stati europei,
tranne la Gran Bretagna e lo Stato Pontificio.
Per quello che riguarda l’Italia, la penisola vide tornare al potere i vecchi sovrani
e vide perpetuarsi la sua secolare divisione in tanti staterelli. Nel Lombardo-
Veneto, ad esempio, tornò l’Austria e i Borboni continuarono a regnare in buona
parte del Sud del Paese.

Contro il ritorno dell’assolutismo, voluto dalla Restaurazione, i giovani europei si


riunirono in sete segrete costituite da intellettuali, studenti e militari: furono loro
i protagonisti delle rivoluzioni degli anni 1820.

L’ondata rivoluzionaria del 1820-21 partì dalla Spagna, con la ribellione a Cadice
di alcuni reparti militari (gennaio 1820). Il re fu costretto a concedere la
Costituzione ma il nuovo regime non riuscì a consolidarsi, anche per i contrasti
interni allo schieramento costituzionale.
Successivamente ci furono moti nel Regno delle Due Sicilie e in Piemonte.
Le rivoluzioni del 1820-21 suscitarono l’allarme dei conservatori d’Europa. Nel
1821 gli austriaci posero fine alla rivoluzione napoletana. La rivoluzione
spagnola fu schiacciata, invece, dall’intervento militare della Francia (1822). Tra i

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motivi principali della sconfitta delle rivoluzioni del 1820-21 vanno ricordate le
divisioni interne allo schieramento rivoluzionario, nonché la mancanza di seguito
tra le masse.
L’unica rivoluzione del decennio che si concluse positivamente fu la greca contro
l’Impero turco-ottomano. A prezzo di molto sangue versato, la Grecia ottenne
l’indipendenza nel 1829, grazie anche all’intervento di Francia, Inghilterra e
Russia che però le imposero un re assoluto.
Una nuova ondata di moti liberali percorse l’Europa nel 1830. Per prima insorse
Parigi: le tre gloriose giornate parigine (27, 28, 29 luglio 1830) provocarono la
caduta del re di Francia Carlo X, sostituito da Luigi Filippo d’Orléans, il re
della Monarchia di Luglio, destinato a regnare fino al 1848.
L’esempio francese incoraggiò una ripresa dell’iniziativa rivoluzionaria a livello
europeo. La rivolta del Belgio – che mirava all’indipendenza dall’Olanda – si
risolse in un successo, reso possibile dall’atteggiamento favorevole di Francia e
Inghilterra.
Esito diverso ebbero i moti rivoluzionari scoppiati in Italia e in Polonia,
schiacciati dall’intervento militare rispettivamente di Austria e Russia (per un
approfondimento leggi I moti del 1830-1831 in Italia e Europa riassunto).
Nel corso degli anni successivi, le delusioni seguite agli insuccessi patiti nel
1830-31 fecero maturare un po’ dappertutto nuovi orientamenti politici che
miravano a risolvere i problemi nazionali con metodi diversi da quelli seguiti fino
ad allora e, soprattutto, ad allargare le basi sociali dei gruppi rivoluzionari,
conquistando strati sempre più vasti alla causa della libertà e dell’indipedenza.
Questo compito fu assunto in Italia da Giuseppe Mazzini e da altri intellettuali
che diedero vita, tra gli anni 1830-1840, a vari moti che però fallirono
miseramente.
Alla fine, l’intera Europa era pronta per una nuova ondata rivoluzionaria che, di
fatto, esplose nel 1848 e segnò all’interno dell’Ottocento l’inizio di un momento
storico del tutto nuovo

Restaurazione in Italia
- Regno di Sardegna e del Piemonte: questo regno si distinse soprattutto per il
suo carattere retrivo. Vittorio Emanuele I abolì il codice napoleonico, ripristinò il
foro ecclesiastico, riammise i Gesuiti e restituì al clero il monopolio
dell’istruzione. In questo modo il paese si autocondannava ad un isolamento
rispetto al resto dell’Europa, e non solo: furono stabilite anche delle barriere
doganali interne, che colpirono lo sviluppo economico di Genova. Fu così che si
gettarono le basi per la nascita delle società segrete. Malgrado questo fosse lo

18
stato meno progredito d’Italia, era l’unico a cui si poteva far capo in una
eventuale unificazione: era infatti l’unico a non essere legato con vincoli dinastici
o diplomatici all’Austria.
- Granducato di Toscana : Ferdinando III di Lorena tornò alla tradizione
dell’assolutismo illuminato della sua famiglia. Sostituì il codice napoleonico con il
codice leopoldino, concedendo nuovi vantaggi ai cittadini del granducato e
appoggiò lo sviluppo dell’agricoltura e dell’industria. Ma soprattutto incoraggiò
una vivace vita culturale, tanto che dopo l’inizio delle persecuzioni dei patrioti nel
lombardo-veneto, Firenze divenne il centro del liberismo moderato.
- Stato pontificio: il ritorno di Pio VII a Roma, malgrado i propositi riformisti del
collegio cardinalizio segnò un intransigente ritorno all’ordine antico. Roma torno
la città-parassita che vive alle spalle della corte papale e nelle campagne del
Lazio, abbandonate ad una coltura estensiva e al pascolo erano infestate dalla
malaria e dal brigantaggio. Malgrado ciò si registrò una forma di progresso.
Nacquero i mercanti di campagna, che ruppero il ristagno economico nei centri
rurali. Fortunatamente nelle Legazioni la situazione era ben diversa:
l’autogoverno locale aveva permesso un maggiore sviluppo economico, fiorirono
le sette e si viveva in un’atmosfera di malcontento verso la Curia romana.
LA RESTAURAZIONE E IL CONGRESSO DI VIENNA
- Regno di Napoli e di Sicilia: Ferdinando di Borbone, pur volendo inizialmente
adottare una politica di repressione, si rese conto ben presto che era impossibile
ristabilire il quadro politico prenapoleonico napoletano. Pur mantenendo il codice
napoleonico restituì alcuni privilegi ai nobili, o meglio ad una classe emergente di
grandi proprietari terreni, ma soprattutto restituì tutti i poteri al clero, arrivando
a ripristinare il foro ecclesiastico. In questo clima nacque la carboneria, che
raccoglieva tutti gli scontenti del paese. Inoltre, nel 1812 sorse anche il problema
della Sicilia: con il tentativo di unificarla al regno di Napoli, la si privò della sua
secolare autonomia, stimolando il fenomeno del separatismo.

Carboneria

Durante la Restaurazione prosperarono in Italia molte società segrete, essendo


totalmente interdetta la libertà di stampa e di associazione. Fra quelle esistenti,
la Carboneria fu la più importante e diffusa. Fece la sua comparsa nel
Mezzogiorno continentale intorno al 1810, durante il regno di Gioacchino Murat,
e divenne poi antiborbonica. Le sue origini non sono ben chiare: secondo una
prima ipotesi sarebbe da collegare alla settecentesca Charbonnerie della Franca
Contea, ma è stato ipotizzato anche che derivasse dalla massoneria. In un primo
momento gli affiliati alla Carboneria non furono numerosi, ma tra il 1815 e il

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1820 la rete riuscì a estendersi e a consolidarsi. Dal Regno delle Due Sicilie, dove
era inizialmente sorta, la Carboneria si diffuse soprattutto nelle Marche e in
Romagna dove era presente una setta affine, la Guelfia, che la Carboneria
probabilmente assorbì. Altrove entrò in concorrenza con altre società segrete: in
particolare, con l'Adelfia diffusa in Piemonte e con la rete dei federati presente in
Lombardia e nei Ducati padani. Nonostante i legami tra tutte queste associazioni,
mancò un vero e proprio coordinamento rispetto agli obiettivi che, espressi in
forma vaga, stavano nell'indipendenza e nell'ottenimento di forme di governo
costituzionale. Del resto, i fini ultimi della Carboneria restavano segreti per gli
stessi affiliati, essendo conosciuti soltanto dai vertici. Trattandosi di
un'associazione segreta, non era noto neppure il numero esatto dei suoi membri;
stando ad alcune stime dell'epoca oscillava fra 300.000 e oltre 640.000. Ne
facevano parte, anzitutto, ufficiali e soldati, nonché studenti, liberi professionisti,
commercianti, artigiani. Vario fu anche l'orientamento politico degli affiliati. Il
carattere segreto dell'associazione, il fatto stesso che gli affiliati non
conoscessero né i nomi né i fini politici dei capi favorirono, entro certi limiti, la
convivenza di orientamenti politici diversi. rispetto agli obiettivi che, espressi in
forma vaga, stavano nell'indipendenza e nell'ottenimento di forme di governo
costituzionale. Del resto, i fini ultimi della Carboneria restavano segreti per gli
stessi affiliati, essendo conosciuti soltanto dai vertici. Trattandosi di
un'associazione segreta, non era noto neppure il numero esatto dei suoi membri;
stando ad alcune stime dell'epoca oscillava fra 300.000 e oltre 640.000. Ne
facevano parte, anzitutto, ufficiali e soldati, nonché studenti, liberi professionisti,
commercianti, artigiani. Vario fu anche l'orientamento politico degli affiliati. Il
carattere segreto dell'associazione, il fatto stesso che gli affiliati non
conoscessero né i nomi né i fini politici dei capi favorirono, entro certi limiti, la
convivenza di orientamenti politici diversi. La Carboneria, i cui affiliati si
chiamavano tra loro «buoni cugini» era organizzata in sezioni chiamate
«vendite» e prevedeva gradi diversi di affiliazione (cui corrispondevano incarichi
diversi ed anche livelli diversi di conoscenza del programma); l'ingresso e la
permanenza nell'associazione erano regolati da un complesso rituale, in
particolare cerimonie di iniziazione e giuramenti che mescolavano linguaggio
politico ed elementi tratti dalla tradizione cristiana. Cristo era considerato infatti
il primo carbonaro e san Teobaldo il patrono della setta. A differenza
della massoneria, infatti, la Carboneria non combatteva la religione, e fra gli
iscritti poté annoverare anche diversi preti e frati.
Sul piano dell'attività politica e insurrezionale il bilancio fu complessivamente
fallimentare, a causa dell'indeterminatezza del programma politico e della
mancanza di un coordinamento: i primi progetti cospirativi fallirono quasi tutti

20
sul nascere, o per l'infiltrazione di spie nell'associazione, o per la scoperta delle
«vendite» carbonare da parte della polizia.
La Carboneria pagò un alto tributo di sangue soprattutto nel Lombardo-Veneto e
le prigioni dello Spielberg, in Moravia, divennero tristemente note per aver
accolto molti patrioti suoi membri dopo il fallimento delle cospirazioni del 1821.
Tra questi, Silvio Pellico vi scrisse Le mie prigioni, contributo alla diffusione dei
sentimenti antiaustriaci nella penisola. L’azione della carboneria culmino con i
moti insurrezionali del 1820-1821, volti ad ottenere le carte costituzionali e con
quelli scoppiati nel febbraio 1831 nell’Italia centrale. Fu soprattutto il fallimento
di tali modi a segnare il declino della Carboneria presto soppiantata dalla Giovine
Italia.
Massoneria
L'associazione segreta dei cosiddetti "liberi muratori", che ha avuto la sua prima
manifestazione storica nel sec. 16° (v. oltre). Il termine si usa talvolta, in senso
fig., per indicare una consorteria, un gruppo esclusivo di persone che,
esercitando collettivamente il proprio potere o la propria influenza, sul piano
politico, finanziario, ecc., agiscono in modo da curare e proteggere gli interessi
dei singoli componenti del gruppo.
Cenni storici. - La m. ha le sue origini nella Scozia di fine Cinquecento: qui con gli
Statuti della corporazione muratoria del 1598 (autore W. Schaw) viene fissata la
leggenda dell'arte, e definito un sistema di cooptazione nelle logge
(al tempo stesso i luoghi d'accoglienza e il corpo che vi si raduna) dei muratori
(masons, donde masonry "massoneria") che posseggano la tecnica dell'arte
rinascimentale della memoria, ed abbiano congiuntamente appreso la Mason
Word, la parola che consente il riconoscimento reciproco dei "fratelli" di
corporazione ed assicura, ove occorra, l'invisibilità. Peculiarità istituzionali,
privilegi consolidati dall'eccezionale sviluppo dell'edilizia, ricchezza e complessità
del patrimonio leggendario dell'arte portano ad un efficace consolidamento delle
strutture massoniche ove la gerarchia del mestiere, che è anche gerarchia delle
competenze, si complica con i gradi (apprendista e compagno/maestro) della
conoscenza esoterica. Taluni degli arnesi dell'arte (la squadra, il compasso, il
livello) sono caricati di valenze simboliche, e indicano - riprodotti come segni o
come oggetti (miniaturizzati) - l'appartenenza e il grado; mentre la geometria,
identificata con l'architettura, rivendica il primo posto nell'elenco delle discipline.
Dai primi decennî del Seicento, sappiamo di ammissioni a logge e di iniziazioni
massoniche di varî personaggi, di Scozia e di Inghilterra (la diffusione vi sarà
favorita dalle vicende, politico-militari, delle guerre di metà secolo), la cui
personalità e dottrina, ed ambizioni intellettuali e politiche, debbono avere
contribuito a dare forma specifica alla m. come spazio e fisico e ideale nel quale

21
si vogliono consumare - in un vincolo sociale assistito da regole - esperienze
di ricerca e pratica di "poteri" acquisiti o supposti sul fondamento di tradizioni
esoteriche, di tecniche magiche, di idee della natura e dell'uomo presenti
nella cultura del tempo, spesso in forma incoerente, e che nella m. trovano
sistemazione e coerenza. E nondimeno sino alla fine del secolo, la m. non sembra
distinguersi da altre forme di associazionismo iniziatico-settario. La corporazione
o collegio peraltro si rivela più efficace della confraternita per consentire
l'accesso e la carriera in aree esclusive ai tanti immigrati, che la pressione
dispotica della Francia di Luigi XIV ha raccolto nel tradizionale rifugio anglo-
scozzese: il sistema dei gradi del mestiere (ora in tensione per l'esigenza di
sganciare il maestro dal compagno) appare più adatto della gerarchia
confraternite o settaria ad assicurare una sovrapposizione efficace di
promozione/cooptazione e cursus iniziatico; mentre l'espansione del banchetto
fraterno, della convivialità regolata per luoghi, tempi e modi, consolida un
successo che già negli anni Novanta del secolo appare consacrato. Agli inizî del
Settecento in Inghilterra la società dei "massoni liberi" (free masons, accepted
masons) è un tratto consolidato della vita sociale a Londra: vogliono farne parte
soggetti, di estrazione sociale medio-alta, che hanno già sperimentato legami
corporativi (uomini di teatro, musici, architetti, uomini di legge, ministri
di religione) accanto a nobili attratti dalle attività dei fratelli, o dal segreto
iniziatico, o dal modello conviviale-settario. Non è chiaro da cosa nasca, per
realizzarsi nel 1717, l'esigenza a costituire a Londra una "grande loggia", con
l'obiettivo dichiarato di conferire patenti e di ordinare con statuti il sottobosco
ormai folto delle diverse logge. La Gran Loggia diventerà comunque un centro
d'unione, insieme simbolico e di potere, cui conferisce autorità l'operazione
delle Constitutions del 1721-23. Si instaura un rapporto privilegiato con
la nobiltà di sangue e di corte, cui s'affida il ruolo sociale della m. come area di
formazione e centro di potere, in direzione soprattutto di quella semplificazione
della teologia e della ritrovata coerenza tra credo sociale e credo religioso resa
possibile dagli sviluppi apologetici della scoperta di I. Newton delle leggi del
creato. In questo senso, J.-T. Desaguliers può ritenersi il (ri)fondatore
settecentesco della moderna m.: egli sarà attivo per la diffusione del modello
londinese-newtoniano in Scozia e nel Continente. Negli anni Venti e Trenta del
Settecento la m. si diffonde ad opera di inglesi (diplomatici, accademici, uomini
di teatro) e di anglofili, nel Continente: in Italia, in Germaniae Austria, in Spagna,
e soprattutto in Francia ove traversa, per iniziativa di nobili "giacobiti", l'area
cattolica: troverà nel contesto della guerra di successione austriaca (1740-48)
condizioni favorevoli per diffondersi. Nascono le logge militari, e cresce la
pressione a trasformare un "ordine di società" in un "ordine di cavalleria": aiuta

22
in Francia e in Italia la tipologia fabbricata nel 1738 dal franco-scozzese A.
Ramsay, il cui Discours definisce un'ideologia massonica di tipo aristocratico
anti-dispotico. A poco vale, in questa fase di "trionfo massonico" la pronuncia
severa della Chiesa cattolica che ha condannato la m. come eretica nel 1738 e
tale torna a bollarla nel 1751. Gli anni 1740-50 conoscono, nell'Europa della
letteratura clandestina, una convergente fortuna del libertinage religioso e della
cabala. Sono correnti sotterranee, che gonfiando portano nel lago massonico -
nel quadro movimentato dell'europea guerra dei Sette anni (1756-63) - autentici
affluenti. Matura allora, negli anni Sessanta e Settanta, la svolta continentale
della "m. dei gradi" detta scozzese o rossa (per distinguerla dalla blu o simbolica,
cioè ferma ai tre gradi simbolici, del rito inglese). Lo "scozzesissimo" deve la sua
fortuna alla creazione di circoli interni, che tendono a impiegare la struttura
associativa della m. a fini politici o cospirativi. L'epicentro si sposta allora in
Germania, ove trova uno straordinario successo la m. della Stretta Osservanza,
per la quale la "vera" m. riprende tradizione e scopi dell'Ordine Templare,
distrutto agli inizî del sec. 14°, e che avrebbe lasciato segni ora recuperabili del
suo patrimonio segreto. Si costruisce la rete territoriale del nuovo ordine
massonico, che rimanipola le antiche e impone nuove giurisdizioni sulle diverse
"province" (con le rispettive dipendenze) e provvede a "rettificare", ove richiesto,
le precedenti osservanze massoniche: mentre si creano nuovi sistemi muratori, i
Clerici Templari di J. Stark, i Rosacroce d'Oro, e alla fine degli anni Settanta gli
Illuminati di Baviera e la Massoneria Eclettica di Francoforte. Quando negli anni
Ottanta la m. templare si dissolve, i Rosacroce e gli Illuminati e gli Eclettici
s'affiancano ai Cavalieri benefici di Lione e costituiscono un fronte antilluminista
contro i massoni radicali e contro i razionalisti in religione ed i riformatori
in politica. Si disputa ancora sul rapporto tra m. e Rivoluzione francese, sull'onda
lunga della polemica contemporanea (Robison, Barruel, ecc.) che addossava la
colpa della rivoluzione ai filosofi e ai massoni. Da questo dibattito, appassionato
e distorto, residuano alcune verità: l'innegabile apporto dell'ideologia massonica
a idee antidispotiche ed egualitarie, la presenza di personalità e gruppi
consistenti della m. nell'area della Gironda, le radici massoniche di settori
importanti del giacobinismo europeo, l'assunzione di modelli settario-cospirativi
(con o senza le finalità radicali, per cui erano stati progettati o realizzati),
l'importanza per la m. europea dell'età imperiale e della Restaurazione di episodî
e simboli e personaggi della Rivoluzione in Francia e in Europa. La m. gode della
cinica tolleranza di Napoleone; e nondimeno appare lacerata tra l'obbedienza del
Grande Oriente e il vasto fronte scozzese, presto (1804) egemonizzato dal
Supremo consiglio del rito scozzese antico e accettato, inventato in America e
destinato a grande fortuna in Europa. Ma presto, risucchiata nella politica e

23
nel clima cospirativo di quei decennî, la m. stenta a distinguersi dal nuovo
settarismo (massonico o para massonico).

Rivoluzione industriale
La Prima Rivoluzione Industriale prese avvio nella seconda metà
del Settecento in Gran Bretagna grazie ad una serie di fattori di diversa natura:
• la disponibilità di capitali;
• la presenza di una classe di imprenditori disposta a investire in attività industriali
con rischi e possibilità di guadagno entrambi elevati;
• l’abbondanza di manodopera, di risorse energetiche e di materie prime;
• l’invenzione di macchinari in grado di aumentare la produttività (come la
macchina a vapore) e di sfruttare nuove fonti di energia (come il carbone).
A quel tempo la Gran Bretagna era al centro di un vasto impero. Le colonie
costituivano, infatti, da un lato, un’importante fonte di materie prime per le
manifatture inglesi; dall’altro, un grande mercato per le merci prodotte ed
esportate dalla madrepatria. Proprio i traffici commerciali permisero ai ceti più
intraprendenti di accumulare grandi capitali investiti poi nell’industria.

Perché iniziò la Rivoluzione industriale


In quel periodo si verificò una forte crescita della popolazione determinata
dall’aumento della produzione agricola. L’aumento della produzione agricola a
sua volta era dovuta ai miglioramenti verificati nei decenni precedenti nelle
campagne. La forte crescita della popolazione non solo provocò l’aumento della
domanda dei beni, ma anche un eccesso di lavoratori agricoli disoccupati che si
riversarono nelle città in cerca di lavoro.
L’introduzione e l’uso sistematico delle macchine comportarono la
concentrazione della manodopera salariata in un unico luogo, la fabbrica, e
la divisione del lavoro in numerose fasi semplici e ripetitive, sotto la direzione
dell’imprenditore-proprietario degli impianti.
Il nuovo sistema di lavoro, detto factory system, si affermò rapidamente perché
permetteva forti riduzioni dei costi di produzione ed elevatissimi profitti.

Il settore tessile traino della Rivoluzione Industriale


Il settore che fece da traino nella Prima Rivoluzione Industriale inglese fu
quello tessile. L’introduzione delle macchine per filare e tessere lana e cotone
azionate da motori ad acqua, permise infatti di aumentare notevolmente
la produttività del lavoro (produttività del lavoro = indica la quantità di prodotto
realizzato in media da ciascun lavoratore).

24
L’invenzione della macchina a vapore, brevettata da James Watt negli anni 1782-
87, consentì di utilizzare il carbone al posto delle fonti di energia tradizionali
(acqua, vento, legna). Ne derivò un ulteriore impulso alla capacità produttiva
nelle fabbriche: il carbone era infatti abbondante nelle miniere inglesi.
La Rivoluzione industriale: la nascita della siderurgia e l’innovazione dei
trasporti
A partire dagli anni 1830-40 iniziò a svilupparsi la siderurgia. Vi erano altiforni
per l’acciaio e la ghisa in Inghilterra, a Birmingham e Glasgow. In Germania
cominciò la sua attività la famiglia Krupp, sfruttando il bacino della Ruhr. Ben
presto gli altiforni a legna furono sostituiti con quelli a coke. Si sviluppò quindi
l’industria chimica, soprattutto per produrre concimi e colori artificiali, nonché lo
zucchero.
Fondamentale fu il supporto fornito alle industrie da nuove ed efficaci reti di
trasporto. Mettendo a frutto l’invenzione del treno, nel quale ebbero una parte
decisiva gli inglesi George e Robert Stephenson, si costruirono le prime ferrovie,
che nel 1850 si estendevano già per 38.000 chilometri: di questi, 14.000 erano
negli USA e 11.000 in Gran Bretagna.
Iniziò a diffondersi la navigazione a vapore (nel 1807 l’americano Robert Fulton
costruì il vaporetto Clermont). Per comunicare a distanza lo statunitense Samuel
Morse nel 1844 perfezionò il telegrafo.
Le banche seppero adeguarsi, garantendo alle imprese la possibilità di ottenere
capitali in prestito. Accanto alle banche pubbliche si svilupparono quelle private.

La Rivoluzione industriale: le trasformazioni sociali


La Prima Rivoluzione Industriale se, da un lato, fu un fattore determinante
dell’eccezionale rapidità del progresso economico della Gran Bretagna, dall’altro
ebbe anche pesanti e dolorose conseguenze sociali e politiche a causa delle
misere condizioni in cui viveva il proletariato. Il proletariato lavorava in locali
inadatti e malsani ed alloggiava in veri e propri tuguri.
Veniva fatto un larghissimo impiego di donne e fanciulli. Gli orari di lavoro
raggiungevano anche le 80 ore settimanali e i salari erano mantenuti a livello di
pura sussistenza.
L’ampio uso delle macchine, favorendo il rapido aumento della produzione,
portava frequentemente a un eccesso dell’offerta sulla domanda con conseguenti
crisi e disoccupazione. Si verificavano così vere e proprie ribellioni degli operai
contro le macchine che in esse vedevano la causa della propria miseria (per un
approfondimento leggi Luddismo: movimento di protesta operaia).
Le prime manifestazioni di protesta furono violente e disorganizzate.
Gradatamente, tuttavia, anche le organizzazioni di lavoro (trade unions) –

25
impegnate nella lotta per il miglioramento dei salari e la riduzione della giornata
lavorativa – ottennero diritto di esistenza mentre venivano approvate leggi che
regolavano il lavoro (soprattutto delle donne e dei bambini) e la sicurezza dei
lavoratori nelle fabbriche.

La Rivoluzione industriale: dalla Gran Bretagna a tutta l’Europa


Nel corso dell’Ottocento questa Prima Rivoluzione Industriale interessò altri
Paesi dell’Europa nord-occidentale, come il Belgio, la Francia e la Germania.
L’Europa mediterranea, povera di risorse del sottosuolo, rimase una realtà a
economia prevalentemente agricola fino agli anni Cinquanta del Novecento,
nonostante la presenza di alcuni importanti nuclei industriali.
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento si verificò una nuova fase del
processo di industrializzazione, chiamata Seconda Rivoluzione.
2/10
Lezione 3

Moti del 1820 – 21


Gli anni che seguirono il 1820 furono contraddistinti in Europa da un lungo
e travagliato periodo di instabilità sociale. Ciò fu in gran parte il risultato
del "nuovo ordine" deciso dal Congresso di Vienna. I capi delle grandi Potenze
che si erano riuniti nella capitale austriaca avevano infatti ricercato a tutti i
costi un equilibrio tra le Potenze, anche se a scapito delle legittime pretese
nazionali dei popoli. Un grosso ruolo giocò tuttavia la grave crisi economica che
già si trascinava dagli anni 1817-18, e che dappertutto fu causa di carestia
alimentare e disoccupazione. In tale contesto di crisi si inserì la febbrile attività
delle società segrete, ed in particolare della Carboneria. Scopo di queste
associazioni era la trasformazione dei regimi assolutistici in regimi costituzionali.

Le differenze di tipo politico tra le varie società non mettevano in discussione il


raggiungimento di questo obbiettivo: ragion per cui l’azione dei cospiratori poté
svolgersi all’insegna di una sostanziale unità. La pressione rivoluzionaria, come
su accennato, riguardò tutto il vecchio continente, ma ebbe successo soprattutto
nei paesi mediterranei. In Germania, il movimento nazionalista
del Burchenshaft fu duramente represso dalla severa azione del cancelliere
austriaco Metternich, il quale, d’intesa con i sovrani di Prussia e Russia, assunse
il ruolo di principale gendarme dell’ordine stabilito dal Congresso di Vienna. Varie
agitazioni e tentativi insurrezionali si ebbero in Francia, dove l’offensiva
reazionaria (a capeggiarla erano gli Ultras, ossia gli ultrarealisti) cercava di

26
annullare completamente l’opera della grande rivoluzione del 1789. Analoghi
conati rivoluzionari si ebbero in Inghilterra, paese in cui urgeva una riforma
elettorale e vi erano soventi tumulti sociali dovuti alle resistenze che artigiani e
operai opponevano al fenomeno della industrializzazione. In Spagna, la
rivoluzione riuscì grazie al pronunciamento di alcuni ufficiali dell’esercito e alle
forze liberali, che costrinsero il re a ripristinare la costituzione promulgata nel
1812 e a convocare il parlamento (le Cortes). Il successo dei liberali spagnoli
incoraggiò il mondo della cospirazione europea. L’onda della rivoluzione approdò
in Italia meridionale, dove la notte tra il 1 e 2 luglio 1820 un gruppo di carbonari
campani decise di muovere in armi contro il reazionario governo di Ferdinando I.
A capeggiare la rivolta nel regno di Napoli fu il prete Luigi Menichini, il quale con
un gruppuscolo di carbonari di Nola si unì ad un centinaio di militari al comando
del tenente Michele Morelli. L’iniziativa ebbe l’adesione inoltre di diversi alti
ufficiali, che in passato avevano militato sotto il re Gioacchino Murat, tra cui il
generale Guglielmo Pepe. Quest’ultimo assunse subito il comando delle
operazioni, mentre passarono all’azione le diverse “vendite” carbonare delle
province (cioè gli agglomerati di nuclei sovversivi locali). La rivoluzione
napoletana ebbe un esito rapido: e non poteva essere altrimenti data la
sostanziale identità di vedute tra il ceto piccolo e medio borghese, tra artigiani e
basso clero, e soprattutto tra i quadri intermedi dell’esercito. Messo alle strette
dalla forte pressione popolare, il sovrano si vide costretto ad emanare un editto
in cui si prometteva la promulgazione della costituzione. Con tale formale
premessa le forze liberali potevano ritenersi soddisfatte: il loro obbiettivo di un
regime temperato da alcune garanzie poteva dirsi raggiunto.

Tuttavia, le aspettative dei napoletani furono oltremodo rese complicate dalla


contemporanea insurrezione siciliana. Nella rivolta che scoppiò nell’isola a metà
luglio prevaleva infatti la tradizionale tendenza separatistica della Sicilia. L’odio
verso il governo dei Borboni aveva cementato un’alleanza tra le corporazioni
degli artigiani e alcune frange della nobiltà. Ma, quasi subito, scaturirono delle
diverse interpretazioni riguardo il regime da adottare. La fazione popolare
propendeva per la costituzione spagnola del 1812 (anche se si conoscevano in
modo vago i contenuti), mentre la fazione nobiliare preferiva adottare la
costituzione, sempre del 1812, che era stata adottata nell’isola per iniziativa del
diplomatico inglese Bentick. Oltre a queste differenti istanze
dell’indipendentismo siciliano, bisognava tenere conto delle posizioni assunte dai
rappresentanti delle altre città, che rifiutavano l’impronta separatista data alla
rivoluzione dalle forze insurrezionali di Palermo. Il governo napoletano, dal canto
suo, non intendeva in alcun modo considerare l’ipotesi di un distacco della Sicilia

27
dallo Stato, né tantomeno contemplava la concessione di una particolare
autonomia. L’unica risposta che venne da Napoli fu l’invio dell’esercito, il cui
comando fu affidato a Pietro Colletta (che diventerà, fra l’altro, famoso come
autore di una importante opera storiografica sul regno di Napoli).

La rivolta dei ribelli siciliani era destinata a subire una durissima repressione.
Tuttavia, le sollevazioni delle terre napoletane funsero da potente stimolo per i
patrioti della parte settentrionale della penisola. Ad esacerbare ancora di più gli
animi alla lotta, pensava l’Austria con la continua minaccia di intervento a difesa
delle istituzioni insidiate dalla Rivoluzione. Ancora una volta fu l’attivismo delle
"vendite" carbonare a provocare tumulti, questa volta in Piemonte e Lombardia.
In quest’ultima regione la scarsa coordinazione dei carbonari, aggiunta all’opera
di delatori, portarono all’arresto di alcuni cospiratori milanesi, tra cui Piero
Maroncelli e Silvio Pellico, autore quest’ultimo de Le mie prigioni, libro mediante
il quale l’autore narrò le sue esperienze in carcere, e che avrebbe contribuito
notevolmente a fomentare il sentimento antiaustriaco in Italia.

Moti del 1820-21


queste violenze attraverso i gruppi sociali chiedono riforme sono esplosi dopo 5-
6 anni dalla restaurazione gli autori di questi moti sono le società segrete che
hanno un ideologia liberale serve a chiedere la concessione dalla costituzione :
• separare i poteri,
• i diritti dei cittadini: quelli dell’insegnamento, del lavoro
• liberti dei cittadini
esplode in tutto Europa dove vengono repressi dalle forze dell’ordine
polizia, esercito che arrestano i carbonari e massoni e il governo ha il
controllo della stampa usano la censura quello che non piaceva al
governo non veniva pubblicato e con questo controllo il quarto potere
quello dell’informazione viene soffocato ma deve essere conquistato e
alla fine i moti falliscono perché le società segrete vengono sciolte e i suoi
aderenti vengono uccisi, esiliati e inizia a creare la stampa clandestina chi
capisce che l’informazione è importante è Giuseppe Mazzini.
Giuseppe Mazzini
Nacque a Genova nel 1805 da Giacomo, medico e professore di anatomia, già
membro del governo della repubblica ligure del 1797, e da Maria Drago,
appartenente a un'agiata famiglia borghese. Educato in famiglia secondo rigidi
principi morali di stampo giansenista, proseguì gli studi fino al conseguimento
della laurea in legge nel 1827.

28
Affiliatosi alla Carboneria nel 1830, subì il primo arresto e l'anno dopo fu
costretto all'esilio. Nel 1832 a Marsiglia diede vita al movimento della Giovine
Italia, associazione che intendeva superare le ambiguità e le contraddizioni delle
precedenti società segrete tramite un programma politico-ideologico chiaro e
preciso. La diffusione e la propaganda delle idee mazziniane era poi affidata ad
un giornale anch'esso denominato Giovine Italia. Nel 1834, il fallimento di un
progettato moto insurrezionale in Savoia convinse Mazzini della necessità di
allargare il suo campo d'azione; fondò così a Berna la Giovine Europa, con il
compito di promuovere la coscienza nazionale e democratica su tutto il
continente. Nel 1837 si trasferì a Londra dove accentuò il suo interesse per le
classi lavoratrici, rinforzando l'attività della Giovine Italia e fondando l’Unione
degli operai.
Contrario ai tentativi insurrezionali attuati dai suoi seguaci in Romagna e dai
fratelli Bandiera nel 1844, Mazzini prese invece direttamente parte alle
rivoluzioni del 1848 come membro dell’Assemblea costituente e poi triumviro,
assieme ad Aurelio Saffi e Carlo Armellini, della Repubblica romana. Costretto
nuovamente a riparare in Svizzera dopo la caduta di Roma, si impegnò a
riattivare le organizzazioni repubblicane. Nei decenni successivi, dopo i ripetuti
fallimenti dei moti d'ispirazione mazziniana, e quando infine prevalse la linea
monarchico-liberale, con l'unità d'Italia compiuta nel segno dei Savoia, Mazzini
cercò comunque di promuovere e valorizzare per quanto possibile l'iniziativa
popolare. Costretto all'esilio anche dal nuovo Stato, visse a Londra per rientrare
clandestinamente a Genova solo all'inizio del 1872, si trasferì poi a Pisa dove si
spense il 10 marzo.
La dottrina mazziniana si fonda su un'intuizione profondamente spiritualistica
della vita, lo spirito domina e fonde assieme nella sua unità quello che
materialmente appare frammentario e diviso. Da qui il rifiuto dell'individualismo
e la continua tensione verso una ideale fratellanza e concordia fra gli uomini, i
popoli e le nazioni. Secondo il celebre motto Dio e popolo per Mazzini l'individuo
può ritrovare se stesso e conformarsi alla volontà divina solo fondendosi
liberamente nel popolo e nella comunità universale degli uomini. Allo stesso
modo, nel sentire mazziniano, il pensiero e l'elaborazione teorica del singolo
acquistano valore solo quando si traducono in azione concreta, movimento
popolare e collettivo. Da qui la grande importanza attribuita alla propaganda e
soprattutto all'educazione dei giovani, al fine di diffondere i principi e le idee di
libertà ai più ampi strati di popolazione. Per Mazzini solo attraverso una
consapevole azione rivoluzionaria popolare si sarebbe raggiunto l'obiettivo di
un'Italia indipendente, unita e repubblicana.

29
Moti del 1830-1831

I moti del 1830 in Francia

A Parigi l’intera cittadinanza insorse contro il re Carlo X (1824-1830). Il re il 25 luglio


1830 aveva emanato 4 ordinanze che limitavano le libertà fondamentali. Questo gesto
scatenò la rivolta a Parigi: le tre gloriose giornate parigine (27, 28, 29 luglio 1830)
provocarono la caduta del re di Francia Carlo X e il regno fu affidato al duca Luigi Filippo
d’Orléans destinato a regnare fino al 1848.

L’indipendenza del Belgio

Sull’onda dell’esempio francese, nel Regno dei Paesi Bassi, la minoranza belga, che
mirava all’indipendenza dall’Olanda, insorse contro la maggioranza olandese.

La rivolta, scoppiata a Bruxelles il 25 agosto 1830, consentì al Belgio di conseguire


l’indipendenza: la Corona fu offerta a Leopoldo di Sassonia Coburgo (1831-1865).

Moti del 1830-1831 in Polonia

In Polonia un moto scatenato il 29 novembre 1830, sperando vanamente nell’aiuto


francese, fu soffocato dalle truppe dello zar l’8 settembre 1831.

Moti del 1830-1831 in Italia

I moti rivoluzionari giunsero anche in Italia ed ebbero origine all’interno del Ducato di
Modena. Qui lo stesso duca Francesco IV sembrava appoggiare i cospiratori; il duca
sperava, infatti, di profittare di una eventuale sommossa per diventare sovrano di un
Regno dell’Italia centro-settentrionale. Per questo entrò in contatto con Ciro Menotti, il
capo della Carboneria locale.

Francesco IV, però, quando si rese conto che l’Austria si sarebbe opposta con le armi a
qualsiasi mutamento politico in Italia, abbandonò rapidamente ogni idea di
cospirazione e fece arrestare, nel febbraio 1831, i capi della congiura in casa di Menotti
(egli stesso fu condannato a morte ed impiccato).

La rivolta, tuttavia, si era ormai estesa da Bologna alle Marche, dove furono creati
governi provvisori. Questi, tuttavia, non resistettero a lungo, a causa del mancato
intervento francese, in cui si confidava molto.

Nel marzo 1831 l’esercito austriaco fu fatto intervenire e in breve tempo fu ristabilito
l’ordine, cui seguirono condanne a morte.

Moti 1830-31

30
sono fatti dalla borghesia che è un ceto che si trova in città, non è ricca ma è ben
istruita ed è il motore della nuova società che sfrutta le idee della rivoluzione francese
infatti la borghesia non conta nulla rispetto ai braccianti e ai lavoratori ma usa la
costituzione come strumento di rinascita non sono moti liberali e anche vasti perché
prevedono una mobilitazioni della società si svolgono negli stati avanzanti in Francia,
Gran Bretagna e regno di Sardegna anche moti democratici perché trova molti
concessi ma anche questi moti vengono repressi, molti esponenti vengono
condannati , esiliati come successe a Mazzini . I moti del 30 non scoppiano nel regno
delle due Sicilia perché è un regno che non ha delle città sono agglomerati urbani di 50
mila abitanti nel sud non esiste una classe istruita mancano le università ma c’è una
sola quella di Napoli se lo potevano permettere solo pochi, nel 1830 in Sicilia ci sono 3
università come in toscana. Nel 1925 si crea la seconda università di Bari vi è una fuga
verso il nord dove vi erano molte università, in questo modo si permette alle persone di
avere un’istruzione adeguata e per la terza bisogna aspettare gli anni 50.

Moti del 48

Nel 1848 l’Europa fu sconvolta da un nuovo moto rivoluzionario: si volevano abbattere i


governi della Restaurazione per sostituirli con governi liberali.

All’insofferenza dei liberali si aggiungeva poi la disperazione di operai e contadini per le


conseguenze di una duplice crisi:

• nelle città le industrie erano state colpite da una crisi di sovrapproduzione che
aveva provocato il licenziamento di milioni di operai;

• nelle campagne le piogge avevano devastato i raccolti e i contadini erano alla


fame.

La diffusione dei moti del 48

I moti del 48 cominciarono in gennaio a Palermo per iniziativa dei liberali, che
chiedevano la Costituzione e la separazione dell’isola dal Regno borbonico, seguiti dai
contadini. Ferdinando II concesse la Costituzione alla Sicilia e poco dopo anche a
Napoli.

In febbraio esplose Parigi, dove borghesia e proletariato chiedevano il suffragio


universale. Dopo tre giorni di scontri il re Luigi Filippo abdicò e fu proclamata
la Seconda repubblica francese.

La rivoluzione di Parigi innescò una serie di reazioni a catena nel resto d’Europa:

31
• a Vienna l’imperatore Ferdinando I concesse la Costituzione e poi abdicò in
favore del nipote Francesco Giuseppe;

• a Budapest fu proclamata l’indipendenza dall’Austria;

• in Prussia chiesero la Costituzione e l’Unità della nazione tedesca;

• Praga, infine, rivendicò maggiori libertà per la popolazione di lingua slava.

I moti del 1848 in Italia

In Italia, tra febbraio e marzo 1848, papa Pio IX, il granduca Leopoldo di
Toscana e Carlo Alberto, re di Sardegna, concessero gli Statuti.

Il 17 marzo Venezia insorse contro gli austriaci e proclamò la Repubblica. Il giorno dopo
insorse Milano, che nel corso delle Cinque giornate scacciò l’esercito di Radetzky. Il 21
marzo si sollevarono anche Modena e Parma.

Il 23 marzo 1848 Carlo Alberto di Savoia entrò in guerra contro l’Austria, dando inizio
alla Prima guerra d’Indipendenza.
I democratici diedero vita alla Repubblica toscana, alla Repubblica romana, governata
da Mazzini, Saffi e Armellini, e alla Repubblica di Venezia.

Il fallimento dei moti del 1848

I moti del 1848 si rivelarono un’illusione sia in Europa che in Italia: le forze che avevano
promosso le rivoluzioni si divisero, permettendo così ai diversi governi di ristabilire
l’ordine precedente.

In Francia, temendo le forze operaie, la borghesia fondò una repubblica presidenziale


affidata a Luigi Napoleone Bonaparte che, poco dopo, con un colpo di Stato si fece
incoronare imperatore con il nome di Napoleone III.

A Vienna, Berlino e Praga i sovrani ritirarono le promesse costituzionali, mentre


l’Ungheria tornò a far parte dell’Impero d’Austria.

In Italia, dopo l’armistizio con i Savoia, gli Austriaci furono liberi di riprendersi la
Lombardia schiacciando tra l’altro la rivolta di Brescia (le “Dieci giornate”), poi la
Repubblica toscana e Venezia. I francesi, accorsi all’appello di Pio IX, posero fine
alla Repubblica romana e i Borbone abolirono la Costituzione autonomista siciliana. In
tutta Italia si scatenò la repressione.

Il Piemonte invece mantenne lo Statuto albertino e Vittorio Emanuele II autorizzò il


capo del governo, Massimo d’Azeglio, a varare le Leggi Siccardi per porre fine ai grandi
privilegi del clero: il tribunale ecclesiastico, il diritto d’asilo e la manomorta.

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Il 1848 fu anche l’anno di pubblicazione del Manifesto del Partito comunista scritto
da Marx ed Engels. Esso elaborò la teoria dello sfruttamento della classe operaia da
parte della classe borghese ed esortò i lavoratori a lottare per abolire la proprietà
privata e a organizzare vere e proprie rivoluzioni. Abbattuto il potere borghese e
arrivati a una società comunista, cioè senza classi, tutti avrebbero raggiunto la felicità.

Moti del 41 sono i moti importanti perché i moti del 48 avranno successo hanno
caratteristiche diverse rispetto ai moti precedenti perché si chiede la costituzione e si
chiede la liberta della nazione e si chiede l’indipendenza di uno stato hanno ottenuto
un successo negli stati che non avevano un indipendenza sono moti nazionalistici si
chiede la costituzione tanto che il sovrano non possono andare avanti sulla repressione
e sulla restaurazione ma devono concedere la costituzione è un regalo è una
concessione alle richieste al mio popolo ( costituzioni concesse ) come fa Carlo Alberto
re del regno di Sardegna nel febbraio del 48 concede la sua costituzione lo chiama
statuto fondamentale dello stato come Leopardo di Toscana e il papa avranno paura di
questi moti e concedono la costituzione e come il regno delle due Sicilie sembra che
siano stati vittoriosi ma c’è una questione importante quella di avere l’unita nazionale
quindi Italia caccia gli stranieri quelli della Russia , regno asburgico non sono stati che
sono emancipati coke la gran Bretagna, Francia , Prussia vuol dire che molti stati non
concedono lo statuto ma vogliono la guerra al regno asburgico alla fine dei moti del 48
il regno di Sardegna dichiara guerra al impero asburgico ma hanno perso la guerra ma
rimane lo statuto. i moti dei 48 sono passati nel regno asburgico anche le nazionalità si
sono ribellati all’autorità e alla fine non si chiamerà più cosi ma si chiamerà il regno
d’Austria e Ungheria. Nasce un dibattito tra i patriotici per l’unita d’Italia facciamo
come la Germania si chiama il sacro romano impero composto da vari imperi il più
importante è la Prussia anche loro hanno un pezzo del regno asburgico ma vogliono
cacciare gli stranieri per raggiungere la loro indipendenza usano una linea funzionale
cercano di arrivare all’indipendenza utilizzando uno stato economico senza frontiera
tutti possono circolare anche le merci anche la Prussia fanno la guerra contro gli
asburgici ma va male per Italia e anche per la Prussia nel centro d’Italia abbiamo 2
problemi Italia e Germania hanno una loro costituzione.

7/10

Lezione 4

Prima guerra d’indipedenza

33
(1848-49), preparata dalla vittoriosa insurrezione di Milano contro gli Austriaci (18-22
marzo 1848), ebbe inizio con l’intervento del re di Sardegna, Carlo Alberto, in aiuto
degli insorti Lombardi (23 marzo 1848), e significo l’unione dei sorti piemontesi e
sabaude con quelle nazionali italiane. L’esercito piemontese, passato il Ticino (26
marzo) e rafforzato da contingenti di volontari e dai corpi che gli altri principi italiani,
sotto la spinta dell’opinione pubblica, avevano mandato in aiuto, si attestò sulla linea
che da Peschiera andava fino a Mantova, e pose l’assedio a queste due fortezze
austriache.
La strategia di Radetzky, comandante in capo austriaco, fu di guadagnare tempo e di
lasciare che i piemontesi si logorassero in una difficile guerra d’assedio. Per tutto il
mese di maggio, la guerra rimase ferma sulla linea Peschiera-Mantova. L’iniziativa fu
presa da Radetzky, il quale dalla notte dal 27 al 28 maggio 1848, fece uscire un buon
numero di truppe da Verona, portandole, con una ardita marcia di fianco, di cui i
Piemontesi non si accorsero, verso Mantova, per liberare dall’assedio quell’importante
piazzaforte e aggirare sul fianco destro lo schieramento sardo. La manovra austriaca fu
bloccata dal sacrificio del battaglione Volontari Toscani, che, il 29 maggio, a Curtatone e
a Montanara, fermò l’avanzata austriaca, permettendo al comando supremo piemontese
di raccogliere un buon numero di truppe. Queste, a Goito, il 30 maggio, bloccarono la
manovra austriaca, infliggendo agli Imperiali una dura sconfitta. Nello stesso giorno,
cadeva in mano ai Piemontesi la fortezza di Peschiera. Ma le sorti ben presto mutarono.
Mentre l’esercito austriaco riceveva continuamente rinforzi e si riorganizzava
efficacemente, l’armata sarda si logorava nell’assedio di Mantova, ed era travagliata
dall’indisciplina dei contingenti volontari, buoni combattenti, ma non sempre buoni
soldati, e da una grave crisi di organizzazione dei servizi. Così, quando il Radetzky, il 23
luglio 1848, scatenò un’offensiva contro tutta la linea piemontese, la lotta, asprissima,
che ebbe il suo epicentro attorno a Custoza, si concluse con la sconfitta di Carlo Alberto,
che fu costretto ad ordinare la ritirata. Un tentativo di arrestare gli Austriaci sotto
Milano finì in un altro insuccesso. Carlo Alberto chiese allora un armistizio, concesso e
firmato il 9 agosto a Vigevano, armistizio detto di Salasco, dal nome del generale
piemontese che lo sottoscrisse da parte del re. La ripresa della guerra, nel marzo del
1849, fu voluta dalle correnti democratiche piemontesi, salite al governo del Paese. La
nuova fase del conflitto durò tre giorni (20-23 marzo) e fini con la sconfitta di Novara
(23 marzo), in seguito alla quale Carlo Alberto abdicò alla corona in favore del figlio
Vittorio Emanuele, il quale concludeva il 26 marzo l’armistizio di Vignale (occupazione
della Lomellina e del Novarese da parte degli Austriaci, ritiro delle truppe piemontesi da
Piacenza, Modena e Toscana; riduzione dell’esercito piemontese). La pace definitiva fu
segnata a Milano il 10 agosto 1849. La guerra per l’indipendenza si era iniziata con
l’unione apparente di tutti i principi italiano nella lotta contro l’Austria (federalismo),
ma l’unione si sfasciò, non appena il papa e il re di Napoli ebbero richiamato,

34
rispettivamente il 29 aprile e il 15 maggio, le truppe da loro inviate contro l’Austria. Ciò
valse a dimostrare che l’esistenza dello stato pontificio e del regno di Napoli era
contraria agli interessi nazionali, e costituì il primo grave colpo alla concezione
federalista.

Camillo conte di Cavour

Cavour nasce a Torino il 10 agosto 1810.


In quanto figlio cadetto, è destinato alla carriera militare e mandato in Accademia nel
1820. Conclusa l’Accademia, Camillo Benso di Cavour è inviato in varie località del
Regno di Sardegna come ufficiale del genio militare, addetto ad alcuni lavori di
fortificazione.

Nel 1831 lascia l’esercito e negli anni seguenti soggiorna in Inghilterra, in Francia, in
Belgio, oltre che a Ginevra, dedicandosi agli studi, agli affari e alla cura del patrimonio
familiare.

Ma viaggiando per l’Europa comprende anche l’arretratezza politica dell’Italia, divisa in


staterelli e controllata nel Lombardo-Veneto dall’Austria e a sud dalla dinastia dei
Borboni.

Tornato nel Piemonte decide allora di fare politica attraverso l’attività giornalistica e nel
1847 fonda il giornale “Il Risorgimento”. L’anno successivo è eletto deputato al
Parlamento del Piemonte; nel 1850 entra nel governo moderato di Massimo d’Azeglio
come Ministro dell’Agricoltura e del Commercio; occuperà poi i ministeri di Marina e
Finanze.

Nel 1852 unisce la destra progressista e i moderati di sinistra in un solo


raggruppamento di centro. D’Azeglio si dimette e Cavour diventa capo del Governo.
Cavour promuove una politica liberale, sviluppa la rete ferroviaria piemontese, riforma
l’esercito, rinnova il sistema agricolo e trasforma il Piemonte in uno Stato laico.

Dopo il fallimento della prima guerra d’indipendenza, Cavour si rende conto che il
Piemonte da solo può fare poco per l’unificazione dell’Italia. Pertanto, nel 1855 sigla
un’alleanza con Francia e Inghilterra e manda in loro sostegno un contingente a
combattere contro la Russia nella Guerra di Crimea. Poi, nel Congresso di Parigi del
1856, per la prima volta sottopone alle potenze europee la questione italiana.

Il 21 luglio 1858 firma con Napoleone III gli accordi di Plomblières: la Francia
s’impegna ad aiutare Cavour nel caso di un attacco austriaco. La guerra contro l’Austria
scoppia nell’aprile dell’anno successivo: inizia la seconda guerra d’indipendenza
italiana. La guerra volge subito a favore dei franco-piemontesi, ma improvvisamente

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Napoleone III stipula con l’Austria l’Armistizio di Villafranca: il Piemonte ottiene
dall’Austria solo la Lombardia. Cavour, amareggiato, dà le dimissioni, ma dopo pochi
mesi torna al governo. Cavour infatti teme che Garibaldi possa creare una repubblica
nel Sud della penisola italiana e convince Vittorio Emanuele II a fermarlo.

Il 18 febbraio 1861 si riunisce a Torino il primo Parlamento italiano; il 17 marzo nasce


il Regno d’Italia: Cavour è il primo ministro; tre mesi dopo, muore: è il 6 giugno 1861.

Accordi di plombières

Gli accordi di Plombières – Tra il 20 e il 21 luglio 1858 Camillo Benso conte di


Cavour e Napoleone III si incontrarono nella località termale di Plombières, in Francia,
e raggiunsero un accordo.

L’accordo prevedeva l’aiuto della Francia al Piemonte in caso di guerra all’Austria e la


successiva riorganizzazione dell’Italia in una confederazione di quattro Stati sotto la
presidenza onoraria del papa.

Questi i termini degli accordi di Plombières:

– Regno dell’Italia settentrionale (Piemonte, Lombardo-Veneto, Emilia e Romagna)


sotto la dinastia sabauda. Questa in cambio avrebbe ceduto alla Francia i territori
transalpini di Nizza e della Savoia;

– un Regno dell’Italia centrale (Toscana, Umbria e Marche) sotto un sovrano da


designarsi;

– Stato pontificio, limitato al Lazio, sotto il papa;

– un Regno dell’Italia meridionale, sotto Ferdinando II di Borbone o sotto il principe


Luciano Murat.

Dietro questo programma si celavano in realtà due diversi disegni. Il primo era quello
di Napoleone III, che mirava a porre l’Italia sotto il suo controllo; il secondo era quello
di Cavour, che contava sulla forza di attrazione del Piemonte nei confronti degli altri
Stati italiani. Napoleone III avrà dei vantaggi ridurre il potere asburgico, nell’Italia
centrale lui conta perché la casa di Lorena è francese e fa in modo che l’Italia non è
unita ma ci sono 3 stati ma non penalizza il papa e il vantaggio di Cavour che il regno di
Sardegna aumenta è una soluzione sulla carta a volte i fatti superano le carte.

Subito dopo il Piemonte iniziò a lavorare per indurre l’Austria a muovere guerra: Vienna
reagì inviando un ultimatum. Respinto da Cavour il 26 aprile 1859, scoppiò la Seconda
Guerra d’Indipendenza.

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Dopo il congresso di Vienna l'Italia fu divisa in una decina di stati (che si ridussero ad
otto, entro una trentina di anni dal Congresso, a causa di alcune annessioni di stati minori
ad entità più vaste).

Regno di Sardegna, governato dai Savoia, riottenne il Piemonte e la Savoia e venne


ulteriormente ingrandito con i territori della ex Repubblica di Genova, senza alcun diritto
di opposizione da parte di quest'ultima e senza plebiscito.

Nel resto del nord venne costituito il Regno Lombardo-Veneto sotto il controllo
dell'Austria,

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comprendente i territori di terraferma della Repubblica di Venezia (Veneto, Friuli e
Lombardia orientale), che contrariamente ai principi-guida del Congresso non venne
ricostituita, uniti alla parte rimanente della Lombardia. Ad esso fu annessa la Valtellina,
per la quale furono respinte le richieste svizzere, che questa valle - appartenente alla
Svizzera dal 1512 al 1797 - ritornasse al Canton Grigioni o fosse unita alla
Confederazione, come cantone autonomo. Nel Lombardo-Veneto inoltre fu inserita anche
la Transpadana ferrarese, un territorio appartenente allo Stato Pontificio, un lembo di
terra a nord del fiume Po, storicamente e culturalmente associato all'Emilia.

Sotto forte influenza austriaca si trovavano inoltre:

Il Granducato di Toscana sotto la dinastia degli Asburgo-Lorena (che annesse i territori


del Principato di Piombino e l'Elba).

Il Ducato di Modena sotto la dinastia degli Austria-Este.

Il Ducato di Parma e Piacenza assegnato a titolo vitalizio a Maria Luisa d'Austria, moglie
di Napoleone, alla sua morte avvenuta nel 1847 il titolo tornò ai Borbone di Parma.

Il piccolo Ducato di Lucca venne assegnato a titolo provvisorio come compensazione


per i Borbone di Parma, in attesa della morte di Maria Luisa e quindi del loro legittimo
rientro a Parma (Lucca in seguito venne annessa al Granducato di Toscana nel 1847).

Il Ducato di Massa e Carrara venne assegnato a titolo vitalizio alla madre del Duca di
Modena (l'ultima esponente della casa d'Este: Maria Beatrice d'Este) ed alla sua morte
nel 1829, venne annesso a Modena stessa.

Indipendenti, ma legati all'Austria da vincoli di alleanza e interesse:

Il papa fu restaurato nello Stato Pontificio, che oltralpe perdeva però definitivamente
la città di Avignone e il Contado Venassino, lasciate al Regno di Francia.

Nell'ambito dei confini pontifici rimase la piccola ed indipendente Repubblica di San


Marino, che non venne toccata dagli eventi napoleonici e che rimase sempre estranea
agli eventi politici successivi.

Nel Sud Italia il cognato di Napoleone, il maresciallo napoleonico Gioacchino Murat, fu


originariamente autorizzato a mantenere il Regno di Napoli. Tuttavia, in seguito al
sostegno da lui fornito al cognato durante i "Cento Giorni", egli venne deposto e la corona
fu assegnata a Ferdinando IV di Borbone, che l'8 dicembre 1816 riunì il Regno di Napoli
e il Regno di Sicilia in un solo regno, nella denominazione già precedentemente adottata
di Regno delle Due Sicilie. Quindi il Re assunse la denominazione di Ferdinando I delle
Due Sicilie.

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La dinastia dei Borbone di Napoli fu rappresentata al Congresso di Vienna da don Luigi
de' Medici appartenente ai Principi di Ottaviano.

Seconda guerra d’indipendenza

fu preparata sostanzialmente da Camillo di Cavour, il quale, salito alla presidenza del


Consiglio dei ministri piemontesi nel 1852, intuì che la soluzione del problema dell’unità
e della indipendenza italiane poteva essere risolto soltanto quando fosse proiettato sul
piano europeo, quando cioè la questione italiana fosse inserita come elemento rilevante
nella politica internazionale delle grandi potenze europee. Conscio che, con le sole sue
forze, il Regno di Sardegna non sarebbe mai riuscito a cacciare l’Austria dalla penisola,
cercò di stringere legami con la potenza che, per motivi di ordine interno e
internazionale, poteva assumersi il ruolo di rivale dell’Austria in Italia: la Francia, il cui
imperatore Napoleone III, desideroso di gloria militare, era convinto che, nell’Europa
del XIX secolo, il principio di nazionalità avesse ormai sostituito il principio dinastico. La
politica di avvicinamento del Piemonte alla Francia napoleonica si concretò con gli
accordi di Plombières (21-22 luglio 1858), in forza dei quali Napoleone III sarebbe
sceso in campo per aiutare il Piemonte, nel caso che questo fosse attaccato dall’Austria.
Dopo alterne vicende diplomatiche, che parvero, a un certo momento, far fallire la
politica di Cavour, la situazione precipitò verso la guerra a causa, dell’ultimatum che il
gabinetto di Vienna inviò a Torino il 25 aprile 1859, imponendo al Piemonte il disarmo
immediato: se Torino non avesse accettato, l’Austria avrebbe dichiarato guerra. Era,
questo, il casus belli desiderato da Cavour, che avrebbe permesso al dispositivo
dell’alleanza difensiva Franco-piemontese di entrare in azione. Fedele ai patti,
Napoleone III mobilitava il suo esercito e lo avviava in Italia attraverso il Cenisio e, per
mare, verso Genova. Nello stesso giorno in cui il Piemonte dichiarava guerra all’Austria,
un movimento di popolo obbligava il granduca di Toscana ad abbandonare il Paese,
dove non doveva più tornare. Il governo granducale fu sostituito da un governo
provvisorio costituzionale. Dei tre eserciti in campo, quello austriaco al comando del
Gyulai condusse l’azione in maniera irresoluta varcando il Ticino a Pavia solo dopo
alcuni giorni, dando così il tempo ai Piemontesi di schierarsi attorno alla fortezza di
Alessandria, a protezione della Capitale e in attesa dell’arrivo degli alleati. Arrivato
l’esercito napoleonico (più di 100.000 uomini), le forze franco-piemontesi iniziarono
una vigorosa controffensiva, che le portò, dopo la vittoria di Palestro (30-31 maggio
1859), a passare il Ticino per muovere su Milano, mentre Garibaldi, che aveva
organizzato un corpo di volontari, operava con successo nella zona di Varese e di Como.
Il tentativo austriaco di arrestare l’avanzata franco-piemontese su Milano fu infranto
nella grande battaglia di Magenta (4 giugno), dopo la quale gli Austriaci si ritirarono
fino alla line a del Mincio e richiamarono le forze che tenevano a Parma, a Modena e
nelle Romagne. Questi eventi provocarono la fuga dalle loro sedi dei sovrani di Parma e

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di Modena e dei funzionari pontifici delle Romagne, incalzati da movimenti popolari che
proclamarono governi provvisori. Anche le Marche e l’Umbria tentarono di insorgere,
ma furono domate con feroce energia dalle truppe pontificie (20 giugno 1859).
Frattanto l’esercito austriaco, riorganizzato e rafforzato nella sua base di Verona, tentò
una grande azione di riscossa per riprendere Milano. Ciò portò alla sanguinosa battaglia
di San Martino e Solferino (24 giugno). La vittoria conseguita dai franco-piemontesi
sembrò aprire la via per un’azione al di là del Mincio, nel Veneto, dato che anche la
flotta riunita franco-piemontese era giunta nell’alto Adriatico, quando improvvisamente
l’imperatore francese offrì all’imperatore d’Austria un armistizio, che fu segnato a
Villafranca l’8 luglio 1859, e seguito, l’11 luglio, dai preliminari di pace. Questo gesto
attirò su Napoleone III l’esecrazione furibonda delle correnti patriottiche, ma in realtà
l’imperatore francese era stato costretto all’armistizio dal timore di essere attaccato sul
Reno dalla Prussia, e dalla opposizione tenace che, all’interno della Francia, suscitava
contro di lui, a causa della guerra, il partito clericale francese. Il coraggio delle
popolazioni, l’avvedutezza dei Governi provvisori e l’abilità di Cavour, tornato al potere
dopo una breve parentesi dovuta al suo sdegno per l’armistizio di Villafranca,
impedirono che Parma, Modena e Firenze tornassero gli antichi sovrani, e permisero che
questi territori si unissero alla monarchia sabauda, grazie a plebisciti. La pace di Zurigo
(10 novembre 1859), che aveva sanzionato i preliminari di Villafranca, in forza dei quali
soltanto la Lombardia sarebbe toccata al re di Sardegna, fu così superata dagli
avvenimenti, e dopo la spedizione dei Mille e la conseguente occupazione delle Marche
e dell’Umbria, si giunse alla proclamazione del Regno d’Italia (17 marzo 1861).

Giuseppe Garibaldi

Giuseppe Garibaldi nacque a Nizza il 4 luglio 1807 da una famiglia benestante di


marinai e pescatori.

Nel 1822, a soli 15 anni, lasciò la famiglia e cominciò a lavorare come mozzo sulle navi.

Quando seppe della Giovine Italia, organizzazione politica fondata da Giuseppe


Mazzini per costruire un’Italia libera e unita, Garibaldi decise di farne parte.

Nel 1834, dopo il fallimento dei moti mazziniani a Genova, fu costretto ad andare in
esilio a Marsiglia, perché condannato a morte.

Tra il 1835 e il 1848 Garibaldi Giuseppe soggiornò in America Latina, dove partecipò alle
numerose guerre che seguirono all’indipendenza. Combatté in Brasile e difese l’Uruguay
dagli attacchi della potente Argentina.

In Brasile si legò ad Anita, una bellissima creola che spesso combatté al suo fianco e
che gli diede tre figli.

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Le notizie che gli giungevano sugli sviluppi del movimento nazionale italiano e sulla
possibilità di una guerra contro l’Austria fecero maturare in Garibaldi la decisione di
tornare in patria.

Così, non appena seppe dell’insurrezione di Palermo, si imbarcò il 15 aprile 1848 alla
volta di Nizza con ottantacinque uomini della sua legione. Arrivato nella sua città natale
il 21 giugno, si dichiarò pronto a cooperare con il re Carlo Alberto, ma questi lo rifiutò.

Si pose allora alla testa di alcuni battaglioni volontari e continuò le ostilità contro gli
austriaci anche dopo l’armistizio Salasco, combattendo vittoriosamente a Luino (15
agosto), respingendo il nemico a Morazzone (26 agosto) e riparando in Svizzera.

Tornato a Roma il 5 febbraio 1849 e nominato generale di brigata, Garibaldi Giuseppe


respinse al di là del confine le truppe napoletane, ma il 2 luglio fu costretto a lasciare
Roma.

Iniziò una marcia leggendaria, durante la quale morì Anita.

Dopo un’avventurosa fuga attraverso la Romagna, riuscì a passare in Toscana e poi a


raggiungere il territorio piemontese.

Fu però arrestato a Chiavari, espulso dagli Stati sardi (16 settembre) e imbarcato per
l’Africa. Fu a Tangeri e poi a New York, dove lavorò per alcuni mesi nella fabbrica di
candele di Antonio Meucci.

Nell’aprile 1851 tornò a imbarcarsi. Viaggiò nell’America Centrale, in Perù, in Cina e in


Inghilterra. Da Londra si recò a Genova (maggio 1854) e a Nizza, dove nel frattempo gli
era morta la madre (marzo 1852).

Nel 1855 comprò un terreno a Caprera, un’isola nell’arcipelago della Maddalena, fra la
Corsica e la Sardegna. Vi si rifugiò spesso quando i suoi dissensi con il governo, prima
piemontese e poi italiano, lo amareggiarono.

Nella Seconda guerra d’indipendenza (1859), ricevette il comando del corpo volontario
dei Cacciatori delle Alpi: vinse gli austriaci a Varese (26 maggio), a San Fermo (27
maggio) ed entrò poi a Brescia (13 giugno).

Deluso dall’armistizio di Villafranca (11 luglio 1859) e dagli avvenimenti che lo


seguirono, diventò critico nei confronti del governo sardo, pur continuando a
mantenere buoni rapporti con il re.

Su proposta del Partito d’azione di Mazzini, Garibaldi accettò di guidare un’impresa che
dalla Sicilia risalisse la penisola per liberarla, promettendo, nel contempo, fedeltà alla

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monarchia. Fu questa la leggendaria Spedizione dei Mille (per un approfondimento
leggi Dalla Spedizione dei Mille all’Unità d’Italia).

Dopo l’incontro a Teano (26 ottobre 1860) con Vittorio Emanuele II, Garibaldi ripartì
per Caprera, non rinunciando al proposito di fare Roma capitale d’Italia.

Infatti, dopo l’episodio di Sarnico (tentata invasione del Trentino nel maggio 1862),
Garibaldi si portò in Sicilia e, messosi alla testa dei volontari, sbarcò in Calabria. Ne
seguì la battaglia dell’Aspromonte (29 agosto 1862). Garibaldi, ferito, fu imprigionato.
Ottenuta l’amnistia (5 ottobre) si recò nuovamente a Caprera.

Durane la Terza guerra d’indipendenza (1866) guidò vittoriosamente i volontari nella


campagna del Trentino.

Conclusa la pace di Vienna (3 ottobre 1866), con la quale veniva dichiarata chiusa la
Terza guerra di indipendenza, riprese i suoi tentativi su Roma.

Fermato una prima volta a Sinalunga (24 settembre 1867) e ricondotto a Caprera, riuscì
a eludere la sorveglianza delle navi piemontesi e a sbarcare in Toscana. Penetrato il 23
ottobre in territorio pontificio, il 29 occupò Monterotondo, ma il 3 novembre fu battuto
a Mentana dalle truppe francesi del generale Failly.

Ritiratosi a Caprera, lasciò l’isola solo dopo la caduta di Napoleone III per offrire il suo
aiuto alla Francia invasa, contribuendo alla vittoria di Digione (12-13 gennaio 1871).

Nell’ultima fase della sua vita, attratto dalle idee socialiste, appoggiò i primi tentativi di
un’organizzazione operaia italiana e prestò viva attenzione ai problemi sociali del
Paese.

Eletto infatti deputato di Roma nel 1874 sostenne in Parlamento i suoi progetti di
bonifica dell’Agro romano e per la sistemazione del Tevere. Partecipò, infine, nell’aprile
1879, alla fondazione della lega della Democrazia. In questi stessi anni fu anche
scrittore. Scrisse romanzi (Cantoni il volontario, Clelia o il governo del monaco, I Mille)
e rielaborò le Memorie autobiografiche.

Giuseppe Garibaldi eroe dei due mondi morì a Caprera il 2 giugno 1882.

Spedizione dei mille

Spedizione garibaldina che, abbattendo il Regno delle Due Sicilie, diede la spinta
decisiva alla formazione dell’unità d’Italia. Il primo ideatore dell’impresa, F. Crispi,
propose la spedizione a G. Garibaldi, che accettò di capitanarla a condizione che il
terreno fosse preparato da una rivolta in Sicilia. Il 4 aprile 1860 insorse a Palermo F.
Riso e la rivolta, domata in città, continuò a serpeggiare nelle campagne. I Mille

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(esattamente 1084) partirono da Quarto, presso Genova, il 5 maggio 1860 (fig.), su due
piroscafi, il Piemonte e il Lombardo, appartenenti alla compagnia Rubattino.
Prelevarono munizioni da Talamone e, sbarcati a Marsala (11 maggio), giunsero a
Salemi dove Garibaldi assunse la dittatura in nome di Vittorio Emanuele II e decretò la
coscrizione obbligatoria. Sconfitte le truppe borboniche a Calatafimi, i garibaldini
raggiunsero e occuparono Palermo (27-29 maggio). Frattanto Cavour, dopo i primi
successi di Garibaldi, da una parte tenne a bada la diplomazia europea, dall’altra
accelerò l’invio di soccorsi in Sicilia, premen;do però per una sollecita proclamazione
dell’annessione al regno di Vittorio Emanuele. Caduta Palermo, re Francesco II promise
una Costituzione a Napoli e l’autonomia alla Sicilia, e inviò una missione a Torino per
un’alleanza con il Piemonte. Ma Garibaldi vinse ancora a Milazzo (20 luglio) e cacciò i
borbonici da quasi tutta l’isola; varcato quindi lo stretto, mentre l’esercito borbonico si
dissolveva e la Basilicata e la Calabria insorgevano, avanzò verso Napoli dove entrò il 7
settembre. Cavour, che vedeva scosso il prestigio della monarchia dal compimento
dell’unità per opera delle sole forze garibaldine, decise l’intervento regio: l’esercito
piemontese invase le Marche e l’Umbria ed entrò nel Regno di Napoli dagli Abruzzi. La
battaglia decisiva avvenne sul Volturno. Il 26 ottobre Garibaldi incontrò il re a Teano,
entrò quindi con lui a Napoli e depose nelle sue mani la dittatura.

Garibaldini

agg. e s. m. – 1. agg. a. Relativo a Giuseppe Garibaldi (1807-1882) e alle sue imprese: i


volontarî g.; l’epopea garibaldina. b. In senso fig., detto d’imprese eroiche o fatte con
impeto, con entusiasmo giovanile, anche se con avventatezza e scarsa disciplina,
oppure di atteggiamento fiero e baldanzoso; con sign. analogo la locuz. avv. alla
garibaldina, in frasi come agire, procedere alla g., cose fatte alla garibaldina. 2. s. m.
Ciascuno dei volontarî che seguirono G. Garibaldi nelle sue imprese per l’indipendenza
italiana. Per estens., per lo più al plur., i volontarî accorsi in Grecia (1879) al seguito di
Ricciotti Garibaldi, e nelle Ardenne (1914) con Peppino Garibaldi; durante la Resistenza
(1943-45), gli appartenenti alle formazioni volontarie intitolate a G. Garibaldi.

26/10/1860

Incontro a Teano

Incontro avvenuto nei pressi di Teano (cittadina in prov. di Caserta) il 26 ott. 1860 tra
Vittorio Emanuele II, entrato nel regno di Napoli dagli Abruzzi, e Garibaldi, al termine
della spedizione dei Mille, dopo la vittoria del Volturno e la liberazione del Mezzogiorno.
Al di là dei contrasti politici fra Cavour e Garibaldi, quest’ultimo salutò il sovrano come
primo re d’Italia. L’incontro, che segnò il passaggio dei poteri nelle regioni meridionali

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dalle autorità garibaldine a quelle piemontesi, rimase uno degli episodi di maggior
valore simbolico della tradizione risorgimentale.

17/03/1861

La data coincide con il giorno della promulgazione della Legge del Regno di Sardegna,
del 17 marzo 1861, con cui si proclamava ufficialmente la nascita del Regno d’Italia,
con Vittorio Emanuele II che assumeva il titolo di Re d’Italia. Quella Legge sarebbe poi
divenuta la n. 1 del nuovo Regno d’Italia.

Nasceva in quel giorno, ufficialmente, l’Italia, quale Stato unitario retto da una
monarchia, laddove poco tempo prima c’erano sette Stati diversi e divisi. Nasceva in
quel giorno lo Stato unitario, figlio del Risorgimento. Per completare l’unificazione
nazionale mancavano ancora il Veneto e le Città di Roma, Trieste e Trento.

8/10

Lezione 5

Terza guerra d’indipedenza

Questa guerra avvenne in conseguenza della politica pangermanista di Bismark, che


doveva fatalmente scontrarsi con la politica di Vienna, decisa a mantenere la sua
influenza nelle cose germaniche. L’occasionale convergenza di interessi austriaci
indusse il presidente del Consiglio italiano, generale Alfonso Lamarmora, a stipulare
un’alleanza con la Prussia (8 aprile 1866), in funzione austriaca. Obiettivo dell’Itala,
nella nuova guerra contro l’Austria, era l’acquisto del Veneto. La guerra scoppiò nel
mese di giugno, e i Prussiani riportarono subito la grande vittoria di Sadowa sugli
Austriaci (3 luglio 1866). Non altrettanto fortunatamente andarono le operazioni
belliche sul teatro di operazioni italiano, dove il nostro esercito, benché superiore per
numero a quello austriaco, lamentava deficienze di organizzazione e insufficienze e
rivalità nel comando supremo. I contrasti tra i generali comandanti i due corpi in cui era
stato diviso l’esercito (Lamarmora e Cialdini) portarono all’infausta giornata di Custoza
(24 giugno 1866, in cui le forze comandate dal Lamarmora, che volevano marciare dal
Mincio contro Verona, base principale delle forze austriache, furono attaccate di
sorpresa da queste ultime, che non erano state sulla difensiva, come aveva immaginato
Lamarmora, ma avevano iniziato un’azione controffensiva. Anche sul mare le forze
italiane, benché superiori di numero a quelle austriache, furono sconfitte, a causa della
rivalità dei comandanti e della poca coesione tra gli equipaggi (Lissa, 20 luglio 1866).
Soltanto Garibaldi, nel Trentino, conseguì la bella vittoria di Bezzecca (21 luglio 1866)
e, se non fosse sopravvenuto l’armistizio, avrebbe avuto aperta la via fino a Trento. Nel
frattempo, però Bismarck, che aveva raggiunto l’obiettivo di stroncare la potenza

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austriaca in Germania, stipulò con Vienna l’armistizio di Nikolsburg (26 luglio 1866);
l’Italia, non potendo proseguire da sola la lotta, fu obbligata a segnare anch’essa con
l’Austria un armistizio (Cirmons, 12 agosto 1866), che obbligava le forze italiane a
sgombrare le posizioni che avevano raggiunto nel Trentino. All’ordine di ritirata,
Garibaldi rispose con lo storico Obbedisco. Per la successiva pace di Vienna, l’Italia
otteneva il Veneto, ma i problemi del Trentino e dell’Adriatico rimanevano insoluti. Fu
gettato così il germe dell’irredentismo e dell’intervento dell’Italia nella Prima guerra
mondiale.

Le 4 questioni:

• Brigantaggio: Fenomeno, diffuso soprattutto in fasi di squilibrio sociale e politico,


per il quale bande di malfattori, riunite e disciplinate sotto l’autorità di un capo,
attentano a mano armata a persone e proprietà. Prende nome dai briganti, in età
medievale soldati avventurieri a piedi, che facevano parte di piccole compagnie
mercenarie.

La pratica del b. divenne, per effetto delle guerre civili, gravissima nel mondo
romano della tarda età repubblicana, dilagando soprattutto in Italia e nelle sue isole,
in Spagna, Asia Minore, Egitto. La piaga si accrebbe nel Basso Impero, quando gli
stessi funzionari parteciparono spesso a imprese brigantesche. Il b. si manifestò di
nuovo durante la crisi finale del Medioevo e toccò il suo massimo nella Germania del
15° sec. e dei primordi del sedicesimo, allorché piccoli e grandi feudatari, ma
specialmente cavalieri, mescolarono il carattere di capo brigante con quello di capo
partito. Nello stesso periodo il b. mise a soqquadro le terre sottoposte alla Spagna,
traendo però alimento dai bassi strati delle popolazioni, gruppi di contadini che,
oppressi dal fisco e angariati dai padroni, si davano alla macchia costituendo il nerbo
del b. catalano, calabrese e abruzzese. Fin dal XVI sec. nelle terre sottoposte
all’Impero Ottomano (specialmente in Albania) il b. trovò implicazioni di ordine
religioso ed etnico (➔ clefta).

Alla fine del XVIII sec. nel Meridione d’Italia il b. fu la rivolta dei contadini contro i
borghesi proprietari di terre, ma anche nel 1799 la rivolta delle plebi cattoliche contro i

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Francesi e i loro fautori locali. Di tutto questo approfittò la monarchia borbonica, che
dovette la sua restaurazione del 1799 ai capimassa sanfedisti. L’azione del b.
meridionale, spietatamente repressa durante il regno di G. Murat e sporadicamente
riapparsa dopo il 1815, si manifestò dopo il 1860 sotto il manto di lealismo verso la casa
di Borbone.

Mezzogiorno: L’espressione «questione meridionale» indica l’insieme dei problemi


posti dall’esistenza nel Mezzogiorno d’Italia dal 1861 sino a oggi di un più basso
livello di sviluppo economico, di un diverso e più arretrato sistema di relazioni
sociali, di un più debole svolgimento di molti e importanti aspetti della vita civile
rispetto alle regioni centrosettentrionali. Il grave degrado della vita amministrativa
e dei sistemi di potere locali e l’indigenza in cui versavano nel Mezzogiorno le masse
popolari furono portati per la prima volta all’attenzione dell’opinione pubblica
nazionale e delle classi dirigenti nei primi anni Settanta dell’Ottocento dagli studi di
P. Villari e dalle inchieste di L. Franchetti e S. Sonnino, che denunciarono
l’insufficienza dell’azione dello Stato nel Mezzogiorno, senza tuttavia alcun
rimpianto filoborbonico, ma riponendo nello Stato unitario stesso qualunque
speranza di soluzione dei problemi meridionali. La proposta di rimedio dei mali
descritti fu, infatti, una serie di riforme promosse dal governo in materia economica,
sociale e amministrativa (alleggerimento del carico fiscale, facilitazioni creditizie,
riforma dei contratti agrari).

• Religiosa: La prima «questione cattolica», quella dell’Ottocento, coincise col


tema del rapporto stato-Chiesa e aveva come oggetto la ridefinizione dei poteri
dentro l’ordinamento dello stato che era stato sino a quel momento comune. Con
il «libera Chiesa in libero stato», Cavour si proponeva una ridefinizione
dell’ordinamento. Una questione istituzionale, alla quale s’aggiungeva su un
piano culturale e sociale la rappresentanza della stragrande maggioranza della
popolazione italiana (il «paese reale»), in capo alla Chiesa, rispetto al «paese
legale» raccolto nello stato.
La questione d’allora si poneva come tentativo di soluzione del processo di
separazione di massa dei cattolici dallo stato. Come sappiamo quel processo fu
lungo e faticoso, con tentativi avanzati, come quello sturziano, che naufragarono,
fino al Concordato del 1929.
Nel frattempo era già partita una seconda «questione cattolica», che
corrispondeva a quella che potremmo chiamare la «questione laicale», cioè
relativa al significato e alla modalità della presenza dei laici cattolici dentro la
Chiesa e dentro al regime divenuto democratico. Dopo il fallimento del Partito
popolare di Sturzo, il tentativo degasperiano con la Democrazia cristiana diede
una risposta che resse a lungo. La nuova collocazione, attraverso l’esperimento

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politico del partito della DC e il vincolo dell’unità politica dei cattolici, rispondeva
a più criteri.
La Chiesa riconosceva il valore della democrazia, lo stato democratico e le sue
regole, ma da un lato si tutelava affidando alla DC il compito di rappresentarne e
salvaguardarne i diritti, dall’altro attraverso lo strumento democristiano essa
stessa forniva nella disgregazione delle istituzioni e della società uscita dal
fascismo e dalla guerra un supporto d’«umanesimo integrale», alternativo
all’ideologia comunista.
L’accento pubblico era posto, per così dire, sul lato «dell’etica della
responsabilità», mediata nel (e dal) partito, mentre «l’etica della convinzione»
era lasciata ai luoghi della formazione, in genere le parrocchie e
l’associazionismo, e gestita soggettivamente. Questa forma, mentre rinnovava la
presenza e la forza del «mondo cattolico» – quell’insieme multiforme di
organizzazioni e di espressioni sociali, costruite attorno alla Chiesa come sua
riserva e protezione, mondane perché laicali e cattoliche perché confessionali –
esprimeva il punto più alto di modernità. Sul versante politico e su quello laicale.
La dissoluzione della DC, segnando il venir meno della relazione tra Chiesa,
«mondo cattolico» e DC, disarticolava la stessa funzione civile ed ecclesiale del
laicato cattolico organizzato, diminuendone, da un lato, il peso e l’incidenza
politica e, dall’altro, il peso e il ruolo ecclesiale.
«Se il partito attuale – aveva detto il card. Camillo Ruini all’Assemblea dei
vescovi italiani nel maggio 1992, quando la DC era ancora al 31% – a un certo
punto decadrà, o se è già avviato verso il decadere, dobbiamo accettare l’idea che
per un periodo abbastanza lungo non avremo alternative paragonabili. Non può il
mondo cattolico per 47 anni avere occupato una posizione di grande rilievo
attraverso uno strumento e poi, se viene meno quello strumento, pretendere di
occupare ugualmente una posizione di grande rilievo immediatamente,
attraverso altri strumenti».1
Esaurito il passato
Né il Progetto culturale (lanciato dallo stesso Ruini nel 1994, dopo la fine della
DC), che, con un intento ancora troppo politicistico, affidava alla gerarchia il
compito di dialogare direttamente con la società italiana e traghettare il mondo
cattolico dopo la DC, tenendolo unito attraverso un processo di centralizzazione
ecclesiastica; né il decennio successivo, contrassegnato dal cambiamento di due
pontificati, che ha corrisposto sostanzialmente a una fuoriuscita afasica della
Chiesa dal modello precedente, senza saperlo sostituire, sono stati in grado, sul
lato ecclesiale, di predisporre «altri strumenti». Mentre si è andata consumando
in area cattolica un’intera stagione dell’associazionismo e del movimentismo

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cattolico, oggi fortemente ridotto per numeri e rilevanza. Il contesto del sistema
politico ha fatto il resto.
Non avere risolto la questione laicale, immaginando di tenere centralisticamente
le pecore nell’ovile, non aiuta ad affrontare la terza «questione cattolica», posta
dalla totale secolarizzazione della società.
Essa è propriamente una questione religiosa e culturale, che implica il confronto
tra riferimenti morali e valoriali diversi presenti nella società, anche in presenza
di altre religioni e dei valori di cui sono portatrici. È una questione che si riferisce
alla società nel suo complesso, al cambio antropologico radicale in atto – a
differenza della prima che aveva un carattere istituzionale ed era in capo alle
classi dirigenti e alla seconda che in quanto politica era delegata soprattutto al
ceto politico –.
Qui occorre ripartire complessivamente da una prima evangelizzazione o
alfabetizzazione della fede. In una società genericamente cristiana, ma di fatto
indifferente, la sfida religiosa (o per meglio dire della fede) è posta al primo
posto. La Chiesa, come aveva intuito il card. Carlo M. Martini, deve ripartire da
Dio (cf. anche in questo numero a p. 509).
Anche il modello caritativo, che rimane la porta d’ingresso dell’umano, il luogo
nel quale si manifesta il segno della grazia, necessita di un approfondimento in
chi lo compie più che un tentativo di conversione verso chi lo riceve. L’incontro
con un fratello consiste nella sua gratuità, che attesta la gratuità di Dio. La
consapevolezza del cristiano origina non solo la sua vicinanza, ma il segno di
quella vicinanza.
La carità necessita di una rinnovata consapevolezza teologica, pena il suo esito
funzionale ai modelli societari volta a volta esistenti e il lento deperimento dei
soggetti che la praticano.
C’è poi un problema più ampio di discernimento culturale e della formazione delle
coscienze. Su questo la Chiesa ha una responsabilità oggettiva, ovunque si trovi a
vivere. Ma oggi è l’intero popolo di Dio a giocarsela: uomini e donne.
• Nazionale: in Cavour, si pone come problema eminentemente economico, e i
primi scritti a tema italiano riguardano la necessità di abbattimento delle barriere
doganali tra gli Stati della penisola. È dunque fortemente avverso ai progetti
della Giovine Italia, che considera dannosi e controproducenti.

Italia unita

Il 18 febbraio del 1861, in seguito alla seconda guerra d'indipendenza e ai plebisciti nei
territori conquistati dal Regno di Sardegna, Vittorio Emanuele II inaugurò a Torino il
parlamento italiano formato dai rappresentanti di tutti i territori annessi. Il successivo

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17 marzo il re firmò con Cavour la legge che proclamava il Regno d'Italia. Scomparivano
i ducati e i granducati in Emilia e Toscana, il dominio pontificio veniva ridotto alla sola
zona del Lazio e tramontava il regno borbonico. A completare l'unità mancavano solo il
Veneto e Roma. Il Regno d'Italia venne strutturato come un allargamento del Regno di
Sardegna, mantenendo la forma istituzionale monarchico-costituzionale e un modello
centralista. Il diritto di voto era attribuito - secondo la legge elettorale contenuta nello
statuto albertino del 1848 - in base al censo e in tal modo gli aventi diritto costituivano
appena il 2% della popolazione. Le basi del nuovo sistema erano quindi estremamente
ristrette.

Nei primi anni di vita dello Stato unitario gli uomini della Destra storica, gruppo politico
erede di Cavour ed espressione della borghesia liberal-moderata (composto
principalmente da alta borghesia, proprietari terrieri, industriali e militari) si
concentrarono sul completamento dell'Unità. Nel 1866, a seguito della terza guerra di
indipendenza, al Regno veniva annesso il Veneto, sottratto all'Impero austro-ungarico.
L'unificazione italiana veniva perfezionata nel 1870 con la presa di Roma e l'annessione
del Lazio, che esasperavano ulteriormente l'ostilità della Chiesa cattolica e del clero nei
confronti del nuovo Stato e contribuiva a rendere tesi i rapporti con il tradizionale
alleato francese. Roma divenne ufficialmente capitale d'Italia (prima lo erano state
Torino e Firenze).

Le differenze economiche, sociali e culturali ereditate dal passato resero difficili la


costruzione di uno Stato unitario. Aree industrializzate ampiamente coinvolte nei
processi di modernizzazione furono unite a realtà statiche ed arcaiche del mondo
rurale. La neonata Italia si trovò a fronteggiare questi ed altri problemi, dalla creazione
di uno Stato unitario con leggi uniformate e una moneta unica, alla lotta contro
l'analfabetismo e la povertà diffusa. Un forte elemento di instabilità fu rappresentato
dal fenomeno del brigantaggio antisabaudo - represso con la forza - diffuso nelle
regioni meridionali, che contribuì a complicare la già complessa questione meridionale.

Eredità delle vicende storiche che l'accelerato processo di unificazione nazionale, con
l'adozione di leggi, quali la coscrizione obbligatoria, lontana dalla mentalità delle masse
della popolazione rurale, non aiutò a risolvere.
Il tentativo di risanare le finanze tramite la promulgazione di nuove tasse, produsse un
diffuso scontento popolare, che servì solamente ad accentuare i fenomeni di illegalità.

Nel 1876 il governo venne esautorato ed iniziò il periodo della Sinistra storica, guidata
da Agostino Depretis. Lo storico cambio alla guida del Paese contribuiva insieme alla
morte due anni dopo di Vittorio Emanuele II, a porre fine ad un'epoca ed aprirne
un'altra, con Umberto I quale re. La Sinistra avviò politiche di democratizzazione e
modernizzazione, investendo nell'istruzione pubblica (di cui fu ribadita l'obbligatorietà),

49
allargando il suffragio elettorale e inaugurando una politica protezionistica e di diretto
intervento dello Stato nell'economia (investimenti in infrastrutture e nello sviluppo
dell'industria). Depretis avviò una serie di inchieste sulle condizioni di vita dei contadini
nella penisola, la più famosa delle quali fu l'inchiesta Jacini, che rivelarono grande
miseria e pessime condizioni. In politica estera il capo del governo abbandonò la
tradizionale alleanza con la Francia e nel 1882 L'Italia si alleò con la Germania e
l'Impero austro-ungarico, aderendo alla Triplice Alleanza.

Il governo della Sinistra inaugurò anche l'avventura coloniale italiana Nel 1882 l'Italia
acquistò la baia di Assab e due anni dopo i diplomatici italiani si accordarono con la
Gran Bretagna per l'occupazione del porto di Massaua, che presto assunsero la
denominazione di Colonia Eritrea italiana. L'interesse coloniale continuò durante i
governi di Francesco Crispi e la città di Massaua divenne il punto di partenza per un
progetto che sarebbe dovuto sfociare nel controllo del Corno d'Africa. L'Italia cercò di
penetrare all'interno dell'Etiopia, ma la politica di progressiva conquista del Paese trovò
una battuta d'arresto con la sconfitta di Adua nel 1896.

Negli ultimi anni dell'Ottocento l'Italia fu protagonista di un vasto movimento di


emigrazione di massa, con milioni di contadini che si trasferirono prevalentemente nelle
Americhe. Ebbe anche inizio un ciclo di rapida industrializzazione che contribuì
all'affermazione del movimento operaio nel Paese (nel 1892 fu fondato a Genova da
Filippo Turati il Partito socialista italiano). L'industrializzazione ebbe i suoi punti di
forza nella siderurgia e nella nuova industria idroelettrica, che sembrò risolvere il
problema della carenza di materie prime. Anche l'industria continuò a ricoprire una
posizione di rilievo, mentre iniziò ad affermarsi quella meccanica. L'economia tuttavia
continuava a conservare forti squilibri tra il Nord del Paese, industrializzato e moderno,
e il Sud, arretrato e agricolo.

Dopo l'uccisione di Umberto I in un attentato rivendicato per vendicare la strage del


1898 dei manifestanti a Milano presi a cannonate sotto ordine reale, divenne re Vittorio
Emanuele III. Dal 1901 al 1914 protagonista della politica italiana fu il capo del
governo Giovanni Giolitti, che affrontò il diffuso malcontento provocato
dall'autoritarismo di Crispi. Al contrario del suo predecessore, Giolitti preferì il
confronto con le parti sociali e l'accettazione delle proteste e degli scioperi, purché non
violenti né politici. La linea politica tenuta da Giolitti influenzò anche una svolta
all'interno del partito socialista, dove prevalse l'ala riformista che pose in minoranza la
massimalista. Tra gli interventi più importanti del capo del governo vi furono la
legislazione sociale e del lavoro, le prime leggi speciali per lo sviluppo del Mezzogiorno,
il suffragio universale maschile, la nazionalizzazione delle ferrovie e delle assicurazioni,
la riduzione del debito statale, lo sviluppo delle infrastrutture e dell'industria. Fu ripresa

50
la politica coloniale e dopo la breve guerra contro l'Impero ottomano nel 1911 l'Italia
occupò la Libia e l'anno dopo e il Dodecaneso.

Nella Prima guerra mondiale l'Italia prima neutrale, entrò in guerra dopo la firma del
Patto di Londra. L'accordo prevedeva lo schieramento dell'Italia al fianco dell'Intesa in
cambio - in caso di vittoria - dell'annessione del Trentino, dell'Alto Adige, della Venezia
Giulia e dell'Istria - con l'esclusione di Fiume - e una parte della Dalmazia. Il comando
dell'esercito venne affidato al generale Luigi Cadorna. Il fronte aperto dall'Italia contro
l'Austria-Ungheria ebbe come teatro le Alpi e lo sforzo principale per sfondare il fronte
fu concentrato nella regione delle valli dell'Isonzo. Nel 1917 gli austro-ungarici e i
tedeschi ruppero il fronte convergendo su Caporetto e accerchiando le truppe italiane.
La rottura del fronte provocò il crollo delle postazioni italiane lungo l'Isonzo e la loro
ritirata. Conseguenze della disfatta furono la sostituzione di Cadorna con il maresciallo
Armando Diaz in qualità di capo di stato maggiore. Gli austro-ungarici lanciarono una
nuova offensiva il 15 giugno del 1918, che vide tuttavia gli italiani resistere all'assalto.
Con l'Impero vicino al tracollo e l'impossibilità di continuare a sostenere lo sforzo
bellico nel lungo termine, l'offensiva italiana partì il 23 ottobre dal Piave e portò
rapidamente alla vittoria di Vittorio Veneto. L'Austria-Ungheria a quel punto si arrese. Il
3 novembre a Villa Giusti (Padova) l'esercito imperiale firmò l'armistizio. Alla
Conferenza di pace di Parigi l'Italia completò l'unificazione nazionale acquisendo il
Trentino-Alto Adige, la Venezia Giulia, l'Istria ed alcuni territori del Friuli, le città di
Trieste e Gorizia e le isole del Carnaro e Zara.

Le conseguenze sociali ed economiche della guerra furono pesanti. Nell'opinione


pubblica si insinuò il mito della "vittoria mutilata" allorché alla conferenza di pace fu
negata all'Italia la cessione della Dalmazia e di Fiume, in base al principio
dell'autodeterminazione dei popoli. In un clima di delusione ebbero buon gioco i
nazionalisti a fare sentire la loro protesta e ad applaudire l'occupazione di Fiume
effettuata nel settembre del 1919 dai volontari guidati dal poeta Gabriele d'Annunzio e
fiancheggiati da truppe sediziose dell'esercito. Gli operai e i braccianti, sull'onda del
successo bolscevico in Russia, scesero in sciopero per rivendicare aumenti salariali e
migliori condizioni di vita (Biennio rosso), ma il movimento popolare declinò
rapidamente. Il sostegno dei ceti medi, degli agrari e degli industriali si indirizzò
dunque verso l'emergente fascismo, che il 28 ottobre del 1922 prendeva il potere con la
marcia su Roma e inaugurava un ventennio di dittatura, che si sarebbe concluso con gli
orrori della Seconda guerra mondiale.

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9 /10

Lezione 6

La Germania dai moti del 1848 alla Prima guerra mondiale

Germania del 1848

In Germania, le grandi manifestazioni popolari iniziate a Berlino il 18 marzo 1848, dopo


le prime notizie dei fatti di Vienna, costrinsero il re Federico Guglielmo IV di Prussia a
concedere la libertà di stampa e a convocare un parlamento prussiano (Landtag). Ma
intanto agitazioni e sommosse erano scoppiate in molti degli Stati e staterelli che
componevano la Confederazione germanica. Ne era scaturita, quasi spontaneamente, la
richiesta di un'Assemblea costituente dove fossero rappresentati tutti gli Stati tedeschi,
Austria compresa.

Un "preparamento" riunitosi all'inizio di aprile stabilì, dopo che il re concesse una


Costituzione ottriata (presto mutuata in senso conservatore), che la Costituente
tedesca sarebbe stata eletta a suffragio universale e avrebbe avuto la sua sede
a Francoforte sul Meno. A metà maggio l'Assemblea aprì i suoi lavori in un clima di
generale entusiasmo. Ben presto fu chiaro però che la Costituente di Francoforte non
aveva i poteri necessari per imporre la sua autorità ai sovrani e ai governi degli Stati
tedeschi e per avviare un processo di unificazione nazionale. Le sue sorti non potevano
che dipendere da quanto accadeva nello Stato più importante, la Prussia.

Ma proprio in Prussia il movimento liberal-democratico conobbe un rapido declino,


anche perché la borghesia era spaventata dalle agitazioni sociali che nel frattempo si
andavano intensificando: in estate vi furono sommosse di lavoratori a Berlino, in Slesia
e a Francoforte. Ai primi di dicembre Federico Guglielmo sciolse il Parlamento prussiano
ed emanò una Costituzione assai poco liberale.

Frattanto, i lavori dell'Assemblea di Francoforte erano quasi completamente assorbiti


dalle dispute sulla questione nazionale e dalla contrapposizione tra "grandi tedeschi" e
"piccoli tedeschi": fautori i primi di una unione di tutti gli Stati germanici intorno
all'Austria imperiale, sostenitori i secondi di uno Stato nazionale più compatto, da
costruirsi sul nucleo principale del Regno di Prussia. Prevalse, dopo lunghe discussioni,
la tesi "piccolo-tedesca". Ma quando, nell'aprile 1849, una delegazione dell'Assemblea
si recò a Berlino per offrire al re di Prussia la corona imperiale, questi la rifiuto in
quanto gli veniva offerta da un'assemblea popolare, nata da un moto rivoluzionario.

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Il gran rifiuto di Federico Guglielmo segnò in pratica la fine della Costituente di
Francoforte. La Prussia ritiroò i suoi delegati. I rappresentanti moderati e conservatori
degli Stati minori, timorosi di sviluppi rivoluzionari, si ritirarono anch'essi. Ridotta alla
sola componente democratica, l'Assemblea che nel frattempo si era trasferita a
Stoccarda, fu sciolta il 18 giugno 1849 dalle truppe del governo del Wurtemberg.

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Prussia

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Regione storica della Germania, la cui denominazione deriva dai Borussi, o Prussi,
popolazioni baltiche che abitavano la zona costiera detta più tardi P. orientale. Fino al
1945 la P. costituì la più vasta circoscrizione amministrativa interna del Reich, ossia
un Land suddiviso in 13 province (Berlino-città, P.
Orientale, Brandeburgo, Pomerania, Schleswig-Holstein, Hannover, Alta Slesia, Bassa
Slesia, Sassonia, Assia-Nassau, Vestfalia, Renania, Hohenzollern). Dopo la Seconda
guerra mondiale la P. è scomparsa dal novero delle circoscrizioni amministrative
tedesche, mentre i territori orientali, che avevano costituito il primo antico nucleo della
P., hanno subito diversa sorte, passando in parte all’URSS (zona di Königsberg,
ora Kaliningrad), in parte alla Polonia.

Al tempo della sua massima estensione, la P. abbracciava i 2/3 dello Stato tedesco e
quindi comprendeva regioni molto diverse dal punto di vista fisico; il nucleo originario
della regione era quello che occupava una porzione del Bassopiano Germanico
settentrionale tra Elba e Oder, vasta pianura solcata da antiche valli glaciali con
numerosi laghi.

STORIA

Le origini

La regione baltica, abitata dai Prussi, dopo parziali tentativi di cristianizzazione (10°-
11° sec.), fu donata da Federico II all’Ordine Teutonico (1226), che la conquistò e la
evangelizzò. Al termine della lunga lotta di conquista (inizio 14° sec.) la regione, dopo
lo sterminio di molti nuclei di Prussi, fu popolata da colonie tedesche: a essa fu unita
nel 1308-10 anche la Pomerelia, con le foci della Vistola, creandosi così un ponte con i
Tedeschi della Germania. I cavalieri dell’Ordine per la loro qualità di monaci non
potevano avere legittima discendenza e perciò mantenevano i loro possessi a titolo di
usufrutto personale. L’acquisto del Brandeburgo orientale (1402) inasprì i rapporti con
la Polonia e una grave sconfitta subita (1410) a Tannenberg parve segnare la fine
dell’Ordine. La pace di Thorn (1411), con il pagamento di una forte indennità di guerra,
lasciò ancora la P ai cavalieri. Un successivo intervento polacco, dovuto a una ribellione
dei sudditi, portò alla seconda pace di Thorn (1466), che spezzò la P. in due parti:
all’Ordine restò la P. orientale (con capitale Königsberg), soggetta però all’alta
sovranità del re di Polonia, che si impadronì con la P. occidentale dell’antica capitale
Marienburg. Quando il gran maestro dell’Ordine Alberto di Hohenzollern aderì alla
Riforma di Lutero, i possessi dell’Ordine, soppresso, si ridussero a un ducato laico
ereditario; si rese definitiva la distinzione delle due regioni prussiane (designate in
Polonia come P. ducale e P. reale), e inoltre venne ribadito il legame di dipendenza
feudale del duca Alberto verso i sovrani polacchi. In caso di estinzione del ramo
prussiano degli Hohenzollern, i suoi possedimenti sarebbero dovuti passare agli

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Iagelloni di Polonia; ma la successione di Alberto toccò alla linea francone dei
Brandeburgo e, estintasi anche questa, all’elettore di Brandeburgo (1618). Ebbe luogo,
dunque, un’unione personale di due Stati tra loro non confinanti e diversi per
ordinamenti e istituzioni, cui si aggiunsero l’ex vescovato di Minden e la contea di
Ravensberg, tra l’Ems e il Weser, la contea della Mark nella regione della Ruhr e il
ducato di Kleve sul basso Reno, e ancora (per il trattato di Vestfalia, 1648) la Pomerania
orientale, col vescovato di Kammin.

Dal regno di Prussia al secondo dopoguerra

fig.

Proprio questo sparpagliamento di possessi permise a Federico Guglielmo (1640-88)


di farsi valere in gran parte della Germania. Sciolto nel 1660 con il trattato di Oliva il
vincolo di soggezione alla Polonia, il successore Federico III nel 1701 prese il titolo
di Federico I re di Prussia. Il regno di P., assolutista, basato sui due saldi pilastri del
suo esercito e della sua burocrazia, si accrebbe nel 1720 di una parte della
Pomerania con Stettino; poi con il grande re Federico II (1740-86) si protese verso il
Sud con la Slesia e si ingrandì ancora, acquisendo la cosiddetta P. occidentale con
l’Ermland e il distretto della Netze (escluse Danzica e Thorn, rimaste polacche). Il
successore, Federico Guglielmo II (1786-97), ereditò nel 1791 i principati
di Ansbach e di Bayreuth, poi, a seguito delle spartizioni della Polonia, venne in
possesso della Grande Polonia e della Masovia fino alla Lituania di qua dal Neman.
Dovette però cedere alla Francia i possessi sulla riva sinistra del Reno. La diffidenza
verso l’Austria, prima alleata, persuase la P. a rinchiudersi in una stretta neutralità

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nei confronti della Francia rivoluzionaria e poi napoleonica. Nel 1805 si schierò
contro Napoleone, ma la pace di Tilsit (1807) la sottopose ugualmente a una enorme
indennità di guerra (e, a garanzia, fu occupata militarmente) e la privò di diversi
possessi. Ma presto percorsa da una volontà di rinascita, nel 1813 poté riprendere il
suo posto nella coalizione antinapoleonica (v. fig.).

Il Congresso di Vienna attribuì alla P. molti dei suoi precedenti possedimenti,


insieme a parte della Sassonia, della Renania e della Vestfalia. Priva di contiguità
territoriale fra le sue province, la P. promosse dal 1818 un’unione doganale, fino alla
creazione (1833) di un vasto mercato comune a direzione prussiana (➔ Zollverein).
Federico Guglielmo III appoggiò la politica conservatrice di Metternich all’interno
della Confederazione germanica (➔ Germanica, Confederazione) e la P. fu l’unico dei
grandi Stati tedeschi a non adottare una Costituzione a seguito dei moti europei del
1830; il suo successore, Federico Guglielmo IV, acconsentì a giurare fedeltà alla
Costituzione del 31 gennaio 1850, rimasta in vigore sino al 1918, che manteneva il
principio del diritto divino come fondamento della monarchia. Rifiutata la corona di
imperatore tedesco (1849), il re, col consiglio di J.M. von Radowitz, puntò a creare
una federazione dei principi tedeschi. A tale progetto si oppose l’Austria che,
minacciando la guerra, obbligò la P. a firmare nel 1850 la convenzione di Olmütz
(➔ Olomouc). Il nuovo re, Guglielmo I, perseguì una politica decisamente
conservatrice e riorganizzò l’esercito. Dopo la chiamata al governo di O. von
Bismarck (1862) si avviò a conclusione la rivalità con l’Austria, inaspritasi per la
questione dei ducati di Schleswig e Holstein (➔ Schleswig-Holstein). Uscita
vittoriosa dalla guerra austro-prussiana, la P. si annetté lo Schleswig-Holstein,
l’Hannover, l’Assia-Kassel, il Nassau e Francoforte sul Meno; sciolta quindi la
Confederazione germanica, creò e assunse la direzione di una Confederazione della
Germania del Nord. Il processo di unificazione tedesca fu portato avanti
concludendo durante la guerra franco-prussiana una serie di trattati di federazione
con gli Stati meridionali, punto di partenza per la formazione del secondo Reich,
suggellata dall’incoronazione a imperatore di Guglielmo I (18 genn. 1871).

All’interno dell’impero la P. mantenne un ruolo di guida, attenuatosi parzialmente


solo dopo la Prima guerra mondiale; a seguito della sconfitta tedesca, il trattato
di Versailles (1919) attribuì alla Polonia la P.
occidentale (cosiddetto corridoio polacco), oltre alla regione di Gniezno e Poznań.
La P. orientale, compresa fra il basso corso della Vistola e quello del Neman, risultò
interamente separata dal resto dello Stato per l’interposizione del corridoio polacco
e del territorio di Danzica, eretta a città libera; dopo la Seconda guerra mondiale,
per gli accordi della conferenza di Potsdam (1945), passò alla Polonia (la parte
meridionale, da Elblag ai Laghi Masuri) e all’URSS (la parte settentrionale).

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• Guerra prussiano-danese: Durante il regno di Cristiano VIII di Danimarca (1839-
48), la maggioranza tedesca che abitava i ducati di Schleswig e di Holstein
espresse più volte la richiesta di autonomia politica, finché il 23 marzo 1848 si
giunse alla costituzione di un governo provvisorio nel ducato di Schleswig. La P.
intervenne subito a protezione dei ribelli, finché la mediazione delle grandi
potenze portò alla pace di Berlino (2 luglio 1850); quindi, con il protocollo di
Londra dell’8 maggio 1852, Austria, Francia, Gran Bretagna, Danimarca, P.,
Russia e Svezia assicurarono la successione, anche nei Ducati, al principe
Cristiano di Sondenburg-Glücksburg. La promulgazione della costituzione
unitaria danese (1863) portò però nel 1864 alla guerra dell’Austria e della P.
contro la Danimarca (➔Ducati, Guerra dei).

LINGUA
Prussiano antico Lingua parlata un tempo nella P. orientale ed estintasi alla fine
del XVII sec. per la penetrazione sempre più profonda del tedesco. Appartiene al
gruppo baltico della famiglia indoeuropea ed è documentato dal cosiddetto
vocabolario di Elbing, contenente circa 800 parole, e dalle traduzioni di tre diversi
Catechismi e dell’Encheiridion di Lutero, tutti del XVI secolo.

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Guerre:
• Guerra dei ducati: Conflitto armato che contrappose la Danimarca
all’Austria e alla Prussia per il possesso dei ducati di Schleswig, Holstein e
Lauenburg. La guerra fu provocata dall’entrata in vigore (1863) di una
nuova Costituzione danese, con la quale il governo di re Cristiano IX
intendeva togliere allo Schleswig i tradizionali diritti di autonomia, in
violazione dell’accordo già concluso con la Prussia. Alla fine del 1863 il
ducato di Holstein fu occupato da truppe della Sassonia e del Hannover. In
seguito al rifiuto di un ultimatum austro-prussiano del 16 genn. 1864,
richiedente entro 48 ore l’annullamento della nuova Carta costituzionale,
l’esercito delle due potenze sotto il comando del maresciallo prussiano F.H.
Wrangel iniziò le ostilità contro i danesi. Dopo un deciso attacco degli
austriaci, i danesi, nella notte dal 5 al 6 febbraio, sgombrarono le posizioni
fortificate del Danerwerk per raggiungere il vallo di Düppel, a N-E di
Flensburg nello Schleswig settentrionale. Wrangel procedette allora
all’occupazione dello Jütland. Le fortificazioni del vallo di Düppel, dopo una
accanita resistenza danese, caddero nelle sue mani il 18 aprile. Concluso
un armistizio il 12 maggio e fallita a Londra una conferenza internazionale,
alla quale parteciparono anche i belligeranti, le ostilità ripresero il 25
giugno; dopo la perdita dell’isola di Als, i danesi furono costretti alla pace,
conclusa a Vienna il 27 ottobre successivo. Lo Schleswig, il Holstein e il
Lauenburg cessarono di far parte della Danimarca.
• Guerra austro-prussiana: Le cause della breve, ma sanguinosa guerra del
1866 fra l'Austria e la Prussia vanno da un lato cercate in una situazione
d'antagonismo permanente, che s'era venuta formando per la politica di
gabinetto, ispirata a sogni di egemonia dinastica in Germania, della casa
degli Hohenzollern e della casa d'Asburgo. L'antagonismo che risaliva alla
prima metà del sec. XVIII e che si era venuto accentuando con Federico II,
era parso estinguersi - appunto perché politica di sovrani, non di popoli -
davanti alla bufera rivoluzionaria e napoleonica; s'era ridestato dopo il
congresso di Vienna, che immetteva nella Confederazione germanica i due
Stati - Austria e Prussia - a parità di diritti, ma non divampava ancora,
perché fino al 1848 la forte personalità del Metternich non aveva trovato
nei sovrani o negli uomini di stato prussiani un rivale di pari statura. Ma
dal 1815 in poi, su questo antagonismo dinastico s'era venuto innestando
un antagonismo di natura ben diversa, nazionale, che non faceva
questione di Hohenzollern e di Asburgo in quanto rappresentanti di
interessi dinastici più o meno conciliabili con gl'interessi dei sudditi,
concepiti alla vecchia maniera paternalistica; bensì un antagonismo che

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nasceva da due modi contrastanti di vedere la soluzione del problema
nazionale tedesco. Antagonismo ideale, quindi, ma non tanto privo del
senso del reale, da non vedere che una qualunque soluzione del problema
doveva impostarsi sulla contrapposizione delle due forze politiche
maggiori, Austria e Prussia, e sull'eliminazione dell'una o dell'altra.
Conflitto d'idee, che portava all'una o all'altra parte gli aderenti per un
incrociarsi di sentimenti e interessi discordanti: motivi religiosi (cattolici
contro - in largo senso - protestanti), politici (liberalismo contro
conservatorismo), motivi di militarismi contrastanti (prussiano e
austriaco), motivi economici, ma non tutti motivi così ben definiti da
schierarsi nell'uno o nell'altro campo, sì da conferire ai due avversarî una
fisionomia ben distinta. E però dagli spiriti migliori la lotta fu sentita come
una necessità dolorosa, ma ineluttabile, che doveva decidere se la futura
Germania dovesse avere un colorito esclusivamente tedesco - anche a
costo di accettare l'egemonia prussiana, spesso non benevisa nemmeno ai
suoi alleati - oppure dovesse ammettere un'infusione - con l'Austria - di
frammenti, che poi rappresentavano idee ed interessi eterogenei. In altre
parole, se la Germania doveva essere stato nazionale o - con un ritorno al
passato - la Germania del Sacro romano impero, sia pure con una
maggiore coscienza della sua funzione nazionale.

• Guerra franco-prussiana: Conflitto combattuto nel 1870-71


tra Francia e Prussia. Premessa fu l’azione politico-diplomatica
di Bismarck, che fin dalla guerra austro-prussiana del 1866 e dalla crisi
del Lussemburgo del 1867 si era convinto di poter compiere l’unità tedesca
sotto l’egemonia della Prussia solo mediante una vittoria militare sulla
Francia. Il rifiuto di questa di sostenere la candidatura del principe
Leopoldo di Hohenzollern-Sigmaringen al trono di Spagna offrì a Bismarck
l’occasione di assumere un atteggiamento apertamente antifrancese
(telegramma di Ems: ➔ Ems, Bagni di), che portò alla dichiarazione di
guerra da parte di Parigi (19 luglio 1870). La Francia, militarmente
inferiore alla Prussia e agli altri Stati tedeschi, non si era preparata al
conflitto neppure con un opportuno gioco di alleanze: né l’Austria-
Ungheria, né l’Inghilterra, né l’Italia, né la Russia intervennero al suo
fianco. Le armate tedesche, sotto il comando del generale Moltke,
conseguirono immediatamente una serie di vittorie (Woerth, Forbach-
Spicheren), culminate il 1° settembre nella battaglia di Sedan, dopo la

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quale i Francesi furono costretti alla resa. Alla notizia del disastro di
Sedan, a Parigi scoppiò la rivoluzione: fu proclamata la caduta dell’impero,
l’imperatrice Eugenia fuggì, mentre un governo di difesa nazionale
assumeva il potere. Gli eserciti francese e tedesco confluirono entrambi
verso Parigi, che fu assediata dai Tedeschi. L’eroica resistenza all’invasore
giustificò la frase coniata dal loro patriottismo del glorieux vaincu. Da
ottobre alla fine del 1870 si susseguirono infruttuosamente i tentativi
francesi di infrangere il blocco tedesco di Parigi a opera delle armate della
Loira e del Nord, che però non avevano collegamenti fra loro e con la
guarnigione della capitale. Anche l’offensiva dell’armata dell’Est (o dei
Vosgi), che voleva costringere Moltke a diminuire la pressione su Parigi,
fallì, e il successo di Garibaldi a Digione (23 gennaio) non influì
sull’andamento generale delle operazioni. All’inizio di gennaio il comando
tedesco iniziò il bombardamento di Parigi e il 28 fu firmato l’armistizio. La
pace fu conclusa col trattato di Francoforte (10 maggio 1871), sottoscritto
dal ministro A. Thiers, che dovette ratificare i preliminari di pace imposti
da Bismarck, implicanti l’indennità di 5 miliardi, l’occupazione temporanea
di una parte del territorio, la cessione dell’Alsazia e di una parte della
Lorena, e anche la sfilata di una parte delle truppe vittoriose a Parigi, sugli
Champs-Élysées.

Capitale Italia 1870-71


Firenze doveva dunque rimanere la capitale del giovanissimo regno
italiano e proprio per questo cominciarono subito dei massicci lavori
pubblici per adattare l'ancor piccola città toscana al suo nuovo ruolo: gran
parte delle vecchie mura trecentesche vennero abbattute per far spazio a
viali ed edifici amministrativi, mentre i maestosi palazzi rinascimentali
divennero le sedi di Ministeri e uffici statali.
Firenze capitale però durò ben poco. Contrariamente a quanto promesso a
Napoleone III infatti, l'Italia aveva eccome il desiderio di prendere Roma e
alla fine ci riuscì nel 1870, con il famoso episodio della breccia di Porta Pia.
Dal 1871 quindi Roma divenne la terza capitale d'Italia!

Bismarck
Ottone di Bismarck è stato una figura chiave della storia prussiana,
tedesca ed europea della seconda metà del XIX secolo. Fu il principale
artefice dell'unità della Germania e il primo cancelliere, ossia capo del

65
governo, del neonato Stato tedesco dal 1871 al 1890. Diede un'impronta
fortemente autoritaria alla Germania, alla quale cercò di attribuire un ruolo
di arbitro in Europa.
LE PRIME ESPERIENZE POLITICHE E LA QUESTIONE TEDESCA
Originario del Brandeburgo ‒ nacque a Schönhausen nel 1815 ‒, Bismarck
fu un tipico esponente della grande e potente nobiltà fondiaria delle
province orientali della Germania: gli Junker. Conservatore, più volte
schierato su posizioni apertamente reazionarie, iniziò una brillante carriera
politica e diplomatica al servizio della Prussia alla vigilia delle rivoluzioni
del 1848-49. A partire da quell'esperienza e dagli sviluppi del decennio
successivo, si convinse che la frammentazione del mondo tedesco
costituiva un residuo del passato e che erano quindi maturi i tempi per
unificare la Germania in un nuovo Stato nazionale. Egli riteneva che questo
nuovo Stato avrebbe dovuto avere il suo nucleo centrale nella Prussia e
che il processo di unificazione avrebbe dovuto avere i suoi protagonisti
nella dinastia e nell'esercito prussiani: che l'unità della Germania dovesse
cioè essere realizzata 'dall'alto' invece che 'dal basso', come avevano
sperato, invano, i liberali e i democratici tedeschi protagonisti delle
rivoluzioni del 1848-49.
L'UNIFICAZIONE DELLA GERMANIA
Chiamato nel 1862 alla guida del governo dal re Guglielmo I, Bismarck
entrò in contrasto con le opposizioni liberali in Parlamento e, contro la loro
volontà, riformò e potenziò l'esercito. Si dedicò quindi a costruire una
vasta trama politica e diplomatica per creare condizioni favorevoli al
processo di unificazione. Furono tuttavia due guerre a rendere possibile
quell'esito. La prima fu combattuta e vinta nel 1866 contro l'Austria, il più
immediato ostacolo sulla strada dell'unificazione, e portò alla nascita del
primo nucleo del futuro Stato tedesco, la Confederazione del Nord, una
confederazione degli Stati tedeschi situati a nord del fiume Meno. La
seconda fu combattuta e vinta nel 1870-71 contro la Francia di Napoleone
III, che temeva la crescita della potenza prussiana in Europa.
Fu all'indomani di questo conflitto ‒ che rappresentò una profonda
umiliazione per la Francia e portò alla caduta dell'Impero napoleonico ‒
che il 18 gennaio 1871 fu proclamato, con l'inglobamento degli Stati
tedeschi meridionali, il Secondo Reich ("impero"). Il re di Prussia
Guglielmo I ne divenne l'imperatore, e Bismarck, circondato di un
immenso prestigio, il cancelliere.
BISMARCK CANCELLIERE DEL REICH

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Bismarck rimase alla guida della Germania dal 1871 al 1890. Sul piano
della politica interna ‒ dove entrò in contrasto con i cattolici (1871-78) e
poi con i socialisti (1878-90), dando peraltro avvio a un'assai avanzata
politica sociale ‒ Bismarck si sforzò di mantenere il primato dell'elemento
prussiano entro i confini del Reich, degli Junker rispetto ad altri gruppi
sociali, della corona, dell'esercito e della burocrazia nei confronti del
Parlamento, eletto, secondo la Costituzione del 1871, a suffragio
universale. Egli in tal modo edificò uno Stato 'autoritario' profondamente
diverso dagli Stati parlamentari del resto dell'Europa continentale e dalla
Gran Bretagna.
In politica estera, Bismarck si sforzò di mantenere l'equilibrio europeo e di
riservare alla Germania un ruolo di arbitro tra le grandi potenze. Poco
sensibile ai richiami dell'espansionismo imperialistico e coloniale, che pure
dovette assecondare sotto la spinta dei circoli militaristici e della grande
industria, si sforzò di evitare che la Germania si trovasse accerchiata, a est
e a ovest, da potenze ostili. Sul lungo periodo, e sullo sfondo della
modernizzazione del paese, la sua politica andò incontro a un sostanziale
fallimento. Entrato in contrasto con il nuovo imperatore Guglielmo II,
salito al trono nel 1888, lasciò la carica di cancelliere, si ritirò a vita privata
nel 1890 e morì nel 1898.

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Patto dei tre imperatori
Tre imperatori, lega dei Intesa politica, puramente verbale, costituitasi dal 5 all’11
settembre 1872 a Berlino, per iniziativa di O. von Bismarck, tra Guglielmo I di
Germania, Francesco Giuseppe d’Austria e Alessandro II di Russia, con l’intento di
mantenere lo statu quo europeo e di conservare la pace continentale contro la
paventata ‘rivincita’ della Francia dopo la sconfitta del 1870-71. L’accordo, venuto
meno in seguito alla guerra russo-turca del 1877-78, che rese oltremodo difficili i
rapporti tra l’Austria-Ungheria e la Russia, fu ricomposto solo con il Congresso di
Berlino (1878). Con l’accordo concluso a Berlino il 18 giugno 1881 e noto
come Alleanza dei Tre imperatori, Guglielmo I, Francesco Giuseppe e Alessandro
II si promisero benevola neutralità nel caso che uno dei tre Stati fosse stato
attaccato da una quarta potenza, si obbligarono a non alterare lo statu quo nella
Turchia europea e negli Stretti e a permettere l’eventuale unione della Rumelia
orientale alla Bulgaria e della Bosnia-Erzegovina all’Austria. Quest’alleanza
costituì il capolavoro diplomatico di Bismarck, che riuscì a conciliare gli interessi
russi e quelli austriaci. Conclusa per la durata di tre anni, rinnovata per altri tre
anni il 27 marzo 1884, nel 1887 decadde per volontà dello zar Alessandro III, ostile
alla politica balcanica dell’Austria. Solo tra Russia e Germania fu stretto (18 giugno

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1887) un trattato di controassicurazione, della durata di tre anni, dal quale
l’Austria fu esclusa.

Triplice alleanza
Triplice Alleanza Patto difensivo segreto siglato tra Germania, Austriae Italia (20
maggio 1882), promosso dal cancelliere tedesco O. von Bismarck per isolare
la Francia. Prevedeva l’aiuto reciproco tra Italia e Germania in caso di aggressione
francese o se uno dei tre contraenti fosse stato attaccato da due potenze e
neutralità nel caso che uno dei firmatari fosse indotto a dichiarare guerra. L’Italia,
preoccupata per il proprio isolamento politico e per le possibili complicazioni della
questione romana che coinvolgeva la Francia, entrò nel sistema degli imperi
centrali nonostante le ostilità irredentistiche nei confronti dell’Austria. Il trattato,
della durata di 5 anni, era integrato dalla dichiarazione, richiesta dall’Italia, che
l’alleanza non potesse essere rivolta contro la Gran Bretagna.
Nel 1887 la T. fu rinnovata con l’aggiunta di un patto italo-austriaco che prevedeva
compensi nel caso di mutamenti nello statu quo balcanico e un patto italo-tedesco
che garantiva all’Italia la situazione nell’Africa settentrionale. Nel rinnovo del 1891
questi patti furono incorporati nel trattato, costituendone l’art. 7 e l’art. 9.
Inaspritisi i rapporti di Guglielmo II con la Gran Bretagna, al rinnovo del 1896 la
Germania rifiutò di accompagnare di nuovo il trattato con la dichiarazione del 1882
riguardo alla Gran Bretagna. Nel 1902 l’Italia ottenne che l’Austria s’impegnasse a
consentire una eventuale sua azione in Tripolitania e Cirenaica. L’alleanza fu
ancora rinnovata nel 1908, quando l’annessione della Bosnia-Erzegovina
all’Austria e la ripresa delle istanze irredentistiche italiane creavano le condizioni
per un riavvicinamento tra Italia e Russia, conclusosi con l’accordo di Racconigi
(1909). La situazione europea risultava ormai rovesciata, in quanto, pur
sopravvivendo la T., si era creato un sistema di alleanze anglo-franco-russo, cui
l’Italia si era accostata con accordi diretti con quelle potenze. Ma i risultati
dell’impresa libica, che, rafforzando la posizione italiana nel Mediterraneo,
portarono a un raffreddamento con la Francia e la Gran Bretagna, e la questione
balcanica, che impegnava l’Austria, parvero ridare forza alle antiche
preoccupazioni e così la T. fu rinnovata nel 1912, aggiungendosi nelle convenzioni
il riconoscimento della Libia italiana nello statu quo mediterraneo da mantenersi.

Guglielmo II
Nato nel castello di Potsdam, presso Berlino, il 27 gennaio 1859. È figlio di Federico
III di Hohenzollern e della principessa Vittoria, primogenita di Alberto principe
consorte e di Vittoria regina d'Inghilterra. Quando venne al mondo aveva il braccio

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sinistro paralizzato, l'articolazione dell'omero strappata, la fascia muscolare
circostante gravemente danneggiata. Energiche cure riuscirono a sanare in gran
parte quelle imperfezioni. A dieci anni fu iscritto nel 1. reggimento della Guardia
reale a piedi. Nel 1874 fu mandato a frequentare il ginnasio di Cassel, che lasciò
quando raggiunse la maggiore età (27 luglio 1877). Nominato luogotenente nella
Guardia reale a Potsdam, frequentò per due anni i corsi di diritto all'università di
Bonn, e quindi riprese il suo posto nella Guardia reale, di cui nel settembre del
1885 fu nominato colonnello. Il 27 febbraio 1881 sposò Augusta Vittoria,
primogenita di Federico di Augustenburg, eccellente madre di famiglia ma non
perfetta imperatrice. Sia pure attendendo alle cure del suo reggimento, G. negli
anni successivi non rimase del tutto estraneo agli affari politici; nel maggio del
1884 andò infatti alla corte di Russia per assistere alla proclamazione della
maggiore età del granduca Nicola; ma già prima (1882) suo padre, al fine di
metterlo al corrente dell'amministrazione civile, lo aveva inviato in missione
presso il preside della provincia di Brandeburgo. Quando però si trattò d'istradarlo
negli affari politici, il padre (28 settembre 1886) scrisse di lui al Bismarck: "La sua
cultura generale è ancor piena di lacune. Questa doppia mancanza di maturità e di
esperienza di mio figlio, accresciuta dalla sua tendenza all'esagerazione, mi fanno
considerare come pericoloso di accostarlo fin d'ora agli affari di politica estera". Il
9 novembre 1887 G. raggiunse a S. Remo il padre affetto da un cancro alla gola; e
quando, dopo un consulto che non lasciava alcun dubbio sul carattere inguaribile
del male dal quale il Kronprinz era stato colpito, G. si dispose a tornare in
Germania, scrisse freddamente: "Mio padre è perduto; il suo male è assolutamente
cancrenoso. È questione di giorni, forse di settimane. Parto, perché non v'è nulla
da sperare da un prolungamento della mia visita. Mio nonno è debolissimo, lo zar
sta per giungere e la mia presenza a Berlino è indispensabile. Spero che avrò ancor
tempo di tornare qui". Infatti, egli cominciò ad esercitare fin d'allora le funzioni di
sovrano. Dopo di essere stato promosso maggior generale, con decreto del 17
novembre 1887 firmato da Guglielmo I e dal Bismarck, ricevette una specie
d'investitura che faceva di lui un vice imperatore. G. rivide una seconda volta il
padre il 2 marzo 1888; tornò a Berlino cinque giorni dopo, in tempo per assistere
il nonno negli ultimi momenti di vita. Il 15 giugno anche Federico III morì a
Potsdam.

Appena salito al trono, G. II lancîò due proclami all'esercito e alla marina e tre
giorni dopo, nel giorno dei funerali di suo padre, ne fece uno al popolo, affermando
fin d'allora che il diritto a regnare gli veniva da Dio. Animato da buona volontà di
fare si mise all'opera. Del resto, le circostanze nelle quali egli iniziava il suo regno
erano particolarmente favorevoli. Alla potenza economica della Germania, in

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continuo aumento da parecchi anni, corrispondeva la potenza militare, la quale era
in armonia con la forte situazione che la Triplice Alleanza garantiva in Europa
all'impero tedesco. La Germania aveva piena coscienza della sua supremazia, e
riteneva che potessero sempre più consolidarla le energiche dichiarazioni fatte dal
sovrano assumendo il potere, le quali rispondevano alle aspirazioni della grande
maggioranza dei Tedeschi. Ma non si doveva dimenticare, e la grande maggioranza
dei Tedeschi non lo dimenticavano, che gli artefiei di quella potenza erano
Bismarck e Moltke; e molta fu la sorpresa quando si seppe (agosto 1888) che
quest'ultimo aveva pregato l'imperatore di esonerarlo dalle funzioni di capo dello
Stato maggiore, che quel desiderio era stato esaudito e che a succedergli era stato
nominato il generale A. v. Waldersee. D'ingegno vivace, ma vanitoso e desideroso,
fin dai suoi primi atti, di tener desta su di lui l'attenzione dell'Europa, G. II iniziò
subito la serie dei suoi numerosi viaggi.
La sua prima visita fu in Russia (18 luglio 1888); da Pietroburgo G. passò per
Stoccolma e Copenaghen, per incontrarsi con Oscar II e con Cristiano IX. Rientrato
a Kiel (31 luglio), percorse gran parte della Germania, quindi visitò a Vienna
Francesco Giuseppe. Argomento di vive discussioni in tutta Europa fu la visita che
egli fece a Roma: era stata preparata da Crispi, allora presidente del Consiglio, e
doveva considerarsi come una consacrazione della Triplice Alleanza. Se non che,
G. II aveva promesso di renderla pure al pontefice, e in proposito era stato
preparato un minuzioso protocollo. Nella capitale del regno d'Italia G. II ebbe
accoglienze festosissime. Al Vaticano andò partendo dalla legazione tedesca
presso la S. Sede. Leone XIII lo accolse nel suo studio privato, si lamentò con
l'imperatore della situazione che gli avvenimenti del 1870 avevano fatto alla Santa
Sede; e qui va notato che il giorno prima, in un pranzo al Quirinale, G. II aveva
brindato a Roma capitale d'Italia. Dopo dodici minuti di conversazione, che era
stabilito dovesse durare mezz'ora, il principe Enrico di Prussia e Herbert Bismarck,
ministro degli Affari esteri, che avevano accompagnato l'imperatore nella visita al
pontefice, forzata la consegna, aprirono bruscamente la porta dello studio, dove
entrò dapprima il principe, poi il ministro. Questo incidente ebbe un seguito
diplomatico; e fu detto che era stato preparato tra Crispi e Bismarck, per non
lasciare a Leone XIII il tempo di continuare nelle sue lamentele e nelle sue
proteste. Nel 1889 G. continuò nei suoi viaggi e nei ricevimenti ufficiali. Il re
d'Italia, accompagnato da Crispi, gli restituì la visita; e così pure l'imperatore
d'Austria: e con ciò la Triplice Alleanza riceveva agli occhi dell'Europa una nuova
consacrazione. Nell'ottobre anche lo zar andò a Berlino; ma già dall'agosto G. II
era andato in Inghilterra, e nell'ottobre egli andò ad Atene per concludere il
matrimonio di sua sorella sofia con re Costantino, quindi proseguì per
Costantinopoli, iniziando col sultano ‛Abd ul-Hamīd quelle relazioni che dovevano

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mettere la Turchia alla dipendenza della Germania. Nel suo viaggio di ritorno
sbarcò a Venezia; di là visitò a Monza Umberto I e a Innsbruck Francesco Giuseppe.
Rientrò a Potsdam il 15 novembre e così chiuse per allora il ciclo delle sue
peregrinazioni.
Nel suo primo anno di regno G. II ebbe speciali cure per il principe di Bismarck. Se
non che, il vecchio cancelliere si era persuaso fin dai primi giorni che il giovine
imperatore voleva essere il solo padrone. Essi avevano una diversa opinione nel
considerare le questioni politiche, specialmente d'intonazione sociale; il Bismarck
non s'interessava delle ultime se non in quanto potessero avere una ripercussione
politica; G. II invece considerava come un dovere di sovrano moderno quello di
portare rimedî ai mali della società. Da parte sua, Bismarck riteneva che il suo
sovrano non assumesse un atteggiamento netto nella politica estera. Il 15 marzo
1890 scoppiò il conflitto, per una meschina questione di procedura. Il 20 marzo,
dopo alcuni incidenti, nei quali gli sembrò si fosse menomata la sua autorità, il
cancelliere di ferro inviò le proprie dimissioni che furono subito accettate; gli fu
dato un successore nel conte G. L. v. Caprivi. Contemporaneamente, anche Herbert
Bismarck si dimetteva da ministro degli Affari esteri.
Libero dalla personalità dominante di Bismarck, con un cancelliere che eseguiva
ciecamente gli ordini del suo imperatore, con una grande fiducia in sé stesso, G. II
volle dare un'impronta tutta sua personale agli affari di governo; e quando si
avvide che il Caprivi, per quanto docile, non lo secondava in alcune idee, lo licenziò
(1894), scegliendo Chl. Hohenlohe-Schillingsfürst che era il tipo del vecchio
funzionario perfetto, al quale sei anni dopo sostituì B. von Bülow, che nelle
sue Memorie mostrò a nudo le deficienze del suo sovrano, poi Th. v. Bethmann-
Hollweg (14 luglio 1909), rimasto in carica nove anni, fra i quali tre di guerra; e
dal 1917, non potendo ormai più padroneggiare la marea che doveva inghiottirlo,
avvicendò in brevissimo tempo tre cancellieri: G. Michaelis, G. v. Hertling e il
principe Max del Baden. Convinto che l'impero tedesco avesse da compire una
missione politica e religiosa, analoga a quella alla quale si era accinto Carlomagno
e che egli ne dovesse essere l'esecutore, ebbe grandi cure per l'esercito e per la
marina, i maggiori sostegni per porre in atto questo suo mandato; e ai problemi
militari subordinò i problemi coloniali, culturali, religiosi, sociali, artistici.
L'inaugurazione d'un monumento, la costruzione d'una caserma, d'una scuola,
d'una chiesa, un anniversario, tutto porgeva a lui l'occasione di discorsi, nei quali
aveva cura di far emergere la sua personalità. Ma più spesso, nonostante reiterate
dichiarazioni di pacifismo tutto ciò valeva a tenere agitata l'opinione pubblica
europea. La sua politica estera fu sempre ondeggiante, specialmente nei riguardi
della Russia, contro la quale versò a piene mani la sua esasperazione, quando si
rafforzò l'alleanza russo-francese, da lui del resto provocata. Anche con

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l'Inghilterra egli, di fronte a uomini che ne reggevano le sorti, sentì l'inferiorità
sua, e se ne adirò più volte; e allora fu sua grande preoccupazione quella di
costruire una flotta che rivaleggiasse con la flotta inglese; ed è noto con quanta
pompa esteriore egli compisse lunghe crociere, come ad esempio durante il suo
viaggio in Palestina (agosto-novembre 1898), che fu il prologo di quel disegno
d'una ferrovia transasiatica del sud, specie di contraltare all'espansione coloniale
e commerciale dell'Inghilterra; della quale, già due anni innanzi, aveva commosso
l'opinione pubblica per il suo telegramma (3 gennaio 1896) a P. Kruger, quando L.
S. Jameson invase il Transvaal, facendosi sconfiggere dai Boeri. E fu pure l'indirizzo
della sua politica estera che persuase la Francia e l'Inghilterra a intendersi e a
concludere il trattato dell'8 aprile 1904, per cui la prima riconosceva la situazione
inglese in Egitto, la seconda la penetrazione pacifica francese nel Marocco. Né il
suo intervento in quest'ultimo paese fu nella sua finalità fortunato poiché
l'incidente di Agadir e la conferenza d'Algeciras non condussero a risultati
favorevoli per la Germania. È tuttavia da riconoscere che G. II assicurò al suo paese
un vasto impero coloniale e una marina mercantile potente; e in ciò ebbe un sagace
consigliere in A. Ballin. Così, il 14 novembre 1897 avvenne l'occupazione di Kiao-
chow che sotto abili mani tedesche divenne in breve una perla coloniale; così nel
1899 l'acquisto del gruppo delle Caroline e delle Marianne, cedute dalla Spagna;
così nel 1900 la conquista definitiva delle isole Samoa. Ma dove l'espansione
coloniale tedesca ebbe maggiore attività fu in Africa, per l'acquisto del Camerun
(1894 e 1911), e dei possedimenti dell'Africa orientale e del sudovest (1890),
contributo per il vasto disegno d'una Mittel-Afrika, da contrapporre all'espansione
coloniale inglese in Africa.
Quando avvenne l'assassinio di Sarajevo (29 giugno 1914) G. II, dopo un consiglio
tenuto a Potsdam il 5 luglio, al quale intervennero i rappresentanti dei due
gabinetti di Vienna e di Budapest, sembra avesse dichiarato che l'Austria poteva
contare sulla sua fedeltà, e che anzi avrebbe rimpianto non si dovesse trarre
profitto dell'occasione che si era presentata così favorevole. Del resto, la
pubblicazione assai documentata di K. Kautsky (Die deutschen Dokumente zum
Kriegsausbruch, Charlottenburg 1919), prova quale fosse lo stato d'animo
dell'imperatore tedesco all'inizio del conflitto mondiale. Scoppiata la guerra,
l'inquietudine del suo carattere, l'impulsività e la mutevolezza delle decisioni
furono, sebbene non sempre, arginate dagli elementi militari; dopo qualche tempo
egli parve quasi prigioniero nel quartiere generale, e sembrò "un borghese messo
a capo del più colossale esercito, senza le virtù, anche senza la maggior parte dei
vizî, del soldato", ossessionato d'avere a nemica quasi tutta l'Europa. Travolto dalle
vicende della guerra, dopo più giorni d'ondeggiamenti, costrettovi dal cancelliere
Max del Baden e dal consiglio dei generali, i quali gli descrivevano l'esercito in

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rotta, la rivoluzione in Germania, i soldati che facevano causa comune con i
socialisti, e quando già G. Scheidemann aveva proclamata la repubblica a Berlino,
il 9 novembre 1918 si decise ad abdicare, rifugiandosi a Dorn, in Olanda.

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Trattato di Versailles
Sottoscritto il 28 giugno 1919 dalla Germania sconfitta e dalle potenze vincitrici,
il primo – e più importante – dei trattati che misero fine alla. La Germania
dovette cedere alla Francia l’Alsazia-Lorena e, temporaneamente, la Saar
(➔ Saarland); al Belgio andarono i distretti di Eupen e di Malmédy; alla
Danimarca, lo Schleswig settentr.; alla Polonia, l’Alta Slesia, la Posnania e il
«corridoio polacco»; Danzica fu costituita in città-Stato libera sotto la protezione
della Società delle nazioni; alla Lituania fu assegnato il territorio di Memel; tutti i
fiumi tedeschi furono internazionalizzati; la riva sinistra del Reno, con le tre teste
di ponte di Colonia, Coblenza, Magonza, sarebbe stata soggetta a occupazione
per 15 anni; inoltre, la Germania perse tutti i possedimenti coloniali, che
andarono a Francia, Gran Bretagna e Giappone. La Germania si impegnò al
pagamento delle riparazioni, di cui non fu fissato l’ammontare; il suo esercito fu
ridotto a 100.000 uomini, con una flotta di 108.000 t, senza armi pesanti né
aviazione. La prima parte del Trattato conteneva lo statuto della Società delle
nazioni (artt. 1-26). La polemica contro il Trattato di V. fu portata avanti da
gruppi della destra estremista, soprattutto in Germania, e fu poi ripresa dalla
propaganda delle potenze «revisionistiche», che intendevano modificarne più o
meno sensibilmente le clausole e gli effetti, come la Germania, l’Ungheria e
l’Italia.

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Lezione 7
Statuto albertino
Denominazione d’uso corrente dello Statuto del regno di Sardegna, emanato da
Carlo Alberto di Savoia il 4 marzo 1848 quale «legge fondamentale, perpetua ed
irrevocabile della Monarchia». Come tale, lo S.a. restò in vigore (almeno
formalmente) lungo l’intera esistenza del regno d’Italia. La promulgazione dello
S.a. si colloca nell’agitato contesto politico della «primavera dei popoli», che
precocemente si manifestò nella Penisola, rivelando la profonda crisi di
legittimità delle monarchie assolute, ovunque incalzate dalle rivendicazioni di
forme di governo costituzionale provenienti dalla società civile. A cedere per
primo fu Ferdinando II di Borbone che, nel tentativo di contenere la spinta
insurrezionale partita da Palermo il 12 gennaio, si affrettò a pubblicare la
Costituzione del regno delle Due Sicilie. Ne seguirono l’esempio, sotto la
pressione dell’opinione pubblica, Leopoldo II, Pio IX e Carlo Alberto, che all’inizio
di febbraio – su suggerimento dei suoi ministri – proclamò la decisione di dotare
il regno di un «compiuto sistema di governo rappresentativo» e convocò un
Consiglio di conferenza a composizione straordinaria per la redazione dello
Statuto. Il testo che ne scaturì ricalcava nel suo disegno normativo la Carta
costituzionale francese concessa da Luigi XVIII nel 1814 e modificata in seguito
alla rivoluzione del luglio 1830. Le variazioni di struttura rispetto al modello
erano tese ad accentuare sul piano simbolico il primato del monarca
nell’organizzazione dello Stato. Mentre la Charte anteponeva la rubrica «Droit
public des Français» agli articoli concernenti le «Formes du Gouvernement du
Roi», lo S.a. collocava l’elenco «Dei diritti e dei doveri dei cittadini» dopo una
lunga serie di disposizioni riguardanti i poteri del re e il carattere ereditario della
monarchia. A una diversa gerarchia di valori rimandava anche l’art. 1: mentre
quello del testo francese sanciva il principio dell’uguaglianza dei cittadini dinanzi
alla legge, quello dello S.a. dichiarava «la religione Cattolica Apostolica e
Romana» quale «sola religione dello Stato». La forma di governo delineata dai
legislatori piemontesi era quella della monarchia costituzionale, imperniata sulle
prerogative potestative del sovrano e sulla condivisione del potere legislativo tra
organi distinti: il sovrano medesimo, il Senato e la Camera dei deputati. Solo
quest’ultima era «elettiva» e i suoi membri erano «scelti dai Collegii Elettorali
conformemente alla legge», cui lo S.a. rimetteva la fissazione dei requisiti
soggettivi per l’accesso ai diritti politici. I senatori, invece, erano nominati dal re,
che poteva elevare a tale carica vitalizia un numero «non limitato» di persone
appartenenti a una delle 21 categorie elencate dal testo statutario (vescovi,
ambasciatori, ministri, deputati di lungo corso, alti magistrati, grandi

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contribuenti ecc.). Oltre a partecipare all’esercizio del potere legislativo insieme
alle due camere, il monarca – «Capo Supremo dello Stato» – deteneva in via
esclusiva il potere esecutivo, comprensivo del comando delle forze armate e della
direzione della politica estera. A lui spettava altresì la nomina di tutte le cariche
dello Stato, a partire dai «suoi Ministri», revocabili a sua discrezione, sino ai
giudici («inamovibili dopo tre anni di esercizio»), che «in suo Nome»
amministravano la giustizia. Tra le costituzioni promulgate nel 1848 negli Stati
della Penisola, solo lo S.a. sopravvisse all’ondata reazionaria che ripristinò
l’ordine assolutistico dal lombardo-veneto al napoletano. Così, durante gli anni
Cinquanta, il Piemonte sabaudo divenne il punto di riferimento di vasti settori del
movimento patriottico italiano. La dinamica della rappresentanza parlamentare,
producendo la formazione di schieramenti assembleari ideologicamente
connotati e conducendo all’affermazione di personalità eminenti vocate
alla leadership, tese ad allontanare la vita politica e istituzionale subalpina dalle
direttrici organizzative prescritte dallo S. albertino. La centralità del monarca fu
appannata da una prassi costituzionale improntata alla logica del
parlamentarismo, che spostò l’esercizio del potere esecutivo dal capo dello Stato
a un governo collegiale, presieduto da un premier dotato di credito presso la
maggioranza dei deputati: dipendente, quindi, non dall’arbitrio del sovrano bensì
dalla fiducia della Camera. Già risolutamente avviato da Cavour, questo processo
di parlamentarizzazione della forma di governo si rafforzò nei decenni successivi
all’unità d’Italia, senza però mai giungere a un compiuto consolidamento
formale: il ritorno alla lettera dello S.a. e ai «governi del re» rimase una
prospettiva politica sempre esperibile ed episodicamente invocata, sebbene
l’ampliamento del suffragio e la nascita dei partiti di massa spingessero in
direzione opposta. Negli anni dell’edificazione del regime fascista,
l’organizzazione dei poteri dello Stato e la fisionomia degli organi costituzionali
stabilite dallo S.a. subirono una trasformazione radicale di segno autoritario e
antiparlamentare. Per via legislativa furono incrementate le attribuzioni e le
prerogative del «capo del governo», fu smantellata la garanzia istituzionale della
divisione dei poteri, fu sostanzialmente abolita la rappresentanza politica. Anche
le libertà civili riconosciute dallo S.a. furono progressivamente travolte dalla
legislazione fascista, che culminò nella cancellazione dell’uguaglianza giuridica
con le discriminazioni razziste a danno degli ebrei. Questo svuotamento del
significato normativo dello S.a. palesa l’intrinseca fragilità di una costituzione
sprovvista di garanzie: la mancata statuizione di un procedimento speciale di
revisione costituzionale e di un organo di controllo giurisdizionale della
costituzionalità delle leggi consentì al potere politico di legiferare in piena e

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assoluta discrezionalità. Annichilito dal fascismo, lo S.a. seguì, tra il 1944 e il
1946, il destino della monarchia.

Popolo
è un insieme di individui che condividono origini, lingua, tradizioni religiose e
culturali e leggi, e formano un gruppo etnico e nazionale con una propria identità
e coscienza di sé, indipendentemente dall’unità politica (il p. italiano, francese,
tedesco; i popoli arabi, slavi; i popoli dell’Africa; la lotta di un p. per conquistare
l’indipendenza; popoli liberi, schiavi, oppressi). 2. Con significato meno ampio, si
intende per popolo l’insieme degli abitanti di una città o di un territorio (il p. di
Venezia, di Napoli; eletto a voce di p.; cacciato, impiccato a furor di p.), 3. oppure
l’insieme dei cittadini che in uno stato costituiscono la parte più numerosa della
nazione, in contrapposizione alle classi dominanti (il senato e il p. romano;
governare, guidare il p.; tutelare i diritti del p.; amministrare la giustizia in nome
del p.; i rappresentanti del p.). 4. Il termine indica poi la parte di una nazione che
vive in condizioni economiche, sociali e culturali più modeste (gente del p.; una
ragazza del p.; le rivendicazioni, le lotte del p.). 5. Più genericamente, si può
chiamare popolo qualsiasi insieme di uomini, considerati collettivamente sulla
base di caratteristiche comuni (i popoli antichi; i popoli della Terra; un p.
primitivo, barbaro, civilizzato), 6. oppure un insieme di persone accomunate dagli
stessi interessi e dalle stesse abitudini (il p. delle discoteche, dei vacanzieri) ed
eleggono i deputati con la legge maggioritaria: Il sistema maggioritario è un
qualunque sistema elettorale che prediliga la formazione di un sistema bipolare
(spesso ma non sempre bipartitico) e di un parlamento composto da due
schieramenti distinti e contrapposti. Il sistema limita fortemente o esclude
completamente la rappresentanza di schieramenti minori più avanti si sostituisce
la legge elettorale proporzionale: questo sistema prevede che ogni partito
elenchi i propri candidati sotto forma di lista: il numero di eletti della lista
dipenderà dal numero di voti da essa ricevuti è un sistema costituzionale liberale.
La Camera dei deputati
è divisa in sinistra storica e destra storica rispetto al governo cioè il potere
esecutivo. I deputati si dividono con coloro che sostengono il governo e coloro
che non sostengono il governo.
Il senato della repubblica
Qua il popolo non c’è. Il re nomina i senatori alcune persone che lavorano per lo
stato oggi il senato è eletto da tutti noi durano per cinque anni all’epoca durava a
vita. Anche nel senato c’è il governo che è lo stesso della Camera dei deputati e si
divide in sinistra storica e destra storica. Rispetto ad oggi al presidente della
repubblica può eleggere cinque senatori a vita.

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Il governo
Mette in atto il potere esecutivo prima era del re che nomina il governo ma in
particolare nomina una persona che deve formare il governo il presidente del
consiglio titolare di un potere di direzione dell'intera compagine governativa, il
che lo abilita a svolgere ogni iniziativa volta a mantenere omogeneità nell'azione
comune della coalizione, finalizzandola alla realizzazione del programma esposto
in Parlamento al momento del voto di fiducia. Tali funzioni, però, non si spingono
sino a determinare unilateralmente la politica generale del Governo, compito
questo assolto collegialmente dal Consiglio dei ministri attraverso le sue
deliberazioni.
Il Governo è composto dal Presidente del Consiglio dei ministri e dai ministri,
che insieme costituiscono il Consiglio dei ministri. Spetta al Presidente della
Repubblica nominare il Presidente del Consiglio e, su proposta di questo, i
ministri (art. 92 Cost.).

Il Presidente del Consiglio può proporre al Consiglio dei ministri l'attribuzione ad


uno o più ministri delle funzioni di vicepresidente del Consiglio dei ministri che, in
caso di assenza o impedimento temporaneo del Presidente del Consiglio, lo
sostituisce. Qualora siano nominati più Vicepresidenti, la supplenza spetta al
Vicepresidente più anziano per età. Quando non sia stato nominato il
Vicepresidente del Consiglio dei ministri, la supplenza in assenza di diversa
disposizione da parte del Presidente del Consiglio dei ministri, spetta al ministro
più anziano secondo l'età. (L. 400/1988, art. 8).

I ministri con portafoglio costituiscono il vertice del dicastero che sono chiamati
a presiedere. Il numero complessivo dei ministeri (decreto legislativo 300/1999,
art. 2) è fissato, dopo il decreto-legge n. 22 del 2021 del governo Draghi, in 15
che sono così denominati, secondo la disciplina previste il D.L. 173/2022:
1) Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale;
2) Ministero dell'interno;
3) Ministero della giustizia;
4) Ministero della difesa prima si chiamava il ministro della guerra
5) Ministero dell'economia e delle finanze;
6) Ministero delle imprese e del made in Italy (già Ministero dello sviluppo
economico);
7) Ministero dell'agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste (già
Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali);
8) Ministero dell'ambiente e della sicurezza energetica (già Ministero della
transizione ecologica);

84
9) Ministero delle infrastrutture e dei trasporti (già Ministero delle
infrastrutture e della mobilità sostenibili);
10) Ministero del lavoro e delle politiche sociali;
11) Ministero dell'istruzione e merito (già Ministero dell'istruzione);
12) Ministero dell'università e della ricerca;
13) Ministero della cultura;
14) Ministero della salute;
15) Ministero del turismo.

Il Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio, può


conferire al Presidente del Consiglio stesso o ad un ministro l'incarico di
reggere ad interim un dicastero. In tal caso, fermo restando il numero dei
ministeri, il numero dei ministri verrebbe ad essere inferiore a quello dei
ministeri (L. 400/1088, art. 9, comma 4).
All’interno del governo c’è la maggioranza e la minoranza
Maggioranza
Un governo di maggioranza, in un sistema parlamentare, è un governo formato
da uno o più partiti che, insieme, riescono a raggiungere una maggioranza
parlamentare assoluta senza sostegni di diverso tipo.
Minoranza
Un governo di minoranza, in un sistema parlamentare, è un gabinetto di governo
che non gode del sostegno della maggioranza del parlamento.
Il parlamento
Corrode un po’ di potere con un voto di fiducia: Nei sistemi parlamentari come
quello italiano, i cittadini non scelgono direttamente il governo. A differenza di
quello che a volte viene fatto percepire durante le campagne elettorali, infatti, ad
essere eletti direttamente dal popolo sono solamente i deputati e i senatori. Il
presidente del consiglio, i ministri e i sottosegretari sono invece nominati dal
presidente della repubblica.
Il ruolo del presidente della repubblica nella nomina del governo.
Dopo la nomina però il governo, per poter entrare effettivamente in carica e
svolgere quindi le proprie funzioni, deve prima ottenere l’approvazione della
maggioranza del parlamento. Questo si esprime attraverso il cosiddetto voto di
fiducia, regolato dall’articolo 94 della costituzione.
Nel tempo l’utilizzo di questo strumento si è sviluppato, tanto che oggi sono
distinguibili ben tre diversi tipi:
• voto di fiducia su mozioni o risoluzioni, tra cui quelle utilizzate per sancire il
sostegno parlamentare alla nascita di ogni nuovo esecutivo;
• voto di sfiducia nei confronti del governo o di singoli ministri;

85
• questione di fiducia su specifici progetti di legge la cui approvazione è
considerata decisiva per l’attuazione del programma di governo.
Come si fanno le leggi.
Proprio quest’ultima tipologia è divenuta nel tempo la più ricorrente e fonte di un
ampio dibattito, sia tra gli esponenti politici che accademici. Ciò perché
l’apposizione della questione di fiducia su un disegno di legge di fatto blinda il
provvedimento, facendo decadere anche tutti gli emendamenti presentati.
Prassi
amministrativa (d. amm.)
Consiste in un comportamento costantemente tenuto anche in assenza della
convinzione della sua obbligatorietà. Essa, pur non costituendo fonte di diritto e
non apportando alcuna innovazione nell'ordinamento giuridico, può essere
utilizzata come referente per l'interpretazione dell'atto amministrativo qualora si
verta in materia disciplinata in maniera poco chiara dalle norme giuridiche.
(—) costituzionale (d. cost.)
È costituita da una serie di comportamenti con cui gli organi costituzionali
svolgono concretamente le funzioni loro affidate.
Da essa derivano solo determinate norme di comportamento seguite dagli organi
costituzionali dello Stato. Non si tratta di norme giuridiche vere e proprie ma
di norme di opportunità, spontaneamente osservate dagli organi costituzionali
nello svolgimento delle loro funzioni.
Destra storica
Denominazione assunta nel Parlamento del regno d’Italia sin dal 1861 dal
raggruppamento politico-parlamentare nato nel 1852 nel Parlamento subalpino
dalla grande alleanza centrista di C. Cavour e U. Rattazzi, passata alla storia col
nome di «connubio». Si era avuta allora l’emarginazione delle ali estreme dello
schieramento politico attraverso la confluenza della parte più liberale della
destra moderata e dell’ala moderata della sinistra democratica in una nuova
maggioranza parlamentare che aveva permesso a Cavour di assumere la guida
del governo, sulla base di un programma che prevedeva una più energica politica
interna di riforme economiche e civili e un più deciso impegno, anche militare,
del Piemonte nella ricerca dell’unità nazionale. Al nucleo originario si erano
aggregate personalità del liberalismo e della democrazia di varie parti d’Italia
che si riconoscevano nel programma politico di Cavour e di casa Savoia. Ai
piemontesi Sella, Lanza, Rattazzi, Ponza di San Martino erano venuti ad
affiancarsi i lombardi Casati, Visconti Venosta, Jacini, gli emiliani Minghetti e
Farini, i toscani Ricasoli, Peruzzi, Cambray Digny, i meridionali Bonghi, Spaventa,
Scialoja, Pisanelli. Erano uomini di formazione culturale eterogenea, che andava
dal liberalismo individualista inglese al neo-heghelismo, dal laicismo più rigido al

86
riformismo religioso, che formavano un gruppo molto omogeneo sul piano della
provenienza sociale (alta borghesia terriera, aristocrazia imprenditrice
imborghesita, alta finanza, industriali, diplomatici, liberi professionisti e
intellettuali) e in ordine alla visione del modello di Stato da costruire e del tipo di
società civile da promuovere. Uno Stato costituzionale e liberale guidato da
un’élite moralmente irreprensibile, votata alla difesa dell’unità,
dell’indipendenza, dell’ordine e delle libertà conquistate col Risorgimento,
proteso altresì alla rapida modernizzazione delle strutture economiche e civili del
Paese, senza cedimenti a spinte settoriali o localistiche interne e senza chiusure
di tipo protezionistico nei rapporti commerciali con l’estero. Di fronte alle sfide
lanciate dall’industrializzazione e dal processo complessivo di modernizzazione fu
quindi decisa una politica commerciale ampiamente liberista, tesa a inserire
organicamente l’economia italiana nell’area di libero scambio franco-inglese,
quale fornitrice di prodotti agricoli, materie prime e semilavorati. Di fronte ai
pericoli di disgregazione dell’appena raggiunta unità e di sovversione dell’ordine
sociale esistente, furono abbandonate le originarie tendenze di tanta parte del
moderatismo toscano, piemontese, emiliano alla costruzione di un ordinamento
amministrativo decentrato di tipo inglese e fu costruito invece un ordinamento
burocratico e amministrativo centralizzato di tipo francese. Di fronte ai pericoli di
sovversione politica e sociale di matrice democratico-repubblicana e cattolica, e
di possibili ritorni borbonici, nel Mezzogiorno fu attuata una rigida politica di
controllo dell’ordine pubblico in tutta la penisola e una dura repressione del
brigantaggio meridionale. Dopo aver impedito a Garibaldi di occupare Roma con
la forza, non furono perse le occasioni del 1866 e del 1870 per acquisire il
Veneto, Roma e il Lazio e regolare unilateralmente nel 1871 i rapporti con la
Chiesa mediante la legge delle guarentigie basata sul principio della netta
separazione tra Stato e Chiesa. Il costo della guerra del 1866 e del ventennale
sforzo di ammodernamento delle strutture civili fu fronteggiato attraverso il
ricorso all’indebitamento pubblico, alla vendita di una mole ingente di beni
dell’asse ecclesiastico, all’introduzione del corso forzoso e soprattutto a un
aumento del carico fiscale che permise nel 1876 di raggiungere, per la prima
volta dal 1861, il pareggio del bilancio; cosa che ribadì definitivamente di fronte
all’opinione pubblica interna e internazionale la tenuta dello Stato unitario. Fu
tuttavia proprio la politica fiscale, gravando soprattutto sui ceti più deboli e
comunque su un’economia prevalentemente agricola e arretrata, ad alienare alla
destra una parte decisiva del consenso che l’aveva sempre sostenuta e spianare
la strada all’avvento al potere della sinistra, che, significativamente, avvenne
nello stesso 1876.

87
Sinistra storica
Raggruppamento parlamentare sorto dalla confluenza della sinistra del
Parlamento subalpino con esponenti della tradizione mazziniana e garibaldina,
riorganizzatisi dopo la sconfitta del 1848-49 nel Partito d’azione, e con la
cosiddetta «sinistra giovane» soprattutto meridionale formatasi dopo l’unità. Gli
esponenti più in vista furono A. Depretis, B. Cairoli, F. Crispi, G. Nicotera, G.
Zanardelli. Come la destra storica, la sinistra fu un «partito di notabilato» privo
di organizzazione permanente nonché di ideologia e programma rigorosamente
definiti. Pur tra divergenze e contrasti di non lieve entità, tutti avevano
rinunciato alla pregiudiziale repubblicana e trovavano in linea di massima
convergenza di opinioni e di azione politica nell’opposizione all’operato della
destra storica in nome di un immediato recupero delle terre ancora irredente, di
un più rigido laicismo in materia di rapporti con la Chiesa, di un’idea di Stato e di
società largamente ispirata a principi democratici e antiautoritari che portavano
a rivendicare una politica più avanzata in materia di libertà civili e a porre limiti
precisi all’impegno diretto dello Stato nell’economia e nei servizi, specificamente
nella gestione della rete ferroviaria. La base sociale di riferimento della sinistra
era formata dalla piccola e media borghesia agraria, dalle professioni, dagli affari
e dall’impresa del Nord e del Sud, dove trovava consenso anche nel ceto della
grande proprietà latifondistica. La sinistra fu interprete delle insofferenze
antifiscali che venivano crescendo nel Paese, specie nelle masse popolari, e
meglio della destra seppe rappresentare gli interessi e le istanze settoriali
provenienti da una società in via di trasformazione (cosa che poi nella polemica
politica e nella valutazione di parte della storiografia sul trasformismo fu tacciata
di propensione all’intrigo, scarsa saldezza d’opinioni, opportunismo). Dopo la
cosiddetta «rivoluzione parlamentare» causata dal passaggio all’opposizione nel
marzo del 1876 del gruppo dei conservatori toscani capeggiati da Peruzzi,
contrari alla proposta della destra di esercizio statale della rete ferroviaria, la
conseguente caduta del governo Minghetti e il conferimento dell’incarico ad
Agostino Depretis, la sinistra vinse le elezioni politiche dell’autunno con il
programma che era stato esposto a Stradella nel 1875 dallo stesso Depretis. Il
programma era imperniato sulla riforma dell’istruzione, l’allargamento del
suffragio e delle libertà democratiche in genere, l’alleggerimento della pressione
fiscale, il decentramento amministrativo. Un’alternanza iniziale di governi
Depretis-Cairoli vide il varo della riforma dell’istruzione elementare resa
obbligatoria e gratuita (1877), blande misure protezionistiche a sostegno
dell’industria (1878), contrastati provvedimenti in materia di libertà civili e
controllo dell’ordine pubblico, abolizione della tassa sul macinato e altri
alleggerimenti fiscali, riforma elettorale (1882) che elevò la quota degli aventi

88
diritto al voto dal 2% al 6% della popolazione. Dal 1882 Depretis governò su una
base di sostegno parlamentare molto ampia, frutto della scomparsa di
schieramenti politici ben definiti in seguito al passaggio di diversi esponenti di
spicco della destra nelle file della maggioranza. Quella stagione parlamentare e
di governo, che si concluse con morte dello stesso Depretis (1887), fu definita
«del » e della «dittatura parlamentare di Depretis», e fu vista a lungo come un
periodo di pausa dello slancio riformatore, di rinuncia, con la Triplice alleanza,
alle speranze sulle terre irredente del Nord-Est, di rinnovata precarietà del
bilancio dello Stato (il deficit scomparso nel 1876 ricomparve nel 1884-85), di
avvio (acquisto di Assab, occupazione di Massaua) di una politica, quella
coloniale, rivelatasi poi sotto molti aspetti in perdita per lo Stato italiano, oltre
che di incubazione di rapporti tra economia e politica dominati in linea generale
più dagli interessi privati che da quelli pubblici. In realtà questo è vero se ci si
rifà strettamente all’attuazione del programma di Stradella, per il quale
effettivamente bisognò attendere l’arrivo al governo di Crispi, peraltro un uomo
appartenente alla sinistra, per vedere ripresa la strada delle riforme istituzionali
e amministrative, che vanno quindi tutte iscritte all’interno dell’iniziale
programma della sinistra. Se invece si guarda ai processi di cambiamento della
vita pubblica, sociale ed economica del Paese, allora si deve riscontrare che gli
anni di Depretis, per il rinnovamento consistente della composizione della
rappresentanza parlamentare e di quello dell’organico dell’amministrazione
centrale e periferica dello Stato, per l’attenzione portata al mondo dell’economia
e in particolare a quello dell’industria con una politica di costruzione di
infrastrutture e opere pubbliche che fu persino superiore a quella della destra,
per una politica industriale che vide il primo vero avvio dell’industrializzazione
italiana, messa al riparo con la tariffa del 1887 dalla concorrenza straniera,
furono tra i più dinamici della storia d’Italia. Allora quel giudizio deve essere
radicalmente rivisto, se non capovolto, e la stessa vita parlamentare può apparire
in una luce meno sinistra di quella data dagli astratti ed estasiati ammiratori del
bipartitismo perfetto all’inglese, ossia quella di un sistema politico fortemente
condizionato dalla presenza di forze antisistema extraparlamentari ed
extraistituzionali di destra e di sinistra, in una società ancora arretrata che, tra
grandissime penalizzazioni di partenza una forte conflittualità internazionale,
cercava faticosamente la via della modernizzazione e cominciava a riuscirci.

15/10
Lezione 8

89
Nel 1919 viene utilizzato il sistema proporzionale Sistema elettorale per il
quale l’assegnazione dei seggi avviene in modo da assicurare alle diverse
liste un numero di posti proporzionale ai voti avuti. Ciò di solito viene
realizzato mediante la divisione del numero dei voti validamente espressi
per il numero dei seggi da ricoprire, ottenendo così il quoziente elettorale,
che costituisce il titolo per conseguire un seggio. I sistemi p. possono
dividersi in due gruppi, a seconda che lascino all’elettore la libera scelta
dei nomi da votare oppure prevedano per la loro applicazione una lista di
candidati prestabilita. In Italia fino al 1993, quando i sistemi
elettorali furono modificati in senso maggioritario, il sistema adottato per
le elezioni alla Camera era p., mentre per l’elezione del Senato era
applicato un particolare sistema p. per l’attribuzione di seggi non ricoperti
con il primo scrutinio a base uninominale. Nel 2005 una nuova legge
elettorale ha segnato il ritorno al sistema p., ma con una soglia di
sbarramento per partiti e coalizioni e l’assegnazione di un premio di
maggioranza. Dal 2017 è in vigore la legge elettorale cosiddetta
Rosatellum bis che opta per un sistema elettorale misto, il 36 per cento dei
seggi è attribuito con formula maggioritaria e il restante 64 per cento è
attribuito con metodo proporzionale. Il sistema p. è adottato per le
elezioni al Parlamento Europeo preferito dai partiti di massa, prima di ciò
abbiamo solo due schieramenti:
• partito ministeriale si intende definire una corrente di pensiero
diffusasi a partire dai primi anni del XX secolo all'interno del Partito
Socialista Italiano e del movimento operaio italiano in generale[2]. Si
trattava di un concetto familiare a pensatori riformisti come Filippo
Turati, il quale lanciò dalle colonne di Critica Sociale e poi
de L'Avanti! l'idea che il movimento socialista dovesse trovare una
strada per dialogare con i liberali che si stavano coagulando attorno
a Giovanni Giolitti[3]. Quest'ultimo nei mesi precedenti si era
differenziato da Giuseppe Saracco, capo del governo fino al febbraio
del 1901, che dopo lo sciopero di Genova aveva provveduto a far
sciogliere la locale Camera del Lavoro. Non è quindi possibile
separare il concetto di ministerialismo e il suo sviluppo da quanto
parallelamente emergeva in campo liberale. La finalità di Giolitti
era tattica e si può discutere se questo aspetto fosse stato
realmente compreso dai socialisti riformisti. Giolitti sosteneva infatti
che soprattutto nell'Italia settentrionale, dopo le grandi

90
mobilitazioni che avevano contraddistinto l'ultimo decennio, fosse
impossibile governare in opposizione al movimento socialista e
sindacale[4].
Turati sostenne che era necessario creare forme d'intesa con i
settori più progressisti della borghesia italiana, per creare alleanze
tattiche in una fase in cui la repressione poteva spazzare via quello
che si era creato in tema di forze socialiste e Camere del lavoro[5]. In
occasione della decisione di astenersi sulla formazione del governo
Zanardelli, Turati fu duramente attaccato da Arturo Labriola, il quale
sulle colonne de La Propaganda lo accusava di sottovalutare la forza
del movimento. Nonostante le polemiche interne, la linea del
ministerialismo in buona sostanza prevalse, anche se in una formula
più sfumata rispetto a quella inizialmente promossa da Turati[6]. Il
PSI deliberò di valutare «caso per caso», ossia che di volta in volta il
gruppo parlamentare decidesse se votare o meno a sostegno dei
provvedimenti governativi, a seconda di come si configuravano in
relazione agli interesse della classe lavoratrice. Anche se Turati
polemizzò con questa formulazione, tempo dopo dovette
riconoscere[7] che il PSI aveva fattivamente deciso di adottare una
linea che non era più quella del «caso per caso», ma era bensì
quella di «difendere dagli assalti reazionari un governo che ...
rispetta lo svolgimento normale, ossia fecondo e civile, della lotta di
classe»[8]. Se ne ebbe prova in occasione del voto sul bilancio
del Ministero degli esteri, a cui il PSI votò a favore, chiudendo gli
occhi di fronte a una linea politica di fattivo appoggio alla Triplice
Alleanza e alle spese militari in aumento[9].

• Antiministeriale l'ideologia che rifiuta totalmente il sistema


economico-politico e/o sociale vigente e si propone di rovesciare le
fondamenta stesse dello status quo. Con lo stesso termine si
indicano anche le persone o i movimenti politici che si rivedono in
tale ideologia. Il potere costituito vi si approccia lungo un range che
va dall'inclusività alla tolleranza, fino all'azione penale, a secondo
della metodologia che il partito antisistema presceglie per
propugnare le sue idee.

Nel 1874 accade il trasformismo: i deputati cambiano -> dalla dx


alla sx date alcune riforme che la dx vuole attuare di tipo liberale ->
consolidare i poteri dello stato, la sx vuole favorire il decentramento

91
amministrativo. L’Italia è formalmente unita ma fattualmente
disunita, come si può ricucirlo? Un mezzo può essere una rete
ferroviaria, al tempo esistevano varie tratte locali, ma le città più
importanti dovevano essere connesse. Le 7 linee locali
appartengono a privati, tra cui Bettino Ricasoli
Membro dell'Accademia dei georgofili (1834), nutrì fin da giovane
interessi scientifici e dal 1838 si dedicò al miglioramento delle
tecniche agricole nei suoi possedimenti di Brolio.
Legato agli ambienti del liberalismo toscano, nei quali si agitavano
profonde tematiche morali e religiose, Ricasoli fu amico
di Raffaello Lambruschini e a partire dalla prima metà degli anni
Trenta si avvicinò al gruppo dell'«Antologia»
di Gino Capponi e Giovan Pietro Vieusseux.
L'aspirazione alla riforma religiosa, il rinnovamento morale ed
economico delle campagne, l'impegno educativo sono elementi
costitutivi del milieu liberale toscano e si ritroveranno nelle scelte
politiche di Ricasoli degli anni Sessanta e Settanta.
Nel febbraio 1846 intanto, Ricasoli fu tra i firmatari di un memoriale
indirizzato al granduca Leopoldo II per esortarlo a muoversi sulla
strada delle riforme e della monarchia costituzionale; nel 1847
fondò a Firenze, insieme
a Vincenzo Salvagnoli e Raffaello Lambruschini, il giornale «La
Patria».
Avversario di Francesco Domenico Guerrazzi, dopo i moti del 1848-
1849 fu favorevole al ritorno del granduca ma, deluso dal ricorso di
quest'ultimo all'esercito austriaco, si ritirò dalla vita politica,
dedicandosi all'amministrazione delle sue terre. Nel 1859, dopo la
fuga del granduca, Ricasoli accettò la carica di ministro dell'Interno
nel governo creato dal commissario straordinario Carlo
Boncompagni e fondò il quotidiano «La Nazione».
Dopo l'Villafranca">armistizio di Villafranca e il ritiro di
Boncompagni, assunse il potere e portò a compimento l'annessione
della Toscana al regno di Vittorio Emanuele II. Capo della
maggioranza parlamentare del nuovo Regno d'Italia, alla morte
di Cavour divenne presidente del Consiglio (1861), ricoprendo anche
la carica di ministro degli Esteri e, dopo le dimissioni di Minghetti,
quella di ministro degli Interni.
Alla guida del governo, Ricasoli si impegnò a combattere
il brigantaggio e cercò di risolvere pacificamente la questione

92
romana, a suo giudizio strettamente legata a un rinnovamento
spirituale della Chiesa.
A questo scopo riprese le trattative con la Francia, proponendo al
governo di Parigi di farsi mediatore di una conciliazione tra l'Italia e
il papato. Inviso al re, favorevole ad affrontare prima la questione
del Veneto, e attaccato dai conservatori più estremi per la sua
tolleranza verso le associazioni democratiche, nel marzo 1862
Ricasoli si dimise.
Ritornato al potere nel giugno 1866, a guerra già dichiarata
all'Austria, lottò senza successo per avere il Trentino e per eliminare
l'umiliante clausola della cessione del Veneto all'Italia tramite la
Francia. Nel 1867 riprese la sua politica di pacificazione con il
papato e promosse un progetto di legge sulla libertà della Chiesa e
la liquidazione dell'asse ecclesiastico, basato sul principio della
separazione tra Chiesa e Stato.
Criticato sia dai laici sia dai clericali, si dimise nell'aprile del 1867.
Rimasto fedele al suo programma, nel 1876 appoggiò in Parlamento
l'approvazione della legge delle guarentigie.

Umberto Rattazzi
Urbano Rattazzi (Alessandria, 30 giugno 1808 – Frosinone, 5 giugno
1873) è stato un politico italiano. Esponente di spicco e
successivamente capo dell'ala democratica (Sinistra storica) del
Parlamento Subalpino e, successivamente, italiano, ricoprì numerosi
incarichi ministeriali tra il 1848 e il 1849 nel Governo Casati, nel
Governo Gioberti e nel Governo Chiodo. Passato all'opposizione, nel
1852 strinse un patto politico (Connubio) con l'ala moderata della
Destra storica, guidata da Cavour, che permise a questi di divenire
primo ministro, e a Rattazzi di assumere lo scranno prima di
Presidente della Camera dei deputati, e poi la carica di ministro
della Giustizia e dell'Interno. Dopo la rottura con Cavour, Rattazzi si
accostò sempre più a Vittorio Emanuele II, divenendo un suo uomo
di fiducia, e contrapponendosi in tal modo alla politica del conte.
Scomparso Cavour e salito al potere Bettino Ricasoli, nel 1862
Rattazzi riuscì a sostituirlo e a divenire Presidente del Consiglio dei
ministri del Regno d'Italia, ma la sua esperienza governativa si
concluse brevemente dopo la Giornata d'Aspromonte, la quale, mal
gestita, portò alle sue dimissioni. Ritornato al governo nel 1867,

93
sempre succedendo a Ricasoli, Rattazzi cadde nuovamente dopo
una breve permanenza al governo del Paese sempre per non aver
saputo gestire la Questione romana, i cui esiti disastrosi porteranno
alla Battaglia di Mentana. Questa disfatta segnerà le sue ennesime
dimissioni e il ritiro definitivo dalla scena politica.

La dx vuole creare le ferrovie dello stato -> nazionalizzare tutte le


linee ferroviarie, il titolare deve essere lo stato che deve tenere
attive anche linee meno produttive con lo scopo di tenere unito il
paese. I privati si oppongono alla cessione delle linee allo stato. Nel
1874 in parlamento si vota a riguardo, gli uomini della dx proprietari
si riuniscono in un sottogruppo della consorteria toscana, faranno
bocciare la proposta del governo -> un gruppo della maggioranza
vota con l’opposizione e il governo non ha più la fiducia della
maggioranza, Lanza viene dimesso. Attraverso la consultazione
(colloqui con i maggiori esponenti del parlamento a cui il re chiede
indicazioni sulla possibile maggioranza da mettere in atto) Vittorio
Emanuele II fa formare il governo da Depretis leader della sx -> nel
1876 la sx va al potere e ci rimane vino al 1896.
Riforme sx -> riforma del sistema scolastico con istruzione obbligatoria fino alla
seconda elementare, non possono lavorare prima dei 9 anni di età -> si abbassa il
tasso di analfabetismo. Le scuole sono affidate ai comuni, la scuola non è statale,
a vantaggio della sx favorevole al decentramento amministrativo (fino al 1870 gli
enti locali sono solo comune e provincia). Col decentramento i cittadini
partecipano all’elezione del consiglio comunale e provinciale.
Amplia il suffragio abbassando la soglia delle tasse richieste per il voto -> vota
anche la piccola borghesia.
Avvia la politica coloniale che fino a quel momento riguardava solo i grandi stati
imperialisti come francia e gb. Bisogna acquisire colonie specialmente in Africa -
> colonia eritrea e somalia, regioni africane povere libere dall'espansionismo
francese e britannico.
La sx è ancora una formazione politica alto-liberale.
La società si modernizza -> diffusione del 4 potere ovvero del giornalismo ->
creano l’opinione pubblica, stimolano la discussione e l’elaborazione di soluzioni.
IL giornale più importante è il Secolo di Milano e si diffonde poi nelle maggiori
città italiane; segue la Gazzetta del popolo di Torino e la Stampa, che da Torino
giunge al Sud. Il più diffuso sarà il Corriere della Sera dal 1900, viene stampato al
mattino e raggiunge le città nel pomeriggio/sera.

94
Il paese si spacca dal punto di vista agricolo: al nord capitalistica intensiva e al
sud neofeudale con latifondi improduttivi.
Si diffondono le ideologie:
il liberalismo -> propria dell’alta borghesia e le classi più agiate, lo stato deve
essere libero, ci sono solo doveri nei confronti dello stato e nessun diritto, lo
stato è rappresentato dal re, lo stato deve avere la massima libertà di
movimento, la classe dirigente deve perseguire un pareggio di bilancio -> si
spende meno di quanto si incassa, non deve perseguitare i cittadini con le tasse
ma neanche deve spendere più di quanto ha -> tutte le iniziative di investimento
spettano ai privati.
la democrazia -> lo stato deve realizzare i servizi per i cittadini -> aumentano le
tasse e vengono create nuove come quella sul grano macinato o sul pane
ideologie alternative:
socialismo -> traduzione politica di un pensiero filosofico (il marxismo), voleva
risolvere la lotta perenne tra sfruttatori e sfruttati, il partito socialista deve
operare in un sistema democratico e sfruttare le contraddizioni del capitalismo e
del libero mercato e le sue disuguaglianze per conquistare il potere ->
conquistato il potere si attua la rivoluzione in 2 fasi: si instaura la dittatura del
proletariato e si abolisce la proprietà privata -> i proletari eliminano tutte le altri
classi e lo stato socialista stabilisce compiti lavoro ricavo per tutti con le
medesime condizioni. Nel 1892 nasce il partito socialista a Genova fondato da
Curati e Reves come risultato della radicalizzazione dei democratici; nasce inoltre
il cattolicesimo sociale: il socialismo spinge alla lotta di classe per cui il
proletariato deve lottare in maniera unitaria contro tutte le classi; il cattolicesimo
predica la conciliazione tra le classi. SI creano spontaneamente i sindacati di
ispirazione democratica cattolica e socialista. Da qui si sviluppa il comunismo
nazionalismo -> somma di socialismo e cattolicesimo, la storia non è
caratterizzata da lotta di classe ma da lotta tra nazioni povere e ricche che
cercano di sovvertire o mantenere rispettivamente lo status quo. Raccoglie
consensi nelle elite, si traduce in cultura nel futurismo italiano. Da qui si sviluppa
il fascismo.
nazional-socialismo -> somma di socialismo e nazionalismo. Da qui si sviluppa il
nazismo. Complesso ideologico (comunemente noto nella forma
abbreviata nazismo) elaborato in Germania soprattutto da A. Hitler in Mein
Kampf e divenuto sistema di governo dal 1933 al 1945. Principio centrale di esso
è il mito della superiorità della razza ariana. L’individualismo democratico fu
ripudiato in funzione del nuovo principio della ‘comunità’, etnicamente e

95
biologicamente intesa come riunione di tutti i Tedeschi in una sola grande
Germania sotto la guida di un capo carismatico, il Führer.
Come movimento politico si impose attraverso il Partito nazionalsocialista,
costituito ufficialmente a Monaco di Baviera nell’aprile 1920; ebbe come
animatori G. Feder, teorico del movimento, il poeta razzista e populista D.
Eckart, R. Hess, H. Göring, A. Rosenberg e soprattutto Hitler, con la cui biografia
s’identifica in gran parte la storia del partito. Limitato dapprima a un raggio
d’azione puramente bavarese, il partito tentò nel 1923 a Monaco un fallito colpo
di Stato (Putsch). Ricostituito nel 1925, fu da allora in continua ascesa, finché nel
1933 Hitler fu nominato cancelliere e poi ottenne i pieni poteri. Da allora la storia
del Partito nazionalsocialista si confonde con quella stessa della Germania. Fu
disciolto in seguito alla sconfitta del 1945.

Svolta in politica interna porteranno gli anni dal 1896 in poi dopo la sconfitta in
Etiopia.

16/10
Lezione 9
Il colonialismo
Partiamo da un fatto di attualità: Israele sta esercitando un atto di forza nei
confronti dei territori circostanti a partire dal 1919. Finisce la Prima guerra
mondiale e l’Impero Ottomano si disgrega, controllava Siria Palestina Giordania e
devono essere affidati a qualcun altro, le grandi potenze con i vari mandati fanno
nascere nuovi stati. L’Inghilterra controlla la Palestina ed esercita un controllo
coloniale. Oggi i processi che accadono derivano da dinamiche di tipo coloniale. Il
colonialismo è utile anche ad analizzare le società: ad es. l’India è a maggioranza
Indù dato il fatto che l’Inghilterra divise Indù e mussulmani relegandoli nel
Pakistan -> società indiana e pakistana derivano dalla scelta di una potenza
coloniale. Si sono avute sempre due visioni della storia coloniale: di parte e il
master narrative -> per questo non si è mai sviluppata una storiografia africana
autoctona, la storia è stata fatta dalle potenze coloniali.
Ci sono diverse forme di colonialismo:
• dominio economico informale: Esempio del primo caso è quello della
Cina sull’Africa attraverso gli investimenti -> i sistemi colonialisti
non sono mai finiti.
• dominio territoriale diretto/conquista militare : Il secondo caso è
tipico del colonialismo del 900.
Perché nasce il colonialismo?

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l’800 è il secolo della rivoluzione industriale -> ha portato il liberalismo,
necessità di nuove esplorazioni; la seconda rivoluzione industriale -> riduzione
della mortalità e aumento del tasso demografico, aumento natalità, ma non c’è
spazio e lavoro per tutti -> esigenza di espansione. In Italia si ebbe migrazione
interna ed esterna. Territorio adatto all’espansione era quello inesplorato
dell’africa
necessità di manodopera a basso costo -> delocalizzazione in territori anche con
maggior disponibilità di materia prima (si evitano i costi di trasporto) e schiavitù.
ideologia -> l’800 è il secolo del darwinismo sociale, del razzismo. I popoli
europei erano intrinsecamente più sviluppati di quelli africani -> bisognava
civilizzarli. Secondo questo principio l’Italia è andata a colonizzare anche la Cina,
nazione più antica di quella italiana
Nell’800 le potenze sono GB che possiede il 96% del territorio colonizzato
mondiale, la Francia possiede il 3%. La popolazione posta sotto il controllo
coloniale sono 300 mln di persone. Col 900 la superficie colonizzata raddoppia in
maniera repentina. GB vede diminuire il suo territorio occupato -> tutte le
nazioni partecipano al fenomeno.
Due modelli di colonialismo:
inglese: nei confronti delle colonie ha un atteggiamento aperto (la burocrazia era
affidata agli indiani in india), si serviva delle competenze locali per
l’amministrazione -> il processo di decolonizzazione sarà più tranquillo e crea il
commonwealth (1926), favorisce l’indipendenza delle ex colonie
francese: attua l’assimilazione -> i burocrati locali venivano portati in Francia e
istruiti. assimilazione =/= integrazione perché l’immigrato deve tagliare i ponti
con la madrepatria, comporta una chiusura -> chi non vuole essere assimilato è
traditore. La decolonizzazione sfocia in guerre es. quella in Vietnam, in Algeria.
L’Italia partecipa al colonialismo a fine 800 per mettersi al pari con le altre
potenze -> la forza di una nazione si misurava in base alle colonie possedute. IL
problema è che dalle prove militare non si è all’altezza degli altri -> le colonie
vengono acquistate attraverso la società Rubattino che viene nazionalizzata ->
colonia in Eritrea. SI punta poi sulla Somalia, territorio inglese, e stipula un
accordo con la GB chiedendo un pezzo e GB accetta per due motivi -> Somalia
troppo grande da controllare, la Francia puntava alla Somalia molto più forte
militarmente dell’Italia. Territori inesplorati -> no carte geografiche, no
attrezzature scientifiche, no conoscenza del territorio da parte degli esploratori
italiani -> per conquistare un territorio bisogna conoscerlo.
Gli inglesi mantengono un posto nel golfo di Aden dove passano le merci dirette
al canale di Suez.

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L’Italia punta all’Etiopia unica nazione rimasta inconquistata -> l’impero etiope
aveva il più grande esercito africano, era l’unico stato indipendente, aveva
accordi commerciali con Inghilterra e Francia. Sottoscriviamo un patto il trattato
di Uccialli con il ras Menelik -> presupponeva un’amicizia tra i 2 paesi, nella
traduzione italiana l’Etiopia diventava protettorato italiano. Nel 1893 Menelik
straccia l’accordo quando arrivano i soldati italiano -> inizia la guerra per 3
motivi: sottovalutazione italiana dell’esercito etiope, nessuna conoscenza del
territorio, scarsità di mezzi (ad es. i fucili italiani non reggevano le tempeste di
sabbia). La battaglia di Adua è una delle più imponenti battaglie coloniali della
storia -> i soldati italiani di Barattieri vengono sterminati; sulla battaglia di Adua
aveva puntato Crispi e dopo la sconfitta si dimette. Gli succede Giolitti.
SI punta in Libia, altro territorio inesplorato, dove Gioliti decide di intervenire.
Volevamo la Tunisia ma era stata conquistata dalla Francia. La Libia è controllata
dagli ottomani praticamente allo sfascio -> inizia la guerra italo-turca e la
vinciamo -> Libia occupata. Tre fasi del conflitto: bombardamento città costiere
(muoiono civili), sbarco e guerra interna, controllo del territorio (mai ottenuto).
La Libia è colonia italiana fino al 43 quando viene presa da GB, ma mantiene con
l’Italia un rapporto stretto e si continua a investire in Libia. Gli USA decidono che
Gheddafi deve essere buttato fuori e Berlusconi suo alleato approva la scelta. CI
sono due governi: Tribolo appoggiato dall’ONU, Bengasi appoggiato da Egitto e
Francia -> la Francia ha interessi economici con l’Egitto -> politica estera
europea non unitaria.
Mussolini vuole riproporre il sogno imperiale ma ha due problemi:
fascistizzazione delle colonie da compiere (colonie devono sentirsi italiane E
fasciste) e militarizzazione. Avviene la riconquista ad opera di Graziani e Badoglio
a partire dal Fezzan -> occupato da popolazioni nomadi. I 2 portano questi popoli
in campi di concentramento e moriranno di fame. La Somalia viene fascistizzata
da De Vecchi. Mussolini vuole l’Etiopia per vendicare Adua e dare un segnale al
mondo. La conquista avviene su due fronti Nord dall’eritrea e Sud dalla Somalia.
L’Italia vince la guerra attraverso l’iprite, un gas che brucia i tessuti organici,
utilizzato nelle retrovie dove stanno i civili. IL negus denuncia questo metodo alla
società delle nazioni, Francia e gb sanzionano l’Italia in modo blando perché
Mussolini era comodo -> Hitler aveva preso il potere e Francia gb avevano
bisogno di una persona cuscinetto. Nel 1936 nasce l’impero italiano, nel 1938
mussolini organizza a monaco una riunione Francia gb e Germania e cedono i
Sudeti a Hitler senza l’approvazione del governo cecoslovacco.
Le colonie dell’Asse vengono smembrate 43-45, gli altri continuano a mantenere
le colonie.

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Nella teoria geopolitica esiste un assunto per cui non esistono vuoti geopolitici
nel mondo -> se una nazione si ritira quel territorio verrà riconquistato. es. gli
africani sostituiscono i padroni e arrivano i cinesi.

21/10
Lezione 10
Crisi di fine secolo
Dopo la “rivoluzione parlamentare” del marzo 1876, avvenuta quando era stato
raggiunto il pareggio, la politica dei governi della Sinistra non segnò mutamenti
sostanziali neppure sotto il regno del nuovo sovrano Umberto I, succeduto a
Vittorio Emanuele II, morto il 9 gennaio 1878. L'abolizione della tassa sul
macinato venne proposta nel 1878; i ceti industriali avevano avvertito che la
ricerca pregiudiziale del pareggio era nociva allo sviluppo della produzione, ma
data l'opposizione dei gruppi dominanti a una politica di imposizione fiscale
diretta, il senato votò l'abolizione dell'imposta solo nel 1880; la legge
sull'istruzione obbligatoria e gratuita (legge Coppino) venne votata nel 1877.
Nel paese, intanto, si diffondevano e si organizzavano le prime forze di una
Sinistra dichiaratamente socialista: già dalla metà degli anni Sessanta aveva
trovato eco a Firenze e a Napoli (che risentiva, come tutto il Meridione, delle
conseguenze negative dell'unificazione) la propaganda anarchica di Bakunin; nel
1868 si formò a Napoli la prima sezione italiana dell'Internazionale; repressa dal
governo, l'Internazionale trovò nuovo slancio dopo la caduta della Comune
parigina del 1871. Perdeva al contrario terreno, a cominciare da questo periodo,
il movimento mazziniano, che nel decennio 1860-1870 aveva fatto presa tra gli
operai e gli artigiani del Centro e del Nord. Nel 1872 si tenne la conferenza
costitutiva della Federazione italiana dell'Internazionale, che sorse sulle basi
dell'anarchismo libertario di Bakunin e rifiutò legami con la direzione di Marx ed
Engels, trovando ben presto terreno propizio negli scioperi e nelle agitazioni che
spontaneamente nascevano per le misere condizioni sociali delle classi popolari.
Le persecuzioni governative, che colpirono il movimento internazionalista dopo il
fallimento del tentativo dell'agosto 1874, lasciarono strascichi di malcontento
diffuso e non impedirono agli internazionalisti anarchici di continuare l'opera di
propaganda. Dopo la morte di Bakunin (1876) guadagnarono però terreno le tesi
favorevoli alla formazione di un partito politico operaio che si rafforzarono dopo
l'insuccesso del nuovo tentativo insurrezionale della banda del Matese (1877) e il
passaggio di A. Costa da posizioni inserzionistiche a posizioni evoluzionistiche.
Intanto in parlamento, con l'elezione dell'esponente radicale F. Cavallotti (1873),
venne a operare anche una rappresentanza di estrema sinistra, che ampliò
successivamente i suoi quadri parlamentari. In polemica con la Sinistra al potere,

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l'estrema indirizzò la sua agitazione in direzione del suffragio universale; il
governo, pur rifiutandolo, fu costretto comunque a un allargamento del corpo
elettorale in conseguenza del quale gli elettori passarono da 600.000 a 2 milioni
circa (1882). Alle elezioni dell'ottobre 1882 il Costa, appoggiato dal partito
socialista rivoluzionario di Romagna da lui creato, riuscì eletto anche coi voti
radicali e repubblicani, rafforzando la pattuglia dell'estrema parlamentare. Oltre
alla nascente opposizione socialista, che aveva il suo centro principale di
elaborazione ideologica nel gruppo milanese della Plebe, c'era poi nel paese
un'altra forza ostile ai liberali: i cattolici intransigenti (così chiamati per
distinguerli dai piccoli gruppi favorevoli a una conciliazione tra Stato e Chiesa)
che, in base alle direttive ecclesiastiche (il non expedit) si rifiutavano di
partecipare alle elezioni politiche, e si erano organizzati nell'Opera dei congressi
(1876), negando ogni riconoscimento allo Stato che aveva distrutto il potere
temporale e conducendo, con toni talora legittimisti e reazionari, una campagna
antiliberale che prendeva spunto spesso dalla miseria popolare. Di fronte al
rafforzarsi di queste opposizioni, si attenuava nel parlamento la distinzione fra
Destra storica e Sinistra, e nasceva il cosiddetto “trasformismo” (consistente
nella partecipazione allo stesso governo di esponenti dei due gruppi) che trovava
la sua ragione di fondo nella base elettorale, comune tanto agli uni quanto agli
altri. Con Depretis il trasformismo divenne prassi normale di governo, e nel 1883
venne riconosciuto dal Minghetti come rispondente alla nuova situazione creata
dal formarsi dell'estrema sinistra. La politica estera della Sinistra si mantenne
inizialmente nelle linee tracciate dalla Destra, e fu favorevole al raccoglimento
per consolidare le istituzioni all'interno (rifiuto di Corti al congresso di Berlino del
1878 di partecipare a imprese coloniali); ma dopo il 1880, a seguito anche
dell'occupazione francese di Tunisi e per il timore di restare isolati in Europa, il
governo si indirizzò verso una cauta espansione in Africa (acquisto della baia di
Assab a opera della compagnia Rubattino e suo successivo acquisto da parte del
governo [1882]; occupazione di Massaua per una progressiva penetrazione in
Eritrea, fermata però a Dogali nel 1887) e verso l'alleanza con gli Imperi centrali
(Triplice alleanza, 20 maggio 1882, rinnovata poi nel febbraio 1887 a condizioni
più vantaggiose). Nell'agosto 1887, alla morte di Depretis, la presidenza del
consiglio fu assunta da F. Crispi, che era stato tra i suoi oppositori di sinistra; il
ministero Crispi abolì dapprima le limitazioni al diritto di sciopero; con Giolitti,
ministro delle finanze, riformò la contabilità dello Stato, favorì le società
cooperative operaie, attuò una riforma carceraria, riorganizzò le Opere pie,
promosse la promulgazione del codice Zanardelli (1890) e tentò persino la
soluzione della Questione romana (tentativo conciliatorista del 1887, che, fallito,
diede luogo a una reazione anticlericale). Ma la politica di Crispi, per quanto

100
inizialmente non contraria ad accogliere alcune istanze della Sinistra per una
tutela dei lavoratori, finì con lo scontrarsi duramente con l'estrema per la
questione della politica africana (trattato di Uccialli, 2 maggio 1889;
riorganizzazione dell'Eritrea; ecc.) che cominciava a gravare pesantemente
sull'erario, già in difficoltà per la “guerra delle tariffe” che s'era aperta dal 1887
con la Francia. La tensione era anche aggravata dalle tendenze spiccatamente
filo bismarckiane di Crispi e dalle repressioni condotte contro ogni
manifestazione irredentista che potesse turbare i rapporti interni della Triplice,
destinata a essere rinnovata nel maggio 1891. Crispi intraprese quindi contro
l'estrema sinistra e i radicali una politica di repressione con riduzione delle
libertà di sciopero e di associazione. A fronteggiare l'attività repressiva del
governo sorse nel 1892, dalla confluenza di leghe di resistenza, di organizzazioni
bracciantili e del gruppo di intellettuali della Lega socialista milanese (Turati, A.
Kuliscioff, ecc.), il partito socialista italiano (inizialmente partito dei lavoratori
italiani) che nello stesso anno conquistò alle elezioni cinque seggi (tra gli altri,
Turati, Prampolini e Costa). Il ministero Crispi era intanto caduto fin dal febbraio
1891 per l'aggravarsi della situazione finanziaria. Lo sostituirono dapprima Di
Rudinì (febbraio 1891 - maggio 1892) e poi Giolitti (maggio 1892 - novembre
1893), che fece le prime prove di una politica più liberale di quella dei suoi
predecessori; ma nel 1893 cominciarono a farsi sentire i primi effetti del rialzo
dei prezzi, che da quell'anno si verificava nell'economia mondiale. Si ebbero così
vari scioperi a Roma e Napoli, mentre in Sicilia si organizzavano i Fasci dei
lavoratori. Attaccato da destra, Giolitti cadde tuttavia sulla questione bancaria,
coinvolto nello scandalo della Banca romana per le accuse di Colaianni e di
Cavallotti (novembre, 1893), senza che peraltro le sue responsabilità nell'“affare”
fossero maggiori di quelle dei precedenti governi.
Al potere tornò Crispi (dicembre), il quale si impegnò immediatamente nella
repressione dei Fasci siciliani: a seguito dei tumulti scoppiati nell'isola (10
dicembre 1893 e 3 gennaio 1894) egli fece proclamare lo stato d'assedio,
arrestando i capi dei Fasci (tra cui De Felice Giuffrida); i socialisti promossero
manifestazioni di protesta a Milano e gli anarchici a Massa Carrara organizzarono
un moto, represso con lo stato d'assedio; il partito socialista fu sciolto insieme ad
altre 248 “organizzazioni sovversive”. Ma le elezioni del maggio 1895, pur
costituendo un trionfo personale per Crispi, specie nel Sud, segnarono buoni
successi per i socialisti (quindici seggi) e per i radicali; e nel marzo 1896 Crispi,
che aveva ripreso la politica di espansione coloniale in Africa (occupazione
dell'Eritrea), puntando su di essa per risolvere anche le difficoltà interne, venne
rovesciato a seguito della sconfitta di Adua (1º marzo 1896). Lo sostituì un
ministero Di Rudinì, che riprese la politica interna conservatrice, pur liquidando

101
la spedizione africana. Il continuo aumento dei prezzi (che pure favoriva la
ripresa economica, senza però vantaggi per le classi lavoratrici) e i cattivi raccolti
(specialmente nel 1897) provocarono un aumento della tensione sociale, resa più
grave nel 1898 dalla guerra ispano-americana che causò un forte rincaro del
grano; gravate da imposte indirette assai pesanti le masse popolari espressero la
loro protesta con scioperi e agitazioni via via più vasti. D’altro canto, crescevano
in parlamento le tendenze conservatrici (nel gennaio 1897 S. Sonnino pubblicò
l'articolo Torniamo allo Statuto, in cui auspicava l'abbandono della tradizione dei
governi parlamentari per tornare a quelli costituzionali). Tra l'aprile e il maggio
1898 si ebbe una serie di dimostrazioni, che culminarono nelle giornate di Milano
(6-8 maggio) in cui il generale Bava-Beccaris impiegò l'esercito per una
repressione sanguinosa (ottanta civili morti), a cui seguì la proclamazione dello
stato d'assedio in quasi tutte le province e la persecuzione contro i socialisti e i
cattolici dell'Opera dei congressi (soprattutto quelli della tendenza sociale, che si
era sviluppata a seguito della Rerum Novarum [1891]) accusati entrambi di aver
promosso i tumulti. La vastità della crisi del 1898 spinse il governo Pelloux
(costituitosi nel giugno 1898) ad accentuare la politica illiberale, presentando
una serie di decreti-legge per la restrizione delle libertà di sciopero, di stampa e
di riunione. Contro la legislazione “liberticida” l'estrema sinistra promosse in
parlamento un'opposizione acerrima, che giunse all'ostruzionismo e che riuscì a
trascinare anche alcune forze liberali, contrarie alla violazione delle libertà
statutarie. La risoluzione dell'opposizione e la frattura in seno allo stesso
schieramento liberale fecero sì che Pelloux indicesse nuove elezioni (giugno
1900) i cui risultati (passaggio dell'estrema sinistra da 67 a 96 deputati) lo
costrinsero alle dimissioni. Gli succedette (giugno 1900) G. Saracco che ritirò i
disegni di legge illiberali.

Giornalismo in Italia
Il giornalismo italiano dal 1949 a oggi. - Nelle complesse vicende del g. italiano
nell'oltre il quarto di secolo che va dal 1949 all'inizio del 1976 si distinguono tre
fasi. La prima, fino al 1956, in cui la stampa quotidiana e periodica esce dalla
ristrettezza dell'immediato dopoguerra e trova un assetto nuovo, editoriale e
politico. La seconda - fino al termine degli anni Sessanta - caratterizzata,
soprattutto nel settore dei quotidiani, da rinnovamenti e da operazioni di rilancio,
determinati sia da motivi editoriali (il principale è la concorrenza del nuovo e
potente mezzo di comunicazione di massa, la televisione) sia dai mutamenti
politici del quadro internazionale e di quello interno. Questa fase è, però,
caratterizzata anche dai primi segni della crisi economica che colpisce la stampa
quotidiana in vari paesi del mondo, compresa l'Italia. Nella terza fase - dal 1968-

102
69 ad oggi - questa crisi si sviluppa e s'intreccia a operazioni di concentrazione
editoriale, a mutamenti di proprietà di alcuni dei più diffusi quotidiani, a qualche
novità editoriale e a trasformazioni in quel settore particolarmente attivo che è la
stampa settimanale di attualità e di varietà. A questi fatti si accompagnano
mutamenti dei rapporti all'interno delle aziende editoriali, che contribuiscono a
influenzare e a modificare i rapporti fra i g. stessi e il potere.
Dal 1949 al 1956. - Il numero dei quotidiani è diminuito notevolmente rispetto
all'eccezionale fioritura d'iniziative giornalistiche (la cifra primato è di 140
testate nel 1946) dell'immediato dopoguerra. La falcidia ha colpito soprattutto
fogli di opinione e organi di partito, sia dopo il voto del 2 giugno 1946
(Referendum istituzionale e Costituente) sia dopo lo scontro elettorale del 18
aprile 1948 che aveva visto la netta affermazione della D.C. contro il Fronte
socialcomunista. Nel 1949-50 si pubblicano 103 testate, a quattro pagine e, due
volte alla settimana, a sei pagine, destinate ad aumentare abbastanza
rapidamente. Anche il prezzo di vendita sale da 15 a 20 lire nel 1950, e a 25 lire
nel 1951. La crescita dei costi e le scelte del pubblico accentuano la crisi di
diffusione e di bilancio dei quotidiani di partito e favoriscono lo sviluppo di quelli
d'informazione, i cui editori sono pronti ad accrescere i rispettivi impegni
finanziari.
I comunisti chiudono alcuni g. fiancheggiatori (cioè senza l'esplicita qualifica di
partito) alla cui nascita avevano partecipato, in molti casi, i socialisti; e ne
rimpiazzano soltanto uno, La Repubblica di Roma, il cui posto viene preso, dal
1949, da Paese sera. La più nota di queste testate scomparse è Milano-
sera (1954). Il PCI concentra i propri sforzi sulle quattro edizioni dell'organo
ufficiale, l'Unità (Roma, Milano, Torino e Genova) potenziandone la diffusione
domenicale e in particolari occasioni politiche, attraverso una speciale
organizzazione di attivisti. I socialisti si arroccano sulle due edizioni
dell'Avanti! (Roma e Milano) e su Il Lavoro di Genova. Scompaiono, invece, entro
il gennaio 1950, i tre quotidiani del partito socialdemocratico (l'Umanità di Roma
e di Milano, e Mondo nuovo di Torino). Nel 1949 chiude anche L'Italia socialista, il
quotidiano di opinione nato a Roma dall'incontro di alcuni esponenti socialisti e
dell'ormai disciolto Partito d'azione. La Voce repubblicana di Roma resta l'unico
organo del PRI, mentre il PLI, dopo la chiusura del Risorgimento liberale (1948),
non ha più un proprio organo ufficiale.
Anche gli organi periferici del partito democristiano subiscono la stessa sorte:
entro pochi anni resta in vita soltanto l'edizione romana de Il Popolo. Ma occorre
considerare che il partito democristiano, e anche quello liberale, possono contare
sull'appoggio della stampa d'informazione, schierata su posizioni moderate
ancora prima delle elezioni del 1948. Inoltre, la DC ha, praticamente, il controllo

103
del più diffuso quotidiano del veneto, Il Gazzettino (dir. A. Tommasini, poi G.
Longo), e dei due più diffusi g. delle regioni meridionali della penisola, Il
Mattino di Napoli dir. G. Ansaldo) e la Gazzetta del Mezzogiorno di Bari (dir. L. De
Secly), appartenenti a un istituto pubblico, il Banco di Napoli. Dal 1953 la DC avrà
anche il sostegno della Gazzetta del Popolo di Torino, passata dalla sfera liberale
(dir. M. Caputo) a quella democristiana (dir. F. Malgeri) con un'operazione di
vendita che fa scalpore. Infine, allo scopo di accrescere l'influenza capillare del
partito, viene iniziata una catena di quotidiani minori attraverso l'acquisto di
alcune testate in crisi, come Il Tempo di Milano e Il Momento di Roma, e la
nascita di nuovi giornali. La catena viene sciolta dopo le elezioni del 7 giugno
1953
All'estrema destra si registrano due fatti nuovi. Il primo è la nascita, nel 1952,
del quotidiano del Movimento Sociale Italiano, Il Secolo d'Italia, a coronamento
di un'intensa attività pubblicistica di stampo neofascista compiuta, per mezzo di
diversi periodici, da persone e gruppi che si richiamano al fascismo di Salò. L'altra
novità è il coagularsi delle forze monarchiche attorno all'iniziativa politica
dell'armatore A. Lauro e ai suoi quotidiani (il Roma di Napoli e, dal 1952, La
Patria di Milano, che avrà breve vita).
Negli stessi anni si accentua la supremazia dei quotidiani d'informazione.
L'aumento delle pagine consente di sviluppare i servizi dall'interno e dall'estero (i
maggiori quotidiani hanno propri corrispondenti dagli Stati Uniti, da Londra,
Parigi, Bonn, e presto anche da Mosca) e di ridare periodicità quotidiana alla
tradizionale "terza pagina". I g. più diffusi e più ricchi si contendono le firme più
note per i servizi d'inviato speciale e per le collaborazioni culturali. Inoltre, a
mano a mano che la ricostruzione del paese si completa, ritorna
quell'indispensabile mezzo di sostegno economico della stampa che è la
pubblicità. E, siccome gl'inserzionisti hanno interesse a servirsi dei veicoli di
comunicazione più diffusi, la pubblicità rafforza la supremazia dei quotidiani
d'informazione e, tra questi, dei più forti.
A questo dominio della politica centrista e della stampa d'informazione
contribuiscono non soltanto i vecchi proprietari dei g. ma anche esponenti
dell'industria, a titolo personale o attraverso la loro potente organizzazione, la
Confindustria. Questi interventi sono numerosi e si concentrano soprattutto nel
biennio 1952-53.
Gl'imprenditori che avevano acquistato da una cooperativa di giornalisti
il Giornale dell'Emilia (dal 1953 riprende la vecchia testata il Resto del Carlino,
dir. G. Longo) comprano La Nazione, il quotidiano più diffuso della Toscana (dir.
A. Russo). Il cementiere C. Pesenti fonda a Milano La Notte (dir. N. Nutrizio) che
si contrappone, da posizioni di destra ma con una formula popolare, al Corriere

104
d'Informazione, appartenente alla famiglia Crespi. La Confindustria riesce a
entrare in possesso dei tre quotidiani economici: Il Sole e, più tardi, 24 ore, che si
pubblicano a Milano, e Il Globo, che esce a Roma. E compra anche il vecchio
quotidiano romano del pomeriggio Il Giornale d'Italia. Infine, per sorreggere i
quotidiani di provincia che, in gran parte, appartengono alle Associazioni
industriali locali o a singoli imprenditori, la Confindustria organizza l'AGA
(Agenzia Giornali Associati) che fornisce a tutti gli aderenti il servizio di politica
interna, quello economico e sindacale e articoli per la terza pagina.
Nonostante questi larghi impegni finanziari e tutti i fattori che concorrono al
successo dei fogli d'informazione, la diffusione complessiva dei quotidiani non è
soddisfacente. Non si conoscono dati ufficiali, perché gli editori, a differenza di
quanto avviene in altri paesi, non li rendono pubblici; ma, in base a calcoli
attendibili, si sa che la diffusione non supera le 100 copie ogni mille abitanti, un
risultato che colloca l'Italia negli ultimi posti della graduatoria europea. Secondo
gli stessi calcoli, le tirature dei maggiori quotidiani sono queste: Corriere della
sera (dir. G. Emanuel, poi M. Missiroli) 350.000 copie; La Stampa (dir. G. De
Benedetti) 200.000; Il Messaggero (dir. M. Missiroli, poi A. Perrone) 140.000; Il
Tempo (dir. R. Angiolillo) 120.000. È evidente che il quotidiano d'informazione
superate le ristrettezze dell'immediato dopoguerra, non ha saputo trovare nuovi
spazi. Le diagnosi sul mancato allargamento dell'area dei lettori sono concordi: la
formula del quotidiano è, sotto il profilo dei contenuti e del linguaggio, ancora
troppo di élite, cioè riservata a coloro che hanno raggiunto un certo livello
culturale; inoltre, sulla quantità e sulla qualità dell'informazione data ai lettori
pesano i condizionamenti derivanti da scelte politiche sollecitate dal potere o
decise dagli editori.
Di fronte a questa situazione della stampa quotidiana d'informazione, che ripete
vecchie formule e soggiace ad antiche subordinazioni, e alle difficoltà in cui si
dibattono i g. di partito, c'è il fenomeno dei settimanali in rotocalco, molti dei
quali raggiungono punte notevoli di diffusione. Il fenomeno non riguarda
soltanto i cosiddetti periodici popolari, quelli a "fumetti" e quelli per le donne, ma
anche molti settimanali di "attualità, politica e varietà". Le ragioni di questi
successi sono, quasi sempre, lo sfruttamento della passionalità politica, a
cominciare dalle nostalgie monarchiche e, talvolta, del ventennio fascista, le
costanti concessioni al g. di evasione, che si manifestano soprattutto dando largo
spazio al divismo del cinema e dell'alta società; ma è anche vero che questi
settimanali si occupano di molti fatti e problemi di cui la gente parla e che i
quotidiani trascurano, che il loro linguaggio è semplice e più aderente a diversi
strati sociali.

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Tra il 1949 e il 1956 i settimanali - che hanno libertà di pagine e di prezzo -
raddoppiano la loro tiratura: da 4 milioni e mezzo di copie a 9, e la cifra è
destinata a salire. Nel gruppo dei periodici di attualità i primati appartengono sia
a vecchie testate popolari, come la Domenica del Corriere (dir. E. Possenti), sia a
testate uscite nell'immediato dopoguerra, come Oggi (dir. E. Rusconi)
e Tempo (dir. A. Tofanelli), sia ad alcune nate in questo periodo, come Epoca (dir.
A. Mondadori) e La Settimana Incom (dir. L. Barzini jr.). Per la loro formula
particolare e per la loro posizione politica vanno ricordati L'Europeo fondato e
diretto dal 1945 da A. Benedetti, e Il Mondo, fondato e diretto dal 1949 da M.
Pannunzio. Il primo adotta uno stile giornalistico diretto, quasi impersonale, che
dà immediatezza alle sue cronache politiche e di altro genere, sempre ricche di
particolari inediti. La sua linea politica si può collocare nel filone della sinistra
liberale. Allo stesso filone appartiene Il Mondo, che si dedica unicamente
all'attualità politica e culturale. A differenza dell'Europeo, Il Mondo ha una
diffusione limitata, ma la sua influenza, in un periodo di marcata polarizzazione
delle forze politiche e dei giornali, è notevole per le sue scelte autonome rispetto
ai due schieramenti principali e per i contributi dei suoi più autorevoli
collaboratori (G. Salvemini; E. Rossi, G. Calogero, P. Calamandrei e altri).
Gli altri fatti rilevanti che completano il quadro di questo periodo sono: nel 1949
il varo di sovvenzioni governative, in cambio della diffusione di notiziari
particolari in Italia e all'estero, all'ANSA, l'unica agenzia italiana a diffusione
capillare, fondata nel gennaio 1945 dagli editori, associati in cooperativa; la
ricomparsa a Trieste, restituita all'Italia il 26 ottobre 1954, del vecchio
quotidiano nazionalista Il Piccolo; la nascita a Roma, nel 1955, del
settimanale L'Espresso, diretto da A. Benedetti, il quale aveva
lasciato L'Europeo poco dopo che l'editore G. Mazzocchi lo aveva venduto
all'editore A. Rizzoli.
Dal 1956 al 1968. - Nei primi anni di questo periodo le vicende della stampa
appaiono molto legate ai grandi eventi internazionali - la destalinizzazione, la
distensione SUA-URSS, i mutamenti nella Chiesa cattolica - e all'evoluzione della
situazione interna verso un governo di centro-sinistra e uno sviluppo economico
di notevole portata.
Nel 1956, a Milano, nasce Il Giorno, fondato e diretto da G. Baldacci e di
proprietà dell'Ente Nazionale Idrocarburi, presieduto da E. Mattei, e dell'editore
C. Del Duca. Il Giorno rivoluziona gli schemi tecnici della stampa d'informazione
(otto pagine stampate in rotativa sono accoppiate ad altre otto stampate in
rotocalco) e assume una posizione di aperto sostegno a tutte le novità che
maturano sulla scena politica, rompendo lo schieramento generalmente
moderato o conservatore dei quotidiani d'informazione. Nel giro di pochi anni, Il

106
Giorno, di cui nel frattempo l'ENI è rimasto l'unico proprietario, diventa uno dei
g. più diffusi.
l Corriere della sera (dir. dal 1961 A. Russo) stimolato dalla crescente
concorrenza della Stampa e del Giorno (dir. dal 1960 I. Pietra), e dall'iniziativa
dell'editore Rizzoli che si prepara a lanciare un nuovo quotidiano, Oggi, stampato
contemporaneamente a Roma e a Milano, rinnova in parte i propri quadri e la
propria formula, e conquista nuovo terreno, seguito a non lunga distanza
dalla Stampa.
Nello stesso tempo, il Corriere della sera adotta un tono particolarmente
battagliero contro le prospettive sempre più concrete dell'ingresso dei socialisti
nel governo e guida la polemica di tutta la stampa padronale contro la
nazionalizzazione dell'industria elettrica.
Novità legate all'evoluzione della situazione politica si registrano anche nei due
maggiori gruppi della stampa di partito o di opinione. La stampa comunista
subisce un grosso scossone politico nel 1956, in seguito alla pubblicazione del
rapporto di Chruščëv sui crimini di Stalin e alla rivolta di Ungheria: la vittima più
nota è il quotidiano fiancheggiatore di Firenze Il Nuovo Corriere; e l'anno dopo
subisce uno scossone editoriale con la soppressione, per motivi finanziari, delle
edizioni torinese e genovese dell'Unità. Il PCI reagisce nel 1962
rilanciando l'Unità ristrutturata più giornalisticamente, fondendo Il
Paese nel Paese sera, che d'ora in poi esce anche al mattino, e trasformando il
mensile ideologico Rinascita in settimanale.
In campo cattolico, l'azione innovatrice di papa Giovanni XXIII e il Concilio
Vaticano II aprono nuovi spazi ai quotidiani e ai periodici legati alla gerarchia, e
accrescono l'interesse dell'opinione pubblica verso i problemi e gli atteggiamenti
della Chiesa. Tra i quotidiani L'Avvenire d'Italia di Bologna, diretto dal 1961 da R.
La Valle diventa l'interprete dello spirito innovatore del Concilio e l'assertore sia
della collaborazione tra democristiani e socialisti per la realizzazione di un
programma di riforme, sia della distensione internazionale e dell'urgenza di
concludere la pace nel Vietnam. Ma il riflusso della politica vaticana su posizioni
caute e moderate sotto il papato di Paolo VI mette in crisi il quotidiano
bolognese. Nel 1967 La Valle si dimette, sostituito da G. Dore fino alla chiusura
del giornale, l'anno dopo.
Sul piano editoriale, i primi anni di questo periodo sono pieni di speranze: infatti,
è convinzione diffusa che lo sviluppo economico e le grandi trasformazioni sociali
in atto nel paese incrementeranno la diffusione dei quotidiani. Ma l'aumento è
molto lieve. All'inizio del 1960 - quando il prezzo del quotidiano è di 40 lire -
circolano 104 copie ogni mille abitanti, con notevoli differenze tra il Mezzogiorno
e le altre regioni: 145 per mille al nord, 155 al centro, 24 al sud e 41 nelle isole. Il

107
numero delle testate è disceso a 96. Il lieve aumento delle vendite è andato a
vantaggio soprattutto dei quotidiani più ricchi di mezzi, i cui capofila sono
il Corriere della sera, La Stampa, Il Messaggero, e Il Giorno.
Entro pochi anni le speranze di un boom dell'editoria quotidiana sono
bruscamente cancellate dalle prime manifestazioni di crisi, precedute da quelle
registrate in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Le difficoltà economiche, che non
interrompono la modesta tendenza alla crescita delle testate più forti ma che
cambiano i dati di fondo del problema, sono determinate dalla concorrenza della
Tv e dalla crescita dei costi: quello della distribuzione, quello della carta, in
conseguenza dell'aumento del numero delle pagine, e quelli di lavoro in seguito
all'allargamento degli organici redazionali e tipografici e ai miglioramenti
retributivi raggiunti dai giornalisti e dalle maestranze. La crescita dei costi non è
compensata né dal nuovo prezzo di vendita (50 lire dal 1963 e 60 dal 1967) né
dagl'introiti pubblicitari, inferiori alle previsioni a causa della forte concorrenza
della pubblicità televisiva e radiofonica.
L'investimento necessario per lanciare un nuovo g. a diffusione nazionale è così
elevato, e il mercato si rivela così pigro, da indurre un editore come Rizzoli a
rinunciare al suo progetto. Il numero delle testate scende a 94 nel 1961 e a 86
nel 1965-66. In questo biennio scompaiono sette quotidiani (i più noti sono
il Corriere lombardo e Il Sole, fusi con La Notte e con 24 ore) e tre settimanali,
tra cui Il Mondo e La Settimana Incom; ed entra in una lunga crisi uno dei più
antichi quotidiani, la Gazzetta del Popolo.
Contemporaneamente al manifestarsi della crisi, cominciano le operazioni di
concentrazione. La prima è quella dell'imprenditore A. Monti (petrolio e altre
attività) il quale acquista Il Resto del Carlino, La Nazione, il quotidiano sportivo
di Bologna Stadio e, successivamente, Il Giornale d'Italia e Il Telegrafo di
Livorno. In complesso, questi quotidiani vendono giornalmente circa 600.000
copie. La seconda concentrazione è opera dell'imprenditore chimico N. Rovelli il
quale compra La Nuova Sardegna, Momento sera di Roma e poi diventa azionista
di maggioranza dell'Unione sarda di Cagliari. In tale modo Rovelli riesce a
controllare l'informazione stampata in Sardegna.
Le operazioni di concentrazione suscitano gravi preoccupazioni perché diventa
ben presto evidente che il loro scopo non è quello di razionalizzare un settore in
cui occorre applicare criteri più moderni di gestione e nuove tecnologie, ma è
soprattutto politico. L'accentramento in poche mani dell'informazione, favorito
dall'allargamento della situazione deficitaria di molte imprese editoriali, accresce
la subordinazione dell'informazione stessa a interessi extra editoriali.
Per la prima volta si apre un ampio dibattito sulle cause della crisi, sui pericoli
delle concentrazioni e sui possibili rimedi. I giornalisti - che nel 1963 hanno

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ottenuto l'istituzione dell'Ordine professionale, destinato a suscitare perplessità
e contrasti perché, se da un lato garantisce la qualificazione degl'iscritti,
dall'altro alimenta l'antica tendenza corporativa del settore - cominciano a
rendersi conto che il loro vero problema è la garanzia dell'autonomia e della
responsabilizzazione professionali. La questione di fondo è messa a fuoco con
precisione dalla rivista dei gesuiti, Civiltà cattolica (3 dicembre 1966): "C'è in
Italia un'assoluta libertà di stampa; ma dov'è la stampa libera? Tutti i grandi
organi di informazione... sono in Italia a servizio di colui o di coloro che li pagano,
sono la "voce del padrone"... solo a queste condizioni essi possono vivere. Chi,
perciò, rifiuta di essere la "voce del padrone" è destinato a condurre una vita
grama e a morire di consunzione. Ma, in tal modo, sono gli stessi regimi
democratici che si avviano al tramonto".
Dal 1968-69 ad oggi. - I primi anni sono caratterizzati dalla contestazione
studentesca e dalle grandi lotte sindacali, ma anche dallo sviluppo delle trame
eversive fasciste, con la lunga serie degli attentati dinamitardi, dal crescente
logoramento della formula governativa di centro-sinistra e dal distacco più
marcato fra la società politica e civile. In questo quadro, spesso fosco, si apre per
la stampa un periodo molto movimentato in cui segni positivi si contrappongono
a segni di riflusso e di pericolo.
Nel mondo editoriale si reagisce all'incalzare della crisi con qualche tentativo, in
alcuni casi riuscito, di svecchiare il quotidiano attraverso un ricambio dei
dirigenti giornalistici e amministrativi. Tra il febbraio 1968 e il marzo 1969
cinque importanti quotidiani d'informazione cambiano direttore: Corriere della
sera (G. Spadolini), La Stampa (A. Ronchey), il Resto del Carlino (D. Bartoli), Il
Secolo XIX (P. Ottone), Il Gazzettino (A. Cavallari). Quattro di questi direttori
hanno meno di 45 anni. Alcuni editori medi e piccoli imboccano la strada delle
innovazioni tecnologiche, passando dalla composizione a caldo, basata sul
piombo, alla fotocomposizione e alla stampa in offset. Come è già accaduto in
paesi più avanzati del nostro, queste trasformazioni (la prima è avvenuta
al Messaggero veneto di Udine nel 1968) devono superare le resistenze dei
sindacati in difesa dei livelli occupazionali.
Nello stesso periodo, cresce il numero dei giornalisti che, all'interno della FNSI
(Federazione Nazionale della Stampa Italiana), attraverso i comitati di redazione
e le associazioni regionali, e fuori, con la creazione del movimento dei giornalisti
democratici, chiedono un mutamento della politica settoriale del sindacato ma
soprattutto rivendicano una maggiore presenza nella gestione dell'informazione.
Nel congresso della FNSI del 1970 i sostenitori di queste tesi conquistano la
maggioranza, che manterranno e amplieranno nei congressi del 1972, del 1974 e
del 1976. La piattaforma maggioritaria ha come obiettivo la realizzazione di una

109
riforma globale dell'informazione, diretta ad assicurare l'autonomia della
gestione dell'informazione stessa in seno alle aziende editoriali (compresa la
RAI-TV) e, nello stesso tempo, capace di conseguire la pubblicità dei bilanci e
delle proprietà editoriali, e un intervento dello stato, soprattutto a favore delle
testate più deboli e di nuove iniziative a base cooperativa, sottratto alle
discriminazioni di parte attraverso il controllo del Parlamento.
I giornalisti sostengono che una delle strade da battere per aumentare la
diffusione dei quotidiani è quella di dare al pubblico, in genere scettico sulla
credibilità della stampa, un'informazione più ampia e meno condizionata da
interessi extraeditoriali. Il fatto che i maggiori quotidiani, diventati meno
conformisti per merito di direttori e di redattori più impegnati e sotto la spinta,
spesso vivace, dei comitati di redazione, abbiano aumentato la tiratura, appare
una conferma di questa tesi. I dati disponibili (1971), che sono ufficiosi, danno
questa graduatoria dei quotidiani più forti: Corriere della sera 603.703 copie di
media giornaliera; La Stampa 504.352; Il Messaggero 325.804; Il
Giorno 305.256. Ma la tiratura complessiva di tutti i quotidiani supera di poco i 6
milioni di copie: considerato l'aumento della popolazione, si vede che il rapporto
copie-abitanti si è modificato troppo poco.
Il 1972, un anno particolarmente difficile nella politica interna per le elezioni
anticipate, il ritorno a un governo centrista e la crescita dell'inflazione, è anche
un anno di punta per la stampa perché maturano due fatti contrastanti. Il primo
è rappresentato dall'atteggiamento di maggiore indipendenza che assumono
alcuni quotidiani d'informazione, in particolare il Corriere della sera (dir. P.
Ottone) e Il Messaggero. Il secondo fatto è l'aggravarsi della crisi del settore che
investe anche aziende editoriali finora attive. La comparsa, o la minaccia, dei
deficit mette in crisi, nel giro di pochi mesi, proprio le proprietà editoriali dei due
quotidiani citati, che sono tra le pochissime a base famigliare. Nel maggio 1973,
due dei tre proprietari dell'azienda del Corriere della sera (2 quotidiani, 4
settimanali, 1 mensile) passano la mano: le loro quote sono acquistate dalla FIAT
e dal petroliere A. Moratti. L'ingresso di Agnelli nell'azienda milanese fa ritenere
ormai prossima la formazione di una concentrazione molto vasta perché la FIAT,
oltre alla proprietà della Stampa e di Stampa sera, ha la gestione della Gazzetta
dello sport, il più diffuso quotidiano sportivo, e partecipazioni in altri due
quotidiani e in diverse case editrici librarie. Ma la vicenda, nel giro di un anno,
imbocca un'altra strada perché Agnelli, preoccupato dalle gravi ripercussioni
della crisi petrolifera e di quella generale sull'industria automobilistica, dal
difficile andamento dei rapporti col potere e dal deficit dell'azienda milanese,
decide di ritirarsi. Si arriva così, nel giugno 1974, alla cessione totale dell'azienda
del Corriere della sera all'editore A. Rizzoli, il quale effettuò la cospicua

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operazione finanziaria anche con le garanzie bancarie che gli fornisce l'allora
presidente della Montedison, E. Cefis.
Una vicenda per alcuni versi analoga accade al Messaggero. Nel maggio 1973 una
parte della famiglia Perrone, titolare del 50% del quotidiano romano e del Secolo
XIX, vende le proprie quote all'editore E. Rusconi. L'altra parte della famiglia,
guidata da A. Perrone, il quale è anche direttore dei due quotidiani, non accetta
la decisione. A. Perrone e i redattori del Messaggero denunciano gli scopi politici
dell'operazione di vendita, cioè riportare il maggior quotidiano della capitale su
posizioni moderate, e si oppongono alla nomina di un nuovo direttore fatta da
Rusconi. Questa situazione di estrema tensione dura anch'essa un anno. A
maggio del 1974, quando si registra l'ampia vittoria dei sostenitori del divorzio
nel referendum popolare, alla quale Il Messaggero aveva dato un forte appoggio,
A. Perrone annuncia che anche il suo gruppo ha deciso di vendere. Il nuovo
proprietario del Messaggero è la Montedison. Il Secolo XIX resta ad A. Perrone.
Nuovo direttore del Messaggero è I. Pietra, il quale si era dimesso dal Giorno nel
giugno 1972 (nuovo dir. G. Afeltra) dopo che R. Girotti aveva preso il posto di
Cefis alla presidenza dell'ENI. Un anno dopo, nel giugno 1975, per dissensi sulla
linea del g., Pietra si dimette. Nuovo direttore è L. Fossati.
L'ingresso del colosso della chimica e della finanza nell'editoria giornalistica,
annunciato dal presidente Cefis agli azionisti nell'aprile 1974 e motivato dalla
necessità di difendere la società dalle critiche e dagli attacchi degli avversari,
muta notevolmente la mappa dell'editoria giornalistica. La partecipazione della
Montedison, infatti, si estende in pochi mesi non in maniera diretta come nel
caso Messaggero o, comunque, nota, come nell'operazione Rizzoli, ma in forma
indiretta. Il canale di questi finanziamenti ai g. è una delle maggiori società
concessionarie della pubblicità. Il 25 giugno 1974 esce a Milano il Giornale
nuovo, fondato e diretto da I. Montanelli dopo il suo allontanamento dal Corriere
della sera in seguito ai suoi dissensi, politici e giornalistici, con una parte della
proprietà e con P. Ottone.
Il Giornale nuovo mira a staccare dal Corriere della sera i lettori più
tradizionalisti per mentalità e per orientamento politico, i quali non condividono
la nuova impostazione politica che ora caratterizza la centenaria testata milanese
e anche altri quotidiani. Ma l'impresa ha un successo più politico che editoriale,
che non danneggia il Corriere la cui diffusione è in crescita (intanto P. Ottone ha
lasciato il Corriere, sostituito da F. Di Bella a partire dal 30 ottobre 1977).
Nel frattempo, un nuovo fattore ha contribuito ad aggravare maggiormente le
difficoltà finanziarie della stampa: la vertiginosa crescita del prezzo della carta
che raggiunge e supera le 300 lire al chilogrammo. Questo fatto ha determinato
un forte aumento del prezzo dei quotidiani (da 100 a 150 lire dal 1° giugno 1974,

111
a 200 lire dal 1° maggio 1977) con flessioni pesanti sulle vendite, specialmente
nel settore dei quotidiani del pomeriggio (a Roma cesseranno le pubblicazioni
il Giornale d'Italia e Momento sera), il cui ricupero si rivela più lento che in
situazioni simili del passato.
In quanto alla stampa di tendenza e di opinione, in questo periodo si registra un
fatto nuovo, peculiare del nostro paese, che nasce dai fermenti provocati dalla
situazione internazionale e da quella interna nel settore dell'estrema sinistra: la
pubblicazione, a partire dal 1971, dei quotidiani dei cosiddetti gruppi
extraparlamentari o della nuova sinistra. Sono g. di quattro pagine, tutte
dedicate ad argomenti politici, e realizzati con mezzi molto scarsi, che all'inizio
vengono venduti a 50 lire quando il prezzo del quotidiano sta salendo da 70 a 80
e a 90 lire, e che si sorreggono con le sottoscrizioni degli aderenti e dei
simpatizzanti. Il primo è Il Manifesto (28 aprile 1971, dir. L. Pintor) promosso a
Roma dall'omonimo gruppo radiato dal PCI. Il secondo è Lotta Contimua (Roma,
11 aprile 1972, dir. A. Cambria) espressione di uno dei "gruppuscoli" più
agguerriti e aggressivi. Il terzo è il Quotidiano dei Lavoratori (Milano, 26
novembre 1974, dir. S. Corvisieri), organo di Avanguardia operaia. Le vendite dei
tre g., secondo indicazioni attendibili, oscillano fra le 25 e le 10.000 copie
ciascuno. Il più diffuso, anche per la funzione di opinione che svolge fuori della
cerchia dei militanti, è il Manifesto.
Nel settore della stampa cattolica c'è da registrare la decisione, attuata nel 1968,
di chiudere L'Avvenire di Italia di Bologna e L'Italia di Milano, fondando nel
capoluogo lombardo un quotidiano nuovo, Avvenire (dir. L. Valente, poi A.
Narducci) che finisce per riflettere le più caute posizioni assunte dalla Chiesa
dopo il concilio.
Un caso particolare, tra il 1974 e il 1975, è quello della Gazzetta del Popolo.
Quando l'editore Caprotti, che aveva rilevato il quotidiano dalla gestione
democristiana, decide di chiuderlo a causa del passivo, giornalisti e poligrafici
reagiscono con l'occupazione dello stabilimento e con l'autogestione. La vertenza
dura poco più di un anno e si chiude con l'affidamento della testata alla
cooperativa dei redattori (nuovo dir. M. Torre) e della gestione editoriale a un
nuovo editore (L. Bevilacqua).
Mutamenti sensibili avvengono anche nella mappa dei settimanali di attualità. Le
testate che dall'inizio degli anni Cinquanta avevano raggiunto tirature elevate,
superando in qualche caso il milione di copie, nell'ultima parte di questo periodo
registrano flessioni anche cospicue, mentre si afferma, sull'esempio di periodici
americani, francesi e tedeschi detti "di notizie", un tipo diverso di settimanale a
piccolo formato. Il primo a realizzare un prodotto diretto a soddisfare la
crescente domanda di un riassunto settimanale dei fatti di ogni genere, con la

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messa a fuoco dei principali e accompagnato dalle valutazioni e dalle opinioni del
giornale e dei suoi columnists, è Panorama (dir. L. Sechi). Nel 1974
anche L'espresso (dir. L. Zanetti), che quattro anni prima si era rafforzato con la
creazione di un supplemento economico coordinato da E. Scalfari, adotta il più
moderno formato di Panorama, ottenendo anch'esso un particolare successo.
L'esempio viene seguito, nel 1975, da Il Mondo (ricomparso alla fine del 1969 e
poi acquistato dall'editore Rizzoli) ma con risultati modesti tanto che, nel maggio
1976, viene trasformato in un settimanale prevalentemente economico (dir. P.
Panerai); la stessa scelta di formato viene fatta nel febbraio 1976 da Tempo (dir.
C. Gregoretti), che, tuttavia, ebbe breve vita.
Nel campo dei quotidiani una novità interessante è l'uscita, il 14 gennaio 1976,
de La Repubblica, fondato e diretto da E. Scalfari ed edito da una società in cui
concorrono in parti uguali la Mondadori e il gruppo dell'Espresso. L'impostazione
è nuova per il nostro paese perché il formato è tabloid (metà di quello
tradizionale), le pagine sono 20 (cioè 10 normali) e il contenuto è quasi
esclusivamente politico, economico-finanziario e culturale. La tiratura dichiarata
si aggira sulle 135-140.000 copie giornaliere.
Conclusioni. - Nel triennio iniziato nel 1975 i g., o meglio tutto il settore
dell'informazione perché è in corso l'attuazione, molto contrastata, della riforma
radiotelevisiva, si trova in una situazione nuova e difficile, sia dal punto di vista
generale che particolare. La formula di centro-sinistra si esaurisce del tutto. Le
elezioni amministrative del 15 giugno 1975, confermando la crisi della DC e una
forte avanzata del PCI, sono lo specchio di una situazione politica mutata, nel
contesto di una crisi economica che si sviluppa in termini più gravi del previsto.
Nuove tensioni si determinano, quindi, nel paese, mentre il dibattito politico si
concentra sul problema della partecipazione o no del partito comunista al
governo o alla maggioranza governativa; un problema che l'esito del voto nelle
elezioni politiche del 20 giugno 1976 accentua.
Sui giornali quotidiani pesa un deficit globale molto elevato: per il 1975 si parla
di circa 90 miliardi. Questo fatto spinge governo e parlamento a predisporre e a
votare, d'urgenza e all'unanimità, una legge (6 giugno 1975, n. 172), che prevede
cospicui aiuti all'editoria giornalistica (circa 45 miliardi all'anno per un biennio,
destinati in prevalenza a sovvenzioni sul prezzo della carta) e che, praticamente,
insabbia i progetti di riforma dell'informazione sollecitati dai sindacati del settore
e, in un primo tempo, caldeggiati anche da diverse forze politiche. L'aggravarsi
del deficit dà, inoltre, una nuova spinta a operazioni di concentrazione,
intrecciate a manovre politiche, delle quali è protagonista Rizzoli. Questa
situazione suscita inquietanti interrogativi sul futuro e reale assetto editoriale dei
quotidiani e sui condizionamenti che restringono i loro spazi d'indipendenza. E li

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suscita proprio nel momento in cui, anche sulla base delle recenti esperienze che
abbiamo ricordato, è più marcata l'esigenza sia di rendere più liberi e autonomi
dal potere politico e da quello economico, più aderenti alle aspettative della
società e più rispettosi del diritto dei cittadini all'informazione; sia di risanare i
bilanci delle aziende; sia, infine, di creare condizioni oggettive che permettano un
più articolato pluralismo delle voci.
Bibl.: I. Wiess, Politica dell'informazione, Milano 1961; M. Monicelli, Il
giornalista, Firenze 1964; I. Weiss, Il potere di carta, Torino 1965; G. Mottana, Il
mestiere del giornalista, Milano 1967; A. Del Boca,Giornali in crisi, Torino 1968; Il
potere nei giornali, Atti del Convegno UCSI 1969, Padova s.d.; Annuario dei
giornalisti 1971-1972, a cura del Consiglio nazionale dell'Ordine dei giornalisti,
Roma 1971; V. Capecchi, M. Livolsi, La stampa quotidiana in Italia, Milano 1972;
G. Bechelloni, Informazione e potere, Roma 1974; R. Fiengo, Libertà di stampa:
anno zero, Firenze 1974; P. Murialdi, La stampa italiana del dopoguerra 1943-
1972, Roma-Bari 19743; G. Fusaroli, Giornali in Italia, Parma 1974; F. Borio, C.
Granata, S. Ronchetti, Giornali nella tempesta, Torino 1975.

Comizi
comizio s. m. [dal lat. comitium, comp. di com- (= cum) e -itium dal tema
di ire «andare»; cfr. coire «andare insieme, unirsi»]. – 1. In Roma
antica: a. Luogo (alle pendici del Campidoglio, all’angolo nord del Foro) dove si
adunavano i cittadini divisi per curie. b. Al plur. (in lat. comitia), assemblea del
popolo intero, tenuta sotto la direzione di particolari magistrati; secondo che il
popolo vi partecipasse diviso per curie, centurie, tribù, si avevano i c. curiati (che
investivano del potere i re e i magistrati ed erano interpellati in caso di
dichiarazione di guerre); i c. centuriati (cui spettava l’elezione dei magistrati,
l’approvazione delle leggi e il giudizio di speciali processi); i c. tributi(che
avevano il compito di eleggere i magistrati minori, approvare talune leggi e
giudicare particolari processi). Assemblee popolari erano anche
i c. calati (lat. comitia calata) che, diretti dai pontefici, erano radunati per motivi
religiosi, e anche per le arrogazioni e per la presentazione dei
testamenti. 2. estens. a. Adunanza solenne di popolo per discutere e deliberare
su problemi d’interesse comune, per esprimere un voto, ecc.; in
partic., c. elettorali, espressione con cui vengono indicate talora, con tono più
elevato e solenne, le operazioni elettorali per le elezioni politiche, soprattutto
nella formula ufficiale convocare i c. elettorali, indire le elezioni. b. Nell’uso com.,
riunione pubblica, generalm. all’aperto, a carattere politico o sindacale, nel corso
della quale uno o più oratori espongono il punto di vista di un partito o di una
corrente politica su problemi o fatti di attualità; in particolare quelle tenute dai

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candidati alle elezioni politiche o amministrative: organizzare, tenere un
c.; partecipare a un c.; sciogliere un c. non autorizzato.

Letteratura popolare
Prima del XIX secolo tra la gente comune dentro e fuori le città circolano
almanacchi, vite di santi, fiabe, invettive satiriche e immagini che esprimono
un’autonoma attività folklorica in gran parte non sfiorata dai valori letterari
d’élite. Il romanticismo segna invece il passaggio dal folklore tradizionale a una
più moderna forma di cultura di massa, espressione delle classi medie e inferiori
del loro desiderio di coinvolgimento politico o di distrazione, e insieme
adattamento entro il sistema dei generi popolari di un’estetica che, con la
Rivoluzione francese, si socializza, trasferendosi dai salotti settecenteschi alle
piazze e ai teatri. Tale trapasso istituzionale ridefinisce il canone letterario
secondo una morfologia anticlassica che ammette la versificazione più libera in
poesia (enjambement, rime approssimate, vocabolario ampio), l’accantonamento
delle tre unità drammatiche di tempo, spazio, azione, la fusione di comico e
tragico nel teatro in prosa (con la conseguenza che nessun contenuto viene
scartato solo perché non appropriato a virtù e valori classici) e il "medievalismo"
sul modello di Walter Scott, con figure energiche, conflitti drammatici e un
apparato scenico "goticheggiante". Sul versante "popolare", dove le precedenti
opere di poesia, teatro e narrativa erano state semplici nella forma, anonime per
origine e liberamente disponibili nella ricezione, i nuovi testi divengono in certa
misura più complessi, assimilando quegli elementi della poetica d’élite che
vengono filtrati da mediatori professionisti, socialmente distinti dal pubblico dei
destinatari. Viene così meno una genuina cultura popolare, legata ai moduli
dell’oralità, e nasce la letteratura commerciale in forma stampata e venduta a
prezzo modico. Non va infatti dimenticato che il romanticismo del primo
Ottocento coincide con lo sviluppo dell’editoria, dell’alfabetismo (che oscilla
dall’80 percento della Prussia al 2 percento del Meridione italiano), della
politicizzazione delle masse (con la conseguente curiosità intellettuale) e con la
borghesizzazione dello scrittore di qualunque condizione sociale: la nuova
generazione di autori postrivoluzionari impara presto a trarre profitto dal
mercato culturale. Con la nozione di "letteratura popolare" non si intende dunque
uno scrivere dal popolo, ma per il popolo e, solo in qualche caso, col popolo.
Bisogna allora chiedersi che cosa intendono i romantici per "popolo". Il termine
non è univoco, ma per lo più allude a un complesso di valori morali (naturale
semplicità e sanità, spesso contrapposte all’artificiosità dei costumi moderni) ed
estetici (creatività originaria e spontanea della poesia e dell’arte) connessi
all’identità della "nazione": il popolo rappresenta la parte sana, custode della

115
tradizione autentica di una collettività. A questa entità intesa come anima
nazionale e alla sua cultura (canti, leggende, fiabe e storie) si rivolgono
intellettuali quali Walter Scott, Clemens Brentano, Achim Arnim, i fratelli Grimm
e più tardi Niccolò Tommaseo per rintracciare documenti del passato e spontanee
testimonianze della poesia medievale e cristiana. A parte i casi di Georg Büchner
– che "scopre" il quarto stato denunciandone le sofferenze con il soldato
Woyzeck – e di Heinrich Heine – che a Parigi entra in contatto con Karl Marx – ai
letterati ottocenteschi manca dunque il concetto socioeconomico di "classe"
popolare e, con esso, quelli della divisione dei poteri e della contrapposizione
degli interessi.
Verso la metà del secolo, allorché l’entusiasmo romantico verso la cultura
"primitiva" lascia il posto a studi antropologici scientificamente più rigorosi e la
"massa" dei lettori comincia a organizzarsi come "pubblico", assurgendo al ruolo
del committente che vuole ritrovarsi in opere contemporanee, si afferma una
tendenza culturale definita con il termine di "populismo"; esso consiste nella
rappresentazione degli umili come modelli di moderni valori positivi (lavoro,
risparmio, igiene, rispetto, famiglia) in una società organica in cui gli individui
collaborano, ciascuno secondo la propria funzione e senza alcuna conflittualità.
Mentre l’operaio di fabbrica va acquistando coscienza e forza sociale, la
letteratura esclude il proletariato e si fa "campagnola" o "piccolo-medio
borghese", approntando una produzione middlebrow adatta anche al pubblico
femminile, che si addentra volentieri nella sfera del privato e segue con
partecipazione la cronaca di vicende socio-familiari in cui chi dirige si assume la
responsabilità del destino amoroso, umano e sociale dei sottoposti (a cui non
spetta, quindi, provvedere da sé a emanciparsi). A parere della critica marxista, il
letterato ottocentesco, filantropo e paternalista, non rappresenta la realtà del
sistema economico borghese, basata sullo sfruttamento.
Resta comunque vero che la "folla" si è imposta sia come tema specifico, sia
come presenza sociologica sottesa alla produzione e in certa misura incombente.
Il letterato guida il popolo
Nella prima metà del secolo alcuni artisti partecipano con il popolo alle questioni
politiche, assumendo la missione di profeti dei destini nazionali. Nella tela La
Libertà che guida il popolo Eugène Delacroix celebra l’esperienza della
rivoluzione parigina del 1830, mentre con Le fucilazioni Francisco Goya fa vivere
allo spettatore la notte di sangue alla Puerta del Sol: così i pittori saldano l’arte
alla vita, secondo un canone civile di testimonianza della storia del proprio
tempo. Anche la scrittura si mescola alla realtà moderna per opera del poeta-
vate, figura di patriota romantico che nasce tra Germania e Italia, allorché le
lotte per l’indipendenza coinvolgono l’intera collettività. Infiammato dai Discorsi

116
alla nazione tedesca di Fichte e sotto l’urgenza dell’invasione napoleonica del
1812-1813, Theodor Körner unisce la "lira" alla "spada" sino alla precoce morte
sul campo che ne consacra la fama di "poeta-soldato" (Alessandro Manzoni gli
dedica Marzo 1821) . Come le poesie di guerra di Körner, quelle del Risorgimento
italiano propongono il linguaggio e lo stile della prosa, con versi parisillabi e
cadenze facilmente orecchiabili, non senza enfasi retorica e reminiscenze
classiche (basti pensare all’"elmo di Scipio" del Canto nazionale di Goffredo
Mameli), badando comunque sempre agli effetti sul destinatario popolare, sul
cittadino che deve essere educato alle virtù, alla libertà della patria, all’interesse
della cosa pubblica.
In altro contesto, animato non tanto da una tematica politico-patriottica
immediata, quanto dall’epica celebrazione di vicende passate o dall’amoroso
recupero delle tradizioni, Aleksandr Sergeevic Puškin si erge a "profeta" dei
"cuori degli uomini", dando impulso a una cultura nazionale e popolare, i cui
effetti sono visibili in Turgenev e Gogol’, in Gončarov e Tolstoj.
In Francia intanto l’oratoria popolare diviene voce di protesta con Victor Hugo, la
più vistosa esemplificazione del poeta-vate impegnato nel dibattito politico-
sociale: in sede parlamentare interviene contro la pena di morte e per il
miglioramento delle condizioni del popolo; finito in esilio dopo il trionfo di
Napoleone III, scrive contro l’"usurpatore" gli aspri componimenti dei Castighi e
infine, ritornato a Parigi, celebra la grandiosità dell’esperienza della Comune e si
batte per l’amnistia ai comunardi. Ma il cantore della "folla" non cerca
"popolarità" solo con l’attività politica e con la lirica. Abile nell’identificare le
attese del pubblico e arguto manipolatore delle tecniche retoriche, Hugo
sperimenta il romanzo e sin dal titolo – con I miserabili e poi con I lavoratori del
mare – si rivolge agli umili, affidando loro una serie di personaggi emblematici: il
generoso ex forzato Jean Valjean, il santo vescovo Myriel, la sedotta e
abbandonata Fantine con la figlia Cosette, lo spietato commissario Javert, il
monello Gavroche, il patriota Marius. Grande affresco della società francese del
primo Ottocento, feuilleton e insieme opera umanitaria, I miserabili ottiene un
successo straordinario.
La vicenda letteraria di Hugo è paradigmatica dell’adattamento di un artista al
suo pubblico: da un lato autore collettivo di poesia agonale nei toni
melodrammatici di Verdi, dall’altro scrittore di intrattenimento che, accanto a
elementi seri e impegnati di analisi sociale, offre materiali "patetici", tra
avventura e mistero. Stringendo una fattiva collaborazione col mercato in
divenire, il poeta romantico soggiace da ultimo alla legge della produzione e del
consumo, accettandone le regole: se il contesto popolare diversifica i suoi
interessi (dal politico al sociale e al sentimentale), il prodotto letterario deve

117
acquisire competenze specifiche per servire i molteplici gruppi. Questa è la
cultura di quei "secoli democratici" che, secondo il lungimirante Alexis de
Tocqueville, prediligono la "scintillante" varietà delle emozioni in modo da
dimenticare una quotidianità alienata dalla divisione del lavoro. E se, a partire
dalla rivoluzione industriale, il popolo chiede un compenso onirico giornaliero al
letterato, questi elargisce con benigna concessione una grande "massa" di testi
straordinariamente omogenei nella struttura elementare e ripetitiva e
nell’ideologia conservatrice.
Il romanzo per il popolo
Victor Hugo non è il primo a sperimentare l’efficacia dei moduli narrativi
del feuilleton: personaggi ordinati secondo opposizioni semantiche assai nitide;
vicende di persecuzione e seduzione che, attraverso agnizioni, rivelazioni,
smascheramenti e travestimenti, determinano il trionfo finale della giustizia;
tecnica della suspence, con apposite forme di controllo del tempo e artifici
ritardanti come il cliffhanger (momentanea interruzione di una sequenza
aneddotica).

Sydney Sonnino
Sidney Costantino Sonnino (Pisa, 11 marzo 1847 – Roma, 23 novembre 1922) è
stato un politico italiano.
Barone, nato in una nobile famiglia da padre di origini ebraiche e da madre
britannica, era anglicano. Ministro delle finanze e ministro del tesoro del Regno
d’Italia dal 1893 al 1896, riportò il bilancio dello Stato al pareggio e si oppose
alla dispendiosa politica aggressiva di Francesco Crispi in Etiopia.
Fu Liberale conservatore ed esponente della Destra storica.
Nel 1897 intravide nel clericalismo cattolico e nel socialismo delle minacce per il
Paese e sostenne la necessità di un maggiore rispetto dello Statuto albertino con
una piena restaurazione del potere esecutivo da parte del re.
Fu presidente del Consiglio dei ministri dall’8 febbraio al 29 maggio 1906 e
dall’11 dicembre 1909 al 31 marzo 1910.
Nel 1914 divenne Ministro degli affari esteri e con tale carica, che conservò fino
al 1919, condusse le trattative che portarono alla firma del patto di Londra. Con
tale accordo l’Italia si impegnò ad entrare nella Prima guerra mondiale contro
l’Austria.
Dopo la vittoria, alla conferenza di pace, partecipò alle trattative rivendicando
per l’Italia i territori promessi dal patto di Londra contro la posizione degli Stati
Uniti.
Fu meridionalista e si occupò delle problematiche della classe contadina
sostenendola.

118
Torniamo allo statuto
Specificatamente auspicò una restaurazione dei poteri del re e una
riaffermazione della responsabilità del governo unicamente nei confronti del
sovrano. L'articolo ebbe una notevole risonanza ma, per il suo contenuto
anacronistico, non un seguito parlamentare.

Il cittadino
Essere Cittadini significa partecipare attivamente alla vita pubblica della
comunità a differenza del suddito che non ha alcun diritto, è subordinato al
sovrano e non ha nessuna prerogativa politica.
Diritti e doveri dei cittadini
Lo Stato italiano in quanto Stato di diritto riconosce e garantisce a tutti i cittadini
la titolarità di posizioni giuridiche attive che essi possono far valere nei confronti
di altri cittadini e delle autorità pubbliche. La Parte I della Costituzione (artt.14-
54) tratta dei diritti e dei doveri riconosciuti in capo ai cittadini.

I diritti garantiti ai cittadini sono i diritti di libertà sia individuali che collettivi.

Tra i diritti individuali di libertà sono indicate le:

- libertà personale;

- libertà di domicilio, di circolazione e di soggiorno;

- libertà di manifestazione del pensiero.

Tra i diritti collettivi di libertà sono comprese le:

- libertà di riunione;

- libertà di associazione;

- libertà di religione.

Tra i diritti garantiti dalla Costituzione si distinguono inoltre i diritti


sociali, ovvero quelli improntati a eliminare le disuguaglianze esistenti all'interno
della società, garantendo ai soggetti delle posizioni attive di pretesa nei confronti
dei poteri pubblici. Essi sono:

119
- diritto alla salute;

- diritto all’istruzione;

- diritto al lavoro;

- libertà di iniziativa economica.

Come contropartita ai diritti, la Costituzione individua alcuni doveri - ovvero


situazioni giuridiche passive consistenti nell'obbligo di osservare determinate
disposizioni o di comportarsi in un determinato modo - cui sono tenuti i cittadini
e che agiscono quali limiti al godimento ed all'esercizio delle libertà. Essi sono:

- dovere di difesa;

- dovere di contribuire alle spese pubbliche;

- dovere di fedeltà alla Repubblica e di osservanza alla Costituzione.

Se lo stato non avesse rispettato le idee del cittadino avrebbe scoppiato dei moti
ricordiamo le cinque giornate di Milano

Cinque giornate di Milano


Nel 1948 il malcontento all’interno della città di Milano, parte dell’Impero
austriaco, raggiunse livelli critici, raggiunse livelli critici tra i milanesi e gli
austriaci, sotto continue interpretazioni negative da parte di entrambe le
posizioni. Nel settembre 1947 il nuovo arcivescovo Carlo Bartolomeo Romilli, a
sostituzione dell’austriaco Karl Kajetan von Gaisruck, i festeggiamenti popolari
provocarono la reazione delle Polizia sulla folla, provocando la morte di un
milanese e ulteriori feriti.
Ne 1948 i milanesi decisero di smettere di fumare per colpire direttamente le
entrate erariali provenienti dalla tassa sul tabacco, mentre la risposta austriaca
inviò forze militari per strada fumando sigari. Al termine dello sciopero si
contarono 6 morti e oltre 80 feriti. La conseguente decisione del re Ferdinando
II, avvenuta a seguito del 12 gennaio con la rivolta di Palermo, promuovendo la
concessione della Costituzione, la promulgazione dello Statuto Albertino, le
Costituzioni nel Granducato di Toscana e nello Stato Pontificio, favorì un ulteriore
peggioramento della situazione a Milano.

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Riassunto delle Cinque Giornate di Milano
Dal 16 marzo del 1848 iniziarono a circolare voci in merito alla presa di posizione
di Francia, Austria, Ungheria, Boemia e Croazia, sfociando in una catena di eventi
a promozione della Prima guerra di indipendenza. Sotto la dominazione
dell’Impero austro-ungarico la città di Milano si trovava sotto il comando del
maresciallo Radetzky, il quale guidò la sommossa delle cinque giornate di
ribellione.
Durante l’arco delle prime tre giornate di conflitto le forze armate austriache si
dimostrarono in netta difficoltà contro i cittadini milanesi, forti delle violenze
subite da parte della Polizia, costringendole a chiedere l’armistizio il 20 marzo del
1848, sotto la costruzione di un governo provvisorio da parte della popolazione.
Nella giornata del 21 marzo le forze dell’esercito rivoluzionario arrivarono
a conquistare tutte le caserme controllate dalle forze austriaco, costringendo il
maresciallo Radetzky a dichiarare la ritirata.
Il 23 marzo del 1848 la città di Milano veniva dichiarata ufficialmente
libera dall’opposizione austriaca, sotto la formazione di un nuovo governo. Forte
della ribellione e della vittoria dei milanesi re Carlo Alberto decise di
dichiarare guerra all’Impero Austro-Ungarico, promuovendo la formazione di
forze militare dal Veneto e dalla Lombardia, proclamando l’inizio della Prima
guerra di indipendenza.

Umberto I di savoia
Umberto I nacque nel 1844 a Torino da Vittorio Emanuele II e Maria Adelaide,
figlia di Ranieri d’Asburgo. Ebbe una formazione prevalentemente militare ed era
già generale nel 1866, quando partecipò alla terza guerra d’indipendenza,
combattendo nella battaglia di Custoza. Nel 1868 sposò la cugina Margherita di
Savoia, figlia del duca di Genova, che gli diede un figlio, il futuro Vittorio
Emanuele III. Dopo la presa di Roma (1870) si stabilì nella nuova capitale.
Salito al trono alla morte del padre, nel 1878, Umberto I ebbe alto il senso
dell’unità nazionale, che manifestò con numerosi viaggi in tutta Italia. In
occasione di alcune catastrofi – un’inondazione nel Veronese nel 1882, un
terremoto a Casamicciola (Ischia) nel 1883, la diffusione di un’epidemia di colera
a Napoli e in Piemonte nel 1884 – partecipò personalmente, insieme alla regina
Margherita, ai soccorsi, meritandosi l’appellativo di «re buono».
L’AVVENTURA COLONIALE
Umberto I proseguì la politica del padre, incoraggiando il governo di Agostino
Depretis ad avvicinare l’Italia agli imperi dell’Europa centrale, e dopo
l’occupazione francese della Tunisia (1881), che interessava anche l’Italia, si
giunse nel 1882 alla firma della Triplice Alleanza tra Italia, Austria-Ungheria e

121
Germania. Umberto I appoggiò con vigore anche la politica di espansionismo
coloniale dei governi di Depretis e di Francesco Crispi. Le iniziative diplomatiche
e militari nel Corno d’Africa consentirono di acquisire la Somalia e l’Eritrea,
mentre fallì, in seguito alla sconfitta subita dagli Italiani ad Adua (1896), il
tentativo di conquistare l’Etiopia. Il re avrebbe voluto cercare la rivincita, ma
Crispi, di fronte alle proteste del paese, si dimise, ponendo fine all’avventura
coloniale.
LA CRISI DI FINE SECOLO
Di idee conservatrici, Umberto I assistette con preoccupazione alla crescita del
movimento operaio e contadino. In quegli anni sorsero leghe, cooperative e
camere del lavoro, furono organizzati scioperi, occupazioni di terre e
manifestazioni e, accanto ai movimenti anarchici e repubblicani, nacque nel 1892
un forte Partito socialista. Di fronte al pericolo ‘rosso’ il re, ammiratore
dell’energico imperatore tedesco Guglielmo II e del militarismo prussiano,
appoggiò la politica autoritaria di Crispi e dei governi successivi (Antonio
Starabba di Rudinì, Luigi G. Pelloux). Approvò la repressione militare dei Fasci
siciliani e dei moti anarchici in Lunigiana operata dall’ultimo governo Crispi
(1894). Nel 1899 appoggiò il tentativo del generale Pelloux di rafforzare i poteri
del governo e di limitare i diritti dei cittadini con una serie di leggi liberticide, ma
tale disegno venne meno per la dura opposizione in parlamento e nel paese, nel
corso di quella che fu definita la «crisi di fine secolo». Il re era già stato oggetto
di due attentati: l’uno a Napoli nell’anno della sua incoronazione a opera
dell’anarchico Giovanni Passanante, l’altro nel 1897 a Roma, per mano
dell’anarchico Pietro Acciarito.
L’ATTENTATO
Nel 1898 ebbero luogo i tragici fatti che decisero la sorte del re. A Milano il
generale Bava Beccaris sparò cannonate sulla folla che manifestava contro
l’aumento del prezzo del pane, provocando, secondo le fonti ufficiali, 82 morti e
503 feriti e, secondo altre fonti, oltre 300 morti e un migliaio di feriti. Umberto I
conferì al generale per «il servizio reso alle istituzioni e alla civiltà» la Croce di
grande ufficiale dell’ordine militare di Savoia, una delle massime onorificenze del
regno.
Per vendicare le vittime di Milano e punire il comportamento tenuto dal sovrano,
un anarchico italiano che viveva in America, Gaetano Bresci, tornò in Italia per
uccidere Umberto I. L’attentato ebbe successo e il re cadde a Monza il 29 luglio
1900, nei pressi della Villa Reale.

Vittorio Emanuele III

122
Vittorio Emanuele Ferdinando Maria Gennaro di Savoia nacque da Umberto I e
Margherita di Savoia l’11 novembre 1869 a Napoli: luogo scelto con l’obiettivo di
suscitare consensi nel ‘Sud borbonico’. Il parto non fu facile: Margherita non
avrebbe più avuto figli. Di salute piuttosto cagionevole, Vittorio Emanuele era di
bassa statura e di carattere serio, riflessivo, ma anche freddo e cinico. Scarso fu
l’affetto dei genitori, che a dodici anni lo affidarono alle cure del colonnello Egidio
Osio, rigido, esigente ma anche duraturo punto di riferimento per il principe,
primo Savoia a raggiungere una cultura di livello universitario. Lo dimostrarono il
suo approccio consapevole e pignolo alle questioni di Stato, e le conoscenze di
numismatica, storia e geografia: tra il 1910 e il 1943 scrisse il Corpus nummorum
Italicorum e, come sovrano, fu chiamato più volte come mediatore in trattati di
pace e dispute di confine. A venti anni iniziò una rapida carriera militare (nel
1890 era già colonnello), dimostrandosi ufficiale efficiente e puntiglioso, buon
conoscitore della materia militare: ormai generale, fu critico verso la campagna
d’Africa del 1895-96 (Bertoldi, 1970, p. 89). Interruppe la vita di caserma solo
con viaggi che completarono la sua formazione. Dopo un faticoso debutto in
società (1888), ebbe le prime avventure galanti e, inevitabilmente, la corte
(coadiuvata anche da Francesco Crispi) prese a pianificare un matrimonio: anche
per le resistenze del principe a nozze combinate, non se ne fece nulla sino al
1894. Si cercava, però, una principessa utile diplomaticamente all’Italia. La scelta
cadde su Elena del Montenegro: ventitreenne, non molto aggraziata, ma di
lineamenti dolci e gentili. All’insaputa di Vittorio Emauele, si favorirono occasioni
d’incontro fra i due che, simili per carattere, si intesero rapidamente. Gli accordi
tra le casate furono semplici e il fidanzamento breve. Elena rinunciò al credo
ortodosso e il 24 ottobre 1896 si celebrarono le nozze. Seguirono gli anni più
felici per Vittorio Emanuele. La coppia condivideva affetto sincero e una vita
riservata e quasi frugale. Comuni anche le passioni: fotografia, pesca, vita in
campagna e viaggi per mare. I figli arrivarono tardi, ma numerosi: Jolanda nel
1901, Mafalda nel 1902, Umberto nel 1904, Giovanna nel 1907 e Maria Francesca
nel 1914. In quegli anni Vittorio Emanuele pensò di rinunciare al trono in favore,
forse, di una carriera accademica (Puntoni, 1993, p. 223). Il regicidio, però,
cambiò tutto. Quando Umberto I fu assassinato (29 luglio 1900), Vittorio
Emanuele ed Elena erano in crociera in Grecia a bordo del loro yacht Yela. Da lì
raggiunsero Reggio di Calabria e poi Monza. Vittorio Emanuele debuttò
impegnandosi a «consacrare ogni cura di re» (Spinosa, 1990, p. 89) alle
istituzioni e alla monarchia. Già nel suo primo incontro con il capo del governo
Giuseppe Saracco chiarì di volere vedere i decreti in anticipo perché «il re vuole
firmare errori suoi, possibilmente, non errori degli altri» (Bertoldi, 1970, p. 162).
Le sue prime mosse furono sorprendenti: seppe sfruttare la solidarietà nazionale

123
scaturita dal regicidio (evitando di rispondervi con provvedimenti restrittivi) e il
naturale moto di umana simpatia per il giovane e riservato principe,
improvvisamente orfano. Caduto il governo di Saracco (febbraio 1901), tenne
fede alla propria visione chiamando Giuseppe Zanardelli – leader del
centrosinistra – che, per riuscire a formare il governo, nominò al ministero degli
Interni Giovanni Giolitti, la cui apertura verso le classi lavoratrici fu a lungo
sostenuta dal re. I due, nonostante alcuni tratti in comune, non diventarono mai
amici, ma collaborarono per quattordici anni (con Vittorio Emanuele convinto
fautore della ‘copertura’ ministeriale della Corona). Gli anni della cosiddetta
monarchia socialista furono tra i più positivi del regno di Vittorio Emanuele, pur
in presenza di scioperi e sommovimenti sociali. Si raggiunsero la parità aurea, il
potenziamento del sistema scolastico, il suffragio universale maschile, la
statalizzazione delle ferrovie, la consacrazione dei principali marchi dell’industria
pesante italiana e una notevole modernizzazione dell’agricoltura. I socialisti
furono a un passo dall’entrata al governo e i cattolici ottennero dal papa il
permesso di tornare a votare (anche se solo in situazioni di necessità). Era
diffusa l’impressione di «un Paese serio, con un re serio» (ibid., p. 194) che si
fece sentire in materia di politica estera, sempre ‘sotto la copertura’ di ministri
scelti tra diplomatici di fiducia. Vittorio Emanuele non era in sintonia con Austria
e Germania e si allontanò progressivamente dalla Triplice Alleanza, avvicinandosi
segretamente alle potenze occidentali e alla Russia, come mostrò la campagna di
Libia del 1911. Il re, per tutelare gli interessi italiani in Africa del Nord, avrebbe
preferito la via diplomatica, ma si risolse all’azione bellica davanti al sorgere di
forze nazionaliste e «tendenze guerrafondaie che egli non poteva ignorare»
(Mack Smith, 1989, p. 241). Allo scoppio della Prima guerra mondiale l’Italia si
dichiarò tuttavia neutrale: tale rimase fino a quando il primo ministro Antonio
Salandra e il ministro degli Esteri Sidney Sonnino – sostenuti fortemente dal re,
durante trattative segrete – si legarono all’Intesa con il Patto di Londra (26 aprile
1915). L’impegno bellico giovò al re dopo i difficili mesi di crisi internazionale,
complicati da uno dei rari momenti di tensione con Elena. Si recava di frequente
al fronte (da qui il soprannome di ‘re soldato’) dove visitava la truppa,
fotografava e annotava con puntiglio ogni dettaglio, cogliendo presto le lacune
dell’esercito e del comando. Dispose però la sostituzione del capo di stato
maggiore Luigi Cadorna con Armando Diaz solo dopo la sconfitta di Caporetto. L’8
novembre 1917, a Peschiera, nell’incontro tra i vertici politici e militari
dell’Intesa, espose senza interpreti un’analisi puntuale della difficile situazione
militare, confermando la propria fiducia nella riorganizzazione dell’esercito. Il
suo intervento portò alla ratificazione degli aiuti discussi precedentemente a
Rapallo. La risoluzione positiva del conflitto creò il mito del ‘re vittorioso’,

124
convinto di aver «concluso il ciclo delle guerre risorgimentali e di aver dato un
nuovissimo lustro (e una più sicura esistenza) alla corona» (Bertoldi, 1970, p.
278). Il dopoguerra, invece, fu difficilissimo. Il governo Nitti si adoperò per un
allargamento del suffragio, dal re giudicato comunque insufficiente. D’altro lato,
Francesco Saverio Nitti non seppe gestire la crisi dannunziana di Fiume (1919),
risolta invece nel giugno del 1920 da Giolitti che però (come poi Ivanoe Bonomi)
non riuscì a portare i socialisti moderati nel governo e si alienò definitivamente le
simpatie del re provando a limitarne il controllo sulla diplomazia. Con le
agitazioni del ‘biennio rosso’ crebbero i timori di una rivoluzione comunista e si
affermarono movimenti nazionalisti e antidemocratici. Benito Mussolini e i Fasci
di combattimento, pur non graditi al re, gli apparivano un possibile freno alla
rivoluzione. Quando, nel 1922, Mussolini preparò la marcia delle camicie nere su
Roma, Luigi Facta, informatone mentre stava continuando a trattare un’entrata
dei fascisti nel governo, non ritenne opportuno chiedere al re il rientro nella
capitale. Saltato ogni accordo, il primo ministro, nella notte del 26 ottobre,
telegrafò allarmato al sovrano che arrivò a Roma la sera del 27, determinato a
resistere alla minaccia fascista. Alle due di notte concordò con Facta un decreto
di stato d’assedio affrettatamente diffuso. Il mattino dopo Facta si presentò da
Vittorio Emanuele per la firma sul decreto, ma questi lo sorprese con un rifiuto e
con la decisione di formare un nuovo governo. Sulla scelta di Vittorio Emanuele,
con ogni probabilità, pesarono considerazioni dinastiche (il duca d’Aosta
Emanuele Filiberto, che spalleggiava il fascismo, avrebbe potuto essere messo sul
trono e la regina madre non nascondeva simpatie autoritarie), il timore di una
rivoluzione che avrebbe travolto il Paese, i dubbi sulla tenuta delle Forze armate
(il generale Diaz l’aveva presupposta, senza però garantirla in assoluto), la
scarsità delle alternative a Mussolini (Giolitti non era più un’opzione e gli altri
capi liberali non sembravano all’altezza), il supporto che intellettuali e industriali
avevano garantito al fascismo; e, ancora, le rassicurazioni del quadrunviro Cesare
De Vecchi circa la ‘sterzata’ filomonarchica e la volontà del suo capo di rimettere
‘al proprio posto’ l’estrema sinistra. Dopo un primo, forse solo strategico,
tentativo con Salandra, Mussolini fu incaricato di formare il governo. Il re
disprezzava eccessi e volgarità del fascismo, ma sperava che il futuro duce
rendesse un servizio al Paese e alla dinastia che, comunque, gli sarebbe
sopravvissuta. Nel 1924 la controversa legge elettorale maggioritaria Acerbo
assegnò ai fascisti la prevalenza assoluta. Dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti
e la ‘secessione dell’Aventino’, al re giunsero a più riprese osservazioni e
memoriali dalle opposizioni ma, disapprovando l’Aventino, chiese sempre che
fosse il Parlamento a sfiduciare il governo: solo a quel punto avrebbe agito. Da
tale formalismo derivò un fatale immobilismo. Superata la crisi, Mussolini riprese

125
slancio. Tra il dicembre del 1925 e il gennaio del 1926 il re Vittorio Emanuele
firmò le ‘leggi fascistissime’ (che portarono tra l’altro allo scioglimento di tutti i
partiti, tranne quello fascista, resero il capo del governo responsabile solo
davanti al monarca, istituirono un tribunale speciale per la difesa dello Stato,
competente per i reati politici). La monarchia s’indeboliva, ma restava anche
l’unico argine al fascismo. In privato il re non mancava di criticare i
provvedimenti del governo, soprattutto quando toccavano le prerogative della
Corona. Ma in pubblico, specie durante gli ‘anni del consenso’, difficilmente
mostrò di discostarsi dalla politica del regime: il Paese sembrava seguire
compatto il duce e ci furono momenti in cui Vittorio Emanuele s’illuse di «aver
puntato sul cavallo buono» (Bertoldi, 1970, p. 346). La propaganda fascista
esaltò la coesione tra regime e monarchia, nel quadro di una diarchia che
affiancava la mitizzata figura del virile duce a quella del ‘piccolo’ re. Mussolini,
all’apice del potere, cominciò a pensare di sbarazzarsi della Corona. Gli screzi,
soprattutto a livello istituzionale, si moltiplicarono: in particolare non fu mai
digerita a corte l’attribuzione al costituzionalizzato Gran Consiglio del fascismo
(1928) della possibilità di pronunciarsi sulla successione al trono. Ma in fondo la
‘rivoluzione istituzionale’ scalfì appena la Corona e i successi del regime, con la
stabilizzazione interna e il rinnovato prestigio internazionale, tranquillizzarono il
re. Nel 1929 venne poi siglato il concordato con la Chiesa cattolica: grande
successo per il regime, riconosciuto anche dal re, nonostante le sue riserve verso
il Papato. Vittorio Emanuele poté tornare a dedicarsi maggiormente alla vita
privata: nel 1926 era morta la regina madre e nel 1930 il figlio Umberto sposò
Maria José del Belgio. Le nozze fastose e la popolarità dei principi furono un duro
colpo per il duce: ribadivano la continuità della dinastia. Nel 1936 Vittorio
Emanuele fu proclamato imperatore: la guerra d’Etiopia, inizialmente da lui
osteggiata, era un altro successo fascista. Ad attacco ormai sferrato, il re, sempre
affascinato dalle azioni militari, diede il proprio appoggio, anche in occasione
delle conseguenti sanzioni. Fu il momento più alto della diarchia, ma anche
l’inizio della sua fine: il duce mordeva il freno. La tensione crebbe nel marzo del
1938, allorché il Senato creò il grado di primo maresciallo dell’Impero e lo conferì
tanto al duce quanto al re: equiparazione inaccettabile. Vittorio Emanuele
minacciò di non firmare la legge. Si rassegnò solo di fronte al precipitare della
situazione internazionale: dall’Anschluss tedesco dell’Austria (11-12 marzo 1938)
in poi. Proprio l’avvicinamento di Mussolini a Hitler segnò il punto di non ritorno
per la diarchia. Il re non simpatizzava per la Germania, tantomeno per quella
nazista, e il duce invidiava al Führer l’assenza di superiori. Se ne ebbe conferma
durante la visita di Hitler in Italia (3-9 maggio 1938) con diverse frizioni e
freddezze protocollari. Il legame fra Führer e Duce fu però ulteriormente

126
rafforzato dalla promulgazione nel settembre delle odiose leggi razziali. Il re
propose prima di dare asilo agli ebrei rifugiatisi in territorio italiano e poi avrebbe
messo in guardia Mussolini dal «vespaio» della questione ebraica (D. Mack
Smith, 1989, p. 358; N. D’Aroma, 1957, p. 266). Quando fu chiaro che si sarebbe
arrivati alla promulgazione, Vittorio Emanuele protestò col duce (seppur con
minor vigore rispetto alla crisi del primo maresciallato) e chiese alleggerimenti
nei provvedimenti contro personalità da lui segnalate o meritevoli per servizi resi
alla Patria. Ma nella conferenza di Monaco (29-30 settembre 1938) Mussolini
passò per salvatore della pace europea e il re prese a diffidare delle potenze
occidentali, troppo remissive verso il Führer. Nell’aprile ’39 l’Italia annesse
rapidamente l’Albania. Il re giudicava l’impresa un inutile rischio e si mostrò
irritato dall’assenza di simboli dinastici nel nuovo vessillo albanese. A fine
maggio, nonostante le ripetute esortazioni regie a «diffidare dei tedeschi» (G.
Ciano, 1946, p. 85), fu sottoscritto il Patto d’acciaio. Nel settembre, all’avvio della
Seconda guerra mondiale, Vittorio Emanuele fece qualche cauta mossa per aprire
velati spazi d’azione alla corona. Tramite un nuovo e dinamico ministro della Real
Casa, Pietro Acquarone, creò legami con importanti esponenti del regime - come
Dino Grandi e Galeazzo Ciano – ostili al Patto stesso. Forse, nella primavera del
1940, valutò la sostituzione di Mussolini «con un altro esponente fascista, che
fosse espressione del partito anti-tedesco» (De Felice, 1979, p. 700). Non se ne
fece nulla e l’Italia entrò in guerra. Il re, consapevole dell’impreparazione delle
truppe e sempre di sentimenti antitedeschi, era di parere opposto; ma aveva
ormai settantuno anni e – così come Umberto – venne tenuto lontano dai
riflettori della propaganda: la vittoria avrebbe dovuto essere solo fascista. Già
alla fine del 1942 l’Asse si trovava però sulla difensiva. I vertici militari, alcuni
gerarchi e i rappresentanti dei movimenti antifascisti cominciarono a premere su
Vittorio Emanuele per persuaderlo ad agire contro il duce. Il re, però, si convinse
solo dopo lo sbarco alleato in Sicilia (9 luglio 1943) e, comunque, restò in attesa
di un’azione istituzionale che potesse innescare quella della Corona. Il 25 luglio il
Gran Consiglio del fascismo approvò l’ordine del giorno Grandi, con cui si
chiedeva a Sua Maestà di riprendere in mano la situazione militare. Mussolini, il
giorno dopo, cercò di minimizzare l’avvenuto presso il re, che aveva però già
deciso: al termine dell’incontro, pur manifestando solidarietà personale al duce,
lo fece prendere in custodia dai carabinieri. Pietro Badoglio andò a capo del
governo e cominciarono sei settimane di trattative e doppi giochi mal gestiti, in
cui si cercò di far uscire l’Italia dalla guerra evitando rappresaglie tedesche.
Messo alle strette dagli alleati, il 3 settembre, Vittorio Emanuele firmò la resa
incondizionata, mentre si davano rassicurazioni ai tedeschi. Il generale
americano Dwight D. Eisenhower, anche per evitare nuovi tentennamenti,

127
denunciò l’armistizio l’8 settembre, gettando nel panico il governo. Venne
convocato un Consiglio della Corona, in cui fu anche suggerito al re di smentire il
comunicato alleato, ma Vittorio Emanuele rifiutò (Mack Smith, 1989, p. 406),
evitando però di rivolgersi alla nazione e lasciando lo spinoso compito a Badoglio.
Non furono dati ordini chiari alle truppe: la confusione mise di fatto i soldati
italiani alla mercé dei nazisti. Nel cuore della notte Vittorio Emanuele lasciò
Roma, per riparare al Sud. La decisione doveva garantire continuità allo Stato,
ma, attuata in modo tanto repentino e approssimativo, si presentò come una
scomposta fuga (per quanto il re viaggiasse sempre con le insegne di capo di
Stato): impressione confermata anche dal divieto fatto al principe Umberto di
restare o, in seguito, di tornare a Roma. Il governo fu installato a Brindisi e il 13
ottobre l’Italia dichiarò guerra al Reich e, di fatto, alla Repubblica di Salò
rifondata da Mussolini al Nord: era la guerra civile che Vittorio Emanuele aveva
sempre temuto. Non volle abdicare, traghettando così in prima persona la
dinastia oltre le secche dell’armistizio. Con le operazioni militari che si
protraevano e il montare del malcontento dei partiti antifascisti (contrari alla
collaborazione con lui), si risolse a una concessione: consigliato da Enrico De
Nicola e con la sede del governo spostata a Salerno, accettò, una volta liberata
Roma, di rimanere re solo nominalmente, assegnando (5 giugno 1944) tutti i
poteri e l’anomala carica di luogotenente del Regno a Umberto. In crescente
isolamento politico, Vittorio Emanuele ed Elena trascorsero i due anni seguenti a
Napoli, nella villa di Posillipo. Nell’estremo tentativo di essere utile alla causa
monarchia, il re abdicò il 9 maggio 1946 (a ridosso del referendum istituzionale).
Scelse poi l’esilio volontario ad Alessandria d’Egitto, dove condusse – come conte
di Pollenzo – la vita a lui più congeniale: da nobiluomo dedito allo studio e a
semplici svaghi. Morì il 28 dicembre 1947 a seguito dell’aggravarsi di una
congestione polmonare, favorita da una sessione di pesca, condotta qualche
giorno prima di Natale, in condizioni climatiche proibitive.

Giovanni Giolitti
Giovanni Giolitti è stato il leader che più di ogni altro ha segnato la storia italiana
nella difficile transizione dei primi anni del ‘900.
Di origine piemontese - terra prodiga di statisti e che ha regalato all’Italia Cavour
e tre presidenti della repubblica Einaudi, Saragat e Scalfaro - entra in parlamento
tra le fila dei liberali, dopo un lungo periodo passato nella burocrazia
ministeriale.
Politicamente vicino a Crispi, nel 1889 diventa Ministro del Tesoro e
nel 1892 presidente del Consiglio. Il suo primo governo ha vita breve a causa
dello scandalo della Banca Romana, che porta alla luce le illegali commistioni tra

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politica e finanza. La vicenda segnerà la fine politica di Crispi, e rischierà di
travolgere lo stesso Giolitti, pur non particolarmente coinvolto nell’”affaire”.
Riuscirà con abilità a uscire di scena, cosa che farà spesso nei momenti di crisi,
preferendo rifugiarsi in Germania per scampare a un possibile arresto.
Sono anni cruciali, nei quali il paese vive la sua rivoluzione industriale e getta le
fondamenta dell’Italia moderna: nascono le principali industrie del paese, si
costruiscono strade e ferrovie, vedono la luce le prime leghe sindacali che si
allargano a contadini e braccianti, la scuola diventa gratuita fino ai dodici
anni. Nel 1903, Giolitti vara il suo secondo governo. La sua politica si
contraddistingue per alcune grandi aperture, finalizzate a integrare
gradualmente le masse all’interno dello stato.
Non solo è contrario all’uso della forza contro gli operai, ma scende a patti con i
sindacati. Introduce nuove norme di tutela del lavoro riducendone l’orario,
combattendo quello infantile e agevolando quello femminile; apre un proficuo
dialogo con l’ala riformista del partito Socialista. Quando nel 1904 i sindacati
proclamano il primo sciopero generale della storia italiana, malgrado le pressioni,
Giolitti si rifiuta di inviare l’esercito. Lasciando che lo sciopero si sfoghi
lentamente e limitandosi a mantenere l’ordine pubblico.
Nel corso del suo terzo governo fa approvare una serie di leggi speciali per il
Mezzogiorno, che comportano sgravi fiscali e l’incremento delle opere pubbliche.
Ma i metodi pragmatici e sbrigativi, nonché le sue discutibili alleanze con i
potentati economici nel meridione d’Italia, gli valgono l’aspra critica di Salvemi,
che arriverà a definirlo nel 1910, il “ministro della malavita”. Allo statista
piemontese viene mosso il rimprovero di aver bloccato il sistema politico italiano,
a causa del suo trasformismo e della sua cinica strategia parlamentare.
Il 30 marzo del 1911 viene varato il suo quarto governo. Il paese è impegnato
nelle solenni celebrazioni per il cinquantenario del Regno d’Italia, ma il pensiero
nazionale va oltre la penisola e si spinge in Africa. Il 5 ottobre del 1911, l’esercito
italiano occupa Tripoli. È l’inizio della guerra di Libia, paese che all’epoca fa parte
dell’impero Ottomano.
Giolitti, contrario alla politica di espansione coloniale, si lascia persuadere a
partecipare all’impresa oltremare, convinto che la guerra sarà breve e indolore.
Sarà invece aspra e dolorosa. Le ripercussioni saranno notevoli. Entra in crisi il
delicato equilibrio che Giolitti aveva sapientemente costruito.
Dopo l’attentato di Sarajevo, si oppone fermamente all’entrata dell’Italia nella I
Guerra Mondiale, vedendo nel conflitto il possibile detonatore per le tante crisi
sociali non risolte.
La maggioranza parlamentare è con lui, ma un’ondata di proteste travolge il
parlamento. Il popolo in piazza chiede a gran voce l’entrata in guerra. Giolitti

129
rimette il mandato e il re Vittorio Emanuele affida l’incarico di formare il nuovo
governo ad Antonio Salandra, che firmerà l’intervento dell’Italia a fianco di
Francia e Gran Bretagna.
La mattina del 17 maggio sul Popolo d’Italia Benito Mussolini scrive:” la terribile
settimana di passione dell’Italia, si è chiusa con la vittoria del popolo. Le nuvole
basse della mefitica palude parlamentare si sono dileguate dinanzi al ciclone che
prorompeva dalle piazze. Non si hanno più notizie del cavalier Giolitti e anche il
giolittismo versa in condizioni disperate”.
Nel dopoguerra cercherà inutilmente di salvare la democrazia italiana, nella sua
ultima breve esperienza governativa del 1919-20. È troppo tardi. I “poteri forti”,
hanno scelto Benito Mussolini e i suoi fasci da combattimento, per riportare
l’ordine nel paese. Dopo l’avvento del fascismo, respingerà l’idea della secessione
aventiniana per combattere in parlamento contro il nascente regime. Si spegne
nella più totale solitudine, fisica e politica, il 17 luglio del 1928.

Italia giolittiana
il nuovo secolo si apre, in Italia, con un regicidio. L’uccisione di Umberto I per
mano dell’anarchico Gaetano Bresci (29 luglio 1900) rappresenta l’ultimo atto
della grave crisi politica e istituzionale iniziata due anni prima con la
repressione manu militari dei moti per il caro viveri, a cui era seguito il tentativo
– portato avanti dal governo Pelloux con il sostegno della corona – di limitare
drasticamente quell’insieme di libertà politiche e civili il cui riconoscimento aveva
fatto sì che l’Italia potesse iscriversi a buon diritto nel novero degli Stati liberali.
Tuttavia, anzichè inasprire le tendenze autoritarie, la morte del re segna il
definitivo fallimento della reazione. Le elezioni politiche di giugno avevano già
fatto registrare una consistente vittoria delle sinistre (socialisti, radicali,
repubblicani), protagoniste di una strenua battaglia parlamentare contro le leggi
“liberticide” proposte da Pelloux (1839-1924); da parte sua Vittorio Emanuele
III, salito al trono nell’agosto del 1900, si allontana dalla politica repressiva
seguita dal padre. È, di fatto, l’inizio di un nuovo corso, in cui l’idea di un “ritorno
allo Statuto” – ovvero il riferimento a un modello di monarchia costituzionale di
stampo prussiano – viene accantonata in nome di un progetto assai diverso,
mirante alla piena parlamentarizzazione del sistema politico e all’inserimento
delle masse nella vita dello Stato; e questo progetto porta il nome di Giovanni
Giolitti (1842-1928).
Contro la tendenza a reagire alle sollecitazioni provenienti dai ceti più bassi della
società con “leggi reazionarie” e “prepotenze di governo”, contro l’idea che le
tensioni sociali potessero essere gestite come un problema di ordine pubblico e
che il governo dovesse ergersi a difensore degli interessi delle classi padronali,

130
Giolitti propugna con lucidità e coerenza la completa neutralità dello Stato nei
conflitti tra capitale e lavoro e il carattere politicamente, economicamente,
socialmente positivo dell’organizzazione e dell’ascensione delle classi popolari.
Ministro dell’Interno nel governo guidato dal democratico Giuseppe Zanardelli
(1826-1903) tra il 1901 e il 1903, Giolitti ne rappresenta la vera anima, e
inaugura la sua lunga egemonia sulla vita politica italiana.
Naturali interlocutori di questo nuovo indirizzo politico devono essere – oltre
naturalmente alle correnti liberali più avanzate – coloro che si propongono come
i rappresentanti dei diritti e degli interessi delle classi popolari, ovvero i socialisti.
Nei confronti del Partito Socialista Italiano Giolitti abbandona la politica
repressiva inaugurata qualche anno prima da Crispi (1818-1901) e tenta la via
della collaborazione; una scelta, questa, che sembra essere favorita dai rapporti
di forza che si sono delineati tra la corrente rivoluzionaria e la corrente riformista
del partito. Nel settembre del 1900 il VI congresso del PSI aveva approvato, con
un solo voto contrario, il “programma minimo” proposto da Claudio Treves
(1869-1933). Ampliamento del suffragio, legislazione sociale, decentramento
amministrativo e riforma tributaria diventano gli obiettivi programmatici del
partito, che abbandona – almeno temporaneamente – la prospettiva
insurrezionale, concentrando le sue energie sulla modernizzazione e sulla
democratizzazione del sistema capitalistico-liberale. Guidato da Filippo Turati
(1857-1932), la cui fede socialista non si pone in contrasto con una forma
mentisdi ispirazione democratico-radicale, il Partito Socialista Italiano adotta nei
confronti del governo Zanardelli-Giolitti la linea della valutazione caso per caso,
la quale finisce per trasformarsi di fatto in un voto di fiducia.
L’attività riformatrice del governo Zanardelli (indebolita peraltro dal fallimento
dei progetti più ambiziosi, quali la riforma tributaria e l’introduzione del divorzio)
viene ripresa dai governi successivi, guidati da Giolitti in persona. Tra il 1903 e il
1913 vengono approvate la conversione della rendita (dal 5 percento al 3,5
percento), la nazionalizzazione delle ferrovie, la municipalizzazione dei servizi, la
legislazione sul Mezzogiorno e poi, sul finire del decennio giolittiano, il monopolio
statale delle assicurazioni sulla vita e il suffragio universale maschile: tutti passi
in avanti sulla via della trasformazione del “vecchio” Stato liberale in una
moderna liberaldemocrazia, ma – agli occhi di molti osservatori – passi fin troppo
cauti, che si risolvono in un riformismo pragmatico del caso per caso, incapace
per sua natura di affrontare e di risolvere le questioni di fondo. Ciò che
maggiormente viene rimproverato a Giolitti, però, è la supposta manomissione
del meccanismo della rappresentanza politica: non solo a causa dell’intervento
dei prefetti nelle elezioni (un intervento pesante soprattutto nel Sud, e che vale a
Giolitti l’appellativo, coniato da Gaetano Salvemini (1873-1957), di “ministro

131
della malavita”), ma soprattutto a causa del neo trasformismo cui il presidente
del Consiglio sembra improntare i suoi rapporti con la Camera. In quella che gli
avversari avrebbero definito la “dittatura giolittiana”, l’esistenza di una vasta
maggioranza parlamentare, retta dal personale rapporto di dipendenza dei suoi
membri dal presidente del Consiglio, sembra rendere di fatto impraticabile
qualsiasi alternativa ispirata a un diverso orientamento politico. Se ne accorge, a
sue spese, Sidney Sonnino (1847-1922): il suo tentativo di costituire un “grande”
partito conservatore, in grado di promuovere dall’alto le riforme necessarie allo
sviluppo e alla modernizzazione del paese senza cedere terreno ai “sovversivi”,
non riesce a concretizzarsi, e i tentativi sonniniani di governo (due brevi
parentesi, nel 1906 e nel 1910), falliscono anche per la mancanza di un partito in
grado di sostenerli.
Egemonia politica e discredito culturale procedono dunque di pari passo.
Particolarmente acceso è l’anti giolittismo degli intellettuali, a cui il pragmatismo
empirico e l’attitudine spiccatamente antiretorica dell’uomo politico piemontese
non appaiono certo doti, ma anzi il segno di un grave deficit ideale, confermato e
aggravato dalla corruzione della vita politica e dal cinismo nella gestione del
potere. Nell’ultimo scorcio dell’età giolittiana questo accumulo di tensioni ideali
fa vacillare l’equilibrio politico, tendendo a far emergere correnti
ideologicamente radicali e indisponibili al compromesso e al gradualismo
giolittiani. La guerra contro la Turchia per la conquista della Libia (1911-1912)
rende più aggressivo il movimento nazionalista che, costituitosi in associazione
nel 1910, si va caricando in quegli anni di accenti sempre più marcatamente
imperialistici e antiliberali, e favorisce la vittoria della corrente massimalista
all’interno del Partito Socialista, la quale, specularmente, comincia in quel
momento a costruire le proprie fortune su un antimilitarismo non privo di esibite
venature antipatriottiche. Le elezioni dell’autunno del 1913, le prime a suffragio
universale maschile, segnano una consistente avanzata dei socialisti; se i liberali
reggono l’urto è soprattutto grazie al contributo degli elettori cattolici, che la
sospensione del non expedit libera dall’obbligo dell’astensione. Il “patto” siglato
in vista delle elezioni da Giolitti con il conte Ottorino Gentiloni, presidente
dell’Unione Elettorale Cattolica, può sembrare un successo della strategia
giolittiana basata sull’inclusione di quelle masse – cattoliche come socialiste –
che fino a quel momento erano state estranee od ostili al progetto liberale di
governo. In realtà, l’elettorato cattolico è portatore di una propria cultura
politica, diversa – talvolta molto diversa – da quella liberale. L’emergere del
nazionalismo, del socialismo rivoluzionario, del cattolicesimo politico mostra così
il principale limite del “trasformismo” giolittiano, ovvero il suo isolamento
culturale. “Una mediocre combinazione parlamentare, nata tra i corridoi e l’aula”:

132
così viene considerata, nel giudizio dei nuovi alfieri dell’ideale, l’Italia giolittiana.
Ma quell’Italia – prosegue nel 1913 il sindacalista rivoluzionario Arturo Labriola
(1873-1959) – non esiste più: “esiste un’Italia cattolica, esiste un’Italia
socialista, esiste un’Italia imperialista: non esiste un’Italia giolittiana”.
In quest’ultima parte, il giudizio coglie nel segno; ma c’è da aggiungere che,
insieme all’Italia giolittiana, è in profonda crisi l’Italia liberale stessa. L’ampio
discredito di cui la classe dirigente liberale è diventata oggetto si riverserà, di lì a
poco, anche sulle istituzioni liberali, e in particolare sul Parlamento.
L’antiparlamentarismo, a dire il vero, godeva già da tempo di un’ampia
circolazione nell’opinione pubblica del Paese. Tuttavia, una cosa è la denuncia, da
parte di giornalisti e intellettuali, delle “patologie” e delle disfunzioni del sistema
rappresentativo; altro è l’esercizio, da parte della piazza, di una violenta
pressione sul Parlamento, fino a scavalcare la volontà di una maggioranza
democraticamente eletta. Proprio questo è ciò che accade nella primavera del
1915, quando, in seguito allo scoppio della prima guerra mondiale, una
minoranza interventista – composta per lo più da nazionalisti, repubblicani,
sindacalisti rivoluzionari – riesce a imporsi con una campagna violenta e
intimidatoria sulla maggioranza neutralista rappresentata in Parlamento. Il 20
maggio 1915 quest’ultimo si piega, votando a scrutinio segreto la concessione
dei pieni poteri al governo; il 23 maggio, a nome dell’Italia, il governo Salandra
(il liberal-conservatore Antonio Salandra, (1853-1931), aveva sostituito Giolitti
alla presidenza del Consiglio nel marzo del 1914: l’età giolittiana era davvero
finita) dichiara guerra all’Austria.
Le modalità con cui l’Italia entra in guerra provocano spaccature e lacerazioni
che il conflitto, invece di sanare, avrebbe esacerbato, e immettono nella vita
politica del Paese i germi di una nuova politica fondata sull’appello diretto alle
masse (Mussolini e D’Annunzio erano stati i campioni delle piazze interventiste),
sulla denuncia del “nemico interno”, sulla contrapposizione della nazione al
Parlamento. Nell’arroventato clima politico del dopoguerra, miti e riti della nuova
politica spazzeranno via le ultime resistenze del vecchio mondo e della vecchia
mentalità liberali, già messe a dura prova dal prolungato sforzo bellico. La
guerra, infatti, si rivela molto diversa dal previsto: non il rapido conflitto
immaginato da Salandra e dal suo ministro degli Esteri Sonnino, bensì
un’estenuante guerra di logoramento. Le azioni offensive ordinate dal
comandante in capo Luigi Cadorna (concentrate principalmente sul fronte del
Carso e dell’Isonzo) falliscono ripetutamente di fronte alle trincee austriache.
Mantenuta caparbiamente e contro ogni evidenza fino alla sconfitta di Caporetto,
l’impostazione offensiva, di cui la realtà della guerra di trincea aveva presto
mostrato l’inefficacia, ha un costo altissimo in termini di vite umane:

133
l’abbondanza di “carne da cannone” deve supplire all’impreparazione tecnica,
all’improvvisazione strategica, all’inferiorità negli equipaggiamenti. Alla
noncuranza nei confronti del sacrificio di vite umane, si unisce in Cadorna
l’applicazione di metodi disciplinari di stampo terroristico, con ricorso frequente
alla decimazione e alle esecuzioni sul campo; e anche questo non cambia fino a
che, nell’ottobre del 1917, l’esercito italiano non va incontro alla più disastrosa
sconfitta della sua storia con le truppe austro-tedesche che, con la tattica
dell’infiltrazione, riescono a sfondare le linee italiane e ad arrivare fino al Piave.
L’invasione da parte del nemico dei propri confini, la perdita di molti dei territori
conquistati con fatica nelle guerre del Risorgimento, viene percepita dal Paese
(ma non dalla sua popolazione agricola, desiderosa in qualche caso che arrivasse
qualcuno, fossero pure “i Tedeschi”, pronto a tagliare la testa “ai signori che
avevano voluto la guerra”) come una prova di vita o di morte. Destituito Cadorna,
il nuovo comandante in capo Armando Diaz (1861-1928) stabilisce un rapporto di
collaborazione con il potere politico, abbandona la tattica offensiva, migliora
l’assistenza materiale e morale dei soldati. Nell’ultimo anno di guerra l’esercito
italiano mantiene saldamente le sue posizioni, finché, con l’esercito austro-
ungarico già in piena dissoluzione, grazie a un’ultima azione offensiva riesce a
sfondare il fronte nemico nei pressi di Vittorio Veneto e a raggiungere Trento e
Trieste. Il 4 novembre 1918 cessano le ostilità con l’Austria, e l’Italia festeggia da
vincitrice la fine del primo conflitto mondiale.
IL PRIMO DOPOGUERRA
Tuttavia, l’euforia della vittoria dura poco. La guerra lascia, sotto molti punti di
vista, un’eredità pesante, impoverendo il Paese, rinfocolando l’antica avversione
contadina nei confronti dello Stato e, in generale, alimentando nei ceti popolari
un’esasperata volontà di risarcimento per i sacrifici patiti nelle fabbriche
militarizzate, nei campi o al fronte. La fine della guerra, poi, anziché ricomporre il
contrasto tra interventismo e neutralismo ne intensifica i toni, con i socialisti
additati come “nemico interno” per la loro polemica nei confronti delle ragioni
della guerra e per la loro ostilità nei confronti di persone e simboli che alla guerra
si associano. Sull’altra sponda, il campo nazionalista è agitato dalla sindrome
della “vittoria mutilata”, ovvero dall’ingiustificata convinzione che l’Italia sia
stata defraudata dei frutti della vittoria. Il fatto è che la delegazione italiana si
era presentata alla conferenza di pace di Parigi con un documento in cui, oltre
all’annessione dei territori previsti dalla Conferenza di Londra (nell’aprile del
1915, l’Italia si era impegnata a entrare in guerra a fianco dell’Intesa in cambio
del Trentino, del Tirolo meridionale, di Trieste, dell’Istria con l’eccezione di Fiume
e di una parte della Dalmazia), si chiedevano – in base al principio di nazionalità
proclamato dal presidente americano Wilson – anche Fiume e Spalato. Nessuno

134
degli ex alleati – né gli Stati Uniti, né l’Inghilterra, né la Francia – prende in seria
considerazione simili velleitarie richieste, e il braccio di ferro dei negoziatori
italiani si conclude con un fallimento. In Italia la campagna nazionalista assume
allora toni accesissimi, arrivando fino al “bel gesto” dannunziano
dell’occupazione di Fiume (settembre del 1919): un’iniziativa tanto clamorosa
quanto inutile, destinata a concludersi dopo poco più di un anno con le truppe
regolari italiane che costringono a una rapida resa i “legionari” guidati dal poeta-
comandante.
I risultati delle elezioni politiche del novembre del 1919 – le prime del
dopoguerra, e anche le prime in cui al suffragio universale maschile si associa
l’adozione del metodo proporzionale – restituiscono l’immagine di un Paese
diviso, “abitato” da culture politiche non solo tra loro incompatibili, ma anche
estranee alla mentalità, al metodo, alle finalità proprie di quel mondo liberale al
quale fino a quel momento erano appartenute le classi dirigenti italiane. La
vittoria dei socialisti (32,3 percento dei voti, contro il 17,7 percento ottenuto
nelle elezioni del 1913) giunge in un momento in cui il partito è saldamente in
mano ai massimalisti i quali, galvanizzati dall’“ottobre rosso”, hanno portato al
massimo il loro tasso di radicalismo rivoluzionario; la buona affermazione del
Partito Popolare Italiano (20,5 percento dei voti), che riunisce l’elettorato
cattolico sotto la guida di don Luigi Sturzo (1871-1959), porta alla ribalta
un’altra forza estranea alla tradizione liberal-risorgimentale: la sconfitta dei
liberali (i quali continuano a non essere organizzati in partito) non è solo
numerica, è una crisi profonda e irreversibile di legittimazione politica. D’altra
parte, però, le elezioni non hanno indicato alcuna alternativa reale, non avendo
né i socialisti né i cattolici ottenuto consensi sufficienti a governare da soli, ed
essendo impraticabile una collaborazione tra i due partiti: di qui un’impasse che
rende il sistema politico liberale vulnerabile come mai nei suoi precedenti
sessant’anni di storia.
La breve durata dei governi del dopoguerra (Nitti, Giolitti, Bonomi, Facta tra il
giugno del 1919 e l’ottobre del 1922) rivela l’instabilità di un quadro politico in
cui una maggioranza debole e incerta si trova a gestire l’emergere di gravissime
tensioni sociali. Tra il 1919 e il 1920 si verifica infatti un’intensa mobilitazione dei
braccianti e degli operai, intenzionati i primi a prendersi davvero le terre
promesse negli anni di guerra, e i secondi a farsi protagonisti di quella
palingenesi rivoluzionaria che la vittoria dei bolscevichi in Russia sembrava aver
dimostrato finalmente possibile. Esauritosi il “biennio rosso” con un nulla di fatto
– il suo episodio-simbolo, l’occupazione delle fabbriche da parte degli operai, si
conclude con una vittoria sindacale ma con un sostanziale fallimento politico – il
Paese è attraversato da un’ondata di violenze di un’intensità fino ad allora

135
sconosciuta. Protagonisti ne sono gli squadristi fascisti, giovani militanti di quei
Fasci di combattimento che Mussolini aveva fondato in piazza San Sepolcro a
Milano nel marzo del 1919.
IL VENTENNIO FASCISTA
Originariamente, i Fasci altro non erano se non una delle tante formazioni nate
nel seno del radicalismo nazionale di origine interventista. A cavallo tra destra e
sinistra (all’aggressivo nazionalismo si univa infatti una “tendenziali”
repubblicana e una venatura anticapitalista che appartengono al repertorio
ideologico della sinistra, da cui peraltro, oltre a Mussolini, provenivano molti dei
sansepolcristi), i Fasci avevano vissuto fino a quel momento una vita stentata,
forti solo del rilievo nazionale del loro leader e del quotidiano – “Il popolo
d’Italia” – da lui diretto. È solo nell’autunno del 1920 che il movimento prende
consistenza, virando nettamente a destra e proponendosi come una sorta di
partito-milizia pronto a combattere con la violenza contro i socialisti: le “squadre
d’azione”, composte da giovani reduci di guerra e di giovanissimi con la
fascinazione per la guerra, partono con i camion dalle città e convergono verso le
zone rosse (concentrate nelle campagne padane, dove maggiore è il radicamento
delle leghe bracciantili e delle amministrazioni comunali socialiste), distruggendo
le sedi delle “case del popolo”, delle leghe e delle cooperative, minacciando o
uccidendo i membri delle giunte comunali socialiste. Finanziate dai grandi
proprietari terrieri (animati da uno spirito di rivalsa che il “biennio rosso” aveva
drammaticamente acuito), tollerate in funzione antisocialista dal governo e ancor
di più dai prefetti, le squadre fasciste dilagano nel Paese. Due anni dopo, il 28
ottobre 1922, “marciando” su Roma, i fascisti si impadroniscono dello Stato e
portano il loro “duce” alla guida del governo.
Tra i fattori che contribuiscono a spiegare un’affermazione tanto travolgente,
oltre alla profonda crisi delle classi dirigenti e delle istituzioni liberali, oltre
all’errore di valutazione di quei governanti che pensano di servirsi del fascismo
per poi “normalizzarlo” (tra cui Giolitti che applica anche con i fascisti la sua
tattica del “non intervento”), oltre alla controffensiva degli agrari, occorre
ricordare l’inadeguatezza della risposta socialista. Per quanto il “biennio rosso”
sia stato costellato di episodi di violenza, la violenza organizzata non fa parte
della tradizione dei socialisti, che si trovano spiazzati di fronte all’offensiva
squadrista. Ma non solo: non percependo la reale portata della minaccia fascista,
i socialisti italiani rinunciano – proprio nel momento in cui quella minaccia si fa
più pericolosa – alla loro unità. Il 21 gennaio 1921, a Livorno, dalla scissione
dell’ala sinistra del Partito Socialista Italiano nasce il Partito Comunista d’Italia.
Fortemente ispirato al modello bolscevico, fedele interprete delle direttive della
III Internazionale, il Partito Comunista d’Italia crede di riconoscere nel fascismo

136
nient’altro se non un parto del sistema capitalistico-borghese; in quanto tale,
esso non si può sconfiggere se non abbattendo quel sistema, e non certo
collaborando in funzione antifascista con le forze che ne sono complici o fautrici.
Sta di fatto che il 28 ottobre del 1922 segna la morte dell’Italia liberale, senza
che nessuno (neanche il re che si rifiuta di firmare il decreto di stato d’assedio,
lasciando via libera alle camicie nere) pensi che sia arrivato il momento di agire
in nome della sua sopravvivenza. È vero che il governo Mussolini viene votato da
un’ampia maggioranza parlamentare, ricevendo così, sebbene a posteriori, una
qualche forma di legittimazione costituzionale; tuttavia, l’illusione della
“normalizzazione” fascista svanisce presto. Una nuova legge elettorale,
approvata dalla Camera nel 1923, stabilisce che al partito che ottenga il 25
percento dei voti siano assegnati due terzi dei seggi: la vecchia classe dirigente
liberale pianifica così il suo suicidio. Le elezioni dell’anno successivo sanciscono
la vittoria del “listone”, composto da fascisti e da “fiancheggiatori” liberali e
clerico-nazionali (solo Giovanni Amendola e Giolitti, tra i liberali, hanno la dignità
di presentare una lista propria). Con la nuova Camera, di cui le camicie nere
rappresentano una larga maggioranza, giunge a compimento l’occupazione
fascista degli istituti e dei luoghi della politica liberale.
Il vero e definitivo punto di svolta, però, si ha con l’omicidio del deputato
socialista-unitario Giacomo Matteotti (1885-1924). In un discorso alla Camera
successivo alle elezioni, Matteotti aveva coraggiosamente denunciato i brogli e le
violenze che avevano falsato l’espressione del voto popolare; dieci giorni dopo,
veniva pugnalato a morte da una squadra fascista. Sia o meno Mussolini
mandante diretto del crimine, certa è – e appare subito a tutti – la responsabilità
morale e oggettiva del “duce” del fascismo. Il caso Matteotti sembra sul punto di
travolgere Mussolini, tanto forte e diffuso è lo sdegno dell’opinione pubblica. Dal
canto loro, le forze di opposizione promuovono un’azione finalmente concorde,
abbandonando i lavori parlamentari e riunendosi separatamente. La secessione
detta dell’“Aventino”, guidata da Giovanni Amendola, rende finalmente visibile la
protesta antifascista, ma fallisce l’obiettivo del rovesciamento del nascente
regime: con il re ancora muto spettatore degli eventi, i fiancheggiatori titubanti,
le piazze silenziose (la via comunista della mobilitazione popolare è stata
scartata dagli altri leader aventiniani), Mussolini trova il tempo di riprendere in
mano l’iniziativa. Lo fa, di lì a poco, abbandonando ogni residuo ancoraggio alla
sponda legalitaria e inaugurando la stagione della “dittatura a viso aperto”:
pronunciato il 3 gennaio del 1925 alla Camera un discorso minaccioso e
intimidatorio, tra il 1925 e il 1926 le “leggi fascistissime” cambiano in profondità
la fisionomia dello Stato italiano. Strappate al Parlamento le sue prerogative,
soppresse la libertà di stampa, la libertà politica, la libertà sindacale, istituito un

137
Tribunale speciale per la difesa dello Stato sottratto alle competenze e alle
procedure della magistratura ordinaria, Mussolini trasforma l’Italia in un regime
monopartitico e tendenzialmente totalitario. La nuova legge elettorale, che
trasforma le elezioni in plebisciti, e la costituzionalizzazione del Gran Consiglio
del fascismo, con la quale il supremo organo del partito fascista è riconosciuto
come un’istituzione dello Stato (1928), completano il passaggio.
In politica estera, le iniziali cautele con le quali si era espresso il revanscismo
fascista rispetto all’ordine deciso a Versailles vengono abbandonate alla metà
degli anni Trenta. La guerra d’Etiopia (1935) porta a un primo strappo tra l’Italia
e la Società delle Nazioni, che decide di punire l’impresa con l’applicazione di
(parziali) sanzioni economiche. Alla crisi dei rapporti con Francia e Inghilterra
corrisponde un primo avvicinamento alla Germania di Hitler (uscita dalla Società
delle Nazioni già nel 1933); il sostegno fornito da Italia e Germania alle truppe
del generale Franco insorte contro la repubblica spagnola rinsalda il legame tra i
due regimi, suggellato nello stesso 1936 dall’Asse Roma-Berlino e nel 1937
dall’adesione dell’Italia al patto anticomintern tra Germania e Giappone e dal
ritiro dell’Italia dalla Società delle Nazioni. In politica interna, la promulgazione
delle leggi razziali (novembre del 1938) è anche il riflesso di questo irreversibile
avvicinamento alla Germania nazista, che avrebbe portato Mussolini – il 10
giugno 1940, qualche mese dopo l’inizio della Seconda guerra mondiale – a
schierare l’Italia a fianco dell’alleato tedesco.
L’ITALIA IN GUERRA: IL CROLLO DEL FASCISMO
Per l’Italia fascista, la Seconda guerra mondiale è una lunga e drammatica serie
di sconfitte e fallimenti. Strategicamente, militarmente, economicamente e
moralmente impreparata a un conflitto che, ancora una volta, si sarebbe rivelato
assai più lungo del previsto, l’Italia subisce gravissime perdite in Francia
(duemila morti contro i trentasette francesi), perde in Grecia, in Africa
settentrionale, in Africa orientale (con relativa perdita dell’impero), in Russia.
Alla fine del 1942 solo in pochi, tra gli stessi gerarchi fascisti, confidano ancora
nella vittoria dell’Asse e il processo di disgregazione del regime diventa
inarrestabile. Nel luglio del 1943, con l’invasione anglo-americana della Sicilia, la
crisi agonica del fascismo arriva al suo inevitabile compimento: il 25 luglio di
quell’anno il Gran Consiglio del fascismo, votando a maggioranza assoluta
l’ordine del giorno presentato da Dino Grandi (1895-1984), “sfiducia” Mussolini e
restituisce al re l’iniziativa politica e il comando supremo delle operazioni di
guerra.
Il re nomina a capo del governo il maresciallo d’Italia Pietro Badoglio (1871-
1956): vincitore di Addis Abeba e capo di Stato maggiore generale fino ai primi
mesi di guerra, Badoglio era rimasto in realtà uomo più del re che di Mussolini,

138
che infatti nel dicembre del 1940 lo aveva rimosso dal suo incarico,
condannandolo alla morte civile. Il nuovo governo non assume un orientamento
antifascista. Composto di funzionari, tecnici e militari, esso mostra piuttosto un
carattere “afascista”: lo scioglimento del partito fascista e l’abrogazione delle
leggi razziali è contestuale al divieto di riorganizzazione dei partiti politici fino
alla fine della guerra.
La guerra, infatti, continua: l’idea del re è quella, completamente fuori dalla
realtà, di trattare contemporaneamente con i Tedeschi e con gli Anglo-Americani,
al fine di portare l’Italia a una pace separata e onorevole con gli Alleati. È solo l’8
settembre 1943 che, a seguito della massiccia ripresa dei bombardamenti anglo-
americani sulle città italiane e dell’acquisita consapevolezza circa l’inevitabilità di
una resa incondizionata, Badoglio annuncia l’armistizio dell’Italia con gli Alleati.
Alle forze armate, però, non viene data alcuna istruzione operativa e così i
militari italiani si trovano allo sbando, facile preda della reazione tedesca. Il
giorno successivo all’armistizio, il re e Badoglio lasciano Roma rifugiandosi a
Brindisi, già liberata dagli Alleati. Mentre il Paese viene lasciato in balia della
Wehrmacht (salvo i territori via via liberati dall’avanzata anglo-americana da
sud), il comitato delle correnti antifasciste si trasforma in Comitato di
Liberazione Nazionale (CNL) e invita tutti gli Italiani a sollevarsi in armi contro i
Tedeschi.
Mentre il combattimento tra gli Alleati e i Tedeschi si attesta lungo la linea
Gustav, che corre dall’Adriatico al Tirreno passando per Cassino; mentre decine di
migliaia di giovani rispondono all’appello lanciato dal Comitato di Liberazione
Nazionale, combattendo da italiani contro i nazi-fascisti e fornendo così un
contributo fondamentale alla costruzione e alla legittimazione di un futuro stato
democratico, il fascismo radicale cerca una seconda occasione nella costituzione
della Repubblica Sociale Italiana (RSI) e a fianco dei Tedeschi occupanti. La
Repubblica fascista di Salò ha alla testa il redivivo Mussolini, liberato dai
Tedeschi dalla sua prigionia sul Gran Sasso, che tenta un estremo recupero della
“purezza” delle origini: repubblicanesimo, anticapitalismo, violenza sono tutte
armi scagliate contro quel “compromesso moderato” che sembra aver portato
alla rovina il fascismo. In realtà, il destino della Repubblica Sociale Italiana (e di
Mussolini) è segnato. Nell’aprile del 1945, il crollo della “linea gotica” (tra La
Spezia e Rimini) sbaraglia le ultime resistenze tedesche; a partire dal 24 aprile, il
Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia proclama l’insurrezione
generale nelle principali città del Nord, con i partigiani che riescono quasi
ovunque – ben consapevoli dell’alto valore simbolico della loro azione – a
cacciare le ultime retroguardie repubblichine e tedesche prima dell’arrivo degli
Anglo-Americani.

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Scandolo della banca romana
Lo scandalo della Banca di Roma Nel 1888 la mancanza di denaro liquido, dovuta
a imprudenti speculazioni, portò sull'orlo del collasso gli istituti bancari torinesi,
salvati in extremis dall'intervento governativo.
Vistose irregolarità e vere e proprie falsificazioni, operate con la duplicazione dei
biglietti in circolazione coinvolsero anche le banche di emissione, autorizzate
dallo Stato a stampare banconote. Il caso più clamoroso in questo senso fu lo
scandalo della Banca romana (ex Banca dello Stato Pontificio), che portò alla
caduta del governo Giolitti alla fine del 1893. (vedi sotto) Nello stesso anno crollò
il Credito mobiliare, seguito a breve distanza dalla Banca generale.
Conseguenza di questo stato di caos finanziario fu il riordinamento del sistema di
emissione, avviato da Giovanni Giolitti con l'istituzione della Banca d'Italia
(agosto 1893), alla quale fu assegnata una funzione preminente nell'emissione
monetaria (fino al 1926 una limitata facoltà in questo senso fu lasciata anche al
Banco di Napoli e al Banco di Sicilia). Dal 1894 la Banca d'Italia svolse il servizio
di tesoreria dello Stato in tutto il Regno e fra il 1900 e il 1930 assunse i compiti di
guida e di controllo del sistema creditizio tipici delle banche centrali dei paesi più
progrediti, divenendo un importante elemento di stabilità nell'economia
nazionale. Sul modello delle banche "miste" tedesche, che esercitavano sia il
credito commerciale sia quello industriale e svolgevano un'opera di
coordinamento tra le industrie e le banche locali, furono inoltre fondati a Milano
la Banca commerciale italiana (1894) e il Credito Italiano (1895) LO SCANDALO
Nel 1892 la Banca Romana, quella che nel passato era la Banca dello Stato
Pontificio, era uno dei sei istituti autorizzati ad emettere biglietti a corso legale
sui quali era fondato il sistema bancario italiano (altri Istituti di emissione erano:
la Banca Nazionale del Regno d'Italia, la Banca Nazionale Toscana, il Banco di
Napoli, il Banco di Sicilia) fu tra le prime ad approfittare dell'ondata di
speculazione edilizia che attraversò Roma e altre città d'Italia tra il 1889 e il
1893. A causa dei crediti eccessivi concessi all'industria edile della capitale la
circolazione cartacea prodotta dalla Banca superò di 65 milioni il limite legale.
Buona parte della circolazione eccedente (incluse banconote false per 40 milioni
emesse in serie doppia) fu utilizzata per prestiti politici a deputati e ministri, tra i
quali Crispi e Giolitti. La commissione d'inchiesta nominata nel 1889, quando i
primi fallimenti bancari di quell'anno lasciarono trapelare l'eccedenza della
circolazione, attirò l'attenzione su questa e altre irregolarità (tra le altre fu
accertato un ammanco di cassa pari a 9.000.000 di lire, coperto abusivamente
mediante l'emissione di biglietti a vuoto). I risultati dell'inchiesta, che Crispi e
Giolitti avevano voluto mantenere segreti adducendo la preoccupazione per

140
eventuali gravi contraccolpi nel sistema creditizio, furono resi pubblici nel
dicembre del 1892. La successiva inchiesta amministrativa condotta nel gennaio
del 1893 portò all'arresto di autorevoli personaggi. Si concluse nel luglio 1894
con la clamorosa assoluzione degli imputati; i giudici per non coinvolgere figure
di spicco del mondo politico, tra le quali Crispi, affermarono che nel corso
dell'inchiesta erano stati sottratti documenti importanti.

Partiti antisistema
Dopo il 1918, la questione del liberalismo, la sua definizione storica e teorica, le
sue prospettive di sviluppo, i suoi progetti di riforma costituivano uno dei
maggiori punti controversi per saggiare l’identità e la continuità della vita
nazionale, in vista della rapida modificazione del sistema post-risorgimentale che
il grande conflitto, con le sue ricadute destabilizzanti sul quadro sociale, politico,
istituzionale, aveva provocato. Tutto questo già appariva con nettezza, tra
febbraio e marzo del 1919, a partire dalla polemica tra Mario Missiroli e Giovanni
Gentile sulla possibilità, sostenuta dal primo, di una trasformazione dell’idea
liberale in semplice «molla di progresso, che era passata ormai di esclusiva
competenza dei socialisti», considerato «il conservatorismo reazionario proprio
del partito liberale». Ipotesi alla quale Gentile obiettava la duplice funzione del
liberalismo in quanto «concezione dello Stato come libertà e della libertà come
Stato», inconciliabile quindi con la dottrina socialista, ma anche e specialmente
con i rischi insiti in un sistema di «liberalismo conciliatore, che accosta e accorda
le idee rappresentative degli interessi sociali». Il traviamento del vero
liberalismo, concludeva Gentile, si era manifestato nella pratica trasformista del
«giolittismo» che «per un ventennio fu, o parve, l’espressione più adeguata della
vita politica italiana; ma che merita nondimeno d’essere battezzato dal nome di
chi fu l’esponente più cospicuo di codesta vita e più fece per sostenerla contro
tutti i tentativi di ribellione e contro l’opposizione delle minoranze più sane e
pensose dell’avvenire nazionale».
Il dibattito ideale tra i due liberalismi trovava una sua precisa ricaduta politica
nel contrasto tra l’ipotesi di un liberalismo progressivo maggiormente aperto ai
valori e alle esigenze della democrazia industriale, che Giolitti aveva sviluppato, e
il progetto di modernizzazione «non socialista ma sociale», mai meramente
moderato e conservatore di quella dottrina, propugnato da Sonnino e con accenti
maggiormente autoritari da Salandra in parziale sintonia con l’eresia liberale dei
«giovani turchi» di Giovanni Borelli. Queste ultime tendenze tracimavano nella
polemica antiparlamentare e antidemocratica e nella denuncia dell’«assolutismo
giolittiano» già dispiegatasi nel crinale che aveva separato il vecchio e il nuovo
secolo. Dal richiamo all’ordine di Sonnino, relativo alla necessità di ripristinare in

141
senso nazionale l’ortodossia del governo costituzionale, attribuendo un maggior
rilievo a esecutivo e corona, contro le degenerazioni del sistema parlamentare,
da quello di Salandra, concentrato in una visione difensiva dal punto di vista
borghese e maggiormente interessato all’aspetto istituzionale dei rapporti tra
Stato e società, il passo, non breve certamente né obbligato, risultava, pure
praticabile verso gli approdi della teoria dell’élite e della «classe politica» di
Pareto e Mosca.
Quel passaggio andava in direzione, quindi, di una concezione della minoranza
che è sempre «qualitativamente maggioranza, perché sa e può», la quale, in
alternativa al mito della maggioranza sovrana in ragione del suo solo numero, si
radicò fortemente nella coscienza politica di molti intellettuali italiani: dai profeti
del «nuovo nazionalismo» come Papini e Prezzolini a Benedetto Croce.
Concezione che, a sua volta, pareva costituire il corollario a quel tema dell’«uomo
forte» già manifestatosi nella stagione crispina che, pure, nella cultura politica
italiana non si presentava con un’inflessione immediatamente dittatoriale e
antidemocratica ma piuttosto all’interno di un disegno di un sostanziale recupero
di liberalismo.
Si trattava piuttosto, avrebbe poi commentato Gioacchino Volpe nel secondo
volume di Italia Moderna, di poggiare sulla speranza di un «deus ex machina a
rimedio della decadenza parlamentare», di trovare un ancoraggio esterno al
sistema «visto che un organico ubi consistam» non esisteva al suo interno», di
costituire un argine legale «da opporre d’urgenza all’avanzata del radicalismo»,
di dare spazio a una personalità che «avrebbe fronteggiato l’onnipotenza del
Parlamento, fatto funzionare il Parlamento a suo dispetto, rimesso quindi paese e
Governo nella normalità costituzionale e parlamentare», e in conclusione di
«rimettersi alla virtù e alla capacità di un uomo, per raddrizzare un regime,
magari facendo violenza ad esso».
In due volumi lucidissimi del 1934 e del 1940, che più che un esercizio di storia
delle dottrine politiche costituivano un saggio di biografia politica della nazione
italiana e delle sue élitespolitiche e intellettuali, Rodolfo De Mattei ripercorreva
le tappe del processo di perversione della vita pubblica «dopo l’Unità» e del suo
deragliamento fuori dai legittimi confini di un corretto sistema rappresentativo. I
nodi di questo processo degenerativo erano lo strapotere della «consorteria», del
«favoritismo», della «coalizione», in quanto fattori primari e decisivi dello
«svisamento della funzione parlamentare» fattisi più forti dopo la caduta della
Destra, la «dittatura della maggioranza» contro la reale volontà dei
rappresentanti e del paese, e da ultimo l’«onnipotenza del Parlamento» in
assenza della «potenza del potere esecutivo».

142
Ma il male oscuro della vita politica nazionale era soprattutto costituito dal
monopolio della decisione politica, completamente sottratto alla pubblica
opinione ed esclusivamente affidato alla Camera che, «va così sempre più
diventando una parziale e fittizia rappresentanza del paese, giacché, di giorno in
giorno, una quantità sempre maggiore di forze vive, di elementi atti alla direzione
politica ne resta esclusa». Da tutto questo derivava l’oligarchismo imperante
sotto la maschera della volontà popolare, il condizionamento reciproco tra
politica e amministrazione, il trionfo del trasformismo responsabile di una
«rivoluzione parlamentare» che annichiliva il sistema dei partiti, annullava la
fisiologica separazione di maggioranza e opposizione, faceva venir meno la
possibilità di un’effettiva alternanza di potere.
Tutte queste perversioni del sistema politico, continuava De Mattei, erano state
denunciate con diversità di accenti da pubblicisti e uomini politici di diverso
orientamento ma tutti vicini e in ogni caso non costituzionalmente estranei alla
tradizione liberale né alla speranza di un suo rafforzamento (Stefano Jacini,
Angelo Majorana, Marco Minghetti, Giorgio Arcoleo, Pasquale Turiello, Ruggero
Bonghi, Sonnino), i quali si facevano latori di diverse proposte di riforma. Alcune
di carattere eminentemente tecnico, riportabili a disparate ricette di ingegneria
costituzionale: dall’allargamento del suffragio alla diminuzione del numero dei
deputati. Altre escogitate in qualche misura «non per virtù del sistema
parlamentare ma a dispetto di esso» che, soprattutto in Mosca, in Scipio Sighele,
in Vittorio Emanuele Orlando, rilanciavano, secondo De Mattei, l’ipotesi salvifica
del «despota di genio», dell’«uomo di così incontrastata superiorità, di così
indomabile valore da stringere con mano di ferro il timone dello Stato e far
sentire energicamente su tutti l’esercizio di un’azione governativa e ricostruire su
basi più salde lo Stato italiano». Una soluzione che ancora De Mattei indicava
indebitamente come una indiscutibile anticipazione della «proficua e duratura
soluzione extraparlamentare» del 1915 e del 1922, che aveva consentito
l’«ingresso attivo del popolo, al di fuori dei suoi ufficiali rappresentanti, nella vita
politica del paese con una diretta e spontanea e imperativa manifestazione di
volontà, che si risolveva senz’altro in una esautorazione dell’istituto».
In tutti questi progetti, il male da estirpare non era invece il sistema liberale e
rappresentativo, in quanto tale, ma piuttosto quello indicato con la pregnante
definizione di «democrazia latina» da Giovanni Amendola. In questa democrazia
spuria, falsificata, fittizia, a causa del dominio incontrastato dei poteri locali,
parziali, corporativi, organizzati a livello elettorale in lobbies, clientele, gruppi di
pressione, si era pervenuto allo snaturamento sistematico dei rapporti tra
governo e parlamento, si era incentivata la pratica trasformistica, si era
sedimentata l’instabilità dell’equilibrio sociale generale, a favore della piccola

143
politica di interessi parziali largiti da un apparato burocratico, impermeabile a
ogni ipotesi di risanamento, che aveva assunto pienamente il ruolo
extraistituzionale di «quarto potere».
Nella realtà politica italiana lo scadimento della vita istituzionale determinato
dalla democrazia meridiana veniva a identificarsi nel «giolittismo». Un sistema
personale di potere, che sarà vissuto a destra come a sinistra dello schieramento
intellettuale e politico come il più grande ostacolo a una riforma politica ma
soprattutto morale del paese. Così sosteneva Prezzolini in un articolo de «La
Voce» del dicembre 1909, commentando una delle ripetute ritirate strategiche di
colui che restava, anche in assenza di un suo diretto impegno governativo, il solo,
vero, incontrastato «padrone del Parlamento»: Il governo di Giolitti è
stato parlamentare e non nazionale, cioè circondato da solida obbedienza di
clientele nel parlamento e larga antipatia del paese; non è stato sostenuto da
nessuna corrente di simpatia morale, non è stato offeso da nessun soffio di
violenta passione disinteressata. Giolitti ha governato non con il consenso del
paese, ma con una maggioranza parlamentare: e questa se l’è procurata,
mantenuta con due sistemi: 1°. col porre ai ministeri uomini in generale
incompetenti della materia, ma capaci di servire a puntino i deputati della
maggioranza in tutti quei piccoli favori che servono a mantenere l’appoggio dei
capi-elettori e dei galoppini; 2°. con la corruzione e la violenza elettorale
esercitata specialmente nei collegi del mezzogiorno, per incutere terrore negli
avversari e fedeltà riconoscente nei seguaci. A questi espedienti di politica
parlamentare ed elettorale bisogna aggiungere la dispersione degli avanzi del più
florido bilancio d’Europa in piccoli provvedimenti legislativi diretti ad acquietare
piccole clientele affariste e burocratiche, senza che si risolvesse a fondo un solo
problema d’interesse nazionale. Così Giolitti s’è formato una maggioranza legata
a lui per riconoscenza e per eguaglianza di spirito politico, composta di circa
centocinquanta dei 200 deputati meridionali che, appoggiati violentemente dal
governo, sfruttano in compagnia delle loro clientele, quei disgraziati paesi, e da
un centinaio fra i 300 settentrionali (liguri, piemontesi, ecc.) che vivono di
affarismo e che trovano le condizioni per il libero sviluppo del loro affarismo
soltanto nel regime giolittiano. Con questa massa di 200 fedeli Giolitti può dirsi il
vero padrone del parlamento: ed è insieme un vero pericolo nazionale. Con una
maggioranza che gli deve la vita, che gli deve l’esistenza, che sarebbe dissolta da
un sistema differente di elezione, con un’estrema sinistra imbevuta di simpatia
per lui e priva di ogni lievito ideale, Giovanni Giolitti non solo è il padrone di ieri,
è anche il padrone di oggi e si prepara a essere il padrone di domani.
Era questa, tra le tante, l’espressione di un altro antigiolittismo molto diverso
dalla becera gazzarra sovversivistica di vario colore che avrebbe perseguitato

144
l’«uomo di Dronero» dallo scandalo della Banca Romana alla vigilia della Grande
Guerra. L’articolo di Prezzolini non riprendeva la polemica contro Giolitti
«Tiburzi», Giolitti «Palamidone», Giolitti «Schiattamorto» né anticipava quelle
contro Giolitti «vecchio boia labbrone, le cui calcagna di fuggiasco sanno la via di
Berlino», come avrebbe sostenuto D’Annunzio al culmine della sua frenesia
bellicista nel «maggio radioso» del 1915. L’esternazione di Prezzolini era invece
la sofferta testimonianza di un antigiolittismo della ragione che, come avrebbe
sostenuto Pietro Gobetti nel 1919, costituiva «il patrimonio ideale di quegli
uomini che si sentono superiori a Giolitti», di tutti coloro che non avversavano
l’uomo ma piuttosto il sistema da lui creato in forma di «un malgoverno esitante,
pericolante, sulla base dei compromessi di una minoranza di inetti che vive alle
spalle dello Stato», la cui pratica consiste nella «limitatezza di vedute», nella
«noncuranza fatale e necessaria che Giolitti deve manifestare verso i supremi
interessi» al fine di «mantenere il governo a qualunque costo».
Era questa un’opposizione a Giolitti che vedeva nello statista piemontese la
suprema incarnazione del vecchio ceto dei «custodi del disordine», secondo
l’icastica espressione poi formulata da Curzio Malaparte nel 1931, e cioè l’ultima
personificazione di quella classe politica che, dopo aver dilapidato l’eredità della
rivoluzione risorgimentale, neppure si era curata di nascondere «il suo intimo
avviso sulla necessità di mantenere l’Italia in un perenne stato di disordine ma
costituzionale, pur di non fare prevalere in piazza e in parlamento la parte
avversa». La nuova opposizione intellettuale alla «dittatura» giolittiana, che,
come avrebbe sottolineato Volpe, proprio per esser «vestita di libertà» risultava
tanto più insidiosa, si basava su questa accusa sommaria. Ma si articolava poi
sulla denuncia di alcuni indiscutibili dati di fatto, o che almeno tali parvero a
molti, e che in ogni caso posero delle fortissime riserve sull’operato dell’«uomo di
Dronero». Perplessità che furono avvertite in profondità nella vita italiana del
tempo e che si sarebbero riflesse nella valutazione storica complessiva sulla
cosiddetta «età giolittiana».
In quei giudizi si esprimeva non solo la condanna per i limiti della cultura di
Giolitti, considerata come architrave del «gran partito positivista» o come
espressione degradata del vecchio «materialismo storico conservatore e
borghese», per dirla con Croce e Volpe, che ne rendevano l’azione di governo
incapace di direttive e di elaborazioni che andassero al di là dell’immediata
agenda politica quotidiana. In alcuni di essi si esprimeva anche il biasimo per una
direzione della politica estera, incapace di riconoscere come obiettivo primario la
volontà di potenza della nazione, sempre posposta invece alle esigenze del
minuto gioco politico interno, nonostante l’impresa di Libia e il temperamento
delle condizioni della Triplice ottenuto in favore dell’Italia. In altri emergeva la

145
censura per una politica sociale, da molti considerata solo come un accordo
«collaborazionista» tra alcuni settori privilegiati del capitale e del lavoro, a
scapito di tutti i restanti settori dell’apparato produttivo, e per il non grande
vantaggio ricavato dal programma di allargamento del quadro parlamentare alle
forze socialiste. Un programma largamente fallito dopo il 1914, quando, dopo
molti precedenti insuccessi, secondo il giudizio di Antonio Labriola, sarebbe
venuta definitivamente meno l’ipotesi di quella «democrazia legalitaria, specie di
conglomerato radico-socialista, composto da tutti gli elementi dei partiti
democratici che ammettevano di lavorare d’accordo con la monarchia». In quel
coro di riprovazione generalizzata si stigmatizzava infine lo scandalo per un
sistema di istruzione superiore, che era divenuto, come avrebbe sostenuto Volpe,
commentando le manovre che avevano sbarrato le porte dell’ateneo di Napoli a
Giovanni Gentile nel 1908, «quasi patrimonio di famiglia da amministrarsi
secondo i criteri del maggior tornaconto personale» da «gente così fatta che è
ancora l’arbitra della nostra vita universitaria, per la forza loro e per la debolezza
della pubblica opinione italiana».
Tuttavia il fuoco dell’opposizione a Giolitti riguardava soprattutto la messa in
evidenza dello snaturamento istituzionale dello Stato, del Parlamento, del
momento elettorale. Il primo, sempre manovrato in stretta simbiosi con le
fortune del governo. Il secondo, amministrato come sede di un’aggregazione
molecolare di consensi e non valorizzato come interlocutore istituzionale
primario della dinamica politica. Il terzo, infine, in larga parte gestito
spregiudicatamente per via amministrativa, a danno della competizione diretta di
gruppi e partiti autenticamente rappresentativi delle esigenze del paese. Questa
strategia politica comportava in ultima analisi la tolleranza verso la violazione
delle regole del regime parlamentare, manomesso dalle spinte centrifughe di
gruppi di potere privato e dal ricorso alla corruzione, all’intimidazione, alla
violenza. Come avrebbe denunciato Salvemini nel 1910 in un pamphlet di
straordinario successo (Il ministro della mala vita), il cui titolo avrebbe costituito
la più virulenta definizione del sistema di potere giolittiano.
Il libello descriveva nel dettaglio la gestione «camorristica» delle elezioni, nel
collegio elettorale pugliese di Gioia del Colle, dove Salvemini si era presentato,
per ricevere una sonora bocciatura, in gran parte dovuta alle interferenze dei
poteri prefettizi e alle minacce dei mazzieri del partito governativo.
La bribery organizzata dai capi bastone manovrati dall’esecutivo si era rivelata
decisiva nel corso di una competizione impari che sempre Salvemini avrebbe più
tardi rinnovato senza successo e che pure, commentava Volpe, aveva sortito il
non piccolo risultato di «aver avuto il consenso di tutta la gente per bene,

146
nell’aver seminato per il prossimo raccolto, nell’aver contribuito alla fine – che
non potrà tardare – dell’assolutismo giolittiano».
Queste le articolazioni del «disordine», edificato da Giolitti, che Gobetti avrebbe
denunciato ancora nel 1923 per la sua strategia di «naturale conversione del
liberalismo in democrazia demagogica», fattasi struttura organica di malgoverno
e, nel migliore dei casi, di governo di basso profilo dove la politica si riduceva
a routine amministrativa, a tattica di mediazione per la mediazione tra particolari
interessi di ceto, di categoria e di consorteria, dalla quale restavano esclusi
comparti fondamentali della vita nazionale. Queste le deformazioni di un sistema
liberale, ormai tale solo nel nome e non più nei fatti, contro il cui snaturamento si
sarebbe battuta una minoranza attiva, che Volpe avrebbe visto costituita da «una
specie di aristocrazia intellettuale anelante a più alta moralità pubblica, a più
nette disposizioni ideali, a più fecondi contrasti, a più energici atteggiamenti di
politica estera, rispondenti alle cresciute energie e possibilità del paese».
Obiettivi, questi, in tutto o almeno in parte condivisi da un vero e proprio «partito
degli intellettuali», che si era costituito in «antipartito della cultura». La pugnace
pattuglia di intellettuali comprendeva: Salvemini, Croce, Gentile, Prezzolini,
Amendola, Omodeo, Lombardo Radice, Mosca, Luigi Einaudi, Giustino Fortunato,
Guglielmo Ferrero, Luigi Albertini, Alfredo Rocco, Arturo Labriola infine, al quale
si doveva una delle più vivaci descrizioni della corruzione amministrativa
giolittiana che, promettendo di lavorare per il «governo della borghesia», aveva
in realtà costituito il «governo degli affaristi». A essi si aggiungevano i molti altri
meno conosciuti che Gobetti qualificava come cultori di «esercitazione politica
solitari», come fautori di «tentativi di eresia e di sforzi di concentrare intorno a
organi di studio e di ricerca gruppi di giovani disinteressati e alieni da
speculazione demagogica», che poi si sarebbero ritrovati «confusi insieme in un
compito indifferenziato di illuministi». Oppositori di Giolitti erano infatti tutti
coloro che, al di là di ogni possibile divisione di parte, reclamavano l’esigenza di
uno spirito nuovo, la fuoriuscita dal progressivo abbassamento del tono morale,
la correzione della montante indisciplina sociale che si rifletteva in misura
perversa sulla vita quotidiana del paese.
Erano queste richieste pressanti che intersecavano le tradizionali coalizioni
ideologiche e politiche, che si drappeggiavano di diverse parole d’ordine, da
quella di «classe» a quella di «nazione», ma che nella sanior pars dello
schieramento ostile allo statista piemontese, si ispiravano, secondo Volpe,
soprattutto al ripristino di un liberalismo più severo, opposto al liberalismo
giolittiano «venato o contaminato nell’azione politica quotidiana da tanto il
liberalismo». La reintegrazione di un senso dello Stato più rigoroso e moralmente
animato poteva allora richiedere, proseguiva Volpe, anche il ricorso a una

147
soluzione extra legem, come sarebbe avvenuto nel maggio del 1915, quando il
colpo di Stato interventista contro la maggioranza del Parlamento e della nazione
apparve soprattutto come «un mezzo per liberare l’Italia da Giolitti».

Partiti costituzionali
Il Partito Democratico Costituzionale Italiano (PDCI) fu un partito politico
del Regno d'Italia di ispirazione liberale sociale.
Esso nacque nel 1913 da una delle correnti di sinistra dei "Ministeriali"
di Giovanni Giolitti; Il primo congresso si svolse dal 22 al 28
maggio 1913 a Roma. Nello specifico il PDCI fu la forza che raggruppò la "sinistra
democratica" erede della componente zanardelliana.
A differenza di molti altri partiti liberali nati dai Ministeriali, il Partito
Democratico Costituzionale non si presentò nel cartello dell'Unione Liberale, con
la quale rimase comunque alleata negli anni successivi.
Alle elezioni politiche italiane del 1913 il partito (che al nord presentò spesso
candidati in comune coi liberali) ottenne il 5,5% ed elesse 29 deputati. Entrò poi
nella coalizione di governo guidata dall'Unione Liberale.
Nel 1919 il partito si fuse con altri partiti e gruppi di ispirazione liberale sociale,
dando vita al Partito Democratico Sociale Italiano.

Opera dei congressi


Associazione politico-religiosa fondata nel 1874 allo scopo di riunire i cattolici e
le loro associazioni per un’azione comune in difesa dei diritti della Chiesa e degli
interessi religiosi e sociali degli Italiani. Organizzata in comitati parrocchiali,
diocesani e regionali, oltre a svolgere un rilevante ruolo sul piano sociale, servì
anche a canalizzare l’opposizione politica dei cattolici al liberalismo. Sciolta nel
1898 dal ministro Rudinì, si ricostituì nel 1899. Frattanto i gruppi più giovani, per
iniziativa della Democrazia Cristiana di R. Murri, cercavano di rinnovarne lo
spirito e i metodi chiedendo un più chiaro impegno politico-sociale. La crisi
sboccò nello scioglimento dell’O. con lettera di Pio X (1904). Si permise solo la
prosecuzione del gruppo di opere economiche (società di mutuo soccorso, casse
rurali ecc.), soppresse nel 1905 e sostituite dall’Unione economico-sociale,
mentre si creavano l’Unione popolare e l’Unione elettorale.

Vincenzo Ottorino Gentiloni


Nacque a Filottrano, nell'Anconetano, il 13 ott. 1865, dal conte Isidoro e dalla
contessa Maria Segreti.

148
La famiglia, tra le più illustri di Filottrano, apparteneva a un'antica nobiltà. Il
padre, ufficiale della milizia pontificia, aveva anche partecipato, con il grado di
capitano, alla battaglia di Castelfidardo nel 1860.
Insieme con il fratello primogenito, Edgardo, il G. ricevette una severa
educazione ispirata alla solida tradizione religiosa coltivata in famiglia.
Frequentò a Filottrano gli studi elementari e ginnasiali, sotto la guida di don E.
Bianchi, direttore del locale ginnasio. Proseguì a Roma gli studi liceali, presso il
liceo statale E.Q. Visconti al Collegio romano, a fianco del quale operava anche la
Congregazione della Scaletta, dei padri gesuiti, che il G. frequentò insieme con
altri giovani studenti cattolici. Si iscrisse, quindi, alla facoltà di giurisprudenza
dell'Università di Roma, ove conseguì la laurea con pieni voti all'età di ventuno
anni.
Avviatosi alla carriera forense, il G. fece il tirocinio presso C. Palomba, celebre
penalista romano. In seguito aprì un proprio studio, nel palazzo De Dominicis, nei
pressi del Pantheon, affermandosi come uno dei più noti avvocati della capitale.
Nel corso della sua attività professionale non mancò di difendere personalità del
mondo cattolico coinvolte in accuse e processi relativi alla loro attività sociale,
politica e giornalistica.
Nel 1898, di fronte alla dura repressione operata dai governi Rudinì e Pelloux, il
G. difese R. Passamonti, direttore del periodico Il Lazio cattolico, ed E. Filiziani,
direttore de La Vera Roma. Difese anche il quotidiano bolognese l'Avvenire
d'Italia e i dirigenti del circolo cattolico S. Giuliano di Macerata.
La sua attività professionale, tuttavia, cominciò a cedere il posto all'impegno
organizzativo e direttivo in seno al movimento cattolico, soprattutto grazie al
rapporto di amicizia e di collaborazione che instaurò con mons. G. Radini
Tedeschi, cui era stato affidato, nel 1897, da G.B. Paganuzzi, presidente
dell'Opera dei congressi, il compito di rivitalizzare l'organizzazione del
movimento cattolico nelle Marche e in Umbria. Un anno dopo Radini Tedeschi
riusciva a costituire il comitato regionale marchigiano dell'Opera, del quale il G.
tenne la presidenza dal 1900 al 1903.
Fu tra i relatori di numerosi congressi cattolici, nazionali e locali, e tenne
conferenze e dibattiti in molte località del paese. Altri rilevanti incarichi direttivi
ebbe a Roma, divenendo, tra l'altro, presidente dell'Unione cattolica. Fu mons.
Radini Tedeschi a celebrare, l'8 sett. 1900 a Roma, le nozze del G. con Elena
Teresa Calderai, in occasione delle quali Leone XIII volle nominarlo cameriere di
cappa e spada.
La crisi e il successivo scioglimento dell'Opera dei congressi, operato da Pio X nel
1904, indussero il G. ad abbandonare la militanza attiva in seno al movimento
cattolico. Tra l'altro il suo orientamento ispirato a una linea moderata,

149
tradizionalista, di piena e convinta adesione alle direttive della gerarchia
ecclesiastica, lo portò in forte conflitto con l'emergente movimento della
democrazia cristiana, guidata da R. Murri, che auspicava un più incisivo impegno
dei cattolici, sulla base di un programma sociale e politico e di un organismo
autonomo dai controlli e dalle direttive delle gerarchie ecclesiastiche. Il G.,
dunque, abbandonò per il momento la partecipazione alle iniziative del
cattolicesimo organizzato per dedicarsi ad attività di altra natura, quale
presidente di una società produttrice di ceramica, l'Eretum di Monterotondo.
Dopo lo scioglimento dell'Opera dei congressi, Pio X, nel 1905, aveva deciso di
riorganizzare l'Azione cattolica (enciclica Il fermo proposito) sulla base di tre
Unioni (popolare, economico-sociale ed elettorale), con compiti di preparazione,
formazione e indirizzo da espletarsi anche sul piano sociale e politico. Nel luglio
1909, il pontefice convinse il G. a rinnovare il suo impegno politico e lo nominò
presidente dell'Unione elettorale cattolica italiana (UECI), in sostituzione di F.
Tolli. Pio X volle anche conferirgli la commenda di S. Gregorio Magno.
Tornato a contatto con i problemi, anche organizzativi, dell'Azione cattolica, il G.
si dedicò con particolare attenzione al problema della partecipazione dei cattolici
alle elezioni politiche, dopo molti anni di astensionismo sancito dal non expedit di
Pio IX. Sul piano della partecipazione elettorale dei cattolici, i primi anni del
Novecento avevano segnato una svolta significativa: infatti la ristrutturazione
dell'Azione cattolica da parte di Pio X era stata accompagnata anche dalla prima
parziale partecipazione dei cattolici alle elezioni politiche a sostegno di
candidature liberali, dato che il papa, a partire dalle elezioni del 1904, aveva loro
consentito di andare a votare in quei collegi nei quali, a giudizio dei vescovi,
esisteva il pericolo di un successo socialista o di candidati della sinistra radicale e
anticlericale.
Il G. condivideva questa impostazione e sollecitava un più ampio e articolato
intervento alle urne da parte dei cattolici. Parlando al XX congresso nazionale
cattolico svoltosi a Modena dal 9 al 13 nov. 1910, auspicò una più efficace
organizzazione elettorale, tale da consentire ai cattolici di far valere il peso della
loro forza numerica. "Il cattolico", affermò, "che per indifferenza o per
tradizionale lasciar fare, non intende la importanza del voto, non si studia di
impegnarsi a far argine alla marea montante, tradisce la causa della Chiesa e
della patria. […] I cattolici sono la maggioranza numerica della nazione. I
cattolici son sempre gli sfruttati, i derisi, i conculcati. Da che cosa dipende tutto
questo? Dal fatto che i cattolici, nella maggior parte, non sono consci della
propria forza, non comprendono il loro dovere, non pensano a organizzarsi sul
serio" (Grossi Gondi, p. 33).

150
Il G. si mise all'opera per intensificare l'attività organizzativa dell'Unione
elettorale, trasformando il suo studio di avvocato, in via A. Depretis a Roma, in
sede degli uffici di presidenza e di segreteria dell'Unione. Cominciò a viaggiare
per tutta Italia, soprattutto nelle regioni meridionali, quali le Puglie, la Basilicata
e la Calabria, nelle quali risultava difficile avviare attività di azione cattolica.
Proseguì, inoltre, l'iniziativa, già avviata dal suo predecessore, di convocare
annualmente a congresso i deputati e i consiglieri comunali e provinciali cattolici
eletti in tutta Italia. Grazie a questo impegno, il G. riuscì a rivitalizzare
l'organizzazione dell'UECI, che alla fine del 1911 poteva contare su 177
associazioni aderenti. Ma il momento più significativo della presidenza del G. si
ebbe in occasione delle elezioni politiche del 1913.
L'anno precedente il Parlamento aveva approvato l'introduzione del suffragio
elettorale maschile che allargava notevolmente il corpo elettorale da 3 a 8 milioni
e mezzo di elettori circa. Era chiaro che se i cattolici, con il nuovo sistema, si
fossero recati alle urne alla spicciolata, la massa dei loro voti si sarebbe dispersa
in vario senso, smarrendo quel minimo di unità di intendimento e di azione che la
Chiesa riteneva necessaria per difendere i suoi programmi.
L'atteggiamento da assumersi in vista di queste elezioni venne affrontato in un
documento del 2 apr. 1912, redatto dal G. e sottoscritto anche dagli altri
presidenti delle Unioni cattoliche. In esso si affermava che l'allargamento del
suffragio elettorale rafforzava "l'obbligo di tutti i cattolici di impedire il male e
rafforzare il bene", che era alla base delle deroghe pontificie al non expedit.
Tanto più di fronte al rischio che le "masse operaie" venissero condizionate da
"una propaganda assidua e perniciosa fatta dai nemici della religione" (Grossi
Gondi, p. 64). La questione fu ripresa nel corso di un'adunanza generale
dell'Unione elettorale bergamasca, guidata da R. Alessandri e N. Rezzara, svoltasi
a Bergamo il 26 ag. 1912. Alla riunione era presente anche il G., il quale ribadì
l'esigenza di individuare una strada al fine di fare maggiormente pesare il voto
dei cattolici.
Altre riunioni si ebbero a Milano, anche con la presenza di F. Meda, che dopo aver
tentato di dare vita a un partito politico di ispirazione cristiana, collaborò
attivamente con il G. nella definizione degli strumenti da utilizzare per far pesare
il voto dei cattolici. Si giunse alla conclusione di redigere un "eptalogo" nel quale
erano indicati i punti programmatici che stavano a cuore ai cattolici e che i
candidati che desideravano il voto dei cattolici dovevano accettare, dandone
"sicure garanzie o privatamente per iscritto o con la esplicita inclusione di tali
punti nel pubblico programma agli elettori". I sette punti riguardavano la difesa
della libertà di coscienza e di associazione e l'impegno di opporsi "a ogni
proposta di legge in odio alle congregazioni religiose"; difesa dell'insegnamento

151
privato, "fattore importante di diffusione e di elevazione della cultura nazionale";
difesa del "diritto dei padri di famiglia di avere pei propri figli una seria istruzione
religiosa nelle scuole comunali"; difesa dell'unità della famiglia e "assoluta
opposizione al divorzio"; riconoscimento su un piano di parità di "tutte le
organizzazioni economiche e sociali indipendentemente dai principii sociali o
religiosi ai quali esse si ispirano"; riforma degli "ordinamenti tributari e degli
istituti giuridici", attraverso l'"applicazione dei principii di giustizia nei rapporti
sociali"; infine si chiedeva "una politica che tenda a conservare e rinvigorire le
forze economiche e morali del paese, volgendole a un progressivo incremento
dell'influenza italiana nello sviluppo della civiltà internazionale" (Grossi Gondi, p.
67). Il G. si affrettò anche a trasmettere il testo dell'accordo alle personalità e
organizzazioni cattoliche italiane, invitandole a sostenere quei candidati "i quali,
ritenuti personalmente degni dei nostri suffragi", avevano accettato i sette punti
programmatici indicati dai cattolici.
Questo accordo, che prese il nome di patto Gentiloni, rappresentava, in un certo
senso, il presentimento, in modi, però ancora informi e balbettanti, della
necessità per il mondo cattolico di avere, nella nuova fase storica apertasi con
l'allargamento del suffragio elettorale, un proprio partito. L'esito elettorale non
fece che confermare il peso del voto cattolico nel quadro politico nazionale.
Tuttavia, l'operazione compiuta dal G. non trovò unanimi consensi in seno al
movimento cattolico, soprattutto da parte di coloro, come L. Sturzo, che
auspicavano l'ingresso dei cattolici nella vita politica non a sostegno del
moderatismo liberale ma come espressione di una forza politica autonoma con
una propria organizzazione e un programma ispirato alle istanze del pensiero
democratico cristiano. Pur non trascurando il fatto che il patto Gentiloni
convogliò i voti dei cattolici a sostegno della maggioranza ministeriale giolittiana
e che da quelle elezioni non uscì una forza organica di cattolici, risultò comunque
evidente che se i cattolici si fossero costituiti in forza organizzata avrebbero
potuto incidere profondamente e in maniera decisiva nella vita pubblica del
paese.
Le polemiche che seguirono i risultati elettorali del 26 ottobre - 2 nov. 1913,
suscitarono vivaci contrasti nel paese. Luigi Albertini, in un articolo sul Corriere
della sera (25 ott. 1913), aveva denunciato "il pericolo immenso di questo
intervento diretto di un conte Gentiloni in nome del Papa nelle più delicate
elezioni della penisola". Molti deputati liberali, alcuni dei quali noti per il loro
orientamento anticlericale e per la loro appartenenza massonica, risultarono
eletti con il voto dei cattolici, ma cercarono di negare la loro adesione al patto. Il
G., di fronte a questi atteggiamenti, intervenne, concedendo una intervista al
giornalista A. Benedetti, pubblicata sul Giornale d'Italia del 7 nov. 1913.

152
Il G. vi affermava che ben 228 deputati erano stati eletti con il voto dei cattolici,
sottolineando lo straordinario successo dell'operazione da lui guidata e
precisando che era stato "tolto il non expedit in 330 collegi", era stata
"mantenuta l'astensione più assoluta in 178 collegi", mentre i candidati sostenuti
dai cattolici erano stati sconfitti solo in 100 collegi. Il G. prendeva in esame
anche aspetti particolari della tornata elettorale, in primo luogo definendo il
patto "un vero e proprio programma di libertà, tanto che alcuni candidati liberali
che lo chiesero e lo firmarono si sono meravigliati che si domandasse loro così
poco in compenso dell'appoggio leale, disinteressato e fattivo dei cattolici".
Rivendicava alcuni successi - quali la mancata rielezione del socialista G.
Podrecca e di esponenti dell'anticlericalismo quali A. Campanozzi e L. Caetani - e
si soffermava in particolare sulla mancata elezione di R. Murri, presentatosi nel
collegio di Montegiorgio e battuto dal candidato dei cattolici G. Falconi: "La
democrazia", affermava il G., "ha combattuto la più bella battaglia a favore
dell'ex sacerdote ammogliato, diventato a un tratto il puro vessillifero dei più
sublimi ideali. I buoni contadini, fedeli alla religione degli avi, obbedienti al più
scrupoloso clero, in tre ore hanno fatto giustizia di un pallone gonfiato".
L'intervista fu seguita da pesanti polemiche; come sottolineò il direttore
del Giornale d'Italia, A. Bergamini, "ogni nome fu scrutato, indagato, discusso.
Con ironia si commentava che la gran parte dei duecento, noti per le loro
inclinazioni areligiose o miscredenti, ligi alla massoneria, avevano consentito a
combatterla in quel modo drastico. Mai io avevo assistito a tanto strepito
giornalistico e parlamentare" (p. 99).
Le molte polemiche che questa operazione provocò in campo giornalistico e
parlamentare finirono per fare del G. il personaggio più in vista e più discusso
della vita politica italiana sul finire del 1913. A qualche mese dalle elezioni
politiche, il G. si mise, comunque, di nuovo al lavoro per preparare le successive
elezioni amministrative comunali e provinciali. In una circolare emanata il 3
febbr. 1914, invitava le associazioni e gli elettori cattolici a impegnarsi al fine di
realizzare, nei vari organismi amministrativi locali, "l'onesta e saggia
amministrazione, l'elevamento morale delle classi inferiori, e soprattutto il
rispetto alla religione cattolica che è il patrimonio più prezioso della grande
maggioranza degli italiani" (Grossi Gondi, p. 75).
Tuttavia, anche in seno al movimento cattolico le polemiche che avevano
accompagnato le elezioni del 1913 avevano creato una corrente ostile al G., il
quale, con lo scoppio della prima guerra mondiale, la morte di Pio X e l'ascesa al
soglio pontificio di Benedetto XV decise, nel gennaio 1916, di rassegnare le
dimissioni da presidente dell'Unione elettorale cattolica; il pontefice le accettò,
nominando al suo posto il conte C. Santucci.

153
Benedetto XV, tra l'altro, gli scrisse una lettera di elogio e di ringraziamento,
conferendogli l'onorificenza di commendatore dell'Ordine Piano.
Colpito da un attacco di cuore, il G. morì a Roma il 2 ag. 1916.
Tra gli scritti lasciati dal G., piuttosto scarsi, si segnalano soprattutto articoli
pubblicata nella stampa cattolica (in particolare su La Settimana
sociale, L'Allarme, L'Ora presente di Jesi); i discorsi pronunciati ai congressi di
Modena (Atti del XX Congresso cattolico italiano. Modena 9-13 nov. 1910,
Bergamo 1910) e di Napoli (Atti del III Congresso degli eletti dai cattolici,
consiglieri comunali e provinciali e deputati aderenti all'Unione elettorale
cattolica, Napoli 5-7 marzo 1910, Napoli 1911); un suo intervento in Atti del VII-
VIII Congresso regionale marchigiano, Fabriano 1901. Una conferenza
(Convulsioni sociali, Jesi 1897) è riprodotta in Grossi Gondi, pp. 101-113. Il G. è
anche autore di un opuscolo in memoria di suo zio Vincenzo (In memoria di un
prode, Roma 1910).

Patto Gentiloni
Il patto Gentiloni fu un accordo stipulato tra i liberali di Giovanni Giolitti e
l'Unione Elettorale Cattolica Italiana (U.E.C.I.) presieduta da Vincenzo Ottorino
Gentiloni in vista delle elezioni politiche del 1913. L'accordo segnò l'ingresso
ufficiale dei cattolici nella vita politica italiana. Nel 1912 una riforma elettorale
aveva introdotto il suffragio universale maschile. Giolitti desiderava bloccare
l'avanzata del Partito Socialista. Prese perciò l'iniziativa di rivolgersi all’U.E.C.I.
L'esperimento della collaborazione con i cattolici fu rinnovato. Il partito liberale
mise a disposizione una nutrita quantità di seggi per i candidati cattolici. Da
parte sua, Vincenzo Gentiloni fu incaricato di passare al vaglio i candidati liberali,
al fine di far confluire i voti dei cattolici su quelli di loro che promettessero di fare
propri i valori sottolineati dalla dottrina cristiana e, parallelamente, di negare il
proprio sostegno a leggi anticlericali. Il patto consisteva in un elenco di sette
punti considerati irrinunciabili per ottenere il sostegno degli elettori cattolici. I
sette punti d'impegno, detti anche «Eptalogo», che ogni candidato doveva
sottoscrivere, furono:
1. Difesa della libertà di coscienza e di associazione;
2. Sostegno e non intralcio dell'insegnamento privato;
3. Garantire il diritto dei padri di famiglia ad avere per ii propri figli una seria
istruzione religiosa nelle scuole comunali;
4. Resistere ad ogni tentativo di indebolire l'unità della famiglia e quindi assoluta
opposizione al divorzio;

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5. Riconoscere gli effetti della rappresentanza nei Consigli dello Stato, diritto di
parità alle organizzazioni economiche o sociali indipendentemente dai principii
sociali o religiosi ai quali esse si ispirino;
6. Riforma graduale e continua degli ordinamenti tributari e degli istituti giuridici di
giustizia nei rapporti sociali;
7. Appoggiare una politica che tenda a conservare e rinvigorire le forze economiche
e morali del paese, volgendole a un progressivo incremento dell'influenza italiana
nello sviluppo della civiltà internazionale.

Questi punti furono inseriti anche nell'accordo fondativo (firmato nel 1912) del
neonato Partito Liberale. Il patto fu concluso in maniera informale: Giolitti, di
fronte alle accuse di aver "ceduto" ai cattolici, riferitegli dai liberali della sua
maggioranza, ne negò l'esistenza. I radicali comunque lasciano la maggioranza
giolittiana. La Santa Sede appoggiò il Patto. I risultati delle elezioni del 1913
sancirono il grande successo del Patto. Il Patto Gentiloni aveva portato alla
fusione tra il filone risorgimentale e il filone cattolico; le due componenti, unite,
formarono una larga maggioranza nel paese.

Suffragio universale maschile


Il suffragio universale maschile fu introdotto con la legge del 30 giugno 1912, n.
666. L'elettorato attivo fu esteso a tutti i cittadini maschi di età superiore ai 30
anni senza alcun requisito di censo né di istruzione, restando ferme per i
maggiorenni di età inferiore ai 30 anni le condizioni di censo o di prestazione del
servizio militare o il possesso di titoli di studio già richiesti in precedenza.
Il corpo elettorale passò da 3.300.000 a 8.443.205, di cui 2.500.000 analfabeti,
pari al 23,2% della popolazione. Non si attuò invece la revisione dei collegi
elettorali in base ai censimenti.
La Camera respinse con votazione per appello nominale la concessione del voto
alle donne (209 contrari, 48 a favore e 6 astenuti). Nel clima culturale del primo
Novecento, in cui la fiducia nel progresso tecnico e scientifico attribuisce agli
inventori il compito di risolvere ogni problema, anche la Commissione
parlamentare che esamina il disegno di legge sull'allargamento del suffragio
dedica attenzione a decine di inventori di "voto metri" e "voto grafi", precursori
del voto elettronico. Al termine del primo conflitto mondiale la legge 16 dicembre
1918, n. 1985, ampliò il suffragio estendendolo a tutti i cittadini maschi che

155
avessero compiuto il 21° anno di età e, prescindendo dai limiti di età, a tutti
coloro che avessero prestato servizio nell'esercito mobilitato.
L'idea di una riforma del sistema elettorale in senso proporzionale acquistò
sempre maggiori consensi nel paese nel dopoguerra. Protagoniste di questa
tendenza furono le forze politiche d'ispirazione socialista e cattolica, organizzate
in partiti di massa, le quali aspiravano ad offrire una più estesa rappresentanza a
quelle classi sociali che maggiormente avevano sopportato il peso della guerra. Il
9 agosto 1918 la Camera votò a scrutinio segreto la nuova legge elettorale con
224 voti a favore e 63 contrari. Alla votazione finale non presero parte gli ex
Presidenti del Consiglio Giovanni Giolitti ed Antonio Salandra. Con la legge 15
agosto 1919, n. 1401, fu introdotto il sistema proporzionale. Base dei collegi
divennero le province, ma con riguardo anche alla popolazione in modo tale che
ad ogni collegio corrispondessero almeno 10 eletti.

legislazione sociale
La legislazione sociale, nel suo moderno significato, è, dal punto di vista storico,
la conseguenza nel campo legislativo del fenomeno che si accompagna al nascere
della grande industria e che è noto sotto il nome di "questione sociale":
fenomeno che ha le sue prime e più allarmanti manifestazioni nel paese in cui la
rivoluzione industriale si manifesta con maggiore ampiezza, l'Inghilterra, da dove
dilaga sul continente europeo. Rivoluzione industriale e sviluppo del moderno
capitalismo pongono gli stati di fronte all'insufficienza del principio
individualistico del non intervento e della legislazione che ne era conseguita.
Parve in un primo tempo che i privati potessero, attraverso manifestazioni di
filantropia e di beneficenza, sopperire alle più gravi miserie che accompagnavano
lo sviluppo del capitalismo: sennonché queste assumevano vastità e aspetto tali
da richiamare l'attenzione sempre più viva di studiosi e di uomini politici i quali,
denunziando le condizioni veramente tristi delle classi lavoratrici, chiedevano a
gran voce un intervento della collettività. A questa opera illuminata di filantropi e
di sociologi si accompagnava il risorgere di quelle associazioni professionali che
la Rivoluzione francese si era illusa di poter sopprimere e che reclamavano, in
modo sempre più vivace e perentorio, un miglioramento delle condizioni di vita
dei lavoratori. Inoltre, i partiti politici che avevano assunto la tutela delle classi
proletarie urgevano e premevano per ottenere maggiori benefici per i lavoratori,
alcuni col proposito di raggiungere un migliore assetto sociale attraverso il
metodo graduale e riformistico, altri per rendere sempre più difficile la
condizione del capitale e quindi determinare l'ambiente favorevole per l'urto
risolutivo e rivoluzionario. Le classi detentrici del potere economico e quindi
anche del potere politico, a loro volta, concepivano la politica e la legislazione

156
sociale come mezzi per attenuare i disagi dei lavoratori, ma anche come un
sistema per smorzarne l'ardore rivoluzionario.
La legislazione sociale sorge quindi come un compromesso fra i principî agnostici,
individualistici e di non intervento dello stato liberale, e la sempre più imperiosa
necessità di migliorare le condizioni delle classi lavoratrici, proteggerle contro le
malattie, la disoccupazione, l'indigenza, tutelarle nelle relazioni di lavoro. La
legislazione sociale trae alimento anche da un'evoluzione del principio della
carità verso forme più elevate di solidarietà ed è influenzata dal progresso
compiuto dalla medicina nello studio delle malattie del lavoro e dell'igiene.
La legislazione sociale comprende tutte quelle disposizioni legislative che
tendono, oltre gl'istituti proprî del diritto comune, a realizzare una sempre
maggiore tutela delle categorie economicamente deboli, e in particolare delle
categorie lavoratrici. È opportuno però precisare che, se le disposizioni connesse
alla prestazione del lavoro e aventi quindi di mira la tutela dei lavoratori come
tali ne costituiscono il complesso più notevole (che, sotto questo aspetto, si può
più esattamente chiamare legislazione del lavoro), esistono peraltro
importantissimi settori della legislazione sociale nei quali si prescinde
assolutamente dal rapporto di lavoro, o dove il rapporto di lavoro viene preso in
considerazione come elemento accessorio della tutela legislativa: basti
richiamare i provvedimenti intesi a realizzare un elevamento delle condizioni
igieniche e del benessere fisico del popolo, e quelli riflettenti le assicurazioni
sociali. In particolare, quindi, oltre la cosiddetta legislazione del lavoro (v. lavoro,
XX, p. 665) la legislazione sociale abbraccia le seguenti forme di tutela, il cui
insieme si suole modernamente comprendere, specialmente nella letteratura
straniera, sotto la denominazione di "servizio sociale" (dal francese service
social e dall'inglese social service): a) Assicurazioni sociali (assicurazione contro
gl'infortunî sul lavoro e le malattie professionali; assicurazione contro le
malattie; assicurazione per la maternità; assicurazione contro la disoccupazione;
assicurazione invalidità-vecchiaia-superstiti); b) assistenza sociale (non
dipendente cioè da forme di assicurazioni e riflettente l'invalidità e la vecchiaia, o
interessante le vedove e gli orfani: assistenza ai disoccupati; assistenza ai vecchi
e agl'infermi, che non dispongano di risorse finanziarie sufficienti a provvedere
direttamente alle loro più modeste necessità; assistenza alla maternità,
all'infanzia e alle famiglie numerose; forme varie di assistenza per malattia, a
carico dei datori di lavoro); c) risanamento edilizio e costruzione di alloggi a buon
mercato (le cosiddette "case popolari"); d) perequazione degli oneri familiari dei
lavoratori (assegni familiari; fr. allocations familiales); e) ferie retribuite (a carico
del datore di lavoro).

157
Si possono inoltre considerare rientranti nell'ambito della legislazione sociale,
anche quei provvedimenti che si risolvono in una tutela e in un'assistenza
potenziale delle classi meno abbienti; così, ad es., i provvedimenti per la bonifica
di zone malsane e la creazione di possibilità di vita e di lavoro per le popolazioni
urbane o rurali troppo accentrate, i provvedimenti sulle migrazioni interne e
quelli per il miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie delle popolazioni
rurali, ecc. L'elencazione suddetta pone in evidenza l'ampiezza del campo
d'azione della legislazione sociale, la quale può determinare, in alcuni settori e in
momenti particolari, una convergenza di sforzi e di mezzi, intesi a tutelare le
categorie economicamente deboli contro eventi che particolarmente ne
minacciano l'esistenza e ne peggiorano le condizioni di vita; così, ad es.,
l'assistenza e la previdenza contro le malattie sociali possono essere praticate
con tale dotazione di mezzi e ampiezza di programmi e di organizzazione da
potersi parlare di una lotta contro le malattie sociali, quali la tubercolosi, la
malaria, il cancro; lo stesso si dica per la disoccupazione, per l'urbanesimo, ecc.
Il concetto, e quindi anche il contenuto della legislazione sociale, hanno però
subito in questo primo periodo del sec. XX, e più subiranno certamente
nell'avvenire, una notevole trasformazione e un ampliamento rilevante. Già nel
sec. XIX si era palesata in tutta la sua profondità e in tutta la sua estensione, la
crisi politica, sociale ed economica dello stato moderno, e tale crisi nel primo
decennio del sec. XX aveva assunto caratteristiche di particolare violenza.
L'attività politica dei partiti che avevano lottato per l'elevazione del lavoro e
l'azione sindacale delle nuove formazioni associative avevano posto problemi che
superavano i limiti di una sia pure illuminata politica sociale per investire in pieno
i rapporti delle categorie economiche fra loro e con lo stato. Questa politica
sociale aveva sempre carattere di compromesso, le mancava una visione e una
finalità organica, e la conseguente legislazione sociale rifletteva i difetti di
un'organizzazione statale informata a principî e a metodi incapaci di risolvere i
problemi posti dall'organizzazione economico-sociale moderna.
Il contrasto fra le aspirazioni dei lavoratori, che volevano conquistare sul terreno
politico parità di diritti e di doveri, e la realtà dell'organizzazione statale fu acuito
dal grande moto rivoluzionario conseguente in ogni paese alla guerra mondiale.
Questo contrasto assunse forme e finalità divergenti nei varî paesi, sia che lo si
esasperasse con la conquista proletaria dello stato, sia che lo si comprimesse con
la reazione politica, sia che lo si superasse attraverso la conciliazione sul terreno
politico delle categorie economiche e sociali e la conseguente trasformazione
dello stato moderno. Ovunque però apparve chiaro il superamento, nella teoria e
nella pratica, della legislazione sociale nel senso tradizionale e liberale del
termine; e di questo superamento si ebbero le prime precise manifestazioni nello

158
stato corporativo fascista, che segna le tappe successive di tale evoluzione,
precedendo gli altri paesi su una via che essi in parte già seguono e, comunque,
dovranno necessariamente seguire.
La legislazione sociale nello stato fascista. - Nello stato liberale lo stato di fatto
era non la parità di diritto e di dovere di tutte le categorie sociali e quindi, in
particolare, del capitale e del lavoro, ma l'esistenza di classi economicamente
forti e detentrici del potere politico di fronte a cui erano in alterna vicenda di
lotta e di odio classi economicamente deboli che tendevano alla conquista del
potere politico attraverso un moto rivoluzionario.
Questa concezione della disparità delle classi come condizione fatale della
costituzione economica e politica moderna è stata in pieno ripudiata dal
fascismo. Lo stato corporativo fascista non ammette il fatale persistere di una
classe diseredata accanto a una classe favorita dalla fortuna, né ammette che la
soluzione possa trovarsi nella lotta dell'una contro l'altra, per il predominio
economico e politico. Lo stato corporativo fascista con l'organizzazione sociale
basata sul principio del sindacato unico, rappresentante di diritto di tutti gli
appartenenti alla categoria, inserito nello stato attraverso la corporazione, e
soprattutto con il principio dell'effettiva eguaglianza dei sindacati dei prestatori
d'opera e dei datori di lavoro, ha posto, fino dal 1926, le basi giuridiche di
un'organizzazione che nelle costituite corporazioni ha trovato il suo compimento.
In sostanza, lo stato corporativo fascista con l'elevare il lavoro a soggetto
dell'economia tende a creare una nuova forma di civiltà che supera quella
antecedente, nella quale la legislazione sociale aveva potuto attuarsi con
carattere di compromesso, e che viene assorbita e trasformata da
un'organizzazione sociale nella quale tutti i fattori della produzione, su un piede
di reale e non apparente eguaglianza, collaborano nel processo produttivo e
trovano, d'accordo, le vie e i sistemi migliori per l'equa ripartizione del reddito,
contemperando le esigenze e le possibilità dei singoli con i superiori interessi
della produzione e stabilendo una precisa e completa solidarietà delle categorie.
Nessuna frase è meglio adatta a sintetizzare l'evoluzione dell'attività sociale
dello stato e quindi della cosiddetta legislazione sociale, in regime fascista, delle
parole pronunciate da Benito Mussolini nel discorso di Torino (22 ottobre 1932):
"Ci siamo già sganciati dal concetto troppo limitato di filantropia, per arrivare al
concetto più vasto di assistenza. Dobbiamo fare ancora un passo innanzi:
dall'assistenza dobbiamo arrivare all'attuazione piena della solidarietà
nazionale".
In regime fascista, pertanto, la legislazione sociale non è stata soltanto assorbita
e perfezionata, ma, potrebbe dirsi, ricreata mediante l'introduzione dei nuovi
principî e dei nuovi istituti del diritto corporativo. Invero, nel campo

159
dell'assistenza, che lo stato svolgeva per proteggere moralmente e
materialmente i lavoratori nei loro rapporti con gl'imprenditori, è stato introdotto
l'istituto del contratto collettivo di lavoro e istituita la Magistratura del lavoro,
cosicché la disciplina di questi rapporti è anzitutto deferita alle categorie sociali
organizzate nei sindacati, che vi provvedono col contratto collettivo di lavoro, ed
è assicurata, in caso di disaccordo, dalla Magistratura del lavoro, che ha anche il
compito di dettare norme regolanti i rapporti di lavoro. E così l'assistenza che lo
stato svolgeva nei confronti dei lavoratori per la migliore e più equa attuazione
della loro funzione produttiva viene oggi sostituita dall'intervento stesso delle
categorie, rappresentate, a parità di diritti e di doveri, nelle corporazioni. E la
stessa previdenza, intesa come organizzazione anticipata di soccorsi economici
per i rischi che i lavoratori affrontano e i danni che subiscono in conseguenza
della loro attività professionale e della loro inferiorità economica, è anzitutto
opera delle categorie, attraverso il contratto collettivo di lavoro e la costituzione
di istituti assistenziali o la trasformazione in senso corporativo di quelli che lo
stato aveva un tempo costituito per organizzare e attuare le varie provvidenze
sociali.
La legge 3 aprile 1926, n. 563, e i regolamenti che ne conseguono per dare
applicazione ai principî generali in essa contenuti, e più ancora la Carta del
lavoro, promulgata il 21 aprile 1927, introducono i nuovi principî e i nuovi istituti
della giustizia sociale in regime fascista. In particolare la Carta del lavoro
definisce (dichiarazioni XI a XXI) la "garanzia del lavoro" e si occupa
(dichiarazioni XXV a XXX) "della previdenza, della assistenza, della educazione e
della istruzione"; il presupposto è la solidarietà corporativa delle categorie nelle
imprese private e nell'organizzazione economico-sociale moderna. Basti
richiamare fra le nuove norme innovatrici nei confronti della legislazione sociale
preesistente, quelle che disciplinano la formazione del rapporto di lavoro e il
collocamento, quelle che riguardano il contenuto del rapporto di lavoro (durata e
risoluzione del contratto, durata del lavoro e salario) e infine le norme che si
riferiscono alla prestazione materiale del lavoro e che pertanto riguardano
l'igiene e la polizia del lavoro, la prevenzione degli infortunî e delle malattie
professionali, e si estendono anche alla tutela della personalità umana,
attraverso l'assicurazione contro le malattie sociali e la costituzione di forme
associative e mutualistiche per la difesa contro le malattie in generale.
E innovatrici sono anche le norme riflettenti la polizia del lavoro affidata agli
organi corporativi, con l'ausilio delle associazioni sindacali, l'assistenza
professionale devoluta alle stesse categorie e che tende al perfezionamento della
capacità produttiva del lavoratore e al suo elevamento morale e tecnico mediante
una continua opera di educazione e di istruzione che si conclude nell'attività

160
culturale e sportiva dell'opera nazionale dopolavoro. Gli stessi istituti della
previdenza vengono coordinati e unificati secondo la dichiarazione XXVI della
Carta del lavoro, e la loro azione è potenziata anche attraverso l'adozione di
nuove forme assicurative, sociali e popolari, destinate ad accrescere la
tranquillità di vita ai lavoratori.
Affermata la parità di diritti e di doveri fra capitale e lavoro nella moderna
organizzazione produttiva, ammessa la libertà di associazione nella disciplina
unitaria e totalitaria dello stato, conferita la rappresentanza al sindacato unico di
categoria e questo immesso nello stato attraverso la corporazione, la legislazione
sociale, che nel periodo e nella organizzazione prefascista era una concessione e
un'attuazione a carattere di compromesso dello stato liberale, assume oggi
sostanza e forma di una efficiente tutela del lavoro e della personalità umana del
lavoratore, attuata secondo i metodi e i principî del diritto corporativo, in piena
collaborazione delle categorie economiche e sotto la vigilanza imparziale ed equa
dello stato fascista.
Bibl.: La più vasta e sistematica raccolta di studî sulla legislazione sociale nei
principali stati del mondo è costituita dalle opere e dalle pubblicazioni periodiche
edite dall'Ufficio internazionale del lavoro di Ginevra; allo studio delle questioni
sociali, in genere, sono dedicate tutte le opere monografiche della collana Études
et documents, suddivisa in numerose serie; particolarmente utile, per il suo
carattere riassuntivo, può riuscire la consultazione dell'opera: Les services
sociaux (Bureau International du Travail, Études et documents, serie M, n. 11),
Ginevra 1933; fra le pubblicazioni periodiche dell'Ufficio internazionale del
lavoro, cfr. Rapport du Directeur (dal 1920 al 1929); Année sociale (1930, 1931,
1932, 1933, 1934-35), Revue internationale du travail, Informations
sociales; Informazioni sociali (pubblicazione periodica, in lingua italiana, della
Corrispondenza italiana dell'Ufficio internazionale del lavoro). Sempre per un
esame generale della legislazione sociale, cfr. inoltre: R. Sand, Le service social à
travers le monde, Parigi 1931; Verein für Sozialpolitik, Verhandlungen des
Vereins für Sozialpolitik in Königsberg, 1930, Monaco e Lipsia 1931; e i
periodici: Le assicurazioni sociali (Roma), Deutsche Zeitschrift für
Wohlfahrtspflege(Berlino), International Zeitschrift für Sozialversicherung (ivi).
Per la legislazione sociale in Italia, oltre Benito Mussolini, Scritti e discorsi, in
particolare, VIII: La dottrina del fascismo, Milano 1935, cfr.: B. Gabba, Trenta
anni di legislazione sociale, 1869-1898, Torino 1901; A. Cabrini, La legislazione
sociale (1859-1913), Roma 1913; L. Barassi, Diritto del lavoro e assicurazioni
sociali, Milano 1921; G. Balella, Lezioni di legislazione sociale, Roma 1927; G.
Bottai, La carta del lavoro, Roma 1927; Codice del lavoro, Roma 1930 e
successivi aggiornamenti; O. Fantini, La legislazione sociale nell'Italia

161
corporativa e negli altri stati, Milano 1931; G. Del Vecchio, I principi della Carta
del lavoro, Padova 1935; E. Capolozza, Compendio di legislazione sociale, Milano
1935; W. Cesarini Sforza, Corso di diritto corporativo, Padova 1935; B.
Biagi, Lineamenti di economia corporativa, ivi 1936. É bene ricordare anche le
encicliche papali, Rerum novarum e Quadragesimo anno rispettivamente di
Leone XIII (1891) e Pio XI (1933), e la Carta del Carnaro di G. D'Annunzio
(Fiume 1920). Fra le numerose pubblicazioni periodiche italiane che si
interessano di questioni sociali e di legislazione sociale, cfr.: Sindacato e
corporazione, edita dal Ministero delle corporazioni; Politica sociale, Le
assicurazioni sociali, Assistenza fascista, Assistenza sociale agricola, Rassegna
della previdenza sociale, La stirpe, ecc.

Politica coloniale
La politica estera di Giolitti fu influenzata da una maggiore attenzione per i
problemi interni del Paese piuttosto che per quelli esteri; ciononostante non fu
rinunciataria.
Pur confermando la Triplice Alleanza (1882, accordo tra Germania, Austria e
Italia), l’Italia cercò nuovi spazi di manovra con la ripresa dell’attività coloniale,
che si concretizzò nella guerra per la conquista della Libia.
L’impresa fu preparata da Giolitti con un graduale riavvicinamento alla Francia: i
due Paesi nel 1902 stipularono un accordo nel quale definivano le rispettive sfere
di influenza in Africa Settentrionale. A rispetto di tale patto, l’Italia avrebbe
lasciato piede libero alla Francia in Marocco, e la Francia avrebbe fatto lo stesso
con l’Italia nei territori africani ancora appartenenti all’Impero Ottomano.
Al fine di promuovere la conquista della Libia, in Italia si diffuse una campagna di
stampa che, evidenziando gli effetti positivi che tale impresa avrebbe portato alla
nazione, riuscì a convincere anche i più scettici.
Non mancarono comunque gli oppositori accaniti tra i quali Salvemini che definì
la Libia “uno scatolone di sabbia”; ostile fu anche la maggioranza massimalista
del Partito Socialista. Completamente favorevoli alla conquista furono invece i
Nazionalisti, i quali aspiravano ad un maggior prestigio per l’Italia.
Dopo essere rimasto a lungo indeciso, Giolitti abbracciò definitivamente l’idea
dell’impresa coloniale con uno scopo puramente strategico: salvaguardare
l’equilibrio internazionale evitando che la sponda africana finisse nelle mani dei
francesi, degli inglesi o di un’altra potenza coloniale.
La conquista della Libia
Il 29 settembre 1911 l’Italia dichiarò guerra all’Impero Ottomano sovrano in
Libia e ormai in disfacimento. La popolazione libica e l’esercito imperiale

162
opposero resistenza e l’Italia fu costretta a spostare la guerra nell’Egeo
occupando Rodi e le isole del Dodecaneso aspirando alla conquista di Istanbul.
L’Impero Ottomano fu allora costretto alla pace sancita il 18 Ottobre 1912 a
Losanna che riconosceva la sovranità italiana sulla Libia.
Le conseguenze della guerra
La guerra era costata la perdita di circa 3 mila soldati e non aveva portato i
risultati sperati; la Libia si rivelò al momento povera di materie prime e
difficilmente coltivabile (confermando le idee di Salvemini che l’aveva definita
uno “scatolone di sabbia”), ma il prestigio dell’Italia in ambito internazionale ne
fu rafforzato.

Politica interna
Il governo Zanardelli-Giolitti si caratterizza per il varo di importanti riforme
sociali quali la tutela del lavoro minorile e femminile, la creazione di assicurazioni
per i lavoratori e, soprattutto, la municipalizzazione dei servizi pubblici. Inoltre,
l’atteggiamento neutrale assunto dal governo nei conflitti tra i lavoratori e i
datori di lavoro favorisce lo sviluppo delle organizzazioni sindacali, le quali si
radicano fra i lavoratori e alimentano diversi scioperi che portano all’aumento dei
salari e al conseguente miglioramento del tenore di vita degli operai. Dopo le
dimissioni di Zanardelli, nel 1903, Giolitti è chiamato a formare il nuovo governo.
Il programma è volto a favorire minorile e femminile, la creazione di
assicurazioni per i lavoratori e, soprattutto, la municipalizzazione dei servizi
pubblici. Inoltre,
l’atteggiamento neutrale assunto dal governo nei conflitti tra i lavoratori e i
datori di lavoro favorisce lo sviluppo delle organizzazioni sindacali, le quali si
radicano fra i lavoratori e alimentano diversi scioperi che portano all’aumento dei
salari e al conseguente miglioramento del tenore di vita degli operai. Dopo le
dimissioni di Zanardelli, nel 1903, Giolitti è chiamato a formare il nuovo governo.
Il programma è volto a favorire l’industrializzazione del Paese, approvando, nello
stesso tempo, le prime importanti «leggi speciali» per il Mezzogiorno.
Nel suo tentativo di allargare le basi della maggioranza, Giolitti propone a Filippo
Turati, leader dell’ala riformista del partito socialista, di entrare nel governo. Al
rifiuto di Turati, i socialisti si arroccano su posizioni più radicali suscitando timori
nella borghesia. Ne approfitta Giolitti, che grazie al sostegno dei cattolici ottiene
una forte maggioranza alle elezioni. Altro provvedimento di notevole importanza
è la statalizzazione delle ferrovie (1904-1905); questo progetto, però, incontra
forti opposizioni che costringono Giolitti a dimettersi. Nel 1906 Giolitti torna alla
guida del governo ma le difficoltà economiche derivanti dalla crisi internazionale
del 1907 intensificano notevolmente le lotte sociali, inasprendo le tensioni tra

163
operai e Confindustria (nel 1906 viene fondata la Confederazione generale del
lavoro CGL). L’azione riformatrice del governo diventa perciò difficile e Giolitti
attua una seconda ritirata strategica. Nel 1911 torna nuovamente al governo, con
un programma orientato a sinistra, il cui punto cardine è la riforma dell’istruzione
elementare ed il suffragio universale maschile che viene esteso a tutti coloro che
abbiano prestato servizio militare o che comunque abbiano raggiunto il
trentesimo anno di età.

notevolmente le lotte sociali, inasprendo le tensioni tra operai e Confindustria


(nel 1906 viene fondata la Confederazione generale del lavoro CGL). L’azione
riformatrice del governo diventa perciò difficile e Giolitti attua una seconda
ritirata strategica. Nel 1911 torna nuovamente al governo, con un programma
orientato a sinistra, il cui punto cardine è la riforma dell’istruzione elementare ed
il suffragio universale maschile che viene esteso a tutti coloro che abbiano
prestato servizio militare o che comunque abbiano raggiunto il trentesimo anno
di età.

Altro provvedimento di notevole importanza è la statalizzazione delle ferrovie


(1904-1905); questo progetto, però, incontra forti opposizioni che costringono
Giolitti a dimettersi. Nel 1906 Giolitti torna alla guida del governo ma le difficoltà
economiche derivanti dalla crisi internazionale del 1907 intensificano
notevolmente le lotte sociali, inasprendo le tensioni tra operai e Confindustria
(nel 1906 viene fondata la Confederazione generale del lavoro CGL). L’azione
riformatrice del governo diventa perciò difficile e Giolitti attua una seconda
ritirata strategica. Nel 1911 torna nuovamente al governo, con un programma
orientato a sinistra, il cui punto cardine è la riforma dell’istruzione elementare ed
il suffragio universale maschile che viene esteso a tutti coloro che abbiano
prestato servizio militare o che comunque abbiano raggiunto il trentesimo anno
di età.

Politica estera
In politica estera Giolitti abbandona il «triplicismo» (l’alleanza con Germania e
impero austro-ungarico) di Crispi e si avvicina alla Francia con cui firma un
accordo, nel 1902, che pone fine alla «guerra doganale» e alla questione
africana: l’Italia ottiene il riconoscimento dei suoi interessi in Libia e lascia mano
libera alla Francia in Marocco. Quando la Francia si appresta a imporre il suo
protettorato sul Marocco, Giolitti invia un contingente di 35.000 uomini in
territorio libico. Tale azione militare si scontra con gli interessi dell’impero turco
che esercita una sovranità quasi totale sulla Libia. La guerra italo-turca (1911) si

164
estende anche in Grecia, dove le truppe italiane s’impossessano dell’isola di Rodi
e dell’intero arcipelago del Dodecanneso. La Pace di Losanna (1912) stabilisce la
sovranità italiana sulla Libia.

PARTITI E MOVIMENTI POLITICI IN ETÀ GIOLITTIANA


• I cattolici: Durante l’età giolittiana, in campo cattolico si sviluppa il
movimento democratico-cristiano guidato da un sacerdote marchigiano,
Romolo Murri, la cui azione è fortemente osteggiata da papa Pio X, che
arriva a scomunicarlo. Questo, però, non impedisce lo sviluppo del
movimento sindacale cattolico e la formazione di «leghe bianche». In
Sicilia il movimento contadino cattolico si sviluppa sotto la guida di don
Luigi Sturzo. Sul piano politico, le forze clerico-moderate stabiliscono
alleanze elettorali, in funzione conservatrice, con i liberali: tale linea
politica riceve piena consacrazione, nelle elezioni del 1913, con il Patto
Gentiloni, in virtù del quale i cattolici accettano di votare per quei
candidati liberali che si impegnino, a loro volta, ad opporsi a qualsiasi
legislazione anticlericale. In questo modo, i cattolici aggirano il «non
expedit» di Pio IX che proibiva loro la partecipazione alla vita politica.

• I socialisti: Il socialismo si sviluppa nei primi anni del Novecento. La


corrente riformista interna al PSI è favorevole alla politica di
Giolitti, in quanto i suoi leader — tra cui Turati — pensano che solo tramite la
collaborazione con la borghesia progressista sia possibile ottenere delle riforme.
Durante il congresso di Bologna del 1904, le correnti rivoluzionarie ottengono
però la guida del partito e pochi mesi più tardi indicono il primo sciopero
generale nazionale italiano, che mostra tutti i gravi limiti organizzativi del Partito
socialista. Nel 1912, dopo l’espulsione dei riformisti, i rivoluzionari tornano a
controllare il partito. Uno dei leader di spicco degli intransigenti
diviene il giovane Benito Mussolini, eletto nello stesso anno direttore del
quotidiano «L’Avanti».

• I nazionalisti: Il movimento dei nazionalisti, sorto intorno alla rivista «Il


Regno», si estende grazie all’eloquenza di Gabriele D’Annunzio e nel 1910
diviene una forza politica a carattere antiliberale, antiparlamentare e
militarista. Dopo la guerra di Libia, i nazionalisti guadagnano supporti più
ampi dichiarando il loro disprezzo per la cosiddetta «Italietta» di Giolitti e
la loro volontà di avere un’Italia potente e militarmente forte.

165
5) LA FINE DEL GIOLITTISMO
Giolitti si dimostra sempre meno in grado di controllare la situazione politica e
nel 1914 rassegna le dimissioni, indicando al re, come suo successore, Antonio
Salandra. Nei progetti giolittiani c’è l’idea di un ritorno al potere, ma la situazione
è molto cambiata: il contrasto tra destra e sinistra provoca un inasprimento delle
tensioni sociali, che si sarebbero poi sedate solo alla vigilia della «grande
guerra». Tra il 7 e il 14 giugno del 1914, il paese è scosso dalla cosiddetta
«settimana rossa»: un’ondata insurrezionale contro il divieto governativo di
svolgere manifestazioni antimilitariste. A capo del movimento di protesta si
trovano: Pietro Nenni, Benito Mussolini ed Enrico Malatesta. L’uccisione di tre
dimostranti provoca un’ondata di scioperi in tutto il Paese

grandi potenze: è uno Stato dotato di grandi potenzialità militari ed economiche,


con cui riesce a esercitare un ruolo di rilievo nelle vicende internazionali.
• Secondo reich (Germania)
La nascita del secondo Reich.
L’evoluzione del regno di Prussia. La politica unionista prussiana: Il 28
aprile 1849 il re di Prussia Federico Guglielmo IV di Hohenzollern rifiutò la
corona imperiale di uno stato nazionale piccolo-tedesco che gli era stata
offerta dal parlamento di Francoforte. Tale assemblea fu così costretta a
sciogliersi il 18 giugno data la sua impotenza politica.
Nel 1857 Federico IV iniziò a dare segni di squilibrio mentale e suo fratello
Guglielmo divenne principe reggente prima e successivamente re di
Prussia (1861) e imperatore (1871). Questo fu un reazionario
intransigente. Il 6 maggio 1862 egli sciolse le camere, in seguito alle
vicende delle sovvenzioni militari) e le elezioni diedero la maggioranza allo
schieramento liberale (solo 11 conservatori rappresentanti).
La nuova camera respinse il bilancio militare del 62, costringendo così ad
una scelta fra rinunciare alla riforma dell’esercito o governare contro il
parlamento. Guglielmo I decise così di chiamare alla guida del
governo Otto von Bismarck.
SECONDO REICH, BISMARCK
Bismarck (1815-1898) - Bismarck e il conflitto costituzionale: Proveniva da
una piccola famiglia nobile. Nel 1847 fu nominato alla Dieta riunita
prussiana e presto divenne uno degli esponenti di punta del gruppo
ultraconservatore. Nel 1851 fu nominato ministro plenipotenziario per la
Prussia alla Dieta di Francoforte, incarico che mantenne per 7 anni. Il 22
settembre 1962 ricevette da Guglielmo l’incarico di primo ministro. Per lui
la questione tedesca non si decideva in parlamento ma sui campi di

166
battaglia e nella diplomazia. Il 23 settembre il parlamento approvò il
bilancio cancellando lo stanziamento previsto per la riforma militare,
credendo che Bismarck non avesse potuto governare contro la
maggioranza; egli cercò una collaborazione con la camera, dimostrando
che la riforma dell’esercito avesse come obiettivo la risoluzione della
questione tedesca. Ciò non servi a convincere la camera. Fece così marcia
indietro e dopo che la camera dei Signori aveva approvato, contro il
dettato della costituzione, gli stanziamenti, decise di rinviare le sedute
della Camera dei deputati per alcuni mesi. Alla ripresa dei lavori, nel 1863,
vista l’ostilità ancora mostrata della camera, dopo mesi di intenso
dibattito, Bismarck decise per il suo scioglimento e abolì la libertà di
stampa. Fino al ’66 Bismarck governò senza presentare bilancio attraverso
decreti reali immediatamente operativi. La riforma dell’esercito fu
realizzata con gli strumenti dell’assolutismo burocratico. La politica estera
divenne decisiva.
PROCLAMAZIONE DEL SECONDO REICH
L’unificazione della Germania. Bismarck risolse la questione tedesca con 3
vittorie straordinariamente rapide tra il ‘64 e il ’71, contro Danimarca
(’64), Austria (’66), Francia (’70-’71). Ciò fu possibile anche crisi di quelle
potenze (Austria e Russia) che fino ad allora avevano posto il veto
all’unificazione tedesca sotto l’egemonia prussiana.

• Gran Bretagna
• Francia
• impero austro ungarico
• Russia
• Italia

prova intercorso
• Tra 11/11- 12/11
• Capitoli da 1 a 5
• Capitoli da 6 a 12 per l’esame

23/10

Lezione 11

167
Prova intercorso il 12/11

Capitoli da non fare capitolo 2 paragrafo 8, capitolo 3 paragrafi 2-3-4

Seconda prova intercorso dal 6 al 13

Opinione pubblica

Giudizio e modo di pensare collettivo della maggioranza dei cittadini, o anche questa
maggioranza stessa. Il concetto di opinione pubblica, intesa anche come sistema di
credenze sulla cosa pubblica, nasce con l'idea moderna di democrazia rappresentativa,
definita da J. Locke come governo dell'opinione. L'opinione pubblica è tale non solo
perché del pubblico (diffusa fra i molti o fra i più), ma anche perché tendenzialmente
indirizzata al pubblico: in quanto, cioè, costituisce un’intelaiatura di valori, un sistema
di credenze sulla cosa pubblica. A partire dall’inizio del Novecento fiorì tutta una serie di
studi sui rapporti fra opinione pubblica e società di massa in campo specialmente
sociologico e psicologico (G. Le Bon, G. Tarde, F. Tonnies, C.H. Cooley, W. Lipmann), che
diedero impulso a una grande varietà di ricerche empiriche e di programmi applicativi
basati sulle tecniche della propaganda, del sondaggio e del marketing, intese ad
analizzare o a manipolare gli stati dell’opinione pubblica nelle diverse arene,
economiche o politiche, in cui si manifestano. Con lo sviluppo degli strumenti
di comunicazione di massa, il problema dell’opinione pubblica diventa essenzialmente
quello di capire le modalità (critiche o passive, cognitive o emotive) attraverso cui i
diversi ‘pubblici specializzati’ interagiscono con i flussi d’informazione, nonché gli esiti
di questa interazione sulla struttura della società.

LA FORMAZIONE DEL CONCETTO

Il concetto di opinione pubblica cominciò a prendere forma in Europa in seguito


alla crisi dei regimi assoluti e alla formazione dei moderni Stati nazionali (tra il 17° e il
18° sec.), dotati di strutture centralizzate, di solidi apparati burocratici, amministrativi
e militari. La formazione dell'opinione pubblica è infatti strettamente collegata
all'organizzazione di una società moderna, complessa e articolata nella quale gli
individui possano esprimere, in quanto collettività, giudizi sia sulla politica del governo
che su tutti gli altri temi culturali, religiosi e sociali. Il processo si è sviluppato
nel tempo in seguito alle profonde trasformazioni economiche e sociali, all'aumento
dell'alfabetizzazione, alla formazione di circoli politici e culturali e alla diffusione della
stampa, con modalità e tempi diversi nei vari paesi. Con l'affermazione della borghesia,
all'inizio del Settecento, si era aperto un dibattito teorico sui limiti dei poteri
dello Stato e sui diritti degli individui. Il tema del rapporto tra sfera pubblica e privata,
con tutte le sue implicazioni come il nodo del rapporto tra morale e politica, comincia da
quel momento ad assumere un ruolo centrale. Una delle prime riflessioni risale al

168
filosofo inglese J. Locke che, nel Saggio sulla intelligenza umana, attribuì all'opinione
pubblica una funzione di controllo nella società, stabilendo una distinzione precisa tra la
legge morale, espressa appunto dall'opinione pubblica, e la legge civile, emanazione
del potere politico, distinzione poi ripresa da I. Kant, che pose l'accento sull'"uso
pubblico della ragione in tutti i campi". Si cominciava ad affermare l'importanza della
'pubblicità', cioè del coinvolgimento politico e della funzione di controllo dei cittadini
nei confronti del potere costituito. Questo tema fu poi ripreso e approfondito nei primi
decenni dell'Ottocento dalle correnti liberali inglese e francese, con i filosofi E. Burke, J.
Bentham, B. Constant e F.-P.-G. Guizot attenti a sottolineare il rapporto tra opinione
pubblica e potere costituito, tra informazione e libertà di stampa. Nella seconda metà
dell'Ottocento il pensiero liberale cominciò a evidenziare come l'opinione pubblica,
conseguenza dello sviluppo dello Stato democratico, potesse avere anche risvolti
negativi. Già studiosi, come A. de Tocqueville nella Democrazia in America o J.S. Mill nel
saggio Sulla libertà, avevano notato come l'opinione pubblica potesse condizionare il
grado di autonomia degli individui.

L'EVOLUZIONE NEL NOVECENTO

Nel corso del Novecento il concetto di opinione pubblica si è evoluto e modificato in


rapporto alle trasformazioni economiche e politiche, ai conflitti bellici che hanno
coinvolto tutti i paesi imponendo la partecipazione delle masse, nonché all'influenza
sempre più organica e massiccia dei mezzi di comunicazione sulla società. Nel 1922 il
sociologo americano W. Lippmann pubblicò il saggio L'opinione pubblica, in cui
esaminava il rapporto stabilitosi nelle società avanzate tra un pubblico diventato
sempre più diversificato e i mezzi di comunicazione. A questo proposito egli osservava
che necessariamente "ciò che l'individuo fa si fonda non su una conoscenza diretta e
certa, ma su immagini che egli forma o che gli vengono date". I mezzi di comunicazione
- all'epoca soprattutto i giornali - potevano svolgere un ruolo preponderante nella
formazione ma anche nella manipolazione della collettività. Emergeva qui chiaramente
la consapevolezza del ruolo preminente che i mezzi di comunicazione, in quanto
emanazioni di forze economiche, politiche, religiose ecc., erano in grado di esercitare
all'interno della società di massa.

Lo studio pionieristico di Lippmann fu poi ripreso negli anni Sessanta, in un contesto


fortemente caratterizzato dalla concorrenzasempre più dinamica tra i mezzi di
comunicazione, dal filosofo tedesco J. Habermas, esponente della scuola di Francoforte.
Nella sua opera Storia e critica dell'opinione pubblica (1962), Habermas analizza la
trasformazione della sfera pubblica, dal punto di vista dello Stato sociale e dei
mutamenti delle strutture della comunicazione, sotto l'influenza dei media (stampa,
radio, cinema e televisione). Secondo Habermas nelle società industriali avanzate il

169
confine tra sfera pubblica e privata tende sempre più ad assottigliarsi, e l'opinione
pubblica perde in misura crescente il suo valore democratico a causa della martellante
influenza dei mezzi di comunicazione.

IL MONDO 'IN RETE'

La rivoluzione telematica all'inizio del 21° sec. ha impresso una svolta nel mondo della
comunicazione e nel rapporto con il pubblico. Un processo complesso, non privo di forti
squilibri e di contraddizioni, nel quale l'antagonismo sempre più frenetico tra i media va
di pari passo con il formarsi continuo di canali paralleli e con la rapidità eccezionale dei
mezzi informatici. Le analisi sul mondo giovanile, per es., evidenziano una disaffezione
sempre più marcata nei confronti dell'informazione giornalistica ufficiale e una crescita
esponenziale della ricerca individuale di aggiornamento in tempo 'reale' in ambiti
diversificati. Internet può rappresentare un importante percorso alternativo nel mondo
della comunicazione offrendo ai lettori nuove opportunità di controllo nei confronti dei
media. In questa fase il richiamo all'opinione pubblica tende a essere utilizzato a fini
più pratici e mirati, come nei sondaggi politici, sociali e pubblicitari.

4 marzo 1914

Prese pretesto dalla dissociazione dei radicali dal suo governo, che metteva la sinistra
giolittiana in minoranza, per presentare le dimissioni il 4 marzo 1914, indicando egli
stesso al re, come successore, Salandra, il capo della Destra (21 marzo 1914 - 19
giugno 1916) e Sydney Sonnino governo due volte:

• 30 giorni
• 40 giorni

Parlamento del 1913- 1914


• A destra i liberali è una dottrina politica improntata sulla difesa dei diritti e delle
libertà individuali, individuati come naturali e indicati come unica giustificazione
dell'esistenza di un'autorità pubblica esponenti Sydney Sonnino e Salandra
• A sinistra i nazionalisti sono un insieme di dottrine e movimenti che pongono al
centro l'idea di nazione e di identità nazionale; storicamente si è manifestato
come ideologia alla base della rivendicazione di libertà per una nazione oppressa
esponenti Enrico Corradini, Marinetti, D’annunzio
• Cattolicesimo Insieme dei principi e dell'ordinamento della Chiesa cattolica
romana, ossia la società di fedeli che, distinguendosi da tutte le altre comunità

170
cristiane (➔ cristianesimo), ha per capo visibile il papa, considerato vicario di
Cristo e successore di Pietro
• Socialismo è un complesso di ideologie, movimenti e dottrine legato a
orientamenti politici di sinistra tendente a una trasformazione della società
finalizzata a ridurre le disuguaglianze fra i cittadini sul piano sociale, economico
e giuridico esponenti Turati, Mussolini, Treves .
• Democratici la democrazia è quella forma di governo dove la sovranità è
esercitata, direttamente o indirettamente, dal popolo, generalmente identificato
come l'insieme dei cittadini che ricorrono in generale a strumenti di
consultazione popolare; la sovranità può anche essere esercitata incrociando i
due sistemi esponente Giolitti
• Radicali rappresentavano l'ala più estrema dello schieramento liberale
identificandosi nella sinistra liberale. Essi proponevano riforme politiche appunto
radicali in senso egualitario, tra le quali l'introduzione del suffragio universale,
l'abolizione dei titoli nobiliari e, taluni, la repubblica
• Repubblicani Storicamente il partito era stato fondato per contrastare la temuta
espansione a ovest del sistema schiavistico degli Stati meridionali democratici;
quindi, era inizialmente alla sinistra di quello democratico, adottando una politica
abolizionista e liberale, con anche alcune sue correnti radicali.
• Cattolici deputati ( clericale ) Come sost., appartenente allo schieramento dei
laici cattolici che, dopo la proclamazione del regno d’Italia e dopo l’occupazione
di Roma, affiancarono attivamente la Santa Sede nella politica di protesta contro
lo stato italiano, politica che ebbe fine solo nel 1919 con l’autorizzazione data da
Benedetto XV ai cattolici di entrare nel Partito Popolare Italiano: la lotta dei
c. per rivendicare i diritti della Santa Sede. Più genericam., il termine (usato
soprattutto in tono polemico dagli avversarî, mentre i fautori di questa politica
adoperano cattolico o, addirittura, cristiano) indica i sostenitori di una
partecipazione determinante del clero e del laicato cattolico alla vita politica e al
governo dello stato, con un programma ispirato ai principî e alle esigenze
dell’autorità ecclesiastica: un c. intransigente e fanatico.

1908-1912
il partito socialista
il partito socialista si divide in due categorie
• Partito socialista italiano (PSI) Partito politico italiano, fondato nel 1892 e sciolto
nel 1994. Già all’inizio degli anni Ottanta dell’Ottocento il movimento operaio
italiano cominciò a dotarsi di organizzazioni politiche, dal Partito socialista
rivoluzionario di Romagna di A. Costa al Partito operaio italiano di C. Lazzari.

171
Sulla base di quest’ultima esperienza, e più ancora della Lega socialista milanese
di F. Turati, a Genova, nell’ag. 1892, venne fondato il Partito dei lavoratori
italiani, che l’anno successivo inglobò anche il Partito socialista rivoluzionario,
assumendo prima il nome di Partito socialista dei lavoratori italiani, e poi (1895)
quello di Partito socialista italiano. Fin dalla nascita, dunque, il PSI riunì al suo
interno diverse componenti politico-culturali, da quella riformista con agganci al
marxismo di Turati al rivoluzionarismo di A. Costa, ai prosecutori delle tradizioni
anarchiche e repubblicane, dalle quali ultime ereditò una certa venatura
anticlericale; l’adesione al marxismo e l’attenzione al dibattito teorico, peraltro,
furono piuttosto superficiali, nonostante il lavoro svolto in tal senso da Antonio
Labriola. Il partito si sviluppò rapidamente, radicandosi in particolare nel Centro-
Nord e conquistando le posizioni più forti non tanto nelle grandi città o nel
proletariato industriale, quanto in provincia, nella Pianura padana e tra le masse
contadine che andavano organizzandosi in leghe e cooperative. Sul piano politico
generale, sotto la guida della corrente riformista di Turati (1900-12), il PSI si
ritrovò spesso alleato delle altre forze della sinistra «estrema» sul piano
parlamentare, ossia radicali e repubblicani, diventando anche un interlocutore
del governo Giolitti (1902-04), nel quadro del tentativo dello statista liberale di
integrare il movimento operaio. Contro questa tendenza si aggregarono le
correnti di sinistra interne al partito, quella intransigente di Lazzari ed E. Ferri e
quella sindacalista-rivoluzionaria di Arturo Labriola, le quali col Congresso di
Bologna del 1904 assunsero la direzione del partito, rendendolo parte attiva nel
primo sciopero generale della storia italiana (sett. 1904). Poco dopo, mentre il
movimento sindacale si organizzava nella Confederazione generale del lavoro
(CGDL), i riformisti riconquistavano la guida del partito, determinando la
fuoriuscita dei sindacalisti rivoluzionari dal PSI (1907), mentre avanzava la
corrente di I. Bonomi e L. Bissolati, mirante alla trasformazione del partito in una
forza di tipo laburista. Tuttavia la guerra di Libia, dal chiaro impianto colonialista,
alla quale Bonomi e Bissolati guardavano con favore, mentre la sinistra di A.
Bordiga sviluppava un’intensa propaganda antimilitarista, determinò l’espulsione
dal PSI dei primi (che fondarono il Partito socialista riformista italiano) e la
vittoria della corrente massimalista, nella quale emergeva B. Mussolini, mentre
nuovo segretario del partito divenne lo stesso Lazzari (Congresso di Reggio
Emilia, 1912). Lo scoppio della Prima guerra mondiale rimescolò ancora le carte:
Mussolini passò nelle file del cosiddetto «interventismo rivoluzionario», e
pertanto fu dimissionato da direttore dell’Avanti! e poi espulso dal partito;
Bonomi e Bissolati, ma anche personalità come C. Battisti e G. Salvemini, si
schierarono con l’«interventismo democratico»; mentre il PSI prese una
posizione pacifista e neutralista, attestandosi sulla linea del «non aderire né

172
sabotare». Tale linea si rivelò tuttavia inadeguata, poiché da un lato non frenò le
accuse del fronte nazionalista che vedeva i socialisti come «disertori» e
«sabotatori» dello sforzo bellico, dall’altro non consentì al partito di porsi alla
testa dei moti rivoluzionari che la stessa guerra favorì (insurrezione di Torino, ag.
1917). Nelle elezioni del 1919, col nuovo sistema elettorale proporzionale, il PSI
balzò al 32,3%, diventando la maggiore forza; politica italiana e superando ben
presto (1920) i 200.000 iscritti. Il Congresso di Bologna (1919) vedeva intanto la
vittoria dei massimalisti di G.M. Serrati e l’adesione del partito alla terza
Internazionale. Tuttavia, anche nel corso del «biennio rosso» e dell’occupazione
delle fabbriche torinesi – in cui pure un ruolo centrale ebbero la sezione torinese
del partito e il gruppo dell’Ordine nuovo, promotore del movimento dei Consigli
di fabbrica – il PSI non riuscì a guidare il movimento verso uno sbocco
rivoluzionario, giocando anzi, assieme alla CGDL, un ruolo frenante nello sviluppo
delle lotte. Tale esperienza, assieme alla spinta dell’esempio della Rivoluzione
d’ottobre in Russia e al rifiuto del gruppo dirigente del partito di espellere i
riformisti come chiedeva il Comintern, determinò al Congresso di Livorno (genn.
1921) la fuoriuscita della frazione comunista, che diede vita al Partito comunista
d’Italia (➔ Partito comunista italiano). Frattanto lo squadrismo fascista colpiva in
modo sempre più diffuso sedi e uomini del partito, che pure si illuse di poter
siglare un «patto di pacificazione» (ag. 1921) di cui però i fascisti non tennero
alcun conto; lo stesso sciopero generale legalitario (ag. 1922) si trasformò in un
boomerang, e di lì a poco la marcia su Roma portava i fascisti al potere, guidati
da quello stesso Mussolini che nel PSI aveva mosso i primi passi. Nello stesso ott.
1922 intanto l’ala riformista veniva espulsa dal partito e costituiva il Partito
socialista unitario (PSU); il tentativo di avviare un processo di fusione coi
comunisti, promosso da Serrati, veniva intanto contrastato dalla maggioranza del
PSI, che infine espelleva la corrente terzinternazionalista, che di lì a poco confluì
nel PCD’I. Il delitto Matteotti apriva intanto una grave crisi per il fascismo, ma
ancora una volta le esitazioni delle forze antifasciste e dello stesso PSI, riunite
nell’anti-Parlamento sull’Aventino, determinarono un’ondata di riflusso, cui seguì
il consolidarsi del regime fascista. Anche il PSI venne dunque sciolto, e
nonostante significativi segnali di resistenza come l’esperienza della
rivista Quarto stato (fondata da P. Nenni e C. Rosselli), una buona parte dei suoi
militanti e l’intero gruppo dirigente scelsero la via dell’esilio. A Parigi i socialisti
diedero vita con altre forze alla Concentrazione antifascista (1927), e nel 1930
PSI e PSU, sotto la spinta di Nenni e Saragat, si unificarono, mentre un’ala
guidata da Angelica Balabanoff costituiva il Partito socialista massimalista. In
Italia, intanto, emergevano esperienze interessanti come quella del Centro
interno socialista, promosso da R. Morandi. Un accordo col movimento

173
di Giustizia e libertà, siglato nel 1931, delegò tuttavia a GL l’iniziativa socialista
in Italia, ma l’intesa durò appena tre anni. Nel 1934 il PSI riapriva il dialogo coi
comunisti, e in agosto siglava quel patto d’unità d’azione che anticipò la svolta
dei . L’impegno comune nella guerra civile spagnola rafforzò l’istanza unitaria,
sebbene il Patto Molotov-Ribbentrop (1939) riaprisse il conflitto tra le forze
operaie. L’attacco nazista all’URSS riunificò infine il fronte antifascista. Nel genn.
1943 il gruppo milanese di L. Basso dava vita al Movimento di unità proletaria
(MUP), che in agosto confluì nel Partito socialista di Nenni, il quale assunse
transitoriamente il nome di Partito socialista italiano di unità proletaria (PSIUP).
I socialisti intanto partecipavano alla Resistenza, in primo luogo, attraverso le
Brigate Matteotti; al tempo stesso furono tra i promotori del Comitato di
liberazione nazionale, sorto all’indomani dell’8 settembre 1943. Benché meno
forte del Partito comunista, il PSI riuscì comunque a porsi fin dalla sua nascita
come uno dei tre partiti di massa del Paese. Nell’aprile 1944 aveva circa 30.000
iscritti, ma nell’estate del 1945, all’indomani della Liberazione, era già giunto a
500.000. Nel 1946 il PSIUP contava 860.000 iscritti, e alle elezioni per
l’Assemblea costituente risultò il primo partito della sinistra, ottenendo il 20,7%
dei voti. Tuttavia, nel genn. 1947, al Congresso di Roma, esso subì la scissione
della componente socialdemocratica di Saragat, ostile alla politica unitaria coi
comunisti, la quale diede vita al Partito socialista dei lavoratori italiani,
poi Partito socialista democratico italiano, mentre la parte maggioritaria dei
socialisti, guidata da Nenni, ridava al partito il nome di PSI, aggregando peraltro
settori e uomini significativi del Partito d’azione, ormai disciolto, da E. Lussu a F.
De Martino, da R. Lombardi a V. Foa. Il PSI si presentò da subito molto meno
omogeneo rispetto al PCI, sia in termini sociali (accanto ai lavoratori salariati
comprendeva ampi settori di ceto medio impiegatizio), sia sul piano politico,
avendo ereditato la tradizionale divisione in correnti. Nenni aveva comunque una
sostanziale leadership, mantenendo una posizione centrista, unitaria verso il PCI
ma non favorevole alla fusione; «fusionisti» erano invece esponenti come
Morandi e Luzzatto, mentre un’altra componente di sinistra (di ascendenza
libertaria e luxemburghiana) faceva capo a Basso; infine, anche dopo la scissione
di Palazzo Barberini, rimaneva nel partito un’ala destra di impostazione
socialdemocratica, guidata da G. Romita, parte della quale uscì dal PSI nel 1949.
L’alleanza col PCI nel Fronte democratico popolare alle elezioni del 1948 aveva
intanto ottenuto solo il 31% dei voti. Iniziava dunque anche per il PSI un periodo
di opposizione rispetto ai governi centristi fondati sulla DC. Nello stesso 1949
Nenni tornava segretario, avendo come suo vice Morandi e giovandosi della
collaborazione di quest’ultimo soprattutto nel lavoro di organizzazione del partito
come forza di massa, radicata nei territori e nei luoghi di lavoro. Dopo che già il

174
Congresso di Torino (1955) aveva posto il tema del dialogo coi cattolici, gli eventi
del 1956 (20° Congresso del PCUS, intervento militare sovietico a Budapest)
accelerarono il processo. L’incontro di Pralognan (ag. 1956) tra Nenni e Saragat
segnò il riavvicinamento alla socialdemocrazia, mentre il PSI rompeva il patto
d’unità d’azione col PCI che durava dal 1934. Il Congresso di Venezia (1957)
pose quindi le basi per una collaborazione con la DC, mentre lo stesso Nenni
assumeva la guida della corrente «autonomista» (1958). I fatti del luglio 1960
resero intanto evidente la necessità della «apertura a sinistra». Nel febbr. 1962 il
PSI dava quindi il suo appoggio al governo Fanfani, forte di un programma che
prevedeva la nazionalizzazione dell’energia elettrica e l’istituzione della scuola
media unica. Iniziava così la stagione del centrosinistra, che divenne
«centrosinistra organico» nel 1963 con l’entrata dei socialisti nel governo Moro,
di cui lo stesso Nenni fu vicepresidente. Tale scelta costò però al PSI una nuova
scissione, quella della sinistra di Basso, Foa, Vecchietti e Valori, la quale diede
vita al Partito socialista italiano di unità proletaria, schierandosi all’opposizione
col PCI. La stretta creditizia del 1963 e i fatti del luglio 1964 (durante i quali
Nenni denunciò il «rumore di sciabole» che giungeva da settori delle forze
armate), peraltro, frenarono la spinta riformatrice del centrosinistra,
costringendo il PSI sulla difensiva. Anche per aumentare la sua forza
contrattuale, il partito avviò dunque un processo di riunificazione col PSDI di
Saragat, che sfociò nella nascita del Partito socialista unificato (PSU) nell’ottobre
del 1966, con De Martino e Tanassi cosegretari. Le perduranti divisioni interne e
la sconfitta elettorale del 1968 determinarono però la crisi di tale progetto,
cosicché nell’ott. 1968 il partito riprese il nome PSI e nel 1969 la componente
socialdemocratica ne uscì per fondare il Partito socialista unitario (poi di nuovo
PSDI). I grandi movimenti di massa del 1968-69 e la crescita anche elettorale del
PCI aprivano intanto la crisi del centrosinistra e inducevano De Martino ad aprire
ai comunisti, lanciando la prospettiva di «equilibri più avanzati». La stessa
crescita del PCI e la strategia belingueriana del compromesso storico, pur rivolta
a socialisti e cattolici, aprirono però una fase di difficoltà per il PSI, all’interno del
quale la tradizione autonomista riprese vigore, ravvivata dal timore di rimanere
schiacciati nel dialogo tra i due maggiori partiti (DC e PCI), cosicché nel 40°
Congresso (1976) De Martino risultò sconfitto di misura e, dopo le elezioni
politiche del giugno 1976, gli successe B. Craxi. Quest’ultimo avviò una radicale
ridefinizione dell’identità del partito, prendendo le distanze dal marxismo e
avviando una sorta di competizione a sinistra col PCI, al quale pure rilanciava la
proposta di «alternativa di sinistra» in contrapposizione al compromesso storico.
Nel 1980 la politica di Craxi virò apertamente verso una nuova alleanza di
governo che escludesse i comunisti, ossia la formula del «pentapartito», che

175
portò lo stesso leader socialista alla presidenza del Consiglio (1983-87), carica
che egli gestì con piglio decisionista e senza rinunciare a un duro scontro con la
CGIL a seguito del taglio dei punti di contingenza nel 1984-85. Intanto il PSI
eliminava dal proprio simbolo la falce e il martello, ossia i riferimenti simbolici
tradizionali del movimento operaio (1985), giungendo poco dopo al 14,3% dei
voti (1987). Le inchieste di tangentopoli, tuttavia, coinvolgendo esponenti
socialisti locali e nazionali, aprirono una grave crisi nel partito; lo stesso Craxi
ricevette un primo avviso di garanzia nel dic. 1992, dimettendosi da segretario
nel febbraio 1993, sostituito da G. Benvenuto e poi da O. Del Turco. Nel 1994 il
PSI, colpito da una pesante crisi finanziaria effetto della crisi politica, dovette
abbandonare la sede di via del Corso e sospendere le pubblicazioni dell’Avanti! Il
47° Congresso (nov. 1994) decise infine lo scioglimento del partito. Nacquero
quindi due diversi soggetti politici volti a raccogliere l’eredità del PSI, i Socialisti
italiani e il Partito socialista riformista, cui si aggiunse la Federazione dei
laburisti di V. Spini. Intanto, a seguito della trasformazione del sistema politico in
senso bipolare, la diaspora socialista si divideva tra i due schieramenti, e diversi
ex dirigenti del PSI approdavano a Forza Italia (nello schieramento di
centrodestra) o al Partito democratico della sinistra. Nel 1998 gli spezzoni del
vecchio partito rimasti a sinistra diedero vita allo SDI (Socialisti e democratici
italiani), con segretario E. Boselli, mentre la parte schierata col centrodestra,
guidata da G. De Michelis, fondava il Nuovo PSI (2001-09). Dopo l’esperienza
della Rosa nel pugno, nel 2007 lo SDI di Boselli avviò un percorso di
ricostituzione di un Partito socialista unitario che raccogliesse la gran parte della
diaspora; il congresso costitutivo si tenne nel luglio 2008, e nel 2009 il nuovo
partito, con segretario R. Nencini, ha recuperato la denominazione di PSI.
• Partito socialista riformista l partito nacque su iniziativa di Leonida Bissolati,
espulso dal Partito Socialista Italiano nel congresso, convocato in forma
straordinaria dal 7 al 10 luglio 1912 a Reggio Emilia. Durante il congresso si
erano inasprite le divisioni che attraversavano il Partito riguardo alla Guerra di
Libia.
Trionfò la corrente massimalista e si sancì l'espulsione di una delle aree
gradualiste, capeggiata da Bonomi, Cabrini e Bissolati: quest'ultimo, nel 1911 si
era recato al Quirinale per le consultazioni susseguenti la crisi del Governo
Luzzatti, causando il malcontento del resto del partito, compreso quello di Turati,
esponente di spicco dell'altra corrente gradualista.
Al congresso i gradualisti di destra sfilarono come condannati a morte sul palco
degli oratori, dinanzi a una platea di delegati prevalentemente orientata alla loro
espulsione. (...) Bissolati, che parlò il terzo giorno, e che venne accolto con
rispetto anche se poi violentemente contestato (...) disse che era rammaricato di

176
non aver accettato il ministero perché "oggi la guerra non ci sarebbe stata o non
si sarebbe fatto l’infausto decreto che impedisce la pace". Ma ormai il vero
protagonista del congresso era diventato un giovane romagnolo della corrente
massimalista che già al congresso di Milano del 1910, aveva impressionato per la
sua capacità oratoria (...). Si chiamava Benito Mussolini. (...) Mussolini volle
precisare che il regicidio era "un infortunio del mestiere di re", definito "il
cittadino più inutile per definizione".[1]
Mussolini si scagliò ferocemente contro i gradualisti, poi espulsi, aizzando la folla
contro di loro, attaccò a fondo il parlamentarismo e anche il suffragio universale
e concluse con la famosa frase: "Bissolati, Cabrini, Bonomi, e gli altri aspettanti,
possono andare al Quirinale, anche al Vaticano, se vogliono, ma il Partito
socialista dichiari che non è disposto a seguirli né oggi, né domani né mai".
Al termine avanzò una mozione di espulsione (definita da lui anche lista di
proscrizione). L'accusa era di "gravissima offesa allo spirito della dottrina e alla
tradizione socialista".[2] In virtù di quell'arringa, egli si guadagnò una notevole
fama all'interno del PSI, che lo portò ad entrare nella direzione nazionale del
partito e, da lì a poco, nell'ottobre 1912, gli consentì di diventare direttore
dell'Avanti!.
La nascita del Partito Socialista Riformista Italiano - PSRI
Bissolati e i suoi, cacciati dal partito, diedero vita al Partito Socialista Riformista
Italiano (PSRI).
Tra i fondatori si trovava Gino Piva, per il quale «il Socialismo non è
rivoluzionario né riformista; è quello che il suo tempo lo fa (...) Il Socialismo
(pertanto) non può avere apriorismi: esso deve operare come può nell'ambiente
in cui vive».
Aderirono al partito anche Guido Pedrocca, (direttore della rivista
satirica L'Asino), Pietro Chiesa, Giacomo Ferri, l'ex deputato Giacomo Maffei
e Rosario Garibaldi Bosco.
Il programma del PSRI[3] contemplava la partecipazione al potere come fatto
normale e non come situazione eccezionale, il rifiuto della pregiudiziale pacifista
in politica internazionale e il concetto che le alleanze con gli altri partiti
democratici dipendevano solo dalla convergenza degli obiettivi politici immediati.
Testata ufficiale del partito era il quotidiano L'Azione Socialista.
Il nuovo partito si trovò però circondato da un'atmosfera di freddezza.
La Confederazione Generale del Lavoro non approvava l'atteggiamento assunto
dagli espulsi verso la guerra di Libia. Conseguentemente, il partito non riuscì ad
ottenere significativi consensi fra gli operai; più supporto ci fu invece tra le
masse contadine del Sud che, trascurate dal predominante operaismo del PSI,
erano state meno ostili alla guerra di Libia nella speranza di ottenere terre da

177
coltivare, in alternativa all'emigrazione nel Nord e Sud America. Ad esse il nuovo
partito dedicò sin dal suo primo congresso un'attenzione particolare, anche se
velleitaria.[3]
Il partito era apprezzato anche tra gli aderenti alle logge massoniche che
condividevano le posizioni anticlericali dei suoi esponenti, e che già erano
oggetto dei feroci attacchi di Mussolini e dei massimalisti del PSI, che porteranno
nell'aprile 1914, al XIV congresso socialista di Ancona, alla dichiarazione di
incompatibilità tra iscrizione al PSI ed adesione alla Massoneria.
Le elezioni del 1913 rappresentarono un notevole successo elettorale: il PSRI
conseguì il 3,9% dei voti, eleggendo 19 deputati.
Il PSRI durante la Grande Guerra - L'ingresso dei primi socialisti al governo
Prima dell'entrata in guerra dell'Italia il partito osteggiò l'atteggiamento
interventista, mentre poi, al momento della dichiarazione di guerra, seppur
critico con l'intervento, lo appoggiò per senso patriottico.
Il 18 giugno 1916 Ivanoe Bonomi fu nominato ministro dei Lavori
Pubblici nel Governo Boselli; il 16 giugno 1917 lo affiancò Leonida Bissolati, che
divenne ministro senza portafoglio, incaricato di collegare il governo al fronte, il
potere politico al comando supremo. Nel successivo Governo
Orlando del 1917 Bissolati fu ministro dell'Assistenza Militare e Pensioni di
Guerra; il 28 dicembre del 1918 si dimise, a seguito di contrasti con il ministro
degli Esteri Sidney Sonnino. Dal 18 gennaio al 23 giugno 1919 lo sostituì Bonomi,
di nuovo come ministro dei Lavori Pubblici.
Il PSRI nel primo dopoguerra
Nel dopoguerra, quel che restava del partito fu riorganizzato da Bonomi:
alle elezioni del 1919 il PSRI presentò, assieme all'Unione socialista italiana[4],
liste in solo 7 collegi su 54, ottenendo l'1,5% dei voti ed eleggendo 6 deputati,
dei quali 4 in Sicilia.
Il cattivo risultato elettorale provocò la crisi del partito, che iniziò
progressivamente ad allontanarsi dalla sua originarie ideologie socialista, per
spostarsi su posizioni socio liberali e, in alcuni
casi, liberaldemocratiche (Pedrocca si era nel frattempo allontanato e aveva
aderito ai Fasci Italiani di Combattimento).
Nonostante il calo dei consensi elettorali rispetto all'anteguerra, Bonomi
continuò comunque a ricoprire incarichi nelle successive compagini governative:
fu ministro della Guerra dal 14 marzo al 21 maggio 1920 nel Governo Nitti I; di
nuovo fu ministro della Guerra dal 15 giugno 1920 al 1º aprile 1921, poi ministro
del Tesoro dal 2 aprile al 4 luglio 1921 nel Governo Giolitti V.
Alle elezioni del 1921 il PSRI, ormai privo di una consistente organizzazione
territoriale, non fu in grado di presentare proprie liste. I suoi esponenti, dunque,

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si candidarono in varie liste democratico-riformiste e socialiste indipendenti (in
particolare la lista "Democratica riformista"), riuscendo ad eleggere 11 deputati.
In seguito alle dimissioni di Giolitti, Bonomi divenne Presidente del Consiglio tra
il 4 luglio 1921 ed il 26 febbraio 1922, con ad interim gli incarichi di ministro
dell'interno e, fino al 7 luglio 1921, di ministro degli Esteri. Inoltre nel suo
governo il compagno di partito Alberto Beneduce ricopri l'incarico di ministro del
Lavoro e della Previdenza sociale. Durante la sua presidenza Bonomi si dimostrò
assai debole col dilagante squadrismo fascista, che colpiva con violenza le
organizzazioni proletarie e democratiche. L'esecutivo di Bonomi cadde infine il 3
febbraio 1922 a causa dell'uscita dalla maggioranza del Partito Democratico
Sociale Italiano (PDSI).
Nei successivi Governi Facta I e Facta II il PSRI venne rappresentato da Arnaldo
Dello Sbarba, anch'egli al Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale. Il PSRI
non fece parte del Governo Mussolini, al quale però Bonomi votò la fiducia.
In occasione delle elezioni del 10 febbraio 1924 il Partito Socialista Riformista si
aggregò con democratici autonomi e demosociali dissidenti nella Lega
Democratica Nazionale, ma senza fortuna[5]. La lista fu presentata solo
in Piemonte, Lombardia, Veneto e Venezia Giulia e non riuscì a far eleggere
nessun candidato. Un'altra lista di "Opposizione costituzionale", di cui uno dei
principali esponenti fu il catanese Vincenzo Giuffrida, fu costituita da nittiani e
socialriformisti e presentata solo in Campania e Sicilia; essa riuscì a far rieleggere
deputato il Giuffrida che, dopo l'assassinio di Giacomo Matteotti, entrò
nell'Unione Nazionale di Giovanni Amendola, partecipando all'Aventino, ma
schierandosi fra coloro che propugnavano il ritorno al lavoro parlamentare. Lo
stesso Bonomi aderì nel 1924 all'Unione Nazionale.
Il PSRI fu bandito nel 1926 ai sensi del Regio Decreto 1848/1926, che dissolse
tutti i partiti ad eccezione del Partito Nazionale Fascista. Dopo lo scioglimento, la
maggioranza degli esponenti del partito si allontanarono dalla politica, mentre
una minoranza aderì al Partito Socialista Unitario o rientrò nel PSI.
Il PSRI non fu ricostituito dopo la caduta del fascismo, anche se alcuni suoi
esponenti fondarono nel 1943 il Partito Democratico del Lavoro. Ad esso aderì lo
stesso Bonomi, che presiedette due governi antifascisti (Bonomi II e Bonomi III)
verso la fine del conflitto.

Giornali
• Nel 2000 Feltri fonda Libero, giornale quotidiano indipendente di orientamento
liberale-conservatore. (liberali)

179
• Il Giornale Italia è un quotidiano nazionale indipendente di informazione con
notizie in tempo reale, approfondimenti, retroscena, rumors e commenti. Testata
storica fondata nel 1901 (nazionalismo )
• All'inizio del ventennio “L'Avvenire d'Italia”, giornale dei cattolici conservatori,
assume un orientamento filofascista, seguendo le inclinazioni del cardinale
Nasalli Rocca ( cattolicesimo )
• «Il Popolo d'Italia» fu fondato a Milano nel novembre 1914 da Benito Mussolini,
che aveva lasciato il mese prima la direzione dell'«Avanti!». Dal 1912 Mussolini
dirigeva l'organo del Partito Socialista Italiano ( socialismo)

Prima guerra mondiale


Prima guerra mondiale
Conflitto di dimensioni intercontinentali, combattuto dal 1914 al 1918. Innescata
dalle pressioni nazionalistiche e dalle tendenze imperialistiche coltivate dalle
potenze europee a partire dalla seconda metà del 19° sec., coinvolse 28 paesi e
vide contrapposte le forze dell’Intesa (Francia, Gran Bretagna, Russia, Italia e
loro alleati) e gli Imperi Centrali (Austria-Ungheria, Germania e loro alleati).
Assunse una dimensione mondiale anche dal punto di vista dei teatri degli
scontri: si combatté, oltre che in Europa, nell’Impero ottomano, nelle colonie
tedesche in Asia e su tutti i mari. Le battaglie decisive si svolsero in Europa, su 5
fronti: quello occidentale, tra Francia e Germania, lungo la Marna e la Somme;
l’orientale, o russo, esteso e privo di barriere naturali; il meridionale, o serbo;
l’austro-italiano, sulle Alpi orientali e in Carnia; il greco, a N di Salonicco.
LO SCOPPIO DELLA GUERRA
Nei primi anni del XX sec. andarono delineandosi due blocchi contrapposti:
Francia e Gran Bretagna, da una parte, saldarono la loro alleanza nell’Intesa
cordiale (1904) e portarono nel loro campo, progressivamente,
Russia, Giappone e Italia; dall’altra, gli ‘imperi centrali’, Austria-Ungheria e
Germania, legarono a loro l’Impero ottomano. Negli stessi anni le crisi
internazionali si fecero ricorrenti, in particolare a seguito dell’annessione della
Bosnia-Erzegovina da parte dell’Austria-Ungheria (1908), che alimentò gli scontri
nei Balcani, principale focolaio di tensioni insieme con la competizione franco-
tedesca, accesa dalla sconfitta francese di Sedan del 1870. La questione
di Alsazia e Lorena, la rivalità navale anglo-tedesca, l’indebolimento dell’Impero
ottomano dopo le guerre balcaniche e il problema degli stretti (➔ stretto), gli
irredentismi balcanici, la crisi dell’Impero austro-ungarico e le aspirazioni italiane
erano tutti fattori che minacciavano la pace europea. La causa scatenante
della guerra fu l’assassinio, a Sarajevo, per mano di un’organizzazione patriottica
e nazionalista serba, dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede al
trono austro-ungarico (28 giugno 1914).

180
Dopo l’attentato, l’Austria-Ungheria, ottenuta mano libera dalla Germania, lanciò
un ultimatum (23 luglio 1914) alla Serbia, ritenendola corresponsabile. Mentre le
cancellerie europee, specie il ministro degli Esteri britannico E. Grey, si
impegnavano per trovare una soluzione pacifica, il 28 luglio l’Austria dichiarò
guerra alla Serbia. La catena delle alleanze fece precipitare la situazione: la
Russia rispose con una mobilitazione generale. La Germania dichiarò guerra alla
Russia (1° agosto), poi alla Francia (3 agosto), quindi violò la neutralità
di Lussemburgo e Belgio (1-4 agosto); questo atto di forza decise l’ingresso in
guerra della Gran Bretagna contro la Germania. Poche settimane dopo (23
agosto) anche il Giappone entrò nel conflitto, in quanto alleato della Gran
Bretagna; Francia, Gran Bretagna e Russia sanzionarono con il Patto di Londra (4
settembre 1914) una vera e propria alleanza. La Turchia, timorosa della Russia e
legata alla Germania, decretò la chiusura degli stretti (29 settembre) alla
navigazione commerciale e si unì (12 novembre) agli Imperi centrali. Il
Portogallo si schierò a fianco dell’Intesa. Sia in Francia sia in Germania la
soluzione militare fu appoggiata anche dai partiti socialisti, inizialmente su
posizioni neutraliste. Alleata degli Imperi centrali, l’Italia rimase neutrale; la
mancata consultazione da parte degli alleati e il carattere offensivo della guerra
ne giustificavano giuridicamente la posizione.
GLI EVENTI BELLICI NEL 1914-15

181
fig. 1
Fronte occidentale (fig. 1)
Il conflitto ebbe inizio con l’offensiva tedesca contro la Francia attraverso il
Lussemburgo e il Belgio, secondo il piano elaborato nel 1905 da A. von Schlieffen,
accolto dal capo di Stato Maggiore H.J. von Moltke. La Germania, impegnata su
due fronti, mirava a conseguire una rapida vittoria sul fronte occidentale,
puntando su Parigi. Le offensive in Lorena e verso le Ardenne (18 agosto) e
quella in direzione di Sarrebourg e di Morhange (14-19 agosto) lanciate dal
generale francese C.-J.-J. Joffre fallirono. Nella battaglia delle frontiere (22-25
agosto), lungo il confine franco-belga, la V armata francese e il corpo di
spedizione britannico furono battuti e costretti a ritirarsi. La capitale francese fu
salvata dal contrattacco di Joffre (battaglia della Marna 5-10 settembre), che
costrinse i Tedeschi a ripiegare a N del fiume Aisne. Dopo la battaglia dell’Aisne
(13-17 settembre), che arrestò la spinta franco-inglese, le forze contrapposte
diedero inizio a una serie di manovre in direzione dello Stretto di Calais, per
guadagnare il controllo dei porti sulla Manica. La cosiddetta ‘corsa al mare’ si
arrestò nelle Fiandre: respinti fino allora dai Tedeschi i tentativi di aggiramento

182
franco-inglesi, nelle battaglie dell’Yser (18 ottobre-10 novembre) e di Ypres (23
ottobre-15 novembre), gli Alleati riuscirono a evitare lo sfondamento nemico e a
stabilizzare il fronte. Il bilancio delle perdite fu all’incirca di 200.000 uomini in
ciascuno schieramento. Il fronte occidentale si fissò su una linea trincerata che
tagliò il continente dalla costa belga fino alla neutrale Svizzera; alla guerra di
movimento dei primi mesi sarebbero seguiti circa 3 anni di guerra di logoramento
condotta dalle trincee e punteggiata da sortite offensive che si concludevano in
carneficine di inusuali proporzioni, senza significativi avanzamenti militari.
Fronte orientale

fig. 2
(fig. 2). - A E, le forze russe avanzate nella Prussiaorientale dopo la vittoria di
Gumbinnen (19-20 agosto) subirono la catastrofe di Tannenberg (26-30 agosto)
e la battaglia dei Laghi Masuri (9-14 settembre) determinò la loro ritirata dalla
Prussia. Dopo la prima offensiva russa di Galizia (18 agosto-11 settembre; i
cosacchi a cavallo si spinsero in Ungheria), la gravità della disfatta austriaca
indusse i Tedeschi a intervenire accanto agli Austriaci, ma furono costretti al
ripiegamento (20 ottobre), mentre i Russi sferravano la seconda offensiva

183
in Galizia, fra Leopoli e Przemyśl (18 ottobre-2 novembre). Con la seconda
offensiva di Polonia, culminata nella battaglia di Łódź (17-26 novembre), i
Tedeschi impedirono l’invasione del proprio territorio, bloccando nel contempo
l’offensiva dell’avversario contro gli Austriaci. Il 23 gennaio 1915 gli Austriaci,
appoggiati dalle forze tedesche, accerchiarono e distrussero la X armata russa ad
Augustów (17 febbraio). Caduta Przemyśl, la terza grande offensiva russa contro
gli Austriaci (22 marzo-10 aprile 1915), culminata nella battaglia di Pasqua,
costrinse l’armata di E. von Böhm Ermolli a ripiegare dietro il crinale dei Carpazi,
dove si stabilizzò temporaneamente il fronte.
Terzo fronte

fig. 3
(fig. 3). - Il 9 dicembre 1914 il governo italiano, in base all’art. 7 del Trattato
della Triplice, chiese all’Austria compensi territoriali per la sua avanzata nei
Balcani, che furono rifiutati. Dal settembre aveva intanto avviato trattative con le
potenze dell’Intesa, precisando le sue richieste territoriali (i territori compresi
entro l’arco alpino, fino al Quarnaro, e un certo regime di autonomia per gli
Italiani di Dalmazia), che il ministro degli Esteri S. Sonnino portò poi avanti con
maggiori pretese sull’Adriatico, per garantire all’Italia la sicurezza marittima, fino
alla conclusione del Patto segreto di Londra del 26 aprile 1915, con cui l’Italia si
impegnò ad aprire le ostilità contro l’Austria entro 30 giorni dalla firma del
protocollo. Denunciata il 3 maggio la Triplice, la guerra all’Austria fu dichiarata il
24. L’Austria aveva predisposto un solido schieramento difensivo sulle posizioni
di confine lungo l’Isonzo e le alture del Carso e i mezzi offensivi
dell’esercito italiano erano scarsi, per cui la guerra assunse dall’inizio carattere di

184
logoramento: 4 offensive sull’Isonzo (23 giugno-7 luglio; 18 luglio-3 agosto; 21
ottobre-4 novembre; 10 novembre-5 dicembre), guidate dal generale L. Cadorna,
non spezzarono la difesa nemica, ma l’Austria fu obbligata a inviare sul nuovo
fronte forze sempre più numerose.
L’OFFENSIVA AUSTRO-TEDESCA
Dopo lo sfondamento tedesco sul fronte (battaglia di Gorlice-Tarnów, 1-3 maggio
1915) e la successiva riconquista di Przemyśl e Leopoli, il 25 agosto cadde
anche Brest-Litovsk, massima fortezza del versante occidentale dell’Impero
russo. Il capo di Stato Maggiore E. von Falkenhayn ordinò (25 settembre) a
gruppi dell’esercito tedesco di passare sulla difensiva a causa della pressione
prodotta dall’offensiva francese nella Champagne e della necessità di forze
disponibili nei Balcani. La Germania aveva conseguito un grande successo: i Russi
avevano perso circa la metà degli effettivi, con relativi armamenti, e avevano
dovuto abbandonare circa 500.000 km2 di territorio; tuttavia, non erano stati
indotti alla pace separata, come speravano i generali P.L. von Hindenburg e F.
Conrad. L’ingresso della Bulgaria in guerra a fianco degli Imperi centrali (14
ottobre 1915) segnò il crollo della Serbia (battaglia di Kosovo, 24-29 novembre),
attaccata da ogni parte. Fallite in primavera anche le azioni franco-inglesi nei
Dardanelli e a Gallipoli, progettate da W. Churchill in primo luogo per aprire una
via di comunicazione diretta con la Russia, il 1915 si chiuse con il rafforzamento
delle posizioni degli Imperi centrali a oriente.
GLI SVILUPPI NEL 1916
FRONTE OCCIDENTALE
(fig. 1). - Mentre gli Anglo-Francesi erano costretti ad attendere l’inizio
dell’estate per lanciare un’offensiva sulla Somme (per difetto di materiali bellici e
non essendo in grado gli alleati russi e italiani di prestare loro aiuto prima),
Falkenhayn prese l’iniziativa di una grande battaglia di logoramento sul fronte
di Verdun, tenuto dai Francesi, nella persuasione che la Francia, demoralizzata,
avrebbe chiesto la pace. La battaglia di Verdun, svoltasi fra il 21 febbraio e il 24
giugno 1916, risultò una grande vittoria difensiva francese e simbolo
dell’invincibilità dell’Intesa, anche se la Germania inflisse all’esercito nemico
molte più perdite di quante ne subì, riducendo insieme la partecipazione dei
Francesi alla battaglia della Somme. Il disimpegno di Verdun venne dall’offensiva
scatenata dagli Anglo-francesi il 1° luglio, nella quale i mezzi messi in opera si
rivelarono i maggiori fino ad allora impegnati e apparve un’arma nuova, il carro
armato. La battaglia della Somme (1° luglio-23 novembre 1916) comportò
perdite imponenti di uomini e mezzi, mentre in nessun punto si avanzò più di 5
km, su un fronte di 8-9 km.
FRONTE ITALIANO

185
(fig. 3). - Il maresciallo austriaco F. Conrad avviò in aprile una grande offensiva
sul Trentino contro gli Italiani, con la finalità di sfondare il fronte dell’Isonzo.
L’offensiva fu bloccata dalla difficoltà dell’artiglieria pesante a seguire, in terreno
difficile, il progresso della fanteria; il 14 giugno iniziò la controffensiva italiana,
conclusasi il 25 con il ripiegamento generale degli Austriaci. Superata la minaccia
sul Trentino, Cadorna spostò uomini e mezzi (27 luglio-4 agosto) dal Trentino
sull’Isonzo e attaccò di sorpresa gli Austriaci, le cui forze erano relativamente
scarse anche per i prelevamenti fatti a favore del fronte orientale. L’attacco del
6-17 agosto (sesta battaglia dell’Isonzo) portò alla conquista di Gorizia, senza
perdere però il suo carattere di battaglia di logoramento. Venuta meno la rottura
del fronte a E di Gorizia, la settima (14-16 settembre), l’ottava (9-12 ottobre) e la
nona (31 ottobre-4 novembre 1916) battaglia dell’Isonzo rientrarono nello
schema degli impegni di logoramento.
FRONTE ORIENTALE
(fig. 2). - A E, tra il 4 giugno e il 27 agosto su un fronte di 350 km fu sferrata
in Volinia l’offensiva di A.A. Brusilov, la quarta e ultima grande offensiva russa,
concepita in origine in funzione di alleggerimento del fronte italiano. I risultati,
quasi nulli contro il settore tedesco, furono grandiosi contro gli Austriaci, a danno
dei quali i Russi conseguirono notevoli vantaggi territoriali e soprattutto militari.
Intanto avvenivano importanti mutamenti nell’alto comando delle potenze
centrali: Falkenhayn fu sostituito il 27 agosto da P.L. von Hindenburg ed E.
Ludendorff, esponenti della concezione strategica dell’annientamento.
Entrata la Romania in guerra contro gli Imperi centrali il 27 agosto 1916, il
comando russo si preparò a un attacco d’impeto con il concorso delle truppe
romene contro l’Ungheria e la Galizia con la speranza di infliggere alle potenze
centrali una sconfitta decisiva. Conformemente alla strategia del comando russo,
i Romeni portarono il massimo sforzo offensivo in Transilvania. Ma Hindenburg
aveva formato due potenti gruppi di armate: uno a N, in Transilvania, sotto il
comando di Falkenhayn, e uno a S, sul Danubio, agli ordini di A. von Mackensen.
Minacciato di invasione sulla sua frontiera meridionale, lo Stato Maggiore romeno
arrestò l’offensiva in Transilvania e trasferì parte delle sue truppe verso il fronte
meridionale. Falkenhayn il 29 settembre passò all’offensiva e in 18 giorni, dopo
tre battaglie, la Transilvania era liberata. Nonostante la ripresa dell’offensiva di
A.A. Brusilov (1-15 ottobre), delle operazioni francesi per la riconquista del
territorio perduto intorno a Verdun, e di azioni italiane con l’ottava e la nona
battaglia dell’Isonzo, lo Stato Maggiore tedesco diede inizio a una vasta
operazione che, dopo la battaglia dell’Argeş (1-3 dicembre) e il ricongiungimento
delle due grandi armate, si concluse con l’occupazione di Bucarest (6 dicembre).
FRONTI MINORI

186
Nel Caucaso, in Iran e in Mesopotamia, Russi e Britannici agivano in direzione di
Baghdad. Gli eserciti dello zar avanzarono, in seguito a più successi, fino ai laghi
di Van e Urmia (Iran), mentre i Britannici, spintisi fino a Kut al-Amarah, sulla
sponda sinistra del fiume Tigri, vi furono accerchiati e battuti il 26 aprile 1916. I
Turchi nel 1915-16 incontrarono tre insuccessi nel tentativo d’insediarsi sul
Canale di Suez; dopo l’ultimo scacco (agosto 1916), i Britannici passarono alla
controffensiva, giungendo alle soglie della Palestina.
LA GUERRA SUI MARI
In conseguenza dell’accordo franco-britannico del novembre 1913, la flotta
britannica (➔ Grand Fleet) ebbe la difesa di tutti gli oceani, in particolare del
Mare del Nord, del Passo di Calais e del bacino orientale del Mediterraneo; alla
flotta francese fu affidata la difesa della Manica occidentale e del bacino
occidentale del Mediterraneo. Il 29 luglio 1914, la flotta da battaglia britannica
aveva raggiunto Scapa Flow (Orcadi), base adatta per intervenire
tempestivamente contro la flotta tedesca.
Nel 1914 ebbero luogo il 1° novembre la battaglia di Coronel (Cile), nella quale
l’ammiraglio tedesco M. von Spee inflisse ai Britannici una dura sconfitta, e l’8
dicembre 1914 quella delle Falkland, in cui l’ammiraglio F.C.D. Sturdee annientò
le unità tedesche.
Nella guerra sul mare i Tedeschi si avvalsero di una nuova arma, quella del
sottomarino (Unterseeboote, da cui U-Boot), che fece la prima comparsa il 22
settembre 1914, all’altezza di Hook of Holland, dove tre incrociatori corazzati
britannici furono affondati in pochi minuti. La guerra sottomarina si rivelò più
fruttuosa di quella di corsa, ma dopo l’affondamento del piroscafo
statunitense Lusitania (7 maggio 1915), per evitare complicazioni con gli USA la
Germania la sospese sulle coste occidentali delle isole britanniche e nella Manica,
mantenendola solo nel Mediterraneo. Nel marzo 1916 E. von Capelle, succeduto
alla guida della Hochseeflotte ad A. von Tirpitz, teorico della guerra sottomarina
illimitata, decise di impegnare le unità di superficie in una condotta di guerra
offensiva contro la flotta britannica: il 31 maggio 1916 si svolse la battaglia
dello Jütland, la sola grande battaglia navale del conflitto. La marina tedesca
inflisse alla Grand Fleet più danni di quelli ricevuti, ma l’effetto strategico della
battaglia fu a favore della Gran Bretagna, perché la Hochseeflotte non si arrischiò
più in mare aperto. La guerra contro il traffico sul mare sarà ripresa in grande
dalla Germania il 31 gennaio 1917, ma per opera dei soli sommergibili, impiegati
per la prima volta senza restrizioni.

GLI SVILUPPI NEL 1917


FRONTE OCCIDENTALE

187
(fig. 1). - L’offensiva generale prevista dalle potenze dell’Intesa per la primavera
del 1917 non poté contare sul concorso della Russia, sconvolta
dalla rivoluzione di febbraio: l’attacco di R.-G. Nivelle (9 aprile-5 maggio),
finalizzato alla rapida rottura del fronte tedesco, ne rimase irrimediabilmente
compromesso. I Francesi si impossessarono dello Chemin-des-Dames a prezzo di
sacrifici tali che l’offensiva, lungi dal raggiungere lo scopo, demoralizzò
profondamente l’esercito; non si riuscì nemmeno a concentrarlo con l’azione sul
fronte italiano, dove la decima battaglia dell’Isonzo (12 maggio-7 giugno) fu
sferrata dopo la fine dell’offensiva franco-britannica. Gli Inglesi, molto più forti
dei Francesi, insistettero per la continuazione della lotta con finalità di
sfondamento, ma il nuovo comandante in capo delle truppe francesi H.-P.-O.
Pétain vi si oppose. Fra le operazioni parziali intraprese dai Francesi, furono
importanti la ripresa del Mort-Homme, presso Verdun (20-25 agosto), e la
battaglia della Malmaison (21-26 ottobre). Gli Inglesi, pressati dalla guerra
sottomarina a oltranza, avevano interesse ad allontanare i Tedeschi dalle coste
del Belgio e, forti dell’aiuto fornito loro dall’Impero coloniale, furono in grado di
assumere da soli l’iniziativa: le truppe britanniche non realizzarono che progressi
locali, ma il comando e l’esercito tedesco ne risultarono duramente provati.
L’attacco di Cambrai (la prima battaglia, 20-23 novembre, in cui i carri d’assalto
furono utilizzati in massa) consentì di realizzare un’avanzata di 10 km di
profondità in 10 ore; ma la controffensiva tedesca del 23 annullò di colpo i
vantaggi conseguiti dagli avversari.

FRONTE ORIENTALE
(fig. 2). - L’attacco russo sferrato il 1° luglio nonostante il graduale dissolvimento
dell’esercito il 19 luglio, si arrestò del tutto sotto l’azione della controffensiva
degli Imperi centrali e l’occupazione tedesca di Riga (3 settembre) segnò lo
sfacelo definitivo dell’esercito russo. Il 26 novembre i bolscevichi saliti al potere
chiesero di trattare l’armistizio, stipulato il 15 dicembre. I negoziati di pace si
conclusero il 3 marzo 1918: con la pace di Brest-Litovsk la Russia rinunciava alle
province baltiche, alla Polonia e all’Ucraina. L’8 febbraio anche l’Ucraina concluse
la pace, e il 7 maggio la Romania.
INTERVENTO USA
La ripresa della guerra marina illimitata (febbraio) da parte dei Tedeschi affrettò
l’intervento in guerra degli USA, che una stretta comunanza di interessi
economici legava alle potenze dell’Intesa; il 6 aprile 1917 il governo di
Washington dichiarò guerra alla Germania.
Mentre i sondaggi di pace da parte degli Imperi centrali fallivano per mancanza
di accenni concreti alle rivendicazioni italiane (marzo-maggio 1917), gli

188
esponenti delle nazionalità dell’Impero austro-ungarico premevano in senso
antiasburgico e il 20 luglio 1917 il Patto di Corfù fissava le linee per la creazione
di uno Stato serbo-croato-sloveno. In Germania il desiderio di pace trovò
espressione nella mozione votata al Reichstag il 19 luglio 1917 e anche il
papa Benedetto XV invocò la conclusione della pace (1° agosto 1917). Ma i punti
di vista erano ancora troppo lontani perché si giungesse a un accordo. L’Intesa,
che con i Quattordici punti formulati dal presidente degli Stati Uniti T.W. Wilson,
si era data un programma di grande efficacia propagandistica e morale e si era
orientata verso la dissoluzione dell’Impero austro-ungarico, riuscì a respingere
l’estremo sforzo austro-tedesco concentrato sui fronti francese e italiano,
determinando finalmente il prevalere degli ambienti politici tedeschi favorevoli
alla pace.
Un peso non indifferente in questi sviluppi politico-militari aveva avuto la politica
militare delle nazionalità, svolta soprattutto da Russia, Francia e Italia, con la
costituzione e l’impiego di unità nazionali polacche, ceche, romene, iugoslave,
formate con prigionieri di guerra.
FRONTE ITALIANO
(fig. 3). - Il generale Cadorna intraprese nella primavera l’offensiva stabilita con
gli Alleati, ma la decima battaglia dell’Isonzo, pur superando di gran lunga, sotto
ogni riguardo, le precedenti, non conseguì lo sfondamento. Nell’undicesima
battaglia (17 agosto-15 settembre), l’attacco fece realizzare una penetrazione di
10 km nella difesa austriaca. Le perdite degli Italiani risultarono maggiori di
quelle del nemico, che, tuttavia, ne risentì più duramente per il progressivo
affievolirsi delle risorse generali dopo tre anni di guerra. Mentre in Austria, per i
complementi, si doveva ricorrere soprattutto ai feriti guariti, in Italia vi erano
ancora larghe risorse nelle classi giovanissime e nelle anziane (senza considerare
le risorse materiali, sterminate dopo l’intervento statunitense). Una massiccia
offensiva austro-tedesca finalizzata ad allontanare il pericolo su Trieste e
respingere gli Italiani di là dalla frontiera dell’Isonzo ebbe inizio il 24 ottobre:
l’attacco austro-germanico penetrò in profondità, travolgendo le difese e
raggiungendo lo stesso giorno Caporetto. Cadorna diede l’ordine di ritirata e la
linea d’arresto fu stabilita, dopo il convegno interalleato di Peschiera e la
sostituzione di Cadorna con A. Diaz, sul Piave; gli Italiani riuscirono ad arrestare
l’offensiva austro-tedesca scatenata il 10 novembre sull’altopiano d’Asiago e
sviluppatasi sul Piave e sul Monte Grappa.
Fra le varie conferenze militari interalleate, particolare importanza aveva avuto
quella di Chantilly del 15-16 novembre 1916 in cui si era deciso il principio del
mutuo appoggio tra i fronti occidentali, italiano e balcanico. Così, nell’ottobre
1917 fu inviata in Italia un’armata anglo-francese, che si attestò sul Mincio a

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imbastirvi una linea di difesa su cui combattere, nel caso di un ulteriore
cedimento di quella del Piave.
L’offensiva austro-tedesca aveva mostrato l’importanza di un’unione sempre più
stretta fra gli Alleati; nel convegno di Rapallo del 7 novembre, i tre primi ministri
di Gran Bretagna, Francia e Italia decisero l’istituzione di un Consiglio superiore
della guerra interalleata, nuovo passo lungo la via dell’unità di comando.
FRONTI MINORI
Nel settore balcanico il solo avvenimento importante sul piano strategico fu
l’entrata in guerra della Grecia a fianco delle forze dell’Intesa il 27 giugno. In
Mesopotamia, gli Inglesi occuparono l’11 marzo Baghdad. In Palestina il
generale E. Allenby, travolta la linea turca di Bersabea (1° ottobre), prese Gaza,
Giaffa e Gerusalemme. L’avanzata di Allenby sulla Palestina era stata appoggiata
efficacemente dall’azione di guerriglia condotta nella regione da T.E.
Lawrence (Lawrence d’Arabia), animatore della rivolta araba contro l’Impero
ottomano.
LA GUERRA SUI MARI
La guerra sottomarina illimitata ripresa il 1° febbraio 1917 raggiunse il massimo
dell’intensità in aprile, quando fu affondato circa un milione di tonnellate di
naviglio mercantile. Se i sommergibili avessero potuto continuare con un tale
ritmo di distruzione, la Gran Bretagna non avrebbe potuto sopravvivere e gli USA
non avrebbero potuto trasportare in Europa gli eserciti, i viveri e i materiali, che
furono poi fattore essenziale di vittoria nel 1918. Ma i mezzi di difesa si
mostrarono sempre più efficaci; il trasporto dell’esercito statunitense in Europa
costituì il trionfo del sistema dei convogli scortati. Dall’estate 1917 i mezzi
offensivi aumentarono i rischi dei sottomarini: nel Mare del Nord fu stabilito uno
sbarramento di mine su un’estensione di 400 km; speciali navi pattuglia munite
di ecogoniometri scaricavano contro i sottomarini tedeschi granate esplodenti.
GLI SVILUPPI BELLICI NEL 1918
Fronte occidentale (fig. 1)
Dopo l’eliminazione della Russia e della Romania dal conflitto, il comando
tedesco passò alla messa a punto di un piano strategico, elaborato da Ludendorff,
per conseguire l’annientamento del nemico attraverso una serie di battaglie
preparatorie. Tra marzo e giugno furono lanciate tre offensive, con grande
dispiegamento di uomini e mezzi che tuttavia non portarono a nessuno degli
obiettivi strategici intravisti da Ludendorff: né la separazione degli Inglesi dai
Francesi, né la sconfitta degli Inglesi sui porti della Manica, né la conquista di
Amiens, né il controllo della valle dell’Oise. Nel frattempo gli Statunitensi, per la
pressione alleata, decuplicavano gli effettivi in Europa: tra maggio e giugno
sbarcarono in Francia 520.000 soldati. Da marzo si era realizzato il comando

190
unico nella persona del generale F. Foch, al quale furono affidate anche ‘facoltà di
coordinamento’ sul fronte italiano.
La prima offensiva iniziò il 21 marzo con un attacco in Piccardia che in 15 giorni
di battaglia guadagnò ai Tedeschi un’avanzata di 60 km su circa altrettanti di
larghezza, con 300.000 uomini perduti dai soli Inglesi.
Il 9 aprile Luderdorff scatenò un attacco nelle Fiandre, con obiettivo la conquista
dei porti del passo di Calais; nella nuova offensiva di Ypres sul principio il
successo fu notevole; ma il 25, dopo la conquista del Monte Kemmel, con
l’affluire delle riserve, in gran parte francesi, i Tedeschi sospesero l’offensiva.
Per assestare un nuovo colpo ai Francesi, nella parte opposta a quella dove era
dislocato il grosso degli Alleati, Ludendorff scelse la posizione dello Chemin-des-
Dames, naturalmente forte, ma debolmente occupata. L’offensiva, iniziata il 27
maggio nel tratto compreso fra Soissons e Reims, riuscì in pieno, anche per
l’impiego di iprite, e il 1° giugno i Tedeschi giungevano sulla Marna minacciando
la stessa capitale francese: Foch fermò, tuttavia, l’avanzata concentrando la
riserva lungo le principali direttrici d’urto del nemico. Sebbene la situazione
strategica non fosse sostanzialmente migliorata per la Germania, i tre successi di
primavera avevano scosso l’opinione pubblica, specie in Francia, che li
considerava presagi di vittoria definitiva. Mentre si compivano i preparativi per il
quarto attacco, gli Austriaci scatenarono l’offensiva sul fronte italiano.
La battaglia del Piave
(fig. 3). - In febbraio-marzo 1918 le unità dell’esercito italiano potevano
considerarsi ricostituite: 300.000 uomini e 3000 cannoni avevano rafforzato il
fronte. Il giorno dell’attacco, gli Austriaci avanzarono contemporaneamente sul
fronte montano e su quello del Piave; sul primo, la difesa italiana impose al
nemico di desistere dall’offensiva in grande già la sera stessa del 15; sul secondo
fronte, la sera del 16 giugno l’intervento delle riserve italiane bloccò anche
l’attacco austriaco sul Montello, dove il 19 ebbe inizio la controffensiva di A. Diaz,
che in pochi giorni indusse il nemico alla ritirata. Gli Italiani avevano perduto
90.000 uomini, gli Austriaci 150.000, con enorme consumo di materiali bellici.
Controffensiva e vittoria alleata
Alla quarta offensiva tedesca contro i Francesi sferrata il 15 luglio
contemporaneamente sulla Marna e a E di Reims e arrestata con forti perdite, il
18 Foch oppose un attacco contro la sacca nemica dello Chemin-des-Dames-
Marna: l’unica via di comunicazione per le armate tedesche della Marna, quella
Soissons-Fismey, era all’improvviso minacciata dal nemico. Ludendorff riuscì ad
attuare un ripiegamento progressivo sulla Vesle e l’Aisne e quando (3 agosto)
Foch ordinò la sospensione della controffensiva i Tedeschi avevano perduto quasi
tutti i guadagni realizzati con l’attacco dello Chemin-des-Dames del 1917.

191
Prima che l’offensiva generale sul fronte occidentale avesse inizio, sul fronte dei
Balcani il 15 settembre fu sferrata l’offensiva che costrinse i Bulgari a chiedere
l’armistizio, firmato il 29. In conseguenza di questo evento tutto il fianco
meridionale dell’Impero austro-ungarico era aperto all’invasione dell’armata
d’oriente. In una situazione generale così favorevole Foch iniziò l’offensiva,
preceduta da attacchi preparatori che determinarono la crisi morale dell’esercito
nemico (più reparti si ammutinarono, molti si impegnarono debolmente): tra il 26
e il 29 settembre le armate alleate (forze ingenti statunitensi e britanniche erano
ormai in Francia), eseguirono offensive concentriche dal Mare del Nord alla Mosa;
il 10 ottobre la linea di fortificazione Hindenburg era spezzata e superata
ovunque. Tra ottobre e novembre gli Alleati respinsero progressivamente le forze
tedesche da tutto il fronte occidentale.
L’offensiva finale italiana
(fig. 3). - L’attacco scatenato sul fronte italo-austriaco dalle forze italiane il 24
ottobre incontrò resistenza sui monti a causa del terreno e, fino al 28, anche in
pianura, per la piena del Piave, che paralizzò l’azione. Attraversato il fiume grazie
a una brillante manovra del generale E. Caviglia, il 29 stesso fu liberata Vittorio
Veneto. Il comando austriaco iniziò immediatamente trattative per la resa
incondizionata, mentre le forze italiane raggiungevano Trento e, via mare,
Trieste.
Le operazioni in Medio Oriente
In Turchia, il crollo russo aveva incoraggiato le mire dei Giovani Turchi lungo la
fascia euroasiatica a N dell’Anatolia: a fine giugno, truppe turche occuparono
Batum, Ardahan, Tabriz e Urmia; a settembre tolsero agli Inglesi il centro
petrolifero di Baku. Sul fronte della Mesopotamia, a novembre le forze
britanniche occuparono la regione di Mossul. In Palestina, il 19 settembre il
generale Allenby sferrò l’offensiva tra Rafaāt e il mare: caduti Tiberiade,
Damasco, Beirut e Aleppo, i Turchi sottoscrissero la resa incondizionata.
GLI ARMISTIZI E I TRATTATI DI PACE
La Bulgaria concluse l’armistizio il 29 settembre 1918, seguita dalla Turchia (30
ottobre). Il governo tedesco, su sollecitazione dello Stato Maggiore, iniziò il 3
ottobre le trattative di pace sulla base dei Quattordici punti; ottenuto il consenso
generico di T.W. Wilson a nome degli Alleati, il governo costituitosi dopo
l’abdicazione di Guglielmo II firmò l’armistizio l’11 novembre (➔ Compiègne). Il
3 a Villa Giusti, presso Padova, era stato firmato l’armistizio italo-austriaco; l’11
l’imperatore Carlo I, dopo un estremo tentativo di trasformare l’Impero in uno
Stato federale sulla base di 4 regni nazionali (Austria, Ungheria, Polonia e
territori iugoslavi), abdicò e il 12 fu proclamata la repubblica in Austria, il 16 in

192
Ungheria. Le varie nazionalità si davano governi autonomi, sicché il
vecchio Impero asburgico cessava di esistere.
Per stabilire le condizioni di pace fu riunita la Conferenza di Parigi, che ebbe
inizio a metà gennaio 1919. Vi erano rappresentati tutti gli Stati vincitori, ma solo
alle grandi potenze – Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia, Giappone – era
riservato di deliberare su tutte le questioni, mentre i minori intervenivano solo se
direttamente interessati. Il programma di pace britannico, sostenuto da D. Lloyd
George, mirava a rendere innocua la Germania e a prenderle le colonie; quello
francese, impersonato da G. Clemenceau, tendeva a inferire un colpo decisivo al
tradizionale nemico tedesco, che vendicasse il 1870 e desse alla Francia durevoli
garanzie; quello statunitense, propugnato da Wilson, si concretava in una pace
ispirata ai principi dei Quattordici punti, ma urtava contro una rete d’interessi
che ne rendevano difficile l’applicazione; quello italiano tendeva ad assicurare
all’Italia il confine alpino, la supremazia in Adriatico, una sfera d’influenza
balcanica, compensi coloniali. Il poco entusiasmo mostrato, in nome dei grandi
sacrifici sofferti, per i principi wilsoniani, finì con il creare all’Italia una situazione
diplomatica difficile.
Si giunse così ai vari trattati: di Versailles con la Germania (28 giugno 1919), di
Saint-Germain con l’Austria (10 settembre 1919), di Neuilly con la Bulgaria (27
novembre 1919), del Trianon con l’Ungheria (4 giugno 1920), di Sèvres con la
Turchia (10 agosto 1920). La Germania perse le colonie, la flotta militare e
mercantile e alcuni distretti minerari; le fu imposto l’obbligo delle riparazioni e il
divieto di tenere un esercito superiore a 100.000 uomini. Sorsero nuovi Stati: la
Polonia, la Cecoslovacchia, la Iugoslavia, la Finlandia, la Lituania, la Lettonia,
l’Estonia, l’Albania; e altri subirono profondi mutamenti di frontiere. L’Italia
ottenne il confine alpino, ma rimasero insolute la questione adriatica con il nuovo
Stato iugoslavo e quella dei compensi coloniali. Molte questioni furono rinviate e
molte decisioni vennero modificate negli anni successivi, con conseguenti motivi
di persistente agitazione e irrequietezza.
LE CONSEGUENZE DELLA GUERRA
Sul terreno della strategia militare la Prima guerra segnò una svolta epocale a
motivo, in primo luogo, della diffusione delle armi automatiche che resero
estremamente dispendioso in termini di vite umane il tradizionale attacco di
fanteria o di cavalleria alle postazioni nemiche; ciò determinò l’evoluzione dalla
guerra di movimento alla guerra di posizione o di logoramento: luogo privilegiato
dell’aspetto militare del conflitto fu dunque la trincea. Sul piano delle innovazioni
tecnologiche nacque in questo periodo uno dei protagonisti dei futuri conflitti, il
carro armato, adottato dai Britannici nel 1916. Tra le altre novità relative agli
armamenti vi furono i gas asfissianti (che imposero l’obbligo della maschera

193
antigas), l’aeroplano (sebbene armato di mitragliatrice, fu usato
prevalentemente a scopo ricognitivo), il sottomarino. L’esigenza di coordinare e
muovere enormi contingenti su un fronte molto ampio diede luogo allo sviluppo
delle telecomunicazioni e al massiccio impiego dei mezzi motorizzati.
La leva di massa (furono mobilitati complessivamente 65 milioni di uomini) e le
spese militari determinarono il fenomeno, in quella misura inedito, della
mobilitazione totale del paese belligerante: dalla produzione industriale
stimolata dalle commesse statali al razionamento dei generi alimentari, dalla
programmazione della produzione agricola alla censura sulla stampa, fino
all’identificazione del territorio patrio come ‘fronte internò, la guerra penetrò in
tutti i gangli sociali delle nazioni, determinando in particolare l’inasprimento del
controllo repressivo statale. Questo assunse forme e contenuti particolarmente
rilevanti attraverso la propaganda, l’imperio sui meccanismi produttivi, l’arresto
dei dissidenti o dei pacifisti.
L’adesione delle popolazioni alle rispettive politiche nazionali non fu omogenea
né continua nel tempo: il 1917 fu l’anno di maggior tensione sociale in molti Stati
europei (inclusa l’Italia); in Russia il malcontento popolare si legò ai disastri del
fronte e alla determinazione dei rivoluzionari generando la Rivoluzione d’ottobre.
Il disagio del dopoguerra, connesso al venir meno del controllo sociale e alle
difficili riconversioni delle economie di guerra, investì nuovamente le società
europee nel loro insieme. Oltre alle rivendicazioni del movimento operaio (che
assunsero ampiezza e radicalità inedite), vanno considerati i movimenti degli ex
combattenti, i partiti e i movimenti contadini (soprattutto in Europa orientale), i
movimenti delle donne (che avevano diffusamente sostituito alla produzione gli
uomini mobilitati), le nuove formazioni politiche. In vari paesi (tra i quali l’Italia,
dove l’esplosione dei movimenti di massa segnò la fine del regime liberale e fu
all’origine del fascismo), l’insieme di queste tensioni causò scompensi politici e
istituzionali.
L’Europa nel suo complesso uscì dal conflitto indebolita dalle vittime (circa 8
milioni di morti e 20 milioni di feriti), dalle distruzioni, dai debiti. Sulla scena
mondiale, gli Stati Uniti per la prima volta erano usciti dall’isolazionismo (per
rientrarvi con la sconfitta del partito di Wilson nel 1920) coinvolgendosi nelle
vicende politiche europee, mentre la Russia sovietica rispondeva al tentativo di
soffocamento durante la guerra civile con la fondazione dell’Internazionale
comunista (1919).
I trattati di pace non superarono le rivalità nazionali che erano state all’origine
della guerra, creando le premesse per ulteriori conflitti; in particolare, la
dissoluzione dell’Austria-Ungheria e le condizioni di resa imposte alla Germania
riversarono le tensioni nazionali su molti dei nuovi Stati. Densi di tensioni si

194
presentavano anche i rapporti tra le potenze vincitrici e la Germania, cui furono
imposte condizioni politiche, economiche e militari talmente aspre da rivelarsi
presto irrealistiche.
Più in generale, fallì il tentativo della Società delle Nazioni (istituita nel 1919) di
costruire un organismo per un nuovo sistema di rapporti internazionali.

Italia
È divisa in due modi
• Neutralisti divisi in 3 posizioni : i cattolici e della chiesa sono contrari alla guerra
perché deve essere condannata, socialisti questa guerra è fra stati capitalisti se
soprattutto il proletario se interviene sarà decimato perché sarà una strage dei
lavoratori farebbero una guerra capitalistica per le egemonia su altri imperi sono
importanti per il paese, per il parlamento la posizione importante è la terza è
quella di Giolitti crede che non siamo pronti per la guerra perché siamo ancora
giovani dice un opportunista siamo neutrali Giolitti crea la politica del parecchio
dice noi potremmo partecipare alla guerra ma non entriamo noi in cambio
vogliamo che un ingrandimento del regno altro ungarico ci da le terre del Trento
e Trieste ma Austria dice va bene ma solo a guerra conclusa questo indebolisce
la posizione di Giolitti mirata ad avere qualcosa le tre posizioni sono diverse
• Interventisti divisa in quattro posizioni: la prima posizione è data da coloro che
concepiscono la guerra come una quarta guerra d’indipendenza per completare
l’unita nazionale sono i socialisti riformisti, repubblicani, i garibaldini, la
seconda posizione sono i nazionalisti l’Italia deve partecipare alla guerra e deve
diventare una grande potenza al pari delle altre, la terza posizione è quella del
governo, del re e della casa reale è molto vicina alle due posizioni sono le
posizioni più grandi in Italia, la quarta posizione è molto minoritaria, matura del
tempo e prende alcune posizioni dall’estero sindacalismo rivoluzionario il capo è
Mussolini mentre la posizione cambiano Mussolini guarda alla Russia con Lenin e
alla Francia con il capo del sindacalismo rivoluzionario Sorel secondo loro la
guerra è cosi devastante non si combatte con gli eserciti ma si combatte anche
nei fronti che le classi dei lavoratori e dei soldati si ribellano ci sarà una guerra
civile che permette di conquistare il potere e di creare il socialismo è la posizione
con più successo succederà questo in Russia, Francia, Germania e Italia.
Mussolini alla fine del 1914 fonda il popolo l’Italia sostiene la posizione quarta
vuole che le idee delle posizioni precedenti finiscano.

Italia nella Prima guerra mondiale

195
L'Italia allo scoppio della 1^ Guerra Mondiale nel 1914 non entrò
immediatamente nel conflitto sfruttando una clausola del Trattato della Triplice
Alleanza per dichiararsi temporaneamente neutrale (il Trattato aveva natura
prettamente difensiva, in sostanza ogni Stato aderente avrebbe dovuto aiutare
gli altri solo in caso di attacco ed il conflitto aveva invece preso origine
dall'ultimatum dell'Austria- Ungheria ed il suo conseguente attacco alla Serbia).
L'Italia, dunque, rimase neutrale per un anno, mentre si sviluppava la
discussione politica tra Interventisti, che erano per l'immediato ingresso in
guerra e Neutralisti, i quali erano assolutamente contrari ad un conflitto.

Gli Interventisti erano costituiti da diversi gruppi politici o culturali. I


Nazionalisti volevano che l'Italia conquistasse le terre italiane ancora sotto il
dominio straniero, e consideravano la guerra strumento necessario per
l'affermazione del prestigio italiano. Gli Irredentisti si richiamavano ai valori
risorgimentali: ciò che contava era l'Unità della Patria; è chiaro dunque che un
conflitto con l'Austria-Ungheria doveva essere inevitabile per togliere loro le
terre italiane che ancora gli Austriaci occupavano: Alto Adige, la zona di Trento,
la Venezia Giulia con le città di Trieste e Gorizia.

Moltissimi giovani intellettuali si fecero conquistare dalla propaganda


interventista, portata avanti dai Futuristi e, con grande forza, da Gabriele
d'Annunzio, che iniziò una campagna infuocata per l’intervento contro gli Imperi
centrali.

Lo schieramento neutralista comprendeva i Giolittiani, i Socialisti e i Cattolici.

Le posizioni del vecchio politico e ministro Giolitti si possono sintetizzare con il


concetto che la guerra sarebbe stata lunghissima, sarebbe durata almeno tre
anni ed il nostro fronte avrebbe incontrato difficoltà formidabili. Egli era convinto
che l'Impero Austro Ungarico fosse destinato a dissolversi e sarebbe stato più
saggio aspettare tale evento senza forzare la situazione.

I Cattolici erano politici di ispirazione religiosa; c'erano vari motivi che spiegano
il loro neutralismo. Forse il più importante fu lo stretto legame della Chiesa con il
mondo contadino, il quale per tradizione era sempre stato contrario ad ogni
conflitto.

I Socialisti italiani erano un altro gruppo di neutralisti convinti. Essi sostenevano


che la guerra era sempre stata la causa di tutti i problemi del mondo perché

196
portava fame e povertà, soprattutto per i lavoratori e gli operai.

Alla fine ebbero la meglio le tesi degli interventisti. Nel 1915, dunque, quando in
Italia maturò la volontà di entrare in guerra a fianco della Triplice Intesa, fu
stipulato segretamente a Londra un Patto che impegnava l'Italia ad entrare in
guerra entro un mese; il Patto di Londra, siglato il 26 aprile, prevedeva, come
risarcimento per l’impegno bellico italiano, la consegna a fine guerra di Trento e
dell’Alto-Adige, di Trieste e di Gorizia, dell’Istria e della Dalmazia. Così il 24
maggio di quell’anno l'Italia entrava in guerra.

Patto di Londra
L’Italia firma, insieme a Inghilterra, Francia e Russia, il “Patto di Londra”, un
trattato segreto con il quale s’impegna a entrare in guerra al fianco dell’Intesa
contro gli imperi centrali di Prussia e Austria. L’accordo, inizialmente segreto,
prevede in caso di vittoria l’attribuzione all’Italia del Trentino, del Tirolo
meridionale, della Venezia Giulia, dell'intera penisola istriana con l'esclusione di
Fiume, di una parte della Dalmazia, di numerose isole nel Mediterraneo. Il patto,
fortemente voluto dal primo ministro Salandra e dal ministro degli esteri
Sonnino, è firmato all’insaputa del Parlamento.

Radiose giornate di maggio


Il Patto segreto di Londra, che impegnava l’Italia ad entrare in guerra accanto a
Francia, Gran Bretagna e Russia, fu voluto dal governo, nel quale predominavano
le tendenze interventiste, senza informare il parlamento, pur sapendo che la
maggioranza di esso, come pure la maggioranza del paese, fosse contraria
all’intervento.
Nei giorni successivi alla rottura con l’Austria - Ungheria, mentre i tedeschi e gli
austriaci che risiedevano in Italia si affrettavano a lasciare il paese ed i tentativi
di mobilitazione dei neutralisti, caratterizzati ormai da rassegnazione, furono
senza esito, l’interventismo si scatenò nelle piazze fino ad arrivare, il 14 maggio,
ad un tentativo di attacco al parlamento.
Mussolini e D’Annunzio si posero alla guida delle manifestazioni, sempre più
violente e aggressive, che avevano come primo bersaglio il neutralista Giolitti, a
cui ancora il 9 maggio trecento parlamentari avevano confermato di far
riferimento, ma colpivano anche socialisti e cattolici; gli interventisti di sinistra si
unirono ai nazionalisti, partecipando a questa mobilitazione.
Salandra, in difficoltà perché data l’assenza di una maggioranza a lui favorevole
temeva di non poter onorare l’accordo con l’Intesa, colse l’occasione per forzare
la mano al re e presentò le proprie dimissioni; le dimissioni furono respinte dal re

197
Vittorio Emanuele III, che dimostrò così chiaramente la volontà di sostenere
comunque il governo contro la volontà del Parlamento. Il Parlamento cedette ed
il 20 maggio concesse a Salandra i pieni poteri per entrare in guerra; Filippo
Turati, motivando il voto contrario dei socialisti, che furono i soli ad opporsi ai
pieni poteri, ribadì la posizione ufficiale del partito, favorevole ad un neutralismo
che non compromettesse lo sforzo bellico del paese secondo la formula “né
aderire né sabotare”.
In realtà le modalità con le quali prevalse la minoranza interventista, con un
intervento del re che è stato assimilato da alcuni storici ad una sorta di colpo di
Stato, ed il clima instaurato soprattutto ad opera dagli interventisti, definito non
a torto “veicolo di tossine antidemocratiche e protofasciste nel tessuto della
società civile”, avranno conseguenze di lungo periodo negative per la sorte della
democrazia in Italia.
Il 24 maggio l’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria (ma non alla Germania
ed alla Turchia, alleati degli Asburgo) mentre le violenze interventiste, sia pur in
tono minore, continuarono, prendendo ora come bersaglio principale i tedeschi e
gli austriaci che non avevano lasciato il paese. In una lettera del primo giugno
1915 a Papini, Mussolini descrive ed esalta l'assalto della "folla milanese" a case
e negozi di "tedeschi" del 26 maggio 1915.
Fin dall’inizio del conflitto in realtà rimase fra le forze interventiste un equivoco
di fondo; condividendo tutte le posizioni di politica interna, comprese quelle
relative alla necessità di impedire a tutti i neutralisti (accomunati nella
definizione di "disfattisti”) una libera propaganda delle proprie idee, misero
temporaneamente da parte le profonde divergenze sulla politica estera, e cioè su
quali fossero gli obbiettivi che l’Italia avrebbe dovuto conseguire con la vittoria.
Mentre per gli interventisti di sinistra, che basavano il loro impegno sul principio
di nazionalità ed erano favorevoli alla guerra anche per il timore dl una vittoria
del militarismo prussiano, i territori adriatici allora parte dell’Austria-Ungheria
dovevano essere attribuiti all’Italia o alla Serbia in base all’etnia prevalente, per i
nazionalisti invece praticamente tutta la costa Dalmata sarebbe dovuta entrare a
far parte del Regno d’Italia. Al termine della guerra le divergenze esplosero (fece
clamore una contestazione di Mussolini e Marinetti a Bissolati, cui impedirono
l’11 gennaio 1919 di tenere alla Scala di Milano un discorso sulla politica estera,
episodio che sancì la definitiva rottura tra le due ali dell’interventismo).

198
28/10
Lezione 12
12/11 alle 10 di mattina prova intercorso

Europa inizio del 900


La Scheda di stato è uguale per tutti solo nell’elezioni del 1924 si voto con
questa modalità ma in precedenza colui che voleva votare doveva recuperare la
scheda perché fino al quel momento lo stato garantiva il diritto al voto ma non il
diritto del voto quindi il voto degli italiani procedeva attraverso un aspetto
semplice fino al 1918 si vota con la legge maggioritaria la persona che deve
votare la persona che preferisce deve andare nel comitato e prendere la sua
scheda e andare al seggio con la sua tessera e mettere la scheda nella busta
elettorale il segreto del voto non c’era a un certo punto questo sistema è
complicato si introduce una scheda in cui i cittadini introducono la scheda nel
1918 si introduce la busta di stato quando si passa da un sistema ideato da gioliti
a un sistema proporzionale deve scrivere sulla scheda la persona che vuole
votare. Il comitato elettorale non sono più le persone ma sono dei partiti che
danno la schedina per depositarla e la persona che vota deve avere il certificato
elettorale dal 1919-1921 poi dal 1924 non si vota più dai partiti ma per i
plebisciti si ritorna a votare nel 1946 c’è un partito nuovo l’uomo qualunque
anche negli anni successivi la scheda è uguale nel 1948 arrivare a questa
conquista non è facile ci sono stati cambiamenti come la morte di 600 mila
giovani.

Fronte italiano
Un terzo fronte importante era quello italiano, che interessò soprattutto la
regione della Venezia Giulia (ma con combattimenti anche in Trentino) e fu
caratterizzato da lunghe battaglie sul fiume Isonzo fino all’ottobre del 1917,
quando gli austriaci, con il supporto dei tedeschi, sfondarono le linee italiane
nella battaglia di Caporetto e avanzarono di molti chilometri.

Vi furono combattimenti anche in altre aree del mondo, tra le quali Turchia, con
l’attacco anglofrancese presso lo stretto dei Dardanelli, i Balcani, con
combattimenti in Serbia, Albania, Bulgaria e Macedonia, e il Medio Oriente, dove
gli arabi, supportati dagli inglesi, si ribellarono al dominio ottomano. Non
mancarono alcuni scontri navali, come quello dello Jutland del 1916 tra inglesi e
tedeschi.

le offensive del fiume Isonzo

199
Il 28 giugno 1914, durante una visita a Sarajevo, furono uccisi l’arciduca
Francesco Ferdinando, erede al trono austro-ungarico, e la sua consorte Sofia. Un
mese più tardi (il 28 luglio 1914), dopo un ultimatum al Regno di
Serbia, l’Austria-Ungheria dichiarò guerra alla Serbia. Nei primi giorni di agosto
diversi stati si scambiarono dichiarazioni di guerra, dando inizio alla Prima guerra
mondiale. L’Europa divenne un esteso campo di battaglia, diviso in più fronti, in
quanto entrarono in guerra due blocchi contrapposti: da una parte gli imperi
centrali (Germania, Austria-Ungheria, Bulgaria e Turchia), dall’altra le forze
dell’Intesa (Francia, Gran Bretagna e Russia). Nel primo anno di guerra l’Italia,
nonostante l’adesione alla Triplice alleanza con Austria-Ungheria e Germania,
rimase neutrale. Con la firma del patto di Londra tra Italia e Intesa, l’Italia uscì
da questa alleanza e il 23 maggio 1915 dichiarò guerra all’Austria-Ungheria. Si
aprì il fronte sudoccidentale, lungo 600 chilometri, che dal passo dello Stelvio sul
triplice confine tra Svizzera, Italia e Austria attraversava l’area montuosa del
Trentino e del Veneto (il Trentino apparteneva allora all’Austria-Ungheria), le Alpi
Carniche e la valle dell’Isonzo (Soča) fino al mare Adriatico. La sezione, lunga 90
chilometri, che correva lungo il fiume Isonzo dal Rombon all’Adriatico, si
chiamava fronte dell’Isonzo. In 29 mesi di combattimenti, dal maggio 1915
all’ottobre 1917, in quest’area si svolsero 12 offensive; 11 da parte degli italiani,
l’ultima, la dodicesima, da parte dei soldati dell’Austria-Ungheria e della
Germania.
Prima Battaglia dellʼIsonzo (23 giugno–7 luglio 1915)
Seconda Battaglia dellʼIsonzo (18 luglio–3 agosto 1915)
Terza Battaglia dellʼIsonzo (18 ottobre–4 novembre 1915)
Quarta Battaglia dellʼIsonzo (10 novembre–2 dicembre 1915)
Quinta Battaglia dellʼIsonzo (11–16 marzo 1916)
Sesta Battaglia dellʼIsonzo (4–16 agosto 1916)
Settima Battaglia dellʼIsonzo (13–17 settembre 1916)
Ottava Battaglia dellʼIsonzo (9–12 ottobre 1916)
Nona Battaglia dellʼIsonzo (31 ottobre–4 novembre 1916)
Decima Battaglia dellʼIsonzo (12 maggio–5 giugno 1917)
Undicesima Battaglia dellʼIsonzo (17 agosto–12 settembre 1917)
Dodicesima Battaglia dellʼIsonzo (24 ottobre–9 novembre 1917)
Nell’Alta valle dell’Isonzo la linea del fronte, dopo l’incertezza iniziale, si
stabilizzò e si passò a una guerra di posizione. Le battaglie si svilupparono in
particolar modo nella parte montana. I centri abitati che erano vicini al
fronte vennero svuotati. Li occuparono i soldati, gli abitanti invece furono
costretti a rifugiarsi altrove come profughi. La linea del fronte tra l’esercito
italiano e quello austro-ungarico correva dalla cima del monte Rombon alla conca

200
di Bovec (Plezzo) e lungo la valle dello Slatenik fino alla catena del Krn (Monte
Nero), passando per il Mrzli vrh scendeva poi nella conca di Tolmin. Mengore,
Bučenica e Cvetje formavano una barriera sulla riva destra dell’Isonzo. In questo
modo gli austro-ungarici difendevano un importante collegamento ferroviario e
stradale con le zone interne dell’Impero. Questa zona, larga fino a 2,5 chilometri,
è passata alla storia come testa di ponte di Tolmin.
La linea del fronte proseguiva attraverso l’altopiano Banjška planota (Bainsizza),
passava accanto a Gorizia/Gorica/Görz e attraverso il Carso giungeva fino al
golfo di Trieste.
Nel corso basso del fiume Isonzo (Soča), dove il paesaggio è meno montuoso che
nella parte alta, avvenne la maggioranza delle battaglie dell’Isonzo. L’esercito
italiano aveva previsto che lì avrebbe spezzato la difesa nemica più facilmente.
Ma, nonostante questa maggiore, apparente facilità, anche sull’altopiano carsico
la guerra si stabilizzò, in particolare tra il giugno 1915 e l’agosto 1916. Gli
austro-ungarici organizzarono inizialmente le loro difese su tutti i rilievi
strategici, respingendo i numerosi attacchi italiani. La linea del fronte che andava
dai monti Sabotino/Sabotin e Calvario/Kalvarija fino ai rilievi attorno a
Monfalcone/Tržič, passando per il Monte San Michele/Debela griža e la zona
di Doberdò/Doberdob, rimase sostanzialmente immutata fino all’agosto 1916,
quando gli italiani riuscirono ad entrare a Gorizia, spostando parte del fronte di
qualche chilometro più a est.
Nella primavera ed estate 1917 l’esercito italiano organizzò le offensive più
importanti dal punto di vista numerico, con l’intenzione di sfondare
definitivamente il fronte, senza però riuscirci.
L’ultimo atto dei combattimenti lungo l’Isonzo avvenne con la Dodicesima
Battaglia dellʼIsonzo che iniziò il 24 ottobre 1917, proprio lungo il suo corso
superiore. Nella storiografia austro-ungarica la battaglia è nota come “Miracolo
di Kobarid”, in quella italiana invece come la famosa “Ritirata/Disfatta di
Caporetto”. Ebbe inizio nella conca di Bovec con l’attacco congiunto dell’esercito
austro-ungarico e tedesco. Sorpresero la difesa italiana con un bombardamento a
gas. Contemporaneamente iniziò l’avanzata dalla direzione di Tolmin verso
Kobarid (Caporetto) e il Kolovrat. Alla rottura del fronte dellʼIsonzo
seguì l’avanzata verso la pianura friulana fino al fiume Piave, dove il fronte si
assestò il 9 novembre 1917. Nonostante alcuni tentativi, tra il 30 ottobre e il 3
novembre 1917, di fermare l’avanzata sul Tagliamento nelle vicinanze di
Ragogna e Cornino, quasi metà dell’esercito italiano (1.500.000 soldati) fu
costretta a ritirarsi fino al fiume Piave. Durante la ritirata, nelle aree tra le Alpi
Giulie, il Tagliamento, la pianura friulana e le Alpi Carniche, si svolsero numerosi
combattimenti. Questi furono decisivi nel salvare l’esercito italiano, nonostante

201
le grandi perdite di soldati e materiali.
Più di 200.000 civili abbandonarono le proprie case, unendosi all’esercito in
ritirata per fuggire nell’entroterra dell’Italia.
Nel novembre 1917 l’esercito austro-ungarico e tedesco raggiunsero il fiume
Piave e il Monte Grappa, dove i combattimenti proseguirono fino alla fine della
guerra. Le due offensive lanciate dallʼesercito imperiale (Battaglia dʼArrestonel
novembre‒dicembre 1917 e Battaglia del Solstizio nel giugno 1918) non
riuscirono a sfondare le linee italiane. Quattro mesi dopo, lʼesercito italiano, con
l’aiuto di truppe alleate, riuscì a vincere la battaglia di Vittorio
Venetoapprofittando anche della crisi ormai irreversibile della monarchia austro-
ungarica.
Il 4 novembre 1918 cessarono le ostilità sul fronte italo-austriaco. Pochi giorni
dopo, lʼ11 novembre 1918, la Prima guerra mondiale terminò con la capitolazione
della Germania.
La guerra lasciò molte tracce lungo l’Isonzo, in Friuli-Venezia Giulia e in Veneto.
Monumenti commemorativi, caverne, trincee, fortezze e cimiteri oggi
rappresentano un patrimonio storico e culturale. Ammonendoci ricordano il
dolore, il sacrificio e la morte di migliaia di ragazzi e uomini appartenenti a tante
nazionalità. Allo stesso modo la guerra ha provato duramente anche la
popolazione civile, che dalle immediate vicinanze del fronte dovette rifugiarsi
altrove. Più tardi coloro che fecero ritorno dovettero confrontarsi con un
paesaggio devastato, con le proprie case distrutte e una fame spaventosa.

Luigi Cadorna
Luigi Cadorna nacque a Pallanza nel 1850, da famiglia di solide tradizioni militari.
Suo padre, infatti, era quel generale Raffaele Cadorna cui, dopo aver combattuto
valorosamente in Algeria, in Crimea e a S. Martino, toccò in sorte di comandare,
nel 1870, il corpo d'Armata che doveva dare Roma all'Italia.
Sottotenente nel Corpo di Stato Maggiore a diciotto anni, (nel 1868), Luigi
Cadorna mostrò fin d'allora quelli che dovevano essere i tratti inconfondibili della
sua figura di soldato: fortissimo carattere, indomabile energia, amore dello
studio e della riflessione, tenacia nel lavoro, attaccamento ferreo al dovere. Per
più anni alternò servizi di stato maggiore a turni di comando di truppe. Raggiunto
il grado di colonnello nel 1892, ebbe dapprima il comando del 10° reggimento
bersaglieri e fu poi Capo di Stato
Maggiore dell'VIII corpo d'Armata.
Col grado di maggior generale (1898-1905) comandò la Brigata Pistoia; con
quello di tenente generale tenne successivamente i comandi delle Divisioni di
Ancona e Napoli e, nel 1911, fu chiamato a comandare il IV corpo d’Armata.

202
L'anno dopo, il generale veniva designato per il comando di un'armata in guerra.
Scomparso, poi, improvvisamente nel luglio del 1914 il generale Alberto Rollio,
Luigi Cadorna fu chiamato a succedergli nella carica di Capo di Stato Maggiore
dell'Esercito mentre balenavano già all'orizzonte le prime fiamme dell'incendio
europeo.
Il nuovo Capo di Stato Maggiore si pose al lavoro, per fare dell’Esercito Italiano
una macchina all’altezza della prova che si profilava all’orizzonte. Col piano che
egli stesso aveva preparato scese in campo, alla testa dell’Esercito, nel maggio
1915 e nonostante le gravi difficoltà condusse quella serie di offensive
sull'Isonzo, che dovevano, in poco più di due anni, ridurre l'esercito nemico a mal
partito. Tentò il Capo di SM dell’esercito austro-ungarico di sorprendere il
Comando Supremo italiano, nella primavera del 1916, passando all'offensiva in
Trentino e minacciando di traboccare nella pianura veneta, alle spalle del nostro
schieramento sull’Isonzo, ma il generale Cadorna, dopo aver parato quella
minaccia, rispondeva all'avversario con una manovra controffensiva che diede
all'esercito italiano la vittoria di Gorizia. Seguitò, poi, a " stringere alla gola ",
come disse il generale Ludendorff, l'esercito nemico, fino a quando questo, dopo
la sconfitta della Bainsizza (agosto 1917), temendo di non poter più difendere
Trieste, si vide costretto ad invocare l'aiuto dell'alleata Germania.

Disfatta di caporetto
Nome con cui si indica comunemente la dodicesima battaglia dell’Isonzo (24
ottobre 1917), durante la Prima guerra mondiale. Le divisioni austro-tedesche
inflissero presso Caporetto, centro dell’odierna Slovenia, una pesantissima
sconfitta alle truppe italiane, guidate dal generale Cadorna, le quali furono
costrette a ritirarsi, attestandosi poi sul Piave (9 nov. 1917). Centinaia di migliaia
di prigionieri caddero in mano al nemico, insieme a migliaia di cannoni e a grandi
depositi di materiali da guerra e alimentari. L’8 nov. Cadorna fu esonerato e
sostituito dal generale A. Diaz. La rotta di Caporetto fu determinata dalla
mancanza di idee chiare sul piano strategico, da un’insufficiente visione
particolare e d’insieme delle operazioni condotte dai tedeschi in altri teatri di
guerra, dall’omissione di un esame approfondito delle proprie possibilità. La crisi
segnò però una stretta decisiva nella guerra italo-austriaca, ponendo fine a un
determinato criterio di condotta bellica in favore di uno nuovo, più avveduto e di
più larga ispirazione. La rotta subita dalle truppe italiane provocò un vero e
proprio trauma nell’immaginario collettivo e nella memoria storica del Paese. Ne
seguì inoltre un’inchiesta, volta a individuare le responsabilità della sconfitta.

Idea di patria

203
Non solo Caporetto, ma anche il Piave e Vittorio Veneto. Sono gli eventi che per
noi italiani hanno contrassegnato sanguinosamente il primo ventennio del ‘900,
mentre tutto l’assetto politico e geografico subiva un tremendo scossone. Per
sconfiggere le armate austroungariche che occupavano il nord est del paese,
caddero allora migliaia di soldati italiani. Fu la “grande guerra” come sempre è
stata chiamata. Ammesso che grande – nel senso elogiativo del termine – possa
essere definita una qualsiasi guerra, e grande – quanto a dimensioni – la si possa
ritenere a confronto della tragedia immane provocata successivamente dal
nazifascismo. Ma forse nessuno allora lo riteneva possibile. Si concludeva in un
periodo dell’anno come questo, giorni che segnavano l’inizio dell’inverno, con le
piogge, il freddo, le prime nevicate sulle vette, il 4 novembre del 1918. Ma non
erano propriamente tempi simili. Allora, per tutti quei giovani andati a
combattere, il sapore delle castagne ricordava la casa lontana, era solo il
profumo degli affetti familiari distanti e delle proprie cose, un profumo amaro,
nulla a che vedere con le trincee e le vette, dove la maggioranza dei combattenti
non era mai stata prima. E Halloween non esisteva affatto, cos’era mai all’inizio
del secolo scorso?
Con la sconfitta degli austriaci potevamo dire di aver vendicato Caporetto, il ritiro
disonorevole delle truppe di fronte al nemico, eppure nella storiografia più
comune e forse più banale, e persino nella percezione di molti, la disfatta è
ricordata con più forza degli eventi successivi, la resistenza su quel fiume,
l’avanzata successiva, che pure ebbero effetti non meno dirompenti sugli
austriaci, il cui esercito collassò di colpo e dovette ritirarsi frettolosamente oltre
le montagne, come ricordava il bollettino della vittoria.
Un segnale forse della vergogna provata come popolo, mai elaborata e superata.
Una ferita non emarginata, e rimasta a sanguinare. Una conferma dei pregiudizi
contro sé stessi, un popolo incapace di unire le forze, di sapersi coalizzare per un
obiettivo. Oppure qualcosa di molto diverso, un’altra riflessione, cioè lo stupore
di fronte all’ipotesi inversa. L’incredulità di saper ritrovare le ragione del vivere
comune, scoprire la comune appartenenza ad un popolo.

Guerra di posizione
Durante gli assalti i morti erano numerosissimi e, anche quando si riusciva a
conquistare la trincea nemica, si guadagnavano solo poche centinaia o decine di
metri. Perciò si dice che la Prima Guerra Mondiale fu una guerra di posizione.
Solo in pochi casi, gli eserciti riuscirono a sfondare le difese nemiche e ad
avanzare di molti chilometri. I combattenti erano in larga maggioranza soldati di
leva, cioè semplici cittadini richiamati alle armi, che combattevano perché erano

204
obbligati a farlo: chi rifiutava veniva severamente punito (in genere con la
fucilazione). Solo alcune minoranze parteciparono al conflitto per spirito
patriottico.

1917
Il 1917 fu un anno cruciale per gli sviluppi della prima guerra mondiale,
principalmente per tre motivi: l’entrata in guerra degli Stati Uniti, l’uscita dalla
stessa della Russia e la disfatta di Caporetto sul fronte italiano.
Sul fronte occidentale, a dispetto delle pesanti perdite subite a Verdun e sulla
Somme, alla fine del 1916 i comandi anglo-francesi erano convinti di aver
acquisito una posizione di vantaggio sui tedeschi e di essere vicini alla vittoria. Il
nuovo comandante in capo francese, il generale Robert Nivelle, propose una serie
di nuove offensive congiunte da condursi nella primavera del 1917. Il tentativo
francese non ebbe successo e la sconfitta distrusse definitivamente il morale
dell’esercito francese: in vari reparti si verificarono casi di insubordinazione e
proteste contro la guerra, sfociate anche in episodi di ammutinamento e
diserzione, con conseguente repressione da parte dell’alto comando. Da quel
momento, l’iniziativa passò ai britannici, i quali ottennero dei successi parziali,
ma nient’affatto decisivi, perdendo quasi subito il terreno appena riconquistato.
Nel frattempo, la lunga durata della guerra, iniziata nel luglio 1914, aveva
causato un aumento delle difficoltà socio-economiche per gli Imperi Centrali
(Austria-Ungheria e Germania), soprattutto a causa del blocco navale attuato
dalla Gran Bretagna sin dall’inizio del conflitto. Perciò, a partire dal febbraio
1917, i tedeschi decisero di intensificare la guerra sottomarina, per bloccare tutti
i rifornimenti ai paesi nemici e isolare economicamente la Gran Bretagna.
Tuttavia gli Stati Uniti, già maldisposti verso la Germania per l’affondamento del
transatlantico inglese Lusitania nel maggio del 1915, a bordo del quale perirono
123 americani, erano pesantemente danneggiati nei loro scambi commerciali con
Francia, Italia e Inghilterra. Per questo motivo, oltre che per il tentativo tedesco
di istigare il Messico ad attaccare gli Stati Uniti (il famoso caso del “telegramma
Zimmermann“), il 6 aprile 1917 decisero di entrare nel conflitto al fianco della
Triplice Intesa (formata da Francia, Gran Bretagna e Russia), spostando
notevolmente il peso delle forze.
Sul fronte orientale, intanto, il 2 marzo 1917 lo zar russo Nicola II, in seguito alla
cosiddetta “Rivoluzione di febbraio”, fu costretto ad abdicare. Le enormi perdite
subite dalla Russia avevano minato alle fondamenta la resistenza morale e fisica
del suo esercito, tanto che al fronte gli ufficiali non riuscivano più a mantenere la
disciplina. La monarchia zarista venne sostituita da una repubblica, il cui governo
provvisorio decise di proseguire ugualmente la guerra a fianco degli anglo-

205
francesi, ma i tedeschi riuscirono a penetrare nel territorio russo. Con la
“Rivoluzione d’ottobre”, il potere fu assunto dai comunisti guidati da Lenin, che
decisero di uscire dalla guerra. Le trattative di pace con gli Imperi Centrali
portarono all’accordo di Brest-Litovsk, il 3 marzo 1918.
In seguito alla crisi della Russia, l’Austria-Ungheria e la Germania poterono
concentrarsi sul fronte italiano, dove lanciarono una poderosa offensiva che
sfondò le nostre linee a Caporetto (24 ottobre 1917). Circa 400.000 uomini
vennero uccisi o fatti prigionieri e il generale Luigi Cadorna, comandante
dell’esercito italiano, fu sostituito da Armando Diaz. Le ragioni militari della
disfatta vanno ricercate nel superiore addestramento delle truppe d’assalto
austro-tedesche e soprattutto nell’errata impostazione difensiva italiana. La
sconfitta fu anche causata da motivi più “umani”: i soldati erano infatti ormai
logorati, nel fisico e nello spirito, dall’interminabile guerra di trincea, dalle
angherie dei comandanti e dalla paura di morire. La ritirata dell’esercito italiano
fu caotica, lasciando dietro di sé mezzi di trasporto, animali da soma e da tiro,
armi, munizioni e materiali vari e trascinandosi appresso una marea di profughi.
Le truppe si arrestarono infine lungo la cosiddetta “linea del Piave”, dove
riuscirono a contenere il nemico e a recuperare le forze.

Russia
Spianò la strada alla nascita dell’Unione Sovietica e la sua eredità ha dominato la
politica del XX secolo lasciando un segno indelebile nel mondo contemporaneo.
Ma quando mosse i primi passi, nel gelido febbraio del 1917, molti rivoluzionari
non ci fecero troppo caso. Il primo indizio che stava accadendo qualcosa di
importante fu durante la Giornata internazionale delle donne, il 23 febbraio del
1917*. Folle di operaie delle fabbriche si radunarono nel centro della capitale,
Pietrogrado (San Pietroburgo). Anche quando vi si unirono schiere di lavoratori e
lavoratrici scontenti e affamati, alcuni dei rivoluzionari rimasero scettici.
Aleksandr Šljapnikov era una delle figure principali del movimento bolscevico, il
cui leader, Vladimir Il’ič Lenin, era in esilio dal 1905. Il 25 febbraio Šljapnikov
osservava: «Date ai lavoratori mezzo chilo di pane e il movimento si esaurirà».
Fame, guerra, rabbia
Per quanto inizialmente si ritenesse che le proteste non sarebbero durate a
lungo, molti osservatori dell’epoca – tra cui i bolscevichi di Lenin, i liberali russi
e i diplomatici stranieri – erano comunque certi che la rivoluzione fosse solo una
questione di tempo. Le radici del malcontento russo erano profonde. L’incapacità
del governo di fare fronte alla devastante carestia del 1890 aveva infiammato il
fervore rivoluzionario. Nelle città, lo sfruttamento e la sconvolgente miseria di cui
erano vittime i lavoratori avevano causato ondate di scioperi e proteste. La

206
pressione esercitata dal processo di industrializzazione era aggravata
dalla gestione dello zar Nicola II. Salito al trono nel 1894, Nicola aveva ereditato
il gigantesco impero russo e le idee autocratiche della sua famiglia, la dinastia
Romanov. Nel 1905 la popolarità dello zar era in declino, a causa dei continui
problemi interni e dell’impopolare guerra contro il Giappone. La repressione
violenta di una manifestazione pacifica a San Pietroburgo, nel gennaio dello
stesso anno, aveva scatenato mesi di proteste. Finalmente, nell’autunno del
1905, lo zar aveva ceduto e firmato il “manifesto di ottobre”, che poneva le basi
per la tutela dei diritti civili, la promulgazione di una costituzione e l’istituzione di
un parlamento, la duma. Tali concessioni avevano placato gli animi rivoluzionari
quel che bastava perché Nicola II potesse rimanere al potere.
Tuttavia, per molti il manifesto era insufficiente e tardivo. Ispirandosi agli scritti
di Karl Marx (1818-1883), che prevedeva una rivoluzione in cui i lavoratori
sarebbero diventati la classe dirigente, figure di agitatori come Lenin
continuavano a spingere alla rivolta contro lo zar. Un decennio più tardi, le
irrisolte tensioni sociali ed economiche furono esacerbate dall’entrata della
Russia nella Prima guerra mondiale. Situata vicino al confine con la Germania e
stremata dalla guerra e dalle carenze alimentari, all’inizio del 1917 Pietrogrado
era una polveriera di rabbia e disperazione. Ciò che avvenne a quel punto non fu
solo un rifiuto dello stato, ma di tutte le forme di autorità.
La rivoluzione di febbraio
Contrariamente alle previsioni di Šljapnikov, secondo cui le proteste si sarebbero
esaurite in fretta, negli ultimi giorni di febbraio i disordini non fecero che
aumentare e iniziarono ad apparire bandiere rosse e striscioni che invocavano la
caduta della monarchia. Le forze dello zar aprirono il fuoco sui manifestanti
causando decine e decine di vittime. Le proteste si trasformarono in una vera e
propria rivoluzione quando i partecipanti fecero irruzione nelle caserme del
reggimento Pavlovskij: i soldati, invece di respingere l’attacco, decisero di unirsi
ai manifestanti, sparando in alcuni casi ai loro stessi ufficiali. Ben presto le
autorità rimasero praticamente prive di potere militare nella capitale.
L’espandersi della rivolta spinse alcuni a ipotizzare che gli scontri fossero
stati orchestrati dai partiti socialisti. In realtà, dietro quelle proteste c’erano
molte persone: soldati, lavoratori, studenti, i cui nomi non avrebbero lasciato
tracce nei libri di storia.
Il 27 febbraio una folla, alla ricerca di leader, si riversò a palazzo Tauride, la sede
della duma. Qui venne eletto un consiglio dei lavoratori (soviet). La maggior
parte dei dirigenti del soviet di Pietrogrado non aveva intenzione di prendere il
potere. Piuttosto, voleva che i leader della duma formassero un governo in linea
con la dottrina di Karl Marx: in un Paese come la Russia, il primo passo verso un

207
ordine socialista avrebbe dovuto essere compiuto dai democratici borghesi. Il
primo marzo venne costituito un governo provvisorio. Il soviet si impegnava a
sostenerlo nella misura in cui questo si fosse attenuto a principi democratici.
Intanto, di fronte all’andamento negativo della guerra contro la Germania, lo
stato maggiore dell’esercito e la stessa duma facevano pressioni sullo zar Nicola
perché abdicasse, cosa che avvenne il 2 marzo 1917. La notizia fu accolta con
scene di esultanza in tutto l’impero russo mentre i simboli del potere monarchico
venivano distrutti dalla folla.
Il governo provvisorio intraprese notevoli riforme. Diretto da un primo ministro
riformatore e liberale, il principe Georgij L’vov, e dal ministro della giustizia
Aleksandr Kerenskij – unico socialista al governo nonché il solo a essere anche
membro del soviet – il nuovo esecutivo spazzò via le vecchie leggi del regime
zarista contro le libertà di parola e di assemblea. La Russia divenne quello che
Lenin definì «il Paese più libero del mondo». Dall’esilio in Svizzera, il leader
bolscevico seguiva con frustrazione il rapido susseguirsi degli eventi a
Pietrogrado. Alla fine, rientrò in Russia su un “vagone piombato” messo a
disposizione dai tedeschi, che speravano che la sua opposizione alla guerra
avrebbe favorito un ritiro della Russia dal conflitto.
Le Tesi d'aprile
Il 3 aprile Lenin arrivò alla stazione Finlandia di Pietrogrado con un programma
in dieci punti – le famose Tesi d’aprile – per una seconda rivoluzione basata sul
“potere ai soviet”. Gli scritti di Lenin andavano contro l’ortodossia marxista,
perché rifiutavano la necessità della prima fase – la rivoluzione “democratica
borghese”. Ciononostante, Lenin riuscì a spingere il Partito bolscevico – una
fazione del Partito operaio socialdemocratico russo (POSDR) – a seguire le sue
tesi. Il suo indubbio carisma favorì l’adesione in massa di operai e soldati, che
non sapevano molto di teoria marxista ma ne apprezzavano l’efficacia: perché
aspettare di raggiungere il socialismo in due fasi quando si poteva farlo in una?
Operai e soldati aderirono in massa alle posizioni di Lenin per raggiungere il
socialismo in un'unica fase
Le aspettative dei lavoratori erano alle stelle: gli scioperanti reclamavano
la giornata lavorativa di otto ore e il controllo delle fabbriche da parte degli
operai. In questo contesto di crisi generale dell’autorità, il soviet aveva
un controllo limitato sulle rivolte che si registravano nelle province e nelle
campagne. I governi regionali e municipali si comportavano come se fossero
indipendenti. Come nel 1905, erano le comunità contadine a rappresentare
il nucleo organizzativo della rivoluzione, nella misura in cui confiscavano la terra
e il bestiame. I soldati avevano comitati propri che regolavano i rapporti con gli

208
ufficiali. Alcuni rifiutavano di combattere per più di otto ore al giorno,
esigendo gli stessi diritti degli operai.
Per i dirigenti del governo provvisorio, la salvezza dello stato russo dipendeva
dal successo militare. Una sconfitta da parte della Germania avrebbe potuto
significare un ritorno al vecchio ordine e la restaurazione della dinastia Romanov.
Sotto la pressione degli alleati, la Russia lanciò una nuova offensiva a metà
giugno 1917. I russi riuscirono ad avanzare vittoriosamente per due giorni, ma al
terzo furono respinti da una controffensiva tedesca.
Allarmato dal successo degli avversari, il governo provvisorio chiamò alla
mobilitazione il primo reggimento dei mitraglieri, che era composto dai soldati
più vicini ai bolscevichi della guarnigione di Pietrogrado. Ma il reggimento ritenne
che si trattasse di un ordine “controrivoluzionario”, che mirava in realtà a
sbarazzarsi degli elementi bolscevichi con la scusa della guerra ai tedeschi, e
minacciò di destituire l’esecutivo se non fosse tornato sui suoi passi. Rispetto alla
posizione del reggimento, i leader bolscevichi si mostravano più cauti.
Il 4 luglio numerosi soldati, lavoratori e marinai della base navale di Krontadt,
dopo aver marciato armati per le vie di Pietrogrado, si radunarono davanti al
quartier generale bolscevico in attesa di istruzioni. Ma, in quel momento cruciale,
Lenin esitò e non si risolse a chiamare il popolo alla rivolta. La fallita “rivoluzione
di luglio” fu seguita dalla repressione. La polizia prese d’assalto la sede del
POSDR, centinaia di bolscevichi furono arrestati e Lenin dovette riprendere la via
dell’esilio, questa volta in Finlandia.
Aleksandr Kerenskij – il solo politico benvisto dal popolo, dai leader militari e
dalla borghesia – venne acclamato come l’unico in grado di riconciliare il Paese e
fermare la deriva verso la guerra civile. Il principe L’vov lasciò l’incarico e l’8
luglio Kerenskij divenne primo ministro: ben presto decretò nuove restrizioni alle
riunioni pubbliche, ripristinò la pena di morte in guerra e decise di ristabilire la
disciplina militare.
Il programma del nuovo governo di coalizione non era più legato ai principi
dei soviet. Nel frattempo il capo dell’esercito, il generale Kornilov, in un tentativo
di presentarsi come il “salvatore della patria”, richiese l’attuazione di misure che
di fatto corrispondevano all’imposizione della legge marziale. Kerenskij
inizialmente accettò, poi si rivoltò contro il generale chiamando i soviet alla
mobilitazione per difendere la capitale dalle forze di Kornilov. I leader
bolscevichi, che in precedenza il generale aveva fatto arrestare, furono liberati,
mentre le guardie rosse organizzavano la difesa delle fabbriche. Ma non ci fu
bisogno di combattere, perché i soldati cosacchi furono persuasi dagli agitatori
dei soviet a deporre le armi. Kornilov e altri 30 ufficiali furono imprigionati.
Considerati martiri politici dai conservatori, i kornilovisti avrebbero in seguito

209
costituto il nucleo fondatore dell’Armata bianca, che si sarebbe battuta contro le
forze comuniste (l’Armata rossa) nella successiva guerra civile.
Il momento di Lenin
La questione Kornilov finì per indebolire la posizione di Kerenskij. Attaccato a
destra per aver tradito il generale, il primo ministro era sospettato a sinistra per
aver agito, almeno all’inizio, in connivenza con lo stesso. Molti soldati dubitavano
ormai della fedeltà dei propri ufficiali al nuovo governo, il che causò un forte
deterioramento della disciplina militare. La conseguenza fu l’espandersi
del processo di radicalizzazione nelle principali città industriali. I grandi
beneficiari furono i bolscevichi, che a inizio settembre ottennero le prime
maggioranze nei soviet di Pietrogrado, Mosca, Riga e Saratov.
Dalla Finlandia Lenin chiamò i suoi sostenitori all’insurrezione immediata, prima
che si svolgesse il Congresso dei soviet previsto per il 20 ottobre. Sapeva che se
in quel congresso si fosse votato un trasferimento dei poteri ai soviet, il risultato
sarebbe stato un governo di coalizione con tutti i partiti politici presenti in quegli
organi, inclusi i suoi rivali di sinistra, i menscevichi (l’ala moderata del POSDR) e
il Partito socialista rivoluzionario. Lenin vide l’occasione per prendere il potere
e decise di approfittarne. Rientrato in incognito a Pietrogrado, convocò una
riunione del suo partito per il 10 ottobre, dove riuscì a far passare una risoluzione
(imponendosi per dieci voti contro due) per preparare la rivolta.
Il 16 ottobre il comitato centrale fu informato dagli attivisti locali che, per
appoggiare l’insurrezione, i soldati e gli operai di Pietrogrado dovevano essere
«stimolati con proposte come la dissoluzione della guarnigione». Lenin era
indifferente a tutto questo, perché era convinto che gli bastasse un piccolo
contingente ben armato e ben organizzato. Fu la sua visione a imporsi ancora
una volta nel comitato centrale. Dato che la cospirazione bolscevica era ormai di
pubblico dominio, i leader dei soviet decisero di posticipare il congresso al 25
ottobre. Avevano bisogno di più tempo per raccogliere il sostegno dalle province,
ma questo ritardo finì per alimentare i sospetti che il congresso non si sarebbe
riunito affatto.
Le voci di un’imminente controrivoluzione si rafforzarono quando Kerenskij
annunciò il progetto di trasferire il grosso della guarnigione di Pietrogrado sul
fronte settentrionale. Per impedirlo, il 20 ottobre il soviet di Pietrogrado istituì il
Comitato rivoluzionario militare (CRM), l’avanguardia rivoluzionaria della forza
bolscevica, che il 24 ottobre assunse il controllo della guarnigione di Pietrogrado.
A quel punto Lenin, camuffato con una parrucca, abbandonò il suo nascondiglio
per recarsi all’istituto Smol’nyj, il quartier generale bolscevico, dove ordinò
l’inizio della rivolta.

210
Dopo una serie di ritardi e contrattempi, all’alba del 25 ottobre (7 novembre del
calendario gregoriano) ci fu il leggendario assalto al palazzo d’Inverno, sede del
governo provvisorio. L’arresto dei ministri di Kerenskij fu annunciato al
congresso dei soviet, i cui 670 delegati – principalmente operai e soldati, bardati
in cappotti e uniformi – decisero di formare un governo con l’appoggio di tutti i
partiti presenti. Ma la maggioranza dei delegati menscevichi e socialisti
rivoluzionari abbandonarono la sede in segno di protesta contro il colpo di stato
dei bolscevichi, lasciando così a questi ultimi il monopolio del potere nei soviet.
Erano in pochi a pensare che gli uomini di Lenin potessero resistere a lungo. I
bolscevichi dovevano lottare per il potere a Mosca (dove contro di loro si
scatenarono scioperi dei funzionari, dei servizi postali e telegrafici e delle
banche) e non avevano grandi appoggi nelle province. Nonostante il colpo di
stato fosse stato fatto in nome del soviet, questo rappresentava ormai agli occhi
di Lenin un ostacolo per il nuovo organo di governo da lui creato, il Consiglio dei
commissari del popolo o Sovnarkom. Il 4 novembre il Sovnarkom si attribuì la
prerogativa di legiferare senza l’approvazione del soviet.
Le speranze dei partiti di opposizione, intanto, erano legate alle elezioni
dell’Assemblea costituente, convocate dal governo provvisorio e in programma
per fine novembre. L’Assemblea costituente doveva essere il vero organo
democratico, eletto a suffragio universale e rappresentativo di tutti i cittadini. I
bolscevichi raccolsero il 24% dei voti, mentre i loro rivali di sinistra, il Partito
socialista rivoluzionario, il 38%.
Tuttavia, Lenin non aveva intenzione di seguire le regole del gioco democratico.
In modo lento ma inesorabile stava emergendo un nuovo stato di polizia, di cui
lui stesso era al comando. A dicembre il Comitato rivoluzionario militare fu
abolito e i suoi poteri trasferiti a un nuovo corpo di sicurezza, la Čeka. Il 5
gennaio del 1918 si insediò l’Assemblea costituente, ma venne chiusa
immediatamente dalle guardie bolsceviche.
Una pace disonorevole
Lenin arrivò al potere promettendo pane, terra e pace, ma uscire dalla guerra non
era un compito facile. Molti bolscevichi ritenevano che firmare una pace con la
Germania, potenza imperialista, rappresentasse un tradimento della causa
internazionalista. Ma Lenin, consapevole che l’esercito russo si stava
rapidamente sgretolando, non ebbe altra scelta che cercare un modo di porre
termine al conflitto. Venne concordato un armistizio, e a negoziare con i tedeschi
fu inviato Leon Trotskij. Questi cercò di prendere tempo, sperando che nel
frattempo la rivoluzione contagiasse il resto d’Europa.
Tuttavia, all’inizio di febbraio la Germania siglò un trattato con gli ucraini, che
accettavano il dominio tedesco in cambio dell’indipendenza dalla Russia. A quel

211
punto l’esercito teutonico attaccò Pietrogrado e costrinse Lenin a trasferire la
capitale a Mosca.
Il 3 marzo 1918 i bolscevichi si rassegnarono a firmare il trattato di Brest-
Litovsk, i cui termini erano rovinosi per la Russia: Polonia, Finlandia, Estonia e
Lituania ottenevano infatti l’indipendenza nominale sotto il controllo della
Germania. La nuova Repubblica sovietica perdeva il 34% della popolazione, il
32% delle terre agricole, il 54% delle strutture industriali e l’89% delle miniere
di carbone.
Ciononostante, quei sacrifici rafforzavano la posizione di Lenin come il vincitore
della rivoluzione del 1917. Lasciatosi alle spalle la guerra con una potenza
straniera, Lenin poteva concentrarsi sul consolidamento del potere all’interno del
Paese di fronte all’imminente guerra civile.

Partito dei cadetti


Il partito costituzionale-democratico, per le iniziali chiamato partito dei cadetti,
raccoglieva le forze di ispirazione borghese liberale che miravano alla formazione
di un parlamento elettivo sul modello occidentale e di uno Stato di matrice
monarchica e costituzionale. Fece parte del Governo provvisorio panrusso.

Partito socialrivoluzionario
Il PSR è stato un partito peculiare nella storia politica mondiale, non ha avuto
analoghi programmatici né in altri luoghi né in altri tempi. Il PSR ha governato la
parte occidentale della Siberia e orientale della Russia, a cavallo dei monti Urali,
tra l'8 giugno ed il 18 novembre 1918, con capitale Samara.

Partito socialdemocratico
Partito politico russo, attivo tra il 1898 e il 1917. Dopo un periodo di gestazione
che aveva visto la nascita di gruppi quali Emancipazione del lavoro (i cui
maggiori leader erano G.V. Plechanov e P. Axelrod) e l’Unione di lotta per
l’emancipazione della classe operaia (diretta da Lenin), il POSDR fu fondato a
Minsk nel marzo 1898, nell’intento di unificare le diverse correnti del socialismo
russo. Al Congresso parteciparono come delegati sei esponenti dei comitati locali
(di Mosca, San Pietroburgo, Kiev ed Ekaterinoslav), due del gruppo
della Rabočaja Gazeta («Giornale operaio») e tre del Bund promotore, oltre al
padrone di casa, il ferroviere Rumjancev; non poterono invece partecipare
dirigenti quali Struve (che pure ne redasse il manifesto), Plechanov e Axelrod (in
Svizzera), Lenin e Martov (deportati in Siberia). La repressione zarista peraltro
colpì il POSDR già al congresso costitutivo, in cui la maggior parte dei delegati
venne arrestata. Nel 1900 Lenin diede vita al giornale Iskra(«La scintilla»),

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attorno a cui iniziò ad aggregare i quadri più critici verso le impostazioni
economiciste e gradualiste. Col 2° Congresso, che si tenne tra Bruxelles e Londra
nel 1903, il POSDR precisò la sua fisionomia, ma si divise in due frazioni: quella
bolscevica (➔ ) – dal russo bol´ševik «maggioritario» –, guidata da Lenin,
favorevole all’opzione rivoluzionaria, e quella menscevica – dal
russo men´ševik«minoritario» –, facente capo a J. Martov, fautrice di uno
sviluppo graduale della società russa e dello stesso movimento socialista. Le due
concezioni del processo rivoluzionario si riflettevano anche in due diverse visioni
del partito, visto dai bolscevichi come una forza omogenea e compatta, formata
da «rivoluzionari di professione», e dai menscevichi come una forza politica
simile ai partiti socialisti occidentali. In occasione della rivoluzione del 1905 le
divergenze si accentuarono: per i bolscevichi gli operai e i contadini poveri
dovevano prenderne la direzione, mentre i menscevichi erano più favorevoli al
consolidarsi di una fase democratico-borghese. Le linee di frattura all’interno del
POSDR riguardavano anche il rapporto tra i vertici, perlopiù in esilio all’estero, e
la gran parte dei militanti e dei quadri intermedi, impegnati nell’attività
clandestina nella Russia zarista e in particolare nella costruzione di cellule del
partito nelle fabbriche e nei quartieri operai. Il POSDR comunque boicottò le
elezioni per il primo Parlamento russo (1906), partecipando invece alla
seconda Duma (1907). Intanto il 5° Congresso (1907), di nuovo a Londra,
consolidò l’egemonia dei bolscevichi all’interno del partito. Con la Conferenza di
Praga (genn. 1912), largamente egemonizzata dai bolscevichi, si decise di
pubblicare un nuovo giornale, la Pravda, che iniziò a uscire a maggio, di
escludere dal partito coloro i quali rinunciavano all’ipotesi rivoluzionaria e di
cambiare il nome del partito in Partito operaio socialdemocratico russo
(bolscevico). Quanto al programma, si stabilirono tre obiettivi fondamentali: la
repubblica democratica, la giornata lavorativa di 8 ore e la confisca delle terre dei
latifondisti. I menscevichi, dal canto loro, non riconobbero la legittimità della
Conferenza, e continuarono a presentarsi come i veri prosecutori dell’esperienza
del POSDR. La scissione tra i due spezzoni del socialismo russo era ormai
definitiva, e la doppia rivoluzione del 1917 la avrebbe di lì a poco confermata.

Bolscevico
Frazione di maggioranza del Partito operaio socialdemocratico russo, costituitasi
durante il secondo congresso (Londra 1903) e facente riferimento a Lenin.
Ritenendo indispensabile la costruzione di un partito di avanguardia, formato da
rivoluzionari di professione e caratterizzato da una disciplina di tipo militare, i b.
(dal russo bol´ševik "maggioritario") si opponevano ai menscevichi, fautori di
un’organizzazione più ampia ed elastica. Negli anni le divergenze tra le due

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fazioni si approfondirono, fino alla scissione del 1912 e al conflitto aperto del
1917. Dopo la rivoluzione di febbraio i menscevichi rimasero legati a una
prospettiva democratico-parlamentare, mentre i b. si convertirono alla
prospettiva, indicata da Lenin, di un rapido passaggio alla seconda fase,
socialista, della rivoluzione, cosa che realizzarono prendendo il potere e
sciogliendo con la forza l'Assemblea costituente democraticamente eletta (in cui
erano in minoranza). Nel 1918 i b. assunsero il nome di Partito comunista russo
(bolscevico), poi trasformatosi (1925) in quello di Partito comunista (bolscevico)
dell’URSS, cui la qualifica di b. restò legata fino al 1952.

Menscevico
Appartenente alla frazione di minoranza (men´ševik «minoritario») del
Partito operaio socialdemocratico russo, costituitasi durante il secondo congresso
(Londra 1903) e definitivamente separatasi da quella bolscevica nel 1912. Tale
frazione (che faceva riferimento a G.V. Plechanov, L. Martov e altri),
differenziatasi in origine da quella bolscevica soprattutto per la concezione
del partito e della sua struttura organizzativa, le si contrappose in seguito
sempre più nettamente anche sotto il profilo tattico e degli obiettivi politici,
mirando a una rivoluzione liberale borghese, con un approccio graduale
al socialismo; allo scontro aperto tra i due gruppi si giunse nel 1917. Dopo la
rivoluzione di ottobre i principali leader m. si trasferirono all’estero.

Marxismo-leninismo
Il marxismo-leninismo è un'ideologia comunista che fu la principale del
movimento comunista nel corso del ventesimo secolo. Costituì l'ideologia
ufficiale dell'Unione Sovietica e del Comintern, e successivamente del blocco
orientale e di numerosi altri paesi del campo socialista.

29/10
Lezione 13

Fronte italo-austriaco

La guerra contro l'Austria-Ungheria che, sotto l'alta guida di S.M. il Re, duce
supremo, l'Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio
1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima

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per 41 mesi, è vinta. La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso ottobre
ed alla quale prendevano parte cinquantuno divisioni italiane, tre britanniche,
due francesi, una cecoslovacca ed un reggimento americano, contro settantatré
divisioni austroungariche, è finita.
La fulminea e arditissima avanzata del XXIX Corpo d'Armata su Trento, sbarrando
le vie della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte ad occidente dalle
truppe della VII armata e ad oriente da quelle della I, VI e IV, ha determinato ieri
lo sfacelo totale della fronte avversaria. Dal Brenta al Torre l'irresistibile slancio
della XII, della VIII, della X armata e delle divisioni di cavalleria, ricaccia sempre
più indietro il nemico fuggente. Nella pianura, S.A.R. il Duca d'Aosta avanza
rapidamente alla testa della sua invitta III armata, anelante di ritornare sulle
posizioni da essa già vittoriosamente conquistate, che mai aveva perdute.
L'Esercito Austro-Ungarico è annientato: esso ha subito perdite gravissime
nell'accanita resistenza dei primi giorni e nell'inseguimento ha perduto quantità
ingentissime di materiale di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i
depositi. Ha lasciato finora nelle nostre mani circa trecentomila prigionieri con
interi stati maggiori e non meno di cinquemila cannoni.
I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in
disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza.

Ritirata di caporetto
All'alba del 24 ottobre 1917 Luigi Cadorna, nella sede del Comando Supremo di
Udine, venne informato del pesante bombardamento sulla linea Plezzo-Tolmino.
Fedele alle sue convinzioni, il generale la ritenne una simulazione per distogliere
l'attenzione dal fronte carsico.
Contemporaneamente, sul monte Krasij a nord di Caporetto si trovava la terza
linea difensiva formata da alcuni battaglioni alpini tra cui quello comandato
dal volontario interventista Carlo Emilio Gadda. Lui ed i suoi uomini furono
svegliati alle due dal mattino dai bombardamenti massicci che proseguirono fino
all'alba. Non subendo però alcun attacco e non ricevendo alcun ordine, rimasero
nelle loro posizioni, isolati e completamente avvolti nella nebbia. Verso le 12
videro alcuni soldati italiani inseguiti da quelli austro-germanici e, alle 15,
udirono le esplosioni dei ponti sull'Isonzo. Capirono quindi di essere bloccati ed
attesero con rassegnazione l'attacco nemico.

I primi ordini giunsero dopo 24 ore quando il Comando Supremo venne informato
che Caporetto era caduta e che gli austro-germanici erano riusciti ad avanzare a
Saga e sul Kolovrat. Venne deciso l'abbandono di tutte le posizioni sulla riva
sinistra dell'Isonzo. Gadda iniziò quindi a scendere lungo il crinale. In pochi

215
minuti si rese conto che la situazione era veramente disperata: migliaia di soldati
italiani cercavano di attraversare il fiume (privo di ponti) mentre i tedeschi li
inseguivano su entrambe le rive. Molti decisero di gettare il fucile, arrendersi e
farsi catturare dagli uomini guidati da Krauss.

Nel frattempo Rommel ed il suo gruppo di soldati del Württenberg proseguirono


l'avanzata sul Kolovrat arrivando con facilità fino ai pressi del Monte Matajur, la
cima più alta delle Valli del Natisone. Il giorno seguente un'altra azione di
aggiramento permise di catturare migliaia di soldati italiani, arresisi senza
combattere, e alle 12 del 26 ottobre 1917 la montagna venne conquistata dai
tedeschi. In due soli giorni avevano percorso 18 chilometri catturando 150
ufficiali, 9mila soldati e perdendo appena 39 uomini.

La situazione ormai stava precipitando velocemente anche a livello politico: a


Roma il presidente del Consiglio Paolo Boselli, dopo aver perso un voto di fiducia,
si dimise. Poche ore dopo iniziarono a circolare le notizie di quanto stava
succedendo nell'Alto Isonzo. La Seconda Armata venne totalmente
abbandonata dai propri ufficiali e migliaia di soldati si diressero senza alcun
ordine verso la pianura friulana. Molti gettarono con sollievo le armi convinti che
la guerra fosse terminata. Contemporaneamente, nelle strade riempite dai
militari in rotta, si aggiunsero i primi civili friulani, costretti ad abbandonare le
proprie case dall'avanzata austro-germanica.

Il 26 ottobre Cadorna cercò di nascondere la verità al Paese con dei bollettini


ottimistici ma ormai era chiaro: l'azione compiuta tra Plezzo e Tolmino da parte
degli austro-germanici aveva portato ad una sconfitta molto pesante per gli
italiani, tanto da parlare per lungo tempo di "disfatta". Gli stessi vertici,
nonostante le palesi mancanze ed errori, si gettarono in una "corsa convulsa a
scrollarsi di dosso ogni responsabilità della disfatta […] e mantenere così intatti
il prestigio e l'onorabilità" (Ernesto Ragionieri, "Lo Stato Liberale", in "Storia
d'Italia Vol. 11", Einaudi, Torino, 2005, p. 2034). La colpa, secondo loro, era
del disfattismo imperante all'interno del Regno.
Due giorni dopo venne diffuso in tutta Italia un nuovo bollettino, sempre firmato
da Cadorna: "La mancata resistenza di reparti della Seconda Armata, vilmente
ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico, ha permesso
alle forze armate austro-germaniche di rompere la nostra ala sinistra sulla fronte
giulia" (Nicola Labanca, "Caporetto - Storia di una disfatta", Giunti, Firenze,
1997, p. 38). Queste gravi accuse segnarono definitivamente la fine della sua
carriera ai vertici dell'esercito italiano.

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Ritirata sul Piave
Gli italiani si ritirano prima sul fiume Tagliamento poi sconfitti si ritirano sul
fiume Piave. Sul fiume Piave gli italiani avevano paura di perdere e perché il
fronte era breve rimane così fino all’ottobre del 1918 alla fine c’è l’offensiva
definitiva italiana. Il Comando Supremo italiano, una volta giunto a Treviso,
ordinò ai suoi uomini di attraversare il Tagliamento e di bloccare l'avanzata
austro-germanica. Alla fine di ottobre però fu evidente come tale ordine fosse
impossibile da eseguire. Il 31 si verificò un ultimo, disperato tentativo: un nutrito
gruppo di soldati italiani cercò di respingere i nemici sul Monte di Ragogna e
sui ponti di Pinzano e Cornino ma dopo tre giorni di battaglia fu costretto ad
arrendersi. Il 3 novembre un reparto bosniaco attraversò il fiume friulano nei
pressi dell'Isolotto del Clapat rendendo così indifendibile anche la riva destra.

Nel frattempo, a Roma iniziarono gli incontri tra il generale Cadorna, il nuovo
Primo Ministro Vittorio Emanuele Orlando ed i generali dell'Intesa Foch (Francia)
e Robertson (Inghilterra). Molto preoccupati per la situazione ma intransigenti
nelle loro posizioni, i due militari comunicarono che non era loro intenzione
prestare aiuto agli italiani (ad esclusione di sei divisioni) e che la tattica migliore
era rallentare l'avanzata sul Tagliamento per creare poi un nuovo fronte lungo il
fiume Piave. Ma lo sfondamento a Cornino costrinse Cadorna a ordinare il
ripiegamento immediato di tutte le forze lungo il Piave.

I soldati italiani, persa anche la Battaglia di Pradis (5-6 novembre 1917) e il


controllo della Forcella Clautana, abbandonarono così tutto il Friuli e la parte
orientale del Veneto spostandosi verso San Donà di Piave, il Trevigiano,
il Montello (un rilievo nei pressi di Montebelluna) e risalendo il Massiccio del
Monte Grappa, a nord di Bassano. La speranza era di resistere il più a lungo
possibile, non escludendo l'eventualità di retrocedere successivamente fino al
Mincio. Ma fortunatamente le truppe austro-germaniche, superiori in tutto
(morale, posizione, armi, organizzazione) non furono capaci di annientare il
proprio nemico. Conrad, che spingeva per scendere sulla pianura veneta
attraverso l'Altopiano di Asiago, non poté muoversi mentre Krauss, anziché
proseguire decisamente verso occidente, iniziò a consolidare le posizioni
in Carnia. L'indecisione stessa di Ludendorff nel proseguire permise alle truppe
italiane di appostarsi con una buona difesa sul Piave e di stabilire qui il nuovo
fronte.

217
Battaglia del monte grappa

Mentre lungo il corso del Piave fallivano i tentativi di sfondamento da parte degli
austro-germanici, il generale tedesco Otto von Below puntò al Monte Grappa. Il
massiccio rappresentava la chiave di volta dell'intero fronte italiano: superare i
suoi 1770 metri significava dilagare nella pianura veneta lasciandosi alle spalle
sia l'Altopiano di Asiagosia il fiume.

Il generale Diaz, consapevole del pericolo, ordinò di costruire immediatamente


una linea difensiva in modo da scongiurare lo sfondamento. Il compito venne
affidato alla Quarta Armata guidata dal generale Di Robilant che raggiunse il
massiccio solo il 9 novembre. Quattro giorni dopo iniziò la Battaglia del Monte
Grappa.
L'offensiva mise subito in difficoltà i battaglioni italiani, ancora scioccati dalla
recente ritirata e privi delle necessarie difese sul terreno. Il Monte Peurna venne
perso il 14 e le truppe degli imperi centrali penetrarono per tre chilometri. Un
secondo attacco, il giorno seguente, fece arretrare ulteriormente la linea
difensiva italiana che si stabilì tra il paese di Cismon del Grappa, i monti
Pressolan, Solarolo e il letto del Piave. Von Below, sapendo che presto le forze
tedesche avrebbero dovuto essere trasferite sul fronte occidentale, accelerò le
azioni ed ordinò una triplice avanzata il 17 novembre che non diede i suoi frutti:
venne conquistato solo il monte Pressolan mentre negli altri casi le brigate
italiane, nonostante il disfattismo e l'inesperienza dei nuovi soldati (i "Ragazzi
del '99"), riuscirono a difendere tutte le posizioni.

Aiutato anche dalla presenza della grande strada "Cadorna" che permetteva di
dislocare armi e rifornimenti sulla linea italiana, di Robilant adottò una tattica
"elastica" che risultò molto efficace: anziché difendere una zona fino
all'annientamento, i settori in maggiore difficoltà vennero lasciati al nemico per
poi essere riconquistati con un rapido contrattacco. Il 20 novembre, ad esempio,
gli austro-germanici occuparono il Monte Tomba e Fontana Secca ma tre giorni
dopo vennero ricacciati sulle loro posizioni iniziali. Anche il tenente Erwin
Rommel, già protagonista sul Kolovrat con il suo battaglione del Württemberg,
fallì lo sfondamento a causa della scarsa conoscenza di queste cime.

Dopo una pausa di alcune settimane, l'11 dicembre le truppe austro-germaniche


si riorganizzarono e ripresero con forza l'attacco al massiccio: vennero
conquistati il Col della Beretta, il Col dell'Orso e il Monte Asolone arrivando molto
vicini all'importante città di Bassano. Ma ancora una volta un nuovo contrattacco

218
di ciò che restava della Quarta e Seconda Armata, assieme alle nuove leve del
'99, riuscì a respingere l'iniziativa asburgica ed a bloccare definitivamente, il 21
dicembre, la loro avanzata.

Battaglia del Vittorio Veneto


Vittorio Veneto dà il nome alla grande battaglia combattuta, dal 24 ottobre al 3
novembre 1918, da 57 divisioni italiane, 2 britanniche, 1 francese, 1 legione
ceco-slovacca ed un reggimento americano contro 73 divisioni austro-ungariche,
che si concluse con la vittoria dell'Esercito Italiano.
Dopo la Battaglia cosiddetta del “Solstizio” (in cui l’esercito autro-ungarico, che
aveva oltrepassato il Piave ed occupato il Montello, fu prontamente ricacciato
sulle posizioni di partenza della strenua e disperata controffensiva dell’esercito
italiano) i belligeranti parevano esausti e rassegnati ad affrontare un altro
inverno di guerra. Proprio allora avvenne un fatto nuovo e cioè il ritiro della
Bulgaria dalla coalizione con gli Imperi centrali: tale fatto suggerì al Gen. Diaz,
capo dello S.M. Italiano, l’opportunità di scatenare una grande offensiva nel
tardo autunno – e ciò contrariamente al parere degli Alleati – per determinare il
crollo dell’Austria, spossata ormai dallo sforzo compiuto e per concludere
rapidamente la lunga guerra.
Sugli altipiani, e in particolar modo sul Grappa, la IV Armata attaccò con molto
vigore allo scopo di richiamare ed agganciare notevoli forze avversarie e le
riserve nemiche. Frattanto l’VIII Armata, composta da 13 divisioni, con il
concorso della XII sulla sinistra, e della X Armata sulla destra, iniziò lo sforzo
offensivo in direzione di Vittorio Veneto, (divenuta con Caporetto, sede di
importanti comandi nemici), allo scopo di scardinare e di sfondare le linee di
resistenza nemiche.
Sulla destra, intanto, la III Armata ebbe il compito di appoggiare l’offensiva e di
impiegare le forze nemiche operanti sul basso Piave, mentre la IX Armata con
cavalleria costituì nella zona di Castelfranco una preziosa riserva. Nei primi giorni
la lotta si scatenò violenta sul Grappa contro l’ostinata difesa avversaria: nel
frattempo, dopo alcune alterne vicende e a prezzo di considerevolissimi sacrifici,
la XII, l’VIII e la X Armata riuscirono ad attestare alcuni reparti sulla sponda
sinistra del fiume e a conquistare, dopo cruenta lotta, la piana di Sernaglia. Il 28
ottobre tutte e tre le Armate occupavano saldamente la riva sinistra del Piave,
mentre le punte offensive si dirigevano decisamente su Vittorio Veneto. La
grandiosa battaglia poteva già dirsi praticamente decisa. Il 30 ottobre le truppe
liberatrici entrarono in Vittorio Veneto, spezzando definitivamente in due
tronconi l’esercito austro-ungarico e determinandone l’irreparabile collasso. Il 3
novembre il XXIX Corpo d’Armata entrava in Trento, mentre la III Divisione di

219
Cavalleria liberava Udine e reparti di Bersaglieri sbarcavano a Trieste. Lo stesso
giorno i plenipotenziari italiani e austriaci firmavano a Villa Giusti, vicino a
Padova, le clausole dell’armistizio. Era finalmente la vittoria.
La città, per il contegno nobile e fiero mantenuto durante l’invasione nemica,
venne decorata con la Croce al Merito di Guerra (Decreto 29-10-1919).
Con la vittoria della battaglia del Monte grappa e di Vittorio Veneto l’impero
austro ungarico non potrà avanzare e gli italiani raggiungono le terre
irredenti : Trento e Trieste, territori italiani rimasti all'Austria anche dopo la
terza guerra d'indipendenza e che l'Italia annesse alla fine della prima guerra
mondiale questa sarà una vittoria sia militare e sia politica perché l’impero non
sarà più in grado di essere coeso e rispondere e quindi durante la prima guerra
mondiale l’impero italiano si sfalda come l’impero russo. Alla resa della Russia gli
imperi centrali avevano già occupato i territori russi come Polonia, Bielorussia e
le repubbliche balcaniche. L’impero russo arriva Pietroburgo ma a causa della
guerra l’impero russo si è sfaldato e ha dovuto cedere tutti i paesi che aveva
conquistato
• Moldavia
• Georgia
• Ucraina
• Isole Curili

Patto di Londra
L'Italia firma, insieme a Inghilterra, Francia e Russia, il “Patto di Londra”,
un trattato segreto con il quale s'impegna a entrare in guerra al fianco dell'Intesa
contro gli imperi centrali di Prussia e Austria.

Russia

All’inizi del 1917 tedeschi mandano Lenin sul loro territorio sostiene che la
realizzazione del comunismo:
• pace a qualunque costo,
• distruzione terre ai contadini

il comunismo
Marx ed Engels avevano pensato che la rivoluzione comunista sarebbe partita dai
paesi capitalistici avanzati. Invece essa ebbe successo la prima volta nell'ottobre

220
1917 nella arretrata Russia, sotto la guida di Vladimir Il´ič Ul´janov, detto Lenin,
il capo del partito bolscevico. Giunti al potere, i bolscevichi stabilirono la
dittatura non già della classe proletaria, ma del loro partito. Essi, dopo aver
invano sperato che la rivoluzione si diffondesse in Europa, consolidarono il nuovo
Stato, l'Unione Sovietica, schiacciando i loro nemici.
Morto Lenin, salì al potere Iosif V. Džugašvili, detto Stalin, che, posta l'intera
economia nelle mani dello Stato, nel corso degli anni Trenta rafforzò il paese
creando un forte apparato industriale. La proprietà privata era stata abolita, ma
quella sovietica non era affatto una società di eguali, bensì un sistema dominato
dal solo partito comunista e da Stalin, un dittatore che usò la violenza terroristica
per imporre il suo potere assoluto. I più grandi successi di Stalin furono la
vittoria contro la Germania nazista nella Seconda guerra mondiale (1941-45),
l'ascesa dell'Unione Sovietica al rango di superpotenza e l'estensione del
comunismo nell'Europa orientale. Dopo la sua morte nel 1953, il sistema da lui
creato non subì modifiche sostanziali, anche dopo che Nikita S. Chruščëv ebbe
denunciato i crimini del dittatore. Nel periodo del dominio di Leonid I. Brežnev
l'Unione Sovietica raggiunse la massima potenza militare, ma iniziò il declino
della sua economia, incapace di ulteriori sviluppi.
Nel 1985 divenne segretario generale del Partito comunista Michail S. Gorbačëv,
che tentò vanamente di rinnovare il sistema, il quale però subì una crescente crisi
che infine determinò nel 1989 il crollo dei regimi dell'Europa orientale e nel 1991
la dissoluzione della stessa Unione Sovietica.
Il rovesciamento dello zarismo e il colossale processo rivoluzionario avvenuto in
Russia culminarono nell’ottobre del 1917 con la presa di potere da parte dei
bolscevichi di Lenin. Essi si apprestarono a imporre il loro potere sul territorio,
reprimendo la stampa d’opposizione, vietando gli scioperi e creando la Ceca, la
polizia politica. Le elezioni politiche però, diedero a Lenin un risultato molto
deludente, facendo diventare i socialrivoluzionari il primo partito del Paese (40%
dei voti).
I capi della rivoluzione decisero allora di imporsi con la forza, sciogliendo
l’Assemblea costituente e creando l’Armata Rossa, un esercito fedele ai
bolscevichi.
Il 3 marzo 1918 venne firmata la pace di Brest-Litovsk con gli imperi centrali, e
successivamente la capitale venne spostata a Mosca. Il partito bolscevico
assunse ufficialmente la denominazione di partito comunista e il 23 luglio venne
proclamata la nascita della repubblica socialista federativa sovietica
russa (futura Unione Sovietica).
La fine dello zarismo

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Per consolidare il proprio potere i bolscevichi iniziarono una guerra civile contro
diversi avversari.
In primo luogo, il conflitto era tra i rossi bolscevichi e i bianchi zaristi, che
aspiravano a ripristinare l’impero di Nicola II. Ben presto però, i bolscevichi
dovettero fronteggiare anche altri avversari, come le truppe europee
dell’Intesa che temevano l’avvento del comunismo, la classe dei contadini e della
borghesia rurale, che non riconosceva l’egemonia della classe operaia, i cosacchi,
verso i quali furono attuate da parte dei bolscevichi delle vere e proprie
repressioni, con uccisioni e deportazioni. Infine, anche le nazionalità che
reclamavano un proprio Stato si sollevarono contro la Russia. (Ucraina,
Bielorussia, Georgia ecc).
La lotta contro tutti questi avversari condusse il potere bolscevico sull’orlo della
disfatta. Per timore delle conseguenze di un’eventuale liberazione di Nicola
II essi uccisero lo zar e tutta la famiglia reale. Se il governo rivoluzionario non
cadde però, fu grazie all’organizzazione dell’armata rossa da parte di Trockij,
abile comandante militare, un esercito che affrontò e batté uno per uno gli
avversari della rivoluzione.
Lenin al potere
Durante questi anni, Lenin ideò e idealizzò il cosiddetto comunismo di guerra,
basato sul controllo diretto dello Stato delle produzioni industriali e agricole che
aveva come obbiettivo il rifornimento dell’esercito. Tra il 1917 e il 1919 furono
nazionalizzate le banche, le imprese industriali, e il lavoro in fabbrica venne
militarizzato. La circolazione del rublo venne sospesa e vennero assegnate ai
russi carte di razionamento delle merci di prima necessità. Anche nelle
campagne, la dittatura alimentare avrebbe dovuto risolvere i problemi alimentari
della popolazione sovietica, attraverso requisizioni forzate di grano. Il
comunismo di guerra riuscì a raggiungere il suo obbiettivo, il sostentamento
delle truppe, ma ebbe esiti disastrosi sotto ogni altro profilo. Di conseguenza,
tornò a montare l’opposizione al potere bolscevico.
Nelle campagne i contadini si opposero in ogni modo alle requisizioni di grano,
rispondendo con la diminuzione della superficie coltivata e originando quindi un
enorme calo della produzione. Anche nelle industrie si respirava aria di crisi, con
molti meno operai a lavorare rispetto a prima il conflitto mondiale e producendo
quindi di meno.
Inoltre, l’ammutinamento della base navale di Kronstadt nel 1921, che venne
stroncato nel sangue, fu il segnale che il malcontento si diffondeva, oltre che tra i
contadini e operai, anche nell’esercito. Il popolo da via una rivoluzione spontanea
raggiunge una costituzione democratica in cui la divisione dei poteri la duma
viene trasformata in un parlamento diventa una camera dei deputati lo zar

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abolisce la schiavitù della glebe e consegna il potere al capo dei cadetti principe
l’vov vuole continuare la guerra e vincerla e la Russia finalmente dispone di una
costituzione e il governo ha un pretendente del consiglio dentro ci sono gli
eserciti ma i partiti esterni sono fuori legge e non sono rappresentati nella
duma sono perseguitati se Lenin è tornato in Russia è un nemico.

Rivoluzione russa

Il 1917 non è solo uno degli anni più duri della Prima Guerra Mondiale (cui
s’aggiungono l’entrata degli Stati Uniti in guerra e la sconfitta di Caporetto), ma anche
il momento storico in cui, nei “dieci giorni che sconvolsero il mondo”, la rivoluzione in
Russia fa cadere il regime zarista ed instaura uno stato comunista, ispirato alle teorie
di Karl Marx. La rivoluzione, che prende corpo in un paese autocratico ed arcaico, posto
sotto il controllo dello zar Nicola II, vede le forze rivoluzionarie divise in vari
orientamenti: dai bolscevichi (maggioritari all’interno del partito operaio
socialdemocratico, e guidati da Lenin) ai menscevichi(minoritari, e fautori di una fase
intermedia di “rivoluzione borghese”), dai "cadetti", che chiedono riforme costituzionali
e il suffragio universale, fino ai socialisti rivoluzionari, con forte radicamento nelle
campagne. Le sconfitte militari e la crisi economica fanno precipitare la situazione: nel
febbraio 1917 una prima rivolta, partita da Pietrogrado, porta alle costituzioni dei primi
“soviet” (consigli elettivi dei rivoluzionari); il governo provvisorio passa
a L’vov e Kerenskij, mentre lo zar abdica e Lenin torna in Russia, diffondendo le
famose Tesi di aprile. I tumulti del luglio 1917 e l’arresto di molti bolscevichi
favoriscono la svolta conservatrice del governo e sono il preludio alla Rivoluzione di
Ottobre (24-25 del calendario russo) e per le durissime condizioni della pace di Brest-
Litovsk (3 marzo 1918). Dopo la guerra civile e la repressione delle forze
antibolsceviche sostenute dall’Intesa, la nascita dell’URSS (30 dicembre 1922) e del suo
complesso assetto istituzionale (gennaio 1924) passa attraverso le difficili condizioni
economiche post-belliche (dal “comunismo di guerra” all’approvazione della NEP, la
Nuova Politica Economica a partire dai primi anni Venti) e l’accentramento del potere
sociopolitico nelle mani del Partito Comunista. A Lenin, succede poi Stalin (rivale
di Trotskij), che segna il passaggio alla teoria del “socialismo in un solo paese”.

Guardie rosse
ossia le milizie operaie armate
soviet
è una struttura assembleare finalizzata alla gestione democratica e livellata del
potere politico ed economico da parte della classe operaia e contadina. I Soviet
nacquero nell'Impero russo all'inizio del XX secolo e divennero fondamento
costituzionale dello Stato socialista dapprima nella RSFS Russa e poi in Unione

223
Sovietica. Analoghe strutture, sull'esempio russo e sovietico, si svilupparono
successivamente anche in altri Paesi.

Agosto 1917
guerra civile russa (in russo гражданская война в России?, graždanskaja vojna v
Rossii) fu un sanguinoso conflitto che scoppiò in Russia in seguito
alla Rivoluzione d'ottobre (6-8 novembre 1917) e alla presa del potere da parte
dei bolscevichi, combattuta tra questi, detti "rossi", e vari gruppi
controrivoluzionari, detti "bianchi", ufficiali fedeli allo zar nel tentativo di
restaurare l'antico regime, appoggiati da una coalizione di paesi quali Regno
Unito, Stati Uniti d'America e Francia. I rossi ottennero la vittoria finale nel
conflitto che per tre anni aveva travagliato il paese (dal 1918 al 1920),
liquidando le forze controrivoluzionarie e instaurando il loro potere su tutto il
territorio della nascente Unione Sovietica. Generalmente si indica la fine della
guerra civile russa nella data del 25 ottobre 1922 con la presa di Vladivostok, ma
in alcune zone i combattimenti si protrassero fino oltre il 1923. Per questo
motivo lo zar elegge come presidente dl consiglio Aleksandr Kerenskij
rivoluzione bolscevica
L'insurrezione, avviata nella notte tra il 6 e il 7 novembre dell'odierno calendario
gregoriano (24 e 25 ottobre del calendario giuliano) 1917 a Pietrogrado, si
concluse con successo; i bolscevichi formarono un governo
rivoluzionario presieduto da Lenin e furono in grado di estendere
progressivamente il loro potere su gran parte dei territori del vecchio Impero
zarista. La reazione armata delle forze controrivoluzionarie e l'intervento delle
potenze straniere provocò l'inizio di una cruenta guerra civile che si concluse con
la vittoria bolscevica nel 1922.

Armata rossa
fu istituita su decreto del Consiglio dei commissari del popolo della RSFS Russa
nel 1918 e divenne l'esercito dell'URSS al momento della fondazione dello Stato
stesso, nel 1922. Lev Trockij, commissario del popolo per la guerra dal 1918 al
1924, ne è considerato il fondatore.

Che fare?
Fu scritto fra l'autunno del 1901 ed il febbraio 1902, e pubblicato per la prima
volta a Stoccarda nel marzo dello stesso anno. Lenin vi delinea in modo
sistematico la sua teoria dell'organizzazione e la strategia del partito
rivoluzionario del proletariato.

224
Colpo di stato
1. Nel gennaio del 1917 l’Imperatore Nicola II Romanov fu costretto alla
abdicazione per due motivi principali, l’entrata in guerra della Russia al fianco di
Inghilterra, Francia e Italia (1914-1915) e per il ruolo svolto da un monaco laico
diventato per le sue capacità taumaturgiche il “padrone” della Corte dei
Romanov. Il suo nome era Rasputin. Quest’ultimo era diventato talmente potente
come consigliere della zarina e di riflesso dello Zar, che suscitò intorno a sé l’odio
viscerale dell’aristocrazia russa.

2. Nacque così una Repubblica veramente democratica che ripristinò la libertà di


parola, di stampa, di associazione di tutte le libertà politiche. Il primo e il secondo
governo provvisorio di questa nascente realtà fu presieduto dal Principe L’Vov.
Rinacquero i sindacati operai, le grandi proprietà fondiarie dei nobili russi furono
distribuite ai contadini e al governo parteciparono Ministri liberalsocialisti, del
Partito dei Cadetti e dei socialrivoluzionari.
3. Il governo provvisorio democratico incontrate delle difficoltà politiche nel
ribollente magma di quei mesi, nella primavera del 1917, vide assumere la
presidenza da un socialista rivoluzionario, l’avvocato Aleksandr Fedorovic
Kerenskij, grande oratore e uomo politico pragmatico con notevoli capacità di
leadership militare contro l’esercito tedesco. Quando il governo Kerenskij si trovò
in difficoltà per la propaganda bolscevica contro la guerra all’impero tedesco, i
bolscevichi (comunisti) si schierarono contro Kerenskij.
4. I bolscevichi erano poche centinaia di persone cento anni fa. Su milioni e milioni
di abitanti della Russia superavano appena le quattromila unità.
5. L’Imperatore Guglielmo II tramite i servizi segreti tedeschi contattò in Svizzera il
più feroce avversario di Kerenskij per farlo rientrare in Russia e far terminare la
guerra contro la Germania. Il suo nome era Lenin. Con un vagone ferroviario
coperto dall’immunità garantita dall’Imperatore di Germania, Lenin dalla Svizzera
approdò, senza incontrare intoppi, alla stazione Finlandia di San Pietroburgo e da
lì iniziò la conquista del potere. Durante il 1917 l’opposizione dei democratici russi
ai comunisti di Lenin fu durissima. I dirigenti bolscevichi e lo stesso Lenin furono

225
arrestati per ordine del governo provvisorio e successivamente Lenin dovette
rifugiarsi in Finlandia.
6. L’esercito russo si andava, nel frattempo, disfacendo e la rabbia dei contadini
contro la guerra aumentava, pur essendo questi antibolscevichi. Lenin riuscì a
gestire il grande malcontento contro la guerra e a ordire una manovra per la
conquista del potere che ebbe, paradossalmente, l’appoggio di un Generale
sostanzialmente zarista Kornilov, che tentò un colpo di stato militare contro
Kerenskij.

le elezioni costituzioni
I bolscevichi e i socialrivoluzionari di sinistra si erano impadroniti del potere con
la rivoluzione d'ottobre. La lista dei candidati era stata presentata prima che si
verificasse la scissione all'interno del Partito Socialista Rivoluzionario; pertanto, i
socialrivoluzionari di destra godettero di una rappresentazione troppo elevata,
mentre i socialrivoluzionari di sinistra che facevano parte della coalizione di
governo del Comitato Esecutivo Centrale panrusso insieme coi bolscevichi furono
esclusi

Lenin attua una politica per attuare la dittatura del proletariato con diversi punti:
pace immediata (pace di brest-litovk marzo del 1918) pace firmata il 3 marzo
1918, in Bielorussia, fra le potenze centrali e la Russia guidata dal governo
rivoluzionario presieduto da Lenin, sanzionando l'uscita di quest'ultima dalla Prima
guerra mondiale. Prevedeva durissime condizioni per la Russia, che perdeva circa
un quarto dei territori europei., abolizione della proprietà privata tutte le terre
sono dello stato, sostituzione di tutti i dipendenti dello stato con bolscevichi
causali ed elimina gli infedeli ma non sostituisce con una nuova classe digerente e
i russi sono contenti perché la guerra è finita, non c’è la proprietà privata e i
bolscevichi sono stati gratificati da progresso sociale e lavorativo

Eventi

226
• 1917-1921 comunismo di guerra termine con il quale si indicano le scelte
economiche adottate in seguito alla rivoluzione bolscevica del 1917, che
coincise con un periodo (1918-1921) di gravi disordini interni in Russia
(guerra civile e guerra polacca).
Tali scelte (ispirate dai comunisti Kritsmann e Larin) furono molto radicali,
prevedendo la completa nazionalizzazione di tutte le industrie, il rigido
controllo di queste ultime da parte dei sindacati dei consigli operai,
l'obbligo di ammassare i prodotti agricoli per i contadini e il razionamento
delle scorte. Se in un primo momento tali scelte furono dettate da esigenze
proprie di qualunque nazione in tempo di guerra, in seguito esse assunsero
caratteri più marcatamente dirigistici. Si realizzò, infatti, un completo
controllo di tutte le varie fasi del processo produttivo, pianificando la
produzione di ogni singola impresa in termini fisici. La retribuzione dei
lavoratori avveniva, ove possibile, attraverso compensi in natura e tutte le
fasi che vanno dalla produzione delle merci al consumo (ovvero le varie
fasi della distribuzione) furono gestite da un'autorità centrale.
In seguito alle gravi tensioni sociali che l'adozione di queste scelte
economiche produssero (soprattutto per il rifiuto da parte dei contadini di
consegnare i prodotti per l'ammasso), il comunismo di guerra fu sostituito,
nel 1921, con la nuova politica economica
• 1921-1926 NEP ripristinò la proprietà privata in alcuni settori
dell'economia, in particolare nell'agricoltura.
• 1926-1931 primo piano quinquennale
• 1932-1937 secondo piano quinquennale
• 1938-x terzo piano quinquennale

4/11
Lezione 14
Stati che sono stati sconfitti nella Prima guerra mondiale:
• Impero tedesco
• Impero austro-ungarico

227
• Impero ottomano
• Regno di Bulgaria

Questi regni vengono chiamati imperi centrali una coalizione che comprendeva
Impero tedesco, Impero austro-ungarico, Impero ottomano e Regno di Bulgaria. Il
nome dell'alleanza deriva dalla posizione geograficamente centrale dei quattro
Stati rispetto allo schieramento opposto.

3 marzo 1918

Qui, il 3 marzo del 1918, nell’allora Brest-Litovsk, fu firmato il trattato di pace tra
la Russia bolscevica e gli Imperi centrali (l’Impero tedesco, l’Austria-Ungheria, la
Bulgaria e l’Impero ottomano) che di fatto sancì la resa della Russia, che uscì
dalla Prima guerra mondiale.

Stati uniti
Gli USA entrarono nel Primo Conflitto Mondiale il 6 aprile del 1917.
Il loro ingresso in guerra fu provvidenziale per i Paesi della Triplice Intesa in
quanto da marzo era venuto loro meno l’appoggio della Russia, a seguito della
Rivoluzione in atto in questo Paese; la Russia, quindi, aveva firmato una pace
separata a Brest Litvosk, ritirando tutte le proprie truppe.

Gli Stati Uniti apportarono nuove dotazioni belliche, un congruo numero di


soldati e soprattutto forze fresche. Si pensi che i soldati europei di entrambi gli
schieramenti erano impegnati in una guerra di logoramento nelle trincee da
ormai tre anni. La fame, il freddo, malattie ed epidemie avevano decimato ed
indebolito notevolmente gli eserciti, oltre che minato lo spirito.

Alla fine del conflitto i soldati americani impiegati in guerra furono 1.750.000,
ben oltre 4 milioni furono comunque quelli che erano stati movimentati in patria.

Perché gli USA entrarono in guerra? Alcuni hanno voluto trovare la causa
nell’affondamento del transatlantico Lusitania, avvenuto nel 1915, ad opera dei
sottomarini tedeschi. Su questo transatlantico viaggiavano anche centinaia di
passeggeri civili americani, tutti morti.

In realtà questo episodio va inserito in un quadro più ampio: la rinnovata

228
battaglia sottomarina indiscriminata, portata avanti dai Tedeschi, contro
qualsiasi nave (da guerra o commerciale che fosse, qualunque fosse la bandiera e
la nazionalità) al solo fine di impedire ogni rifornimento economico ai Paesi
dell’Intesa e all’Inghilterra prima di tutto.

La guerra sottomarina minacciava da vicino i commerci degli Stati Uniti che


avevano fatto del rifornimento ai Paesi dell’Intesa una delle loro principali
attività, tanto che proprio grazie a questo ingente flusso di scambi commerciali
gli Usa erano riusciti ad uscire da una grave crisi che aveva colpito la loro
economia.

Wilson e i 14 punti

8 GENNAIO 1917: I 14 PUNTI DI WILSON PER LA CONFERENZA DI PACE

Il presidente americano Thomas Woodrow Wilson enuncia i quattordici punti ai


quali si sarebbe ispirata la sua azione nella futura conferenza di pace, tra essi
l’autodeterminazione dei popoli e la creazione di una Società delle Nazioni – che
verrà creata nell’aprile 1919 ma non vedrà mai l’ingresso degli Stati Uniti.
Questo l’elenco completo:
1 – Pubblici trattati di pace, stabiliti pubblicamente e dopo i quali non vi siano più
intese internazionali particolari di alcun genere, ma solo una democrazia che
proceda sempre francamente e in piena pubblicità.
2 – Assoluta libertà di navigazione per mare, fuori delle acque territoriali, così in
pace come in guerra, eccetto i casi nei quali i mari saranno chiusi in tutto o in
parte da un’azione internazionale, diretta ad imporre il rispetto delle convenzioni
internazionali.
3 – Soppressione, per quanto è possibile, di tutte le barriere economiche ed
eguaglianza di trattamento in materia commerciale per tutte le nazioni che
consentano alla pace, e si associno per mantenerla.
4 – Scambio di efficaci garanzie che gli armamenti dei singoli stati saranno ridotti
al minimo compatibile con la sicurezza interna.
5 – Regolamento liberamente dibattuto con spirito largo e assolutamente
imparziale di tutte le rivendicazioni coloniali, fondato sulla stretta osservanza del
principio che nel risolvere il problema della sovranità gli interessi delle
popolazioni in causa abbiano lo stesso peso delle ragionevoli richieste dei
governi, i cui titoli debbono essere stabiliti.
6 – Evacuazione di tutti i territori russi e regolamento di tutte le questioni che
riguardano la Russia… Il trattamento accordato alla Russia dalle nazioni sorelle

229
nel corso dei prossimi mesi sarà anche la pietra di paragone della buona volontà,
della comprensione dei bisogni della Russia, astrazione fatta dai propri interessi,
la prova della loro simpatia intelligente e generosa.
7 – Il Belgio – e tutto il mondo sarà di una sola opinione su questo punto – dovrà
essere evacuato e restaurato, senza alcun tentativo per limitarne l’indipendenza
di cui gode al pari delle altre nazioni libere.
8 – Il territorio della Francia dovrà essere completamente liberato e le parti
invase restaurate. Il torto fatto alla Francia dalla Prussia nel 1871, a proposito
dell’Alsazia–Lorena, torto che ha compromesso la pace del mondo per quasi 50
anni, deve essere riparato affinché la pace possa essere assicurata di nuovo
nell’interesse di tutti.
9 – Una rettifica delle frontiere italiane dovrà essere fatta secondo le linee di
demarcazione chiaramente riconoscibili tra le due nazionalità.
10 – Ai popoli dell’Austria–Ungheria, alla quale noi desideriamo di assicurare un
posto tra le nazioni, deve essere accordata la più ampia possibilità per il loro
sviluppo autonomo.
11 – La Romania, la Serbia ed il Montenegro dovranno essere evacuati, i territori
occupati dovranno essere restaurati; alla Serbia sarà accordato un libero e sicuro
accesso al mare, e le relazioni specifiche di alcuni stati Balcani dovranno essere
stabilite da un amichevole scambio di vedute, tenendo conto delle somiglianze e
delle differenze di nazionalità che la storia ha creato, e dovranno essere fissate
garanzie internazionali dell’indipendenza politica ed economica e dell’integrità
territoriale di alcuni stati balcanici.
12 – Alle regioni turche dell’attuale impero ottomano dovrà essere assicurata una
sovranità non contestata, ma alle altre nazionalità, che ora sono sotto il giogo
turco, si dovranno garantire un’assoluta sicurezza d’esistenza e la piena
possibilità di uno sviluppo autonomo e senza ostacoli. I Dardanelli dovranno
rimanere aperti al libero passaggio delle navi mercantili di tutte le nazioni sotto
la protezione di garanzie internazionali.
13 – Dovrà essere creato uno stato indipendente polacco, che si estenderà sui
territori abitati da popolazioni indiscutibilmente polacche; gli dovrà essere
assicurato un libero e indipendente accesso al mare, e la sua indipendenza
politica ed economica, la sua integrità dovranno essere garantite da convenzioni
internazionali.
14 – Dovrà essere creata un’associazione delle nazioni, in virtù di convenzioni
formali, allo scopo di promuovere a tutti gli stati, grandi e piccoli
indistintamente, mutue garanzie d’indipendenza e di integrità territoriale.

230
Germania
La Germania dichiarò guerra prima alla Russia, poi alla Francia, che era
militarmente alleata della Russia. L'offensiva tedesca violò rapidamente la
neutralità belga e il popolo britannico dichiarò guerra il 4 agosto 1914. A sei
settimane dall'assassinio, l'Europa era in guerra.

Austria
l'Austria era il paese meno preparato alla guerra: armi, munizioni, uniformi e cibo
bastarono solo per poche settimane e non esistevano piani precisi per
organizzare i rifornimenti dell'esercito, né strategie chiare su come affrontare la
guerra sui due fronti: quello russo e quello balcanico. Già nelle prime battaglie le
perdite austriache furono altissime: poche settimane dopo l'inizio della guerra gli
ospedali non bastavano più per accogliere i soldati feriti: nell'inverno 1914/1915,
durante i combattimenti sul fronte russo, rimasero sul campo 800.000 uomini, tra
morti, feriti, dispersi e prigionieri. Molte scuole furono chiuse per lasciare spazio
ai feriti e più tardi anche il Parlamento a Vienna divenne un ospedale. A un anno
dall'inizio della guerra tutte le illusioni su una sua breve durata erano sparite e,
come se non bastasse, allora si aprì per gli austriaci un terzo fronte, quello contro
l'Italia.

4 novembre 1918
L'Italia il 4 novembre ricorda, commemorando i suoi Caduti, l'Armistizio di Villa
Giusti (entrato in vigore il 4 novembre 1918) che consentì agli italiani di rientrare
nei territori di Trento e Trieste, e portare a compimento il processo di
unificazione nazionale iniziato in epoca risorgimentale.

Trattato di Versailles

sottoposto ai Tedeschi per la firma il 7 maggio 1919, obbligava la Germania a


cedere territori al Belgio (Eupen-Malmödy), alla Cecoslovacchia (il Distretto di
Hultschin) e alla Polonia (Pozna, la Prussia occidentale e la Slesia Superiore).

Trattato di Saint-Germain-en-Laye
firmato il 10 settembre 1919, creò la Repubblica Austriaca, formata dalla regione
di lingua tedesca dell’ex Impero Asburgico; quest’ultimo, inoltre, dovette cedere
diversi territori ai nuovi stati creati in conseguenza della guerra, come la
Cecoslovacchia, la Polonia e il Regno di Slovenia, Croazia e Serbia che nel 1929
sarebbe poi stato rinominato Jugoslavia. Inoltre, gli Austriaci dovettero cedere
all’Italia il Sud Tirolo, Trieste, il Trentino e Istria, mentre la Romania ottenne la

231
Bucovina. Un punto importante del trattato proibiva all’Austria di modificare da
quel momento la sua nuova condizione di stato indipendente, impedendole, di
conseguenza, l’eventuale unificazione con la Germania, un obiettivo da sempre
perseguito dai “Pan-germanisti” e più tardi da Adolf Hitler e dal suo Partito
Nazionalsocialista.

Dissoluzione dell'Impero austro-ungarico


La dissoluzione dell'Impero austro-ungarico fu un importante evento geopolitico
che si verificò a seguito della crescita delle contraddizioni sociali interne e della
secessione delle diverse parti dell'Austria-Ungheria. La ragione del crollo dello
stato fu la Prima guerra mondiale, il fallimento del raccolto del 1918 e la crisi
economica. La Rivoluzione d'ottobre del 1917 e i pronunciamenti di pace
wilsoniani dal gennaio 1918 in poi incoraggiarono il socialismo da un lato e il
nazionalismo dall'altro, o alternativamente una combinazione di entrambe le
tendenze politiche, tra tutti i popoli della monarchia asburgica.[1]
I territori abitati da popoli divisi rientrarono nella composizione degli stati
esistenti o di nuova formazione. Da un punto di vista giuridico, il crollo
dell'impero fu formalizzato dall'Austria nel trattato di Saint-Germain-en-Laye,
che agì anche come trattato di pace dopo la prima guerra mondiale, e
dall'Ungheria nel trattato di Trianon. Venne diviso in diversi stati:
• Stati indipendenti (Di stato (o nazione), non soggetto alla sovranità o
all'ingerenza politica di altro stato: lottare per una patria libera, unita,
indipendente. Più genericamente, ufficio, organo, istituto i., autonomo)
come L’Austria e l’Ungheria
• Cecoslovacchia Dal 1° gennaio 1993 si è diviso in due unità politiche
sovrane e indipendenti, la Repubblica Ceca (➔ Ceca, Repubblica) e
la Slovacchia
• Jugoslavia fu lo stato principale dei Balcani dal 1943 al 1991-92, anni della
sua dissoluzione in sei nuovi stati: Slovenia, Croazia (entrambe il
25/06/1991), Macedonia (08/09/1991), Bosnia-Erzegovina
(05/04/1992), Serbia e Montenegro.
• Ungheria Nuovo stato, e nuova repubblica parlamentare. Strutture statali
deboli, e così i comunisti seguendo l’esempio russo proclamano la presa
del potere da parte dei Soviet. A guidare la rivolta è Bela Kun carismatico
leader comunista. Si scatena la guerra civile, vinta dai controrivoluzionari
grazie all’aiuto militare di cechi, romeni e altri combattenti stranieri. Dopo
un periodo di terrore rosso, si scatenò il terrore bianco. Nel 1920 fu
ripristinata la monarchia.

232
• Stati cuscinetto è un paese che sorge tra due grandi potenze rivali o
potenzialmente ostili, la cui esistenza è ideata e pianificata per cercare di
evitare un conflitto aperto tra le potenze maggiori.[1] Gli Stati cuscinetto,
quando sono veramente indipendenti, perseguono una politica
di neutralismo, che li distingue dagli Stati satelliti.[2] La concezione degli
Stati cuscinetto fa parte della teoria del bilanciamento dei poteri, che
subentrò nelle diplomazie europee nel XVII secolo. Nel XIX secolo, la
manipolazione di Stati cuscinetto come l'Afghanistan e gli emirati dell'Asia
centrale fu un elemento molto importante nella politica seguita dalla Gran
Bretagna e dalla Russia zarista per il controllo dei passi montani che
conducevano all'India britannica.

I punti importanti dei 14 punti di Wilson


• Autodeterminazione dei popoli Principio in base al quale i popoli hanno
diritto di scegliere liberamente il proprio sistema di governo
(autodeterminazione interna) e di essere liberi da ogni dominazione
esterna, in particolare dal dominio coloniale (autodeterminazione sterna).
• Nazionalità designa un particolare legame giuridico e politico che
intercorre fra un soggetto e un determinato Stato.

Austria
Perso tutto l’impero e decaduto il potere della corona degli Asburgo, viene
proclamata la repubblica. Anche qui il partito maggiore è il
socialdemocratico.

Nascita dello stato polacco


Il 16 novembre 1918 dalla morte degli imperi zarista e asburgico e dalla
sconfitta dell'impero germanico rinacque la Polonia, spartita dal 1795 al
1918 tra Russia, Prussia e Austria-Ungheria.

Romania
La Romania nacque il 24 gennaio 1859, quando la Moldova occidentale e la
Valacchia si unirono, conferendo il principato unico ad Alexandru Ioan
Cuza, sotto il quale avvennero importanti cambiamenti come la
sostituzione dell'alfabeto cirillico rumeno, in uso da secoli, con quello
latino nel 1862.

corridoio di Danzica

233
era una striscia di territorio istituita dopo la prima guerra mondiale,
col trattato di Versailles del 28 giugno 1919, per dare alla
ricostituita Polonia (3 novembre 1918) uno sbocco sul Mar Baltico. La
piccola zona, a cui si aggiungeva l'importante porto di Danzica, separava il
corpo principale della Germania dalla regione della Prussia Orientale.

Paesi dopo i trattati

Occupazione di fiume
Occupazione militare da parte di un gruppo di militari ribelli, guidati nel 1919 da
G. D’Annunzio, della città di Fiume, contesa tra l’Italia e il regno di Iugoslavia. A
Fiume storicamente convivevano cittadini di lingua italiana (maggioritari) e di
lingua serbo-croata. Notevole nel 19° sec. era stata l’immigrazione di croati e
ungheresi, e tra la fine del sec. 19° e l’inizio del 20° si era consolidata una
coscienza nazionale all’interno della popolazione italiana (fondazione
dell’associazione Giovane Fiume nel 1905), che entrò in contrasto con l’elemento
croato prevalente nelle campagne. Al termine della Prima guerra mondiale
(1914-18), l’Italia chiese di annettere Fiume al territorio italiano, in contrasto
con il Patto di Londra (1915) che l’aveva assegnata alla Croazia. Il Consiglio
nazionale fiumano proclamò l’annessione all’Italia fin dal 29 ott. 1918. Incidenti
fra la popolazione e le truppe interalleate d’occupazione (luglio 1919) portarono
la Conferenza di pace di Parigi a deliberare lo scioglimento del Consiglio e della
Legione volontari fiumani, e l’allontanamento delle truppe italiane. Tra queste
ultime, i Granatieri di Sardegna si rivolsero a D’Annunzio, chiedendogli di

234
mettersi alla loro testa e di occupare militarmente la città. Assicuratosi il
sostegno di B. Mussolini, D’Annunzio e i suoi procedettero all’occupazione (12
sett. 1919), proclamando unilateralmente l’annessione all’Italia. In seguito,
mentre si acuiva lo scontro tra gli annessionisti guidati da R. Gigante e gli
autonomisti facenti capo a R. Zanella, e a Fiume giungeva come capo di gabinetto
l’ex sindacalista rivoluzionario A. De Ambris, l’idea di un piccolo Stato autonomo
prese sempre più corpo. Il 12 agosto 1920 D’Annunzio proclamò la Reggenza del
Carnaro, attribuendole tutti i poteri civili e militari. Il trattato di Rapallo (12 nov.
1920) costituì Fiume in Stato libero e indipendente, ma D’Annunzio non lo
riconobbe. Il 28 nov. si oppose alle truppe del gen. E. Caviglia inviate a
sgomberare l’occupazione, e solo il 31 dic., dopo duri scontri, rimise i poteri a un
nuovo governo provvisorio. La questione fu risolta solo nel 1924 con gli accordi di
Roma in cui la Iugoslavia riconosceva Fiume all’Italia, in cambio di Porto Barosa
e del cd. Delta.

Gabriele d’annunzio marcia su fiume

Vittoria mutilata
Il 24 ottobre 1918 Gabriele d’Annunzio pubblicava un articolo sul
quotidiano milanese “Corriere della sera” dal titolo “Vittoria nostra non
sarai mutilata”. Il termine (“vittoria mutilata”) sarebbe ben presto entrato
nel lessico politico del dopoguerra, ripreso soprattutto da Mussolini e dagli
esponenti del movimento nazionalista ma anche da non pochi esponenti
del vario interventismo del 1914-15, compresi alcuni settori democratici e
d’origine risorgimentale. Nacque un “mito”, come avrebbe scritto Gaetano
Salvemini, secondo il quale gli sforzi umani e materiali dell’impegno
italiano nel Primo conflitto mondiale non erano stati ripagati con adeguate
compensazioni territoriali. Il patto di Londra dell’aprile 1915, che sanciva
l’ingresso italiano al fianco dell’Intesa, prevedeva un’ampia gamma di
conquiste territoriali a guerra vinta: il Trentino, l’Alto Adige fino al
Brennero; l’intera Venezia Giulia e l’Istria fino al Carnaro (Fiume esclusa,
che avrebbe dovuto restare in una Croazia indipendente o, nel caso di
sopravvivenza dell’Impero asburgico, in Ungheria), la Dalmazia
settentrionale, comprese le isole, fino a Sebenico e il porto albanese di
Valona. Inoltre, alcune compensazioni coloniali in Africa (cedute da
Francia e Gran Bretagna), il protettorato sull’Albania e la regione mineraria
turca dell’Adalia (Anatolia meridionale). Infine, la conferma dei
possedimenti in Egeo occupati nel 1912. Tra il 1917 e il 1918 si ebbe un
combinato di fattori che modificò questi accordi: con al rivoluzione di

235
ottobre, il nuovo governo bolscevico pubblicò il trattato di Londra,
scatenando le critiche degli jugoslavi da un lato e della comunità italiana
di Fiume dall’altro (per motivi opposti); l’ingresso degli Stati Uniti in
guerra e il primo dei 14 punti di Wilson che proibiva accordi segreti, che
annullavano (almeno dal punto di vista del presidente statunitense) tali
trattative; una serie di accordi paralleli tra Parigi, Londra e i comitati
nazionali degli slavi del sud che sancirono la nascita di un nuovo soggetto
nazionale jugoslavo sulle ceneri dell’ormai condannato Impero asburgico,
con velleità sulla Dalmazia, il Carnaro e l’Istria. Le trattative di Parigi del
1919 fecero emergere questo “corto circuito” diplomatico, che culminò con
l’abbandono della conferenza da parte della delegazione italiana (19
aprile). Mentre in Italia montava l’opposizione a questo stato di cose
(nascita del fascismo, impresa dannunziana su Fiume), le diplomazie
alleate concordarono con il governo di Roma l’accettazione del confine
settentrionale e il rinvio a una trattativa bilaterale con Belgrado circa il
confine orientale. Il risultato fu da un lato la perdita di buona parte delle
opzioni coloniali in Africa (che comunque alla fine compresero 91 mila
chilometri quadrati e 150 mila indigeni), una situazione alquanto confusa
circa i desiderata italiani sull’Adalia (risolti solo in parte con il governo
greco), l’indipendenza albanese (invece del promesso protettorato). A
Rapallo, il 12 novembre 1920 il premier italiano Giolitti sottoscrisse un
accordo con il governo jugoslavo circa il confine orientale, che limitava la
presenza italiana in Dalmazia fino a Zara e in Slovenia fino al Monte
Nevoso, e sanciva Fiume come “città libera” con il porto gestito dallo
stesso comune, dalla Jugoslavia e dall’Italia. L’accordo piegò la resistenza
dannunziana nella città del Carnaro e di fatto aprì la strada a un nuovo
accordo italo-jugoslavo (Trattato di Roma, 1924) che incorporava Fiume
all’Italia contro varie concessioni territoriali, etniche e finanziarie a
Belgrado. In definitiva, se è pur vero che rispetto al patto di Londra si ebbe
una riduzione dei compensi italiani, è altrettanto vero che l’Italia incorporò
in meno di un quinquennio il controllo dell’alto Adriatico, il
perfezionamento dei confini alpini settentrionali, una sempre maggiore
presenza in Albania (accordi di Tirana, 1926 e 1927), il controllo di una
regione del Mediterraneo orientale. Soprattutto, l’Italia potette sedersi al
tavolo dei “grandi” dal 1919 al 1940, diventando nei fatti la quarta potenza
europea (terza, se si esclude la Germania) e almeno la sesta potenza
mondiale. Da questo punto di vista, la “vittoria mutilata” fu un “mito” più
che una realtà, sul quale sarebbe stato costruito il futuro del revisionismo
dell’Italia fascista.

236
Fine della Prima guerra mondiale
L'11 novembre 1918, nel vagone di un treno nel bosco francese di Compiègne, fu
firmato l'armistizio che metteva fine a più di quattro anni di battaglia e milioni di
morti. Terminava così la Prima guerra mondiale, ma le condizioni imposte alla
Germania furono in parte premessa della Seconda.

Partiti dei notabili


è un partito politico formato da una élite di persone influenti e ricche che
rappresentano i loro interessi di classe. Questo tipo di partito si basa sull’idea che
solo una minoranza di persone è in grado di governare e prendere decisioni
politiche. I membri di questo tipo di partito sono generalmente persone che
hanno guadagnato il loro status sociale attraverso la ricchezza, la posizione
sociale, l’istruzione o l’eredità familiare.

Partito di massa
è un partito politico che rappresenta gli interessi di una vasta gamma di persone
provenienti da diverse classi sociali. Questo tipo di partito è caratterizzato dalla
partecipazione attiva e dal coinvolgimento delle masse popolari nella vita
politica, in contrasto con il “partito dei notabili” che si basa sulla partecipazione
di una minoranza di persone influenti e ricche.

Reduce
Che ritorna, che è appena ritornato dopo una lunga assenza, dovuta a imprese e
avventure rischiose, all’esilio, e in partic. alla guerra: gli alpinisti r. dalla
conquista del K2; i soldati r. dalla prigionia, dai campi di concentramento;
assol.: Grata agli dei del r. marito (Foscolo), grata per il ritorno del marito;
sostantivato: un raduno di reduci della seconda guerra mondiale; i r. della
spedizione polare; scherz.: un r. dalle patrie galere; senz’altra determinazione
s’intende per reduci, con valore di sost., i combattenti che al termine di una
campagna di guerra ritornano in patria. Con sign. più generico, in frasi di tono
lievemente elevato, per indicare il semplice fatto di tornare, anche dopo
un’assenza non molto prolungata: essere r. da una tournée, da un giro di
conferenze, da una vittoria, da una sconfitta, da una scalata in montagna; e come
sost.: una gran folla di tifosi attendeva all’aeroporto i calciatori della
Nazionale, reduci dai campionati mondiali. Con uso fig., poet.: il sol
che, reduce, L’erta infocata ascende (Manzoni).

Salita al potere di Lenin

237
Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, Lenin e i bolscevichi si schierarono a
favore della neutralità, a differenza dei partiti socialisti di altri Paesi. Nel 1917,
dopo che in Russia la rivoluzione di febbraio – un sollevamento popolare
scoppiato a febbraio a Pietrogrado – ebbe rovesciato lo zarismo, Lenin poté
tornare in patria. Viaggiò su un treno speciale finanziato dalla Germania e il 16
aprile arrivò a Pietrogrado, rivedendo la Russia dopo 17 anni.

Colpo di stato
Dopo il tentativo di colpo di Stato del generale Kornilov, i bolscevichi
conquistano il potere con la forza il 7 novembre 1917 e nominano un nuovo
governo guidato da Lenin che immediatamente emana il “decreto sulla pace” e il
“decreto sulla terra”. In dicembre, i socialisti rivoluzionari vincono le elezioni per
l’Assemblea costituente ma questa, il 18 gennaio, viene sciolta d’imperio dai
bolscevichi. Da questo momento in poi, tutto il potere politico si concentra nelle
mani del partito di Lenin.

Elezioni dell’Assemblea costituente


I bolscevichi e i socialrivoluzionari di sinistra si erano impadroniti del potere con
la rivoluzione d'ottobre. La lista dei candidati era stata presentata prima che si
verificasse la scissione all'interno del Partito Socialista Rivoluzionario; pertanto, i
socialrivoluzionari di destra godettero di una rappresentazione troppo elevata,
mentre i socialrivoluzionari di sinistra che facevano parte della coalizione di
governo del Comitato Esecutivo Centrale panrusso insieme coi bolscevichi furono
esclusi

Armata rossa
Le armate sovietiche, potentemente equipaggiate con migliaia di carri armati,
cannoni e aerei, e sostenute anche dagli importanti aiuti economici e militari
degli Alleati occidentali, terminarono la guerra in Europa con la conquista di
Berlino e con la vittoria totale sulla Germania nazista.

Scioglimento dell’Assemblea costituente


Il 19 gennaio 1918 il III Congresso panrusso dei Soviet, dominato dai
bolscevichi, decretò il definitivo scioglimento dell'Assemblea costituente.

Armata rossa contro armata bianca

238
Nel 1918 iniziava lo scontro tra “armata rossa” e “guardie bianche”. Le armate
controrivoluzionarie si erano organizzate nel territorio del Don e in Siberia,
aiutate da potenze straniere tra cui l’Italia. Lenin ordinò la fucilazione dello Zar
Un secolo fa la Rivoluzione russa si stava consolidando sulla linea del “socialismo
in un sol paese”, una volta fallita l’idea di estendere a tutto il mondo la rottura
rivoluzionaria dell’oppressivo ordine sociale capitalista e sprigionare energie del
proletariato urbano e rurale per la costruzione di una società nuova. I bolscevichi
di Lenin prevalsero, definirono la loro strategia nei 21 punti della III
Internazionale (la I era fallita insieme alla Comune parigina del 187I, la II col
“tradimento” dei socialisti che erano finiti a combattere negli eserciti
contrapposti nella Grande Guerra), si preparavano alla guerra civile interna
contro socialrivoluzionari menscevichi, anarchici, burocrati dell’apparato zarista.
La rivoluzione d’ottobre 1917 aveva trionfato contro il Governo provvisorio di
Kerenshj nato con la rivoluzione di febbraio e l’abdicazione dello zar, ma era
ancora attivo e sostenuto dall’intervento straniero degli Stati borghesi
terrorizzati che la rivoluzione potesse travolgerli. Le armate “bianche”
controrivoluzionarie si organizzarono nel territorio del Don, in Siberia con
l’appoggio di prigionieri cecoslovacchi i generali monarchici bianchi presero il
controllo di quasi tutta l’immensa regione, nell’estate 1918 truppe alleate inglesi,
statunitensi, giapponesi e italiane (fatto quasi ignoto) erano sbarcate a
Murmansk, Vladivostock, Arcangelo e formarono un governo antibolscevico della
Russia settentrionale.

30/12/1922

Il 30 dicembre 1922 la Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa, insieme


con le repubbliche socialiste sovietiche di Ucraina, Bielorussia e Transcaucasica,
fondò l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, comunemente conosciuta
come Unione Sovietica o in forma ancora più abbreviata "URSS".

Comunismo di guerra
Nel 1917, all’indomani della rivoluzione d’ottobre, durante la quale i bolscevichi
presero il potere a partire dall’assalto della sede del governo provvisorio, il
Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo, la Russia versava in difficilissime
condizioni economiche. La crisi economica trovava le sue radici nella gestione
economica portata avanti dallo zar e nella partecipazione alla Prima Guerra
Mondiale. Per quanto la Russia si fosse ritirata dal conflitto in seguito alla
rivoluzione e alla firma della pace di Brest-Litovsk il 3 marzo 1918, la situazione
non riuscì a stabilizzarsi.

239
Ebbe infatti inizio una sanguinosa una guerra civile. Tale conflitto lacerava il
Paese e vedeva opporsi i bolscevichi, cioè coloro che erano a capo del potere
centrale, e le forze controrivoluzionarie, guidate in particolare dalle forze
monarchiche, i cosiddetti bianchi, sostenuti dagli stati occidentali. La guerra
civile lacerò il Paese per circa due anni e poté dirsi conclusa solo nel 1920.
In questi anni così turbolenti e forieri di cambiamenti epocali, la vita quotidiana
della popolazione delle città e delle masse contadine fu particolarmente
difficile e, più in generale, l’economia del Paese fu in una situazione
estremamente negativa.

Con la rivoluzione e la presa del potere da parte dei bolscevichi la proprietà


privata sulla terra era stata cancellata, ma questo decreto, così innovativo per un
Paese che fino al 1861 prevedeva la servitù della gleba come istituzione sulla
quale si basava lo sfruttamento dei contadini, non riuscì a imprimere una
tendenza positiva all’economia nazionale.
In seguito, le banche furono nazionalizzate, ma anche questa innovazione così
radicale non ebbe degli effetti immediati.

Il comunismo di guerra
In tale situazione così complessa a livello politico ed economico, i contadini
riuscivano generalmente a produrre esclusivamente ciò di cui avevano
bisogno per vivere e ben poco poteva essere destinato agli abitanti delle
città che, privi degli approvvigionamenti necessari per sopravvivere, erano ormai
ridotti allo stremo. La scarsità dei beni rispetto alle necessità della popolazione si
sommava alla difficoltà pratica di gestire gli scambi e di trasportare in città tutto
ciò che i cittadini russi necessitavano.
Nel contesto della guerra civile si tornò al baratto, unico modo per sopperire alla
diffusione di una moneta ormai totalmente svalutata.

A partire dall’estate del 1918 venne attuata una profonda riorganizzazione


dell’economia. Il governo bolscevico, dall’alto, impose una serie di norme. I
principali obiettivi di questa politica economica, nota come “comunismo di
guerra”, erano indirizzati a:
• aumentare la produzione per rispondere in modo più adeguato al fabbisogno
della popolazione;
• provvedere all’approvvigionamento delle città attraverso una ristrutturazione del
sistema di distribuzione dei prodotti.
La politica del comunismo di guerra, per rispondere a questi due principali
obiettivi, venne attuata attraverso una serie di azioni:

240
• Le requisizioni forzate. Attraverso questa pratica era fatto obbligo ai contadini di
raccogliere e ammassare tutte le eccedenze che i contadini più facoltosi avevano
accumulato. Per gestire meglio l’ammasso delle derrate agricole, nel volgere di
un anno, si affidò alle principali autorità dei villaggi agricoli il compito di requisire
i prodotti con l’obbligo di rispettare una determinata quota di prodotti
prestabilita.
• La nazionalizzazione delle industrie. Con questo provvedimento del giugno 1918
lo stato cercò di controllare e organizzare in maniera diretta la produzione
industriale. Per incentivare la produzione venne introdotto il cottimo.
• Il controllo del commercio fu affidato allo Stato.
• La distribuzione delle risorse era decisa dall’alto.
• Venne favorita la creazione di due tipologie nuove di aziende agricole: 1) I
Kolchoz: aziende collettive. La terra e gli strumenti per coltivare gli appezzamenti
dei terreni erano di proprietà del Kolchoz stesso. Era previsto il rispetto di una
serie di norme interne per organizzare e gestire il lavoro. 2) I Sovchoz: aziende
agricole dello stato.
• Coscrizione obbligatoria del lavoro: dal 1920 venne introdotto l’obbligo del
lavoro, divenuto così forzato.
Il fallimento del comunismo di guerra
Il comunismo di guerra rappresentò la politica economica che venne perseguita
in Russia nel contesto della guerra civile e poi fino alla primavera del 1921. Essa
non raggiunse gli obiettivi sperati: crebbe l’ostilità dei contadini al regime; il
mercato nero si diffuse a macchia d’olio, nonostante fosse duramente perseguito;
la produzione industriale e agricola non crebbe per soddisfare il fabbisogno
delle campagne e delle città che si impoverirono ulteriormente. Disoccupazione e
fame furono i tratti più visibili di questi anni immediatamente successivi alla
rivoluzione. Il comunismo di guerra fu però utile per continuare a sostenere
l’esercito rivoluzionario nella sua lotta contro le forze dei Bianchi.

5/11
Lezione 15

Sistema comunista
Regime economico che mira ad abolire ogni forma di proprietà privata dei mezzi
di produzione e a mettere in comune i patrimoni materiali di tutte le persone
appartenenti ad una società; tali patrimoni saranno distribuiti a ciascun
componente il nucleo sociale secondo i propri bisogni, realizzando in tal modo la
piena eguaglianza sociale, l'armonia e la cooperazione tra gli uomini e
l'abolizione di ogni differenza di classe.

241
Il termine comunismo è stato variamente interpretato negli ultimi secoli, ma la
sua diffusione è certamente legata all'adozione di tale parola da parte
di Marx (v.) ed Engels nel Manifesto del partito comunista dove il significato ad
esso attribuito veniva riassunto nella frase «da ciascuno secondo le sue
possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni».
Nel pensiero economico (e politico) di Marx il comunismo rappresenta l'ultimo
stadio del processo di evoluzione dei «rapporti di produzione». Schematicamente
tali stadi sono: l'economia primitiva, la schiavitù, il feudalesimo, la rivoluzione
borghese (e quindi la fase capitalistica), la rivoluzione proletaria (che dà vita alla
fase del socialismo) e quindi il comunismo. Marx prevedeva una rapida caduta del
sistema capitalistico (v. Capitalismo) anche a causa delle contraddizioni interne
di tale sistema economico (si ricordi la legge della caduta tendenziale del saggio
di profitto). Al capitalismo era destinato a succedere un periodo transitorio che si
sarebbe instaurato in seguito alla rivoluzione proletaria: il socialismo (v.). In tale
fase, pur non essendoci ancora una completa affrancazione dell'individuo dai
valori propri della società capitalistica, si sarebbe realizzata una prima fase del
processo che avrebbe condotto, inevitabilmente, alla méta: comunione dei mezzi
di produzione e distribuzione della produzione secondo il contributo fornito da
ciascun lavoratore al processo produttivo (anche se la scarsità delle risorse non
avrebbe permesso ancora di dare «a ciascuno secondo i propri bisogni»).
Storicamente la fase finale prevista da Marx, ovvero il comunismo, non si è mai
realizzata, anche se alcuni paesi che avevano adottato un sistema economico
improntato a principi socialisti (ed il riferimento va in particolare all'ex URSS e
alla Cina Popolare) hanno più volte annunciato il passaggio ad essa. In concreto i
connotati che dovrebbero caratterizzare un sistema economico (e politico)
comunista sono:
— distribuzione del reddito in funzione dei bisogni e non del lavoro prestato;
— scomparsa di tutte le classi sociali e, di conseguenza, socializzazione di tutti i
mezzi di produzione;
— assenza di qualunque struttura statale;
— aumento della produttività dei lavoratori che comporta un aumento delle
quantità di beni prodotti e quindi la fine della scarsità, che costituiva il motivo
principale della lotta di classe;
— maggiore eguaglianza nella retribuzione e nelle condizioni di vita di tutti;
— scomparsa di dualismi che costituivano motivo di attrito tra le varie classi
sociali (campagna-città, lavoro manuale e lavoro specializzato ecc.);
— abolizione della grande proprietà privata; ciò vuol dire che sarebbe stata
ammessa la piccola proprietà privata;
— l'estensione del sistema economico comunista a tutti i paesi data la sua

242
incompatibilità con la sopravvivenza di altri sistemi economici.
È evidente come il comunismo rappresenti una sorta di utopia bolscevica in cui la
scomparsa di qualunque struttura politica e il superamento dell'individualismo,
proprio dei sistemi economici capitalistici, avrebbe rappresentato la fase ultima
del processo capace di consentire a tutti gli uomini di vivere nell'abbondanza e
nella libertà. È tuttavia altrettanto evidente come, alla luce degli eventi storici
che hanno contraddistinto gli ultimi decenni, l'utopia sia destinata a restare tale.
Le difficoltà politiche, sociali ed economiche che hanno incontrato molti paesi
socialisti nel superamento della fase che avrebbe dovuto condurre al comunismo
sono risultate insormontabili.

Nazionalsocialismo

Si caratterizza per una visione nazionalista del socialismo radicale, populista,


statalista, collettivista, razzista e totalitaria.

Fascismo
Movimento politico italiano fondato nel 1919 da B. Mussolini, giunto al potere nel
1922 e rimasto al governo dell’Italia fino al 1943.
Per estensione il termine indica movimenti e regimi sorti in Europa e in altri
continenti, dopo la Prima guerra mondiale.

Gli ultimi giorni di Lenin


16 dicembre 1922 Lenin fu colpito da un secondo ictus che gli provocò la paralisi
del lato destro. Vladimir Ilyich ha continuato a lavorare, ha avuto miglioramenti,
seguiti da un peggioramento. Il 9 marzo 1923 seguì un terzo ictus, a seguito del
quale Lenin perse la parola e non poté più lavorare. Ancora una volta chiese del
cianuro di potassio. Il 21 gennaio 1924 morì.

Commissario del popolo

l Consiglio dei commissari del popolo (in russo Совет народных комиссаров,
Sovet narodnych komissarov), abbreviato in Sovnarkom o SNK, fu l'organo
esecutivo e amministrativo dell'Unione Sovietica e delle singole Repubbliche
dell'Unione Sovietica fino al 1946.

La morte di Lenin e il conflitto nel gruppo dirigente: Trotzkij e Stalin


Nell’aprile del 1922 l’ex commissario alle Nazionalità, Stalin, fu nominato
segretario generale del Partito comunista dell’URSS. Finchè era rimasto sula

243
breccia, Lenin aveva controllato saldamente il partito e aveva impedito, con la
sua indiscussa autorità, che i contrasti nel gruppo dirigente degenerassero in veri
e propri scontri. Con la malattia di Lenin e la quasi contemporanea ascesa di
Stalin alla segreteria le cose cambiarono rapidamente. I dissensi interni si fecero
più aspri e si intrecciarono con una sempre più scoperta lotta per la successione.
Trotzkij era il più autorevole e il più popolare dopo Lenin tra i capi bolscevichi,
ma era anche, forse proprio per questo, isolato rispetto agli altri leader di primo
piano (Zinon’ev, Kamenev, Bucharin), che respinsero le sue critiche alla gestione
del partito e fecero blocco col segretario generale il quale potè così rafforzare la
sua posizione, nonostante non avesse un grande prestigio personale e non
godesse nemmeno della fiducia di Lenin, che lo considerava troppo rozzo e
autoritario. Lo scontro fra Trotzkij e Stalin, si fece più aspro dopo la morte di
Lenin. Per Trotzkij l’Unione Sovietica doveva da un lato accelerare i suoi ritmi di
industrializzazione, dall’altro concentrare i suoi sforzi nel tentativo di favorire
l’estendersi del processo rivoluzionario nell’Occidente capitalistico e soprattutto
nei paesi più sviluppati. Contro questa tesi, per cui fu coniata l’espressione
“rivoluzione permanente”, scese in campo lo stesso Stalin. Stalin sosteneva che,
nei tempi brevi, la vittoria del “socialismo in un solo paese” era “possibile e
probabile” e che l’Unione Sovietica aveva in sè le forze sufficienti a fronteggiare
l’ostilità del mondo capitalista. Una volta sconfitto Trotzkij, venne meno però il
principale legame che teneva uniti i suoi avversari, e il gruppo dirigente
comunista conobbe una nuova drammatica spaccatura. L’occasione dello scontro
fu offerta questa volta dal dibattito sulla politica economica. A partire
dall’autunno del ’25 Zinon’ev e Kamenev, riprendendo idee già sostenute da
Trorzkij, si pronunciarono per un’interruzione dell’esperimento della Nep, che a
loro avviso stava facendo rinascere il capitalismo nelle campagne, e per un deciso
rilancio dell’industrializzazione a spese, se necessario, degli strati contadini
privilegiati. La tesi opposta fu sostenuta con decisione da Bucharin, che ebbe
l’appoggio di Stalin. Zinon’ev e Kamenev si riaccostarono a Trotzkij e, assieme a
lui, cercarono di organizzare un fronte unico di opposizione. I leader
dell’opposizione furono dapprima allontanati dall’Ufficio politico e dal Comitato
centrale, poi, nel ’27, addirittura espulsi dal partito. Trotzkij fu deportato in una
località dell’Asia centrale e successivamente espulso dall’URSS: Con la sconfitta
dell’opposizione di sinistra cominciava una nuova fase che sarebbe stata
caratterizzata dalla continua crescita del potere personale di Stalin e dal suo
tentativo di portare l’Unione Sovietica alla condizione di grande potenza
industriale e militare.

Stalin (commissario delle nazionalità)

244
Quest’importante e delicato impegno di governo è stato svolto da Stalin
dall'indomani della vittoria rivoluzionaria, fino al 1923. A esso si è dedicato senza
risparmiare energie, consapevole di cosa rappresentasse per il neonato potere
sovietico, creando un processo di costruzione del nuovo Stato che, partendo dalla
nascita della RSFSR (Repubblica Sovietica Federativa Socialista Russa) portò,
attraverso lo sviluppo della lotta rivoluzionaria e il consolidamento dei poteri
sovietici in Russia e negli altri Stati dell'ex impero zarista, e la vittoria contro
l'aggressione imperialista internazionale e la controrivoluzione interna, alla
costruzione dell'URSS.

Unione sovietica
L’URSS (Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche o, più brevemente,
Unione Sovietica) è stata una delle principali potenze del XX secolo (è nata nel
1922 e si è dissolta nel 1991) ed è ricordata anche per essere stata il massimo
avversario degli Stati Uniti durante la Guerra Fredda. Sebbene i tre quarti del suo
territorio fossero occupati dalla Russia, l'Unione Sovietica non è stata
semplicemente uno Stato russo, ma un Paese multietnico nel quale hanno
convissuto numerose popolazioni. L'URSS, inoltre, è stata il primo Paese al
mondo a introdurre ufficialmente un’economia socialista. In questo articolo
vediamo quali erano le sue caratteristiche principali e riassumiamo in breve la
sua storia.

Per la maggior parte della storia dell’URSS, le Repubbliche che la componevano


furono 15. La Repubblica Russa occupava il 76% del territorio totale e si
estendeva dall’Europa orientale alla costa asiatica del Pacifico. Le altre
repubbliche si trovavano nel Caucaso (Armena, Azera e Georgiana), in Asia
centrale (Kazaka, Turkmena, Uzbeka, Tajika, e Kighisa) e nell’Europa orientale
(Ucraina, Moldava e Bielorussa). Nel 1940 si aggiunsero le tre repubbliche sul
Mar Baltico (Estone, Lettone e Lituana).

Nel complesso l’URSS si estendeva su oltre 22 milioni di chilometri quadrati,


parte in Europa e parte in Asia, ed era lo Stato più grande del Pianeta. Gli
abitanti, che giunsero a quasi 300 milioni negli anni ’80, erano in larga parte
concentrati nella parte europea. Il potere era nelle mani del Partito Comunista
dell’Unione sovietica (PCUS), il cui segretario, che risiedeva a Mosca nella
fortezza nota come Cremlino, era di fatto il capo dello Stato.

245
Leonida trockij

Capo dell’armata rossa

Consigliere delle forze armate

Concezioni del comunismo:

• Stalin sosteneva al contrario che la "rivoluzione permanente" fosse una pura


utopia e che l'Unione Sovietica dovesse puntare sulla mobilitazione di tutte le
proprie risorse al fine di salvaguardare la propria rivoluzione (teoria del
"socialismo in un Paese solo").
• Leonida trockij sostiene che in paesi come la Russia non c'è una borghesia
illuminata rivoluzionaria che potrebbe svolgere lo stesso ruolo, e la classe
operaia costituisce una minoranza molto piccola. Al tempo delle rivoluzioni
europee del 1848, la borghesia era già in grado di svolgere un ruolo analogo

1920

La battaglia di Varsavia (anche detta Miracolo della Vistola, in lingua polacca: Cud nad
Wisłą) fu la battaglia decisiva nella guerra sovietico-polacca che iniziò subito dopo la
fine della prima guerra mondiale nel 1918 e finì con la pace di Riga del 1921.

La battaglia di Varsavia fu combattuta dal 13 al 25 agosto 1920 quando le forze


dell'Armata Rossa comandate da Michajl Tuchačevskij si avvicinarono alla capitale
polacca ed alla Fortezza di Modlin. Il 16 agosto le forze polacche comandate da Józef
Piłsudski contrattaccarono da sud, obbligando i russi a un ritiro disorganizzato ad est
oltre il fiume Nemunas. Le perdite tra i bolscevichi furono circa di 10.000 morti, 500
dispersi, 10.000 feriti e 66.000 prigionieri di guerra, contro i 4.500 morti, 10.000
dispersi e 22.000 feriti della Polonia.

Prima della vittoria polacca alla Vistola, sia i bolscevichi sia la maggioranza degli esperti
stranieri consideravano la Polonia sul punto di crollare. La stupefacente ed inaspettata
vittoria polacca sorprese l'Armata Rossa, portandola allo sbaraglio. Nei mesi successivi,
diverse vittorie polacche assicurarono l'indipendenza dello Stato e diedero stabilità ai
confini orientali per quasi vent'anni.

Morte di Lenin

Lenin morì alle 18.50 del 21 gennaio 1924, tre mesi prima del suo
cinquantaquattresimo compleanno, a due anni e mezzo dal primo ictus.

Dopo la morte di Lenin

246
La storia dell'Unione Sovietica dal 1922 al 1953 venne caratterizzata da quattro eventi
politici fondamentali: il consolidamento della rivoluzione d'ottobre, la morte di Vladimir
Lenin e il dominio di Iosif Stalin che andò ad intrecciarsi con il secondo conflitto
mondiale e la grande guerra patriottica.

nuova politica economica

Nel corso del 1921 le strategie economiche messe in atto fino ad allora furono messe
profondamente in discussione. Lenin, nel corso del Decimo Congresso del Partito
comunista russo, decise di varare la Nep, la nuova politica economica. Tale cambio di
rotta fece seguito all’evidenza del fallimento del comunismo di guerra, progetto politico
ed economico che non era riuscito a far uscire la popolazione dallo stato di estrema
indigenza.

Parimenti, a imprimere la necessità di una svolta radicale in politica economica


intervennero una serie di eventi:

• Vi fu una protesta contadina contro le politiche del comunismo di guerra a


Tambov, una città della Russia sud-occidentale.

• Ai primi di marzo del 1921 scoppiò una ribellione tra i marinai della base navale
di Kronštadt, nei pressi della città di San Pietroburgo. Proprio i marinai erano
stati protagonisti fondamentali del successo della rivoluzione di ottobre del 1917.
Nel 1921, però, espressero il loro dissenso al regime. Essi chiedevano maggiori
libertà, più diritti e l’interruzione immediata della prassi delle requisizioni,
particolarmente invisa ai contadini e alle popolazioni delle campagne. La rivolta
fu duramente repressa nel sangue.

• Le campagne della Russia e dell’Ucraina, nel corso della primavera e dell’estate


del 1921 furono segnate da una carestia gravissima. Milioni furono i contadini
che morirono per stenti in questa circostanza.

La povertà, la fame e l’espressione del dissenso portarono alla decisione di invertire la


rotta fino allora seguita. La Nep inaugurò una nuova fase, durata dal 1921 al 1928, nella
politica economica russa. Per migliorare la produzione nelle campagne e permettere un
più facile ed efficace afflusso di beni di prima necessità e di consumo nelle città vennero
varati alcuni provvedimenti.

Tra le misure adottate possono essere annoverate:

• La fine delle requisizioni forzate.

247
• I contadini dovevano consegnare allo stato una quota dei prodotti, ma potevano
vendere le eccedenze e gestire in modo più autonomo le loro aziende.

• Il commercio venne liberalizzato.

• L’industria leggera volta alla produzione dei beni di consumo venne fortemente
sostenuta.

• Lo Stato mantenne il diretto controllo e la gestione solo delle maggiori industrie


e delle banche.

La Nep ebbe numerose conseguenze. Si ebbe una ripresa dell’economia, ma


le condizioni di vita della maggior parte della popolazione non migliorano in modo
particolarmente evidente. In campagna si affermarono i kulaki, i contadini benestanti
che detenevano il maggiore controllo sulle proprietà agricole. Con gli investimenti
massicci nell’industria pesante a detrimento del mondo agricolo, si profilarono nuove
tensioni tra regime e mondo delle campagne.

Alla Nep, abbandonata nel 1928, seguì l’avvio di una economia strutturata sui piani
quinquennali.

Kulaki

Nome con cui erano designati, nella Russia zarista e nei primi anni della Russia
sovietica, i contadini benestanti, proprietari di una certa estensione di terra, che
coltivavano avendo alle loro dipendenze altri contadini. La riforma agraria del 1906 fu
concepita allo scopo di formare una borghesia terriera di k. che servisse da base per la
modernizzazione dell’agricoltura. Dopo la Rivoluzione d’ottobre, questa libertà
economica fu confermata ai k. anche dalla Nuova politica economica (NEP, 1921) voluta
da Lenin. La fine della NEP determinò un quadro diverso. La crisi agricola del 1927
indusse Stalin a ripristinare il sistema delle requisizioni delle eccedenze, avviando una
lotta più decisa verso coloro i quali vi si opponevano, e i k. in genere. Nel 1929 la
necessità di una rapida industrializzazione, che poggiasse su un’agricoltura moderna e
collettivizzata, spinse Stalin ad avviare la collettivizzazione agraria e la «eliminazione
dei k. in quanto classe». Parte di essi accettò di entrare nelle fattorie collettive
(colchos) o statali (sovchoz), alcuni cedettero o vendettero le proprietà; gli altri
resistettero con ogni mezzo, dalla macellazione del bestiame agli atti di rivolta e
terrorismo, ciò a cui seguì una dura repressione. Ne derivò una sorta di guerra civile
strisciante, nel corso della quale da un lato la definizione di k. fu estesa a ogni
contadino che non adempisse alle richieste dello Stato; dall’altro, la classe dei k. venne

248
di fatto distrutta, non solo come entità economica, ma anche attraverso gli arresti e le
deportazioni di chi opponeva resistenza: circa due milioni di persone nel periodo 1930-
33.

Piani quinquennali

Un piano quinquennale individua determinati obiettivi da raggiungere in un periodo di


cinque anni nei vari ambiti dell'economia, per uno sviluppo anche nel settore
industriale. Gli obiettivi consistono in una definita quantità fisica di beni che dovranno
essere prodotti.

Il primo piano quinquennale

Il perno della politica economica in questo periodo fu la collettivizzazione forzata delle


terre, secondo cui i possedimenti dei kulaki furono sottratti dalle istituzioni e
riconvertiti in kolchoz (fattorie cooperative) e sovchoz (fattorie di proprietà dello
Stato).

Stalin e la lotta di categoria

La lotta di classe è stata sostituita dalla lotta di categoria. Il potere non processa mai se
stesso. E’ indifferente alla realtà delle cose. Se la realtà non corrisponde alla sua
visione, è la realtà che sbaglia. Di fronte al fallimento preferisce cercare bersagli tra la
popolazione, tassisti, notai, avvocati, ristoratori, pescatori, proprietari di cani e di gatti,
bamboccioni piuttosto che mettersi in discussione. La crisi è stata annunciata da molte
voci, tra queste il blog, e per molti anni. Voci attribuite dai pennivendoli e dai politici a
disfattisti, provocatori, ignoranti, a personaggi in cerca di visibilità. I responsabili della
crisi. Coloro che l’hanno creata: i partiti e le banche. Che l’hanno sfruttata: la
Confindustria. Che l’hanno nascosta: i media, stanno rinchiusi nella loro torre d’avorio,
mantenendo privilegi e coprendo ogni ruberia. Si sovvenzionano a vicenda con decine di
miliardi erogati alle banche, con un miliardo di euro di rimborsi elettorali ai partiti, con
centinaia di milioni di euro di contributi diretti e indiretti regalati ai giornali, con ogni
concessione alla Marcegaglia e a Marchionne. Se non si può cambiare la realtà, la si può
negare e trasformare l’effetto nella causa. È il lavoro sporco del Sistema.
In Ucraina negli anni ’30 Stalin applicò lo stesso schema per la collettivizzazione
dell’agricoltura e la richiesta di quote di grano annue insostenibili. Le terre vennero
espropriate, per raggiungere le quote furono requisiti anche i semi per i raccolti
dell’anno successivo, i contadini vennero demonizzati “Distruggeremo i kulaki come
classe“, deportati, fucilati. Il fallimento degli obiettivi del piano stalinista fu attribuito a
loro. Fu denunciato che “gli agricoltori erano responsabili delle carenze di alimenti nelle
città“. Durante tre anni, per sopravvivere gli ucraini uccisero il bestiame e ogni altro
animale, fino a praticare il cannibalismo. Si arrivò a 10.000 decessi al giorno, ma erano i

249
morti che dovevano giustificarsi. “Un contadino che moriva lentamente di fame era,
malgrado le apparenze, un sabotatore in una campagna volta a gettare il discredito
sull’Unione Sovietica“. Le pance tese erano un segno di opposizione politica. Gli
affamati erano nemici del popolo “che rischiavano le proprie vite per mettere in dubbio
il nostro ottimismo“. Il possesso di cibo non autorizzato era “una prova presuntiva di un
crimine” sanzionato con la fucilazione. Tre milioni e trecentomila persone morirono di
fame in Ucraina. La stampa approvò incondizionatamente l’operato di Stalin.
Se i nostri ragazzi espatriano in cerca di occupazione, i piccoli imprenditori italiani si
suicidano e il livello di tassazione sul lavoro è diventato intollerabile per mantenere
i piani quinquennali del cemento, dall’Expo, alla Tav, alla Gronda, insieme a una casta
insaziabile, la colpa è dell’articolo 18! Non siamo ancora sufficientemente schiavi.

Comunismo: soviet ed elettrificazione

“Il socialismo è uguale ai soviet più l’elettrificazione” fu lo slogan politico della


campagna politica per elettrificazione della Russia nel 1920 (piano GOLERO), dove
Lenin, in modo brillante, anticipa ed individua nell’elettrificazione un elemento di
primaria importanza per lo sviluppo economico e sociale della Russia.

Collettivizzazione delle campagne

La collettivizzazione in Unione Sovietica (in russo Коллективизация?, Kollektivizacija)


del settore agricolo fu imposta dal governo sovietico tra il 1928 e il 1940 (a ovest, tra il
1948 e il 1952) durante il regime di Iosif Stalin. Avviata nel contesto del primo piano
quinquennale, tale politica aveva lo scopo di consolidare gli appezzamenti di terra
individuali e il lavoro nelle fattorie collettive, divise principalmente
in kolchozy e sovchozy. La leadership sovietica sperava che la sostituzione delle fattorie
di singoli contadini con quelle collettive avrebbe potuto aumentare la fornitura di cibo
per la popolazione urbana e la disponibilità di materie prime per le industrie e prodotti
agricoli destinati all'esportazione. I pianificatori videro nella collettivizzazione la
soluzione alla crisi della distribuzione agricola (soprattutto nelle consegne di grano) che
si è sviluppata dal 1927. Questo problema divenne più acuto quando l'URSS intensificò
il suo ambizioso programma di industrializzazione, comportando una maggior richiesta
di produzione alimentare per tenersi al passo della domanda urbana.

Nei primi anni trenta, oltre il 91% del territorio agricolo era stato collettivizzato in
seguito all'inclusione nelle fattorie collettive di famiglie contadine con i loro terreni,
bestiame, e altre risorse. La collettivizzazione portò a molte carestie, alcune provocate
dall'arretratezza tecnologica di allora dell'URSS, ma i critici hanno accusato il governo
di azioni deliberate.[3] Il numero di morti stimato dagli esperti è compreso tra i 7 e i 14
milioni.

250
Sovchozy

erano a tutti gli effetti dipendenti dello Stato: l'intero raccolto era proprietà statale, e i
contadini ricevevano una retribuzione regolare.

Kolchozy

Azienda agraria collettiva sovietica, considerata da V.I. Lenin come strumento del
passaggio dalla coltivazione privata della terra alla socializzazione.

Resistenza dei contadini

in teoria, i contadini senza terra avrebbero dovuto essere i più grandi beneficiari della
collettivizzazione, poiché gli avrebbe permesso di ottenere un'equa percentuale per il
loro lavoro. Tuttavia, nelle aree rurali non vi erano molti contadini senza terra, data la
redistribuzione in massa successiva alla rivoluzione. Per coloro che erano in possesso di
una proprietà, la collettivizzazione significava cedere il proprio terreno alle fattorie
collettive e vendere la maggior parte dei raccolti allo Stato a prezzi minimi imposti dal
governo stesso, generando un'opposizione a tale politica. Inoltre, la collettivizzazione
portò a dei rapidi cambiamenti significativi nella vita tradizionale dei contadini nei
villaggi, nonostante la lunga tradizione russa del collettivismo negli Obščina. I
cambiamenti furono più drammatici in luoghi, come l'Ucraina con le proprie tradizioni
agricole, nelle repubbliche sovietiche dell'Asia centrale e nelle steppe Trans-Volga.

Gli agricoltori videro la collettivizzazione come la fine del mondo:[15] nessun mezzo di
produzione venne consegnato volontariamente ai kolchoz e la collettivizzazione
procedette senza il supporto dei contadini.[16] L'intento era quello di aumentare
l'approvvigionamento statale di grano senza dare ai contadini l'opportunità di
trattenerlo dal mercato. La collettivizzazione avrebbe incrementato il totale del raccolto
e la fornitura di cibo ma i locali erano consapevoli che non ne avrebbero tratto alcun
beneficio.[17] I contadini cercarono di protestare pacificamente esprimendosi a riunioni
e scrivendo lettere alle autorità centrali, ma quando queste strategie si rivelarono
fallimentari, gli agricoltori divennero aggressivi e iniziarono a linciare e uccidere le
autorità locali, i leader dei kolchoz e gli attivisti governativi.[18][19] Altri risposero con
atti di sabotaggio, incendiando i raccolti e uccidendo gli animali da lavoro. Secondo le
fonti di partito, si verificarono anche alcuni casi di distruzione delle proprietà e attacchi
contro ufficiali e membri dei collettivi. Isaac Mazepa, ex primo ministro
della Repubblica Popolare Ucraina dal 1919 al 1920, affermò che "la catastrofe del
1932" era il risultato di una "resistenza passiva [...] che mirava alla sistematica
frustrazione dei piani bolscevichi per la semina e il raccolto delle messe." Affermò che,
"Interi tratti furono lasciati incolti, [...] il 50% [del raccolto] rimase nei campi, e non fu
nemmeno raccolto o venne rovinato dalla trebbiatura".[20] Alimentati dalla paura e

251
dall'ansia, si diffusero voci tra i villaggi che spinsero i contadini a compiere questi
atti:[21] le dicerie associavano il governo sovietico con l'anticristo, minacciando una fine
della tradizionale via agricola, e spingevano i contadini a protestare contro la
collettivizzazione.

Stalin come un dittatore

Secondo alcune scuole di pensiero, lo stalinismo fu un momento di reazione che


neutralizzò la rottura avvenuta con la Rivoluzione d’ottobre, riportando la Russia ad un
periodo più simile a quello zarista, caratterizzato da accentuati motivi nazionali e da un
governo autocratico e dispotico.

Segretario del partito comunista dell’unione sovietica

Presidente dell’ufficio politico

Presidium del Soviet Supremo dell'Unione Sovietica

Il Presidium del Soviet Supremo dell'URSS (in russo Президиум Верховного Совета
СССР?, Prezidium Verchovnogo Soveta SSSR) è stato l'organo che in Unione
Sovieticaesercitava collegialmente la funzione di capo di Stato e che veniva eletto
dal Soviet Supremo in sessione congiunta delle sue due camere. Esercitava le funzioni
parlamentari tra una sessione e l'altra del Soviet Supremo, che normalmente si riuniva
solo due volte all'anno,[1] controllava gli organi eletti dallo stesso (governo, giudici ecc.)
ed emanava decreti aventi forza di legge da sottoporre alla sua successiva ratifica.
Secondo la Costituzione del 1936, il Presidium del Soviet Supremo era composto dal
Presidente, da undici vicepresidenti (aumentati a quindici dalla Costituzione del 1977),
un segretario e 24 membri (ridotti a 21 nel 1977).[2][3] La sua sede si trovava
nel Cremlino di Mosca.

Il ruolo di Presidente del Presidium del Soviet Supremo fu abolito nel 1989 e in seguito
l'assemblea fu presieduta dal Presidente del Soviet Supremo.[4]

Il mandato dei deputati eletti al Presidium aveva una durata di quattro anni, la stessa di
ogni legislatura del Soviet Supremo. Il Presidium era composto dal Presidente, un
deputato per ciascuna delle quindici repubbliche, un segretario e venti membri ordinari.
Tutte le sue attività erano soggette a revisione da parte del Soviet Supremo, al quale
era chiamato a riferire. Ogni repubblica socialista sovietica o repubblica autonoma
aveva il proprio Presidium del Soviet Supremo, le cui funzioni erano determinate dalle
costituzioni locali.

252
Politburo del Comitato centrale del PCUS

era l'organismo dirigente del Partito Comunista dell'Unione Sovietica nei periodi fra le
riunioni del plenum del Comitato Centrale. Del Politburo facevano parte i più influenti
membri del CC, che determinavano la politica del partito e, nel sistema monopartitico,
dell'Unione Sovietica stessa. I membri del Politburo venivano eletti dal plenum del
Comitato centrale. Tra essi vi erano di regola il segretario generale del PCUS, il primo
ministro, i presidenti del Presidium del Soviet Supremo dell'URSS e di quello
della RSFSR, il segretario del comitato cittadino del PCUS di Mosca e/o del comitato del
partito dell'oblast' di Leningrado. Dal 1973 facevano parte del Politburo anche il
presidente del KGB, il ministro degli esteri e quello della difesa.

Purghe staliniane

Le grandi purghe furono una vasta repressione avvenuta nell'URSS nella seconda metà
degli anni Trenta, voluta e diretta da Stalin dopo l'omicidio di Sergej Kirov, importante
dirigente del partito a Leningrado, per epurare il partito comunista da presunti
cospiratori. Il periodo viene anche indicato con i termini di "terrore", "grande terrore"
(большой террор, bol'šoj terror) o, in Russia, con quello di ežovščina (ежовщина, "era
di Ežov") dal nome del capo dell'NKVD nel periodo più tragico delle purghe. La
repressione, eseguita spesso con procedimenti giudiziari sommari, colpì anche semplici
cittadini, non iscritti al partito, considerati ostili al regime, ed ebbe vasta risonanza in
Occidente in seguito ad alcuni processi celebrati dal 1936 al 1938 contro i massimi
dirigenti del PCUS. Oggetto di arresti e condanne furono, anche, numerosi esponenti
delle comunità straniere, inclusa quella italiana, emigrati nella nuova patria socialista
per sottrarsi alle persecuzioni politiche dei paesi di origine o per contribuire al suo
sviluppo. Le grandi purghe staliniane possono essere interpretate anche come un caso
estremo di arrivismo politico che giunge, come prassi, all'eliminazione fisica degli
avversari diretti personali.

Gulag

Molti kulaki si opposero fermamente alla collettivizzazione, nascondendo le derrate


alimentari, macellando il bestiame ed anche imbracciando le armi. Stalin reagì
ordinando l'arresto degli oppositori, che venivano condannati, a seconda della gravità
dei loro atti, dai 5 ai 10 anni di internamento nei gulag.

HOLODOMOR

Holodomor è il nome con il quale si designa il genocidio per fame di oltre 6 milioni di
persone, perpetrato dal regime sovietico, a danno della popolazione ucraina negli anni
1932 – 1933. Gli ucraini subirono una terribile punizione, perché accusati di contestare

253
il sistema della proprietà collettiva. Tutte le risorse agricole furono requisite e la
popolazione affamata. Un quarto della popolazione rurale, uomini, donne e bambini, fu
così sterminata per fame. I cadaveri giacevano per strada senza che i parenti, anch'essi
ormai in fin di vita, avessero la forza di seppellirli. La carestia determinò, insieme
all'annientamento dei contadini, lo sterminio delle élites culturali, religiose e
intellettuali ucraine, tutte categorie considerate "nemiche del socialismo”.

6/11

Lezione 16

254
255
Germania nella Prima guerra mondiale

Quello successivo alla guerra franco-prussiana fu un periodo di splendore per la


Germania. L'accorta politica del Cancelliere del Reich Otto von Bismarck puntò a
mantenere un equilibrio tra le grandi potenze europee, tenendo la Francia
diplomaticamente isolata per soffocare le sue aspirazioni revansciste e stringendo a sé
l'Impero austro-ungarico con un trattato di alleanza difensiva stipulato nel 1879
("Duplice alleanza", divenuta "Triplice alleanza" nel 1882 con l'aggiunta del Regno
d'Italia) per scongiurare una guerra a est tra austro-ungarici e russi, in competizione
per il dominio nei Balcani. Bismarck promosse l'intervento statale a protezione
dell'industria nazionale, portando a una rapida rivoluzione industriale e a un
conseguente ampio incremento demografico che portò la Germania a superare per la
prima volta la Francia quanto a numero di abitanti; fu avviata anche una politica di
espansione coloniale in Africa e nell'Oceano Pacifico, fatto che rese però più insicuri i
rapporti tra Germania e Regno Unito nonostante i legami dinastici che li univano[11].

L'ascesa al trono del nuovo Kaiser Guglielmo II di Germania nel 1888 portò a un
drastico cambio di politica, sancito dalle dimissioni di Bismarck nel 1890: convinto che
l'accrescere il peso geopolitico della Germania sulla scena mondiale richiedesse una
maggior forza militare, il nuovo monarca promosse una politica estera volutamente
aggressiva e un forte incremento delle spese militari, culminate in un ambizioso
programma di costruzioni navali volto a creare una flotta da battaglia capace di
competere alla pari con quella britannica; questa politica finì con il rafforzare
l'immagine di una Germania come potenza aggressiva, favorendo la stipula delle
alleanze difensive tra Francia, Russia e Regno Unito e accrescendo di conseguenza il
senso di accerchiamento della stessa Germania[11].

La costruzione del sistema di fortificazioni francese "Séré de Rivières", in grado di


ostacolare un attacco portato lungo le tradizionali direttrici d'invasione, e il costituirsi
dell'alleanza tra Francia e Russia obbligarono alla fine del XIX secolo lo stato maggiore
tedesco a dover prendere in considerazione piani bellici per vincere un conflitto
combattuto su due fronti. Nei primi anni del nuovo secolo prese così forma il
cosiddetto piano Schlieffen (dal nome del suo ideatore, l'allora capo di stato
maggiore Alfred von Schlieffen): contando sulla lentezza delle procedure di
mobilitazione dei russi, che lasciavano alla Germania sei settimane di tempo dalla
dichiarazione di guerra prima di dover affrontare un'offensiva nemica a est, le principali
forze tedesche dovevano essere concentrate a ovest per battere i francesi in una sorta
di "guerra lampo"; per fare ciò, le forti difese al confine franco-tedesco dovevano essere
aggirate da nord penetrando nei territori dei neutrali Belgio e Lussemburgo, da cui poi

256
dilagare nella Francia settentrionale per andare a colpire alle spalle le forze nemiche
ammassate contro l'Alsazia e la Lorena[12].

L'incremento demografico registrato nella seconda metà del XIX secolo consentiva alla
Germania di mettere in campo un esercito numeroso: una legge del 1913 autorizzava
per l'esercito tedesco (Deutsches Heer) una forza in tempo di pace di 870 000 uomini,
ma ricorrendo ai riservisti di prima linea nell'agosto 1914 furono messi subito in azione
1 700 000 soldati, affiancati poi da altri 1 800 000 riservisti di seconda linea e
4 250 000 civili in età di leva non ancora addestrati. Lo sviluppo di una rete ferroviaria
all'avanguardia consentiva una velocità di mobilitazione superiore a quelle delle altre
nazioni europee e quattro volte più veloce di quella già elevata messa in mostra durante
la guerra franco-prussiana, rendendo di fatto possibile per i tedeschi iniziare le
operazioni belliche a partire dal giorno stesso della dichiarazione di guerra. Le forze
armate godevano di un enorme prestigio popolare ed erano per molti aspetti
indipendenti dal controllo del governo civile[13]; l'esercito tuttavia non aveva granché
modernizzato la propria organizzazione interna, specie riguardo alla selezione degli
ufficiali: il sistema classista vigente in Germania poteva ostacolare le carriere di validi
ufficiali di origine borghese (come Erich Ludendorff) a favore di personalità meno
brillanti ma appartenenti alla nobiltà come von Moltke il giovane[14].

Espressionismo tedesco

L'espressionismo tedesco deve la sua origine principalmente alla fondazione del


movimento Die Brücke ("il ponte"). Lo scopo dei fondatori di questo movimento è quello
di gettare un ponte tra la pittura classica neoromantica e un nuovo stile che si definirà
in seguito come "espressionismo".

L'espressionismo tedesco è un movimento caratterizzato dalla ricerca del soggettivo


nella realtà che li circonda. Le metropoli, la vita di strada, il circo, stimolano riflessioni
sulla solitudine dell'uomo, sull'alienazione dell'individuo, sull'immoralità. Il segno
incisivo e la gamma cromatica acida e accentuata divengono tratti distintivi di questo
movimento. Gli impressionisti cercavano di fissare un'impressione sulle loro tele, e si
dedicavano alla realtà esteriore, l'espressionismo invece si dedica all'emozione, alla
sensualità, al raggiungimento di un'espressione efficace, capace di stimolare,
impressionare l'osservatore.

Alcuni degli espressionisti guardano alla guerra come alla possibilità di un nuovo ordine
sociale. Un conflitto mondiale può essere il colpo di spugna da loro desiderato per far
nascere un nuovo stile di vita: si auspica la purificazione dell'Europa, il tramonto di
tutte le antiche strutture di potere. Molti artisti, animati da questi principi, si arruolano

257
e combattono al fronte come volontari, ma il risultato è quello di prender coscienza
degli orrori della guerra, che li sconvolgono al punto di portarli in qualche caso a
smettere di dipingere. In altri casi, la guerra diventa contemporaneamente fonte di
ispirazione, incubo, ossessione.

Tra gli esponenti di spicco del primo espressionismo tedesco si può citare Paula
Modersohn-Becker (1876-1907); altra pittrice espressionista di spicco fu Gabriele
Münter.

258
259
Trattato di Versailles

Tra le disposizioni previste dal trattato di Versailles rientravano la revisione dei confini
territoriali tedeschi e la perdita di tutte le colonie della Germania, a beneficio
dell'Impero Britannico e della Francia.

Nasce la repubblica

Weimar, Repùbblica di Regime politico instaurato in Germania dopo la Prima guerra


mondiale. Così chiamata dalla città di W., dove fu elaborata la sua Costituzione, ebbe
vita tra il 1919 e il 1933. Costituitasi dopo la sconfitta della Germania nella Prima
guerra mondiale e la caduta dell'impero, rappresentò un modello di democrazia
parlamentare per l'intera Europa. La Costituzione prevedeva il suffragio universale
maschile e femminile, l'elezione diretta del presidente della Repubblica e la
responsabilità del governo di fronte al parlamento. Poggiava sui tre principali partiti
politici affermatisi nel dopoguerra: il Partito socialdemocratico, il Centro cattolico-
moderato e il Partito democratico (liberali di sinistra). In realtà questa piattaforma fu
un'eccezione e si verificò un costante sforzo di allargare il consenso verso l'ala
conservatrice del liberalismo tedesco, che fornì con G. Stresemann l'uomo di Stato e il
ministro degli Esteri di maggiore statura. Condizionata dalle clausole punitive imposte
alla Germania dalla Pace di Versailles e indebolita prima dai tentativi rivoluzionari
dell'estrema sinistra, poi dal rafforzamento delle forze antidemocratiche e nazionaliste,
la R. di W. ebbe una vita travagliata e non resse ai contraccolpi della crisi economica
mondiale del 1929. Colpita dalla depressione e dalla inadeguatezza dei mezzi per far
fronte alla disoccupazione dilagante, fu messa in crisi dalla gestione extraparlamentare
avviata dal cancelliere H. Brüning, con il sostegno del presidente P. Hindenburg, e
soprattutto dalla determinazione e dalla demagogia del partitonazionalsocialista di A.
Hitler. Quando questi divenne cancelliere (1933), la R. di W. subì il definitivo tracollo.

nascita del partito nazional socialista

Partito politico tedesco, fondato nel 1920 e sciolto nel 1945. Esso fu costituito
ufficialmente a Monaco nell’apr. 1920, dopo una fase di elaborazione in seno alla
Deutsche Arbeiterpartei di A. Drexler. La NSDAP ebbe come animatori G. Feder, teorico
del movimento, il poeta razzista e populista E. Eckart, R. Hess, H. Göring, A. Rosenberg
e soprattutto A. Hitler, la cui biografia s’identifica in gran parte con la storia del partito.
Basato sui principi ideologici del , e sua principale espressione organizzata, ha
conosciuto un’organizzazione tipicamente paramilitare, ben visibile in alcune
formazioni particolari (1921: Sturm-Abteilungen, SA, o squadre di assalto; 1923: Hitler
Stoss-truppe, dal quale derivarono le SS, Schutz-Staffeln, o squadre di protezione, vera
aristocrazia militare del partito). Limitato a un raggio d’azione puramente bavarese fino

260
al 1925, il partito tentò l’8 nov. 1923 a Monaco un colpo di Stato (Putsch) d’accordo con
E. Ludendorff; fallito questo, e imprigionato Hitler, fu costretto a fondersi coi movimenti
populisti capeggiati dallo stesso Ludendorff. Ricostituito nel 1925, riorganizzato su base
centralistica e secondo il principio gerarchico del Führer (di evidente influsso fascista),
il partito uscì fuori dal semplice ambito bavarese (1925: Nord della Germania; 1926:
Franconia, Turingia, Sassonia, Baden, Württemberg, Hannover) e da allora fu in
continua ascesa. Alle elezioni del 1928 raccolse 800.000 voti e 12 mandati al Reichstag;
nel gennaio 1930 vide per la prima volta un proprio membro ministro (W. Frick,
ministro dell’Interno in Turingia); alle elezioni del 1930 riportò sei milioni e mezzo di
voti e 107 mandati (questi, alle elezioni del 1932, salirono a 230). Hitler, che alle
elezioni presidenziali del 1932 aveva riportato 13.400.000 voti, fu nominato il 30
gennaio 1933 cancelliere e, dopo la netta vittoria del partito alle elezioni del 5 marzo,
ottenne i pieni poteri (23 marzo 1933). Da allora la storia della NSDAP, che, con la
repressione cruenta della cosiddetta rivolta di E. Röhm (30 giugno 1934), liquidò gli
alleati di un tempo, i tedesco-nazionali e gli Elmi d’acciaio, coincise con quella stessa
della Germania nazista, di cui costituì la vera struttura dirigente e il principale apparato
organizzativo e burocratico, curando al tempo stesso l’attività di propaganda del regime
e la irreggimentazione delle masse da esso voluta. In seguito alla sconfitta del 1945 il
partito venne disciolto; i suoi capi furono accusati di crimini contro l’umanità
al processo di Norimberga.

261
Le conseguenze del trattato di Versailles per la Germania

262
Il Trattato di Versailles, sottoposto ai Tedeschi per la firma il 7 maggio 1919, obbligava
la Germania a cedere territori al Belgio (Eupen-Malmödy), alla Cecoslovacchia (il
Distretto di Hultschin) e alla Polonia (Pozna, la Prussia occidentale e la Slesia
Superiore). L’Alsazia e la Lorena, che nel 1871, dopo la guerra Franco-Prussiana, erano
state annesse alla Germania, tornavano alla Francia. Tutte le colonie tedesche
diventavano Mandati sotto il controllo della Lega delle Nazioni, mentre Danzica, la cui
popolazione contava un gran numero di cittadini di etnia tedesca, veniva dichiarata
Città Libera. Il Trattato imponeva anche la demilitarizzazione e occupazione della
Renania, nonché la creazione di uno statuto speciale per la regione della Saar, sotto il
controllo della Francia. Il futuro di zone come lo Schleswig settentrionale, sul confine
danese, e parte della Slesia Superiore doveva essere invece deciso tramite plebiscito.

La parte più umiliante per la Germania sconfitta fu probabilmente costituita


dall’Articolo 231, conosciuto come “clausola di colpevolezza”, che obbligava la nazione
tedesca ad assumersi la totale responsabilità dello scoppio della Prima Guerra
Mondiale. Di conseguenza, la Germania diventava anche responsabile di tutti i danni
materiali causati dal conflitto, per i quali George Clemenceau, il primo ministro
francese, insistette in modo particolare che si stabilissero enormi somme di
risarcimento. Nonostante fosse evidente che la Germania molto probabilmente non
sarebbe stata in grado di pagare un debito tanto imponente, Clemenceau e i Francesi
temevano ancora una rapida ripresa della nazione tedesca e un’altra guerra contro la
Francia. Di conseguenza, i Francesi cercarono di creare con il trattato un sistema che
limitasse la possibilità per la Germania di riguadagnare la supremazia economica e di
riarmarsi.

L’esercito tedesco venne limitato a 100.000 unità e il servizio di leva fu eliminato. Il


trattato, inoltre, limitò la dotazione della Marina Militare a navi di non più di 10.000
tonnellate, con l’ulteriore proibizione di acquisire o mantenere una flotta di sottomarini.
Inoltre, la Germania non poteva creare, all’interno dell’esercito, un settore aeronautico.
Ai Tedeschi fu poi richiesto di processare il Kaiser e altri leader considerati responsabili
delle politiche di aggressione che avevano dato inizio al conflitto; il processo di Lipsia,
condotto in assenza del Kaiser o di altri capi di governo tedeschi, terminò per la
maggior parte con l’assoluzione degli imputati e venne generalmente considerato,
anche in Germania, una farsa.

263
Costituzione di Weimar

264
È ispirata dagli ideali liberali e democratici del 1848 e instaura una repubblica
democratica che ruppe, almeno in parte, con l'autoritarismo della Germania monarchica
e bismarckiana, in cui il parlamento aveva competenze limitate.

Articolo 48

Se un Land non adempie gli obblighi impostigli dalla costituzione o da una legge del
Reich, il presidente può costringervelo con l'aiuto della forza armata.

265
Lega di Spartaco

266
Il gruppo venne fondato, con il nome originario Gruppe Internationale (Gruppo
Internazionale) la sera del 4 agosto 1914 su iniziativa di Rosa Luxemburg, in risposta
all'assenso ai crediti di guerra dati quella stessa mattina dalla frazione della SPD al
parlamento del Reich. Il gruppo si opponeva alla politica di collaborazione dell'SPD con
il governo imperiale tedesco e propugnava la solidarietà internazionale all'interno del
movimento dei lavoratori. Questo principio era stato in precedenza affermato nel corso
di una serie di manifestazioni, alle quali aveva preso parte un gran numero di membri
della SPD nel periodo immediatamente antecedente all'entrata in guerra. Nell'ambito di
decisioni collettive della Seconda Internazionale si era impegnata più volte, a
intraprendere azioni comuni, insieme agli altri partiti socialisti, per scongiurare l'ipotesi
di una guerra europea tra le grandi potenze. La sua adesione alla guerra, imitata dai
socialisti francesi, provocò il collasso della Seconda Internazionale.

Il Gruppo Internazionale, al contrario, continuò a sostenere le posizioni espresse dai


partiti socialdemocratici europei prima della guerra, e rigettò il conflitto, che riteneva
un massacro imperialistico voluto dalla borghesia e contrario agli interessi del
proletariato. A partire dal gennaio 1916 iniziò la pubblicazione di un proprio giornale
dal titolo Spartakusbriefe (lettere di Spartaco). Per questa ragione divenne conosciuto
con il nome di “Gruppo Spartaco” (Spartakusgruppe) o più semplicemente Spartakus.

Gli Spartachisti aderirono all'USPD nel 1917 continuando comunque ad esistere anche
come entità autonoma. L'11 novembre 1918 il Gruppo assunse, su iniziativa di Karl
Liebknecht, il nome di Lega di Spartaco (Spartakusbund) diventando un'organizzazione
indipendente di dimensioni nazionali.

Nel corso della Rivoluzione di Novembre del 1918 combatté per togliere il potere dalle
mani dei vertici militari, collettivizzare le industrie chiave, e dare alla Germania una
Costituzione che la trasformasse in una repubblica guidata da consigli popolari. Tra la
fine del 1918 e l'inizio del 1919 fondò, dopo tentativi di repressione violenta eseguiti
dall'esercito su ordine del governo provvisorio di Friedrich Elbert, il Partito Comunista di
Germania (Kommunistische Partei Deutschlands, sigla KPD) al quale aderirono altre
formazioni rivoluzionarie.

Partito comunista tedesco

Il Partito Comunista Tedesco (in tedesco Deutsche Kommunistische Partei, DKP) è stato
fondato nella Germania Ovest il 26 settembre 1968 per riempire il vuoto creato con la
scomparsa del Partito Comunista di Germania, bandito dalla Corte costituzionale

267
federale nel 1956 e nel 1957 dalla Commissione Europea dei Diritti dell'Uomo nel caso
storico Partito Comunista di Germania contro la Repubblica Federale di Germania.

Il partito è rimasto relativamente piccolo, e non ha mai conquistato più dello 0,3% dei
voti totali nelle elezioni federali. Molti membri del DKP hanno lasciato il partito dopo
la riunificazione della Germania e per unirsi al nuovo Partito del Socialismo
Democratico (PDS), discendente del Partito Socialista Unificato della Germania Est.

Nelle elezioni federali del 2005 il DKP ha sostenuto Die Linke, successore del PDS. Nelle
elezioni federali del 24 settembre 2017 il DKP ha riportato 11.713 voti corrispondenti
allo 0,03% dei voti totali. In precedenza, dalla fine degli anni 80, il DKP non si era più
presentato alle elezioni al Bundestag. Il partito possiede un settimanale, Unsere Zeit.

Partito Socialdemocratico di Germania

Partito politico tedesco. Già nel 1863, sotto l’impulso di F. Lassalle, si era costituita
l’Associazione generale degli operai tedeschi, cui si aggiunse nel 1868 un Partito
socialdemocratico dei lavoratori fondato sulle concezioni di K. Marx e F. Engels. Le due
organizzazioni si fusero al Congresso di Gotha (1875), dando vita al Partito socialista
dei lavoratori. Il suo programma, di impianto prevalentemente riformistico, fu oggetto
della serrata critica di Marx. Nel 1890 il partito, che aveva tra i suoi maggiori leader A.
Bebel e W. Liebknecht, assunse la denominazione di SPD e nelle elezioni dello stesso
anno si affermò come il maggiore partito tedesco. Nel 1891, al Congresso di Erfurt, si
dotò di un nuovo programma, steso da K. Kautsky e maggiormente ancorato al
marxismo. Lo stretto legame coi sindacati e la costruzione del partito come partito di
massa, dotato di circoli territoriali, radicamento tra i lavoratori, riti, feste e momenti
aggregativi, portarono la SPD a crescere ulteriormente, fino a rappresentare quasi un
modello nell’ambito del movimento socialista europeo. Lo scoppio della Prima guerra
mondiale e il voto in favore dei crediti di guerra da parte della maggioranza del partito,
cui si oppose l’ala sinistra di K. Liebknecht e R. Luxemburg, aprirono un conflitto interno
che non si sarebbe più sanato. Al gruppo internazionalista o «spartachista» di
Liebknecht e Luxemburg si affiancò un’ala socialista-pacifista, facente capo a H. Haase,
la quale ultima, a seguito dell’espulsione di vari suoi membri, si staccò dalla SPD per
costituire nell’apr. 1917 il Partito socialdemocratico indipendente (USPD), cui aderirono
anche gli spartachisti. La Rivoluzione d’ottobre, intanto, acuiva i contrasti, facendo
emergere anche in Germania, tra le macerie dell’impero, un’ala del movimento operaio
favorevole alla via rivoluzionaria. I socialdemocratici intanto diventavano egemoni nella
Repubblica di Weimar: era stato proprio uno dei leader della SPD, P. Scheidemann, a
proclamarne la nascita (9 nov. 1918), mentre F. Ebert, anch’egli dirigente
socialdemocratico, assumeva la guida del governo in coalizione con la USPD. Il
contrasto con gli spartachisti, che contemporaneamente avevano proclamato la nascita

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di una repubblica socialista, giunse fino alla repressione armata dei moti rivoluzionari e
all’assassinio di Liebknecht e Luxemburg (15 genn. 1919). Le elezioni per l’Assemblea
costituente diedero comunque la maggioranza alla SPD, e lo stesso Ebert, primo
presidente della Repubblica, promulgò la nuova Costituzione (11 ag. 1919). La SPD, che
ebbe la guida del governo nel 1918-20 e nel 1928-30, fu quindi il partito egemone della
Repubblica di Weimar, assieme al Partito popolare di G. Stresemann e
al Zentrum cattolico. Tuttavia essa dovette gestire una situazione molto difficile a causa
delle riparazioni di guerra imposte dal Trattato di Versailles, della pressione francese
nella Ruhr e dell’ostilità delle forze estreme di destra e di sinistra. La crisi economica,
esplosa nel 1929, fece precipitare le cose, spianando la strada all’avvento del nazismo.
Posta fuori legge e sciolta da Hitler (1933), la SPD si ricostituì solo nel 1946. Alle
elezioni del 1949 ottenne il 29,2% dei voti, collocandosi quindi all’opposizione dei
governi a guida cristiano-democratica. Col Congresso di Bad Godesberg (1958), il
partito abbandonò esplicitamente il marxismo. Nel 1964 la leadership fu assunta da W.
Brandt, e l’anno seguente la SPD raggiunse il 39,3% dei voti. Nel 1966-69, dunque,
essa prese parte al governo di «grande coalizione» (Grosse Koalition) con cristiano-
democratici (CDU) e cristiano-sociali (CSU). Vicecancelliere e ministro degli Esteri,
Brandt avviò una politica di apertura e di dialogo coi Paesi del blocco sovietico,
Repubblica democratica tedesca in primis, la cd. Ostpolitik. Nel 1969 lo stesso Brandt
assunse la guida del governo, ora in alleanza con i liberali e con una maggiore
accentuazione di sinistra, ampliando i consensi del partito (45,8% nel 1972) e
conservando il potere fino al 1974, allorché fu sostituito da H. Schmidt. Quest’ultimo,
rigidamente filoatlantico, impresse al partito e al governo una sterzata in senso
moderato. Sconfitta alle elezioni del 1983, la SPD passò all’opposizione, tornando al
governo solo nel 1998, alla testa di una coalizione con i Verdi e sulla base della politica
di Neue Mitte («Nuovo centro»), ispirata dal nuovo cancelliere G. Schroeder. Nel 2005 il
partito subì quindi una nuova scissione, a opera dell’ala sinistra guidata da O.
Lafontaine, poi tra i fondatori di Die Linke. Da quello stesso anno la SPD ha fatto parte
di una nuova Grosse Koalition, ma nel 2009, precipitata al 23,5% dei voti, è tornata
all’opposizione.

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Freikorps

Dal 1918 il termine cambiò profondamente significato, e l'espressione Freikorps iniziò a


indicare delle organizzazioni paramilitari che sorsero in Germania, appunto, dopo la fine
della prima guerra mondiale. Molti veterani tedeschi si sentirono profondamente
scollati dalla vita civile, e si unirono nei Freikorps, alla ricerca della stabilità all'interno
di una struttura simile all'esercito. Altri, furenti per l'inaspettata e apparentemente
inspiegabile sconfitta (la cosiddetta Dolchstoßlegende), vi si unirono nel tentativo di
abbattere le sollevazioni comuniste o per ottenere una qualche forma di rivincita.

Essi ricevettero considerevole supporto da Gustav Noske, esponente di spicco


del Partito Socialdemocratico di Germania e ministro della difesa tedesco, che li usò
nella guerra civile dalla quale sarebbe scaturita la Repubblica di Weimar, per
schiacciare la Lega Spartachista con la violenza, non senza ricorrere all'omicidio, come
nel caso di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. Il primo bando di arruolamento fu
diffuso dal generale Georg Ludwig Rudolf Maercker il 22 dicembre 1918

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Iperinflazione

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Fase più grave del processo inflazionistico (v. Inflazione). Con l'iperinflazione i prezzi
subiscono aumenti incontrollabili e così elevati da essere misurati su base mensile o,
addirittura, con riferimenti temporali più brevi.
I casi più eclatanti di iperinflazione sono stati quella tedesca degli anni 1922-1924, in
cui il tasso di inflazione mensile superò il 300% con un picco nell'ottobre del 1923 pari
al 29.000% mensile: questo significa che un bene che costava 100 lire il 1° ottobre, a
fine mese costava 29.000 lire. Oggi, casi di iperinflazione così spaventosa sono rari,
anche se tassi di inflazione molto elevati hanno rappresentato la norma in molti paesi
dell'America Latina nel corso dell'ultimo decennio: nel 1990, ad esempio, Argentina e
Brasile avevano un tasso annuo di inflazione superiore al 2.000%, mentre quello del
Perù era pari a circa il 7.000%.
In tali circostanze la velocità di circolazione della moneta (v.) diventa altissima poiché
gli operatori non saranno disposti a detenere valuta (che in tal modo si deprezza
velocemente) e gli scambi economici avvengono sempre più spesso mediante il ricorso
al baratto (v.).

Occupazione della Ruhr

L'Occupazione della Ruhr (in tedesco: Ruhrbesetzung) fu un periodo di occupazione


militare della valle tedesca della Ruhr da parte di Francia e Belgio tra l'11 gennaio
1923 e il 25 agosto 1925, in risposta all'inadempienza della Germania sui pagamenti
delle riparazioni dettati dalle potenze vittoriose dopo la prima guerra
mondiale nel trattato di Versailles.

Francia e Belgio occuparono la valle della Ruhr, fortemente industrializzata, in


risposta all'inadempienza della Germania sui pagamenti delle riparazioni dettati
dalle potenze vittoriose dopo la prima guerra mondiale nel trattato di Versailles. Il 9
Gennaio 1923, la Commissione delle riparazioni dichiara inadempiente la Germania.
La dichiarazione, che è il presupposto giuridico per procedere all'invasione, è
approvata dai delegati di Francia, Italia e Belgio, contro l'Inghilterra astenuta.

L'occupazione della Ruhr aggravò la crisi economica in Germania[1], e i civili tedeschi


s'impegnarono in atti di resistenza passiva e disobbedienza civile, durante i quali
130 di loro vennero uccisi. La Francia e il Belgio, di fronte alle pressioni economiche
ed internazionali, accettarono il piano Dawes per ristrutturare il pagamento tedesco
delle riparazioni di guerra nel 1924 e ritirarono le loro truppe dalla Ruhr nell'agosto
1925.

L'occupazione della Ruhr contribuì al riarmo tedesco e alla crescita di movimenti


radicali di destra in Germania.[1]

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Crisi economica

Nel frattempo, dopo l’abdicazione di Guglielmo II, la Germania aveva cambiato sistema
politico, diventando una democrazia rappresentativa, nota con il nome non ufficiale
di Repubblica di Weimar. Tuttavia, il clima politico e sociale tedesco continuava ed
essere estremamente turbolento visto la problematica eredità della guerra e la
disastrosa situazione economica e sociale del paese, dovuta soprattutto al grande peso
delle riparazioni di guerra.

In effetti per la neonata repubblica il peso delle riparazioni belliche si rivelò ben
presto insostenibile: per adempiere al pagamento delle spese di guerra lo stato tedesco
iniziò a stampare enormi quantità di valuta, con il risultato che nel giro di poco
tempo il marcofinì per svalutarsi in maniera drammatica e inarrestabile. Per capire gli
effetti della svalutazione basta pensare che nel 1921 un dollaro americano veniva
scambiato per 65 marchi, mentre appena 2 anni dopo, nel novembre del 1923, arrivò a
valere l’incredibile cifra di 4 bilioni di marchi.

Divenuta in poco tempo una valuta senza alcun valore il marco venne ribattezzato
sarcasticamente “Papiermark”, traducibile letteralmente con “moneta di carta”. Ma la
caduta del valore non si fermò solo al suo valore nominale, ma investì in maniera
drammatica l’economia reale tedesca, generando soprattutto una gigantesca inflazione:
i prezzi dei beni e servizi venduti in Germania iniziarono una costante ascesa,
rendendo sempre più difficile la vita quotidiana della popolazione, soprattutto per
quanti appartenenti alle classi meno agiate.

Con un disastro economico di simili proporzioni la situazione sociale tedesca non poteva
che peggiorare di giorno in giorno, alimentando lo scontro tra opposte fazioni politiche:
mentre a sinistra la “Lega di Spartaco”, guidata da militanti comunisti come Rosa
Luxemburg, auspicava per uscire dalla crisi una rivoluzione sociale sul modello russo, a
destra si venivano formando numerosi gruppi di opposizione alla democrazia,
considerata dai militanti rea di aver accettato la resa in guerra e l’umiliante trattato di
Versailles.

Nei primi anni della Repubblica di Weimar itentativi di sovvertire la democrazia furono
numerosi: già nel gennaio del 1919 la Lega di Spartaco di Rosa Luxemburgtentò
un’insurrezione per abbattere il governo socialdemocratico - rivolta sanguinosamente
repressa dai Freikorps - mentre nel novembre 1923 un piccolo partito di destra, il
NSDAP, con alla guida un giovane Adolf Hitler,tentò un colpo di stato, poi fallito, a
partire dalla città di Monaco, divenuto noto con il nome di “Putsch della birreria”.

273
Il putsch di monaco

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L’8 novembre 1923 Adolf Hitler e alcuni membri delle SA (le truppe di assalto) e dei suoi
seguaci, tra cui Hermann Göering, Alfred Rosenberg e Rudolff Hess, irruppero nella
Bürgerbräukeller, una birreria del sud di Monaco in cui il governatore di Baviera, Gustav
von Kahr, nazionalista ultraconservatore convinto, stava tenendo un discorso. Dopo
aver bevuto una birra Hitler scagliò a terra il boccale, si levò il cappotto, rivelando un
completo nero con la Croce di ferro di prima classe e altre di seconda classe, e sfoderò
la pistola. Tra spari e bicchieri di birra andati in frantumi, Hitler balzò su una sedia e
dichiarò lo scoppio della “rivoluzione nazionale”. Era il colpo di stato del partito nazista,
in piena ascesa, contro il governo della repubblica di Weimar, i cosiddetti “criminali di
novembre” (termine usato dai detrattori dell’armistizio del 1918 per riferirsi ai politici
che lo firmarono). All’inizio parve che questa azione avrebbe segnato il tracollo politico
di Hitler, ma a posteriori si dimostrò il trampolino di lancio per lui e le sue più oscure
ambizioni.

Mein Kampf

promuoveva le componenti chiave del nazismo: un feroce antisemitismo, una


visione razzista del mondo e una politica estera aggressiva orientata alla conquista
di Lebensraum (spazio vitale) nell'Europa orientale.

Hitler iniziò a scrivere il Mein Kampf nel 1924 nel carcere di Landsberg, dove scontava
la condanna per alto tradimento per aver tentato di rovesciare la Repubblica Tedesca
nel novembre 1923, con il cosiddetto "Putsch della birreria". Anche se il colpo di stato
era fallito, Hitler aveva usato il processo come pulpito per diffondere la propaganda
nazista. Prima di questo evento Hitler era praticamente uno sconosciuto, ma il putsch
gli guadagnò notorietà immediata sulla stampa tedesca e internazionale. Il tribunale lo
condannò a cinque anni di reclusione, di cui scontò meno di 9 mesi. Trovandosi con la
propria carriera politica ai minimi storici, Hitler sperava che la pubblicazione del libro gli
avrebbe fatto guadagnare qualche soldo e gli avrebbe fornito una piattaforma
propagandistica dalla quale dare sfogo alle sue opinioni radicali e attaccare quelli che
considerava traditori nei suoi confronti e della Germania stessa.

Mussolini la marcia su Roma

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L'obiettivo della marcia, capeggiata dai triumviri Balbo, Bianchi, De Bono e De Vecchi,
era estromettere l'allora capo del governo Luigi Facta e forzare la mano al re Vittorio
Emanuele III per indurlo a consegnare il Paese nelle mani di Mussolini, incaricandolo di
formare un nuovo governo

Il rapporto tra Hitler e Mussolini: dal primo incontro all’alleanza

Adolf Hitler e Benito Mussolini stipulano una intesa nota come l'Asse Roma-Berlino. È il
primo patto di amicizia stretto fra i due paesi, divisi in precedenza dalla questione
austriaca e dalle differenti collocazioni nell’ambito degli schieramenti delle potenze
europee. Le prime conseguenze dell'accordo sono la partecipazione di Italia e Germania
alla guerra civile spagnola, in appoggio alle forze franchiste. Mussolini resta tuttavia
ancora incerto sull'opportunità di legarsi alla Germania in una vera e propria alleanza
militare. Solo nel maggio del 1939, dopo la conferenza di Monaco e l'occupazione
italiana dell'Albania, il duce si decide a firmare con Hitler il cosiddetto “patto d'acciaio”.

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Accordi di Locarno

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Locarno è detta “città della pace” in ricordo della conferenza diplomatica che vi si svolse
dal 5 al 16 ottobre 1925.

Dopo dieci giorni di trattative furono parafati a Locarno il trattato di garanzia tra il
Belgio, la Francia, la Germania, l’Inghilterra e l’Italia che fissava la frontiera lungo il
Reno. Inoltre la Germania sottoscrisse convenzioni d’arbitrato con il Belgio, la Francia,
la Cecoslovacchia e la Polonia. La Francia stipulò trattati di garanzia con la
Cecoslovacchia e la Polonia.

Gli Accordi di Locarno contribuirono a un breve periodo di distensione e di


collaborazione tra le nazioni europee dopo la Prima Guerra Mondiale.

Il percorso della pace ricorda lo storico evento.

Piano dawes

Il piano Dawes domandò anzitutto la ricostituzione dell'unità economica tedesca e


formulò proposte per la creazione di una moneta stabile, e quindi di una nuova banca di
emissione, per la realizzazione dell'equilibrio del bilancio statale, per la fissazione, per
la raccolta e per il trasferimento delle somme, che annualmente dovevano essere
versate agli Alleati.

Cambio della moneta

Il Rentenmark è stato la valuta emessa il 15 novembre 1923 per fermare


l'inflazione del 1922-1923 in Germania. Sostituì la Papiermark, che era stata
completamente svalutata. La Rentenmark fu solo una valuta temporanea, e non ebbe
valore legale. Fu comunque accettata dalla popolazione e riuscì effettivamente a
fermare l'inflazione.[senza fonte] La Reichsmark divenne presto la nuova valuta con valore
legale il 30 agosto 1924.

il crollo di Wall street

Il crollo dell'indice di Wall Street avvenuto il 24 ottobre del 1929 (noto come il giovedì
nero di Wall Street), in cui 13 milioni di azioni furono vendute senza limite di prezzo, e
seguito da un secondo a breve distanza di tempo il 28 ottobre e un terzo il 29 ottobre
(martedì nero) con circa 16 milioni di azioni vendute in un solo giorno, diede origine ad

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un fenomeno di vendite incontrollate di azioni da parte di investitori privati desiderosi
di disfarsene.

Il Dow Jones Industrial Average subì una flessione del 40% in un mese e il panico si
diffuse a macchia d'olio: fu l'inizio di un ciclo economico altamente recessivo su scala
mondiale.

La crisi affonda le sue radici in una politica monetaria fortemente espansiva della
Federale[1], a partire dalla primavera del 1927, che rese disponibili a banche e individui
una massa rilevante di liquidità, impiegata in larga parte in acquisto di azioni quotate
a Wall Street da parte di privati anche per il tramite di investment trust[2].

Suffragio universale femminile per Weimar

A seguito dell'emancipazione femminile i diritti delle donne realizzati aumentarono


significativamente in Germania durante il periodo della Repubblica di Weimar.

La Costituzione di Weimar datata 1919 dichiarò l'uguaglianza sociale in materia


d'istruzione per i due sessi, pari opportunità nelle nomine di servizio civile e parità di
retribuzione nelle professioni.

Questi cambiamenti messi in atto mise la Germania nel gruppo dei paesi più avanzati in
termini di diritti legali concessi alle donne; la Cecoslovacchia, l'Islanda, la Lituania e
l'Unione Sovietica avevano anch'essi promosso la caduta della distinzione tra i sessi
nelle professioni, mentre paesi come la Francia, il Belgio, i Paesi Bassi, l'Italia e
la Norvegia mantennero alcune restrizioni alle professioni per le donne durante il
periodo tra le due guerre[15].

Il Reichstag ebbe 32 donne deputato nel 1926 (il 6,7% del totale) dando in tal modo
una rappresentanza femminile a livello nazionale superiore rispetto a quella di paesi
come la Gran Bretagna (2,1% della Camera dei comuni) o degli stessi Stati Uniti
d'America (1,1% della Camera dei rappresentanti; questo numero salì fino a 35 donne
deputati nel 1933, alla vigilia della dittatura nazista, quando la Gran Bretagna aveva
ancora solo 15 donne iscritte alla Camera[16].

Il "gruppo ombrello" delle organizzazioni femministe, il Bund Deutscher


Frauenvereine (BDF) rimase la forza dominante all'interno del femminismo tedesco
durante tutto il periodo tra le due guerre.

Contava all'incrca 30.000 membri all'inizio della prima guerra mondiale, in crescita fino
ad oltre 900.000 nel corso degli anni '20; è stato fatto notare tuttavia che le
appartenenti alla classe media erano tutt'altro che radicali e promossero "luoghi
comuni" e "responsabilità materne borghesi"[17].

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Altri gruppi femministi furono organizzati intorno alle fedi religiose e vi sono state
molte cattoliche, protestanti e gruppi femministi ebraici.

Paul von Hindenburg

l presidente tedesco Paul von Hindenburg ispeziona le manovre dell'esercito nei pressi
di Goerlitz, nel 1928. Hindenburg aveva guidato l'esercito tedesco ad alcune importanti
vittorie durante la Prima guerra mondiale, e aveva quindi il sostegno necessario
(compreso quello dell'ex imperatore Guglielmo II) per diventare presidente quando
l'impero tedesco divenne la repubblica di Weimar: monarchico con tendenze autoritarie,
durante la guerra era arrivato a imporre le sue opinioni su quelle dell'imperatore stesso,
e i partiti di destra lo vedevano come una scelta sicura per guidare l'instabile
repubblica. Nel 1932 accettò di ricandidarsi alla presidenza per impedire la vittoria
di Adolf Hitler e fu rieletto; solo un anno dopo, però, il Partito nazionalsocialista vinse le
elezioni parlamentari e Hindenburg non ebbe altra scelta se non quella di nominarlo
cancelliere e di capitolare di fronte alle sempre maggiori pretese dei nazisti. Con la sua
morte, il 2 agosto del 1934, l'unico ostacolo che separava Hitler dal potere assoluto
scomparve.

30 gennaio 1933

Il Presidente della Repubblica von Hindenburg nomina Cancelliere Adolf Hitler, leader
(Führer) del Partito Nazional Socialista dei Lavoratori Tedeschi (National sozialistische
Deutsche Arbeiterpartei - NSDAP), oggi meglio conosciuto come Partito Nazista.

Incendio del Reichstag

La notte del 27 febbraio 1933 le fiamme distrussero il Reichstag, il parlamento tedesco


a Berlino. Andava così in fumo il simbolo del fragile regime democratico nato dopo la
sconfitta della Germania nella Prima guerra mondiale. Aprendo la strada alla dittatura
di Adolf Hitler, vincitore delle elezioni del novembre 1932 e Cancelliere da meno di un
mese. Ad appiccare l'incendio fu uno strano personaggio: un militante libertario
olandese di 24 anni, Marinus van der Lubbe, catturato sul luogo dell'attentato.

Führerprinzip

traducibile in "principio del capo" o "principio di supremazia del capo", si riferisce ad un


sistema gerarchico di leader – simile al sistema militare – che abbiano un'assoluta

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responsabilità nell'area di loro competenza e che debbano rispondere solo ad
un'autorità superiore pretendendo obbedienza assoluta dai loro inferiori. Al vertice
della gerarchia risiede il capo supremo che non deve rispondere delle sue azioni a
nessuno ed è somma autorità dello Stato.[1]

Il Führerprinzip venne utilizzato estensivamente nella società della Germania nazista e


vide al vertice della piramide di responsabilità Adolf Hitler. Tale principio vide
un'applicazione, seppur meno categorica, anche nell'Italia fascista di Mussolini,
nella Spagna nazionalista di Franco ed in altri regimi dittatoriali del XX secolo.

Il Führerprinzip nacque con l'idea stessa di nazionalsocialismo e venne impiegato


all'interno di tutte le strutture dello NSDAP, delle SS e delle SA. Le prime lotte
all'interno del partito nazista furono quelle dedicate a definire un Führer indiscusso che
avrebbe dovuto incarnare il concetto di suprema ed indiscutibile autorità. Hitler, che
pure non era tra i fondatori del partito, rapidamente raggiunse il vertice estromettendo
tutti coloro che si opponevano alla sua supremazia.

Il periodo della Repubblica di Weimar vide il partito nazista in costante evoluzione, alla
ricerca di nuovi leader necessari a ricoprire posizioni chiave. La ricerca, condotta in
buona parte personalmente da Hitler, non si basò tanto sulla capacità dei potenziali
capi, quanto sulla loro fedeltà assoluta alla sua persona e all'ideologia che propugnava.
In breve tempo Hitler ebbe a disposizione un partito rigidamente inquadrato, altamente
verticizzato nel quale ogni Befehl (ordine) veniva puntualmente eseguito. L'efficienza
organizzativa del partito nazista fu essenziale durante le numerose campagne elettorali
che si susseguirono freneticamente negli ultimi anni di vita della Repubblica di Weimar
e fu, insieme alle indubbie doti oratorie di Hitler, un elemento essenziale per la presa
del potere.

Dopo la conquista del potere, avvenuta il 30 gennaio 1933, il partito nazista trasferì
all'intera società civile tedesca il Führerprinzip, trasformando rapidamente
la Germania in uno stato totalitario nel corso di un processo chiamato Gleichschaltung,
il «coordinamento» di tutti i cittadini tedeschi con il «nuovo ordine» nazista ottenuto
attraverso l'eliminazione di ogni forma di individualismo in favore di una società
rigidamente strutturata e controllata da capi che rispondevano esclusivamente ad
Hitler.

Gli amministratori locali eletti vennero rimpiazzati dai Gauleiter nominati dal partito e
tutte le forme di associazionismo vennero forzatamente incluse in nuove organizzazioni
naziste. Le nuove strutture che vennero create furono tutte rigidamente gerarchiche, in
rispetto del Führerprinzip, ed in molti casi degenerarono in complessi
meccanismi burocratici. L'eccessiva burocrazia, in contrasto con la chiara e semplice

281
gerarchia stabilita dal Führerprinzip, fu spesso una scelta politica operata da Hitler e
dagli altri gerarchi che si basarono sul principio del divide et impera per evitare
pericolosi concorrenti.

La scelta di leader assolutamente fedeli, piuttosto che capaci, fu un'ulteriore


complicazione. Albert Speer scrisse successivamente, nelle sue memorie, che spesso i
leader nazisti non erano in grado di prendere decisioni in assenza di Hitler. Hitler
tendeva a dare ordini verbali piuttosto che direttive scritte e il suo Führerprinzip poteva
così essere interpretato in maniera «flessibile» da coloro chiamati ad eseguire l'ordine.
Tale caratteristica, in un complesso mondo di lotte per il potere, ebbe spesso risultati
catastrofici.

Dittatura di Hitler

Dopo la morte di Hindenburg in quello stesso anno, Hitler assunse anche i poteri di capo
dello Stato. Tra il 1933 e il 1939 la società tedesca venne nazificata, assumendo i tratti
di un sistema totalitario (totalitarismo) sottoposto al volere di un capo assoluto.

Capo della propaganda

Nel 1933 Goebbels venne chiamato a rivestire la carica di ministro della Propaganda, e
l'equivalente carica all'interno dello NSDAP come Reichsleiter, del primo governo Hitler,
che mantenne ininterrottamente fino alla sua morte e alla caduta del Terzo Reich.

Joseph Goebbels

Deputato al Reichstag (1928), fondatore del giornale Der Angriff, fu ministro del Reich
per la Propaganda dal 1933 ed ebbe parte di primissimo piano in tutte le manifestazioni
politiche del Reich, guidandone la massiccia epurazione nel campo della cultura
indifferente od ostile al regime, e promovendo la più violenta propaganda dei miti
nazisti. Nel suo testamento Hitler lo indicò come suo successore alla carica di
cancelliere del Reich. A distanza di poche ore dalla morte di Hitler si uccise con i proprî
familiari.

Nascita del sistema totalitario

Il totalitarismo, specie della categoria più generale dei regimi autoritari[1], è


normalmente caratterizzato, in estrema sintesi, dall'assenza di una pluralità di partiti,
dalla presenza e immanenza di un partito unico, da un leader o una
ristretta oligarchia di vertice, dalla inesistenza di vincoli o limiti, formali e sostanziali, al
potere centrale, dalla eliminazione, anche violenta, di ogni forma di dissenso, dalla
subordinazione o asservimento di qualsiasi organismo sociopolitico, potenzialmente
concorrente[1], dalla personalizzazione del potere e dalla sua carismaticità[5].

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Il partito unico, fortemente gerarchizzato e burocratizzato, svolge nei regimi totalitari
le funzioni primarie di legittimazione del sistema dominante, di spinta al
coinvolgimento fino alla integrazione, di politicizzazione, mobilitazione e
controllo totale della società in tutti i suoi aspetti fino alla sua trasformazione secondo i
principi della ideologia che ne è alla base[1].

Il totalitarismo fascista nazista sublimò in sé, esasperandole, le caratteristiche dei


totalitarismi, superando anche sul piano istituzionale gli altri modelli[8].

Anche nell'esaltazione della leadership il totalitarismo fascista nazista si distinse


riuscendo a imporre il principio che il Führer è l'unica autorità, unica fonte di
legittimazione di qualsiasi altro potere, e ciò nella vigenza della Costituzione di Weimar,
che non fu mai abolita[9].

Con i decreti del 28 febbraio 1933, Hitler pose le basi dello Stato totalitario e, con la
legge sui pieni poteri, del suo dominio personale[10].

Assieme alla magistratura del tutto asservita, l'apparato poliziesco-repressivo costituì


una struttura portante del totalitarismo nazista: strumenti della repressione di ogni
opposizione e contro gli ebrei furono i campi di concentramento dove il degrado fisico e
spirituale era applicato scientificamente[11].

Nel progetto di nazificazione della società, un ruolo importante fu l'irregimentazione


ideologica della gioventù attraverso una nuova profonda rielaborazione spirituale del
Paese che escludesse ogni principio non riducibile al nazismo[12].

Alle caratteristiche comuni dei diversi totalitarismi si aggiunse l'ideologizzazione


dell'elemento razzistico che tipicizzò il nazismo: Hitler con l'esaltazione dei principi di
superiorità ariana, dell'unità nazionale basata sulla purezza di sangue, del volkstum,
penetrò profondamente nelle coscienze coinvolgendo la maggioranza della popolazione
tedesca[13].

L'attuazione di una politica razziale antisemita, di separazione prima, e di eliminazione


fisica poi, nata dalla teorizzazione della soluzione finale del problema ebraico[14], sfociò
nella tragedia storica della Shoah.

Il totalitarismo nazista portò alle estreme conseguenze l'ideologia razziale anche nei
confronti dei cittadini ariani che, per delle imperfezioni fisiche, avrebbero potuto
minacciare l'integrità della razza: a questo fine produsse una legislazione, il 14
luglio 1933, che ne stabiliva la sterilizzazione e, nel 1939, la morte per i malati di mente
giudicati inguaribili[15].

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Alleanze politiche

I tre membri principali dell'alleanza conosciuta come Asse erano Germania, Italia e
Giappone. Questi Paesi erano guidati dal dittatore tedesco Adolf Hitler, dal dittatore
italiano Benito Mussolini e dall'imperatore giapponese Hirohito

Paura del comunismo

Perché fondamentalmente non erano d'accordo con tutto ciò che il marxismo
rappresentava e lo consideravano un "complotto ebraico".

Se guardi i principi di base del nazismo e del marxismo fianco a fianco, è evidente che i
nazisti assumono esattamente la posizione opposta ai marxisti praticamente su tutto.

Il marxismo è internazionalista, il nazismo è ipernazionalista.

Il marxismo insegna che la storia è guidata dal conflitto di classe, il nazismo insegna
che la storia è guidata dal conflitto razziale.

Il marxismo insegna che la classe operaia è l'agente del cambiamento sociale, il


nazismo rifiuta il concetto di lotta di classe e insegna che tutti hanno bisogno di
conoscere il loro posto nella gerarchia per servire la nazione.

Il marxismo insegna che l'obiettivo è una società senza classi e senza denaro di
individui liberi ed eguali, il nazismo insegna che l'obiettivo è uno stato razziale
totalitario guidato da una classe di guerrieri "ariani" soggiogando e schiavizzando
"razze minori".

Il marxismo insegna la necessità di sostituire il capitalismo con il socialismo e


l'abolizione della proprietà privata del capitale, il nazismo (sebbene abbia "socialismo"
nel nome) insegna che la proprietà privata è sacra e deve essere protetta dallo stato.

Potrei continuare, ma hai avuto l'idea. Il nazismo si oppose fondamentalmente al


marxismo su tutti i principali principi e obiettivi. Erano nemici molto naturali.

Sotto Stalin, anche l'URSS è degenerata in una distopia totalitaria che non era così
diversa, in molti modi, dalla Germania nazista in pratica, ma questo perché Stalin aveva
ignorato e reinterpretato il marxismo per adattarsi al suo approccio. Inoltre, a livello di
propaganda, l'URSS puntava ancora alla terra paradisiaca del latte e del miele. Secondo
gli standard della propria ideologia, l'URSS era lontana dal suo percorso rivendicato.

Con i nazisti, tuttavia, l'orrore faceva parte della teoria e era assolutamente
intenzionale. L'ideologia nazista si basava su sciovinismo nazionale, militarismo,

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gerarchia e totalitarismo, non erano il risultato di "sfortunate deviazioni" ma il risultato
dell'attuazione del programma nazista come promesso.

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