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Uomini e problemi del Mezzogiorno d’Italia nell’Ottocento
Uomini e problemi del Mezzogiorno d’Italia nell’Ottocento
Uomini e problemi del Mezzogiorno d’Italia nell’Ottocento
E-book203 pagine2 ore

Uomini e problemi del Mezzogiorno d’Italia nell’Ottocento

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«Qualche volta bisogna cercare di sottrarsi al rumore incessante delle notizie che arrivano da ogni parte. Per capire il presente dobbiamo imparare a guardarlo di sbieco. Oppure, ricorrendo a una metafora diversa: dobbiamo imparare a guardare il presente a distanza, come se lo vedessimo attraverso un cannocchiale rovesciato. Alla fine l'attualità emergerà di nuovo, ma in un contesto diverso, inaspettato». Seguendo tali consigli storiografici, il presente lavoro affronta le tappe fondamentali e le peculiarità che portarono alla fine del Regno delle Due Sicilie e alla necessaria formazione dell'Italia unita, ma in modo particolare analizza il ruolo del Mezzogiorno nella costruzione dell'Italia contemporanea.Il libro, con i suoi limiti, vuole essere anche una critica all'uso pubblico del passato e, soprattutto, all'interpretazione della storia del Mezzogiorno con una forte ideologia legittimista, che ha fatto ritornare negli ultimi decenni una vecchia interpretazione storiografica, per la quale il crollo del Regno borbonico non avvenne per dinamiche interne, ma per la semplice conquista piemontese. Questa tendenza storiografica ha parlato di saccheggio delle ricchezze meridionali, di smantellamento delle industrie del sud al momento dell'Unità, di unificazione forzata e di disillusione delle speranze dei contadini, i "briganti partigiani", che si ribellarono alle violenze subite dagli invasori, difendendo anche la presunta identità meridionale, contrapposta a quella settentrionale. Questa tendenza storiografica, sempre restando nella scia dell'«uso pubblico della storia», ha addirittura sostenuto che i problemi economici del Mezzogiorno sarebbero nati al momento dell'Unità con la colonizzazione dei Piemontesi. Il libro, per questo, è dedicato e indirizzato ai giovani, perché si sta consolidando sempre di più un processo di distruzione del passato. Infatti, come scrisse nel 1989 Eric Hobsbawm, «la maggior parte dei giovani, alla fine del secolo, è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono».
LinguaItaliano
Data di uscita18 gen 2023
ISBN9791221416817
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    Anteprima del libro

    Uomini e problemi del Mezzogiorno d’Italia nell’Ottocento - Ferdinando Di Dato

    Il 1799 a Napoli

    Nei vari stati italiani di fine Settecento erano esiliati gli intellettuali più radicali della Rivoluzione francese, come il toscano Filippo Buonarroti e il còrso Antoine Christophe Saliceti, che portarono e organizzarono la propaganda rivoluzionaria in Italia⁸ e i giacobini italiani per aver avuto contatti con questi, a torto, furono considerati estremisti. Sotto l’influenza delle idee francesi, l’Italia fu percorsa dalle aspirazioni rivoluzionarie e queste, che infervorarono solo una piccola minoranza delle classi dirigenti, quelle intellettuali, fecero nascere le cosiddette Repubbliche sorelle, le quali però ebbero vita breve, come la Repubblica di Alba, la Repubblica Cispadana e la Repubblica romana. Di fronte alla creazione di quest’ultima realtà, il re di Napoli Ferdinando IV, fomentato dagli inglesi, attaccò militarmente Roma per restaurarvi il potere papale. Ma sconfitto dal generale francese Championnet, si ritirò fino a Napoli, dalla quale, il 21 dicembre del 1798, fuggì per mare alla volta di Palermo, lasciando come suo vicario Francesco Pignatelli, principe di Strongoli.

    Nel frattempo, nella capitale nascevano i fermenti rivoluzionari per la creazione della Repubblica Napoletana. A Napoli avvenne, però, qualcosa di nuovo, che ancora non si era verificato nelle altre città conquistate dai Francesi. Il popolo, che altrove aveva assistito, indifferente, alle lotte politiche e militari fra classi dirigenti filofrancesi e classi dirigenti filoaustriache, insorse contro una serie di problematiche, quali: la miseria; il re che aveva provocato la guerra per poi abbandonare la capitale ai Francesi; contro gran parte dei nobili illuminati e colti, accusati di giacobinismo e di essere al servizio del nemico; e contro l’esercito d’occupazione francese.

    A Napoli scoppiò, insomma, un’antirivoluzione popolare, in cui i «lazzaroni»⁹ combatterono per le strade e con atti di guerriglia contro l’occupazione francese. Sconfitti i «lazzaroni», i rivoluzionari fondarono la più giacobina delle repubbliche sorelle: la Repubblica Napoletana, che però avrebbe conosciuto una tragica conclusione. La Repubblica napoletana, tuttavia, nonostante la sua drammatica vicenda, fu un momento caratterizzante non solo per la storia meridionale, ma per tutta la tradizione democratica italiana. Questi avvenimenti erano in effetti l’epilogo di ciò che avvenne dopo il 1789, quando la rivoluzione aveva sconvolto e trasformato prima la Francia e poi molti paesi d’Europa: la Rivoluzione francese aveva bruciato le tappe della storia e nulla poteva essere più come prima.

    Tutto ciò avvenne dopo l’importante esperienza del riformismo, quando anche il giovane Regno di Carlo di Borbone assistette alle guerre europee e atlantiche, alla circolazione di nuove idee economiche e politiche e alle rivoluzioni. I Paesi, subito coinvolti, furono quelli che avevano vissuto con intensità le idee illuminate. Così, quando nel dicembre del 1792 la flotta da guerra francese arrivò nel golfo di Napoli, si aprirono ambiziose speranze tra gli intellettuali napoletani, di estrazione sia borghese che nobiliare. Dopo meno di due anni, il governo borbonico fece il primo rastrellamento dei repubblicani e inviò un corpo di spedizione a Tolone affiancando gli Inglesi contro i Francesi. Il Regno di Napoli così entrò nel conflitto europeo, diventando per quasi trent’anni un terreno di sperimentazione privilegiato tra guerra e rivoluzione; una dialettica che condizionò la costruzione del nuovo Stato e l’assetto socioeconomico del Regno. La guerra e la politica internazionale, dunque, stimolarono le elites napoletane a partecipare ai dibattiti ideologici europei¹⁰, che sarebbero durati fino all’unificazione. Era la prima volta che la popolazione, nelle sue diverse componenti, svolgeva una parte attiva nelle decisioni che la riguardavano. Con l’arrivo dei Francesi per la prima volta la lotta si svolgeva non per sostenere una potenza contro un’altra, in nome della fedeltà dinastica o di interessi nobiliari, ma si combatteva per un programma politico, cioè per sostenere il trono e l’altare, per sostenere un regime monarchico dispotico e clericale, oppure per abbattere l’assolutismo e instaurare una repubblica democratica. Anche a Napoli, come in Francia e nelle altre repubbliche italiane, si scopriva la politica con la lotta tra liberalismo e assolutismo. Il Borbone, come si è detto, si allineò subito contro la Francia rivoluzionaria e successivamente contro il liberalismo, ma una buona parte della classe dirigente si schierò per le nuove idee. Il conflitto tra rivoluzionari e controrivoluzionari, che continuò nel Decennio francese, fu il preludio di quello che diventò l’inizio di un processo di politicizzazione della società meridionale e italiana, consentendo la diffusione della violenza politica e dell’elaborazione ideologica¹¹.

    Alla fuga del Re, si ebbe nella capitale un periodo di sbandamento, durante il quale le diverse forze in campo cercarono di occupare il vuoto di potere creatosi. Per prima cosa, furono contestati i poteri del vicario dagli Eletti della città che, sostenendo di essere i soli rappresentanti legittimi del Regno in assenza del Re, nominarono il 30 dicembre una «Deputazione del Buon Governo», alla quale, però, il vicario riconobbe soltanto il compito di organizzare la milizia urbana. Oramai i poteri del vicario erano fortemente screditati e di fronte a ciò il principe di Canosa, Antonio Capece Minutolo, rilanciò il vecchio sogno nobiliare di una «repubblica aristocratica». Altri nobili, invece, come spesso era accaduto nella storia del Regno, pensarono di poter assicurare la propria continuità al potere accordandosi con i Francesi, come se si trattasse di un semplice cambiamento dinastico. Gli Eletti però furono prevenuti dallo stesso vicario Francesco Pignatelli, che sottoscrisse con il generale francese Championnet l’armistizio di Sparanise; all’annuncio di questa notizia, a Napoli, il 12 gennaio, scoppiò la rivoluzione. Il popolo, infatti, che aveva fino a quel momento accettato l’autorità del vicario del re, insorse assalendo i castelli e le carceri. Di fronte a ciò, il 16 gennaio il vicario fuggì a Palermo e il 23 gennaio il generale Championnet, superate le resistenze dei lazzari, i soli a difendere la città, entrò a Napoli. Mentre i repubblicani il giorno 21, avendo conquistato Castel S. Elmo, proclamarono la Repubblica Partenopea¹². Quest’ultima, che fu un vero e proprio campo di sperimentazione politica, tentò subito di eliminare l’antico sistema feudale, ancora vigente nelle campagne meridionali e affrontò anche altri problemi importanti per la causa rivoluzionaria, come l’alfabetizzazione e la propaganda delle idee di libertà fra le masse contadine. Infatti, scrive il Galanti, che su 80.000 famiglie che componevano la popolazione, 60.000 erano del popolo; fra le altre 20.000, che costituivano «la parte culta», nobiltà, clero e ceto forense erano anch’essi ostili a un cambiamento che si fondava sulla sola forza delle armi francesi¹³.

    I migliori ingegni della gloriosa scuola illuminista napoletana si misero al servizio della repubblica e, come era successo a Milano prima di Campoformio, la creatività intellettuale, l’utopia e la speranza si sentirono per una brevissima stagione al potere.

    Importante, ma mai applicata dopo lunghi dibattiti, fu la legge antifeudale, dato che «nella redazione definitiva del progetto furono abolite tutte le giurisdizioni e le concessioni in feudo, i titoli, i diritti di servizio personale, le decime, i diritti proibitivi (monopoli), i diritti di passo, zecca e misura»¹⁴. Vennero poi soppressi maggiorascati e fedecommessi e aboliti terraggi, fida, laudemi di origine feudale, escluse le prestazioni pagate ai baroni¹⁵ «a titolo di censo, di colonia e di concessione enfiteutica, purché esista il titolo primitivo e il contratto di concessione, il quale dimostri di non esservi usurpazione feudale e che le rendite siano il prezzo del fondo concesso»¹⁶. Mentre i demani sarebbero dovuti passare alle Università e ai baroni invece sarebbero rimasti i beni burgensatici, i loro edifici e le terre feudali da loro possedute. A quest’opera di trasformazione e di rinnovamento delle strutture economiche e sociali parteciparono anche numerosi ex-baroni¹⁷ (tanto che si parlò anche di «formare un governo aristocratico»)¹⁸, i quali capirono di poter ottenere maggiori vantaggi da questo cambiamento, come la rendita più alta, la piena proprietà delle terre feudali e l’eliminazione dei pagamenti degli antichi tributi al re (ius relevio, ius tappeti, ius devolutionis, adoa), eliminando, così, le giurisdizioni baronali, le prestazioni personali e i diritti proibitivi della legge feudale¹⁹. La maggior parte della loro rendita ora veniva dai terraggi e dagli affitti delle terre. Questo ci porta anche a pensare che la rivoluzione non era solo ispirata dagli «ideali astratti», ma anche da fattori economici legati alla proprietà²⁰. Nel 1799 i rivoluzionari più radicali, come il Russo, si preoccuparono di eliminare drasticamente tutto ciò che era legato al passato²¹.

    Nei suoi cinque mesi di vita, la Repubblica ebbe due governi. Il primo governo repubblicano, nato in circostanze di emergenza, unificava eccezionalmente potere esecutivo e potere legislativo e doveva essere soltanto provvisorio e costituente, in attesa dell’elaborazione e dell’approvazione del testo costituzionale per lo svolgimento di regolari elezioni: ma non ci fu tempo per questo. Il Governo provvisorio fu nominato il 23 gennaio (4 piovoso del nuovo calendario repubblicano) dal generale Championnet: ma furono i patrioti che già avevano proclamato la Repubblica a designarne i venticinque membri del governo, che era diviso in sei comitati: il Comitato centrale esecutivo, i Comitati di legislazione, della guerra, delle finanze, di polizia generale e dell’interno. I loro progetti di legge dovevano essere sottoposti all’approvazione dell’assemblea e alla ratifica finale del generale in capo francese. Vi erano inoltre quattro ministeri: Guerra, Finanze, Interno, Giustizia e Polizia. Parteciparono a questo governo provvisorio tutte personalità della cultura come Carlo Lauberg, Domenico Cirillo, Francesco Mario Pagano.

    Bisogna dire però che la rivoluzione ebbe dei limiti nel tempo e nello spazio, perché durò solo cinque mesi e si consolidò solo in Campania, in Puglia e in alcune città del Regno²². Le cause del suo fallimento, tuttavia, vanno ricercate sul piano internazionale, perché le sorti della repubblica giacobina era legata alla Francia, che era alle prese con una difficile situazione politica interna ed estera. Falliti i negoziati di Rastadt, gli Austriaci, con il sostegno della Russia, rientrarono in Italia e diedero avvio alle ostilità della seconda coalizione contro la Repubblica francese, sancendo così il naufragio del progetto diplomatico transalpino di tenere lontane l’Austria e l’Inghilterra da una possibile alleanza. Nella primavera del 1799 i Francesi persero tutta l’Italia settentrionale tranne Genova, mentre nel mese di giugno le truppe sanfediste, guidate dal cardinale Fabrizio Ruffo, abbattevano la Repubblica Napoletana. Il movimento sanfedista fu così pronto e spontaneo che il cardinale Ruffo, una volta sbarcato con alcuni uomini in Calabria e nelle Puglie, poté facilmente indirizzarlo, senza difficoltà, verso Napoli e restaurare la religione cristiana e la monarchia borbonica. Le bande sanfediste percorsero la via del grano (Altamura, Spinazzola, Venosa, Melfi, Ariano e Nola), tagliando così i rifornimenti alla capitale. In questo momento fu vincente lo schieramento che seppe meglio convincere e aggregare le forze contadine. La Santa fede nei fatti era un esercito costituito dalle plebi rurali e cittadine, che si formò a mano a mano che avanzava in nome della fede cattolica e del re, gridando «viva il re e viva la religione». Il cardinale Ruffo le organizzò facilmente in nome del re e della religione, sfruttando la mentalità dei contadini lontani da Napoli, che vedevano il re come fautore di giustizia contro i baroni e Dio come il protettore dei loro raccolti. Il cardinale seppe unire a sé molti moti locali e indirizzarli con violenza contro i patrioti repubblicani, che non avevano più l’ausilio dei Francesi a causa della guerra contro la seconda coalizione. I Francesi così abbandonarono Napoli per risalire la penisola abbandonando alla loro sorte i repubblicani. Per il Direttorio, Napoli rappresentava un fronte secondario, rispetto a quello dell’Europa centrale; la penisola italiana, nell’ottica francese, doveva solo garantire i capitali necessari per risanare il deficit delle finanze francesi e servire, eventualmente, per barattarla in sede diplomatica.

    I repubblicani, rinchiusi nel Castel S. Elmo, si videro circondati dalla Santa Fede via terra e dagli Inglesi via mare e furono costretti ad arrendersi, al patto di poter abbandonare la città e rifugiarsi in Francia. Ma alla loro partenza gli Inglesi fermarono la nave e li arrestarono, facendoli giustiziare a Piazza Mercato. Tra i martiri ricordiamo Eleonora Fonseca Pimentel, Vincenzo Russo e Gennaro Serra di Cassano.

    Si deve necessariamente dire che «l’uso della violenza popolare in funzione antigiacobina era dunque nel Ruffo puramente strumentale. Essa andava utilizzata nella misura necessaria, ma occorreva che questa misura fosse la minima possibile. In tal modo le strutture socio-economiche, che nemmeno la rivoluzione riusciva a trasformare, non sarebbero state minacciate da una reazione che sembrava in alcuni luoghi svilupparsi in una rivolta sociale. Anche se quest’ultima si espresse essenzialmente nel sanfedismo, non mancò, in qualche luogo, la partecipazione dei contadini al movimento rivoluzionario. Sia i contadini che si batterono con Ruffo sia quelli che furono con il governo repubblicano lottarono per gli stessi obiettivi, che non coincidevano né con quelli dei patrioti e dei Francesi, né con quelli del Borbone»²³. Gli scontri fratricidi si estesero a tutta la popolazione; infatti furono uccisi e attaccati anche i civili. Si accese una vera e propria guerra civile, ma si trattò soprattutto di un fenomeno endemico, una forma di mobilitazione e politicizzazione permanente, con una significativa incidenza della violenza, che sviluppò e interpretò lo spirito di partito e di fazione. I rivoluzionari non capirono che la maggioranza della popolazione in una «rivoluzione passiva», come la definì il Cuoco, andava subito conquistata non con le idee ma facendo toccare al popolo con mano i possibili vantaggi di queste idee. La stessa discussione sull’abolizione della feudalità²⁴ non fu capita dai contadini, che vedevano dalla seconda metà del Settecento un peggioramento delle loro condizioni economiche, perché privati sempre di più dei loro tradizionali punti di riferimento con il lento processo di disgregazione del feudalesimo, la privatizzazione dei demani e con l’erosione della gestione collettiva e degli usi civici. In questo contesto, si inserì abilmente il cardinale Ruffo, portando verso di sé i contadini ed evitando una rivoluzione sociale. I contadini, pur odiando i baroni, perché loro sfruttatori, non volevano eliminare i feudi, in quanto questi garantivano, per un principio etico, un minimo livello di sussistenza.

    Cuoco, infatti, evidenziando ciò, scriveva:

    L’abolizione de’ feudi, per esempio, reca un danno notabile al feudatario; ma, più del feudatario, sono da temersi coloro che vivono sul feudo. Il popolo trae ordinariamente la sussistenza da costoro; comprende che, dopo un anno, senza il feudatario vivrebbe meglio, ma senza di lui non può vivere un anno: il bisogno del momento gli fa trascurare il bene futuro, quantunque maggiore. Il talento del riformatore è allora quello di rompere i lacci della dipendenza, di conoscer le persone egualmente che le cose, di far parlare il rispetto, l’amicizia, l’ascendente che taluno, o bene o male, gode talora su di una popolazione.²⁵

    Le cause interne del fallimento, dunque, sono legate alle divisioni del fronte repubblicano sulle antiche questioni del Regno, già a lungo discusse dai riformatori sotto re Carlo di Borbone²⁶. La moderazione dei repubblicani nel campo della lotta contro i feudatari e le esitazioni che essi ebbero a tale proposito nell’elaborazione della legge eversiva della feudalità furono indubbiamente assai dannose alla rivoluzione, perché impedirono ai contadini poveri di rendersi conto dei benefici che avrebbero potuto trarre dalla rivoluzione: «il popolo non si muove per raziocinio, ma per bisogno»²⁷. La moderazione che i repubblicani mostrarono

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