Il Pensiero Politico Italiano Nel 900 PDF
Il Pensiero Politico Italiano Nel 900 PDF
Il Pensiero Politico Italiano Nel 900 PDF
(Modulo M00036)
1.5 - Le riviste "La critica" e "Leonardo", il positivismo e il parlamentarismo attaccati da due fronti
2.1 - Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Le posizioni dei due filosofi nel periodo prebellico
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Il pensiero politico italiano del Novecento
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2.2 - Il dibattito sul socialismo e sul marxismo in Italia: Labriola, Croce e Gentile
4.1 - La Prima guerra mondiale come spartiacque della storia sociale europea e l'avvento del fascismo
4.4 - Antonio Gramsci, intellettuale comunista e perseguitato politico. Il PCI come "nuovo principe"
5.1 - Don Luigi Sturzo e il Partito Popolare Italiano, la presenza dei cattolici nella politica
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Il pensiero politico italiano del Novecento
Nicola Antonetti
L'unità didattica presenta le due figure di pensatori e teorici del pensiero politico del Novecento.
Guida al modulo
Il seguente modulo ha come scopo generale la presentazione di elementi utili a inquadrare lo sviluppo del
pensiero politico in Italia nel periodo compreso tra la fine del Diciannovesimo secolo e la prima fase di storia
dell’Italia repubblicana (all’incirca, dunque, il periodo che va dal 1898 al 1960). Tale periodo è attraversato
dalla duplice crisi delle guerre mondiali (1915-1918 e 1940-1945) e, tra di esse, dal ventennio di dittatura
fascista (1922-1943). La sua parte conclusiva è inaugurata dal momento fondante dell’approvazione della
Costituzione della Repubblica italiana (1 gennaio 1948) nel cui quadro si sarebbero definiti i nuovi
orientamenti di cultura e di organizzazione politica.
Obiettivi del modulo sono la conoscenza delle principali figure del dibattito filosofico-politico in Italia,
rappresentative non soltanto di diverse correnti ideali (liberalismo, marxismo, cattolicesimo sociale,
nazionalismo, etc.) ma anche di concrete forze sociali in grado di orientare e di organizzare la società italiana
e di definire i diversi momenti di sviluppo del suo sistema politico.
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Secondo obiettivo è l’individuazione del nesso tra l’elaborazione del pensiero e alcuni tra i principali eventi
della storia d’Italia (post-risorgimento e crisi dello Stato; partecipazione alle guerre mondiali; evoluzione
della questione sociale). Si tenderà quindi a vedere gli autori non soltanto come "autori", nello studio della
genesi e dell’articolazione dei loro concetti, ma il più possibile in relazione al contesto storico e ambientale
di appartenenza.
Terzo e fondamentale obiettivo quello di fare emergere i caratteri della "specificità" italiana nel corso della
vicenda ideologica del Novecento: gli aspetti peculiari che dal punto di vista culturale, religioso e civile,
anche in termini di contraddizione (tra Nord e Sud, tra Stato e Chiesa etc.), hanno segnato la storia della
nazione.
Obiettivo di questa unità didattica è approfondire modalità, cause e sviluppi del fenomeno genericamente
definito "crisi dello Stato liberale". L'unità didattica mira a descrivere le nuove istanze del pensiero politico a
fine Ottocento e nel primo ventennio del Novecento, i termini della "questione cattolica", la critica al sistema
positivista e liberale, la nuova presenza delle masse nella vita pubblica e i gravi problemi posti da esse, i
movimenti politici del periodo, e le correnti di pensiero spesso riunite attorno alle riviste culturali.
Sottoobiettivo: approfondire cause e modalità della "crisi dello Stato liberale" di fine Ottocento.
Sottoobiettivo: approfondire il problema allora irrisolto del rapporto tra Stato liberale di matrice
risorgimentale e i cattolici italiani, noto come "questione cattolica".
Sottoobiettivo: comprendere il significato e gli esiti della crescente presenza delle masse (e dei movimenti e
partiti di massa) negli scenari politici, con cenni agli studi effettuati a riguardo.
Sottoobiettivo: definire per sommi capi il concetto di "parlamentarismo" ed esaminare le critiche mosse a
tale sistema dagli organi di stampa degli intellettuali italiani
Sottoobiettivo: conoscere il pensiero e l'opera di Antonio Labriola nel quadro della cultura dell'epoca e del
commento al marxismo.
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Sottoobiettivo: conoscere l'interpretazione crociana del pensiero di Labriola e del marxismo teorico.
Sottoobiettivo: apprendere i termini dell'approccio di Gentile alle teorie marxiste, e in questo ambito definire
la nozione gentiliana di "prassi".
Sottoobiettivo: conoscere il pensiero e le teorie di Gaetano Mosca e i termini della sua critica al
"parlamentarismo".
Sottoobiettivo: conoscere pensiero e teorie di Vilfredo Pareto e la sua concezione della storia politica.
Sottoobiettivo: apprendere pensiero e teorie di Robert Michels, in particolare sull'analisi del "partito politico"
come elemento della sociologia moderna.
Sottoobiettivo: saper descrivere il lascito drammatico del primo conflitto mondiale al pensiero, alla società e
alla cultura italiana del Novecento. Comprendere come, e in quale misura, si possa considerare il fascismo
come una conseguenza della guerra e descrivere in linea di massima le modalità dell'instaurazione e le
caratteristiche del regime fascista nel secondo decennio del secolo.
Sottoobiettivo: descrivere gli schieramenti e le argomentazioni degli intellettuali fascisti e antifascisti italiani,
rispettivamente capeggiati da Gentile e Croce, e dei rispettivi "manifesti".
Sottoobiettivo: conoscere a grandi linee la vita, il pensiero e l'opera di Antonio Gramsci, soprattutto in vista
delle sue interpretazioni teoriche del marxismo, della sua teoria storico-culturale e sociale (concetto di
"blocco storico"), della sua interpretazione del Partito Comunista Italiano come di "nuovo principe" (da
Machiavelli) e gli esiti del suo pensiero.
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politici dell'antifascismo.
Sottoobiettivo: conoscere il pensiero e l'opera di Don Luigi Sturzo (anche in quanto fondatore di un nuovo
soggetto politico, il Partito Popolare Italiano) e saper descriverne l'importanza nel processo di risoluzione
della "questione cattolica" in Italia.
Sottoobiettivo: conoscere il pensiero e l'opera di Gaetano Salvemini e dei fratelli Carlo e Nello Rosselli.
Sottoobiettivo: conoscere gli sviluppi del pensiero antifascista e democratico italiano e il ruolo ricoperto dai
suddetti esponenti nell'immediato secondo dopoguerra.
Sottoobiettivo: conoscere lo scenario politico italiano durante e immediatamente dopo la guerra civile e la
Liberazione (1943-45).
Sottoobiettivo: conoscere la figura e l'opera di Alcide De Gasperi, in quanto segretario e dirigente della
Democrazia Cristiana.
Sottoobiettivo: conoscere la figura e l'opera di Palmiro Togliatti, in quanto segretario e dirigente del Partito
Comunista Italiano.
- De Gasperi, Alcide
- Gramsci, Antonio
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- Labriola, Antonio
- marxismo
- Pareto, Vilfredo
- Salvemini, Gaetano
- socialismo
- Sturzo, Luigi
- Togliatti, Palmiro
Attività richieste
Lettura e studio dei materiali che compongono il modulo. Svolgimento degli esercizi.
- Mussolini, Benito
- positivismo
- Sonnino, Sidney
- Stalin, Iosif Vissarianovi?
- Turati, Filippo
Fonti
Norberto Bobbio, De Senectute e altri scritti autobiografici, Torino, Einaudi, 1996.
Norberto Bobbio, Profilo ideologico del Novecento italiano, Torino, Einaudi, 1986.
Benedetto Croce, Contributo alla critica di me stesso, Milano, Adelphi, 1989 (ed. or. 1915).
Benedetto Croce, Materialismo storico ed economia marxista, Bari, Laterza, 1951 (ed. or. 1900).
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Benedetto Croce, Del materialismo storico. Delucidazione preliminare (1896), ora in Benedetto Croce,
Scritti filosofici e politici, Torino, Einaudi, 1973.
Benedetto Croce, Manifesto degli intellettuali antifascisti, in Emilio R. Papa, Fascismo e cultura, Venezia,
Marsilio, 1974.
Benedetto Croce, Sulla forma scientifica del materialismo storico, ora in Benedetto Croce, Scritti filosofici e
politici, Torino, Einaudi, 1973.
Alcide De Gasperi, Idee ricostruttive della Democrazia Cristiana e Il Programma della Democrazia
Cristiana, in Alcide De Gasperi, Scritti politici di Alcide De Gasperi, Milano, Feltrinelli, 1979.
Augusto Del Noce, Analisi del linguaggio, "Il Popolo Nuovo", 12 maggio 1945.
Giovanni Gentile, La filosofia di Marx, Firenze, Sansoni, 1974 (ed. or. 1899).
Giovanni Gentile, Guerra e fede, Roma, De Alberti, 1927 (ed. or. 1918).
Giovanni Gentile, I fondamenti della filosofia del diritto, Firenze, Sansoni, 1955 (ed. or.1916).
Giovanni Gentile, L'atto del pensare come atto puro, in Giovanni Gentile, La riforma della dialettica
hegeliana, Firenze, Sansoni, 1954.
Giovanni Gentile, Manifesto degli intellettuali fascisti, in Emilio R. Papa, Fascismo e cultura, Venezia,
Marsilio, 1974.
Piero Gobetti, Risorgimento senza eroi e altri scritti storici, Torino, Einaudi,1976.
Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, a cura di V. Gerratana, 4 voll., Torino, Einaudi, 1975.
Antonio Labriola, In memoria del manifesto dei comunisti, Milano, edizioni Avanti!, 1960.
Antonio Labriola, Del materialismo storico. Delucidazione preliminare, ora in Antonio Labriola, Scritti
filosofici e politici, Torino, Einaudi, 1973.
Leone XIII (Papa), Rerum novarum, in Igino Giordani, Le encicliche sociali dei papi, vol. I, da Pio IX a Pio
XII (1864-1956), Roma, Studium, 1956.
Sidney Sonnino, Torniamo allo Statuto, in Scritti e discorsi extraparlamentari. 1870 -1922, a cura di B. F.
Brown, vol. I, Bari, Laterza, 1972.
Letture consigliate
Ettore A. Albertoni (1990), Storia delle dottrine politiche in Italia, vol. II, Milano, Edizioni di Comunità.
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Norberto Bobbio (1986), Profilo ideologico del Novecento italiano, Torino, Einaudi.
Norberto Bobbio (1998), Saggi sulla scienza politica in Italia, Bari, Laterza.
La cultura civile (1992), a cura di N. Matteucci, vol. I, della serie L’Italia e la formazione della civiltà
europea, in particolare i saggi relativi al Novecento di M. Visentin, G. Bedeschi, D. da Empoli, G. Sola, G.
Pasquino, L. Levi, Torino, UTET.
Renzo De Felice (1975), Intervista sul fascismo, a cura di M. A. Ledeen, Roma-Bari, Laterza.
Eugenio Garin (1987), Intellettuali italiani del Novecento, Roma, Editori Riuniti.
Roberto Michels (1966), La Sociologia del partito politico nella democrazia moderna, Bologna, Il Mulino.
Francesco Traniello (1990), Città dell’uomo. Cattolici, partito e stato nella storia d’Italia, Bologna, Il
Mulino.
Sitografia
- Benedetto Croce e Giovanni Gentile a confronto :
http://www.homolaicus.com/teoria/filosofia_moderna/filosofia_italiana.htm
- I testi del “Manifesto degli intellettuali del fascismo” e del “Manifesto degli intellettuali antifascisti”:
http://www.maat.it/livello2/fascismo-manifesto.htm
- Un ricco sito interamente dedicato ad Alcide De Gasperi, a cura dell’Istituto Luigi Sturzo:
http://www.degasperi.net/
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1.5 - Le riviste "La critica" e "Leonardo", il positivismo e il parlamentarismo attaccati da due fronti
L'assassinio di re Umberto I
Il giovane Stato unitario italiano conobbe, tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento, una delle sua
crisi più acute, nota appunto come "crisi di fine secolo" (vedi il modulo La società italiana dopo
l’unificazione, UD 4): la repressione sanguinosa dei moti di Milano del 1898 (80 morti tra i civili) e
l'assassinio del re Umberto I, il 29 luglio 1900, rendevano evidente in modo emblematico il disagio che
attraversava il Paese.
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Certamente cause di natura economica, quali la prima industrializzazione con la diffusione delle aspettative
ad essa connesse e il crescente divario nello sviluppo tra il Nord e il Sud dell'Italia, ebbero un ruolo
determinante nella crisi. In realtà, più al fondo, si trattava di una convulsione quasi fisiologica per un
organismo statale che era stato pensato e realizzato per guidare una nazione nella quale gran parte della
popolazione era di fatto esclusa dalla partecipazione politica.
In questo senso, è opportuno evidenziare, sia pure sinteticamente, il "raccordo preciso tra le vicende storico-
politiche e dottrinarie dell'Ottocento con quelle del secolo successivo" (Albertoni 1990: 569-570). Infatti le
modalità con le quali si era realizzata l'unificazione nazionale aveva lasciato irrisolte numerose questioni:
innanzitutto quella del rapporto dei cattolici con il nuovo Stato e quella sociale.
Così, l'altra grande questione, quella sociale, era il terreno sul quale il particolare socialismo italiano (di fatto
lontano dal marxismo e assai più determinato dall'anarchismo, e poi dal positivismo) si era sviluppato: anche
in questo caso la strategia statale non poteva alla lunga restare soltanto quella di limitare o escludere la
partecipazione politica delle masse operaie, che in quegli anni emergevano come nuova realtà sociale.
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Leone XIII
Filippo Turati
Il costituirsi delle prime forme di organizzazione di massa, il delinearsi di una esplicita critica alla
democrazia da parte del ceto politico liberale, come la coscienza delle forti contraddizioni del sistema
democratico da parte degli "elitisti" (questione sulla quale ritorneremo), sono fenomeni che vanno inseriti in
tale contesto. Ricordiamo, in questo senso, l'articolo pubblicato da Sidney Sonnino (vedi la voce Sonnino,
Sidney) il 1 gennaio 1897, Torniamo allo Statuto, come esemplare dell'invito al sovrano a riprendere
interamente le proprie funzioni e ad esautorare il Parlamento. D'altra parte va ricordata la lenta ma
inarrestabile diffusione delle organizzazioni cattoliche, come di quelle operaie: il rigoglio di iniziative sociali
dei cattolici, successivo alla enciclica Rerum Novarum (1891) di papa Leone XIII e la nascita del Partito
Socialista Italiano nel 1893, guidato da Filippo Turati, rendevano palesi le questioni irrisolte che
determinavano la vita del Paese.
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genericamente culturale, nei primi anni del secolo si impose una altrettanto radicale critica al positivismo
(vedi la voce positivismo).
In realtà, come è stato scritto, si trattava dell'attacco ad un nemico già moribondo (Bobbio 1986: 7): per
diverse ragioni la concezione sistematica ed evoluzionista del positivismo, non sembrava affatto adeguata a
rappresentare quelle novità sia storiche (le masse e la loro irrazionalità) sia teoriche (lo spazio sempre più
grande che la "volontà", il "sentimento" avevano nella stessa riflessione filosofica), che si imponevano con
forza nella società italiana ed europea del primo Novecento.
La distanza tra le due riviste, composta e classica la prima, iconoclasta e vitalista la seconda, non elimina la
constatazione che entrambe proponessero alcuni temi come la ripresa dello spirito contro la materia, della
creatività e vitalità contro l'intellettualismo ed il razionalismo che si andavano diffondendo in misura sempre
maggiore tra gli intellettuali.
Questo tentativo voleva evitare consapevolmente che la Chiesa cattolica, con la propria influenza sulle masse
contadine e il Partito socialista, interprete delle rivendicazioni del mondo operaio, potessero minare il già
difficile processo di integrazione nazionale. In realtà l'impegno per la formazione di una cultura nazionale
non avrebbe potuto, come il fascismo di lì a poco dimostrerà, evitare di tenere in debito conto sia il legame di
parte della popolazione con la Chiesa cattolica, che la questione sociale e operaia.
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2.1 - Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Le posizioni dei due filosofi nel periodo prebellico
2.2 - Il dibattito sul socialismo e sul marxismo in Italia: Labriola, Croce e Gentile
2.1 - Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Le posizioni dei due filosofi nel
periodo prebellico
Benedetto Croce
L'influenza di Benedetto Croce (Pescasseroli, L’Aquila, 1866 – Napoli, 1952) e Giovanni Gentile
(Castelvetrano, Trapani, 1874 – Firenze, 1944) sulla cultura italiana prima della "Grande guerra" è politica in
senso lato: più che ad una precisa posizione politica i due intellettuali rimandavano ad un comune
orientamento ideale e filosofico.
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Giovanni Gentile
Quando nel gennaio 1903 venne pubblicato il primo numero de "La Critica" la stima tra i due studiosi era
tale che il più anziano filosofo affidò a Gentile la rilettura della più recente filosofia italiana, riservando a se
stesso lo stesso compito per quanto riguardava la letteratura. Le diversità che pure esistevano tra i due erano
messe in ombra dall'ambizioso progetto che li accomunava, quello di offrire una nuova coscienza culturale e
politica al Paese: le diversità sul modo di intendere l’evoluzione dello Stato liberale sarebbero venute alla
luce proprio di fronte alla guerra e negli anni immediatamente successivi ad essa.
Antonio Labriola
Uno dei primi documenti della non identità delle rispettive posizioni di Croce e di Gentile è il confronto che
entrambi, tra il 1896 e il 1900, intrattennero con il marxismo teorico, in modo particolare con le tesi di
Antonio Labriola (Cassino, 1843 – Roma, 1940; vedi la voce Labriola, Antonio), il filosofo e professore
universitario, tra i primi commentatori in Italia dell’opera di Marx. L’influsso che il dibattito ebbe sul
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socialismo italiano - che come abbiamo accennato era guidato in quegli anni da Turati (Conzo, Como, 1857
– Parigi, 1932: vedi la voce Turati, Filippo), forse con scarsa ortodossia marxista, ma sicuramente con
lungimiranza pratica, in particolare sulla rivista "La Critica sociale" da lui fondata nel 1901 - fu tuttavia
piuttosto scarso. È invece utile precisare alcune divergenze tra Croce e Gentile che iniziarono, in
quell'occasione, a delinearsi.
Labriola pubblicò nel 1895 In memoria del Manifesto dei comunisti, e nel 1896 Del materialismo storico.
Delucidazione preliminare. Tali scritti originarono quel dibattito sul marxismo teorico al quale parteciparono
Croce, Gentile e Georges Sorel. Quest'ultimo era un pensatore francese che teorizzava l'"azione diretta", al di
fuori dei partiti, ai suoi occhi ormai compromessi con il potere: Sorel e il suo "sindacalismo rivoluzionario"
ebbero un influsso notevole nel pensiero politico italiano.
In questo clima Labriola, pur legato al socialismo italiano, ne avvertiva come limite la mancanza di una seria
prospettiva teorica marxista: il suo principale merito fu di impegnarsi in uno studio dei testi di Marx, così da
svincolare il socialismo dal positivismo e dall'evoluzionismo e giungere alla riproposta di un marxismo che
fosse insieme capacità di azione critica e "concezione del mondo".
suscitò in me per la prima volta un sembiante di appassionamento politico, dandomi uno strano sapore di
nuovo, come a chi per la prima volta, e non più giovane, si innamori e osservi in sé medesimo il misterioso
processo della nuova passione. A quel fuoco bruciai altresì il mio astratto moralismo e appresi che il corso
della storia ha diritto di trascurare e schiacciare gli individui (Croce, Contributo alla critica di me stesso: 35).
L'"innamoramento" di Croce durò in realtà assai poco: egli, pur stampando a proprie spese lo scritto di
Labriola sul Manifesto, in una serie di scritti pubblicati tra il 1896 ed il 1899 criticò le tesi di Labriola e nel
1900 pubblicò Materialismo storico ed economia marxistica , nel quale raccolse i propri interventi nel
dibattito: egli riteneva così di avere chiuso la parentesi marxista della propria vita.
Proprio quegli aspetti che Croce riteneva gli insegnamenti positivi dell'incontro con il marxismo, il richiamo
alla dura "effettualità" storica (che diverrà realismo politico e culto dello Stato forte) e l'abbandono di ogni
forma di moralismo, implicavano la critica a Labriola. Il tentativo di quest’ultimo era stato quello di
presentare il marxismo come una "filosofia della storia": per Croce "il materialismo storico non è, né può
essere, una nuova filosofia della storia, né un nuovo metodo, ma è, e deve essere, proprio questo: una
somma di esperienze, che entrano nella coscienza dello storico" (Croce, Sulla forma scientifica del
materialismo storico: 10). In questo saggio, Sulla forma scientifica del materialismo storico, il primo
pubblicato da Croce per rispondere a Labriola (1896), viene inizialmente formulata la nota tesi crociana del
marxismo come canone d'interpretazione, strumento interpretativo che focalizza l'importanza del momento
economico.
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Si può sostenere che ben oltre il dibattito di quegli anni, il contatto con il marxismo abbia contribuito a
determinare una disposizione che resterà stabilmente in Croce: quella stessa per la quale egli considererà la
"politica come 'forza', come lucido 'machiavellismo', fatta di passioni e di calcoli, e non di 'sermoni'; il
pensiero non inerte contemplazione ma azione; la storia svincolata da ogni piano, tutta fatta dall'uomo"
(Garin 1987: 208).
D'altra parte l'attenzione per il particolare fatto storico, per la distinzione, già maturata nel Croce erudito,
trovò un'ulteriore conferma proprio nella sua interpretazione del materialismo storico come realismo storico.
Proprio nell'"Avvertenza" all'edizione del 1937 egli scrisse di aver riletto quelle pagine:
con la commossa curiosità con cui si rovista talvolta tra le nostre vecchie carte dimenticate per ravvivare
antiche esperienze ed immagini sbiadite della giovinezza lontana. E ho riudito qua e là voci che non si sono
mai spente in me, qualcosa di fondamentale in cui ancora mi riconosco e in cui altri forse meglio di me potrà
ravvisare i primi germi di pensieri maturati più tardi (Gentile, La filosofia di Marx: 8).
Che cosa di fondamentale il Gentile del 1937, coinvolto totalmente con il fascismo e ormai lontanissimo da
Croce, poteva ritrovare nei suoi giovanili scritti su Marx?
Egli nel dibattito d'allora, intrapreso con una pregiudiziale ostilità al socialismo, si era interrogato (come del
resto aveva fatto Croce) sulla presenza di una filosofia della storia nel marxismo e sulla sua validità. Aveva
concluso che la dialettica hegeliana offriva al marxismo una concezione finalistica della storia, considerata
appunto il luogo della manifestazione dello spirito: in questo senso il marxismo di Marx, non certamente
quello della sua volgarizzazione positivista, criticata duramente, esprimeva un senso della storia. D'altra
parte questa concezione del senso della storia - la forma per Gentile - del marxismo si scontrava con il suo
contenuto, il materialismo, e da questo scontro nasceva un'insuperabile contraddizione: l'antitesi tra la
dialettica e il materialismo era insomma lo scoglio che faceva naufragare la concezione di Marx. Croce
aveva avuto quindi tutte le ragioni per rifiutare il marxismo in quanto esso era viziato da un contenuto
empirico. D'altra parte Croce pensava, riprendendo proprio l'aspetto dell'attenzione all'empirico - il realismo
-, di aver "chiuso i conti" con quella che non era una filosofia.
Gentile, al contrario, riteneva che il marxismo esprimesse una filosofia della storia e una concezione del
mondo con la quale era necessario confrontarsi. Il secondo scritto incluso ne La filosofia di Marx, intitolato
da Gentile La filosofia della prassi, ribadisce il giudizio negativo su Marx: la filosofia della storia si spiegava
con una trasposizione della dialettica nella storia, nell'economia; la concezione filosofica di Marx era una
"superfetazione del suo pensiero" (Gentile, La filosofia di Marx: 6) e come tale non aveva alcun valore.
Malgrado questo giudizio negativo espresso nella prefazione, il filosofo italiano incentra la sua analisi della
filosofia di Marx sulla nozione di prassi. Essa è considerata come "la chiave di volta di questa costruzione
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filosofica" (Gentile, La filosofia di Marx: 72). Marx avrebbe insomma compreso che l'errore del
materialismo era quello di "credere l'oggetto, la intuizione sensibile, la realtà esterna un dato, invece che un
prodotto" invece quando "si conosce si costruisce si fa l'oggetto, e quando si fa o si costruisce un oggetto lo
si conosce, dunque l'oggetto è un prodotto del soggetto" (Gentile, La filosofia di Marx: 76-77).
Siamo ora in grado di rispondere alla domanda gentiliana dalla quale eravamo partiti: il Gentile del 1937
nella sua descrizione della prassi marxista poteva ben ritenere di intravedere i primi segni dell'elemento
centrale della sua prospettiva speculativa, quello della irriducibile creatività dello spirito.
La nozione di prassi, così come è esposta nelle marxiste Tesi su Feuerbach, viene appresa dal giovane
Gentile come la capacità dell'uomo di creare se stesso e il proprio mondo, come l'affermazione della libertà
totale del soggetto. Radicalizzando tale creatività dello spirito, sino a sostenere che nulla può esistere al di
fuori di essa, si giunge ad una prospettiva assai vicina a quella che nel 1911 Gentile proporrà ne L'atto del
pensare come atto puro, scritto emblematico della ormai matura concezione "attualista".
In realtà in quell'occasione, nel comune rifiuto del positivismo e del marxismo e nella conseguente esigenza
di una "riforma intellettuale e morale", si prefigurarono atteggiamenti speculativi diversi, che potevano
condurre, come di fatto avvenne, ad esiti teorici e politici discordanti.
Gentile, al contrario, era maggiormente portato a concepire l'esistenza umana alla luce di un principio
unitario: la creatività dello spirito poteva offrire tale punto di forza che necessariamente avrebbe dovuto
coinvolgere l'intera realtà dai suoi aspetti più teorici - l'attività intellettuale - a quelli pratici - la politica.
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Gaetano Mosca
Gaetano Mosca (Palermo, 1858 - Roma, 1941) fu studioso di diritto pubblico con vasti interessi nel campo
della storia e della psicologia sociale. Già nelle sue prime opere Sulla teoria dei governi e del governo
parlamentare (1884) e Le costituzioni moderne (1887) veniva presentato il nucleo della teoria destinata a
renderlo celebre. Essa consisteva nell’idea che tutte le società sono dominate da una minoranza governante
(che Mosca definiva "classe politica"). Le concezioni democratiche dovevano pertanto considerarsi come
pura finzione: necessarie nell’evoluzione del pensiero moderno per organizzare e tenere salde le società
umane, esse nascondevano, sotto il velo di frasi eloquenti e di argomenti apparentemente razionali, la realtà
del potere esercitata da un ristretto e consapevole gruppo sull’intero, e del tutto inconsapevole, aggregato
sociale. Questa idea di fondo, filtrata attraverso la molteplice esperienza di professore universitario (a Torino
e poi a Roma), di funzionario dello Stato, di pubblicista e per brevi momenti anche di uomo politico, avrebbe
avuto una più ampia trattazione nella principale opera di Mosca, gli Elementi di Scienza politica, apparsa in
prima edizione nel 1896. In essa viene affermata l’esigenza di uno studio scientifico della politica, fondato
sui fatti, che nella prospettiva di Mosca erano essenzialmente forniti dalla conoscenza storica.
Il metodo di Mosca è empirico e comparativo. Sulla base dello studio dei diversi sistemi politici succedutisi
nella storia egli enuncia la sua principale legge: "fra le tendenze ed i fatti costanti che si trovano in tutti gli
organismi politici", dall’antico Egitto fino ai moderni Stati liberal-costituzionali, egli ravvisava l’esistenza
di una classe di persone che "adempie a tutte le funzioni politiche, monopolizza il potere e gode i vantaggi
che ad esso sono uniti", mentre il resto della società è "diretto e regolato dalla prima in modo più o meno
legale, ovvero più o meno arbitrario e violento" (Mosca 1975: 61). In questa fase del suo pensiero è centrale
la critica del "parlamentarismo", di quel modello di rappresentanza la cui intrinseca debolezza stava in Italia
per manifestarsi nella già ricordata "crisi di fine secolo" (vedi 1.1), e i cui pretesi fini generali erano, a
giudizio di Mosca, contraddetti dalla prevalenza di micro-interessi locali. Al tempo stesso veniva denunciata
l’"illusione democratica": per Mosca la proclamazione dei diritti dell’uomo e il suffragio universale non
erano che "ironie" (Mosca 1975: 148). Soltanto in presenza di un corpo elettorale non troppo esteso e
qualificato da autonomia e cultura poteva diventare "non diciamo completa ma non del tutto illusoria" la
responsabilità degli eletti verso gli elettori (dei "mandatari verso i mandanti", come dice Mosca con
linguaggio giuridico) "che è uno dei principali presupposti del regime liberale" (Mosca 1975: 261). Non
esisteva dunque una astratta "volontà del popolo". La polemica di Mosca nei confronti del "falso mito" della
sovranità popolare elaborato da Rousseau sarà dunque incessante. Le idee conservatrici di Mosca lo
porteranno a negare valore positivo al ruolo dei partiti politici e dei sindacati (questi ultimi visti come
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portatori di una minacciosa visione socialistica dei rapporti sociali). Ma al momento in cui il fascismo si
imporrà in Italia, il sentimento liberale di Mosca lo collocherà tra gli oppositori al regime: importante in tal
senso il discorso in Senato del 1925, in cui Mosca condannava la svolta autoritaria del governo di Mussolini.
Ma già nel 1923, ad un anno quindi dalla "marcia su Roma" dell’ottobre del 1922, una seconda edizione
degli Elementi di Scienza politica aveva operato, rispetto al testo del 1896, una certa rivalutazione degli
istituti parlamentari, ai quali veniva tra l’altro affidato il compito di limitare il potere della burocrazia. Si
definiva così la fisionomia di Mosca conservatore-liberale ("conservatore galantuomo" l’avrebbe definito il
giovane liberale antifascista Piero Gobetti). Nel ventennio di dittatura Mosca si dedicò interamente agli studi:
nel 1939, poco prima della morte, avrebbe pubblicato la terza edizione degli Elementi di Scienza politica, in
coincidenza con la traduzione di essa negli Stati Uniti. L’apparizione in lingua inglese avrebbe fatto del libro
di Mosca e della nozione di "classe politica" (tradotta come "ruling class"), uno dei luoghi classici dello
studio contemporaneo della politica.
Vilfredo Pareto
Il nome di Vilfredo Pareto è nella cultura politologica strettamente associato a quello di Mosca (vedi la voce
Pareto, Vilfredo). Essi sono considerati i principali esponenti della "scuola italiana" dei teorici delle élites.
Per la base realistica del loro pensiero, è stata nei loro confronti adottata anche la denominazione di "neo-
machiavelliani" (dal pensiero di Machiavelli). In realtà essi non ebbero rapporti tra loro e il loro unico punto
di contatto fu una polemica piuttosto aspra quando Mosca rivendicò il primato della dottrina della
"minoranza governante" rispetto alla posteriore ed analoga formulazione di Pareto. Appartenente per origine
familiare alla nobiltà genovese, Pareto (Parigi, 1848 - Céligny, 1923) nacque in Francia dove il padre,
seguace di Mazzini, trascorreva alcuni anni in esilio per le sue idee repubblicane. Allievo del Politecnico di
Torino, ingegnere ferroviario e siderurgico, poi interamente consacratosi agli studi economici, nel 1893
succedette a Léon Walras sulla cattedra di Economia politica all’Università di Losanna. Soltanto in età
avanzata, dopo aver dato contributi importanti alla teoria economica con il Cours d’économie politique,
apparso tra il 1896 ed il 1897 (nel 1906 pubblicherà in italiano il Manuale di Economia politica), Pareto si
indirizzò alla sociologia politica. La sua opera monumentale, il Trattato di Sociologia generale, fu pubblicata
a Firenze nel 1917. L’intonazione dell’opera è decisamente pessimistica. L’analisi dell’agire umano nel
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campo politico deve, secondo Pareto, rinunciare a idee direttrici quali giustizia, libertà, bene comune. Si
tratta invece, con il metodo che egli definisce logico-empirico, di riscontrare le motivazioni psicologiche in
virtù delle quali gruppi umani in concorrenza tra loro (le élites) competono (attraverso gli eterni strumenti
della violenza e della frode) per la conquista e il mantenimento del potere. Da Marx viene parzialmente
accolto il principio fondativo del materialismo storico. Gli interessi economici sono infatti essenziali alla
comprensione della realtà politica. Ma accanto ad essi sono decisivi i sentimenti, gli elementi istintivi e gli
impulsi passionali propri alla natura umana (che Pareto in modo riassuntivo definisce, nella sua particolare
terminologia, "residui"). Nel conflitto politico tali interessi e istinti non appaiono però nella loro veste
immediata. Gli uomini perseguono i loro fini irrazionali e spesso egoistici rivestendoli di una vernice logica e
morale. È questo il ruolo delle ideologie o, per usare il linguaggio di Pareto, delle "derivazioni" (argomenti
utilizzati da singoli individui e da gruppi sociali al fine di giustificare il loro comportamento e nasconderne le
reali motivazioni).
La denuncia e la critica corrosiva di tali teorie giustificatrici fa di Pareto uno dei fondatori della corrente
sociologica detta "sociologia della conoscenza", il cui scopo è quello di individuare l’elemento parziale,
legato a concreti interessi, di ogni visione filosofico-politica. Contrariamente ai positivisti, Pareto non ha
fede né nel progresso, né nell’evoluzione, né nella scienza. Particolare accentuazione assume inoltre in lui la
critica del marxismo. Già nell’opera del 1901, Les systèmes socialistes, aveva indicato nella rivoluzione
nient’altro che "un mito" capace di suscitare energie collettive a beneficio di una nuova élite che attraverso
l’azione delle classi subalterne aspirava a rovesciare le élites attualmente al potere. La lotta di classe non
sfuggiva dunque allo schema di una lotta di minoranze per il potere, incapace di produrre progresso sociale e
maggiore giustizia. La sociologia di Pareto ha un carattere decisamente conservatore. Non nel senso di
affermare il diritto al potere da parte di chi lo detiene: la storia gli appare infatti un "cimitero di aristocrazie".
Ma illusione totale era per lui l’idea che si potesse realizzare una maggiore giustizia attraverso la lotta
politica. Nei suoi studi economici aveva sostenuto che il livello di diseguaglianza nella distribuzione dei
redditi, e quindi del potere, nelle più diverse società era sostanzialmente lo stesso, e non modificabile.
Alterazioni all’equilibrio politico potevano essere prodotte soltanto dalla perdita di fiducia di una élite in se
stessa e dalla contestuale, antagonistica energia di una élite ascendente. È quanto a lui pareva che avvenisse
nell’Italia del primo dopoguerra. Il decadimento delle élites borghesi (delle "plutodemocrazie", come egli le
chiamava), e il diffondersi tra la stessa borghesia di sentimenti umanitari che contraddicevano l’esigenza di
un governo forte, sembravano appellare una nuova élite al potere, e il fascismo appariva chiaramente
interpretare il ruolo di forza in grado di occupare uno spazio lasciato vuoto. Pareto diede un incoraggiamento
teorico al fascismo dei primi anni, ma morì troppo presto per vederne gli sviluppi. È difficile dire quale
sarebbe stato il suo atteggiamento futuro. Ma l’intransigente difesa della libertà economica e della libertà
intellettuale (sia pure sempre a livello di élites) e al tempo stesso il suo spirito critico di ogni ideologia, è
presumibile che avrebbero fatto di lui tutt’altro che un cieco sostenitore del regime mussoliniano.
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Il pensiero politico italiano del Novecento
Nicola Antonetti
Robert Michels
Robert Michels (Colonia, 1876 - Roma, 1936) fu cosmopolita di cultura e italiano di adozione. Aveva
insegnato in diverse università, tra cui Messina, Roma e la stessa Torino, ove conobbe Gaetano Mosca,
prima di acquisire la cittadinanza italiana e di essere chiamato, dopo la sua adesione al regime fascista, alla
cattedra di Economia generale e corporativa dell’Università di Perugia. Quello di Michels, accanto a Mosca
e Pareto, è il terzo nome della scuola elitistica italiana. Se Mosca, giurista e studioso di storia, aveva centrato
la sua attenzione sullo Stato e sul ruolo di una "classe politica dominante" all’interno di questa (funzionari e
politici) e se Pareto, economista e sociologo, aveva analizzato soprattutto i comportamenti degli individui,
Michels fu il primo studioso e interprete del nuovo soggetto storico, protagonista della vita pubblica: il
partito politico. Egli stesso era stato militante nell’ala più radicale del Partito Socialdemocratico tedesco, il
primo partito moderno, strutturato su un’ampia rete di sezioni locali, con funzionari salariati e regolare
censimento degli iscritti. Critico nei confronti della leadership moderata e "parlamentarista" del partito, da
quella esperienza trarrà i materiali per la sua grande opera: La Sociologia del partito politico nella
democrazia moderna (apparso nel 1912 in lingua tedesca). La tesi di Michels era che qualsiasi
organizzazione, anche se di dichiarati princìpi democratici ed egalitari, aveva in sé il germe della
burocratizzazione, e all’interno di tale struttura burocratica, del dominio di un ristretto gruppo di dirigenti
che solo nominalmente agivano nell’interesse della totalità degli aderenti. I partiti socialisti non sfuggivano a
questa regola: "chi dice organizzazione dice oligarchia" sosteneva Michels, in questo, direttamente
influenzato da Max Weber che tale principio aveva posto in relazione allo studio del fenomeno burocratico.
Veniva dunque enunciata nelle pagine della Sociologia quella che sarebbe divenuta nota come la "legge
ferrea delle oligarchie".
Assieme alla dottrina della "classe politica" di Mosca e alla teoria della "circolazione delle élites" di Pareto,
la legge di Michels è una delle formule riassuntive della scuola italiana di scienza politica. Con lo stesso
Mosca, Michels avrebbe intrattenuto intensi rapporti. L’opinione che Mosca riteneva fondata sugli esempi
della storia antica e moderna, secondo cui "tutte le società sono aristocrazie", trovava riscontro, su un piano
più sociologico, nell’idea di Michels che "il dominio delle masse è tecnicamente e meccanicamente
impossibile". "L’indagine analitica del partito politico", che Michels dichiarava con legittimo orgoglio di
aver realizzato per la prima volta, confermava l’ipotesi interpretativa secondo cui l’autoconservazione
costituisce per ogni organizzazione il fine primario. Qualsiasi affermazione sociale ed altruistica finiva
dunque, al di là delle intenzioni, per essere inevitabilmente ideologica, mascheramento più o meno
consapevole di concreti e particolari interessi. Dopo il suo definitivo trasferimento in Italia, anche per
l’impossibilità, nonostante la protezione di Max Weber, di ottenere una cattedra nelle università tedesche a
causa del suo passato socialista, Michels aderì al fascismo e ne divenne, sia pure su un piano di grande
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autonomia intellettuale, un difensore teorico. Egli metteva in evidenza i vantaggi di un regime in cui, per
propria natura, il ruolo dell’élite era "franco, chiaro, concreto, diretto". L’élite non esercitava la sua funzione
per mezzo di "intrighi tortuosi" tipici dei regimi democratici e delle loro maggioranze parlamentari. Sullo
sfondo c’era l’idea, già espressa nelle precedenti opere, che nessuna organizzazione di consistenti
dimensioni e complessità poteva essere realmente democratica. E veniva anche espressa la convinzione, già
al centro dell’elaborazione teorica di Weber, che una personalità carismatica in alcuni momenti critici era
necessaria per imporsi sui compromessi e le indecisioni della politica democratica. Se Michels fu convinto
sostenitore del fascismo va però osservato, in analogia a quanto già detto per Pareto, che egli morì prima
dell’approvazione delle leggi razziali e dello schieramento dell’Italia a fianco della Germania nazista nella
guerra mondiale.
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4.1 - La Prima guerra mondiale come spartiacque della storia sociale europea e l'avvento del fascismo
4.4 - Antonio Gramsci, intellettuale comunista e perseguitato politico. Il PCI come "nuovo principe"
4.1 - La prima Guerra Mondiale come spartiacque della storia sociale europea e
l'avvento del fascismo
La Prima guerra mondiale (1914-18; vedi il modulo L'Italia nella Prima guerra mondiale, 1.1), alla quale
l'Italia partecipò dal 1915, è considerata dagli storici uno degli eventi che maggiormente ha segnato una
cesura rispetto all’insieme di comportamenti e idealità che caratterizzavano la società europea ad essa
precedente.
I progressi della scienza e della tecnica vennero ampiamente usati, in quell'occasione, in senso distruttivo: le
mitragliatrici, i gas tossici, l'impiego dell'aviazione per i primi bombardamenti erano nuovi strumenti di
distruzione e di morte che davano al conflitto una nuova fisionomia. La stessa immagine della guerra come
scontro in qualche modo cavalleresco tra individui venne definitivamente superata dalla potenza distruttiva
di questi nuovi strumenti.
Inoltre, nella grande guerra, fecero la loro comparsa i moderni mezzi di comunicazione, dalla radio ai
manifesti che estendevano indirettamente il conflitto alla stessa popolazione civile: si è parlato, proprio in
questo senso, di "prima guerra totale".
In Italia la Prima guerra mondiale, si era conclusa con una vittoria che completava con Trento e Trieste
l’unità nazionale, ma era costata un pesante tributo di vite umane, e avrebbe provocato mutamenti sociali e
culturali che sono da considerare tra gli elementi che favorirono l'ascesa del fascismo al potere.
I combattenti, provenienti da ogni parte del Paese, avevano acquisito per la prima volta nella storia dello
Stato unitario la coscienza della loro unità e della loro forza. La guerra di trincea alla quale i moderni
strumenti bellici avevano costretto i soldati, imponeva una vicinanza tra soldati di diverse regioni
geografiche e diverse estrazioni sociali che in un paese storicamente diviso (tra Nord e Sud, tra laici e
cattolici, tra città e campagna) aveva un grande valore morale. Essa faceva nascere in numerosi italiani la
consapevolezza di essere parte essenziale della nazione: coloro che avevano combattuto per la vittoria, che
avevano offerto il loro contributo di sofferenze e di sangue alla guerra, ritenevano un diritto conquistato
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Nicola Antonetti
quello di poter contribuire a determinare le sorti del Paese nel dopoguerra. Si profilò, in quegli anni, la
contrapposizione ideale tra due Italie: la prima era quella del fronte bellico e del sacrificio; la seconda quella
delle retrovie e dell'interesse personale.
Proprio l'esperienza della guerra aveva favorito il diffondersi di atteggiamenti che erano assai diversi da
quelli abituali nella vita civile. Vanno ricordati in questo senso gli "arditi", un corpo scelto nel quale era
diffuso un atteggiamento di sfida nei confronti del pericolo e della morte e l'idea dell'azione improvvisa e
violenta come risolutrice di situazioni apparentemente non risolvibili. Gli "arditi", insieme agli ufficiali di
complemento avranno un peso decisivo nelle origini del movimento fascista.
Questi mutamenti di mentalità si univano nel primo dopoguerra ad altri fattori quali il richiamo che le notizie
della rivoluzione russa del 1917 esercitavano sui soldati, una grave situazione economica legata alla
sospensione della produzione bellica, la protesta diffusa degli operai, organizzati nei sindacati e dal partito
socialista.
Benito Mussolini
Benito Mussolini (vedi la voce Mussolini, Benito), un ex socialista massimalista, influenzato dalle idee del
sindacalismo rivoluzionario di Georges Sorel, dette vita nel 1919 ai Fasci di combattimento: in tale
formazione confluirono sin dall'inizio forze diverse: dai nazionalisti agli ex arditi, dai socialisti rivoluzionari
delusi dal riformismo di Turati ad esponenti "futuristi" (un movimento letterario, artistico e politico che
negava in modo clamoroso e provocatorio qualsiasi eredità del passato ed era guidato da Filippo Tommaso
Marinetti; vedi il modulo Dal Futurismo ai ritorni all'ordine, 1.1). Malgrado le diversità, tali realtà erano
tutte accomunate dall'avversione allo Stato liberale, da una enfatizzazione dell'aristocrazia spirituale e da un
volontarismo nel quale erano avvertibili influenze del superuomo di Nietzsche.
Mussolini proclamò in più occasioni che il fascismo non aveva un'ideologia definita: in realtà varie
componenti culturali e politiche confluirono nella sua concezione politica. Il simbolo del fascismo, il fascio
littorio degli antichi romani (un fascio di verghe unite da un nastro, completo di scure), esprime la sua stessa
natura: si trattò di un movimento che si avvaleva della partecipazione di diverse anime culturali e politiche
unite dalla personalità e dall'astuzia politica di Mussolini. Non a caso quest’ultimo si richiamava
esplicitamente all’opera di Machiavelli.
Il fascismo ebbe però alcune caratteristiche di fondo: fu infatti nazionalista e antidemocratico. Mussolini si
fece interprete di una diffusa insoddisfazione nei confronti dello Stato liberale e del Parlamento, delle
aspirazioni economiche e politiche di una piccola borghesia, che si caratterizzava da un punto di vista sociale
come ceto medio emergente, del sentimento di reazione al socialismo diffuso tra la stessa borghesia e nelle
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Nicola Antonetti
classi privilegiate della nazione, infine delle frustrazioni e dell’energia degli ex-combattenti che
alimentavano il fenomeno dello "squadrismo".
Nell'ottobre 1922 Mussolini riuscì ad imporre al re, con la marcia su Roma (vedi il modulo Da una guerra
all’altra: i conflitti mondiali e il fascismo, 3.1), la propria nomina a capo del governo e dal 1925, dopo una
breve crisi, iniziò il consolidamento del regime totalitario. Vennero gradualmente soppresse tutte le
principali libertà di un Paese democratico: al Parlamento fu sottratto ogni potere, gli oppositori vennero
perseguitati, in alcuni casi eliminati fisicamente, in altri processati e condannati da tribunali speciali.
Il fascismo non fu però una semplice dittatura, esso fu invece, almeno nelle aspirazioni, un totalitarismo: il
regime mirava ad ottenere l'approvazione delle masse e il loro coinvolgimento. Di qui il tentativo di creare e
diffondere una nuova cultura, che avrebbe dovuto essere espressione del "nuovo italiano" forgiato dal
regime. Le velleità rivoluzionarie di Mussolini e le aspirazioni al cambiamento di alcune componenti del
fascismo costituirono quello che è stato chiamato "fascismo movimento" (De Felice 1975: 29): il "fascismo
regime" si esprimeva invece nel tentativo di consolidare il potere attraverso una normalizzazione
dell'esistenza e quindi in un sostanziale conservatorismo.
Certamente la riflessione politica di quegli anni non è riducibile soltanto a questi nomi: sarà necessario
soffermarsi su altri intellettuali. D'altra parte Gentile e Croce furono punto di riferimento per molti negli anni
che stiamo considerando: Gramsci è invece decisivo per comprendere alcune scelte del Partito Comunista
Italiano nel dopoguerra.
Giovanni Gentile aderì esplicitamente al fascismo quando fu chiamato da Mussolini, nel novembre 1922, a
dirigere il ministero della Pubblica Istruzione. Già in una serie di scritti pubblicati durante la guerra e poi
riuniti in Guerra e fede (1919, 1927), egli aveva contrapposto due Italie, quella "degli scandali, la piccola
Italia" ad un altra, "la grande, che è la vera, la viva". La prima era quella del letterato, dell'uomo rivolto alla
cura e alla difesa del proprio "particolare" (gli interessi privati, così definiti in una celebre espressione di
Guicciardini), la seconda era quella dell'uomo "civile" (a cui era essenziale la dimensione della civitas), che
si impegnava per vivere in uno Stato libero, del quale egli potesse sentirsi, con orgoglio, parte.
Il tema della libertà è centrale in Gentile: la sua stessa concezione dello spirito come creatività a cui nulla
può essere contrapposto, rimanda alla nozione di libertà. Da un punto di vista esistenziale, tale accentuazione
si esprimeva come slancio, entusiasmo, spirito di militanza, aspirazione al "dover essere". Da un punto di
vista politico la libertà di Gentile non era quella dell'"individuo particolare", bensì quella della nazione. Egli
rifiutava la concezione individualistica espressa dall'illuminismo e aspirava ad una libertà che coincideva -
paradossalmente - con l'assorbimento dell'individuo nella libertà dello Stato: in questo senso scriverà
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esplicitamente di un proprio liberalismo che si incontrava con quello che istintivamente professavano i
giovani usciti dalla guerra.
Gentile credette quindi di vedere nel fascismo un movimento che permetteva la realizzazione di tale libertà.
Lo Stato, la nazione dovevano, in questa ottica, necessariamente essere ricreati: l'idea di "Stato etico", che
nasceva e viveva in interiore homine, ed esprimeva questa continua libertà della comunità, radicalmente
diversa da quella dell'individuo atomisticamente inteso, era implicita nella concezione gentiliana.
Gentile univa insieme l'accentuazione moderna della libertà come creatività ad una concezione dello Stato di
stampo organicistico: egli si poteva così rendere interprete sia di quegli elementi "di movimento" del
fascismo, sia dei suoi aspetti più conservatori. Da un punto di vista politico il suo tentativo fu quindi quello
di tenere insieme una teoria della libertà, che affondava le proprie ultime radici teoriche nella modernità, con
la tradizione, la storia d'Italia, così come egli stesso l'aveva interpretata.
Questa complessità di motivi, insieme all'aspetto di religiosità laica della sua filosofia, spiega perché molti
giovani intellettuali aderirono all'attualismo, la concezione filosofica di Gentile, e insieme al fascismo.
Egli ebbe una grande influenza tra i giovani: creò delle vere e proprie scuole filosofiche a Palermo, a Pisa e a
Roma. Si impegnò inoltre in una molteplicità di iniziative culturali per diffondere l'attualismo e quella nuova
coscienza nazionale che da esso derivava, dalla riforma della pubblica istruzione al progetto e alla
realizzazione della Enciclopedia italiana, opera nella quale invitò a collaborare anche intellettuali antifascisti.
Il concordato del regime con la Chiesa cattolica del 1929 (vedi il modulo Aspetti della vita della Chiesa
cattolica nell’Italia contemporanea (I), 6.2) segnò un momento di difficoltà nel rapporto di Gentile con il
fascismo. Ad esso comunque il filosofo offrì il proprio sostegno fino all'ultimo tanto da essere ucciso da un
commando partigiano nel 1944.
In realtà la frattura si manifestò in un articolo di Croce del 1923, Contro la troppa filosofia politica, e
divenne poi esplicita in uno scambio di lettere del 23 e 24 ottobre 1924.
[...] donde mai nasce cotesto nuovo vezzo, che si è preso, di vantare l'idealismo filosofico come il
fondamento o l'esponente della politica salutare all'Italia, della politica che l'ha condotta alla guerra e alla
vittoria e che si sforza ora di restaurare lo Stato, della vera politica liberale, conforme alle tradizioni del
Risorgimento e per esse alla filosofia del Gioberti? Non so se questa gonfiatura della filosofia a politica e
della politica a filosofia possa riuscire gradita a qualcuno; a me certamente non piace [...] In fondo si tratta di
un bisticcio di termini e di grossolana confusione. La teoria idealistica della realtà e della storia, poiché è
dialettica, è liberale, e riconosce, con la necessità della lotta, l'ufficio e la necessità di tutti i più diversi partiti
e degli uomini più diversi (Croce, Cultura e vita morale: 244-45).
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In questo brano si possono individuare sia le ragioni del distacco di Croce da Gentile, sia i motivi
dell'antifascismo crociano. Semplificando la sua concezione, si potrebbe sostenere che per Croce tra filosofia
e politica, benché fossero entrambe investite dallo spirito che si realizza nella storia, non fosse possibile
alcun commercio, in quanto ambiti distinti e nei quali lo spirito si esprimeva in modi diversi. Abbiamo già
visto la concezione realista che Croce aveva della politica: egli ribadiva in fondo la distinzione tra l'uomo
d'azione, determinato dall'utile immediato del proprio paese o della propria parte, e l'intellettuale che
ricercava la verità.
D'altra parte egli in questo scritto afferma che la concezione idealistica della realtà è liberale, cioè lega una
concezione filosofica ad un opzione politica. Certamente Croce intendeva questa affermazione non come una
diretta filiazione del liberalismo dal suo idealismo, quanto come la consapevolezza che la propria filosofia
aveva dell'irriducibilità del contrasto tra diverse posizioni ideali e, ancora di più, tra diverse forze storiche. In
sostanza Croce ribadiva l'autonomia delle diverse prospettive e dei diversi ambiti: di fronte alla violenza
politica del fascismo e al tentativo di Gentile di presentare il fascismo come la realizzazione di una totalità
spirituale, lo "Stato etico", egli ribadiva l'irriducibilità dell'etica, dell'opzione per la libertà. Croce, assai noto
all'estero e anche per questo tollerato dal regime, esercitò una funzione importante tra gli intellettuali
antifascisti. Il suo libro Storia d'Europa nel secolo decimonono, del 1932, nel quale l'ideale della libertà
costituiva il filo interpretativo della storia europea dell'Ottocento, esercitò una grande e duratura influenza su
molti giovani di quegli anni.
La sottolineatura dell'autonomia dell'etica e della libertà non deve però far fraintendere il senso del
liberalismo crociano: esso restò ancorato alla propria origine idealista e quindi alieno da simpatie verso
concezioni individualistiche di origine illuminista.
In sostanza si trattò di un liberalismo conservatore e con venature aristocratiche: durante gli ultimi anni del
regime esso fu un punto di riferimento come esempio di resistenza intellettuale e morale. Non seppe però
mai essere guida per l'azione. Questa strutturale incapacità spiega perché nel dopoguerra la fortuna di Croce
declinò di fronte all'affermarsi di concezioni politiche che erano in grado di rivolgersi con ben maggiore
incidenza alle masse che il regime aveva tentato invano di "fascistizzare".
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Il pensiero politico italiano del Novecento
Nicola Antonetti
Antonio Gramsci
Antonio Gramsci (Ales, Cagliari, 1891 – Roma, 1937; vedi la voce Gramsci, Antonio), dei cui Quaderni dal
carcere Togliatti, segretario del PCI, iniziò la pubblicazione nel 1948, offrì nei suoi scritti una
interpretazione originale della storia d'Italia e una serie di riflessioni politiche che, seppure utilizzate
principalmente da intellettuali comunisti, diverranno patrimonio comune del pensiero politico italiano. I
quaderni dal carcere sono stati originalmente pubblicati raggruppando tematicamente - e non secondo
l’ordine cronologico - gli argomenti in essi trattati: Togliatti intendeva con questa scelta far conoscere ad un
vasto pubblico un materiale prezioso, che era però complesso e non sempre si presentava in forma organica
(vedi il modulo I Quaderni del carcere di Antonio Gramsci).
L' influenza di Gramsci sul pensiero politico italiano è quindi riscontrabile dagli inizi degli anni Cinquanta.
In realtà il pensatore comunista elaborò le proprie riflessioni negli anni tra le due guerre e l'ambito al quale si
riferisce è quello stesso nel quale si impongono le figure di Croce e Gentile. Tratteremo in questo paragrafo
della concezione politica di Gramsci; ritorneremo in seguito sulla sua influenza nel pensiero politico del
dopoguerra.
Gramsci fu tra gli intellettuali comunisti colui che si rese conto del significato anche teorico della rivoluzione
russa (1917). Egli riteneva, diversamente ad esempio da Antonio Labriola, che quell'evento potesse costituire
una novità per la stessa teoria marxista. L'idea di Lenin, il principale artefice della rivoluzione bolscevica,
che fosse necessario un partito guidato da rivoluzionari professionisti, la constatazione che la decisa volontà
di un'élite aveva accelerato e reso possibile una rivoluzione 'prematura' secondo le tesi di molti tra gli stessi
comunisti, influenzarono fortemente il giovane pensatore sardo.
Negli anni della sua giovinezza, trascorsi a Torino grazie a una borsa di studio, Gramsci si separava sia dalla
concezione positivista e riformista del marxismo, che da quella massimalista e rivoluzionaria: nella sua
precoce attività di dirigente politico era guidato dall'idea della ricerca di possibilità realistiche per una
rivoluzione proletaria.
La rivoluzione russa, attraverso la creazione dello "Stato dei consigli", uno Stato basato sulle assemblee degli
operai, aveva offerto le basi della futura società comunista, nella quale si sarebbe realizzata la democrazia
diretta.
Nel 1921 Gramsci fu tra i fondatori del PCI: nel 1926 fu arrestato e condannato da un tribunale fascista.
Negli anni della sua prigionia, in condizioni di salute sempre più gravi, scrisse una mole impressionante di
note, riflessioni e appunti, che diverranno, appunto i Quaderni dal carcere.
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Nicola Antonetti
La sua ricerca negli anni della prigionia è fortemente determinata da domande connesse agli avvenimenti che
abbiamo accennato: quali le cause della sconfitta del movimento operaio in Italia? Quali le possibilità di una
sua ripresa?
Il tema degli intellettuali e della "riforma intellettuale e morale", quello del partito - "nuovo principe", di cui
si dirà tra poco - e infine la questione del blocco storico sono i punti decisivi della sua proposta politica.
L'importanza che Gramsci attribuiva alla cultura, apparentemente eterodossa rispetto alla tradizionale
concezione marxista secondo la quale la struttura economica determina le concezioni culturali, che appunto
per questo sono da considerare sovrastrutture, va connessa al problema degli intellettuali e alla mancata
riforma intellettuale e morale. Egli scrive, riferendosi al movimento che dall'umanesimo e dalla riforma ha
interessato l'Europa:
Il materialismo storico è il coronamento di tutto questo movimento di riforma intellettuale e morale nella sua
dialettica cultura popolare-cultura alta. Corrisponde alla Riforma + Rivoluzione francese, universalità +
politica (Gramsci, Quaderni dal carcere:1860-61).
La novità di Gramsci è insomma nell'importanza attribuita al momento della cultura: di qui la sua attenzione
allo studio degli intellettuali (cultura alta) e del loro rapporto con le masse e il senso comune (cultura bassa).
In un appunto che esprime chiaramente i motivi del suo interesse per tale questione egli si domanda:
[...] si pone il problema di chi rappresenti adeguatamente la società contemporanea italiana dal punto di vista
teorico e morale: il papa, Croce, Gentile; cioè 1) chi abbia più importanza dal punto di vista dell'egemonia,
come ordinatore dell'ideologia che dà il cemento più intimo alla società civile e quindi allo stato; 2) chi
all'estero rappresenti meglio l'influsso italiano nel quadro della cultura mondiale. Il problema non è di facile
soluzione perché ognuno dei tre domina ambienti e forze sociali diverse.
La conquista dell'egemonia culturale viene qui presentata come punto decisivo per la conquista del potere
politico: il Partito comunista viene paragonato al principe così come Niccolò Machiavelli l'aveva descritto
nel secolo XVI. Il "nuovo principe", mosso dall'intento di conquistare il potere e di garantire l'ordine
nell'interesse della gran parte della popolazione, deve organizzare una strategia adeguata alla situazione
storica. Proprio questa strategia dovrà attribuire un peso rilevante alla conquista dell'egemonia culturale.
Queste ultime considerazioni introducono alla nozione di "blocco storico". Analizzando una situazione
storica complessiva, ad esempio la nazione italiana nel 1930, si può, secondo Gramsci, individuare sia una
struttura sociale (la divisione in classi e l'organizzazione del lavoro), sia una sovrastruttura ideologica e
politica. Il legame tra questi due elementi può essere più o meno organico: la funzione degli intellettuali ed il
loro rapporto con la "cultura bassa", fino al senso comune, può contribuire alla stabilità di un blocco storico.
Queste considerazioni orientano Gramsci nella sua interpretazione della storia italiana e spiegano
l'importanza da lui attribuita al Risorgimento come occasione per una rivoluzione nazional-popolare
mancata: il blocco storico prodotto dalle lotte per l'unità nazionale gli appariva infatti egemonizzato dalla
borghesia.
Proprio l'aspirazione gramsciana ad una rivoluzione italiana che potesse essere anche una "riforma
intellettuale e morale" lo connette alla cifra della riflessione politica di Croce e Gentile: abbiamo infatti già
accennato come il tentativo di offrire un'adeguata coscienza nazionale al giovane Stato unitario fosse il tema
comune ai due intellettuali che il pensatore comunista considerò esplicitamente i suoi principali antagonisti
nel campo della cultura.
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5.1 - Don Luigi Sturzo e il Partito Popolare Italiano, la presenza dei cattolici nella politica
5.1 - Don Luigi Sturzo e il Partito Popolare Italiano, la presenza dei cattolici
nella politica
La frattura tra lo Stato italiano e la Chiesa era stata, come si è visto, la conseguenza del processo di
unificazione nazionale. L’occupazione di Roma da parte dell’esercito regio (20 settembre 1870) aveva
segnato il momento culminante e simbolico di tale conflitto. Per molti anni i cattolici italiani non
parteciparono alle elezioni politiche. Le implicazioni civili e morali di tale situazione erano estremamente
gravi: al "Paese legale" rappresentato essenzialmente dalle ristrette élites borghesi veniva contrapposto il
"Paese reale" espressivo della gran parte della popolazione di osservanza cattolica, soprattutto nelle
campagne ma anche in parti consistenti del mondo urbano e degli stessi ceti direttivi della società italiana.
Soltanto all’indomani della Prima guerra mondiale questa frattura venne ricomposta. Ad iniziativa di Luigi
Sturzo, un prete siciliano, che agli studi sociali aveva unito una prolungata esperienza amministrativa come
sindaco della sua città natale, Caltagirone, venne fondato il Partito Popolare Italiano (gennaio 1919),
attraverso il quale i cattolici italiani superavano il trauma del Risorgimento ed entravano nella vita pubblica.
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Sturzo (Caltagironone, Catania, 1871 - Roma, 1959; vedi la voce Sturzo, Luigi) già in un discorso del 1905 –
quindici anni prima della fondazione del partito – in una pubblica occasione aveva affermato che la
"questione romana" doveva considerarsi "una questione morta nella coscienza nazionale". La filosofia
politica del "popolarismo" sturziano, che ispirava il programma del partito, riprendeva ed affermava i temi
classici della sociologia cattolica: autonomismo locale, carattere "sussidiario" (cioè complementare rispetto
all’iniziativa privata) dell’intervento dello Stato, politiche di sostegno ai ceti più deboli della società. Sturzo
inseriva però, accanto ai temi propriamente sociali, un vasto progetto di riforma dello Stato, finalizzato alla
democratizzazione di quest’ultimo (anche attraverso il voto alle donne; l’elezione del Senato su basi di
rappresentanza delle professioni, degli enti locali, del mondo della cultura in sostituzione della "nomina
regia"; la creazione delle regioni come organi politico-amministrativi titolari di ampi poteri: dalle attività
economiche all’istruzione).
Il Partito popolare di Sturzo ebbe tra il 1919 e il 1921 una notevole affermazione elettorale e si contrappose
prima all’egemonia delle varie correnti socialiste tra le classi lavoratrici, poi, senza successo, al fascismo.
Falliva così il tentativo di dare una soluzione democratica e riformatrice al problema della rappresentanza dei
ceti medi in Italia. La stessa Chiesa, soprattutto nelle sue gerarchie vaticane, evolveva da un atteggiamento
benevolo nei confronti del Partito popolare, di ispirazione cristiana ma dichiaratamente "aconfessionale", ad
una sostanziale presa di distanze che preludeva alla intesa, per quanto sempre precaria, con il regime
mussoliniano e che sarebbe sfociata nei Patti lateranensi e nel Concordato tra Stato e Chiesa del 1929.
Sturzo, già nel 1924 aveva abbandonato l’Italia e nel suo lungo esilio, prima a Londra e poi negli stati Uniti,
condusse una incessante battaglia antifascista, attraverso la pubblicazione di numerosi articoli e libri, volti a
denunciare di fronte all’opinione pubblica internazionale il carattere illiberale, e pericoloso per la pace, del
regime mussoliniano.
In Italia e Fascismo venivano indagate le cause della crisi della democrazia in Italia a partire dal carattere
elitario della politica italiana negli anni successivi al Risorgimento (discorso che veniva sviluppato da un
altro esule cattolico, Francesco Luigi Ferrari nell’opera apparsa a Bruxelles, il Regime fascista italiano). In
una più ampia prospettiva, opere come Chiesa e Stato (1937) e Politica e morale (1938) indicavano le linee
di una visione storico-sociologica di ispirazione cristiana, alla luce della sfida degli Stati totalitari in Europa.
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Gaetano Salvemini
Altra importante figura di antifascista a lungo esule, fu Gaetano Salvemini (vedi la voce Salvemini,
Gaetano). Come Sturzo, Salvemini aveva condotto, nei primi decenni del Novecento, vigorose battaglie
meridionalistiche e si era opposto alla politica di Giolitti che a suo giudizio sacrificava
all’industrializzazione delle regioni settentrionali gli interessi del Mezzogiorno, tenuto quest’ultimo in
condizioni di arretratezza e di degrado morale (celebre il libro dal titolo Il ministro della malavita). Di
orientamento radical-socialista, Salvemini, a differenza di Sturzo, non aveva dietro di sé un partito. La
maggioranza dei socialisti italiani accettarono infatti con Filippo Turati, leader del gruppo riformista
milanese, una alleanza tattica con Giolitti, volta a tutelare soprattutto la classe operaia del Nord, oppure
inclinarono verso posizioni cosiddette "massimaliste", tendenzialmente rivoluzionarie, che non escludevano
l’uso della violenza. Salvemini, vigoroso professore universitario di storia e impegnato in un'intensa attività
pubblicistica, condusse una battaglia, spesso di carattere pratico e contingente (a lui è riferito il termine di
"concretismo") su temi politici e amministrativi, sempre tuttavia all’interno di una visione dai toni
accentuatamente morali che lo portava a condannare il fascismo come regime di corruzione, erede dunque
dei deteriori aspetti del giolittismo da lui denunciati. Qui Salvemini si contrapponeva nettamente a Croce che
nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915, pubblicata nel 1928, in una prospettiva anch’essa di polemica
antifascista, avrebbe esaltato l’età giolittiana come "l’età dell’oro" del liberalismo in Italia.
Strettamente legati a Salvemini e influenzati dal suo pensiero furono i fratelli Carlo e Nello Rosselli.
Influenzati, attraverso appunto Salvemini, dalla tradizione democratica e mazziniana del Risorgimento, i
Rosselli cercarono una sintesi tra le esigenze della giustizia sociale e quelle della libertà individuale (alla loro
ispirazione si richiamarono le formazioni partigiane di "Giustizia e Libertà"). Di tale ricerca intellettuale è
testimonianza il libro di Carlo Rosselli, edito a Parigi nel 1930, dal titolo Socialismo liberale. Entrambi i
fratelli furono assassinati nel 1937, durante il loro esilio francese, per iniziativa del servizio di spionaggio
fascista, e divennero così un simbolo dell’antifascismo sul piano culturale e al tempo stesso della concreta
organizzazione politica.
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squadristiche che ne avevano minato la salute e lo avevano costretto all’esilio) Gobetti non soltanto diede un
originale contributo al pensiero liberale italiano, nello sforzo di distaccarlo dalle sue premesse conservatrici,
ma seppe suscitare attorno a sé e alle sue iniziative culturali una vasta attenzione e qualificati apporti. Fu
fondatore di riviste, tra cui la più celebre, dal titolo "La Rivoluzione liberale" apparsa nel febbraio 1922, e di
una casa editrice, che pubblicò libri di alcune tra le più celebri personalità della cultura italiana. Il pensiero di
Gobetti si poneva originariamente nel solco dell’idealismo crociano, sul piano filosofico, e faceva propria la
lezione di Salvemini sul terreno politico e sociale. Ma il suo contributo andava oltre: esso tendeva ad una
revisione del liberalismo italiano nel senso di una emancipazione dall’identificazione classista di
orientamento moderato e borghese. Di qui l’attenzione di Gobetti per il parallelo processo di ripensamento
del marxismo da parte di Gramsci, in quella stessa Torino ove le agitazioni operaie erano da lui seguite con
simpatia: fino al punto di vedere una potenzialità liberale nella stessa rivoluzione d’Ottobre e delle
conseguenze di questa in Italia. Il che faceva sì che il suo liberalismo venisse definito una sorta di
"liberalismo eretico".
L’avvento di Mussolini al potere veniva da Gobetti collocato in una prospettiva storica di lungo periodo. Il
fascismo gli appariva "autobiografia della nazione", erede della tradizione retorica, parassitaria ed
oligarchica dei ceti dirigenti italiani, inadeguati rispetto alle loro responsabilità storiche di orientamento e di
guida della nazione. La mancanza di autentica partecipazione popolare prima al processo di unificazione e
poi alla vita delle istituzioni liberali, costituiva intrinseco elemento di debolezza dello Stato in Italia. In
Risorgimento senza eroi, raccolta di saggi apparsa postuma, Gobetti avrebbe tracciato le linee di una lettura
della storia nazionale alternativa a quella della "vulgata" (versione ufficiale e comunemente diffusa)
patriottica, nella prospettiva di comprendere le ragioni della caduta nella dittatura. Vi era necessità, secondo
Gobetti, di individuare nuove élites intellettuali e morali in grado di assumere la direzione del Paese in una
prospettiva "aperta" e quindi democratica. Al nome di Gobetti viene infatti associata la corrente di pensiero
definibile come "élitismo democratico", propria di autori che, riprendendo la nozione, ritenuta
scientificamente corretta, di "classe politica" (così come elaborata da Gaetano Mosca), la separavano
dall’originario spirito conservatore. A questa corrente, sul terreno della riflessione meridionalistica,
appartiene anche, in una prospettiva per alcuni aspetti vicina a quella di Gobetti, Guido Dorso (Avellino,
1892-1947), autore del saggio La rivoluzione meridionale. A giudizio di Dorso, le masse contadine del sud,
condannate alla subalternità a seguito della "conquista regia" in cui si era risolto lo Stato unitario, potevano
essere riscattate dall’azione illuminata di nuovi gruppi dirigenti di orientamento liberal-progressista.
I "sopravvissuti", Sturzo, Salvemini e lo stesso Croce non esercitarono, al di là degli omaggi formali dei
continuatori delle rispettive tradizioni politiche – cattolica, della sinistra non comunista, liberale –
un’influenza pari al loro prestigio di combattenti per la libertà negli anni della dittatura. Anzi, per essi si
configurò una sorta di singolare "esilio in patria", nella realtà di profonde trasformazioni culturali ed
economiche dell’Italia degli anni Cinquanta. In particolare Sturzo, in un difficile rapporto con la Democrazia
Cristiana, partito dominante la scena politica e che si poneva come l’erede del Partito Popolare, condusse
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una vigorosa ma quasi solitaria battaglia contro le invadenze statalistiche in economia e il malcostume ed
abuso di denaro pubblico a queste connesso. Un riconoscimento significativo fu comunque, nel 1952, la
nomina di Sturzo a senatore a vita da parte del Presidente della Repubblica Luigi Einaudi. Episodio questo
non privo di valore simbolico: Einaudi (Currù, Cuneo, 1874 – Roma, 1974), economista, professore
universitario a Torino e a Milano, liberale antifascista, rappresentava infatti l’esponente più prestigioso di un
liberalismo assai più di quello crociano attento al nesso tra dimensione economica e dimensione morale della
libertà, anche come criterio di analisi della vita pubblica della nazione.
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Nell'immediato dopoguerra le difficoltà nelle quali si trovava la nazione italiana, entrata in guerra a fianco
della Germania nazista e, poco dopo la caduta del fascismo, dal settembre 1943, di fatto schierata dalla parte
del fronte alleato, erano grandi e di diverso genere. La necessità di superare il clima di guerra civile che
aveva segnato il Paese a causa della lotta tra nazisti ed i fascisti (soprattutto al Nord, ove verso la fine del
1943 si era costituita la Repubblica Sociale Italiana, con capitale a Salò, sotto la presidenza di Mussolini, ma
di fatto controllata dai tedeschi), la gravissima situazione economica, la questione urgente di nuove
istituzioni che garantissero la democrazia, erano i temi essenziali che andavano affrontati immediatamente.
Alcide De Gasperi
Lo stesso fronte dei partiti antifascisti, uniti durante la lotta partigiana, era in realtà diviso a causa delle
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diverse tradizioni politiche e delle prospettive, in certi casi contrastanti, di fronte alle questioni che abbiamo
richiamato. Tra gli esponenti politici di spicco che dimostrarono grande senso di responsabilità nei confronti
della nazione, tentando di trovare un non facile terreno d'intesa, vanno innanzitutto ricordati Alcide De
Gasperi (1881-1954; vedi la voce De Gasperi, Alcide), segretario del nuovo partito della Democrazia
Cristiana e Palmiro Togliatti (1893 - 1964; vedi la voce Togliatti, Palmiro), segretario del Partito Comunista
Italiano. Essi esprimevano più di altri le istanze dei nuovi partiti di massa (tra i quali va ricordato anche il
Partito socialista, guidato da Pietro Nenni) che si imporranno con forza alle prime elezioni democratiche del
dopoguerra, quelle del giugno 1946. In tale occasione, la prima nella quale il suffragio venne esteso anche
alle donne, venne anche proposto agli italiani un referendum popolare per scegliere tra monarchia e
Repubblica: esso portò alla vittoria, di misura, della Repubblica.
Palmiro Togliatti
De Gasperi e Togliatti furono personalità che influenzarono in modi diversi la politica del Paese nel
dopoguerra: essi formularono però anche delle riflessioni politiche sulle quali ci soffermeremo. Ad un
diverso livello, più teorico, nel panorama intellettuale del dopoguerra si impongono, tra le altre, le figure di
Norberto Bobbio (1909), legato sin dalla giovinezza, e anche dopo la sua fine, come partito politico,
all'azionismo (Partito d'Azione), e Augusto Del Noce (1910-1989) filosofo cattolico che, tra i primi, seppe
riflettere sul fenomeno epocale che avrebbe investito tutte le aree politiche, quello della secolarizzazione.
Il periodo di maggior rilievo della sua attività è quello del dopoguerra. Egli, già negli ultimi anni di guerra,
riorganizzava le fila dei cattolici e poneva, anche teoricamente, le basi del nuovo partito della Democrazia
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Cristiana. Nel luglio del 1944 fu eletto, a Napoli, segretario del nuovo partito, del quale terrà la carica di
Presidente sino alla morte: dal 1944 al 1953 fu capo del governo e influenzò in modo determinante la politica
italiana, tanto che si è scritto di "età degasperiana" (vedi il modulo Politica e istituzioni nell’Italia
repubblicana, UD 3).
De Gasperi elaborò la propria concezione politica soprattutto in alcuni scritti degli anni trascorsi come
bibliotecario in Vaticano. Vanno ricordati Idee ricostruttive della Democrazia cristiana, del luglio 1943 e Il
programma della Democrazia cristiana, febbraio 1944.
Le linee programmatiche proposte in questi e altri scritti e discorsi, partivano dalla constatazione che con il
concordato del 1929 tra Stato italiano e Chiesa cattolica era stata finalmente chiusa la cosiddetta "questione
romana", cioè l'opposizione, presente sin dall'inizio del Risorgimento, tra Stato e Chiesa. Questo fatto
permetteva ai cattolici un confronto e una partecipazione allo Stato finalmente libera da una difficile eredità,
che aveva fino ad allora orientato o in un senso o in un altro molte delle scelte politiche dei cattolici.
La concezione politica degasperiana si fonda sulla difesa della libertà politica della singola persona e delle
diverse associazioni; il pluralismo e la democrazia erano conseguenze di tali scelte fondamentali. Lo stesso
Pio XII, in un radiomessaggio sulla democrazia del Natale 1944, sembrava confermare, delineando le
caratteristiche di una democrazia che non potesse tramutarsi in nuove forme totalitarie, questa intuizione di
De Gasperi.
Si può sostenere che la scelta per la democrazia di gran parte del cattolicesimo politico divenne un fatto
inequivocabile proprio grazie alla leadership di De Gasperi. La stessa concezione del partito dei cattolici era
determinata da tali presupposti. Contro l'idea del partito totalitario, del partito che si arrogava il diritto di
risolvere le questioni personali e sociali (il riferimento storico era sia al fascismo che al bolscevismo), De
Gasperi scriveva:
Noi siamo pluralisti, cioè non siamo totalitari, non accentriamo tutto nel partito, non concentriamo tutto in un
organismo solo: contiamo su alleanze e su fiancheggiatori, su forze spirituali al di fuori di noi, come le forze
dei cattolici militanti; su forze culturali, come quelle universitarie e scolastiche; sulle forze autonome del
sindacato, sulle associazioni economiche. Quindi un complesso di importanti relazioni e connessioni che
legano il partito a queste collaborazioni, a questi contributi indipendenti da esso (De Gasperi, Discorsi
politici: 206).
L'idea dell'unità dei cattolici in un solo partito non contraddiceva tali affermazioni, ma era dettata da una
particolare situazione storica. De Gasperi avvertiva la necessità di difendere una giovane democrazia dalla
presenza di un forte e organizzato partito comunista, e dal rischio quindi di ricadere in un nuovo
totalitarismo. L'essere riuscito a fare della Democrazia Cristiana il partito dei cattolici è, in questo senso, un
suo indubbio merito. Proprio l'abilità con la quale egli riusciva a coordinare diversi mezzi per il
conseguimento di una società libera e democratica è una delle caratteristiche della sua figura. Ad un
liberalismo personalistico e democratico egli univa infatti un realismo nella realizzazione delle scelte
politiche.
La sua decisiva presenza nel campo della politica estera, come il suo impegno per la costruzione europea (di
cui è considerato uno dei "padri fondatori"), in stretta collaborazione con il cancelliere tedesco Konrad
Adenauer e il ministro degli Esteri francese Robert Schuman, vanno lette in tale orizzonte.
È da tener presente come la tradizione europeistica avesse in Italia un precedente importante: basterà qui
ricordare la figura di Altiero Spinelli (Roma, 1907-1986), promotore nel 1939 del manifesto di Ventotene,
dal nome dell’isola in cui Spinelli era confinato come antifascista, dove erano indicate le linee di un allora
decisamente utopico federalismo europeo.
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Dopo l'arresto di Gramsci divenne segretario del nuovo partito e fu costretto, per evitare a sua volta di essere
arrestato, a rifugiarsi all'estero. Da Parigi si adoperò per coordinare l'attività del partito; trascorse un periodo
in Unione sovietica ove divenne uno dei dirigenti dell’Internazionale comunista (Comintern). Tornò in Italia
nel 1944 e fu riconosciuto immediatamente come leader del partito, del quale fu segretario. Partecipò ai
lavori della Costituente (l'assemblea che elaborava la Costituzione italiana).
Più che nell'elaborazione di una teoria politica Togliatti si impegnò nella guida del PCI: d'altra parte alcune
sue scelte esemplificavano una modificazione anche teorica del comunismo. Egli seppe dare al comunismo
italiano una linea gradualistica, basata sull'accettazione del metodo democratico: in questo senso va intesa la
partecipazione dei comunisti, sino al 1947, ai governi presieduti da De Gasperi. Sia da questa circostanza,
come dalla sua partecipazione ai lavori della Costituente, si può misurare la sua distanza dal massimalismo
rivoluzionario e la profonda influenza che la lezione di Gramsci ebbe su di lui. La rivoluzione comunista
veniva mantenuta come fine verso il quale ci si doveva orientare e preparare: di qui la grande importanza
attribuita all'attività culturale. Il concetto gramsciano di egemonia culturale trovò espressione nella politica
del PCI, tanto da far parlare di una "via italiana al socialismo".
In questa prospettiva va visto anche il "patto costituente" che fu alla base dell’elaborazione e
dell’approvazione, tra il 1946 e il 1947, della Carta costituzionale (vedi il modulo Politica e istituzioni
nell’Italia repubblicana, 2.2). Il testo fondamentale della Repubblica sintetizzava elementi delle diverse
tradizioni politiche italiane. Della cultura politica dei cattolici venivano valorizzati l’autonomismo, il
riconoscimento dei gruppi intermedi quali la famiglia, gli enti locali e la stessa Chiesa come "formazioni
sociali" (art. 2 della Costituzione) necessari alla vita democratica. Della visione socialista, che nella realtà
del dopoguerra largamente confluiva nel partito fondato da Gramsci e diretto da Togliatti, veniva recepito il
riconoscimento dei diritti sociali da parte dello Stato e un ruolo attivo di quest’ultimo nella loro promozione.
Dalla tradizione liberale era infine accolto il principio delle garanzie dei diritti individuali e la tutela
dell’iniziativa privata nel campo economico. Quasi a suggello di tale equilibrio e di tale sintesi il documento
costituzionale portava la firma di tre personalità espressioni a livello istituzionale di quelle diverse culture: il
democratico cristiano De Gasperi, presidente del Consiglio, il comunista Umberto Terracini, presidente
dell’Assemblea Costituente ed Enrico De Nicola, Capo provvisorio dello Stato, appartenente quest’ultimo al
mondo liberale di tradizione giolittiana e crociana.
Se la Costituzione segnò il momento della convergenza e del patto di fondazione, il clima della "guerra
fredda" avrebbe negli anni successivi decisamente orientato il corso della politica italiana.
Il partito di De Gasperi, perno delle alleanze di governo, e il partito di Togliatti, principale forza di
opposizione, assunsero in Italia ruoli di guida e di polarizzazione delle forze sociali, nel conflitto ideologico
e geopolitico che si andava determinando su scala mondiale.
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Stalin
Di fronte all'invasione sovietica dell'Ungheria (1956) e alla denuncia dei crimini di Stalin (vedi la voce
Stalin, Iosif Vissarianovi?) Togliatti confermò il sostegno del PCI al comunismo sovietico: nell'ultimo
periodo della sua esistenza (morì nel 1964) propose però la formula del "policentrismo", proprio per
giustificare la diversità delle strade perseguibili dai partiti comunisti nelle specifiche realtà nazionali.
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In un recente scritto autobiografico egli ha ricordato come alla fine della guerra i temi che si imponevano alla
sua riflessione erano quelli della democrazia e della pace; ad essi era connesso quello dei diritti dell'uomo.
Indicando le linee di quella che potrebbe essere una teoria generale della politica egli scriveva che:
[…] l'opera dovrebbe essere costituita da tre parti di un unico sistema. Il riconoscimento e la protezione dei
diritti dell'uomo stanno alla base delle costituzioni democratiche moderne. La pace è, a sua volta, il
presupposto necessario per il riconoscimento e l'oggettiva protezione dei diritti fondamentali all'interno dei
singoli Stati e nel sistema internazionale [...] Diritti dell'uomo, democrazia e pace, sono dunque tre momenti
necessari dello stesso movimento storico (Bobbio, De Senectute e altri scritti autobiografici: 165).
La riflessione di Bobbio, pur distendendosi in molti e diversi campi di ricerca, si è sempre riferita a tali
questioni: in questo senso l'antitesi tra democrazia e dittatura è il tema riassuntivo della sua posizione
politica. I due punti di vista alla luce dei quali egli ha studiato la politica sono quello della norma, della
regola, e quello del potere: il diritto è necessario proprio per garantire la democrazia e per evitare l'anarchia;
il potere deve essere controllato per impedire, all'opposto, il dispotismo. I due grandi riferimenti in questa
prospettiva di approccio alla questione della politica sono da una parte il giurista Hans Kelsen, dall'altra il
sociologo Max Weber.
L'importanza di Bobbio non è però soltanto in queste sue tesi: egli si è adoperato nel corso della sua lunga
attività intellettuale per favorirne la discussione e la diffusione, tanto da proporre, a partire da esse, una
lettura della storia contemporanea italiana del Novecento.
Il testo nel quale questa interpretazione, che ha avuto una grande influenza nella cultura politica italiana,
viene proposta in modo più completo è il Profilo ideologico del Novecento italiano. In questo libro la storia
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italiana del Novecento, come il pensiero politico di questo periodo, viene letta alla luce della
contrapposizione tra democrazia e dittatura. Il lento processo verso la democrazia viene ostacolato dal
fascismo come regime politico, ma anche da una sorta di "ideologia italiana" da un orientamento culturale
che si "esprime in un certo spiritualismo di maniera che scomunica dovunque appaiono, positivismo,
empirismo, materialismo , utilitarismo come filosofie volgari, anguste, mercantili, impure" (Bobbio,
Premessa inProfilo ideologico: 4).
Al contrario, poche personalità, tra le quali Bobbio richiama con forza Einaudi e Salvemini, "ebbero il
coraggio e la prudenza di considerare la filosofia come una zona pericolosa e si tennero tutta la vita ben
fermi sul solido terreno dei fatti concreti" (Bobbio, Profilo ideologico: 105).
Il fatto che Bobbio abbia saldato una concezione della politica, una lettura della cultura politica italiana, ad
alcuni particolari giudizi storici, e la grande influenza che questa operazione ha avuto nel pensiero politico
italiano fanno dell'opera di questo studioso un riferimento essenziale per comprendere il pensiero politico
italiano del dopoguerra.
La carriera accademica di Del Noce iniziò soltanto nel 1964, presso l'università di Trieste; fu
successivamente a Roma , dove terminò la sua attività come docente di Filosofia politica. La sua influenza
sul pensiero politico italiano è stata notevole soprattutto negli ultimi anni della sua attività e successivamente
alla sua scomparsa nel dicembre 1989.
I suoi primi scritti politici sono dell'immediato dopoguerra: egli si impegnava nel tentativo di delineare le
condizioni di una democrazia che fosse il reale superamento del fascismo e di ogni forma di totalitarismo, le
condizioni, insomma, come egli stesso si esprimeva, di una "democrazia postfascista".
Il problema che Del Noce poneva come essenziale era quello dell'adeguata comprensione del fascismo:
contro l'idea crociana del fascismo come "parentesi", incidente di percorso ormai chiuso nella storia italiana,
il filosofo cattolico sosteneva che il fascismo era anche una disposizione spirituale. Esso attingeva ad una
crisi della civiltà e della cultura europea e veniva infatti definito come una "forma politica dell'attivismo:
ossia di quella posizione spirituale, per cui il fare assume un valore in sé, diventando fare per il fare; e
l'azione si svuota d'ideale riducendosi l'ideale a stimolo per l'azione" (Del Noce, Analisi del linguaggio).
Del Noce affermava che il fascismo andava compreso in relazione ad una crisi epocale: quella stessa alla
quale il marxismo aveva tentato di offrire una risposta. In questa interpretazione era evidente l'influsso del
pensatore francese Jacques Maritain che nel 1936 nel suo Umanesimo integrale, letto da Del Noce con
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estrema attenzione, aveva interpretato i totalitarismi fascisti e comunisti come forme di reazione alla rottura
dell'unità significativa tra persona e comunità, come tentativi di ricreare in modi estrinseci tale unità.
Gli esiti ai quali giungeva in questi anni Del Noce (che soprattutto nell'interpretazione del marxismo si
allontanerà da Maritain), erano decisivi per intendere la sua riflessione successiva. In primo luogo veniva
avanzata, anticipando gli indirizzi della storiografia più recente, l'esigenza di una comprensione del fascismo
più articolata, capace di individuare la pluralità di temi che in esso erano confluiti e che potevano rendere
ragione del consenso che seppure parziale il regime seppe creare.
Veniva inoltre contestata l'idea che la nuova democrazia fosse possibile a patto di recidere i legami con le
diverse tradizioni politiche che erano passate attraverso gli anni del fascismo: questa, che era la tesi del
Partito d'Azione (unico partito nato proprio come antitesi al fascismo), sarà oggetto di una ricorrente critica
da parte di Del Noce. Infine veniva avanzata una originale interpretazione del marxismo considerato come
tentativo di ricreare una nuova comunità su un fondamento, quello della prassi, della capacità creativa
dell'uomo, totalmente immanente e che traeva la propria forza da una concezione largamente diffusa del
progresso del pensiero occidentale.
Del Noce dal dopoguerra al 1953 appoggiò esplicitamente De Gasperi sia per il suo liberalismo cristiano, sia
per la sua opposizione al comunismo.
Negli anni Sessanta queste riflessioni politiche si composero in un più generale discorso filosofico. Nella sua
opera maggiore Il problema dell'ateismo, del 1964, Del Noce affermava la necessità esaminare i problemi
della visione ordinaria della storia della filosofia. Essa tendeva a proporsi come un dogma , che doveva
essere universalmente accettato, in virtù del quale il razionalismo (l'idea che la ragione umana non dovesse
riconoscere nessun limite a se stessa) rappresentava la maturità dello sviluppo umano e il conseguente
abbandono di ogni forma di religiosità. Tale interpretazione era per Del Noce fondata su un'opzione negativa
nei confronti della religione: essa tendeva invece a presentarsi come uno sviluppo necessario. Il marxismo
traeva la propria forza proprio dal concepire se stesso come momento conclusivo di tale direzione
speculativa.
In realtà, proprio il fenomeno della secolarizzazione, che per Del Noce aveva una valenza negativa e
rimandava al relativismo, alla uguale liceità di ogni posizione, da quella che condannava l'omicidio a quella
che lo approvava, era l'esito della decomposizione del marxismo come esito conclusivo del razionalismo. Il
marxismo aveva criticato ogni valore come maschera che nascondeva un preciso interesse di classe: a questa
critica era però stato incapace di sostituire nuovi valori. Questa situazione spiegava il relativismo e il
nichilismo diffusi nelle società occidentali e i processi di secolarizzazione che investivano ogni realtà umana.
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