Avvicinamento Al Restauro

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AVVICINAMENTO AL RESTAURO
di Giovanni Carbonara

INTRODUZIONE: NATURA E COMPITI DEL RESTAURO

Nella Lettera a Leone X di Raffaello, in effetti scritta da Baldassar Castiglione (1519), si ravvisano la speranza e
l’impegno affinché «più che si può resti viva qualche poco d’imagine e quasi un’ombra» dell'antica Roma, i cui
monumenti andranno salvati, quindi, non tanto per motivi d'arte o religiosi, ma perché il loro valore è costituito
dall’essere memorie della gloria d'una citta che quasi si credeva, «contra il corso naturale, exempta della morte e per
durare perpetuamente».

Molto più tardi J. Ruskin, nel suo Le sette lampade dell'architettura, afferma che la conservazione dei monumenti del
passato è un dovere, perché ci sono stati affidati ma non ci appartengono. Quando si annullano i caratteri
dell’architettura, proprio allora essa diventa pittoresca, e nel pittoresco si rintraccia il tempo perduto.

Consideriamo un caso particolare: in Giappone, esiste un santuario scintoista, “Jingu”, edificato fra il III e il IV secolo
d.C. Intorno al 690 si stabili che il tempio principale, di legno non dipinto e coperto in paglia di riso e corteccia, fosse,
per la sua intrinseca deperibilità, ma anche per ragioni simboliche e di culto, ricostruito ogni venti anni. Da allora è
stato riedificato, con regolarità quasi assoluta, 61 volte (l'ultima nel 1993), sempre perfettamente identico a sé stesso,
come testimoniano, fra l'altro, alcuni antichi disegni.
Si tratta della spontanea adesione ad un concetto ciclico e non lineare del tempo, prevalente nel mondo antico e ancora
solida, al giorno d'oggi, in quello orientale; ciò anche perché si vuole tramandare una 'forma' ideale, legata all'essenza
stessa del divino, più che una 'materia', autentica ma vetusta e deteriorata.
Per l'Europa e per tutta la cultura dell'occidente, la tradizione cristiana e poi quella rinascimentale hanno reso tale
posizione inconcepibile, perché differenti sono il senso del tempo ed il ruolo della memoria, diversi i termini cui si fa
riferimento. Qual è, dunque, il valore che si riconosce e che si vuole perpetuare?

Bonelli propone 4 aree di indagine:


1. L'indagine sociologica afferma che l'arte sia condizionata da fattori sociali e che nell'opera i valori siano di ordine
collettivo  si studiano le tecniche costruttive, la tipologia, il linguaggio ed il gusto.
2. L'indagine psicologica vede l'arte come aspetto dell'attività umana.
3. L'indagine iconologica studia le immagini visive in quanto simboli (è una ripresa del vecchio concetto di
“contenuto” contrapposto alla “forma”).
4. L'indagine semiologica vede tutto come una comunicazione per via di segni.
Le quattro posizioni valutano tutte l'opera sotto il profilo del contenuto e non della forma.

Un lavoro di consolidamento adotterà soluzioni diverse a seconda che voglia privilegiare il dato formale, quello figurale
o il contenuto sociale.
Non è possibile soddisfare tutte le diverse e contrastanti esigenze, il che può significare trovarsi costretti a sacrificare
qualcosa per salvare qualcos'altro, e risulta quindi necessario coltivare criteri e solide ragioni per la “selezione” da farsi.

Nel campo del restauro, vediamo fronteggiarsi due diverse tendenze:


1. La prima attribuisce a tale disciplina un compito di difesa del lato figurale ed artistico.
2. L'altra vi riconosce contenuti differenti, di ordine documentario, sociale e antropologico (“restauro critico”).

È al giorno d’oggi molto forte il contrasto fra teoria e prassi. Eppure si tenta, tramite vari documenti, di dare ordine alla
materia e di suggerire norme di buon comportamento.
- La carta di Venezia (1964), spiega che lo scopo del restauro è conservare e rivelare i dati formali e storici del
monumento, e che tale azione si fonda sul rispetto della sostanza antica e delle documentazioni autentiche  dato
caratterizzante il restauro: “conservare-rivelare”
- Successivamente la Carta del Restauro del M.P.I. (1972), operante in ambito esclusivamente italiano, ha precisato,
che intende per restauro qualsiasi intervento volto a mantenere in efficienza, a facilitare la lettura e a trasmettere
integralmente al futuro le opere e gli oggetti d'interesse artistico, storico, paesistico e ambientale  dato
caratterizzante il restauro: “mantenere in efficienza-facilitare la lettura”

Il restauro non è mera operazione tecnica, né espressione di una strategia di sola valutazione economica dei beni
culturali; esso si rivela dipendere in primo luogo dalla storia e dalla critica, e perciò è profondamente diverso dalla
manutenzione.
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I momenti fondamentali dell'attuale riflessione sul restauro vanno ricercati, in primo luogo, nel periodo a cavallo fra
‘800 e ‘900, con la formulazione e la diffusione dei principi del restauro filologico e scientifico, poi in quella del
restauro critico, infine nella Teoria di C. Brandi, che costituisce ancora oggi un ineguagliato punto di riferimento: essa,
muovendo dagli stessi presupposti idealistici del restauro critico, ne ha sviluppato in modo originale le prospettive
teoretiche con l'apporto della fenomenologia e dello strutturalismo. Il tutto, non solo a parole, ma anche con un
impegno operativo di grande qualità come quello fornito dall'Istituto Centrale del Restauro, in Roma.

Il “restauro critico” pensa che ogni restauro sia un caso a sé, non risponde perciò a regole prefissate: sarà l'opera stessa
a orientare il restauratore di volta in volta. Ne consegue lo stretto legame tra l'attività conservativa e la storia artistica, al
fine di ottenere risposte soddisfacenti ai problemi che il restauro pone (reintegrazione delle lacune, rimozione delle
aggiunte, ecc.).
L'intervento è, in fin dei conti, motivato dai valori che noi riconosciamo o proiettiamo sull'oggetto: in questo senso la
componente soggettiva è innegabile, purché non si cada nell'errore di confondere soggettivo con arbitrario e si sappia
riconoscere al restauro una sua peculiare scientificità che gli deriva, comunque, da un rigore di metodo, da una
prudenza di fondo, da una paziente ed analitica ricerca che non gli dovrebbero mai far difetto (pena il suo decadimento
da restauro a puro e semplice atto di alterazione, se non di vandalismo).

Le esperienze attuali, specie nel campo della conservazione architettonica, sono particolarmente deludenti.
Si assiste a un'indebita semplificazione dei problemi e dell'approccio all'opera (ridotta al solo involucro esterno, a
superficie e colore, a mera struttura statica, a semplice aggregato di materiali, perdendone di vista l’unità),
all'assolutizzazione di una delle due istanze esplicitamente proposte da Brandi, quella storica e quella estetica.
Di conseguenza il dibattito tende a radicalizzarsi: mentre si propugna l'idea della più assoluta conservazione,
inopinatamente emergono nuove tendenze, volte invece ad un più o meno mascherato ripristino, o al “riuso”.

Stiamo assistendo, in campo architettonico, allo sviluppo di una doppia linea di restauro, quella scientifica (di alta
qualità ma quantitativamente limitata) e quella “antiquariale” o commerciale (di sconcertante o deplorevole qualità ma
quantitativamente forte, anche se non sarebbe certo impossibile, con accorte provvidenze, coniugare quantità e qualità).

Il restauro generalmente inteso e il restauro architettonico non hanno nulla che possa distinguerli sul piano concettuale.
Non sembra quindi corretto parlare di un restauro architettonico distinto da quello delle cosiddette opere d'arte mobili.
Più precisamente si dovrebbe parlare d'unità di metodi e di principi, nella pluralità delle tecniche applicative.

La parola “monumento” significa documento, testimonianza. Non intendiamo per monumento solo l'opera intenzionale,
ma tutto ciò che ha valore di testimonianza storica (per la sua antichità) o artistica (per la sua qualità): ad esempio un
monumento può essere un'intera città antica, come anche le tracce storiche del lavoro umano sul territorio.
Le conseguenze di questo pensiero sono l'estendersi dell'attenzione conservativa ad una quantità di beni più ampia.
Questa è stata una delle grandi acquisizioni degli ultimi decenni, quando vennero promulgate le due leggi di tutela
ancora vigenti (leggi n. 1090 e 1497, del 1939).
L’Italia rappresenta una fitta trama di documenti storico-artistici, che risulta quasi completamente antropizzata; ne
deriva che tutela e sviluppo dovranno sempre più confrontarsi.

Rispetto all'antica locuzione, corrente nella prima metà del nostro secolo, di “oggetti d'arte e storia” o di “cose
d'interesse storico-artistico”, l'attuale concetto di “bene culturale” esprime, intuitivamente, qualcosa di più ampio ed
esteso anche in ragione della moderna concezione antropologica della cultura, comprensiva quindi delle testimonianze
del vivere e del lavoro quotidiano, pur nelle sue forme più umili.
Ma l'idea di patrimonio racchiude in sé un senso economicistico, che non sfuggì a Giulio Carlo Argan (“sarebbe più
serio dire che i beni culturali non sono beni, ma l’oggetto di una ricerca scientifica”).
In precedenza la Commissione Franceschini, istituita dal Parlamento italiano per studiare la riforma delle leggi di tutela,
aveva proposto la definizione, sintetica ed a suo modo efficace, di bene culturale come “testimonianza materiale avente
valore di civiltà” (1967).

Il restauro architettonico non è un'attività edilizia qualsiasi, ma è un lavoro peculiare che richiede operatori
appositamente qualificati, una solida mentalità scientifica, tempi adeguati e finanziamenti giusti e continui nel tempo.

Tra i più importanti criteri del restauro moderno troviamo: distinguibilità, reversibilità, compatibilità, minimo
intervento e rispetto dell'autenticità. Questo per preservare al meglio quei beni culturali, quelle opere, che sono
irriproducibili e per questo devono essere mantenute al meglio.

Se l’accorto riuso è uno dei più efficaci strumenti a garanzia della perpetuazione di un monumento, esso non è il fine
del restauro: un bene culturale merita di essere salvato innanzitutto per il suo essere testimonianza materiale avente
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valore di civiltà, memoria storica collettiva, segno d'identità e stimolo educativo per l'intera comunità che ne gode,
indipendentemente da ogni pratica utilità.
È indubbio però che attribuire una funzione ad un monumento, oltre a garantire la manutenzione, potrebbe garantire
anche ulteriori finanziamenti.
Possiamo quindi dire che il principio fondamentale è che si restaura per conservare, e che, per garantire la migliore
conservazione, una delle più efficaci strategie consiste nell’attribuire agli oggetti una funzione appropriata, un uso.

La differenza tra:
- “recupero” indica un intervento su preesistenze generiche, che non siano state riconosciute come beni culturali, per
trarle da una condizione di abbandono o sotto-utilizzazione al fine di riattivare una risorsa economica
- “restauro” è preceduto da tale riconoscimento, che spiega e che guida ogni successiva operazione proprio per
ragioni di cultura
Di fronte agli oggetti storico artistici non si potrà più intervenire che in termini di conservazione e di autentico restauro,
in termini di “conservazione integrata” (Dichiarazione di Amsterdam, 1975).

Nel restauro si rivela artificiosa la distinzione tra “progetto di consolidamento” e “progetto di restauro”; in realtà, il
consolidamento non è solo qualcosa di legato all’aspetto tecnico, fisico e matematico, senza riferimento alla ricerca
storico-critica, ma dovrebbe rispondere a quelle stesse regole che guidano il restauro e diventare quindi un'accezione
del restauro stesso.

La moderna idea di restauro nasce e si sviluppa nel campo letterario, negli studi degli antiquari di ‘500 e ‘600 e non
degli artisti (che si dedicano invece a un “restauro creativo”): sono i letterati che individuano con chiarezza le ragioni
culturali e non pratiche del conservare (ragioni religiose e celebrative, storiche e documentarie).

PARTE I: NATURA E COMPITI DEL RESTAURO

1.PER UNA DEFINIZIONE ATTUALE DEL RESTAURO

Negli anni più recenti il termine “conservazione” è stato, in Italia, adoperato per designare le concrete operazioni in
difesa dei beni culturali  viene privilegiata la natura “conservativa” rispetto a quella “reintegrativa”.
Ciò anche in conseguenza di un rinnovo lessicale influenzato dall’uso anglosassone di definire come conservation il
restauro correttamente inteso, avendo l’espressione restoration assunto fin dall’800 una connotazione negativa, di
ripristino o ricostruzione.

A questo punto è necessario chiarire il significato dei due termini del nostro discorso: “restauro” da intendere, in
prima definizione, come intervento diretto sull’opera ed anche come sua eventuale modifica, condotta sempre sotto
un rigoroso controllo storico-critico; “conservazione”, come opera di prevenzione e salvaguardia, da attuare proprio
per evirare che si debba poi intervenire col restauro, il quale costituisce pur sempre un evento traumatico.
 In molti casi, infatti, le condizioni in cui si presenta l’oggetto da tutelare sono tali da richiedere non una buona
manutenzione ma quella duplice categoria di operazioni che C. Brandi ha chiaramente individuato e discusso: la
reintegrazione delle lacune e la rimozione delle aggiunte; qui il puro e semplice atteggiamento conservativo si
rivela impotente ed è necessario ricorrere alle indicazioni restauro.

Ciò non significa che il restauro sia un atto arbitrario e dannoso; esso invece costituisce quanto di meglio
concretamente si possa fare.
È opportuno essere molto chiari: stabilito che ogni “oggetto” di restauro gode di una doppia polarità, quella storica e
quella estetica, compito del restauratore sarà di riuscire a contemperarne, con senso critico e con grande accortezza, le
opposte istanze di volta in volta (es. antica pregevole tavola più volte ridipinta: potrebbe l’istanza estetica reclamare la
rimozione degli strati di colore successivi e, contemporaneamente, la storica esigerne il pieno rispetto quali
testimonianze)  “restauro critico” (per molti versi contrapposta alla cosiddetta “pura conservazione”).

Ogni sforzo andrà fatto affinché sempre più si diffonda la cultura della prevenzione, ovvero la buona manutenzione e
la cura preventiva degli edifici. È il fine cui tendono le indicazioni della “conservazione integrata” che da più di un
quindicennio mira a coniugare le ragioni della conservazione con quelle del buon uso degli antichi monumenti, unica
reale garanzia di controllo e di difesa preventiva.
In questo senso il “restauro dei monumenti” sempre più dovrà contrarsi sul piano quantitativo, fino a divenire, nel
futuro, una metodica d’intervento soltanto eccezionale.

Quelle che non risultano comunque accettabili sono alcune premesse concettuali della “pura conservazione”, come la
negazione della liceità dell’istanza estetica (considerata soggettiva, inaffidabile e transeunte) a confronto con quella
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storica (ritenuta stabile ed oggettiva). Ne consegue, inoltre, che il restauro non potrà mai riguardare la semplice
operazione pratica; esso è atto di cultura e specificatamente di comprensione storico-critica, prima ancora che
procedimento tecnico.

Non si può sostenere neanche l’altra ipotesi radicalmente conservativa, proveniente dal versante “scientifico” della
ricerca, che ne restauro debba escludersi qualsiasi componente creativa, quasi che l’intervento possa essere attuato,
indifferentemente per tutti gli oggetti, dai più piccoli all’intero territorio antropizzato: intervenire, anche ai fini del
semplice mantenimento e consolidamento, comporta sempre la necessità di modificare, non per il piacere di abbellire
e di rinnovare, ma perché con il solo agire sulla materia dell’oggetto si finisce per incidere sulla sua immagine.

“Restauro”: intervento ed anche eventuale modifica dello stato di “Conservazione”: opera di prevenzione, condotta
fatto, non a fini d’indebito abbellimento, ma difensivi, “prima sull’ambiente e poi sulle cose”, di
conservativi e di facilitazione della “lettura”, attuato nella sintesi salvaguardia e costante manutenzione, da porre in
dialettica delle due fondamentali istanze, la storica e l’estetica. atto per evitare all’opera il “trauma” del restauro.

Dopo queste necessarie precisazioni, è necessario porsi la domanda su che cosa oggi s’intenda più approfonditamente
ed analiticamente per restauro.
- Non è il semplice “ripristino”, il “risarcimento” di una struttura, la “riparazione” funzionale di un oggetto, il
“rifacimento” più o meno integrale di un manufatto.
- Non è neanche il cosiddetto “riuso” (semplice mezzo per assicurare la conservazione di un edificio storico e per
volgerlo, se possibile, a scopi sociali, ma non è il fine primario né può pretendere di risolvere in sé tutta la
problematica del restauro), con i suoi derivati ed analoghi, quali la “rivitalizzazione”, la “rianimazione”, il
recycling, il “recupero” (si volge indifferentemente, sempre per motivazioni pratiche ed in primo luogo
economiche, a tutto il patrimonio esistente maltenuto o sottoutilizzato).
- Non sono restauro neanche la “salvaguardia”, la “manutenzione” e la “prevenzione”, tutti interventi importanti ma
ricadenti ancora nel campo della “conservazione”, intesa in senso stretto.
- Non lo sono la salvaguardia e la prevenzione (provvedimenti che non implicano “l’intervento diretto sull’opera”)
- Non lo è la manutenzione perché, pur contemplando un tale tipo di intervento, non richiede se non un embrionale
impegno storico-critico, che del restauro è condizione essenziale e fondativa.

Per comprendere cosa sia in realtà il restauro conviene riconsiderare alcune moderne definizioni:
- 1963 C. Brandi: “Il restauro costituisce il momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte nella sua
consistenza fisica e nella duplice polarità estetico-storica, in vista della sua trasmissione al futuro”; esso “deve
mirare al ristabilimento dell’unità potenziale dell’opera d’arte … senza commettere un falso artistico o un falso
storico, e senza cancellare ogni traccia del passaggio dell’opera d’arte nel tempo”.
- 1963 R. Bonelli: “Il restauro, inteso come valutazione critica, si identifica con la storia artistica ed architettonica”
- 1964 Carta di Venezia: Scopo del restauro “è di conservare e di rivelare i valori formali e storici del monumento”;
esso “si fonda sul rispetto della sostanza antica e delle documentazioni autentiche”.
- 1972 Carta del restauro del M.P.I.: “S’intende per restauro qualsiasi intervento teso a mantenere in efficienza, a
facilitare la lettura e a trasmettere integralmente al futuro le opere ” d’interesse monumentale, storico e
ambientale.

Da tutte queste definizioni emerge una convincente risposta alle domande in precedenza avanzate su che cosa sia da
intendersi per restauro ed, implicitamente, sul perché, come e che cosa si restauri. Generalizzando, si può affermare
che si restaura perché si è preventivamente riconosciuto ad una serie di oggetti un “valore” particolare, artistico
(considerati come “opere d’arte”) o documentario, estetico o storico (considerati come “testimonianza di storia”);
sarebbero quindi “oggetti di cultura” (beni culturali), testimonianze materiali aventi “valore di civiltà”.
Ma tale riconoscimento non può essere effettuato se non con gli strumenti della storiografia generale e di quella
storico-artistica in specie.

Chiarito il “perché” del restauro si è data automaticamente risposta alla successiva domanda, riguardante il “che cosa”
restaurare: tutto ciò che, senza forzature d’ordine pratico, economico o sociale, è riconosciuto come “bene culturale”,
secondo una vecchia dizione, pur sempre valida ed efficace, come “oggetto d’arte e di storia”.
Tale riconoscimento comporta lo studio filologico preliminare ed il giudizio critico sull’opera che, se espressione
artistica, storico-artistica o puramente documentaria di un fare umano vetusto e remoto, ormai lontano dall’attuale
civiltà, è oggi, per definizione, unica e irripetibile, da trattare quindi con tutte le cautele.

Riguardo il “come” restaurare, si potrebbe ora richiamare soltanto il criterio per cui, se diverse potranno naturalmente
rivelarsi le tecniche operative, comuni saranno di certo i principi e la metodologia di base.
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In ogni caso è necessario ribadire lo stretto legame che unisce, nel restauro, la tecnica al fondamento storico-critico di
cui si è detto, per cui la prima non potrà mai costruire una variabile indipendente ma dovrà sempre confrontarsi con i
valori di cui il monumento è portatore e ricondursi entro i binari delineati dall’indagine storica. Il che significa, ad es.,
che nel ventaglio di soluzioni tecniche andrà sempre effettuata una selezione in termine di valutazione critica.

Si intende per “restauro” qualsiasi intervento volto a tutelare ed a trasmettere integralmente al futuro, facilitandone la
lettura (chiara e storicamente esatta) e senza cancellarne le tracce del passaggio nel tempo, le opere d’interesse storico-
artistico ed ambientale (dal singolo edificio alla città antica, inclusi paesaggio e territorio); esso si fonda sul rispetto
della sostanza antica e delle documentazioni autentiche costituite da tali opere, proponendosi, inoltre, come atto
d’interpretazione critica non verbale ma espressa nel concreto operare  ipotesi critica e proposizione sempre
modificabile, senza che per essa si alteri irreversibilmente l’originale.
Sulla base di tutto ciò, si potrebbe quindi definire il restauro dei monumenti un’attività rigorosamente scientifica e
filologicamente fondata (sostanziata dagli apporti delle tecniche di analisi, rilevamento, rappresentazione grafica e, più
propriamente, costruttive, oltre che delle scienze fisiche e chimiche), che gode di un fondamento storico-critico,
sostanziato dagli apporti delle tecniche di rilevamento, rappresentazione grafica e, più propriamente, delle tecniche
costruttive, oltre che dalle scienze fisiche e chimiche, e che chiede l’apporto di vari esperti con competenze diverse
(archeologo, ingegnere strutturista, architetto restauratore, esperto di pitture murali, ecc.)
Nel restauro hanno parte preminente le operazioni di carattere strettamente conservativo, tese a preservare dal
deperimento i materiali che non corrono alla costituzione fisica delle opere.

Unitaria è la base concettuale del restauro ed omogenei sono i criteri di metodo per il restauro dell’intera serie dei beni
culturali, anche se ovviamente differenze si avranno nelle concrete applicazioni e nelle singole procedure tecniche, a
seconda della tipologia di bene che si restaura.

2.LA CULTURA DEL RESTAURO NELL’ULTIMO DECENNIO E ALCUNE QUESTIONI DI LESSICO

Negli ultimi due decenni il tema del restauro ha suscitato un’attenzione prima assolutamente impensabile; ne è
scaturito un panorama molto diverso da quello, alquanto ristretto, proprio degli anni ’50 e ’60.
Se gli esiti della metodica partecipazione delle scienze al campo conservativo attestano un netto progresso non
altrettanto può dirsi dell’accresciuto impegno economico, spesso rivelatosi come il segno di una strumentalizzazione
dei beni culturali stessi (piattamente identificati con i “comuni” beni economici e visti quali fonti di reddito o di ritorni
finanziati ed “occupazionali”, che quali testimonianze di civiltà, uniche e irripetibili, da tutelare per ben più profonde
ragioni di cultura, oltre che ampiamente sociali).

Anche la produzione teorica e quella legislativa hanno visto l’apporto di competenze non sempre propizie ad un serio
chiarimento dei principi e delle motivazioni prime del conservare, registrando più spesso le voci dell’improvvisazione
e della conversione di comodo dal campo dell’edilizia corrente al restauro monumentale, che quelle della tutela
correttamente intesa. Si hanno quindi proposte degno ma poco convincenti (piena autonomia del restauro
architettonico da quello artistico) e proposte di più bassa lega (rivendicanti tale autonomia quale esenzione del rispetto
dei criteri scientifici e metodologici della conservazione, permettendo di avere, ad es., mano libera nei centri storici).

Nel 1980 Liliana Grassi parte da una riconsiderazione storica di tutta la moderna vicenda del restauro per giungere a
delineare limpidamente la situazione contemporanea.
- Alle posizioni “tradizionali” espresse dalle Carte del 1964 e 1972 , in gran parte discendenti dalle concezioni
“filologiche” e “critiche” del restauro, si erano affiancate, con intenti di aggiornamento se non direttamente
sostitutivi, idee di matrice prevalentemente socio- urbanistica. Un’opzione favorevole in tal senso era già
nell’emergente nozione di “bene culturale”, opposta a quella più antica di “oggetto d’arte”.
- Inoltre la nozione di bene culturale come “testimonianza materiale avente valore di civiltà” prodotta dalla
Commissione Franceschini, aveva aperto la strada alla sua identificazione con la “pura e semplice testimonianza
storica”, riconoscendosi il fine ultimo della tutela “nella garanzia della conoscenza scientifica”.
- La nozione di “conservazione integrata”, enunciata ad Amsterdam nel 1975 (Carta Europea del Patrimonio
Architettonico), accoglieva bensì l’invito a ricondurre il restauro dei centri storici entro la pianificazione
urbanistica e territoriale; poneva così come “fondamentale il recupero della dimensione qualitativa e della
continuità storica” della città, nella piena coscienza che “l’avvenire non può essere costruito a spese del passato”.
- Scrupoli assenti in altre coeve proposte, come quelle del “riuso” materiale dei beni culturali o del loro “riutilizzo”
(spesso realizzato mediante rozzi “rinnovi”), posizioni, queste, che fondano la loro ragion d’essere nel
presupposto dell’utilità come vera e sola motivazione da opporre ai fini spirituali di qualsiasi matrice (“il recupero
può prevedere anche interventi radicali per rendere idonei alla necessità del nostro tempo oggetti nati per
soddisfare bisogni diversi”, così da recuperare ad esempio i quartieri di sviluppo del secondo dopoguerra e le
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periferie urbane, migliorando la qualità di vita dei loro abitanti).


- La palese immissione di interessi politici e anche di parte, accanto a quelli più generalmente socio-economici nel
dibattito, risultava con evidenza da altre locuzioni usuali nello scorso decennio; ci si riferisce alla cosiddetta
“riappropriazione” o “appropriazione dei beni culturali” , considerati simboli delle classi dominanti ed alla
conseguente interpretazione degli stessi, non esclusi ovviamente i centri storici, quali oggetti e temi funzionali alla
lotta di classe.
- Per altra via e non da quella propriamente urbanistica emergeva il fondamento teorico del “restauro tipologico”, in
qualche modo apparentato ad una concezione strutturalista della città e dei suoi processi di sviluppo; propagandato
in tutto il mondo dalla risonanza dell’esperienza di Bologna che ebbe una stagione di straordinario successo,
diventando per molte amministrazioni l’unico “credo” del restauro. Eppure oggi, per varie ragioni, sembra in
declino (tanto per gli attacchi del versante storico-critico, che ne hanno dimostrato l’astrattezza e la sostanziale
indifferenza ai dai concreti della filologia architettonica; quanto per la povertà e l’ambiguità dei risultati
conseguiti e per la concorrenza sul piano applicativo, tecnico e burocratico). Il giudizio di L. Grassi sul “restauro
tipologico” si è rivelato tanto duro quanto profetico, riconoscendo in tale prospettiva la volontà di “ridurre il
restauro a mera ricreazione di tipologie edilizie quali espressioni di uno status sociologico; essa risponde al
medesimo principio della falsificazione, giacché recupera, in certo modo, in vecchio concetto di analogia e
ipotizza la sostituzione della mitologia alla storia”.

Il “recupero” è concepito come la faccia “ragionevole” del restauro, quella che non solleva troppe questioni , contro
l’altra, “autoritaria”, di chi, soprintendente coscienzioso o semplice uomo di cultura attento alla difesa delle memorie
storiche, continua a porre con rigore e insistenza problemi di conservazione. Se quindi il vero e proprio restauro
“monumentale” andrebbe limitato alle costruzioni notevoli ed emergenti sul panorama urbano, il recupero sarebbe
invece lo strumento d’elezione per intervenire, senza tante complicazioni storiche e teoretiche, sulle restanti
preesistenze, nuove o antiche che siano, ma preferibilmente antiche; esso potrebbe identificarsi, quindi, con una storia
di restauro breve o semplificato nei riguardi delle prevalenti esigenze di riuso e di adattamento degli antichi edifici alla
necessità del vivere moderno.

L’equivoco insito in tale concetto estensivo di recupero è già tutto nelle L. 457/1978 (Norme per l’edilizia
residenziale) che ad esso ha dato un’identità ufficiale e, con la definizione dei “livelli d’intervento” (risanamento
conservativo, ristrutturazione edilizia, ecc.), il valore di un metodo operativo privilegiato, sostanziato da congrui
finanziamenti.
In effetti il dubbio che, trattando di preesistenze ubicate, la legge, volta a prevalenti fini socio-economici (e non certo
culturali) avrebbe potuto intaccare il patrimonio storico-nazionale, aveva sfiorato il legislatore: nella discussione in
parlamento, però, esso fu subito risolto, facendo riferimento alle leggi di tutela del giugno 1939, ritenute in grado di
proteggere l’integrità de monumenti.

La vicenda lascia perplessi sul rado di cultura e di conoscenza dei problemi in questione, da parte dei nostri legislatori,
quando solo si pensi alle ripetute affermazioni di studiosi e giuristi circa l’attuale insufficienza delle due leggi di tutela
(1939), ottime all’origine ma oggi irrimediabilmente invecchiate e soprattutto non rispondenti alla moderna
concezione di bene architettonico e ambientale, estesa da decenni all’intero costruito storico.

Non solo le leggi, ma anche i termini usati, risultano particolarmente invecchiati:


- La stessa dizione di “bene culturale”, fatta propria dall’omonimo ministero interno alla metà degli anni ’70, risulta
sul piano lessicale ambigua ed equivoca (es. nel sostantivo risiede una nozione inequivocabilmente economica).
Affermazioni queste che non comportano l’ingenuità di trascurare o dimenticare “anche” l’importanza economica,
sociale, d’uso e via dicendo di tali beni ma che sottolineano chiaramente come le ragioni “di cultura e civiltà”
siano quelle principali per cui si postula la conservazione.
- Né il termine sempre attuale di “monumento” meriterebbe, come alcuni vorrebbero, di esser posto nel
dimenticatoio o di venire male inteso; è quanto accade quando lo si restringa a significare la sola opera
eccezionale, per storia ed arte, oppure i soli “monumenti internazionali”. Se tale accezione ristretta poteva essere
vera nel 1800, non lo è più oggi da quando la riflessione storico-critica l’ha ricondotta alla giusta dimensione,
coincidente con quella più antica, originale ed etimologica di documento e testimonianza.
- Un’altra opposizione lessicale che negli anni scorsi ha avuto notevole risonanza è stata quella di “restauro”
(termine che sembrava ricondurre, negativamente, ad una preconcetta volontà d’intervento, guidata da velleità ri-
creative e dal prepotere dell’istanza estetica su quella storica, in altre parole all’alterazione, più o meno
“correttiva” dell’oggetto) e “conservazione” (termine che sembrava ricondurre ad un atteggiamento più moderno e
scientifico di rigorosa tutela e perpetuazione, nella sua integrità materiale, del medesimo oggetto, visto in primo
luogo sotto l’istanza della sua storicità).
 In effetti questa seconda accezione meglio risponde agli orientamenti della cosiddetta “pura conservazione”,
per il dichiarato intento di azzerare concettualmente ogni portato dall’esteticità dell’opera e lo stesso “giudizio
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critico” che avrebbe dovuto guidare il brandiano contemperamento delle due istanze; il tutto a favore di una
esclusiva considerazione in chiave storica o documentaria/testimoniale.

In un senso più generale il concetto di conservazione è stato usato in due modi diversi , che hanno dato luogo a qualche
incomprensione:
- Sulla scia di quanto sopra e ad imitazione dell’anglosassone conservation, la conservazione è stata come il “lato
migliore” del restauro (quello eminentemente conservativo), perché proprio nella lingua inglese il termine
restoration ha mantenuto fino ad oggi una sfumatura negativa (come di “restauro stilistico” e volto al ripristino,
attardato su posizioni ottocentesche).
- L’altro uso era invece teso a designare tutte le misure che, per tutelare e difendere il bene, si devono assumere
prima di quell’atto diretto e materiale d’intervento sull’opera che è il vero e proprio restauro; si tratta cioè
dell’insieme di provvidenze, urbanistiche, sociali, economiche, funzionali ed ecologico-ambientali che dovrebbero
garantire la tutela (“prevenzione”, “preservazione” o “restauro preventivo”).

Con l’inizio dell’attuale decennio si è notata l’irruzione delle scienze nel campo del restauro; essa tuttavia non ha
sempre stimolato reali approfondimenti di metodo.
Il trasferimento, senza mediazione teoretica, di principi dal campo dalla ricerca fisico-chimica, per la conservazione
dei singoli materiali, a quello concettuale ha sortito esisti assai dubbi; muovendo dall’intento della più rigorosa
conservazione, questi si sono imprevedibilmente coagulati intono ad un’estensiva nozione di “manutenzione”,
pericolosamente vicina alla pratia del “ripristino” di ottocentesca memoria.

Argan scrive che “esiste certamente una tradizione del moderno (del presente), mentre dell’antico si vuole la
conservazione integrale perché non esiste più, né può essere riallacciata una tradizione dell’antico”.

Per completezza di ragionamento è bene rammentare infine alcune locuzioni para-restaurative che molte volte possono
trarre in inganno; ci si riferisce a ciò che potrebbe meglio essere collocato:
- “Prima del restauro” (ma “manutenzione” nel suo senso tradizionale d’intervento manuale privo di coscienti o
palesi implicazioni critiche, la “tutela” e la “salvaguardia”, attuate con provvedimenti essenzialmente legislativi,
fiscali e finanziati, ecc.);
- “Oltre il restauro” (perché lo supera e spesso lo travolge con intenti che sono piuttosto ri-creativi che conservativi,
come la “ricostruzione”, il “completamento”, la “ricomposizione” e la “restituzione in pristino”, la
“innovazione”);
- “Accanto al restauro” (ad esso apparentandosi per tecniche ma non per intenzioni né, a parte le apparenze, per gli
oggetti che interessa, come il “recupero” appunto il “risanamento”, il recycling, forse la “vitalizzazione e
“valorizzazione”);
- “Dentro il restauro” (come il “consolidamento” che, quando tocca beni culturali, è consolidamento “critico” e come
tale costituisce un’aggettivazione del restauro e dei suoi problemi statici).

Potremmo concludere tornando a un pensiero di Cesare Brandi: “il restauro costituisce il momento metodologico del
riconoscimento dell’opera d’arte, nella sua consistenza fisica e nella sua duplice polarità estetica e storica, in vista
della sua trasmissione al futuro”.
Dimostrata dallo stesso Brandi l’opportunità di allargare il concetto di restauro anche alle testimonianze puramente
storiche, preciseremo quindi che esso non riguarda qualsiasi preesistenza, ma si identifica con un’azione cosciente in
favore dei beni culturali; che riveste scopi eminentemente conservativi, ma non solo tali, preoccupandosi, oltre che
della trasmissione al futuro, di agevolare e “facilitare la lettura” delle opere stesse.
In queste parole, con un po’ di attenzione, si riconosce in tutto ciò che può interessare anche gli architetti e che la più
avvertita riflessione in materia ha già esplicitato: la prevenzione, o conservazione, e il vero e proprio restato in tutti i
suoi aspetti, da quelli specifici di reintegrazione delle lacune e di mantenimento o rimozione della aggiunte, al
consolidamento statico ed al risanamento della materia ammalorata; dalla necessità di un intelligente riuso
(compatibile con le “vocazioni” dell’edificio) al conseguente soddisfacimento delle ragioni sociali ed economiche le
quali, a chi non sappia apprezzare l’autonomia di valori della tutela, daranno comunque il conforto di più pratiche,
concrete e condivise motivazioni.
In ogni caso si dovrà tenere presente che non si ha un buon restato se questo è limitato, come si usa dire, alle “sole
pietre”; restaurare un monumento vuol dire adoperarsi per la sua conservazione attraverso appropriati e rispettosi
procedimenti tecnici, ma soprattutto mediante l’attribuzione di funzioni compatibili ; ma tali funzioni saranno sempre
“mezzi” della conservazione e mai “fini”.

Di fronte ai beni culturali non sarà dunque necessario rivolgersi alla via breve del recupero, ma si procederà sempre in
termini di vero e proprio restauro, meglio se in una prospettiva urbana e territoriale di conservazione integrata.
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PARTE II: NOTE DI STORIA DEL RESTAURO

1.ANTICIPAZIONI DI RESTAURO PRIMA DEL XIX SECOLO

“L’interesse per i monumenti antichi risale, in Italia, al rinascimento; anche se non mancò taluna isolata attenzione e
persino qualche sporadico tentativo di restauro … durante il medioevo”. Si può, comunque, affermare che “il
rinascimento non conobbe il restauro” perché allo studio e al rilievo dei monumenti fece, molto spesso, corrispondere
la loro distruzione. In sostanza, “sino alla seconda metà del sec. XVIII non vi fu una coscienza del valore artistico e
storico”. Queste affermazioni, formulate più di quarant’anni fa, possono ancora oggi essere condivise, anche se con le
dovute precisazioni e con l’aggiunta d qualche novità storiografica.

Tuttavia, fra chi giudica il restauro come un atteggiamento prettamente moderno (da Viollet-le-Duc a G. Giovannoni
e, nel nostro tempo, da Perogalli e Bonelli a Conti) e chi lo vede, al contrario, quasi come una costante del fare umano
(da Angelis d’Ossat alle recenti asserzioni di Melucco Vaccaro, che lo interpreta, però, in chiave di “riuso”) il
confronto è sempre aperto, anche perché sfuggente è il concetto stesso di restauro, mutando il quale variano anche i
termini della sua delimitazione cronologica.
Sembra, in ogni modo, che sia possibile riconoscere, a partire da una serie di confusi e difformi atteggiamenti vero le
preesistenze, un lento processo d’avvicinamento al moderno e più rigoroso concetto si restauro.

Ricorrenti attenzioni conservative e restaurative si riscontrano in tutta la storia umana, motivate soprattutto da ragioni
religiose, politiche o rappresentative (es. scrupolosa cura in età classiche delle poche colonne lignee superstiti di
alcuni tempi arcaici).
Soltanto col nascere del moderno senso storico, con lo sviluppo dell’archeologia e della storia dell’arte (che troverà,
fra ‘500 e ‘600, un determinante ausilio nell’attenzione controriformistica alle antiquitates christianae), si potrà
superare l’impasse rinascimentale e giungere, fra tardo ‘700 e primo ‘800, ormai in età neoclassica, a parlare
propriamente di restauro.

Sappiamo che nel tardo impero le spoliazioni di edifici abbandonati dilagarono a tal punto che, a partire dalla metà
del IV sec, si rese necessario emanare nuove leggi per la protezione, specialmente a Roma, delle costruzioni più
antiche (spogliate con lo scopo di ottenere materiali edilizi a basso costo, oppure per motivazioni religiose); si
rivelarono però inefficaci.
Non si tratta di tutela nel senso moderno del termine ma della volontà di proteggere più che i singoli monumenti, un
residuo di decoro urbano e la memoria della passata grandezza (tipico è il caso dell’unico grande bronzo antico non
“archeologico” pervenutoci in Roma, il monumento equestre a Marco Aurelio, rimasto sempre fuori terra per tutto il
medioevo fino al Rinascimento e rispettato grazie all’erronea identificazione con il caballus Constantini).
Seguono poi ragioni di legittimazione politica, cioè il recupero dell’antico come segno di continuità con il passato e
quindi con l’autorità degli antichi imperatori romani (è il caso della renovatio imperii carolingia ed ottoniana, fra VIII
e XI sec) e, solo in ultimo, d’apprezzamento estetico.

Se il riuso è sempre esistito , nel mondo tardoantico e soprattutto in quello protocristiano e poi medievale, se ne può
osservare una forma totalmente originale, quella che propone coscientemente i vecchi oggetti secondo un nuovo
nesso logico-formale o perfino secondo il nesso originale, attentamente interpretato o restituito.
In Egitto, in Grecia ed anche a Roma si è frequentemente costruito utilizzando materiale più antico (es. Acropoli e
Agorà di Atene), ma solo dal IV secolo si riusano gli elementi ornamentali secondo un’intenzionalità e una volontà
artistica più evidenti (es. il monumento di San Salvatore di Spoleto); ma anche questa è cosa diversa dal restauro.

Nel ‘300 sono da ricordare le dure espressioni di Petrarca contro il riuso, dalle motivazioni piuttosto politiche che
artistiche, nella sua Hortatoria a Cola di Rienzo e al popolo romano (1347): “incrudelirono sui palazzi crollati per
vetustà o per violenza, dimore, un tempo, di uomini illustri; poi sugli spezzati archi trionfali … né si vergognano di
fare ville mercato e turpe guadagno dei frammenti della stessa antichità … Così a poco a poco le rovine se ne vanno,
così se ne vanno ingenti testimonianze della grandezza degli antichi”.

In seguito, già nel ‘400 romano, possiamo rilevare gli esiti di un più deciso e concreto interesse per le antiche
testimonianze in quanto tali:
- Papa Eugenio IV libera il Pantheon dalle costruzioni che gli si erano addossate.
- Sisto IV restaura il tempio di Vesta ed isola i resti dell’arco di Tito.
- Nicolò V fa restaurare a Rossellino la chiesa di Santo Stefano Rotondo.
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- Pio II Piccolomini promulga il 28 aprile 1462 la bolla Cum alman nostram urbem, a tutela dei monumenti e dei
ruderi antichi, e nel 1538 Paolo III un’altra, “per invitare alla conservazione dei monumenti Roma, oltremodo
significativa anche se non risolutiva”.

Ciononostante Ceschi osserva che in “mancanza di una visione storica del passato il rapporto uomo-opera d’arte è
sempre impreciso, mutabile, arbitrario e quando gli architetti si accostano al monumento, per riadattarlo alle nuove
esigenze, per sostituirvi qualche parte o per completarlo, è sempre il monumento che deve entrare nella visione
dell’architetto e mai viceversa. Il che non è precisamente quello che noi chiamiamo restauro”.

Già diversa si manifesta invece la temperie, soprattutto in termini di idee, nell’età della Controriforma, per l’irrompere
nel campo di quell’interesse verso le citate antichità cristiane, capace di opere l’invocato mutamento di visione storica
del passato (che condurrà, nel ‘700, a un rispetto esteso anche al medioevo e in generale a tutto il lascito del passato).

Va detto comunque che tali atteggiamenti di proto-conservazione furono propri di persone di cultura storico-letteraria
o religiosa e non, tranne eccezioni, di artisti e architetti (per loro natura più portati al rinnovamento che alla modifica).

Bisogna precisare che in campo pittorico, fra ‘500 e ‘600, sono già numerose le testimonianze contrarie alle
consuetudini del restauro di ritocco o di rimessa a nuovo dei dipinti.
Nel campo delle sculture si rafforza invece nel ‘600 la tendenza reintegrativa, che diventa particolarmente creativa.

Nel Rinascimento, scrive Cagiano de Azevedo, non si è “restauratori se non si è artisti” e l’ideale consisteva nel
“confondersi con l’antico, il lavoro nuovo non si doveva distinguere da vecchio e meglio l’artista riusciva ad imitare
l’antico, più il restauro era apprezzato e lodato”.
“Il gusto di abbellire non consisteva solo nell’integrare o sistemare piacevolmente le antichità, ma talvolta nel
modificarle anche radicalmente l’aspetto e il significato”, giungendo a correggere l’antico “perché non
sufficientemente ‘antico’” o non rispondente ai canoni di bellezza; si tratta di un processo creativo.
Già nel ‘500 e poi in età barocca, il restauratore segue sempre più il proprio gusto per le composizioni plastiche e
decorative piuttosto che immedesimarsi nell’artista antico.

Sempre significativo è il raffronto con la voce dei letterati, degli eruditi e degli antiquari che avevano raggiunto
posizioni di rispetto dell’antico molto più avanzate di quelle degli artisti militanti.
- In merito alla Chiesa di San Giovanni in Laterano, il Ciaconio si raccomanda per una tutela della materia che
costituisce la vera novità rispetto alla tradizione rinascimentale (attenta alle antichità soprattutto in quanto forma e
modello). Si tratta di un atteggiamento già evidente in Cesare Baronio, e ancora più maturo nel ‘700.
- Nel 1759 Claude-Philippe de Tubières lamenta il fatto che, nell’impossibilità di evitare che le antiche statue
soccombano alla “malattia” della reintegrazione, coloro che le disegnano e le pubblicano non si preoccupino
almeno di segnare con punti le parti restaurate.
- Un pensiero simile si trova in Giovanni Casanova (“Discorso sopra gli antichi”, 1770), che ritiene che non si
debba più restaurare perché i restauri sciupano le statue.

Il discrimine dunque si manifesta intorno alla concreta difesa della “materia antica”, indicativa d’una moderna
concezione della tutela.
Già nel tardo ‘600/’700, si ha le determinazione di alcuni principi del restauro “scientifico”:
- Nel 1756 troviamo delineato dal canonico Crespi il concetto di conservazione distinto da quello di restauro (“non
si possa fare altro che attendere a conservare, al meglio che ci può”, avendosi cura, invece, di rimuovere le
“cause” del danno), poi quelli di “reversibilità” (“trattasi di un’aggiunta che … può ad ogni ora levarsi a
piacimento senza lesione del vecchio”) e di “patina” (“il dipinto vecchio … ha preso la sua patina dalla calce,
dall’aria, dalla polvere e dall’umido: la qual patina è difficilissimo, per non dire impossibile, da imitarsi”). Crespi
ci fa anche intendere che si è ormai superata l’identificazione rinascimentale del restauratore con l’artista.
- Il concetto di “minimo intervento” è già in Baldassarre Orsini.
- I concetti di buona “manutenzione” e di “prevenzione” sono ricorrenti in Bottari, Crespi e Pasta (XVIII secolo).

Che l’interesse per le antichità avesse assunto particolare evidenza al principio del ‘700 risulta anche dagli interventi
dello Stato Pontificio non solo per la conservazione dei monumenti e degli oggetti di arte e per la repressione degli
scavi abusivi, ma anche per regolarne il commercio e l’esportazione.
- L’editto del 30 settembre 1704 del cardinale Spinola avverte, forse per la prima volta, anche la importanza “delle
antiche memorie ed ornamenti di quest’alma città di Roma”.
- L’editto del cardinale Albani del 10 settembre 1733 ammonisce i trasgressori ricordando “quest’alma città, a cui
sommamente importa il conservarsi in essa le opere illustri di scultura e pittura…la conservazione delle quali non
solo conferisce molto all’erudizione…dà norma sicura di studio a quelli che si applicano all’esercizio di queste
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nobili arti”.
- L’editto del cardinale Valenti (1750) riformula in modo più unitario e organico le precedenti disposizioni.

Nel 1755 la LVII prammatica di Carlo III di Borbone inaugura, nel Regno di Napoli, le norme di tutela dell’antichità ,
contro gli scavi e le esportazioni clandestine.
Il primato storico nell’emanazione di queste antiche leggi di tutela spetta al governo pontificio di Roma, dalla
seconda metà del ‘400 (tutela legata non solo a beni architettonici e archeologici, ma anche a documenti archivistici e
bibliografici).

Tutela e restauro seguono strade e tempi differenti, tanto che se può precocemente parlarsi di tutela, si potrà parlare
solo dal tardo ‘700 di restauro vero e proprio, inteso come codice di condotta per l’intervento diretto e materiale
sull’opera.
È interessante ricordare le singolari anticipazioni di tutela del paesaggio che troviamo in Sicilia. E sempre in Sicilia, si
devono al principe di Torremuzza (1772-92) i primi restauri di monumenti eseguiti da un’organizzazione statale.

Qualche decennio più tardi, anche per merito di Winckelmann, la visione qui appena accennata potrà risolversi in una
più ampia e moderna, già propriamente storico-artistica, dando inizio così a “quella storicizzazione dell’arte antica che
sarà fondamento per una nuova scienza archeologica” e per l’attuale coscienza del restauro.
Winckelmann si approccia al problema del restauro dal punto di vista filologico-ermeneutico, ed è ostile tanto al
restauro inesatto quanto al restauro integrativo, e a qualunque aggiunta; tutto ciò non perché l’opera antica venga
manomessa, ma perché non gli è possibile intenderne il contenuto, impedendo una corretta lettura -> l’opera d’arte
cede di fronte al documento antiquario.

In qualche modo le idee di Winckelmann trovano eco nell’opera di Cavaceppi, il più noto restauratore di statue di fine
‘700: la distinzione fra le parti antiche e le nuove, la preparazione storico-artistica del restauratore, l’astinenza dal
completamento in caso di dubbio, la capacità di seguire la “maniera” dell’antico scultore e non il virtuosismo fine a se
stesso, il divieto di toccare l’originale per accomodarvi le integrazioni, il divieto di lustrare le antiche superfici corrose
dal tempo, soprattutto l’inopportunità della reintegrazione quando la parte originale non rappresenti almeno “i due
terzi” dell’insieme, sono tutte sue utili affermazioni.

A Roma il restauro dell’obelisco di Montecitorio con integrazioni “neutre” e chiaramente distinguibili dall’originale è
ormai cosa molto diversa dai restauri seicenteschi, nei quali si usò il criterio opposto sino ad imitare fantasiosamente i
geroglifici antichi (piazza Navona, 1651).

Con la seconda metà del secolo XVIII si può ravvisare la svolta concettuale e di metodo che segna la vera nascita del
restauro, distinto dalle consuetudini di “rinnovo”, e di “riuso” o comunque di “mantenimento” a fini pratici di maggior
apprezzamento economico, diffuse in precedenza. Si identifica l’atto del restauro con qualcosa che è suscitato da un
giudizio d’ordine eminentemente culturale ed è condotto, con cautela scientifica, da mani esperte e specializzate.

Quando arriviamo alle soglie del XIX secolo le anticipazioni conservative, di cui si è detto, raggiungono maggiore
rigore e più profonda chiarezza. La conservazione e il restauro, modernamente intesi, tendono a confluire in un tipo di
attività che assume su di sé, anche se in modi da luogo a luogo e nel tempo diversi, la volontà e la responsabilità della
perpetuazione delle testimonianze storico-artistiche, dei cosiddetti “monumenti”, in quanto tali.
Siamo all’incirca in età napoleonica ed il processo definitivo di maturazione è rapido e contraddistinto dalla serena
coscienza che gli antichi oggetti si conservano, con le speciali cure che il restauro postula, non perché “utili”, ma in
quanto memorie storiche o espressioni d alta qualità figurativa. Questo è in nucleo fondante ed iniziale di tutta la
vicenda successiva, fino ad oggi.

Quanto alle concrete modalità di saldatura e convivenza del nuovo con l’antico il Rinascimento si innesta nella
vecchia architettura, integrandola o continuandola senza preoccuparsi dell’omogeneità stilistica; ma cercando, in
genere, una accordo armonico od almeno una gradevole dissonanza. Così, con il disegno dell’Alberti, si completa in
forma rinascimentale la romanico-gotica facciata di S. Maria Novella a Firenze e a Venezia viene ricostruito il
campanile di S. Marco.

Con maggior precisione, seguendo l’analisi di Miarelli Mariani, potremmo soprattutto osservare, in ambito
architettonico, prima che si definisca la moderna idea di restauro, interventi che “riplasmando le parti secondo la
maniera del tempo, aspirano alla costituzione di immagini originali”.
La precedente linea interpretativa ben si riconosce in alcuni noti esempi di tale orientamento retrospettivo o, con altre
parole, d’anticipazioni “stilistiche” per ragioni di “convenienza” architettonica. Fra queste, l’addizione
tardoseicentesca, volutamente non distinguibile, di sette assi di finestre al Palazzo Medici Riccardi, in Firenze.
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È difficile dare precisamente conto di tutte queste differenti realizzazioni e delle scelte che le hanno guidate, tuttavia si
può notare come si tratti di opinioni squisitamente interne al fare architettonico; altri orientamenti, in apparenza più o
meno analoghi, rispondono invece a sollecitazioni esterne all'architettura o. come si suoi dire, eteronome: politiche,
rappresentative e celebrative, soprattutto religiose.
Non a caso proprio a Roma, sul finire del ‘500, mentre papa Sisto V progetta una profonda trasformazione del
Colosseo (salvato definitivamente molto tardi, per motivi propriamente religiosi, grazie alla sua dedicazione ai martiri
cristiani), notiamo in altro ambiente il manifestarsi di una nuova coscienza conservativa, espressa (quando possibile)
dall’azione del cardinale Borromeo.
- In Santa Prassede per esigenze di conservazione e di presentazione di reliquie. distrugge due zone del mosaico di
Pasquale Il (inizi del XII sec.) sull'arco trionfale, altrove, dove il contrasto fra antichità e religione non sussiste,
restaura  con una mano si modifica e si distrugge, e con l’altra si cerca di restaurare l’antico.
- Nell’antica chiesa dei Santi Nereo e Achilleo, preserva il mosaico dell'arco trionfale; non potendo fare lo stesso,
per le peggiori condizioni di conservazione, con quello del catino absidale, lo sostituisce integralmente con un
affresco che ripete, pur con alcune significative variazioni, il tema iconografico. Attua, infine, un esteso
programma di conservazione d'antichi monumenta.

Quasi contemporaneo, fra tutti emerge il restauro architettonico del pronao del Pantheon che, per l’immediatezza con
cui lascia distinguere il vecchio dal nuovo, cioè le parti antiche da quelle di reintegrazione, grazie all’uso del
travertino invece del marmo, avrà grande fortuna in seguito, ai primi dell’800, quando sarà preso ad esempio del
modo archeologico e moderno d’intervenire; restauro condotto in due fasi, la prima sotto Urbano VIII Barberini
(1632)e la seconda, con la definitiva sistemazione delle due colonne mancanti, da Alessandro VII Chigi (1667).
Alla volontà del papa studioso e antiquario, che vedeva l'intervento sul Pantheon come occasione per amalgamare in
un 'opera antica e nuova Roma, si contrappose quella dell'artista che difendeva l'integrità e l'autorità del monumento.

Si è parlato di “maniera del tempo”, di “orientamento retrospettivo”, di “conservazione\innovazione”; questi tre


metodi si trovano spesso fusi in una sola opera, come nel caso della Colonna Traiana, restaurata sotto Sisto V. Qui le
integrazioni sono piuttosto mimetiche, mentre innovative risultano la sistemazione architettonica di Giacomo Del
Duca e l’introduzione della statua dell’apostolo Pietro in sommità, sul sito di quella perduta dell’imperatore.

Non facilmente riconducibili alle problematiche del restauro sono i numerosi esempi d'intervento “statico” che
riscontriamo continuamente nel corso dei secoli: da quello sulla guglia del campanile della cattedrale di Salisbury,
attuato con fasce di ferro forgiato da Wren nel 1668.
Gli architetti hanno, invece, preferibilmente operato in termini di riconfigurazione/rinnovamento e qualche volta,
forse, di 'restauro' (inteso come controllata mutazione); quasi mai di conservazione dell'oggetto il quale sembrava,
comunque, richiedere d'essere nuovamente plasmato ed abilmente segnato dal gesto dell’artista, piuttosto che
perpetuato nella sua flagranza di testimone veritiero.

Sandro Benedetti ha riconosciuto come prevalenti tre modi d'intervento:


- Uno minimo, di reimpiego di fabbriche in buona parte ancora in piedi, adeguandole però al gusto del tempo;
- Uno intermedio, che mira alla trasformazione di organismi
- Uno più radicale, volto alla ricerca d’una quasi totale autonomia rispetto ai condizionamenti preesistenti.
I tre modi convivono nel XVII e XVIII sec ma già, nella prima metà del ‘700, a Roma, gli interventi sulle basiliche
paleocristiane ed altomedievali denunciano un modo nuovo d’intendere il rapporto con l’antico (basti pensare alla
finezza dell’opera di Carlo Fontana in San Clemente ove si mantengono in vista le colonne antiche e si perpetua la
tradizionale copertura piana. Si tratta d'una maturazione culturale di rilievo che fa immediatamente sentire come
superati i tradizionali procedimenti di reinvenzione spaziale degli antichi edifici; maturazione che, come abbiamo
detto, discende da un nuovo e diverso apprezzamento storico delle vecchie presenze architettoniche, ma che ancora
non è restauro.

Tutto cambia con l’800; le nuove esperienze, sempre in ambiente romano, con l’originale attività di Raffaele Stern nel
restauro del Colosseo (1806-07) ed in quello più tardo dell’Arco di Tito, portato a compimento da Giuseppe Valadier
(1818-24), costituiscono altrettanti punti d’arrivo e di partenza per nuovi importanti sviluppi.
Più che del frutto di una nuova “sensibilità romantica” si tratta di qualcosa d’altro e di più preciso: i menzionati
esempi segnano, a tutti gli effetti, l’ingresso del restauro architettonico nel cuore del dibattito sul metodo, quello
anticipato da personaggi come Crespi e Bartoli, informato ad una mentalità scientifica ed archeologica (attenta, per
esempio, alla distinzione del pezzo autentico da quello d’integrazione) che già interessava pittura e scultura.

Soprattutto la figura di Stern sembra costituire il punto di raccordo fra tale moderno statuto del restauro architettonico
e l’abbandono delle precedenti, ormai superate, pratiche di rinnovamento ed anche di manutenzione, nate e
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sviluppatesi nel cantiere, ricche si di manualità ma prive di autocoscienza storica e teoretica.


Tale ingresso, alquanto tardivo, sarà foriero di imprevedibili conseguenze, tanto che l’iniziativa della riflessione sul
restauro, sono ad allora appannaggio di una cultura eminentemente letteraria, passerà in mano agli architetti , o meglio,
al restauro architettonico, il quale, per tutto il secolo scorso e per metà del nostro, sino alla fondazione dell’Istituto
centrale del restauro (1939), costituirà il più fecondo laboratorio speculativo ed applicativo della nuova disciplina.

Nella seconda metà del ‘700 vi noteremo il singolare convergere di concetti e di categorie filosofiche in grado di
fornire gli strumenti indispensabili alla moderna idea del restauro, non più fondata su considerazioni pratiche, d’uso o
di riuso, rappresentative, religiose o politiche, ma eminentemente culturali, storico-critiche o, se vogliamo,
scientifiche. Né si tratta del contributo di pensiero di un singolo ma del giungere a maturazione, nel giro di un
cinquantennio, di molti fattori che denotano un profondo, irreversibile cambiamento rispetto al passato:
- Lo sviluppo dell’estetica, da Baumgarten a Kant, con l’affermazione dell’autonomia del giudizio critico;
- Il pensiero illuminista, con la sua volontà di introdurre metodo e scienza nella ricerca storica;
- Il rimpianto del tempo andato e dei valori tradizionali in un mondo in rapida trasformazione sociale, politica ed
economica, anche per l’avviata industrializzazione;
- Una diffusa aridità creativa conseguente all’esaurirsi della poetica barocca;
- I canoni stessi del neoclassicismo;
- Il particolare impatto con l’antico favorito dagli scavi di Ercolano e Pompei (con la riscoperta delle due città
sepolte appariva, in tutta evidenza, l'impossibilità d'immaginare una qualsiasi 'continuità' col passato, il quale si
manifestava realmente come un ciclo concluso e ormai staccato dal presente  non si ammette più la
manomissione, e tutto deve restare così com’è).

Senza strumenti concettuali di natura estetica, critica e valutativa sarebbe stato impossibile rispondere alle domande di
fondo del restauro (come quelle sull'apprezzamento o meno di ogni periodo storico e di ogni espressione umana, sulla
residua natura 'artistica' del frammento, sui limiti della cosiddetta rimozione delle aggiunte, o porsi questioni relative
alle bellezze naturali, al paesaggio, al senso ed alla suggestione delle rovine e via dicendo).
È quindi necessario ricordare la figura di J.J. Winckelmann, lo studioso che per primo affrontò, con rigore
scientifico, la storia dell’arte in senso moderno, introducendo le periodizzazioni storiche e le categorie di lettura che
informeranno la disciplina fino ad oggi. Da Winckelmann in poi le diverse epoche artistiche cominciarono ad essere
distinte secondo le loro peculiarità linguistiche e formali, tramite quei “concetti” stilistici che tanta parte avranno nella
storiografia e nel restauro dell’Ottocento e del primo Novecento.
È allora che l’uomo, per la prima volta con decisa coscienza, pone fra sé e il passato la distanza costituita dal sapere
storico e impara a riconoscere i fenomeni artistici del passato stilisticamente , confrontandoli, caratterizzandoli,
indagandoli non più in termini di emotiva adesione ma tramite un atto riflesso si intellezione. Quest’attività di
“retrospezione riflessiva” privilegia, in un primo momento, il solo mondo classico ma subito dopo, coerentemente con
la sua natura, si estende ad affrontare in progressione tutte le epoche e tutti gli stili, anche i più antichi e lontani.

Se comunque l’archeologia classica nacque con Winckelmann dal mito della bellezza greca idealizzata dalla cultura
tedesca in terra italiana, l’archeologia medievale nacque in terra inglese da una sensibilità anticlassica , di
apprezzamento dell’irregolare, del suggestivo, in una parola del “pittoresco”, che si inquadra nell’esperienza culturale
del preromanticismo. Ma le date coincidono: se l’opera di Winckelmann si colloca tra il 1755 ed il 1764, già nel 1742
Batty Langley aveva pubblicato un libro sull’architettura gotica.
Differente è il caso della Francia, dove fu la Restaurazione che scoprì il Medioevo, come riferimento ideologico,
aprendo la strada, in seguito, a quel restauro stilistico che vide in Viollet-le-Duc il suo protagonista.

Tutte queste circostanze, con un indiscutibile sfasamento cronologico ma con altrettanta sicurezza, hanno conseguenze
sul restauro, che passa ad interessare, prima, gli oggetti antichi, poi, nel corso dell’Ottocento quelli medievali e
rinascimentali; infine, nel ‘900, quelli barocchi e tardobarocchi, gli ultimi ad essere artisticamente apprezzati e
considerati, quindi, meritevoli di conservazione.
Per l’affinamento della metodologia operativa si rivelano fondamentali gli apporti dell’archeologia: lo scavo
stratigrafico; l’attività classificatoria; la ricerca archivistica e documentaria; gli studi linguistici.

In sostanza il moderno concetto di restauro vede, tra la fine del XVIII sec e gli inizi del XIX secolo, la sua nascita ed
una rapida maturazione; l’architettura vi è ormai concepita mediante un “atto riflesso”, differente ed autonomo dalla
creazione; passato e presente, finora uniti nella continuità del fare, divergono ponendosi come momenti contrapposti.
Il restauro propriamente detto è, quindi, definito dalla nuova coscienza storica come atto distinto e storicamente
autonomo dall’opera sulla quale interviene, con un atto non geneticamente creativo, ma critico. In tal modo, fin dal
suo sorgere, il restauro architettonico si qualifica come atto di cultura, mosso da ragioni prettamente spirituali e non
dalla sola esigenza pratica di mantenere in buono stato e ben fruibili o di adattare a nuovi usi i vecchi edifici.
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La nuova coscienza storica fa sentire, in maniera sempre più marcata ed irreversibile, il distacco critico del presente
dal passato. Tutto ciò non contrasta con la più generale temperie del tardo ‘700, periodo in cui l’eredità classicista
comincia ad esaurirsi, anche come gusto.

Si è detto che la nuova cultura illuminista favorisce gli sviluppi del metodo scientifico, i procedimenti analitici, il
razionalismo “astratto”; ma che si riscontra, anche, una generale aridità creativa, la quale implicitamente facilita il
diffondersi di una concezione del restauro come “atto riflesso” e non immediatamente “creativo”.
Esso, dunque, emerge in forma compiuta solo quando si consolida tale moderna coscienza, esplicandosi in modi
diversi, storicamente determinate e teoreticamente distinti, in ragione del concetto di arte e di architettura proprio ad
ogni epoca.

2.RESTAURO ARCHEOLOGICO E NEOCLASSICO

Si sono già esaminate le anticipazioni di restauro osservabili soprattutto nei due-tre secoli che precedono l’800 :
- Quel singolare momento proto-conservativo, sul finire del ‘500, che vede protagonista il cardinal Baronio
- Gli sviluppo, già in qualche modo scientifici e “filologici”, del ‘600
- La maturazione propria del ‘700, cui dobbiamo alcuni dei più importanti concetti-guida del moderno restauro, da
quello di “reversibilità” al “minimo intervento”

L’idea di ‘patina' viene chiamata in causa nelle critiche ai restauri romani di Ferdinando Fuga in Santa Maria
Maggiore e di Paolo Posi nel Pantheon, avanzate da alcuni viaggiatori europei e riprese, in termini più generali, da
Francesco Milizia.

Emergono, dunque, lentamente ma inarrestabilmente la coscienza dell’alterità dell’antico e, di conseguenza, un


diverso rispetto della sua “autenticità”; da qui la determinazione di Antonio Canova contro la pulitura dei marmi
fidiaci del Partenone o le proposizioni museologiche, di assoluta modernità, di Quatremère de Quincy, oltre a quelle
specificatamente di restauro architettonico.

Alle argomentazioni estremistiche e rivoluzionarie ben rappresentate da Boissy d'Anglas, nel 1794, in favore di un
'museo nazionale' parigino nel quale concentrare le più importanti testimonianze storico-artistiche del mondo civile, si
oppongono le serene riflessioni di Quatremère de Quincy, formulate sul piano squisitamente culturale (per cui, ad
esempio, una 'scuola' artistica non può essere capita che integrandola nel suo ambiente d'origine né ha fondamento una
storia dell'arte senza la conoscenza del contesto fisico e umano che ha prodotto le singole opere): critica la concezione
del museo come “antologia” di capolavori destinati ad illustrare i presunti immutabili principi della tradizione antica e
rinascimentale, o a quella del museo come “magazzino” nel quale far confluire il frutto delle rapine compiute nei
diversi paesi europei. In sostanza un’opera separata dal suo diverso contesto, per Quatremère, non è più latrice di quel
valore che solo dimora nell’insieme; essa è nulla, se non è in relazione a un “tutto”.
Il rischio più immediato è che l’arte, decontestualizzata, “sacralizzata” e ridotta ad una serie di “oggetti” di valore,
finisca con l’entrare nel circuito perverso della commercializzazione; a questo si oppone il solo “valore assoluto” che
l’arte possiede ai suoi propri occhi, quello d’avere una storia.

Quanto ai marmi del Partenone, la più attenta cultura del tempo, ben rappresentata da G. Byron, non tralasciò
occasione per esprimere la sua esacrazione verso i traffici di Lord Elgin, e per le mutilazioni inferte agli antichi
marmi.
Si rammentano spesso l’incredibile impatto che questi originali fidiaci ebbero sugli studiosi, allevati, allo stile
classico, e il diniego di Canova, invitato a compiere il restauro (forse dovuto anche al fatto che, data la novità di
quella scultura del V secolo, attinta in originale per la prima volta, egli riteneva che non ci fossero restauratori capaci
di imitarne la maniera»).

Nel giro di qualche decennio, il “restauro conservativo”, concepito come metodo scientifico di protezione, anche se
basato solo sull’empirismo dell’esperienza personale del restauratore, viene a prendere il sopravvento sul restauro
integrativo. E anche il completamento non è più feudo dell’intuizione dell’artista ma diviene una prassi sempre più
rigida e coercitiva dettata dalle imperiose norme della comparazione filologica.
Si verificano anche scelte di de-restauro (es. la rimozione dell’intervento cinquecentesco di Guglielmo della Porta alle
gambe dell’Ercole di Glykon).

A qualche decennio prima (1786) risaliva la stesura, da parte di Cavaceppi, scultore e restauratore romano, di un
“decalogo” per il buon intervento di restauro:
- È necessario di conosce bene il soggetto della scultura in modo da poter reintegrare gli attributi con esatto criterio
archeologico” mentre, in caso di dubbi, la si deve risarcire “senza apporvi ciò che ne individuerebbe il soggetto
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iconografico”.
- L’integrazione dovrà essere “nella stessa materia dell’originale” ma trattata adeguandosi al suo “stile”; quanto alla
“materia” antica questa “è accessoria”, riconoscendosi ad esso un valore soprattutto educativo e propedeutico.
- Un buon precetto che tuttavia non è stato mai seguito riguarda le “commessure delle restaurazioni”, le quali
dovranno definirsi in maniera da apparire irregolari e causali (come appunto irregolari c casuali sono le rotture
nell'antico).
Purtroppo né il Cavaceppi né la maggior parte dei successivi restauratori si attennero a queste norme.

In campo pittorico meritano d'essere ricordate:


- Le argomentazioni di Francesco Milizia alla voce “Ritoccare” del suo Dizionario delle belle arti del disegno:
“Che l'autore ritocchi la sua opera ancor fresca, per correggerla e per accomodarla, è un dovere… ma mettere
mano nelle opere altrui insigni alterate dal tempo, è un deformarle, che è peggio che distruggerle”.
- Lo stesso Goya dirà che: “…più si toccano le pitture col pretesto della loro conservazione, più le si distruggono e
che neanche gli stessi autori, riportati in vita, potrebbero ritoccarle perfettamente”, a causa delle alterazioni subìte
dal colore in ragione del tempo trascorso.
- Carlo Verri (1810), discutendo il rapporto tra originale e copie, conclude che ricerche e studi non potranno
giammai rappresentare il modo di dipingere, e la pratica esecuzione dell'originale, ormai perduta.

È molto significativa la circostanza, di natura prettamente economica ma determinata dal mutato clima culturale, per
cui da allora si prese a commerciare a prezzo più alto le opere antiche non restaurate , quelle che l’editto del cardinal
Pacca definirà “vergini”; finalmente accettate nella loro pur mutila autenticità.

Nel restauro architettonico due grandi novità sono rappresentate dagli interventi
- di Raffaele Stern (1774-1820) sul Colosseo: coniuga intelligentemente il vero rispetto filologico, dovuto ad un
monumento quanto mai nobile, e l’apprezzamento, piranesiano o già romantico, per la rovina in sé.
- di Giuseppe Valadier (1762-1839) sull’Arco di Tito: anche se può riduttivamente sembrare mosso da ragioni
pratiche e di economia è invece il segno di una profonda maturazione, non priva di analoghi fermenti in campi
collaterali, e soprattutto di un clima culturale ormai radicalmente mutato.

È importante soffermarsi sull'interpretazione subito avanzata da Quatremère de Quincy nel suo Dizionario storico di
architettura, scevra di qualunque connotazione praticistica e condotta in chiave squisitamente concettuale, tutta
interna alla disciplina stessa del restauro: “basterà riportare insieme le parti mancanti, e converrà lasciare nella massa i
loro dettagli, di maniera che l'osservatore possa distinguere l'opera antica e quella riportata per completare l'insieme.
Quello che viene da noi qui proposto è messo in pratica a Roma da poco tempo rispetto al famoso arco trionfale di
Tito, il quale è stato felicemente sgombrato da tutto quanto ne riempiva l’insieme, ed anche restaurato nelle parti
mutilate”.
Secondo Quatremère il restauro, nel pieno rispetto dell’autenticità, deve materialmente salvaguardare gli autorevoli
“modelli” che ci vengono dal passato.

Così Quatremère pone le basi, a ben vedere, tanto del pensiero “stilistico”, che sarà poi di E. Viollet-le-Duc, quanto di
quello, minimale e conservativo, di J. Ruskin, con citazioni che ritorneranno, quasi alla lettera, negli scritti del critico
inglese a distanza di qualche decennio. Egli mette in movimento il pensiero ottocentesco sul restauro, anticipandone le
due declinazioni principali che si fronteggeranno per buona parte del secolo passato e per metà del nostro.
Toccherà proprio a Camillo Boito, sul finire del secolo, di recuperarne le valenze in un clima scientificamente e
filologicamente più maturo.

Sul piano delle affermazioni di principio e su quello normativo va associato l’altrettanto famoso decreto della
Convenzione Nazionale francese (1794) che richiamava gli amministratori dei Dipartimenti alle loro responsabilità di
custodi delle antiche testimonianze.
Si tratta di un asserto sopravvalutato dato che, a confronto con le formulazioni pontificie e borboniche, si riduce ad una
petizione di sapore fortemente politico e ideologico; da esso emerge, tuttavia, il concetto di “bene” culturale come
“deposito” temporaneo da tramandare alle generazioni future.

Giuseppe Fiengo osserva che negli anni tra il 1790 e il 1795, non fu fallimentare, anche se l’azione di salvaguardia dei
monumenti ebbe conseguenze positive quasi esclusivamente a Parigi e nei suoi immediati dintorni.

Fondamentale è l’editto emanato dal cardinale Giuseppe Doria Pamphili il 2 ottobre 1802 in esecuzione del
chirografo redatto da Pio VII Chiaramonti; documento alle cui spalle deve collocarsi quella personalità di indubbie
qualità civili e politiche come Canova (al quale del resto di lì a poco il pontefice rimetteva l'incarico di Commissario
alle Antichità di Roma). Il chirografo è una sorta di “documento politico” dal quale nascerà, a distanza di un
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ventennio, il successivo editto di Pacca. Sono da ricordare:


- L’attenzione volta tanto ai “Monumenti” quanto alle “belle opere dell’Antichità”.
- Il divieto degli scavi clandestini.
- Le norme contro l'esportazione delle opere di pittura, anche moderne e, comunque, successive al «risorgimento
delle Arti», e quelle a favore della loro conservazione.
- Le norme contro la rimozione delle opere d'arte dalle chiese.
- La denuncia all'autorità pubblica delle opere conservate in collezioni private, a fini di catalogazione c di controllo
della buona tenuta delle stesse.

Al chirografo si collega il successivo editto del camerlengo cardinale Bartolomeo Pacca (7 aprile 1820) che, insieme
al suo regolamento emanato l’anno successivo, è destinato a restare come una pietra miliare nella breve ma intensa
vicenda della proposta conservativa. Seguendo le direttive culturali definite nel 1802, questo editto entra più a fondo
nel campo normativo ed applicativo; si oppone chiaramente all’architettura, alla demolizione, anche parziale, degli
antichi edifici e delle antiche celebri strade.

Il Regolamento per le Commissioni Ausiliarie di Belle Arti istituite nelle Legazioni, e Delegazioni dello Stato
Pontificio, del 6 agosto 1821, sempre a firma Pacca, si esprime contro i cattivi e soprattutto gli inutili restauri e a
favore della documentazione di quanto scoperto.
A questa produzione, così lucida e organica, subito fece seguito il decreto del 13 maggio 1822 di Ferdinando I, re
delle Due Sicilie, che riproponeva i medesimi concetti e istituiva un’apposita Commissione di Antichità di Belle Arti.

Il 18 settembre 1825 papa Leone XII, nel famoso chirografo ispirato a Carlo Fea, fissava i criteri per la ricostruzione
della basilica di San Pietro fuori le mura. La base concettuale dello scritto di Leone XII rappresenta un’importante
novità: il monumento è inteso come una compiuta e perfetta unità formale, da considerare immutabile, da rispettare e
da proteggere, liberandola, se necessario, sa aggiunte improprie o arbitrarie.

Ma il complesso di leggi e di atti sopra ricordati ha ben altri contenuti e, soprattutto, denuncia il sorgere d’una nuova
coscienza storica e l’avvenuto distacco “critico” nei confronti del passato. Il presente ritrova e intende il passato con
un processo, di natura più logica che non intuitiva, di “valutazione” e “giudizio”; da ciò discende l’esigenza di
rispettare le testimonianze materiali dell’antico come dati storici permanenti, non più soggetti a sostituzione o a libera
reinterpretazione.
Una simile coscienza storica si esercita prima tramite l’assunzione del concetto di “valore” dell’opera architettonica
(che è funzione del concetto stesso di architettura), successivamente attraverso un’operazione di riconoscimento di
tale valore (usando il concetto di architettura come criterio di valutazione), infine postulando la conservazione come
principio.

Solo in questa temperie nasce, effettivamente, il moderno restauro, come atto di “cultura”, distinto e storicamente
autonomo dall’opera; non più spontaneamente creativo e fantastico, ma “critico”, o in altre parole, di riconoscimento e
di giudizio. Esso non discende, come potrebbe sembrare, dall’esigenza pratica di mantenere e recuperare (adattandoli
se necessario a nuovi usi) i vecchi edifici, ma dal proposito di conservare e tramandare memorie o, se vogliamo, valori
spirituali. Non a caso verrà applicato, dapprima, ai monumenti archeologici, in certo senso proprio i meno “utili” di
tutti, e manifesterà subito la ricorrente volontà di restituire l’opera alla sua forma d’origine (anche soltanto ideale) ed
al suo mondo storicamente determinato.

I principali concetti appaiono già nella citata voce sul “restauro” di Quatremère de Quincy.
- Ad una prima affermazione, di carattere generale (“Rifare a una cosa le parti guaste e quelle che mancano o per
vecchiezza o per altro accidente”), segue l’analisi di limiti e difficoltà tecniche di tale operazione.
- Sono poi puntualizzate le ragioni di fondo del restauro, riassumibili nel “conservare ciò che è suscettibile di
somministrare all’arte dei modelli, o alla scienza dall’antico delle autorità preziose” e, quanto ai metodi, nel
“ristabilimento” senza che il rimanete abbia a soffrire “il minimo danno”, nel conservare (quando possibile) col
solo “rimettere al loro posto i materiali caduti” o con un semplice “puntellamento”.

In queste parole già si riconosce la base del moderno pensiero fondato sulle due “istanze”, la storica (monumento-
documento) e l’estetica (monumento-opera d’arte-modello di bellezza), che sarà poi declinato in modi diversi.

Si tratta, comunque, di “ritrovare” il monumento e di ridargli attualità culturale, storica e figurale, tramite
un’operazione intellettualizzata dalla determinante presenza di un concetto dell’architettura e di una puntuale ricerca-
operazione che affonda le radici nella più avanzata cultura del tempo:
- Da allora in poi la definizione degli scopi e dei metodi del restauro, sia dal punto di vista teoretico che da quello
pratico, sarà essenzialmente un problema di cultura storico-critica.
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- Il concreto raggiungimento di tali scopi postulerà pur sempre un atto di materiale compromissione , figurale,
linguistica ed anche di “gusto”, con l’oggetto dell’intervento.

In conclusione merita osservare che, nei documenti sopra ricordati:


- Si stabilisce il principio della conservazione attiva dei monumenti;
- Si hanno i primi atti di uno stato moderno in cui si affermi il concetto di valore di tali monumenti e se ne ordini la
protezione, non solo vietando la dispersione ma proponendo concrete linee operative;
- Si delineano i concetti che guideranno il restauro durante il XIX sec. e per buona parte del XX sec.

Il restauro dei monumenti in età neoclassica è stato giustamente detto “archeologico”, sia perché volto, quasi per
elezione, alle opere dell’antichità, che la cultura del tempo sentiva particolarmente congeniali, sia per il rigore degli
interventi, anticipanti metodi ed acquisizioni che saranno, poi, della moderna archeologia.
Propriamente suo è il carattere “distintivo” o “diacritico”, mirante ad assicurare le necessarie reintegrazioni, senza
scapito della unitarietà e leggibilità dell’immagine “restaurata”, con pochi, garbati suggerimenti denotanti
quell’attenzione all’autenticità di per cui nuovo ed antico si devono poter subito riconoscere “a vista”; la
ricomposizione del monumento è quindi attuata conservando in pieno l’antico e restituendo, spesso solo
indicativamente ma con assoluta efficacia, le forme primitive per ritrovare, dell’opera, la bellezza esemplare e
normativa.
È interessante notare come si rifiuti quasi sempre, tranne che nei casi di più modesta manutenzione, la replica del
dettaglio, giudicata inutile e fuorviante.

A Roma, fra i lavori più importanti si ricorderanno quelli al Colosseo: nel 1806-07, sotto Pio VII, lo sperone orientale
ad opera di Stern; nel 1823-26, sotto Leone XII, lo sperone occidentale ad opera di Valadier. Poi quelli all’Arco di
Costantino (1819-21) e gli altri all’Arco di Tito.

L’intervento sullo sperone orientale del Colosseo esprime in modo pragmatico l’assunto, ormai perfettamente
recepito anche dagli architetti, sulla scia degli “eruditi” antiquari, del totale rispetto del monumento, esteso, con
maturo distacco critico, tanto alla difesa della sua materiale consistenza quanto ai segni del tempo trascorso.
- Delle proposte alternative ci resta notizia soltanto di una, avanzata da Schiavoni con l’appoggio di un architetto
rimasto anonimo, che suggeriva una cospicua demolizione, secondo una linea obliqua, della parte pericolante,
chiede al tempo stesso un notevole compenso, oltre all'uso di manodopera gratuita carceraria ed al diritto di
recuperare il materiale di spoglio.
- La tesi contraria alla demolizione (che prevalse) e favorevole, invece, alla costruzione del grande sperone in
mattoni fu sostenuta da Stern, Palazzi e Camporese. L'aver voluto immobilizzare le poderose pietre nel loro stato
di crollo imminente (murando le arcate dissestate e mantenendo nella posizione acquisita i conci smossi),
rifiutando ogni ipotesi di smontaggio e rimontaggio o di parziale anastilosi, sta a significare in Stern una
modernissima forma di rispetto dell'antico ed una “predisposizione romantica al rovinismo”, filtrate da una cultura
memore del filone tardo-manierista romano, che costituiscono forse il più chiaro manifesto della nuova sensibilità
e del nuovo atteggiamento.

Al confronto, l’intervento di Valadier sull’ala opposta del Colosseo “ha un sapore pedantesco che risente di certo dei
vent’anni trascorsi”, “dell’abbandono delle speranze napoleoniche” e “delle disavventure” dell’architetto “nel campo
del restauro”, soprattutto relative alla ricostruzione della basilica di San Paolo.
Valadier eseguì il suo contrafforte in mattoni e travertino, restituendo in parte le antiche forme come se il crollo
dell’anello esterno dell’anfiteatro fosse avvenuto felicemente, in modo tale da costruire una sorta di naturale struttura
atto a bloccare lo sfaldamento progressivo delle arcate. Contrafforte che oggi si distingue dall’antico per l’uso di
materiali differenti (in primo luogo i mattoni) e per il diverso colore ma che, in origine, doveva presentarsi
completamente tinteggiato in color travertino come, forse, anche lo sperone di Stern.
 Per fare chiarezza su quest'ultimo particolare, che acquista un notevole significato ai fini di una corretta
interpretazione dell'intervento del primo ‘800, non sono di grande aiuto neanche i documenti di archivio dove non
si fa alcun esplicito riferimento alle finiture e si dice che lo sperone “deve essere lavorato a cortine e con la
massima esattezza, e perfezione con basamento di travertino”.

L’intervento sullo sperone nord-occidentale del Colosseo era stato preparato da altri lavori condotti nel decennio
precedente (prima il prosciugamento delle acque che avevano parzialmente impaludato la zona, poi opere di
consolidamento) finché soltanto nel 1823 il nostro architetto prese a seguire la cosa. Il progetto, comunque, fu molto
discusso ed anche criticato; secondo la Jonsson alla fine passò perché “i dissidenti” si persuasero della “solidità dello
sperone e nella convinzione sia di Valadier che dell’Accademia che il Colosseo dovesse in seguito essere ricostruito”.
Tra i due restauri si colloca la vicenda dell’intervento sull’arco di Tito (1818-24) cui s’interessò sempre Valadier.
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Egli spiega di essere subentrato nel cantiere dopo la morte del più giovane collega e d’aver rinvenuto, già pronti, i
pezzi di travertino da impiegare in luogo dei marmi perduti; ciò induce a credere, mancando altre notizie, che l’idea
più valida di tale restauro (quella di impiegare per le reintegrazioni un materiale diverso ma cromaticamente affine al
marmo come il travertino, lavorandolo in forme semplificate), sia merito di Stern, il quale potrebbe a sua volta averla
tratta dai suggerimenti dell’architetto francese Gisors.
A Valadier spetta la conduzione tecnica, assai complessa, dell’intero lavoro, compresi lo smontaggio ed il rimontaggio
per anastilosi di molti blocchi, già allora oggetto di critiche e perplessità.

Il diverso atteggiamento di Stern e di Valadier circa il Colosseo e, per certi aspetti, l’Arco di Tito, è tutto interno alla
disciplina del restauro, incarnando i due estremi della “pura conservazione” da un lato e dall’altro quello
dell’intervento di liberazione e di reintegrazione (espressione di quella dialettica fra storicità ed esteticità dell’opera,
così attentamente indagata da Brandi, intorno alla quale ancora oggi ruota il dibattito sul restauro).

L’esperienza dell’intervento sull’Arco di Tito elabora il tema caro alla cultura neoclassica dell’anastilosi, tema
antitetico, come ognuno può vedere, a quello elaborato dello Stern nel 1806. Si tratta di un caso eccezionale di
restauro.
Premesso che ogni intervento, anche il più neutro, è pur sempre soggetto all’ombra storica del momento che lo
produce, si tratta del segno di una maturazione e di un rinnovamento dei principi giunti finalmente ad interessante
anche gli architetti.

Nel suo scritto Valadier descrive accuratamente lo stato di conservazione dell’arco e la sua forma originale , restituita
tramite lo studio diretto, i raffronti con monumenti analoghi (gli archi di Traiano ad Ancona e Benevento) e
osservazioni di carattere statico. Adottando una metodologia che sarà poi applicata in molti restauri, archeologici e
architettonici, contrassegna e numera tutti i pezzi che prevede di smontare, per facilitarne la successiva, corretta
“anastilosi” (ove la parola sta per noi ad indicare la ricomposizione di una struttura in blocchi o conci di pietra montati
a secco, come i rocchi delle colonne, con parziali e ben sicure reintegrazioni).
Ma proprio l'intento di rispettare la “decenza” del monumento, restituendone l'insieme volumetrico e realizzando le
parti nuove in travertino, gli valse l’opposizione di alcuni contemporanei, tra cui Stendhal.

Mai Valadier si era precluso, per principio, l’opzione puramente conservativa, come risulta da una perizia sull’Arco
della Ciambella (1810): cadendo in continuazione dal monumento “pezzi di materiale sulli sottoposti tetti, e strada”, a
causa della vegetazione cresciuta sui ruderi, l’architetto suggerisce di rimuovere le pietre meno ferme e “siccome si
tratta di un muro, che è solido per la sua buona Costruzzione quanto una pietra e come un solo masso, ridurre tutta la
sua superficie nella sua intiera larghezza a guisa di un Cappello, o sia a schiena d’asino, colla maggio pulizia
possibile, in maniera che le acque pluviali scorrendo per la medesima superficie non si arrestassero in luogo alcuno; e
sarebbe così impedito all’Erbe allignarsi, e devastare ulteriormente”. La soluzione sarebbe molto economica e
soprattutto non deturperebbe il monumento che verrebbe così “non solamente conservato senza alcuna alterazione, ma
assicurato altresì per tutti li rapporti” -> procedimento di assoluta modernità che ricorda e anticipa gli attuali “bauletti”
e le varie forme di capping o coronamento oggi riservate alle parti sommitali degli antichi ruderi.

Le riflessioni che l'architetto Guy Alexander J. B. de Gisors (1762-1835), ispettore degli edifici civili, svolge nel
periodo della sua visita a Roma (febbraio-maggio 1813) sui criteri di restauro adottati nella città rappresentano un
preciso riferimento innovatore per chi opera nel campo; egli intende suggerire il sistema da adottare in quegli edifici
antichi che in qualche parte minacciano rovina (es. l’arco di Tito), da conciliare con il gusto, la solidità e il rispetto
dovuto alle testimonianze di Roma antica.
Gisors teme, quindi, che si continui col sistema delle protesi o costruzioni “ausiliarie” prive di attenzioni formali e,
comunque, in contrasto con l'esistente (in proposito riferisce che per sostenere l'Arco di Tito si erano addossate ai lati
alcune costruzioni non solo orrende ma anche insufficienti). Scrive che fino ad allora si era “limitati a consolidare
delle rovine senza fare attenzione o forse senza preoccuparsi che con i mezzi impiegati ci si è allontanati dallo scopo
che ci si proponeva di raggiungere, vale a dire quello di trasmettere alle posterità le forme, le proporzioni dei begli
edifici e dei monumenti”. E ancora si domanda che cosa diventeranno queste forme e queste proporzioni se ogni volta
che parte di questi monumenti sono in pericolo li si “soccorrerà con costruzioni così informi”; così, in pochi anni il
Colosseo “non presenterà altro che un ammasso di muraglie”.
Richiamando i quesiti di restauro sollevati dal gruppo scultoreo del Laocooote, ritiene che sia preferibile una
integrazione tale da restituire l’aspetto d’insieme pure senza ridare alla figura “il primitivo merito” (cosa già tentata,
nel XVII sec, al Pantheon dove si è “interamente rifatto l’angolo sinistro della trabeazione e del timpano non
utilizzando il marmo” ma, in sua cece, il travertino): “si dovrebbero ricostruire almeno le masse di queste parti
[vacillanti del monumento] nelle loro forme e proporzioni, sia in pietra si in mattone, ma in modo che queste
costruzioni presentino esattamente le linee dalle parti che dovranno supplire”.
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Il 28 settembre 1813 il Ministero dell’Interno Montalivet comunica al barone Daru i criteri da seguire nei restauri e
fa proprie le istanze del Gisors: “il sistema di restauro sa impiegare per l’avvenire per tutti i monumenti per
conservare la loro forma primitiva è di sostituire al marmo, che sarà troppo dispendioso, la pietra o il mattone, in
modo che le costruzioni così eseguite rappresentino esattamente le linee delle parti degradate e che le proporzioni
dell’insieme siano esattamente le stesse”.
Daru risponde “che questi monumenti devono essere lasciati fintanto che le rovine del tempo lo permettono, nello
stato in cui erano anticamente” e “che in tutto ciò che si fa” per conservarli, bisogna porre grande attenzione “a non
snaturarli”.

Nello spirito d'una vagheggiata continuità col mondo classico, vengono eseguiti vari interventi di “restauro”:
- Si rimontano, sempre in Roma, tre colonne del Tempio di Giove Tonante (Tempio di Vespasiano), reintegrando
con travertino lo stilobate (1811-12).
- Ad Agrigento si rialzano quattro colonne del Tempio dei Castori (1836), mentre ormai anche in ambiente
borbonico emerge una più decisa volontà di riproduzione fedele e qualche volta di falsificazione.
- A Bologna la Mercanzia è ampliata in forme ispirate a quelle originali (1840-41).
- A Milano, per il completamento della facciata del Duomo, in età napoleonica si riprende lo stile gotico del
monumento.
- In Francia, la temperie culturale neoclassica e “archeologica” produce i restauri, nel complesso rispettosi,
dell’anfiteatro di Nimes (1809-13 / che comporta però la perdita delle case medievali che erano sorte sul
monumento romano) e dell’arco di Orange (1807-09), con integrazioni in semplice muratura, assolutamente non
imitative; ambedue i lavori saranno ripresi e completati, nel 1824, da Caristie.
- Ad Atene, sulla scia della riscoperta, sin dalla metà del ‘700, dalla città antica e dei suoi monumenti, abbiamo con
Elgin quella singolare affermazione di interesse, tanto economico quanto culturale, sfociata nell’asportazione delle
sculture del Partenone, ora a Londra.
- Di veri e propri restauri in Grecia si potrà parlare solo a partire dal 1890 circa, mentre nella prima metà del 1900
avremo le grandi campagne di restauro del Partenone condotte dall’ing. Balanos.

A Roma un altro importante, anche se diverso, riferimento è costituito dal restauro della basilica di San Paolo fuori
le mura, semidistrutta dal fuoco nel luglio del 1823. Merita di essere approfondita la discussione sui progetti che vede
Valadier orientato nel senso di un parziale mantenimento del transetto (la porzione meno danneggiata dall’incendio),
dell’abbandono delle navate (molto più danneggiate anche se pienamente restaurabili) e soprattutto di una
configurazione di insieme in “stile” moderno, vale a dire neoclassico.
Nel dicembre del 1823 presenta un primo progetto, di cui ci rimane solo la lettera di accompagnamento, mentre i
disegni sono andati perduti: il giudizio sull’antico monumento è sbrigativo, visto come decadente e valido solo per la
sua “grandezza”; propone quindi una riconfigurazione architettonica, attuata conservando solo una parte di quanto era
scampato all’incendio (pietre, colonne), per costruire una basilica molto più piccola. Anche perché sarebbe vano
presumere di rifare l’edificio com’era.

Nella primavera del 1824 sono presentati al Consiglio d’Arte pei Pubblici Lavori d'acque, Strade e Fabbriche
Camerali due ulteriori progetti anonimi: il primo senza dubbio di Valadier, l’altro di Salvi. Ambedue cambiano
l’orientamento della chiesa, aprendo la nuova facciata verso Roma e recuperando, nell’intento di costituire un
organismo a croce greca, il solo transetto.
Martinetti, uno dei membri della commissione, propone di “fare dei due un terzo progetto” per garantire comunque la
“conservazione” dell’antico accesso principale e per mantenere “il portico esattamente come dopo l’incendio, diruto e
affumicato, onde costituire una suggestiva preparazione all’ingresso della nuova basilica”. Nel giugno del 1824,
Valadier elabora due progetti, e il secondo sembra accogliere in parte lo schema del Martinetti.

Finalmente dopo qualche mese a Valadier viene affidato l’incarico di restauro ma gli affiancano Salvi come
progettista e quali assistenti ai lavori, il Paccagnini e l'Alippi, come a voler limitare l'autonomia del vecchio architetto.
Da questa nuova posizione, comunque, Valdier passa subito a critica l’idea di Martinetti (spreco di materiale ancora
utilizzabile e di scarso interesse antiquario).
In breve tempo, però, la situazione cambia e nel novembre del 1824 è reso noto il parere di C. Fea, Commissario alle
Antichità: “Il volto pubblico romano ed estero è che S. Paolo si rimetta come prima; altrimenti non si riconoscerebbe
più per quel celebre S. Paolo.”
Ciononostante Valadier prosegue nella preparazione del cantiere e dei lavori, valuta preventivi di spesa ed ordina
materiali; ma il 26 marzo 1825 il papa istituisce una Commissione Speciale per la riedficazione della Basilica
Ostiense: si tratta con tutta evidenza di un attentato all'autonomia dell’architetto , che nel novembre di quell’anno si
dimette e viene sostituito da Pasquale Belli, già architetto del monastero di San Paolo.

Il diverso atteggiamento nella Basilica di San Paolo, rispetto all’arco di Tito, dello stesso Valadier, qui meno
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conservativo e meno rigorosamente “archeologo”, si può spiegare considerando il differente apprezzamento che
l’antica chiesa suscitava; non quello pertinente ai veri e propri monumenti classici, ma quello di un’opera
tardoantica, dei “tempi bassi” e della “decadenza”, perciò, agli occhi di un architetto neoclassico, meno esemplare
e , quindi, meno vincolante. Si poneva, dunque, a ragione l'alternativa se edificare una chiesa completamente nuova,
se ricostruire quella perduta, secondo le antiche linee, o se conservarla, anche parzialmente, allo stato di rovina.

I lavori vennero affidati a Belli ma soltanto nel 1829 fu posta la in opera la prima colonna (nel 1833 Luigi Poletti
succedette a Belli) e solo nel 1854 venne consacrata l’intera basilica. Il risultato che ancora oggi possiamo vedere è un
“compromesso tra il desiderio originario di riavere le forme della basilica paleocristiana e la necessità di riesprimerle
in maniera corretta, simmetrica, regolare e misurata”.
La disputa per la basilica è la definitiva affermazione del partito degli eruditi su quello degli architetti; ma di fatto
neanche i principi espressi nel chirografo di Leone XII saranno rispettati, perché la vicenda non si concluse con un
“erudito” restauro ma con un quasi completo, oltre che approssimativo, rifacimento in stile.
 I criteri imposti da Leone XII condurranno in effetti ad un’approssimativa copia al vero né antica né moderna.
L’opera comportò tuttavia un grande impegno, protrattosi per circa mezzo secolo, e che vide impegnate varie
personalità (Belli, Poletti, Vespignani, Calderini).

Giovannoni critica fortemente l’opera di ricostruzione, e spiega che quando si osserva dai disegni del tempo come
l'incendio avesse lasciata intatta la maggior parte della costruzione con le sue mirabili decorazioni di musaici e di
marmi, la distruzione degli uomini pare ancora peggiore di quella eseguita dal fuoco.
C’è da concludere malinconicamente che S. Paolo è stata fra le quattro principali basiliche romane la peggio trattata:
nelle altre alle antiche opere si sono sostituite delle nuove di alto valore, e questo compensa in parte i danni della
distruzione o dell’alterazione deplorevole e non necessaria; in San Paolo il semi-restauro eseguito non ha più né
l’autenticità né l’arte.

Sul Belli, in genere maltrattato dalla critica, si è soffermata Maria Piera Sette che ne ha studiato l’attività di
restauratore in Roma (es. il completamento di Sant’Andrea delle Fratte) contraddistinta dalla cura per la
“differenziazione” delle aggiunte, “attraverso una costante e certamente consapevole semplificazione, o persino
schematizzazione, delle forme”. Siamo infatti in un periodo che vede affermarsi il principio della ‘fedeltà storica’ nei
confronti degli edifici antichi; ciò porta in modo inesorabile a ritenere gradualmente superati gli interventi condotti
secondo la ‘maniera del tempo’ e stimare più adeguata quella che postula l’azione sopra ogni edificio antico secondo
lo stile che gli è dovuto.
Se già in quegli anni è viva la suggestione del restauro come ripristino, risulta tuttavia ancora lontana la concezione
propria del ‘restauro stilistico' più maturo che postula la restituzione scientifica di uno specifico linguaggio del
passato. Nei primi decenni dell’Ottocento è, non soltanto e perfettamente legittimo, ma anche preferibile
“interpretare” e “migliorare” l’opera del passato” puntando ad un giudizio che “non può che riguardare la qualità del
risultato”; e con tale prospettiva storiografica la posizione del Belli, in tutta la vicenda del San Paolo, si dimostra
perfettamente coerente.

A Milano il principale tema di ricerca è costituito dalla facciata del Duomo, avviata in forme rinascimentali sulla
retrostante struttura gotica nel 1567 da Pellegrini. Seguirono poi vari progetti di restauro, fino alla vittoria nel 1888 di
Brentano e alla conclusione architettonica della lunga vicenda.
La grande facciata assunse l’aspetto attuale ma restò ancora aperto il problema di completare le monumentali vetrate
policrome, le ultime delle quali furono eseguite e poste in opera da Hajnal negli anni ’50 del nostro secolo.

3.RESTAURO STILISTICO E REVIVAL

Nel periodo della rivoluzione ed in quello napoleonico, fra il 1790 e il 1820, assistiamo in Francia a ripetute
distruzioni di antichi monumenti, per le più diverse ragioni: da quelle prettamente ideologiche, miranti a cancellare i
segni dell’oppressione feudale e dell’antico regime, ad altre, più sostanziose di natura economica e speculativa, volte
al recupero dei materiali di demolizione e dei relativi terreni. Monumenti come l’abbaziale di Saint-Denis (con le sue
tombe reali) presso Parigi, il Grand Chatelet e Saint-Germain-des-Près (con le sue torri absidali) nella stessa Parigi, la
Cattedrale di Cambrai, la gigantesca Abbaziale di Cluny, la Sainte-Chapelle a Digione sono oggetto di vandalismo
prima, spesso di completa demolizione poi, sempre di gravi distruzioni, anche se, in qualche caso, pochi anni o
decenni dopo, di un restauro riparatore.
Nelle sue Letrres sur le vandalisme Charles de Montalembert (1810-70) attribuisce ai movimenti ed alle sommosse
propriamente rivoluzionarie effetti molto limitati, soprattutto la distruzione delle più fragili decorazioni esterne. Il
nuovo culto rivoluzionario della Dea Ragione porrò di certo altri danni, specie agli spazi interni ed agli arredi sacri e
lavori, comunque modesti, di riadattamento.
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La vera causa di danno fu il “vandalismo venale” e “d’uso” che comportò demolizioni miranti, come detto, al recupero
dei materiali (es. la cattedrale d’Agen). Di frequente la spoliazione era parziale, perché limitata ai materiali più
pregiati; tali immensi cantieri di demolizione restavano, quindi, indefinitivamente aperti, lasciando alla natura di
svolgere in tutta libertà il proprio compito distruttivo, poiché i nuovi proprietari spesso preferivano rinunciare alla
possibilità di riutilizzare il terreno che impegnarsi nel completare una demolizione sempre meno redditizia, dopo
l’asportazione dei materiali e dei pezzi migliori.

Nella pratica del restauro, a partire dalla seconda metà del secolo, si va sempre più affermando l’esercizio della
reintegrazione stilistica (ove per stile si intende una realtà storica e formale, unitaria e coerente, ben delimitata nel
tempo oltre che definita nei suoi modi figurali).
Ogni monumento è visto come il prodotto di un dato stile , realizzato ed espresso con maggiore o minore coerenza; ne
consegue che il compito del restauratore e suo criterio fondamentale è di riportare l’opera alla perduta unità di stile,
coincidente col suo stato primitivo o, anche, con una situazione ideale di perfezione stilistica che può non essere mai
esistita. Tale compito conduce il restauro, anche a costo del sacrificio delle stratificazioni storiche, verso il ripristino e
la purificazione linguistica.

Nei medesimi anni assistiamo in Francia a fenomeni di crescente interesse nei confronti del medioevo , recuperato per
via letteraria grazie ad autori come René de Chateaubriand e successivamente, per via più propriamente archeologica,
da studiosi come De Caumont ed altri. Si stabilisce, finalmente, che l’archeologia medievale può essere oggetto di
scienza e d’insegnamento, la qual cosa, per quanto concerne la conservazione, significa che l’architettura del
medioevo può finalmente essere oggetto di quel “riconoscimento”, ancora assente nella Roma neoclassica, che
costituisce (secondo il moderno insegnamento di Brandi) la necessaria premessa ad ogni azione di tutela e di restauro.
De Caumont fonda nel 1834 la Societé francaise d’Archeologie, tuttora operante, con il compito di promuovere e
coordinare localmente le ricerche e la lotta al vandalismo.

In Inghilterra, già da tempo sensibile alla nostalgia per il medioevo, incontriamo la figura fondamentale di Walter
Scott, padre del romanzo storico, e Horace Walpole, iniziatore del gusto per il gotico e per la sua architettura
(apprezzata per il ricco decoro esteriore).
A questa moda pittoresca e pre-romantica si aggiunge la spinta del movimento di rinascita cattolica che, nella stessa
Inghilterra, vede in Charles e nel figlio Pugin coloro che sapranno dare forma estetica ed architettonica ad istanze in
primo luogo spirituali e morali, liturgiche e di culto, contribuendo, specie il secondo con i suoi scritti e le sue
realizzazioni, alla più ampia diffusione delle nuove idee.
Anticipando Viollet-le-Duc, che supererà ogni altro architetto del suo tempo per conoscenza diretta e
padroneggiamento del linguaggio gotico, Pugin avviò anche la rinascita dei mestieri edilizi tradizionali.

Anche in Francia dal romanzo storico (che vede il suo più grande esponente in Hugo, non a caso impegnato a difesa
dei monumenti medievali e autore di Notre Dame de Paris, che ha come protagonista non più l’uomo ma la grande
cattedrale) discende una più matura spinta verso la riflessione storiografica, grazie a cui la primitiva sterile pretesa di
far rivivere il medioevo nei tempi moderni è sostituita da un più corretto atteggiamento, teso a restituire al loro mondo
storicamente determinato le trascorse civiltà dell’Europa.

Tra il 1790 e il 1830 può dirsi costituita definitivamente in Francia la “scuola romantica” . In quel momento è ormai
acquisito il gusto per le rovine e il medioevo; si è inoltre compiuto, per quanto riguarda l’idea di conservazione, il
distacco fra il concetto di “monumento nazionale”, proprio dell’epoca rivoluzionaria, e quello di “monumento
storico”, proprio della Monarchia di Luglio.
Il medioevo viene non scomparto, ma volgarizzato e diffuso, anche con l’obbiettivo di dimostrare che la Francia non
aveva nulla da invidiare né all’antichità né ai paesi stranieri.

Era logico che il Governo del 1830, come già il Primo Impero, cercasse nel rispetto del passato quelle garanzie di
stabilità che gli mancavano dall’origine. Luigi-Filippo, per motivi politici, si richiamerà costantemente sia all'ancien
régime che alta Rivoluzione; per un verso farà ricollocare, a Parigi, la statua di Napoleone l (decretata nel 1806) sulla
colonna di Piace Vendome, costruire la tomba dell'Imperatore, completare l'Arco di Trionfo senza iscrivervi il proprio
nome; per l'altro istituirà, tramite il conte di Montalivet, la Commission des monuments historiques (1837).
In sostanza, nella Francia di quel periodo, lo sviluppo della letteratura romantica, la nascita della 'storia nazionale', le
tendenze di una politica tradizionalista e il risveglio del cattolicesimo indurranno il governo a porre la conservazione
dci monumenti sotto la tutela dello Stato.
Questi diversi orientamenti si coaguleranno nel restauro della cattedrale di Notre-Dame a Parigi, reclamato da V.
Hugo, appoggiato da Montalembert, proposto e presentato da Vitet e Duchatel, autorevoli collaboratori del ministro
degli interni allora in carica, lo storico François Guizot.
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Fra i protagonisti di questa stagione sono da ricordare De Caumont, Vitet e Caristie.

L’attività pubblica di Vitet fu in questo campo di breve durata ma egualmente incisiva e puntò a due fini essenziali:
l’inventario dei monumenti e il loro restauro, ivi compresa la lotta al vandalismo. A lui si deve l’incomparabile
documentazione degli Archives des monuments historiques ed anche il fatto di aver tracciato un programma completo
di conservazione dei monumenti francesi che muoveva dalla storia, dall’archeologia e dalla catalogazione per arrivare
al restauro.
Il suo metodo richiedeva al restauratore di “spogliarsi di ogni idea attuale”, dimenticando il tempo nel quale si vive,
per farsi contemporanei di tutto ciò che si restaura, degli artisti che l’hanno costruito, degli uomini che l’hanno abitato.
Bisogna quindi conoscere a fondo tutti i processi artistici, non solamente nelle principali epoche, ma anche
relativamente all’uno o all’altro periodo di ciascun secolo, al fine di ristabilire un edificio, non per ipotesi, ma tramite
una severa induzione. “Il primo merito di un restauro” egli scriveva è proprio quello “di passare inosservato”.

Successivamente abbiamo Mérimée (1803-1870), ispettore generale dei monumenti (1834-60) e uomo potentissimo
durante il Secondo Impero. Anch’egli mira a conciliare le tradizioni dell’antica Francia con le aspirazioni della nuova.
Nel nostro campo apporta indubbie novità, rompendo con il sentimentalismo romantico (che, del gotico, amava
soprattutto le rovine e gli aspetti puramente visivi e nostalgici); al contrario, vuole conservare i monumenti
mantenendoli o rimettendoli, senza incertezze, in piedi. Si sforza di spostare la centralità dei metodi e della funzione
di controllo (esercitata direttamente da Parigi sui singoli dipartimenti) con lo sviluppo dell’erudizione locale, che
stimola e riconosce quale fonte insostituibile di conoscenza del territorio e quindi di tutela diffusa.
Mériméc non ha niente del teorico né dello specialista ma è piuttosto guidato da una forma di curiosità intellettuale
universalmente attenta, sostenuta da capacità letterarie e di memoria visiva non comuni accompagnate al dono di saper
influire efficacemente sull'opinione pubblica; non essendo in grado di realizzare di persona le sue intuizioni trova in
Viollct-le-Duc il consigliere e la guida indispensabile. Comunque, è grazie a lui che è edifici come la Sainte-Chapelle
di Notre Dame sono ancora in piedi.

Ricordiamo poi Lenoir, autore d’istruzioni e di un Manuel des inspecteurs des edifices diocedsains (1849), nel quale
il restauro è definito come una “triste necessità”.

La figura dell’architecte des monuments historiques è per la prima volta menzionata in una circolare del febbraio
1841; questi rappresenta, in casi di restauro particolarmente importanti e difficili, l’ausilio che l’autorità centrale offre
ai poteri locali.
Nel 1852, una circolare ministeriale consacra i risultati ottenuti, capovolgendo i termini di quella del 1841:
l'intervento dell’architetto dci monumenti storici non costituisce più l'eccezione ma la normalità , esso non è più
sollecitato dal prefetto ma deciso dal ministro competente per garantire la migliore riuscita dci lavori.

Già nel 1825 Hugo affermava che nel monumento convivono due aspetti, il suo uso e la sua bellezza; mentre il primo
appartiene al proprietario, la seconda è di tutti e la sua distruzione oltrepassa i diritti del singolo.
Si può dunque facilmente intuire come negli anni successivi fosse vivo il dibattito politico sul diritto all’esproprio dei
monumenti e delle “costruzioni parassitarie”, per ragioni di pubblica utilità, includendo fra queste la tutela. Nel corso
di un trentennio (1841-74) si stabilì per legge, in modo sempre più restrittivo, il criterio secondo il quale i monumenti
classificati non potevano più essere sottoposti a lavori senza una preventiva autorizzazione.
In questi anni si assiste in Francia, prima nazione europea, alla definizione di un sistema, sicuramente centralizzato ma
anche molto efficace, di catalogazione, tutela e restauro dei monumenti storici da parte pubblica, con buona
programmazione degli interventi, con finanziamenti ragionevolmente continui anche se limitati e con il conseguente
sviluppo di numerosi cantieri, di imprenditori, di maestranze e di architetti specialisti. In sostanza si vede nascere un
efficace servizio pubblico di tutela che, ancora oggi, opera meritoriamente e forma i propri architetti; un servizio cui
noi italiani avremo cominciato seriamente a pensare solo durante questo secolo e mai con pari determinazione.

Fin dal suo esordio la commissione dei monumenti storici, presidente Vitet, aveva affermato che “in fatto di restauri, il
primo e inflessibile principio consiste nel non innovare, quand’anche si fosse spinti all’innovazione da lodevole
intento di compiere o abbellire. Conviene lasciare incompleto e imperfetto tutto ciò che si trova incompleto e
imperfetto. Non bisogna permettersi di correggere le irregolarità, né di allineare le deviazioni, perché le deviazioni, le
irregolarità, i difetti di simmetria sono fatti storici pieni di interesse, i quali spesso forniscono i criteri archeologici per
riscontare un’epoca, una scuola, un’idea simbolica. Né aggiunte, né soppressioni.”
È ancora un’affermazione di natura archeologica che sembra richiamarsi a quelle correnti minimali che abbiamo visto
operanti nel tardo ‘700 e nel primo ‘800.

Ma già nel 1884 Mérimée, a proposito della cattedrale parigina di Notre-Dame, scrive “Per restauro noi intendiamo la
conservazione di ciò che esiste, la riproduzione di ciò che manifestamente è esistito … in un restauro non si deve
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inventare niente; quando le tracce dello stato antico sono perdute, la cosa più saggia è copiare i motivi analoghi in un
edificio dello stesso tempo e della stessa provincia. Inventando, si corre il rischio di fare un errore e di lasciar vedere
troppo chiaramente una ripresa moderna”.

Un tono diverso e nuovamente conservativo distingue, nel 1849, il testo della menzionata circolare del ministro
Falloux: “Gli architetti non debbono mai dimenticarsi che lo scopo dei loro sforzi è la conservazione dei monumenti,
e che il miglior mezzo per raggiungere questo scopo è la manutenzione di essi. Per quanto abile sia il restauro di un
edificio, il restaurare è sempre una triste necessità.”

Diversamente Didron, direttore delle Annales archéologiques, nel 1845 enunciava il famoso axiome sul restauro, che
tanto successo avrebbe avuto in seguito: “In fatto di monumenti antichi, è meglio consolidare che riparare; meglio
riparare che restaurare; meglio restaurare che rifare; meglio rifare che abbellire; in ogni caso, nulla va aggiunto né,
soprattutto, tolto”.

Fra gli architetti emerge la figura di Viollet-le-Duc (1814-1879), attivo come restauratore specie tra il 1845 e il 1870,
progettista moderno operante secondo il medesimo spirito analitico e scientifico riservato al restauro, attento ed
originale storico dell’architettura medievale e delle cosiddette arti minori, teorico, divulgatore e polemista, soprattutto
avverso all’Ecole des Deaux-Arts (produttrice, a suo dire, di architetti fatti in serie, privi di personalità e in sostanza
ciechi ai monumenti nazionali, presi come sono a guardare il passato greco e romano).
Grande autodidatta, formatosi in primo luogo attraverso l’osservazione e lo studio diretto dei monumenti, analizzati
graficamente con straordinaria abilità ed attenzione, è comunque influenzato dagli “archeologhi” che si sono dedicati
alla riscoperta del medioevo: egli considera l’architettura come una delle facce della storia di una società, fenomeno
cui conviene applicare il metodo analitico proprio delle scienze naturali e di quelle storiche. Il suo modo di studiare si
avvicina, in effetti, a quello di Cuvier sull’anatomia comparata: ogni stile discende da quello che l’ha preceduto,
secondo una sorta di “evoluzionismo” darwiniano, e va studiato come un essere vivente che, con impercettibili
transizioni, passa dall’infanzia alla vecchiaia e muta nelle generazioni.
Razionalità e logica sono i suoi elementi-guida, accompagnati ad una speciale umiltà nei confronti del monumento, la
quale giunge, nuovamente, a postulare la 'spersonalizzazione' del restauratore finché egli assuma la natura dell'antico
artefice o architetto, identificandosi nel suo gusto e nel suo temperamento.

Il metodo di restauro proposto da Viollet-le-Duc è distinguibile in due momenti alternativi:


- Un primo, che si propone di rimuovere dal monumento tutte le parti aggiunte in momenti posteriori alla sua fase di
concezione e di costruzione originale, per ricondurlo alla primitiva unità e purezza stilistica;
- Il secondo che subentra se le distruzioni sopravvenute abbiano provocato vuoti e lacune; si tratta allora di ricostruire
le parti mancanti completando il monumento secondo quello che avrebbe dovuto essere, si da ottenere un’opera
unitaria e come eseguita di getto.
Le applicazioni di tale metodo sono documentate nella lunga serie di restauri di Viollet-le-Due e della “scuola” che da
lui è, più o meno direttamente, discesa prolungandosi fin dentro il nostro secolo.

Delle affermazioni teoriche e di principio di Viollet-le-Duc ricordiamo, traendole dalla voce Restauration del
Dictionnaire, le più significative: “Restaurare un edificio non significa mantenerlo, ripararlo o rifarlo, ma ristabilirlo
in uno stato di integrità che può non essere mai esistito”. Dopo aver osservato che soltanto “a partire dal secondo
quarto” dell’800 si può parlare di vero restauro, egli precisa che ciò è dovuto ad un atteggiamento nuovo, nei confronti
del passato: l’attitudine a studiare, analizzare, comparare, classificare il passato per studiarne gli sviluppi.

Dopo un omaggio a Vitet e Mérimée, passa a spiegare il “programma posto dalla commissione dei monumenti storici
in fatto di restauro”. Questo programma ammette subito in via di principio che ogni edificio od ogni parte di un
edificio debbano essere restaurati nello stile che loro appartiene, sia come apparenza che come struttura.
- Poiché ben pochi edifici sono nati di getto e tutti hanno subito, nel tempo, modificazioni anche consistenti, risulta
“essenziale, prima di ogni lavoro di riparazione, costatare esattamente l’età e il carattere di ogni parte” dell’edificio,
appoggiandosi a “documenti certi”.
- Se si tratta di restaurare e le parti originali e le parti modificate, bisogna non tener conto delle ultime e ristabilire
l'unità di stile disturbata o riprodurre esattamente il tutto con le modificazioni posteriori.
- Oltre allo stile di ogni epoca e di ogni scuola, l’architetto l’autonomia e la struttura di un edificio (o di quello che ne
è rimasto) in ogni dettaglio prima di avviare il restauro.
- Uscito dalle mani dell'architetto, l'edificio non dev'essere meno comodo di quanto lo fosse prima del restauro;
d’altronde, il mezzo migliore per conservare un edificio è di trovarli una destinazione. Bisogna quindi mettersi al
posto del primo architetto e cercare di capire cosa avrebbe fatto nella situazione presente.

Altre personalità del tempo:


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- Vicino a Viollet-le-Duc è Jean Baptiste-Antoine Lassus (1807-57): incaricato di curare Notre-Dame, quale aggiunto
di Etienne Hippolyte Godde, impresse ai lavori un nuovo orientamento. Come Pugin in Inghilterra, fu un teorico
dell’architettura gotica vista coma la sola in grado di rispondere alle necessità del culto cattolico; operò tanto quanto
come restauratore che come progettista.
- Dallo stesso studio era uscito l’architetto Boeswillwald (1815-96). Associato alla Commission des monuments
historiques, nel 1843 fu incaricato del restauro della cattedrale di Laon e in seguito prese il posto di Mérimée come
ispettore generale dei monumenti storici.
- Paul Abadie (1812-84) entro nella commissione nel 1846, si segnalò per i restauri di Saint-Front (Pèrigueux), della
Cattedrale di Angouleme, del Saint-Ausone e del Saint Martial ed altri.
- Baudaut, anche lui considerato allievo di Viollet-le-Duc, è espressione del “filone antiaccademico dell’architettura”
che si stacca per seguire Guimard, Perret e più avanti Le Corbusier.
- Allievo di Viollet-le-Duc è anche considerato Anatole du Baudot, espressione del «filone antiaccademico
dell'architettura francese», che si stacca dal Maestro per proseguire in Guimard ma soprattutto in Perrei, e, più avanti,
nello stesso Le Corbusier.

Quanto alle concrete realizzazioni di restauro architettonico, fra il 1810 e il 1830 si riconosce un periodo definito
“empirico” per l’assenza di metodo e per la modestia dei risultati conseguiti. Si trattava di una fase di ignoranza
“archeologica” e di incertezza sui sistemi di costruzione medievali che non lasciava spesso altra risorsa che demolire
le parti più a rischio.
In altre occasione si ricorre a palliativi, spesso ingegnosi ma non risolutivi: contro la disgregazione superficiale dei
materiali si agisce con inutili placcature di pietra, altrimenti di propone l’uso di materiali inappropriati come il mastice
o il cemento. Tali materiali, contro l’abuso dei quali Mérimée protesta, danni lì per lì un aspetto nuovo e sano anche ai
monumenti più rovinati ma non reggono alla prova del tempo (specialmente il mastice si stacca poco dopo la posa).
- Nel 1852-54 Viollet-le-Duc e Lassus utilizzano silicati per consolidare sculture in pietra a Parigi e Chartres.
- Quanto alla ghisa, nel 1823, Alavoine ne proporrà l’impiego per ricostruire, conservandone le antiche forme, la
guglia della cattedrale di Rouen, distrutta l’anno precedente da un fulmine. Egli afferma in una sua memoria che non
avrebbe senso limitarsi all'impiego dci soli procedimenti costruttivi in uso nel XIli secolo, delle risorse nuove che
offre il perfezionamento delle arti industriali.Dopo la sua morte le critiche alle realizzazioni in ghisa erano violente.
- Per 25 anni Viollet-le-Duc si oppose al completamento della “ferraglia” di Rouen ed, in generale, all’accostamento
ferro-pietra nel restauro; la sua avversione si fondava principalmente su ragioni tecniche.

Il vecchio restauro, tanto criticato da suscitare scandalo, condotto da Debret sull’abbaziale di Saint-Denis presso
Parigi a partire dal 1813, presentava carenze di ordine statico e un’interpretazione “ridicule et imaginaire” della forme
medievali. Saint-Denis, ricostruita da Debret con materiali troppo pesanti, fu colpita da un fulmine nel 1837 e anche se
nuova sprofondò. Nel 1846 si dovette rasare fino alla piatta forma la torre che la sosteneva; Debret fu sollevato dal suo
incarico che andò a Viollet-le-Duc, che progetto due guglie simmetriche rimaste irrealizzate.
 La polemica fra architetti medievisti e accademici rappresentò una costante del periodo.

Non deve quindi meravigliare che i lavori abilmente condotti da Viollet-le-Duc prima a Vézelay, poi a Notre-Dame
abbiano rappresentato, per la loro metodologia, innovativa ma saldamente fondata sulla tradizione, un esempio di
straordinaria efficacia, in grado di porre termine alla stagione dei “palliativi”, nonché della pratica, dannosissima,
dello smontaggio e del rimontaggio approssimativo dei monumenti pericolanti; ponendo il principio del restauro come
accurato ripristino dei materiali e delle forme secondo le regole dello stile.

Devastata da ripetuti assedi e trasformata, durante la Rivoluzione, in maneggio e scuderia, la chiesa di Madeleine di
Vézelay presentava nel 1830 il contrasto di un prestigioso storico senza eguali e di una situazione materiale prossima
alla completa rovina. Nel febbraio 1840 si era alla ricerca di un architetto capace di intraprendere tale restauro; nello
stesso mese Viollet-le-Duc fu incaricato di tale compito, il giovane architetto, infatti, si era rivelato anche un
“intelligente archeologo”, tanto che la chiesa era felicemente tornata alle fattezze del XIV sec.
L’ordine di incarico prescriveva di rispettare esattamente tutte le antiche disposizioni, se possibile (la ricostruzione di
qualche parte dell’edificio era consentita solo nel caso dell’accertata impossibilità di conservarla). Ma fra principi ed
esecuzione si manifestò subito uno scarto, perché la chiesa, che segna il passaggio del romanico al gotico, soffriva di
vizi di origine: contrafforti insufficienti nella vasta navata centrale, volte mal eseguite (indebolite e dunque poco
solide, facilmente deformabili), catene inefficaci; atri problemi derivavano dal coro e dal nartece, costruiti in un
momento diverso dalla navata (nel coro gli archi rampanti si appoggiavano ai contrafforti senza rispondere bene alle
spinte interne); questioni analoghe si ponevano anche per la facciata, romanica ma con più tarde aggiunte.

Già nel marzo dello stesso anno Viollet-le-Due presenta il suo programma di interventi, teso, “senza che si alteri
l’edificio” ma evitando ogni “palliativo”, a restituirgli capacità statiche e di durata nel tempo. Passa a ricostruire gli
archi rampanti della navata, corregge la pendenza del tetto e le finestre, migliora il sistema di deflusso delle acque
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piovane, per esigenze di luce e di perfezionamento statico apre degli oculi nella zona absidale.
Già in questi primi interventi si vede emergere la contrapposizione dell’archeologo (che invoca la piena conservazione
delle antiche vestigia) all’architetto (che si propone di migliorare le condizioni statiche ed estetiche del monumento
affidatogli). In questo modo tre grandi volte del XIV sec, troppo alte e mal contraffortate, vengono “ristabilite” nello
stile primitivo, dalla facciata sono eliminate le tracce della ristrutturazione più tarda (rimasta incompiuta), mentre per
la sommità della torre meridionale si inventa una leggera balaustrata.
 La stessa torre suscita inquietudine dal punto di vista statico e sembra prossima al crollo; egli ne riprende le
murature, pezzo per pezzo, chiudendo i vuoti, sostituendo con materiali nuovi quelli usurati e ridando finalmente
all’edificio la sua stabilità. Il tutto comporta un forte impegno personale di invenzione, di controllo e di
organizzazione del cantiere, di scelta dei materiali, di assunzione di responsabilità per il rischio di incidenti e di
crolli che non mancano di preoccuparlo giorno e notte.

Nel luglio del 1842 gli interventi pericolosi sono terminati e la chiesa ha riacquistato la sua bellezza e la sua solidità.
L’unica modesta riserva concerne la libertà che Viollet-le-Duc si è presa di eseguire, intorno alla chiesa, una sorta di
complicato fregio secondo un modello forse non appartenente all’edificio primitivo, è costato molto senza nulla
aggiungere al restauro -> si tratta di una critica secondaria che non tocca il metodo.

Scrive Léon che se il restauro della Madeleine fu una “rivelazione”, il restauro di Notre-Dame di Parigi divenne
l’”apoteosi” del giocane Viollet-le-Duc e del metodo che egli incarnava.
La chiesa aveva rappresentato nei secoli il santuario dell’intere nazione ed aveva molto sofferto durante gli ultimi
decenni. Per motivazioni religiose, storiche ed anche poetico-letterarie la generazione del tempo voleva quasi mettere
alla prova la propria capacità di rimediare alla precedente barbarie, lavorando sulla struttura e sulla decorazione,
depauperante delle antiche statue, della stessa flèche, dei pinnacoli, degli altari e dei reliquiari; si trattava di rendere
alla cattedrale la sua “parure”, il suo ornamento, espressione della sua complessa storia.

Lassus e Violet-le-Duc, incaricati del lavoro, presentano il loro progetto nel gennaio del 1843 proponendosi di
superare definitivamente il vecchio sistema dei “palliativi”; l’intervento doveva eliminare il male, prodotto dell’uomo
o della natura, alla radice, e attuarsi con un largo impiego di pietra, di tecniche e di materiali antichi, sostituendo
integralmente le parti ammalorate o danneggiate.

Qualche anno dopo Léon de Malleville, illustrando alla Camera dei Deputati un rapporto sul restauro (1845),
affermava che il progetto costituiva il giusto mezzo fra:
- L’entusiasmo incontrollabile di chi vede nell’opera antica solo un abbozzo da portare a termine, “un pensiero da
sviluppare”, trasformando e snaturando ciò che gli è stato affidato perché fosse conservato.
- Coloro che con attenzione “meticolosa” considerando un sacrilegio ed una barbarie ogni concreto intervento,
preferendo lasciar “cader in rovina l’oggetto della loro ammirazione piuttosto che mettervi mano per sostenerlo”.
Se il rispetto assoluto è comprensibile per una rovina, conclude de Mallevile, non lo è per un monumento la cui
destinazione lo “raccomanda al rispetto dei popoli”; a questo è doveroso “rendere le garanzie di una lunga durata” :
sostituire una pietra o rafforzare un arco non vuol dire profanare il monumento, ma farlo rivivere.

Gli architetti proclamavano d’essersi imposte le regole più rigorose: una “religiosa discrezione” e la completa
“abnegazione di ogni opinione personale”, non trattandosi di “fare dell’arte, ma di sottomettersi all’arte di un’epoca
che non c’è più”, restringendosi la loro funzione al solo “riprodurre” ciò che appare “difettoso” dal punto di vista
artistico e da quello costruttivo.
Come al solito l'applicazione del programma comportò gravi difficoltà, emerse chiaramente al momento della
presentazione, morto Lassus, dei diversi progetti redatti da Viollet-le-Duc fino al 1864; si trattava, come sempre, di
conciliare dottrine opposte e di decidere se mantenere le aggiunte dei secoli successivi alla costruzione o se puntare
soprattutto ad assicurare solidità e durata all'edificio mantenendo “fra le parti l'armonia dell'opera d'arte”.

La natura composita e stratificata di Notre-Dame sollevò continui problemi che Viollet-le-Duc affrontò e risolse, di
volta in volta, con un attento studio.
- Ritrovate nel 1854 le tracce di una finestra a rosa, con funzioni d’areazione, decise di ristabilire il tipo delle aperture
originali nelle due prime campate della chiesa, presso l’incrocio del transetto.
- Invece restituisce le rose d’aerazione sul transetto senza riscontri precisi ma in base a considerazioni stilistiche
(analogia con altri monumenti).
- Per le finestre delle tribune del coro si trattava di scegliere fra quelle del XIII sec, poco in armonia con il resto
dell’edificio, e l’idea di proseguire la costruzione interrotta di quelle del XIV sec, in stile con le cappelle circostanti.
Mérimée spingeva per il rispetto “storico” dello stato attuale e l’architetto esitava; alla fine questi scelse una doppia
soluzione, ristabilendo nel coro le antiche rose lucifere al posto delle successive finestre basse e immaginando, lungo
la navata, finestre in stile più moderno richiamanti quelle delle cappelle.
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- Sostituì i tetti a doppia pendenza delle navate minori con terrazze per agevolare lo smaltimento delle acque.
- Consolidò le parti esterne senza modificare l’insieme , sostituì alle forme magre e stirate del XV sec moduli più larghi
e possenti ispirati al XVI sec e così via.
- Circa le sculture era stato deciso che, in assenza di vestigia antiche, si procedesse per trasposizione di elementi
similari (in perfetta linea con il pensiero di Mérimée), e che la ricostruzione fosse esemplata su vecchi disegni,
costituenti una testimonianza preziosa dello stato antico, come nel caso del portale centrale mutilato.
- Per le due torri di facciata esisteva un progetto dell’architetto Arveuf che prevedeva guglie alte 50m; preoccupato
dell’impatto visivo sulla città Mérimée si oppose ed appoggiò un più rispettoso progetto Viollet-le-Duc, che però non
ebbe seguito. Questi invece restituì la fleche sull’incrocio, distrutta dalla Rivoluzione, seguendo un disegno
precedente che completò ed arricchì, anche con statue raffiguranti persone del suo tempo.
- All'interno della chiesa, il coro con l'altare maggiore di Luigi XlV, disegnato e in parte realizzato (1699-1705) da
Mansart, compiuto dal suo allievo Robert de Cotte (1656-1737), aveva danneggiato il vecchio presbiterio gotico;
mentre l’architetto Arveuf sosteneva l’eliminazione del coro barocco, Viollet-le-Duc sembrava opporvisi in ragione
dell’importanza storica di quell’elemento. Mérimée nel 1843, la pensava ugualmente. Tuttavia ai buoni principi non
seguì una pratica analoga e Viollet-le-Duc non si rassegnò a lasciare i pilastri medievali inviluppati nelle placcature
marmoree classicistiche.
- Inoltre, sempre all’interno, finì col restituire le pitture murali, destinate a rimpiazzare le tavole dipinte perdute ed, in
generale, tutta la grande imagerié voluta dagli antichi costruttori.

I lavori di cui abbiamo detto hanno quindi incarnato una serie di nuovi principi di non facile applicazione.
Lo smontaggio ed il rimontaggio erano operazioni molto ardue, svolte con una cura assai diversa dall’attuale, senza
l’ausilio della fotografia e spesso senza una rigorosa numerazione dei pezzi; con esse poco restava di autentico (il
sistema dei “palliativi”, pur nella sua parziale efficacia, conservava ai monumenti almeno lo “stato antico”, senza
mutarne gli elementi strutturali), come risulta dai casi della torre di Mantes, e più che un restauro, valgono quali
esempi di false ricostruzioni moderne.
Ma se già era difficile ricostruire un monumento conoscendone lo stato antico, diventava singolarmente arbitrario
pretendere di restituirne le parti sparite; eppure la dottrina della restituzione per analogia stilistica , sostiene giustamente
Léon, era in origine nettamente conservatrice, poiché tendeva ad impedire le riparazioni maldestre (equivalenti ad una
radicale distruzione dell’opera antica), preferiva la copia all’invenzione casuale, fondava sulla conoscenza diretta ed
approfondita de monumento, rientrava idealmente nello spirito “storicistico” e “scientifico” dell’epoca.
Tuttavia tale orientamento ricostruttivo andò accrescendosi insieme con l’aumento delle capacità di studio e di
padroneggiamento dell’architettura medievale da parte degli architetti del tempo, fino a che la tendenza assolutamente
prevalente divenne quella verso la restituzione integrale dell’edificio nel suo stato primitivo, con buona pace delle
primigenie intenzioni conservative.

Già nel 1843 Daly (1811-94) metteva l’opinione pubblica in guardia contro l’idea, avanzata da Viollet-le-Duc, di
ridare alla cattedrale parigina “tutto il suo splendore” e di “restituirle tutte le ricchezze di cui è stata spogliata”.
Le obiezioni di Daly poggiano sulla convinzione che gli studi di architettura medievale fossero ancora troppo giovani e
immaturi per affrontare un così arduo lavoro e che, se si trattava di sperimentazione, questa comunque andava fatta su
“monumenti che interessino meno l’arte e la storia”, non certo a partire da Notre-Dame.

Poco dopo Montalembert (1845) invitava i giovani architetti nutriti d'ambizioni di ripristino “a contenere la loro
attività in una sfera più umile, ma più utile e più feconda ed a studiare sinceramente l'arte di consolidare i monumenti
che essi pretendono di abbellire”.

Ma i consigli alla prudenza sfortunatamente non prevalsero ed anzi il restauro di Notre-Dame ebbe grande successo e
suscitò uno sterminato numero di imitatori in tutta Europa. L’abuso e l’eccesso di restauro si sarebbe manifestato nelle
forme più diverse ma soprattutto a danno dei campanili e delle guglie, oggetto delle più fantasiose e spinte
ricostruzioni.
 Un progetto di guglie per la cattedrale di Rouen fu accantonato per le ferme proteste di Didron il quale, in
proposito, affermò con la consueta chiarezza che non aveva senso il completamento architettonico come non lo
aveva quello d'un testo poetico di Virgilio, pittorico di Raffaello, scultorio di Michelangelo.

Le teorie prevalenti, a partire dalla seconda metà del XIX sec in Francia, conducevano non solo a rimpiazzare gli
elementi perduti ma anche a sostituire parti esistenti con altre di forma sostanzialmente diversa. La maggior parte
degli edifici considerati portava si di sé i segni delle modifiche di età barocca, dei vandalismi rivoluzionari, delle
successive alterazioni (come le tracce dell’occupazione militare del Palazzo dei Papi ad Avignone o dell’adattamento
a carcere di Fontevrault) che si sentiva di dover rimuovere.
In proposito Viollet-le-Duc affermava che, pur essendo pericoloso imboccare nel restauro la via delle modifiche, col
pretesto dei miglioramenti, sarebbe tuttavia “puerile” produrre disposizioni errate che potrebbero condurre a cattive
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sorprese -> si tratta di un notevole mutamento di principi, da quando si affermava l’assoluto rispetto per la storia e per
tutte le sue testimonianze, anche le più “difettose”. In base a questi diversi criteri Viollet-le-Duc restaura l’abside della
cattedrale di Reims: ritrovata l'antica grondaia (ad un livello più basso di quella eseguita successivamente) la
ristabilisce, e per evitare problemi di smaltimento delle acque decide di rimpiazzare la galleria piena esistente con una
a giorno, che finisce col togliere alla cattedrale il suo caratteristico aspetto di fortezza.
 Sono passati da allora più di cento anni ma la situazione spesso si ripresenta, ancor oggi, negli stessi termini ; con
la scusa di un preoccupante stato conservativo, si invoca come toccasana il rifacimento, alle volte la correzione
(meglio se con materiali, tecniche, forme e colori antichi).

Tenuto presente che l’unità di stile postulata dagli architetti del XIX secolo non si è mai completamente realizzata in
nessun antico edificio e che l’attrattiva di numerosi monumenti medievali risiede proprio nella loro ricca
stratificazione storico-formale, è utile riferire anche delle ricorrenti proteste da parte archeologica in favore
dell’integrale difesa delle testimonianze del passato.
I conflitti si manifestarono soprattutto fra i “tecnici” (in prevalenza architetti, le cui riconosciute competenze
assicuravano l’autorità) e gli studiosi (soprattutto quelli locali, risoluti a difendere il loro diritto di libera critica e, con
esso, i monumenti di cui si sentivano diretti responsabili).

- La locale Societé archéologique obietta garbatamente che gli archeologi si sono interessati della salvezza dei
monumenti ben prima degli architetti, che di questi essi sono stati i primi maestri e che, se una generazione di
giovani professionisti è stata educata a capire il medioevo, ciò si deve sempre agli archeologi.
- Viollet-le-Duc (1874) accusa Anatole Leroy-Beaulieu, che criticava i restauri della cattedrale Évreux, d'essere lo
strumento d'una cricca clericale; questi gli risponde che di tutte le infallibilità quella meno accettabile è proprio la
scientifica, pretesa guida al ripristino.
- A proposito di Evreux, il comitato per la conservazione della cattedrale (1875) rammenta i principi accolti dalla
Commission des monuments historiques, favorevoli alla conservazione e non alla intromissione dell’architettura
“moderna” sulla “concezione dell’antico artefice”.
- È la stessa tesi sostenuta, sempre nel 1874, da Leroy-Beaulieu il quale vede ripetersi in architettura quanto era era
successo nella storia naturale: classificazioni, divisioni e formule accentuale oltre il necessario, sino a creare una
sona di tipo ideale, di arte astratta e teorica alla quale si è tentati di piegare la realtà dei monumenti del passato; si
tratta di considerare equilibratamente l'aspetto artistico e quello documentario dci manufatti (noi diremmo oggi
l'istanza estetica e quella storica) -> non si tratta di fare meglio degli antichi ma di rispettare ciò che esiste.

Sono i sintomi palesi di un profondo ripensamento, più forte e deciso in Francia dopo la caduta del Secondo Impero,
che vide l’apogeo di Viollet-le-Duc, ora vecchio e isolato. D'altra parte i corsi tenuti all’Ecole des chartes da De
Lasteyrie avevano orientato le nuove generazioni di architetti verso una concezione più conservativa , avvicinandoli al
punto di vista degli archeologi. Il monumento può costituire una testimonianza storica autentica solo se resta nello
stato in cui il passato ce l’ha trasmesso, e quindi abbiamo il dovere di conservarlo così come ci è pervenuto,
rispettando anche i cambiamenti apportati dalle generazioni successive a quella che l’ha fondato; è dannoso e illusorio
pretendere di restituirlo al suo stato primitivo.
- Da una parte si sente l’influenza di Ruskin, dall’altra già vediamo consolidarsi la concezione del restauro,
“filologica” e “scientifica”, che sarà poi di Boito e Giovannoni.
- Si avverte, inoltre, una certa eco dei progressi tecnici propri del secondo ‘800 per cui la conservazione integrale
della materia e delle forme antiche sembrava poter essere facilitata dall’impiego progressivo dei metodi di
consolidamento diretto, non implicanti né la sostituzione né lo smontaggio di parti originali.

Comunque, da tutte le precedenti affermazioni stilistiche sono discesi restauri che hanno segnato la storia dei
monumenti francesi per tutto il secolo.
Al di là delle facili critiche condotte col senno di poi, questa stagione del restauro ha prodotto la sistematica diffusione
della tutela su tutto il territorio; l’organizzazione di appositi uffici pubblici; l’approfondimento , a scala internazionale,
del dibattito sulla conservazione e, soprattutto, numerosissimi interventi di conservazione cui dobbiamo la salvezza di
monumenti in altro modo destinati a sicura rovina (edifici certamente modificati ed alterati da un tipo di intervento che
oggi non possiamo più condividere ma che consideriamo espressione significativa e feconda della cultura del tempo,
contrassegnata, dopo gli esordi romantici, da un severo positivismo scientifico ed estetico).
Ciò non toglie che siano stati compiuti errori ed eccessi i quali sono stati puntualmente denunciati e combattuti, con
l'aggiunta delle critiche di chi respingeva il metodo in sé, privilegiando letterariamente ed archeologicamente il
minimo intervento (secondo l'esempio dello sperone orientale del Colosseo) o, almeno, la sua chiara distinguibilità
(secondo il modello dell'Arco di Tito); ci si riferisce ad esempio a Didron (dal 1839) o a Daly e Jeanniard (1846).

Fra i più noti esempi di restauro stilistico ricordiamo, di Viollet-le-Duc, l’esecuzione in forme gotiche della facciata
della cattedrale di Clermont-Ferrand, che la città attendeva dal XV secolo, accompagnata da un progetto di
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ingrandimento della chiesa; nel 1855 e nel 1864 l’architetto presenta due proposte, ma i lavori saranno avviati solo nel
1867 per essere conclusi, con l’innalzamento della seconda flèche, nel 1884.
Qui l’architetto ha sognato di poter realizzare concretamente la “cattedrale ideale degli inizi del XIII sec” da lui
studiata e accuratamente disegnata per essere pubblicata nel suo volume Histoire d’un hotel de ville et d’une
cathédrale, che fa rifermento all’immaginaria città di Clusy.
Egli mantiene un solo portale centrale, consacrato al Cristo circondato dagli apostoli, con scene del Giudizio finale, e
si ispira al Saint-Urbain di Troyes; il rosone è tratto dal transetto meridionale di Chartres; le alte finestre gemellate
dalla cattedrale di Amiens; statue e nicchie con pinnacoli alla base delle torri sono prese dalla cattedrale di Reims; il
grande timpano decorato a crochets e con tre oculi segue quelli del Saint-Nicaise, sempre a Reims, mentre le due
guglie raggiungono i 108 metri. Nel complesso, nonostante le ripetute citazioni storiche, si tratta di un’opera
profondamente originale e creativa, tipica della produzione del XIX sec.

Ricordiamo inoltre i lavori:


- alla Cattedrale di Amiens (1849-74, con un programma solo parzialmente realizzato di “armonizzazione” secondo il
gusto dell’edificio e d’isolamento dell’edificio dalle costruzioni in rovina ad esso circostanti)
- al Saint-Just di Narbonne, alla grande sala sinodale di Sens (1855-66)
- al Saint-Sernin di Tolosa (soluzione absidale e torre notare, bifore sul fianco sinistro della navata; progetto 1847,
lavori 1860-79)
- alle fortificazioni di Carcassonne (1853-79) e al castello di Pierrefonds per Napoleone III (dal 1857), più
ricostruzione che restauro

In Inghilterra, ove gli sviluppi sono in parte diversi, prevalgono la figura di George Gilbert Scott, August Charles
conte di Pugin, e soprattutto di Augustus Welty Northmore Pugin, figlio del precedente, importante non tanto per la
profondità del suo pensiero quanto per l’abilità nel sollevare l’interesse sui temi trattati; nel corso della sua breve vita
questi pubblicò ed espresse una concezione del restauro degli edifici ecclesiastici come fatto di natura anche religiosa,
e come architetto egli ebbe pari confidenza con il gotico inglese che con quello francese.

Restauri come quello di Edward Blore sull’abbazia di Westminster (1827), seguivano il diffuso sistema per cui le più
tarde aggiunte dovevano essere rimosse per ottenere l’unità di stile. Effettivamente, il restauro in questo periodo di
riscoperta e di entusiasmo per un solo e ben determinato periodo storico, era concepito coma la restituzione
dell’edificio al momento in cui era stato creato, allo spirito ed allo stile secondo cui era stato in origine concepito.
Tale convinzione sembra aver guidato il restauro inglese, e non solo quello, dall’inizio del secolo fino alla sua metà; è
ciò che in inglese viene detto il principle of preference nel restauro, basato sul criterio della più generale, francese,
unité de style.
Dopo il 1850 cominciano, però, ad emergere atteggiamenti critici sempre più decisi, colti ad un maggiore rispetto
delle fasi storiche e sostenuti da più sicure conoscenze filologiche e da più moderne idee sulle ragioni del conservare.

All’inizio sembrava che i problemi del restauro si potessero identificare con quelli relativi alle normali riparazioni e
che non sussistessero attenzioni d’ordine teorico e metodologico né, tantomeno, preciso direttive. Il primo a sollevare
questioni di principio fu Freeman, che distinse due tipi di restauro:
- Uno distruttivo, proprio della pratica antica nella quale la coerenza stilistica non erano considerata e le riparazioni
erano condotte in ossequio alla “maniera del tempo”;
- L’altro conservativo, mirante a riprodurre nel restauro i dettagli secondo il loro preciso linguaggio antico, tanto da far
risultare l’edificio restaurato “in its new state a new facsimile”.
La novità è che a questi due sistemi egli ne aggiunge un terzo che definisce “ eclettico”, una soluzione intermedia che
valuta le qualità storiche ed estetiche proprie di ogni monumento sottoposto a restauro. Di volta in volta la situazione
si presenterà in modo diverso; in certi casi, quindi, basteranno semplici riparazioni, in altri una più mediata
riconfigurazione e in altri ancora il primo e il secondo “tipo” di restauro andranno accuratamente combinati.

Il reverendo John Louis Petit (1801-68) nelle sue pubblicazioni invocava la conservazione dello stato in cui l'edificio
poteva essere stato conosciuto ed apprezzato a lungo, anche se non si trattava della configurazione originale.

Nel 1847 Gilbert Scott ebbe il suo primo incarico come restauratore di una cattedrale, quella di Ely, inizio di una
lunghissima serie ed anche li riapparve la sua caratteristica e sofferta distinzione fra parole e fatti, spesso causata da
forzati compromessi di natura professionale. Nella sua prima pubblicazione, presentata nel 1848 ed edita nel 1850 (A
Plea for the Faithful Restoration of our Ancien Churces, London), egli protesta contro il cosiddetto restauro che sta
rovinando tutti gli esempi autentici delle più umili forme d’arte sacra; afferma che come regola dovrebbe valere il
conservazionismo e che, nel restaurare, i più gravi danni discendono dal fare troppo e dal non sapere fermarsi in
tempo; nega, infine, che il restauratore possa accordare un’indebita preferenza ad una data fase storica rispetto a altre.
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Nel 1862 Scott torna sull’argomento, ribandì la pericolosità della “over-restoration”, rimarcando l’importanza storica
dei monumenti e quella della più ampia ed approfondita documentazione preliminare; cita il pensiero di Ruskin sulla
necessità della manutenzione continua, la sola in grado di evitare i rischi del restauro; oppone al termine restoration,
da espungere dal campo dell’architettura, quello più semplice di reparation e naturalmente il più pertinente
conservation; critica Viollet- le-Duc ed il restauro di Carcassone.
Per lui le cause di deterioramento di possono suddividere in tre tipi: naturali, da alterazioni indotte, da eccesso di
restauro, per ovviare alle quali propose un codice di norme che vide la luce nel 1864: non si trattava di un manifesto di
principi ma di un documento pragmatico che, ad esempio, raccomandava che la successione delle fasi costruttive di un
antico monumento fosse lasciata chiaramente leggibile a vista, sollecitava l’impiego della fotografia, ecc.

Tuttavia, nel suo operare, Scott si allontanò molto dai sani principi che egli stesso predicava. La sua attività di restauro
può divedersi in tre gruppi:
- Quello in cui egli era preoccupato di salvare a tutti i costi il monumento ed operava come ingegnere-architetto
attento alla soluzione dei problemi “materiale” di conservazione (St. Albans)
- Quello in cui operava come architetto “ricostruttore”, sacrificando senza tanti scrupoli le preesistenze e applicando i
criteri dell’unità di stile (demolì la cappella seicentesca del Collegio Ester di Oxford per ampliare la sua casa).
- Quello influenzato dal gusto vittoriano, dalla mescolanza di stili franco-inglese, di nuovo e antico ecletticamente.

L’atteggiamento britannico, sempre guidato dall'empirismo ed incapace di affrontare in linea teorica i problemi del
restauro, permette di trovare compresenti, nello stesso ambiente, se non nella persona, le punte più alte della tutela
(basti pensare a tutta la tradizione inglese della conservazione a rudere) e quelle della più pesante alterazione.

George Edmund Street (1824-81), allievo di Scott, era un altro fervente revivalista gotico: la sua conoscenza del
gotico era tanto approfondita da ingannare lo stesso Scott, il quale prese una sua chiesa per un originale del ‘300.
Nell’ampliamento della Stewkley Church (una modesta fabbrica romanica prolungata abbattendo e riedificando più
avanti la facciata), si preoccupò di ricollocare ogni pietra al suo posto senza che risultasse alterato il colore delle
superfici esterne, in modo che nessuno avrebbe potuto capire se fosse stata o no “ricostruita” la facciata stessa; non
ebbe, però, scrupoli nel correggere le antiche situazioni difettose, operando come avrebbe fatto, nelle medesime
circostanze, l’antico architetto medievale, ma sempre “dopo la più approfondita considerazione”.
La preferenza per la restituzione integrale del monumento gli derivava, ancora una volta, da riflessioni di natura
funzionale e religiosa, e da valutazioni considerate superiori a quelle di tipo antiquariale e propriamente storico. Con
le solite argomentazioni anticonservazioniste, precisava che l'intervento deciso serviva comunque a scongiurare
ulteriori danni (Christ Church Cathcdral. Dublino).
Negli asserti teoretici era però contro l’unità di stile che “obliterava la storia” ed a favore della stratificazione storica
(“mantenere la vecchia opera nel suo vecchio posto, cole sue vecchie tinte, le sue vecchie macchie, dovute al tempo,
ed ai suoi licheni, ed anche ai suoi vecchi difetti”).

I rapporti con la Francia sono evidenti, così come una certa ammirazione per Viollet-le-Duc, ma le prime argomentate
critiche da parte inglese a quel modo di operare vengono proprio da Street che nel 1857 parla, senza mezzi termini, di
“grossolana distruzione, effettuata sotto la pretesa del restauro” riferendosi a Reims e Laon, private di ogni patina del
tempo e riportate bianche a pulite come se fossero appena costruite. Ciononostante Street non era cieco ai vantaggi
che il sistema centralizzato francese comportava rispetto a quello localistico inglese in cui, alla fine, il clero prendeva
ogni iniziativa ed aveva sempre l’ultima parola.

Tre sono le maniere del restauro “distruttivo”:


- La prima vorrebbe gettar giù e ricostruire in nuovo stile
- La seconda gettar giù e riedificare nello stesso stile
- La terza vorrebbe nettare e raschiare ogni pietra di un muro finché il tutto acquistasse sembianze di essere nuovo

Al restauro “distruttivo” dovrà sostituirsi quello che può essere “a buon diritto chiamato conservativo”, convinti che
“l’evidenza dell’antichità è una cosa della quale, sopra ogni altra, bisogna fare gran conto”. Esso richiederà una grande
accuratezza esecutiva e un controllo diretto del lavoro delle maestranze; l’uso delle tecniche tradizionali ma anche
quello “d’ingegnose invenzioni, come malta annerita, o giunture rigate”; la preferenza accordata alle semplici
puntellature e alle riparazioni rispetto ai rifacimenti; la salvaguardia degli antichi materiali, fino alla singola pietra, da
contrassegnare “com’essa stava collocata” e da “rimettersi al suo stesso posto”.
Si tratta certamente di raccomandazioni che risentono dell’influsso anti-restauro di Ruskin, ma che sono intese anche
come utili a condurre ricostruzioni nuove in imitazioni di vecchi fabbricati, ove tale limitazione è spinta fino alla
simulazione dei segni dell’invecchiamento.

Il discorso, letto alla “Esposizione di Architettura” di Londra (tradotto precocemente in italiano già nel 1861,
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testimoniando la diffusione delle sue idee in Italia) si chiude con un invito a curare la formazione specialistica di
architetti e maestranze e con un altro, quanto mai attuale, a favorire l’affidamento delle opere piuttosto “a maestri
muratori speciali per una moderata parte d’affari, che a grandi costruttori, che raramente vedono da per sé le opere che
fanno eseguire, e che non trovano il valore del loro tempo ad entrare in quelle minuzie alle quali ogni ristauratore di
un antico edifizio è obbligato di attendere”.

Nel resto dell’Europa il verbo “stilistico” si diffuse rapidamente diventando la linea prevalente , se non l’unica, per
moltissimi anni. Esso subirà l’attacco del pensiero di Ruskin e Morris, poi delle più moderne concezioni scientifiche e
filologiche del restauro, codificate nelle carte internazionali del restauro di Atene (1931) e di Venezia (1964).
La mentalità stilistica e ripristinatoria è tuttora viva ed operante in quasi tutti i paesi extra-europei, oltre che in buona
parte dell’Europa centro-settentrionale, mentre tende a ripresentarsi in forme nuove e speciose anche in quella
meridionale, che per prima l’aveva rigettata.

L’Italia contempla gli sviluppi in questo senso soprattutto nel secondo ‘800, con l’emergere della figura di Carlo
Cattaneo e, con lui, il ruolo della rivista “Il Politecnico”; vi si può leggere un precoce tentativo di riconoscere la
“supremazia del dato storico su quello estetico”, per cui nessun “intervento selettivo, né artistico, era condivisibile”.
Possiamo ricordare, fra i completamenti “in stile”, a Firenze:
- La nuova facciata di Santa Croce (1857-63) attribuita a Matas, successivamente alla costruzione del campanile di
Baccani, restauratore nel 1860 del San Lorenzo
- La facciata di Santa Maria del Fiore (1876-87) affidata all’architetto Emilio De Fabris, in seguito al concorso vinto
nel 1868 e da lui condotta, con vicende segnate dalla lunga disputa sulla tipologia tricuspidata o monocuspidata
(quella infine prescelta), sino alla morte per essere poi ripresa dall'architetto Luigi Del Moro
- I palazzi Gondi (1874) e Medici Riccardi (restauro e ampliamento nella seconda metà del secolo)

Circa la liberazione di antiche medievali dalle aggiunte e trasformazioni barocche, considerate prive di qualunque
valore, abbiamo a Milano un’ampia casistica:
- Nel 1857 furono avviati i lavori intesi a riportare a Sant’Ambrogio alle sue forme medievali e nel 1889 venne
sopraelevato il campanile dei Canonici
- Maciachini ripristinò San Simpliciano (1870), Sant’Eustorgio (1871), San Marco (1871), la facciata di Santa Maria
del Carmine (1880) e, a Trieste, il Santo Spiridione (1860-68)
- Cesa-Bianchi e C. Nava liberarono e restaurarono gli interni e rimossero la facciata barocca, nel 1604, alla chiesa San
Babila reinventandone, quasi completamente, una romanica
- Nel 1884 e 1888 si svolse, in due gradi, il concorso per la facciata del Duomo, vinto dal progetto, non realizzato, di
Giuseppe Brentano.

A Como l’intervento sulla basilica di Sant’Abbondio è un’applicazione decisa del metodo “induttivo”, di derivazione
francese, implicante la distruzione delle aggiunte e la riscoperta della presunte “forme originarie”; criteri analoghi di
“adeguamento stilistico” guidarono il restauro del San Carpoforo.

A Brescia, la relazione dell'architetto Giuseppe Conti per i previsti lavo1i di restauro al Palazzo della Loggia, redatta
nel 1863, ci mostra una chiara adesione a princìpi francesi (“di non alterare il concetto originale e di riprodurre le parti
offese o mancanti con identiche misure, proporzioni e forme, imitando il carattere, la maniera e il gusto locale dello
stile, come il meccanismo del lavoro, da eseguirsi con materiali simili, al fine di ottenere che la nuova opera eli
restauro non si possa distinguere dall'antica esistente”) anche nelle conseguenti attenzioni manutentive (“impedire alle
acque pluviali di penetrare tra le commettiture delle pietre per evitare nuovi guasti”).

Alfredo D’Andrade condusse molti restauri fra cui quello del castello di Fenis in Val d’Aosta; a Torino, quello di
Palazzo Madama, della porta Palatina e la costruzione del “borgo medievale” nel Parco del Valentino; a Genova la
liberazione della Porta Soprana e la sistemazione del San Donato.

Il conte Edoardo Arborio Mella, studioso d’architettura medievale e professionista dilettante (operava gratuitamente e
favore di istituzioni religiose catteoliche), formatosi con un cammino di studi personale, comprendente una
conoscenza approfondita e diretta del mondo artistico mediterraneo ed europeo, in specie tedesco, rappresenta un
personaggio meritevole d'attenzione. Restaurò il duomo di Alba, di Casale Monferrato e di Vercelli, con interventi di
“pulitura” stilistica, spesso di correzione delle asimmetrie ma anche con l’impiego di tecniche attuali, quando queste
servivano a migliorare la funzionalità dell’edificio (infissi in ferro studiati per l'eliminazione dell'acqua di condensa,
ghiere in ghisa per la ventilazione delle volte). Su questo punto, e non certo sulle “tendenze ricostruttive”, c'è
contrasto con il d'Andrade il quale “nega soprattutto l'uso di tecniche edilizie povere, ricercando sempre materiali
autentici e perfettamente simili agli originali, verso il recupero di metodi costruttivi arcaici”.
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Federico Berchet a Venezia restaura o, meglio, ricostruisce il fondaco dei Turchi (risalente al XIII secolo); a Murano
si interviene, fra il 1858 e il 1873, sulla chiesa dei Santi Maria e Donato.

A Bologna Alfonso Rubbiani interviene pesantemente sul San Francesco, nel Palazzo della Mercanzia, nei palazzi di
Re Enzo, dei Notari e del Podestà. Rubbiani si occupa anche del restauro del Duomo di Modena (fedele ai principi del
restauro stilistico).
Nel 1894 Raffaello Faccioli, direttore dell'Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti dell'Emilia,
progetta il restauro della facciata di San Domenic, portato a termine dal Rubbiani nel 1909.

Trattamenti di “restauro stilistico” subiscono:


- I palazzi Spannocchi e Salimbeni ad opera di Partini a Siena
- A Orvieto, il Palazzo del Popolo (risalente al XIII secolo e molto manomesso), viene reintegrato da Giuseppe
Sacconi (l'autore del monumento nazionale a Vittorio Emanuele Il in Roma, ma anche Sovrintendente ai Monumenti
del Piceno e dell'Umbria) sulla guida, non sempre certa, degli elementi superstiti
- A Roma, Santa Maria in Cosmedin è ugualmente “liberata”, anche se qui l’atteggiamento di Giovanni Battista
Giovenale, non diversamente da quello di Sacconi ma con maggiore attenzione filologica, sembra piuttosto di
restauro “storico” che “stilistico”, mirando a restituire, in base ai risultati di un'attenta ricerca storico-documentaria, il
monumento non come avrebbe dovuto essere ma come. in effetti, si era presentato ad una certa data (1123)

Nell’Italia meridionale abbiamo i restauri, i “miglioramenti” ed i completamenti stilistici, per lo più attuati a danno di
precedenti sistemazioni barocche, di Federico Travaglini (Sant'Eligio, San Domenico Maggiore, I850-53; San
Giovanni Battista delle Monache, 1858 a Napoli; Duomo di Troia ed anche il restauro “archeologico” della Casa del
Fauno a Pompei, in collaborazione, nel 1S55, ove rimosse finanche le stesse aggiunte antiche, conseguenti al
terremoto che aveva preceduto di qualche anno l'eruzione del Vesuvio) e di Errico Alvino (facciata del Duomo di
Napoli, 1876-1905; facciata del Duomo di Amalfi > crollo parziale 1861, progetto 1871, primi lavori 1872-76, e
ulteriori lavori di completamento dopo la morte dell'Alvino) e molti altri interventi nell'ultimo periodo borbonico e nei
primi decenni del Regno d'Italia.

In Sicilia, a Palermo la chiesetta di San Cataldo, del XII sec, è liberata al suo interno e rinnovata esternamente nel
1884 da Giuseppe Patricolo come la chiesa della Santissima Trinità di Delia (1880) mentre risponderanno ai criteri di
unità di stile gli interventi sul Duomo di Messina (1919-20) come altri a Ferrara, Bergamo, Piacenza e, sempre per il
Duomo, a Messina.

Il resto dell’Europa tenderà ad allinearsi sulle posizioni stilistiche di origine francese, dalla Spagna ai paesi di lingua
tedesca, con restauri e completamenti.

Essenwein fu incaricato di interessarsi del Duomo di Trento. Nel 1880 Enrico Nordio realizzò un disegno con il quale
venne intrapreso il restauro poi ultimato nel 1893, secondo i criteri di “purificazione stilistica” e di ripristino spesso
d’invenzione, agendo a danno delle parti cinquecentesche. L’idea di Essenwein mirava ugualmente a riprodurre “la
situazione originale”, rielaborando “il complesso per farlo sembrare nuovo” (-> moderna produzione neo-romanica,
mossa da intenzioni artistiche, tecniche ed economiche solo in parte propriamente restaurative). Inoltre il rifiuto
all’idea di invecchiare, patinandole, le pietre moderne per adeguarle nel colore alle vecchie, può essere interpretato
come un’artistica preferenza per l’effetto “pittorico” dell’accostamento di antico e nuovo.

Sempre a Trento Pietro Selvatico, più originale come storico dell'architettura che come conservatore, aveva inaugurato
la stagione dei grandi restauri con la nuova facciata dei Santi Pietro e Paolo, distrutta da un incendio nel 1624 e rifatta
tra il 1847 e il 1851 in forme neogotiche.

Quanto alla Germania, dopo le consuete distruzioni del primo ‘800, abbiamo il recupero del medioevo non senza le
consuete componenti religiose, in prevalenza cattoliche, poi nazionalistiche ed, in campo artistico, stilistiche e
“revivalistiche”.
- Il restauro della Cattedrale di Colonia (che si era interrotto nel 1457) ne costituisce l’esercizio più imponente e
significativo, fondato sopra un accuratissimo rilievo. I lavori ebbero inizio nel 1824 sotto l’architetto Friedrich Ahlert
cui subentrò, nel 1833, Ernest Friedrich Zwirnwr, il tutto si concluderà soltanto nel 1880, nel rispetto del principio
della perfetta unità di stile.
- Nel 1815 erano iniziati i lavori di rispristino del Castello dei Cavalieri Teutonici; la roccaforte degli Hohenzollern, in
Svevia, venne restaurata da August Friedrich Stuler con gli stessi criteri usati da Viollet-le-Duc a Pierrefonds, e
costituirà il modello per il restauro dei castelli sul Reno.
- Il restauro in stile del Duomo di Spira fu completato negli anni 1854- 58 da Christian Heinrich Hubsch, con la
raffinata integrazione di facciata in forme neo-romaniche e con tutto il suo complesso ciclo iconografico
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rappresentava la risposta della cattolica Baviera alle realizzazioni prussiane, ma sfortunatamente l'intervento è stato
danneggiato di recente (1957-60) dalla rimozione degli affreschi appositamente eseguiti all'interno.

Un nodo critico da sciogliere, per tutti gli esempi europei e italiani considerati, concerne il rapporto fra produzione
architettonica nuova, anche se di impronta storicistica, ed autentico restauro; rapporto sfuggente e non facilmente
percepibile, in quel particolare momento culturale, che porta spesso a confondere edifici neoromanici e neo-gotici,
espressioni di architettura dell’eccletticismo ed esempi di restauro stilistico, che è tutt’altra cosa.

L’argomento è stato ripetutamente affrontato da Gaetano Miarelli Mariani il quale ha osservato come tale confusione
tenda, sul finire del secolo, con l’emergere del moderno restauro scientifico, a risolversi da sola , non appena si
chiarisce che il metodo fondato sull’invenzione, lecito e insostituibile nella produzione del nuovo, “diventa arbitrio nel
restauro dove valgono soltanto le operazioni filologiche.
L’architetto, definendo una nuova opera, fornisce una Il restauratore restituisce scientificamente una
interpretazione personale in uno stile liberamente scelto interpretazione appartenente al tempo dell’opera oggetto
(secondo leggi generali proprie di quel determinato stile) dell’intervento, perciò non attuale.
L’architetto ha la possibilità di scegliere lo stile della sua Il restauratore non ha possibilità di scegliere poiché lo
opera. stile è intrinseco al monumento che egli deve porre in
pristino secondo lo stile che gli è dovuto.

L’architettura dei revivals è legata da un rapporto Nel restauro lo stile è considerato come realtà
puramente strumentale con il passato” e non deve caratteristica di un epoca come sigillo di un tempo
proporsi necessariamente il rispetto totale e rigoroso passato. Di qui la rinuncia esplicita ad ogni
dello stile e delle sue regole, interpretazione e l’aspirazione a restituire le forme del
passato proprio quali dovevano essere, utilizzando
metodi ritenuti scientifici.

Ma la linea culturale vincente per decenni e per buona parte del nostro secolo sarà quella francese , anche se le forti
critiche e le argomentate spinte anti-restauro sposteranno progressivamente l’attenzione verso l’Inghilterra prima,
sulle figure di Morris e soprattutto di Ruskin, verso l’Italia poi, sulle posizioni “intermedie” di Boito e Giovannoni.

4.EUGÈNE EMMANUEL VIOLLLET-LE-DUC NELLA RECENTE STORIOGRAFIA

Eugene E. Viollet-Le-Duc manifesta un deciso carattere di prudenza e d’attenzione per gli aspetti conservativi del
restauro, per le stratificazioni storiche, per i lavori archeologici e documentari. Si pensi a molti enunciati presenti nella
relazione per il progetto di Notre-Dame (1843), in collaborazione con Lassus: “la cautela e la discrezione non saranno
mai troppe” o “il riferimento in stile è impossibile, e sarebbe da preferire il mantenimento dello stato di mutilazione”.
Boito dice che è sempre meglio conservare che riparare, riparare che restaurare, restaurare che abbellire, senza che in
nessun caso ci si senta in dovere di aggiungere o togliere qualcosa. Ma già nel 1844, riguardo al Saint-Nazire di
Carcossone, Viollet-Le-Duc esprimeva un diverso avviso, dichiarandosi a favore di un restauro che, non si limitasse al
solo consolidamento ma restituisse all’opera il suo antico splendore: di fatto, col tempo, le sue convinzioni sul
restauro mutano, in senso meno conservativo e sempre più integrativo; si può presupporre che la pratica del restauro e
la competenza tecnica acquisite con l’esperienza abbiano stimolato una volontà innovativa, correttiva e di
completamento stilistico.
 Le contraddizioni saranno una costante nel pensiero di Le Duc e questo non ci deve meravigliare, anche perché la
sua sensibilità lo portava a giudicare liberamente ogni singolo caso concreto, rifiutando gli schemi e le
semplificazioni che invece non si preoccupava di proporre nella sua opera teorico-letteraria.

Ogni intervento è quindi guidato da un puntuale giudizio sull’oggetto dell’intervento: la volontà ricostruttiva o di
completamento stilistico appare senza riserve solo quando il monumento da restaurare, attraverso tale procedimento,
sia in grado di recuperare tutto il suo carattere di esemplarità, in altro modo condannato a perdersi.
- Non ce n’è bisogno ad Amiens, cattedrale esemplare anche se incompiuta -> atteggiamento conservativo
- Ce n’è bisogno a Sens, dove la Sala Sinodale, a causa degli interventi settecenteschi, era diventata illeggibile ->
atteggiamento reintegrativo

Viollet-le-Duc come architetto è soprattutto un neomedievalismo gotico, dotato di vastissime conoscenze storiche e di
altrettanto ampie conoscenze teoriche, aspetto che emerge nei restauri di completamento (cattedrale di Clermont-
Ferrand). Ma se i restauri di completamento ne hanno tramandato l’immagine di falsificatore, è nella sua opera di
conservatore che bisogna indagare per restituire in giusta luce la sua figura.

Non si può trascurare, considerandone le capacità tecniche, la sua attenzione critica ai moderni mezzi che la civiltà
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industriale ed il progresso delle scienze offrivano ai restauratori ed all’architettura (impiego di ferro e ghisa,
riconosciuta importanza della fotografia per la documentazione dei lavori di restauri, ecc.).

Egli cerca i “principi invariabili” dell’architettura, quelli che sostanziano nel loro carattere immutabile gli esiti formali
dei diversi ambienti storici e persegue la sincerità espressiva e l’unità organica di costruzione e decorazione.
Uomo di straordinaria cultura storica, per lui l’antico non era però mai modello da imitare ma spunto di riflessione per
operare con moderna e personale sensibilità.

L’analisi dei progetti ginevrini non realizzati (tomba del Duce di Brunswick, restauro della Cappella dei Maccabei)
permette di comprendere meglio la vicenda personale di Viollet-le-Duc: in ambiente svizzero, mentre il suo nome
godeva di grande fama, i suoi principi non erano più attuali, né rispondenti ai rigidi criteri di economia che
l’amministrazione pubblica si imponeva. Il suo criterio di integrazione stilistica sembra ingiustificato, mentre ben
accette solo le reintegrazioni storicamente fondate (pare che l’esteticità ceda il passo alla storicità).

Viollet-le-Duc è in ferma opposizione contro l’accademia e l’eclettismo.


Se il suo ampio corpo dottrinale si presenta apparentemente monolitico e coerente, ad una più attenta osservazione
questa coerenza è minata da varie contraddizioni. L’eclettismo che egli condanna come dottrina e come pratica
artistica è inconsapevolmente usato nella sua riflessione teorica.

Aderisce alla polemica contro l’artificiosità ed in favore della sincerità; il suo carattere di sincerità oscilla fra il piano
etico (non mentire alla propria coscienza), quello storico sociale (è insicera l’architettura che non riflette i costumi di
un popolo), quello percettivo (garantire la corrispondenza d’interno e esterno) e quello propriamente tecnico (rispetto
del programma, espressione del principio costruttivo, attenzione alla natura dei materiali).
Nel suo pensiero quindi si manifesta una sottile mescolanza tra soggettivo e oggettivo e l’ambiguità della continua
intrusione di categorie morali.

Considerando la nozione di logica, si arriva a simili conclusioni: l’artista è assimilato allo scienziato, che procede con
metodo sperimentale, per deduzione logica, ragionando soltanto e trascurando i sentimenti  il suo tentativo sarà
quello di conferire alla struttura architettonica la stessa logica della natura, per operare il restauro: come una foglia si
riconosce e si ricostruire una pianta, così da una cornice si potrà restaurare un’intera architettura. Non a caso egli con
gli stessi metodi affronterà i monumenti artistici e un monumento fisico e naturale come il monte bianco.
La connotazione positivistica del suo concetto di logica guiderà anche la sua riflessione storica, nella quale entreranno
considerazioni evoluzionistiche (evoluzione delle forme viventi e degli stili  ogni stile discende da quello che lo ha
preceduto  ogni monumento va studiato come un essere vivente) e funzionalistiche (la forma lascia trasparire la
funzione), con tutti i connessi rischi di meccanico determinismo. Nonostante ciò uno dei suoi più grandi meriti resta il
fatto di aver compreso che nessun fenomeno resta isolato, che bisogna studiare insieme le diverse storie.

Nell’ambito del progetto per il restauro della cattedrale di Losanna, emerge la sua immensa esperienza e le sue
capacità tecniche eccezionali. A questo si accompagnava una rigorosa dirittura morale e uno scrupolo disciplinare
minuzioso, il tutto con l’ausilio di una presentazione grafica e formale ineccepibile.
La sua ampia conoscenza degli stili, inoltre, gli garantisce per le parti innovative o da reintegrare una grande facilità di
linguaggio, sia nella configurazione di insieme che nel dettaglio.
Nessun altro architetto ha dimostrato di saper padroneggiare in egual modo la tecnica costruttiva e quelle delle opere
provvisionali per le quali Viollet-le-Duc dà regolarmente precisi disegni esecutivi.
Anche qui come in altri casi, ha modificato il monumento non per il gusto di abbellire, ma per la volontà di
perfezionarli tecnicamente, garantendo loro un considerevole prolungamento di vita (es. inserisce nella chiesa un
razionale sistema di smaltimento delle acque). Egli ha inoltre introdotto i criteri e la pratica del restauro come
intervento sistematico e programmato nel tempo.

Tornando alla Francia:


- Il più importante impegno di Viollet-le-Duc è la cattedrale di Clermont-Ferrant: più che di un vero restauro si tratta
di un’opera di compimento in stile del monumento gotico cominciata nel 1248. Conosciamo diverse sue redazioni
progettuali, nei quali possiamo riconoscere sia la sua capacità di adeguare lo stile alla soluzione degli specifici
problemi funzionali che le incongruenze stilistiche ed iconografiche.
- Il restauro della chiesa di Allier presentava invece il carattere conservativo, con un intervento teso a mantenere gli
apporti dei secoli precedenti; il suo programma sarà tradito dai successori (Millet, Darcy).

Già nell’ultimo periodo di attività dell’architetto, le critiche si fanno sempre più frequenti, ad esempio quella di Carlo
Boito.
Viollet-le-Duc è considerato un caposcuola, mentre in senso stretto non lo fu mai, anche se non gli si può negare
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l'autorevolezza che discendeva dalle sue capacità e dalle sue realizzazioni; tuttavia già nelle parole di Boito si può
intravedere l'inizio d'un sottile travisamento della sua opera (di tutti i suoi restauri si propongono come esemplari
Carcassonne e Pierrefonds che invece costituiscono casi a sé; si trascurano invece quelli più 'conservativi' e la sua
diffusa attività ufficiale di tutela; della sua opera di teorico si accentuano gli aspetti paradossali).
Nella realtà la figura del Maestro è assai più sfumata: la sua incoerenza teorica è l'altra faccia della sua creatività, della
sua sperimentalità e del suo generoso impegno scientifico, divulgativo e professionale. La restituzione della sua intera
vicenda ci chiarisce la complessità del personaggio e la sua apertura ai fermenti della cultura del tempo, che egli visse,
con partecipazione, dal romanticismo fino al positivismo del tardo ‘800. Ciò che veramente oggi più colpisce sono
l'ampiezza dei suoi interessi, le felici anticipazioni che ne hanno fatto un precursore dell'architettura moderna e,
soprattutto, la sua capacità di sposare il rigore della conoscenza storica con un'eccezionale intelligenza tecnica.

Il centenario della sua morte ha rappresentato un impulso di studi su Viollet-le-Duc, un’occasione di ripensamento
critico e storiografico più che di effimere celebrazioni, attraverso una vivissima attività editoriale e di mostre. Si tratta
di spunti originali che hanno toccato diversi campi dell’attività del maestro.
- Una sintesi dei contributi francesi è in “L’Architeture d’Aujourd’hui” (LI, 1979)
- Una raccolta di decide di titoli sul maestro è nel catalogo monografico della Librarie La porte étroite, curato da
Auzas
- Il volumetto “Pierrefonds” di Grodecki, in cui si sottolineano gli aspetti innovativi dell’opera di Viollet-le-Duc
- Il contributo svizzero è costituito dal poderoso catalogo “Viollet-le-Duc, Centenaire de la mort à Lausanne.
Exsposition au Musée historique de l’Ancien-Eveché”
- Il contributo italiano è rappresentato dalla mostra fiorentina “Notre-Dame de Paris. Il ritorno dei re”
- Va citata la mostra congiunta italo-francese “Le voyage d’Italie d’Eugene Viollet-leDuc, 1836-37” (prima a Parigi,
poi a Firenze)
- La relazione di Bonelli “Violle-le-Duc: fra teoria dell’architettura e restauro dei monumenti”, in cui sono indagati i
rapporti fra la cultura dell’architetto francese e il pensiero storico, estetico e filosofico del suo secolo, e in cui
vengono puntualizzate le falle di una preparazione essenzialmente pratica, prima del rigore di una scuola di pensiero
- La relazione di Salvatore di Pasquale “Viollet-le-Duc: fra struttura e architettura”, in cui sottolinea che al distacco fra
pensiero storico-filosofico e cultura in Viollet-le-Duc fa eco un sostanziale rifiuto ed una incomprensione anche delle
acquisizioni scientifiche più significative del suo tempo
- A. Bellini, in “Viollet-le-Duc: idea dell'architettura ed idea del restauro”, restituisce puntualmente la complessità e le
contraddizioni del pensiero dell'architetto francese

5.RESTAURO, ANTIRESTAURO E ROMANTICISMO

Come reazione e antitesi al restauro e stilistico, vista come pratica dell’intervento attivo, esteso e integrale, si
manifesta un’idea di restauro intesa come rispetto assoluto del monumento; i tratta di un venire a maturazione di una
serie di tendenze conservazioniste presenti fin dagli estordi del moderno restauro (Baronio, Stern, Canova).
Il “conservazionismo” rappresenta una costante accanto all’interventismo nel restauro, e tale linea sarebbe rimasta
perennemente minoritaria e senza reale incidenza al di fuori del ristretto campo degli specialisti, se non avesse goduto
dell’appoggio di John Ruskin (The Seven Lamps of Architecture, The Stone of Venice) e di William Morris.

John Ruskin, in gran parte autodidatta anche se laureato ad Oxford è un esteta ed un letterato romantico e vittoriano,
un sociologo ed insieme un critico d'arte di grande sensibilità, che trova le sue premesse nel clima proprio della cultura
inglese, intriso di rovinismo, d'amore per la natura ed il paesaggio, specie se allo stato naturale.
Ritiene che per le testimonianze del passato, specie di quello dell'età di mezzo, è richiesto un religioso rispetto , quale
si deve a reliquie preziose o ad un tesoro fragile ed evanescente. Il monumento quindi non dovrà essere toccato,
tantomeno restaurato o, peggio, “ripristinato” (ciò sarebbe un completo tradimento della sua natura e della sua carica
evocativa e costituirebbe, con la falsificazione storicistica, un danno peggiore della sua stessa distruzione); al massimo
potrà essere consentita un’accorta e leggera manutenzione che ne allunghi, per quanto possibile, la vita fino a che il
tempo non avrà compiuto il suo lavoro di progressiva naturale distruzione.
Appare quindi evidente la repulsione delle concezioni stilistiche, mirandi a restituire unità all’opera, e comunque di
ogni intervento che alteri i valori del passato, sempre prevalenti su quelli del presente.

Ruskin apparteneva a un mondo spirituale diverso da quello di Le Duc e ad una terra che non presentava gli stessi
problemi e non richiedeva gli stessi interventi che si erano resi pressanti e indispensabili in Francia . Le Duc si era
adeguato realisticamente, mentre Ruskin, critico e letterato, se ne era potuto restare lontano; perciò la sua visione era
diventata più ampia e poteva svolgersi su un livello poetico ideale, vale a dire un livello concettuale autonomo, capace
di tornare a interrogarsi sulle ragioni prime del conservare, che troppo spesso il tecnicismo tende a dimenticare.
Afferma l’esigenza non tanto proteggere i monumenti antichi, quanto asservire ai medesimi principi sia la costruzione
della nuova architettura sia la tutela dell’architettura antica.
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Nell’apprezzamento economico dei beni culturali, compreso l’appello a eventuali destinazioni dei manufatti
architettonici per giustificare l’economia della conservazione, Ruskin scorge la logica di quella che chiama
“l’economia volgare, finalizzata al risparmio di tempo, lavoro, o denaro”.

Se Ruskin ha il merito di aver formulato i principi della tutela del patrimonio architettonico, cioè la teoria della
conservazione, a Viollet-le-Duc va quello di aver fissato limiti e norme per l’attuazione di tale tutela, cioè i caratteri
della pratica del restauro.

Ruskin fu il primo a rendersi conto del legame strettissimo che intercorre tra ambiente naturale e patrimonio storico
artistico, e a capire che il complesso dei beni culturali e ambientali costituisce una risorsa, la più preziosa delle risorse
disponibili in qualsiasi paese perché, in quanto inappropriabile, può essere utilizzata a vantaggio dell’intera
collettività.

Il suo è un atteggiamento di contemplazione mistica dell’opera, goduta nella sua bellezza con emozione,
trascendimento e reverente distacco. Ogni opera appartiene al suo creatore e non a noi, che non abbiamo il diritto di
toccarla, tanto meno di distruggerla; essa è valida solo nella sua forma e consistenza originale, perciò non possiamo
modificarla; si presenta come una creatura vivente che nasce, cresce, muore.
Inoltre, proprio nella rovina l’architettura si riapprossima alla natura e tale ritorno ad uno stato naturale, che non
impoverisce ma aumenta la sua bellezza, può anche essere previsto nel progetto, che dovrebbe tenere in conto la
condizione futura dell’edificio.

Ruskin, in Le sette lampade dell’architetture, esprime concetti comuni e oggi ampiamente accolti:
- L’idea della prevenzione e manutenzione continua, unico rimedio alla triste necessità del restauro
- L’idea che l’intervento possa al massimo rallentare il degrado ma non presumere di fermarlo
- Lo stimolo ad attuare, per principio, il minimo intervento
- Le considerazioni relative all’estensione del concetto di “patrimonio architettonico”, derivante dalla definizione
stessa di architettura, come “insieme delle modifiche e delle alterazioni operate sulla superficie terrestre, in vista
delle necessità umane”
In Francia il pensiero di Ruskin si saldò con quello di chi protestava contro gli eccessi di restauro.

Già intorno al 1870 il dibattito sul restauro in Gran Bretagna comincia a registrare gli effetti del pensiero
conservativo, tanto che già nel 1873 si potevano dividere gli architetti in due gruppi, gli High Restorationists (che
seguivano il “principio di preferenza” per uno stile, e quindi l’unità stilistica), e i Low Restorationists (miravano
all’intervento minimo e alla perpetuazione dello stile presente dell’edificio).

La costituzione della Society for the Protection of Ancient Buildings nel 1877, ad opera di William Morris (per la
tutela dei vecchi monumenti e la protesta contro i restauri estremi), e il propagarsi dell’ “Anti-Restoration Movement
(o Anti-Scrape)” rappresentò un’ulteriore ratifica delle anticipazioni ruskiane.
- Un’importante contributo fu dato da John Stevenson, membro della SPAB, ove l’oratore ribadiva due punti
fondamentali: la considerazione del monumento come documento storico e l’abbandono della preferenza per il
medioevo, riconoscendosi la pari dignità in ogni periodo storico.
- Il manifesto della SPAB è un documento fondamentale e ancora attuale per la tutela conservativa del patrimonio
storico-architettonico  come l’opera di Ruskin, anche il manifesto venne tradotto e contribuì alla diffusione di
quelle idee in Francia, Germania, Olanda, Italia  varie personalità (Boni, Proust, Lasus) si mostrano a favore della
conservazione: era il segno inequivocabile del diffondersi di una diversa sensibilità e di nuove idee.
- Morris tradusse in pratica l’insegnamento di Ruskin e fornì un contributo di esperienza attiva, fondamentale per il
concretarsi del movimento moderno di conservazione. Tuttavia, spetta a Ruskin il merito della originaria
formulazione delle loro idee comuni, della individuazione del rapporto fra arte e società, delle dichiarazioni dei diritti
che tutti gli uomini hanno sul patrimonio di storia, arte, natura, e dei conseguenti doveri di tutela.
 Per Morris, il restauro diventa superfluo e gli interventi sui monumenti si riducono a casi eccezionali , se sì
comprende che non si tratta tanto di stabilire terapie appropriate per organismi architettonici degradati
dall'incuria degli uomini, quanto di definire un diverso atteggiamento nei confronti della realtà che ci
circonda, dell'ambiente naturale e di quello antropologico, ed in particolare dell'eredità storico-artistica.

Per Bellini a voce di Ruskin è l’unica realmente innovativa, mentre tutte le altre, dalle origini a Viollet-le-Duc, Boito e
Giovannoni (che fraintendono entrambi le idee di Ruskin) ed oltre, non rappresentano che variazioni sul tema del
restauro, il quale, in tale prospettiva, è cosa totalmente diversa dalla conservazione.
Per Ruskin non esiste un passato più autentico, da emendare da presunti errori: il documento del passato non è mai
solo un documento filologico, ma è testimonianza unitaria di valori non separabili né analizzabili anche quando
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appaiono parzializzati o frazionati.

Esempi concreti di questa temperie culturale sono le presentazioni “a rudere”, più che veri e propri restauri, condotte
in tutta europa (es. l’abbazia di Roche in Gran Bretagna).

6.RESTAURO STORICO E POSITIVISMO

In questa concezione prevale una propensione per un intervento risolutore, così come nel restauro stilistico, ma con
diverso criterio rispetto a quest’ultimo: mentre il restauro “stilistico” era generico, fondato sul criterio di analogia, e
per questo contemplava, oltre al ripristino, forme di integrazione, completamento correzione e invenzione di parti che
avrebbero potuto, storicamente, non essere esistite; al contrario, nel restauro storico si abbandona il concetto di unità
stilistica/analogica e si adotta quello del restauro documentato, sulla base di prove accuratamente vagliate -> su di essa
esercita una certa influenza la filologia storico-letteraria, quale ricerca della verità obiettiva, fondata su dati concreti,
sempre diversi per ogni monumento. Il restauro diventa quindi specifico e di conseguenza la figura del restauratore
passa da artista-ricreatore ad abile storico- filologo-archivista.

Nasce una nuova definizione che qualifica il restauro come lavoro fatto per rendere una cosa allo stato primitivo (per
lo stato primitivo non si intende restauro stilistico ma riguarda soltanto una situazione realmente esistita e
documentata).
La proposta del restauro storico, che non rifiuta il necessario intervento ma neanche pecca di eccessi o d’arbitrarietà,
mirando a restituire solo la verità storica del monumento, sembra poter risolvere un dissidio di metodo altrimenti
insuperabile tra restauro “ricostruttivo” e conservazione.

Luca Beltrami rappresenta il personaggio più significativo di tale tendenza (nella quale possiamo riconoscere
Rubbiani e Giovenale, per il suo restauro di Santa Maria in Cosmedin a Roma). Architetto, storico dell’architettura,
insegnante, fu scrittore instancabile e organizzatore degli Uffici regionali di belle arti (da cui discendono le
Soprintendenze). Lo ricordiamo, ad esempio per la costruzione della Pinacoteca Vaticana (1929) e per il restauro del
Castello Sforzesco (1893-1905) e di Palazzo Marino (1882-92) a Milano, in cui opera basandosi sullo scarso materiale
documentario.
Il restauro storico non fu codificato in termini teorici ma il suo manifesto è nell’opera stessa del Beltrarmi ; il rifiuto o
almeno il drastico ridimensionamento del criterio analogico e stilistico si appoggiava soprattutto sulla moderna
convinzione che ogni singola architettura costituisce, sempre, un fatto concluso in sé stesso, unico e irripetibile. C’è
anche il rigetto, almeno nelle intenzioni (visto che in assenza di dati certi Beltrami ricostruisce forme verosimili utili a
rendere immediata la percezione dei valori morali del passato), d’ogni personale presunzione inventiva, giudicata falsa
e arbitraria: si ricostruisce solo se c’è certezza documentaria, raggiunta con l’indagine storico-archivistica.

Liliana Grassi critica il metodo storico-analitico del restauro, che nella pratica ebbe esiti che non si discostavano dai
risultati raggiunti dai seguaci del restauro stilistico (i documenti, le tracce o le note d’archivio sono insufficienti a
ricostruire fedelmente determinati elementi architettonici, e quindi nonostante le premesse si finiva comunque per
lavorare di analogia).

Continuatore di Beltrami fu Gaetano Moretti, attivo come restauratore in San Francesco a Vigevano e nel Santo
Sepolcro a Milano, e progettò e seguì la ricostruzione del campanile di San Marco a Venezia (1903-1912), “com’era e
dov’era”. Proprio in merito al campanile, che era crollato totalmente, si aprì un dibattito su come e dove ricostruirlo,
se imitare lo stile antico o quello moderno, rispecchiando le molteplici concezioni del tempo sul restauro (volontà
correttiva, fiducia nello “stile del tempo” come diritto di ogni generazione a lasciare traccia di sé, volontà di
costruzione di una copia simile ma non identica dell’antico campanile); in sostanza, il problema non era solo il
campanile stesso, ma la lacuna che la sua assenza creava nell’ambiente circostante

Tanto il Beltrami quanto il Moretti non si peritarono di distruggere alcuni antichi monumenti per edificarne di nuovi
(il primo demolì la chiesa di San Giovanni alle Case Rotte a Milano per costruire la sede della banca Commerciale, e
il secondo demolì la Pusterla dei Fabbri).
Secondo la Grassi, questo aspetto distruttivo dei sostenitori del restauro storico si spiega con la passione per il
documento piuttosto che per la vitalità dell’ambiente storico e del monumento (tale passione condusse ad una
concezione museografica degli edifici del passato, così che appariva più che legittimo il trasporto dei monumenti in
altra sede). Ma non bisogna sottovalutare l’impegno profuso, ad esempio, dal Beltrami per una sistemazione della
Piazza del Duomo di Milano attenta alle questioni di ambiente, alla configurazione storica degli spazi urbani e alla
corretta presentazione del monumento stesso.

Un altro importante esponente di questa teoria fu Giuseppe Sacconi, celebre architetto autore del Vittoriano a Roma.
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La sua vicenda è segnata da un’integrazione tra progetto di architettura e progetto di restauro. A lui si deve, ad
esempio, un’importante fase di restauro fondata su un attento studio storico, della Basilica di Loreto (dal 1885), e il
restauro del Fontana Maggiore di Perugio (1902).
Nel complesso la sua attività di restauro è segnata da grande diligenza storico filologica, che gli vede come vera guida
all’intervento, accompagnata da attenzioni alle tecniche antiche ma anche, quando necessario, a quelle moderne, oltre
che la continua cura per le opere di prevenzione e di manutenzione; il tutto nella concezione che ogni caso di restauro
costituisce un problema a sé, da non inquadrare in regole pre-determinate.

Un ulteriore applicazione italiana di tale metodo è riscontrabile in Alfonso Rubbiani, che a proposito dei lavori sul
San Francesco di Bologna dichiara l’intenzione di ripristinarne la decorazione murale primitiva, completandola sulla
base degli avanzi o se necessario per analogia.
Mariani nota che egli non mostra di avere idee proprie e segue, senza troppa originalità, le regole della reintegrazione
stilistica, nella versione del cosiddetto restauro storico. Secondo questo indirizzo, il compito del restauratore non è
quello di ristabilire la forma del monumento, né di garantirne in tutti i casi l'unità stilistica; più semplicemente, egli
deve rispettare gli episodi a qualunque epoca appartengano ed, eventualmente, ripristinare quel che è esistito,
fondando la propria azione su testimonianze sicure. Esaminate alla luce di questa logica, le operazioni condotte da
Alfonso Rubbiani perdono qualsiasi sapore di avventura e - prescindendo dalla loro qualità - si specificano come le
procedure più comunemente adottate nel restauro architettonico fino alla vigilia dei nostri giorni.

La figura di Corrado Ricci (1858-1934), che ebbe un ruolo essenziale nella costituzione della Soprintendenza di
Ravenna (1897), di cui assunse la direzione divenendo così il primo soprintendente italiano, ci colpisce per la
modernità di alcune sue scelte; contro l'orientamento pressoché unanime in favore della rimozione degli affreschi
settecenteschi da San Vitale di Ravenna, egli rimane dubbioso sull'utilità di rimuovere gli affreschi per eliminare
l'accostamento di stili diversi, anche perché non sarà comunque mai possibile ricostruire l'immagine originaria.

Per quanto riguarda la Francia si è ricorso più volte ad anticipazioni storiche nell’ambito del dibattito sul restauro,
anche da parte di operatori di orientamento stilistico (es. Viollet-le-Duc).
Se la distinzione tra i due stili appare chiara nei termini teoretici, in pratica il supremo obiettivo da raggiungere rimane
sempre lo stesso: riportare l’edificio a come esso è veramente stato (preferibilmente solo attraverso accorte
demolizioni, altrimenti con fondati rifacimenti, e solo in caso di impossibilità, con interventi di fantasia, pur basati su
confronti e analogie), e soltanto in subordine o in circostanze eccezioni completarlo come avrebbe dovuto essere. Ciò
emerge fin dalle prime affermazioni di Vitet, che incitavano alla severa induzione filologica, o degli architetti
restauratori (Viollet-le-Duc, Lassus)m abcge se poi essi restarono in qualche modo vittime della padronanza degli
antichi linguaggi architettonici.

Louis Cloquet parte dalla distinzione dei monumenti in due categorie, i monumenti morti e quelli vivi.
- I “monumenti morti” appartengono al passato, sopravvivono come ricordi di epoche estinte o come pure i documenti
di arte, e non saranno mai restituiti al loro uso originale (es. le rovine di Pompei, le cinte murarie del medioevo); si
tratta di preziosi resti da conservare così come ci giungono, in quanto memorie e reliquie, il più a lungo possibile, e
questo si scontra con le idee dei poeti amanti del pittoresco  l’opera va protetta sia dall’uomo che dalla natura.
- I “monumenti vivi” sono vivi perché in essi domina, sui diritti dell’archeologia e dell’estetica, la considerazione del
loro uso, della loro utilità; non sono opere entrate nel dominio storico o archeologico, ma opere che pur dovendo
durare, devono servire, e possono quindi essere modificate se necessario.

Dove finiscono le opere di riparazione e dove cominciano quelle di restauro e che male c’è se la riparazione, nel
conservare l’edificio, gli restituisce qualche tratto della sua passata bellezza?
Ciò sembra a Cloquet tanto più vero perché egli giudica il consolidamento come restituzione degli organi essenziali
della struttura originale, piuttosto che come introduzione di opere di soccorso il più delle volte brutte; quindi egli è
fautore dell’intervento eseguito con quelle che oggi sono definite tecniche tradizionali, vede come naturali operazioni
di demolizione e rifacimento murario, di sostituzione di parti, quali cornici e coronamenti sommitali, ecc.
È singolare che gli proponga con grande semplicità tale metodologia per i monumenti morti, quelli cui dovrebbe
essere riservato il criterio di minimo intervento.
Il rifacimento va bene purché riproponga, per ragioni tecniche e conservative, le parti perdute o ammalorate; egli
dunque aderisce perfettamente alla concezione del restauro storico, con tutte le sue ambiguità.

Cloquet afferma che bisogna conservare prima di tutto, restaurare con discrezione.
- Mentre i monumenti greci possono essere ricostruiti per anastilosi, per quelli romani, a causa della presenza del
calcestruzzo, e per quelli medievali, la ricostruzione può essere fatta per imitazione, ma comunque possono di norma
essere esattamente restituiti.
- I monumenti vivi invece, sono opere d’uso, quindi ad essi bisogna riservare non solo i lavori adatti ad assicurarne la
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conservazione, ma anche le opere necessarie per renderli adatti alla funzione attuale.

Quanto al problema dell'unita di stile, egli apprezza ma non condivide appieno il criterio della conservazione
scrupolosa di tutto ciò che è antico e degli apporti d'ogni periodo storico, perché diversi possono essere i punti di vista.
In un monumento, certe volte la conservazione degli apporti degli stili successivi può essere più interessante dell'unità
di aspetto, altre volte noi giudichiamo i monumenti antichi non soltanto come ricordi curiosi e documenti istruttivi ma
anche come tipi di bellezza, da presentare nella loro integrità e purezza; è quindi impossibile emettere regole obiettive.
Inoltre sono molto rari gli edifici, soprattutto quelli del medioevo, che possiedano l'unità di stile per cui, in generale, la
regola dovrebbe essere quella di rispettare le parti di un monumento appartenenti ad epoche successive; ma questa
regola soffre di alcune eccezioni, relative alla qualità di tali ritocchi ed aggiunte.

Altre considerazioni riguardano la necessità di riprodurre non solo le forme originali, ma anche il procedimento
tecnico; la convenienza di impiegare materiali primitivi per riparazioni e restauri; l’opportunità della rimozione degli
intonaci all’interno delle chiese per togliere le tarde aggiunte, purché fatto con prudenza e non a titolo definitivo.

Pur con diverse interpretazioni e limitazioni, l’idea inglese di considerare il monumento come una testimonianza da
rispettare stava conquistando ambienti sempre più estesi.
Ne sono prova indiretta le puntualizzazioni che senti di dover fare Joseph Nève circa l’opinione di chi considera ogni
restauro come un sacrilegio preferendo lasciare ai monumenti l’aspetto che il tempo ha conferito loro; teoria
certamente rispettabile ma che rappresenta un’esagerazione manifesta e che potrebbe nascondere pericoli, inducendo a
trascurare la manutenzione  bisogna “restaurare saggiamente”, con discrezione e misura: se non si usa per
rimpiazzare le pietre consumate degli antichi monumenti, questi presto non esisterebbero che allo stato di ricordo.
Se nel restauro dei quadri il principio dovrebbe essere quello di astenersi dai ritocchi, in architettura è necessario
ritoccare (seppur in maniera minima) per mantenere salda la struttura. Per evitare anche questa minima sostituzione di
materiali, l’unica cura è la manutenzione.

In seguito Charles Buls riprese le idee di Cloquet, richiamando la necessità di guardarsi dalla tentazione di restaurare
per restaurare e l’opportunità di conservatore tutte le addizioni che segnano le vicissitudini del monumento e le tappe
dello sviluppo artistico.
Egli espresse convinzioni vicine a quelle di Boito, apprezzando la via intermedia fra la ricostruzione e la conservazione
alla maniera di Ruskin, affermando la necessità di creare un movimento a favore della tutela.
Si pronunciò decisamente contro l’isolamento dei monumenti e la riproduzione in stile basata sul sogno irrealizzabile
di recuperare lo spirito degli antichi artefici, a favore della conservazione della patina e del carattere moderno delle
integrazioni, non come norma ma come possibilità.

Analogamente in Germania lo storico dell’arte Josef Strzygowski affermava, in merito al duomo di Aquisgrana, che
“il restauro dovrebbe essere condannato per l’eternità”, e vari storici dell’arte tedeschi si dissociano dai troppo radicali
progetti di ripristino concernenti il castello di Hedelberg.

Nonostante le molteplici testimonianze, anche in Francia, d’una speciale attenzione conservativa ai monumenti in
relazione al romanticismo, il diffondersi dell’interesse per i monumenti ed il rafforzarsi delle iniziative di tutela, anche
legislativa, nell’ultimo ventennio del secolo scorso sembrano dovuti ad una più generale maturazione culturale che
ricercava e studiava con entusiasmo crescente le diverse espressioni di cultura: si tratta di un prodotto non certo
romantico, ma caratteristico del positivismo e dello storicismo tardo-ottocenteschi.

7.IL RESTAURO FILOLOFICO ALLA FINE DEL XIX SECOLO

Si tratta della prima moderna dottrina di restauro, elaborata in ambiente italiano, espressiva di un complesso e attento
equilibrio delle tendenze che abbiamo visto fronteggiarsi; restauro e conservazione hanno trovato in questa teoria
“intermedia” un significativo punto di convergenza.
Ha risentito della più generale maturazione sopravvenuta in campi collaterali e d’avanguardia, come la ricerca storica
o quella filologica-letteraria (volta alla critica testuale in ambito classico, greco, romano), e anche dei
progressi dell’archeologia e della storia antica.
Se a questo lavoro di ripensamento, svolto soprattutto da Camillo Boito a Milano e da Giannoni a Roma, aggiungiamo
l’originalità di apporti d’un grande storico dell’arte come Alois Riegel in ambiente austro-ungarico, avremo un quadro
completo della ricchezza di fermenti suscitati da questo periodo.

Camillo Boito poté avvalersi di una formazione europea; fu attivo come storico, architetto, letterato, critico e docente.
Fra i suoi contributi sono da ricordare il saggio I nostri vecchi monumenti. Conservare o restaurare? (1886) e il
volume Questioni pratiche di Belle arti (1893).
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Il suo neo-medievalismo nasce tanto da istane patriottiche quanto da presupposti teorici moderni, e per lui volgersi al
medioevo significa riscoprire un metodo, trovare un linguaggio libero e non soggetto a forme preconcette, sì che
l’architettura italiana possa tornare ad essere organica. Da qui lo stimolo allo studio con metodo storico dei fatti e dei
documenti, e quindi dei singoli monumenti.
I problemi di restauro appaiono sempre riferiti all’ambito più vasto dell’architettura in quanto tale.

Nel campo della conservazione, la critica a Le Duc è pungente: “Quando i restauri sono condotti con la teoria di Le
Duc, io preferisco i restauri mal fatti ai restauri fatti bene. Mentre quelli in grazia della benefica ignoranza mi lasciano
distinguere la parte antica dalla moderna; questi con scienza e astuzia facendo sembrare antico il nuovo, mi mettono in
una perplessità di giudizio, che il diletto di contemplare il monumento sparisce e lo studiarlo diventa una fatica
fastidiosissima.” Il monumento, inoltre, perde “tutta o quasi tutta la sua importanza quando lo studioso può
ragionevolmente dubitare che il restauro ne abbia alterate le forme”, perché esse sembrano originali.

Due sono i criteri fondamentali del restauro, espressi in una conferenza tenuta all'Esposizione di Torino del 1884, poi
pubblicata come I Restauratori:
1. Bisogna fare l'impossibile, bisogna fare miracoli, per conservare al monumento il suo vecchio aspetto artistico e
pittoresco (si tratta di una chiara e ancor valida eredità romantica, come anche ogni invito al rispetto assoluto, pur
mediato con le ragioni della manutenzione e della prevenzione)
2. Bisogna che i compimenti, se sono indispensabili, e le aggiunte, se non si possono scansare, mostrino, non di
essere opere antiche, ma di essere opere d'oggi.

Più invecchiata appare la casistica o distinzione interna all'arte del restauro, fondata sul riconoscimento, nei
monumenti d'architettura, «delle seguenti tre qualità:
- L'importanza archeologica, l'apparenza pittoresca, da cui il “restauro pittorico”, adatto al medioevo
- Il “restauro archeologico”, adatto all'antichità
- Il “restauro architettonico”, adatto al Rinascimento

L’attività di Boito come restauratore fu copiosa, ma molto più esplicitata in pareri, consigli e giudizi, quale membro
d’innumerevoli commissioni; si va quindi dai lavori certi (progetto del restauro della Cheisa dei Santi Maria e Donato
a Murano, 1859), ad altri meno sicuri o nei quali il suo apporto fu più di consulenza e guida che progettuale ed
esecutivo (Porta Pila a Genova). Tra i lavori di moderna architettura, va ricordato l’ospedale di Gallarate (1871).

Il lavoro per l'altare di Donatello costituì un singolare impegno di restauro, difficile e ricco d'implicazioni concettuali;
l'opera, eseguita fra il 1447 e il 1450 (o 1454), comprendeva in origine 31 pezzi scultorei e andò, nel suo complesso,
perduta quando fu smontata e sostituita (1579-82) da una mole più sontuosa ad opera di Gerolamo Campagna e Cesare
Franco, che reimpiegò quasi tutte le vecchie sculture. Seguirono altre traversie (1651-58) tanto che, pur sussistendo ai
tempi di Boito la serie completa delle statue, la restituzione in pristino dell'altare fu considerata un'ipotesi assurda.
L'intento di Boito allora fu di non rifare l'altare di Donatello tale e quale ma di collocare tutte le opere statuarie nel
loro giusto punto prospettivo, riproducendo per esso la composizione generale ideata dal maestro antico.

Ma la sua polemica principale fu contro i restauri stilistici falsificanti e ingannevoli. Per mostrare che un’opera
d’aggiunta o di compimento non è antica egli suggerì 8 direttive:
1. Differenza di stile fra il nuovo e vecchio
2. Differenza di materiali da fabbrica
3. Soppressione di sagome o di rinati
4. Mostra dei vecchi pezzi rimossi, aperta accanto al monumento
5. Incisione in ciascun pezzo rinnovato dalla data di restauro
6. Epigrafe descrittiva incisa sul monumento
7. Descrizione fotografica dei diversi periodi del lavoro, deposte nell’edificio o in luogo prossimo ad esso, oppure
descrizione pubblicata per le stampe
8. Notorietà

Boito dice che i monumenti architettonici del passato, non solo valgono allo studio dell'architettura, ma servono, quali
documenti essenzialissimi, a chiarire e ad illustrare in tutte le sue parti la storia dei vari tempi e dei vari popoli, e
perciò vanno rispettati con scrupolo religioso, come documenti non modificabili, si raccomanda che:
- I monumenti architettonici, se necessario, devono piuttosto venire consolidati che riparati, piuttosto riparati che
restaurati, evitando qualunque aggiunta o innovazione.
- Nel caso che le dette aggiunte o rinnovazioni tornino assolutamente indispensabili, e nel caso che riguardino parti
non mai esistite o non più esistenti e per le quali manchi la conoscenza sicura della forma primitiva, si devono
compiere con carattere diverso da quello del monumento, senza urtare con l’aspetto artistico.
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- Quando si tratti di compiere cose distrutte o non ultimate in origine, allora converrà in ogni modo che i pezzi aggiunti
e rinnovati, pure assumendo la forma primitiva, siano di materia evidentemente diversa (così da non cadere nel
rischio del falso storico), o portino un segno inciso o la data del restauro; nei monumenti in cui sia particolarmente
forte l’importanza archeologica, le parti di compimento devono essere semplici e abbozzate.
- Nei monumenti, che traggono la bellezza del loro aspetto dalla varietà dei materiali o dallo stato rovinato, le opere di
consolidamento, indotte allo stretto indispensabile, non dovranno eliminare possibilmente in nulla questi aspetti.
- Saranno considerate monumenti e trattate come tali quelle aggiunte o modificazioni che in diversi tempi fossero state
introdotte nell'edificio primitivo, salvo il caso in cui, svisando e mascherando alcune parti notevoli dell’edificio, sia
da consigliarne la remozione o la distruzione. In tutti i casi nei quali sia possibile e ne valga la spesa, le opere di cui
si parla verranno serbate o nel loro insieme od in alcune parti essenziali, possibilmente accanto al monumento da cui
furono rimosse.
- Dovranno essere usate le fotografie per testimoniare qualunque procedimento di modificazione dell’opera, che poi
sarà trasmessa al Ministero della Pubblica Istruzione; il tutto sarà accompagnato da un resoconto preciso e metodico
del processo di modificazione e delle ragion di esso. Una copia di tutti i documenti ora indicati dovrà rimanere
depositata presso le fabbricerie delle chiese restaurate o presso l'ufficio cui spetta la custodia del monumento.
- Una lapide da infiggersi nell'edificio ricorderà le date e le opere principali del restauro .

L’impegno di Boito toccò anche questioni politiche e legislative a difesa dei beni culturali; la sua prosa pungente e la
sua tenacia riuscirono a incidere sul Parlamento, nella richiesta di adeguati finanziamenti di mezzi per un serio lavoro
di catalogazione, delle indispensabili riforme sul piano legislativo.

Se, a partire dal 1860, lo Stato italiano si era limitato a richiamare con vari decreti il rispetto della normativa
preunitaria, con il decreto ministeriale del 12 luglio 1882 oltre che con la circolare, di pochi giorni seguente, del 21
luglio, redatta da Giuseppe Fiorelli (illustre archeologo posto a capo della Direzione Generale per le Antichità e Belle
Arti del Ministero della Pubblica Istruzione, allora competente in materia) si proponevano concrete e aggiornate linee
operative in merito alla tutela.

Il decreto dà precise indicazioni sullo «studio dei restauri» (esame storico e artistico, ricerca documentaria,
individuazione delle fasi costruttive, valutazione «sotto ogni punto di vista» dei singoli elementi dell'edificio, analisi
dei danni, il tutto sulla base d'opportuni disegni di rilievo) poi sulla «compilazione dei progetti» (relazioni, disegni,
stima dei lavori, condizioni esecutive), infine sulla «esecuzione dei lavori» (iter di approvazione dei progetti,
affidamento dei lavori).

La circolare, invece, dopo aver ripetuto l'invito al più attento studio dei monumenti (al fine d'evitare errori come
rifacimenti non indispensabili) raccomanda di analizzare con cura gli antichi aspetti esecutivi ed i modi coi quali si è
data forma e bellezza al concetto primitivo dell'edificio ed alle successive modifiche; e quindi la natura e la lavoratura
dei materiali prescelti, e la tecnica esecuzione e la decorazione a cui si è ricorso, e l’intero sostrato storico dell’opera.
Distinguendo quanto ha vera importanza per la storia o per l'arte e deve essere rispettato, da quanto non ha tale
importanza e può essere variato o soppresso, bisogna stabilire esattamente tutto quello che deve essere conservato; e
confrontandone lo stato normale coll'attuale, si mettano in evidenza le differenze e i danni sofferti (cioè le corrosioni,
le demolizioni, le aggiunzioni, le ricostruzioni, le variazioni di stabilità), che hanno alterato il monumento. Precisati a
questo modo i danni, occorre che si deducano da essi i lavori da eseguire, mirando a sopprimere le differenze fra lo
stato attuale ed il normale.
Per le ricostruzioni alle quali il monumento sia stato soggetto, si distingua:
- Il caso in cui ricordino l’antico > si stabilisco le riparazioni necessarie, a meno che si abbia l’assoluta certezza di
poter sostituire ad esse un’opera nuova che riproduca esattamente l’antica.
- Il caso in cui NON ricordino l’antico > si stabilisca di sostituire parzialmente e totalmente, ancora a norma del
bisogno, le ricostruzioni con opera nuova, che riproduca o almeno ricordi l’antico.

Più tardi, con la legge del 1891, furono costituiti, in luogo dei Commissariati Regi, poco autonomi e dipendenti dalle
Prefetture, gli Uffici Regionali per la Conservazione dei Monumenti (che sarebbero in seguito divenuti le attuali
Soprintendenze), di cui Beltrami e Sacconi si trovarono ad essere fra i primi direttori. Proprio all'insistente azione di
tali personaggi ed, in specie, di Boito si deve la promulgazione della legge di tutela n. 185 del 12 giugno 1902.
Da questo momento, viene a costituirsi un poderoso sistema legislativo, direttamente influenzato dal nuovo clima
culturale suscitato dalla riflessione sul restauro di natura ‘filologica' e 'scientifica', e mantenutosi vitale per un
sessantennio, circa dal 1880 al 1940.

È arduo riconoscere allievi diretti di C. Boito e prosecutori del suo metodo, eccettuandoli dal grande fermento di idee
e di proposte che caratterizza il tardo ‘800 ed il momento a cavallo dei due secoli.
Con un certo azzardo ma non senza buoni motivi si può riconoscere come allievo diretto una singolare figura
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d'architetto restauratore, Giulio Ulisse Arata.; egli ci è noto soprattutto come architetto militante, futurista in gioventù
e fondatore con Sant'Elia e Chiattone del gruppo 'Nuove tendenze'.
Arata si colloca in una posizione di grande equilibrio fondata sulla convinzione che esistano nessi inscindibili di
continuità tra l’architettura del passato e l’attualità.

Il suo primo importante saggio storico, L'architettura arabo-normanna ed il Rinascimento in Sicilia, pubblicato a
Milano, è del 1914; l'avvio della sua lunga serie di restauri è del 1918: in essi appare evidente la precisa volontà di
assegnare alla storia una piena e immediata operatività.
Il primo lavoro è quello nel Sant'Antonino di Piacenza, l'antica cattedrale ricchissima di storia e di stratificazioni, in
cui l’architetto opera fra coscienza dell’impossibilità di ridare oggi alla basilica la forma originaria e volontà di
enucleare le parti da rimuovere e sacrificare.

Nel volume Ricostruzioni e restauri, con alcune note sull'urbanistica e sulla conservazione dei monumenti (Milano
1942), Arata riassume la sua posizione teorica: “nel restauro sarebbe uno sbaglio generalizzare o seguire un criterio
unico da applicarsi a tutti i monumenti; il restauratore deve essere un architetto e conoscere il metodo della ricerca
storica e bibliografica”. Egli accetta il principio di differenziare le parti nuove da quelle antiche per evitare ogni
inganno, ma il criterio della semplificazione formale e della diversità di materiale gli pare semplicistico.
Si dichiara convinto che in materia di interpretazioni sia opportuno sapersi fermare a tempo e dire poco e con
discrezione, piuttosto che dire troppo e arbitrariamente, rifacendosi alla “tradizione” ma vedendo in essa il punto di
partenza, non il punto di arrivo.

Nei paesi di lingua tedesca vediamo, anche sulla base delle esperienze inglesi e francesi, formarsi strutture statali di
tutela; fra queste, in Austria, si distingue per precocità e risultati la Imperiale e Regia Commissione Centrale per lo
Studio e la Conservazione dei Monumenti, istituita nel 1850 e, dal 1856, messa in grado di pubblicare i risultati delle
proprie riunioni e contributi su questioni di carattere più generale in due apposite riviste.
Di essa furono membri influenti prima A. Riegl e poi M. Dvorák.

Di Riegl, storico dell'arte, professore all'Università di Vienna, fondatore del Museo Austriaco per l'Arte Applicata, ci
resta, accanto ad opere fondamentali come Problemi di stile, il fondamentale saggio teorico sul restauro e sulla
conservazione intitolato Il culto moderno dei monumenti. Il suo carattere e i suoi inizi (1903). Vi si riconoscono le
convinzioni storico-critiche del autore il superamento della tradizionale distinzione fra arti maggiori e minori;
l'affermazione (grazie al concetto estetico di Kunstwollen, 'volontà d'arte') della piena validità di tutti gli stili; la
convinzione che non esista un valore artistico assoluto, ma solo relativo.
Posta in apertura la distinzione fra monumenti intenzionali, nati come tali, e monumenti non intenzionali, ma divenuti
tali per le vicende della storia e per la loro qualità d'arte (i «monumenti storici e artistici»), Riegl prosegue
sviluppando la sua trattazione esplicitando e approfondendo i “valori” che sottendono prima l'apprezzamento di quelle
opere, poi orientano il conseguente atto di tutela e restauro: il valore storico e il valore artistico.

Riegl compia un lavoro di radicale ripensamento e di fondazione concettuale, unico e per molti versi ancora oggi
insuperato: mai nessuno prima di lui si era soffermato con tanto acume sull'analisi delle ragioni stesse del conservare,
procedendo sempre con rigore all'interno del campo strettamente disciplinare. Infatti è da alcuni visto come un
anticipatore della pura conservazione (fondata sulla stabilità del valore storico-documentario, di contro alla
soggettività e mutevolezza dell'apprezzamento estetico).
Ben si capisce che atteggiamenti come il restauro in stile e come le varie forme di pesante liberazione trovino in Riegl
implicita condanna ed appaiano irrimediabilmente invecchiati.

Il contributo di Riegl, sul quale si fonda gran parte del restauro contemporaneo, presenta anche il merito di aver
riallineato il restauro e la conservazione agli esiti ed al livello della contemporanea riflessione estetica e critica,
superando le secche d'un positivismo ritardatario.
Ma comunque la riflessione di autori come Boito, Bonelli, Brandi, Riegl è rimasta ampiamente inascoltata e disattesa
nella pratica, oscillante, fino ai giorni nostri - specie in architettura - tra buone memorie “scientifiche” d'impronta
giovannoniana (ed è il caso migliore), puntate moderniste pseudo-critiche (in realtà molto spesso prive di gusto ed
insieme d'ogni sensibilità storica), nostalgie stilistiche (speciosamente rivestite di moderna teoria e pratica
manutentiva, da una parte, di sapiente filologismo dall'altra).

In particolare Riegl ha permesso di conferire alla conservazione la radicalità e la problematicità; grazie a lui, non si
darà più nessuna teoria generale del restauro conservativo, ma solo sperimentazione, carica di responsabilità morali e
deontologiche, pluralistica e soprattutto conscia del carattere frammentario degli interventi.
Inoltre, la tutela non può perdere l'occasione per una rinnovata alleanza tra conservazione e innovazione, nel momento
in cui l'architettura e l'urbanistica riscoprono la relatività della loro autonomia.
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In Germania il dibattito non era meno vivace, grazie anche alla presenza di una rivista, di buon carattere specialistico
ed al tempo stesso divulgativo, come Die Denkmalpflege. Emerge in quegli anni la figura di Georg Dehio (1850-
1932), storico dell’arte e docente.
Appare piuttosto vicino a Riegl e Dvorák; ci si riferisce al suo concetto di monumento come di una res publica da
tutelare a cura della collettività ed alle considerazioni sulla duplice natura del monumento, quella d'incarnare valori
materiali e valori spirituali ove «questi ultimi, legati a fenomeni emozionali e soggettivi non rientrano nelle operazioni
di conservazione, le quali si estrinsecano nel campo dell'oggettivo e del reale».

A Dehio si affiancò ed alle volte si contrappose (come nel caso della ricostruzione del duomo di Meissen, da lui
propugnata, nel 1903, dopo l'incendio che lo aveva danneggiato) un altro grande storico dell'architettura, professore a
Dresda, studioso dell'arte barocca ma anche di urbanistica, Cornelius Gurlitt (1850-1938); per lui occorre provvedere
che l'antico non vada perduto (conservandolo), ma si deve anche abbandonare la follia di pensare che si possa ricrearlo
o completarlo. Tali orientamenti riuscirono a frenare eccessi ricostruttivi nel castello di Heidelberg (XIV-XVII sec.).

I suggerimenti proposti dal General Advice to Promoters of the Restoration of Ancient Buildings, una sorta di codice
del restaurato ispirato da Scott, sembrano aderire, con quasi cinquant'anni di anticipo (1864), alla sensibilità propria
del restauro filologico di fine secolo:
- Affidare i lavori ad un architetto competente, richiedergli accurati rilievi preventivi e non trascurare la
documentazione fotografica
- Esaminare con attenzione le superfici intonacate, proteggerle durante i lavori (specie se comportanti la rimozione
delle coperture) e rispettarle per quanto possibile
- Nel trattamento della pietra a vista evitare sempre di raschiarla, rispettare le patine, evitare in generale l'inserimento
di parti nuove, effettuare negli interni puliture delicate, e applicare soluzioni protettive
- Rispettare l'insieme delle stratificazioni storiche , così da preservare e mostrare la storia dell'intero edificio
- Agire sui committenti perché sappiano limitarsi a richiedere gli interventi più conservativi (salvaguardare modelli
autentici d'arte antica e documenti di valore storico)
- Assicurare la massima vigilanza per verificare che questi siano condotti in maniera conservativa

Se poi pensiamo a come effettivamente restauravano Scott e i suoi allievi, dovremmo concludere con le parole dello
stesso Boito il quale, a proposito di un personaggio che «predicava bene e razzolava male», ci ricorda che «in nessuna
cosa è tanto difficile l'operare e tanto facile il ragionare quanto in ciò che si riferisce al restauro dei monumenti»

8.IL RESTAURO SCIENTIFICO NELLA PRIMA META’ DEL XX SECOLO

L’interesse per il monumento come documento d’arte e di storia è il carattere principale del cosiddetto “restauro
scientifico”, definita da Boito e poi ampiamente divulgata da Giovannoni. Opponendosi al restauro stilistico si oppose,
di conseguenza anche al restauro storico.
I postulati del restauro scientifico sono stati messi in crisi dagli eventi della seconda guerra mondiale; non che i suoi
principi scientifici abbiano perso validità, solo che sono stati giustamente giudicati riduttivi e incapaci di intendere la
complessa realtà dei monumenti. Questa visione del restauro s’è rivelata più filologica che scientifica nel senso pieno
del termine, legata a un modo di concepire l’arte e in specie l’architettura positivistico e classificatorio, attento agli
aspetti evolutivi e stilistici, ma insufficiente ai fini della comprensione storica profonda del monumento; nel metodo
filologico delle due istanze rilevate da Brandi, la storica e l’estetica, si tendeva a considerare solo la prima.
Una seconda carenza, sempre legata al disinteresse per il versante estetico e alla conseguente esigenza che dell’oggetto
del restauro fosse recuperata quando possibile l’unità figurativa, risiedeva nell’inadeguatezza delle proposte operative.

Bisogna però riconoscere la fondamentale acquisizione di questo metodo: il rispetto storico del monumento, inteso
come difesa della sua complessa integrità contro i rischi di abbandono, restauri stilistici o insenate demolizioni.

Protagonista di questa stagione è Gustavo Giovannoni, il quale affermò il rifiuto sia del restauro stilistico (dei suoi
fini e dei suoi metodi), che dell’architettura moderna e della sua positiva capacità di intervenire nell’opera di restauro.
Il suo impegno si manifestò nell’ambito dell’insegnamento, delle consulenze e delle commissioni, della ricerca e della
pubblicistica, più che attraverso la diretta operatività professionale. Fu membro del Consiglio superiore per le antichità
e le belle arti e collaborò col Centro di studi per la storia dell’architettura, e diede vita all’insegnamento di “Restauro
dei monumenti”, che tenne presso la facoltà di Architettura a Roma.
Fra le sue opere ricordiamo il palazzo Torlonia a Roma (1908), nell’ambito delle costruzioni, e il restauro della
facciata di Santa Maria del Piano a Ausonia (1915).

Il volume Il restauro dei monumenti (1945) riassume tutto il suo pensiero.


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Giovannoni muove da una definizione di monumento non più come edificio eccellente per dimensioni o qualità
storico-artistiche, ma come qualunque costruzione del passato che abbia valore d’arte e di storica testimonianza, ivi
comprendendo le condizioni esterne costituenti l’ambiente naturale o urbanistico; una volta conosciute profondamente
si può giungere, mediante la mediazione teoretica e tecnica, alla proposta di restauro.

Del restauro stilistico Giovannoni osserva come sia antiscientifico e quanto rechi falsificazioni per la pretesa di voler
ricondurre ad una unità stilistica ciò che la storia ha creato e trasformato in molteplice e complesso. E se il restauro
riesce bene, si rischia di creare confusione negli studiosi, che non possono più distinguere quello che è autentico da
quello che è nuovo, e se riesce male, crea disarmonie insanabili.
La sua critica si rivolge anche alla teoria modernista, la quale è ancora una tendenza più che una precisa teoria. Come
nei periodi passati spesso si completavano i monumenti con lo stile del tempo e non imitando l’antico, così sembra che
debba farsi anche ora nelle aggiunte esterne ed interne in stile moderno; ma lo stile moderno non può avere ancora
diritto di cittadinanza nei monumenti accanto alle espressioni d’arte del passato, finchè non sia dimostrato così stabile
da rappresentare veramente il nostro secolo. L’incompatibilità di antico e nuovo invocata da Giovannoni è quelle
cronologica, in merito a modalità di costruire che si collocano su diverse coordinate temporali.

La sua proposta, che denomina “teoria intermedia”, affermando fu da Boito per primo formulata e da lui completata,
considera i seguenti concetti fondamentali:
1. Favorire le opere di manutenzione, di restauro, di consolidamento , ne quale ultimo sono ammessi i mezzi e i
procedimenti della tecnica moderna
2. In questa opera di rinforzo eseguire il minimo necessario per la stabilità senza esagerazioni di rinnovamento,
considerando come cosa essenziale l’autenticità delle strutture
3. Nelle detrazioni rispettare tutte le opere che abbiano valore d’arte, anche se di vario tempo, anche se risulti lesa
l’unità stilistica originaria -> considerare cioè la vita artistica che si è svolta sul monumento
4. Nelle aggiunte designare chiaramente le date, e adottare in tali aggiunte linee di carattere semplice, proponendosi
un’integrazione di massa più che un abbellimento decorativo
5. Seguire negli eventuali completamenti dati assoluti certi , rifuggendo dal trasformare le ipotesi in costruzione e
valendosi, dove occorre, di zone neutre, negli elementi intermedi che occorra aggiungere per ristabilire l’insieme
6. Avere per l’ambiente in cui si trova il monumento le stesse cure che per le condizioni intrinseche
Come tutte le leggi, questa ha bisogno dell’interpretazione caso per caso, specialmente in quanto considera la
valutazione del valore artistico e dei rapporti tra le parti del monumento e di questo con le condizioni esteriori.

Ripropose la distinzione fra monumenti viventi e morti, con le implicazioni operative che esso comportava, insieme a
quella dei monumenti maggiori e minori e alla definizione di una serie di tipi di restauro: quello di consolidamento, di
ricomposizione o anastilosi, di liberazione (dalle aggiunte prive di carattere artistico), di completamento (lecito solo
per le parti accessorie), d’innovazione (nel caso di aggiunta di parti essenziali).
Ricorrente fu la sua attenzione all’ambiente, in difesa dell’architettura minore, contro la pratica degli sventramenti,
contro la retorica e la speculazione edilizia; propose come alternativa la teoria del diradamento, quale sistema di
microchirurgia (miglioramenti interni, restauri degli edifici, ecc) atto a restituire le necessarie condizione di igiene e
visibilità dei monumenti con limite e ben controllate rimozioni, senza nuovi inserimenti o ricostruzioni.
 I suoi suggerimenti trovarono scarsa applicazione, ma a lui si devono le prime formulazioni urbanistiche
espressamente rivolte alla salvaguardia della parte antica delle vecchie città di interesse storico-artistico.

La Conferenza di Atene (1931) corrisponde al momento in cui si determinò un metodo generale unificato per il
restauro, innegabilmente di matrice italiana (principi: conservazione dei monumenti; manutenzioni regolari per evitare
rifacimenti; uso delle tecniche moderne e dei materiali moderni come mezzi di rinforzo; collaborazione con
rappresentanti delle scienze fisiche, chimiche e naturali per la conservazione dei monumenti; rispetto del carattere e
della fisionomia delle città, specialmente nei pressi di monumenti antichi, ecc.)

Giovannoni aveva attivamente partecipato ai lavori.


Il suo magistrale discorso, tutto incentrato su questioni concettuali e di metodo, costituì l’elemento di novità e di
massimo interesse. Dopo aver tratteggiato il progressivo estendersi ad intere zone urbane del principio nuovo della
definizione e del valore dei monumenti, egli precisava i differenti “punti di vista” che sostenevano le diverse teorie del
restauro, oscillanti fra pura conservazione e ripristino. Le esigenze del buon senso e del contemperamento delle
diverse istanze hanno condotto, secondo Giovannoni, ad enunciare una serie di validi principi: rispetto verso tutte le
fasi della costruzione; utilizzazione, per riempire le lacune e restituire le linee, di materiali nuovi, ma semplificati;
prolungamento di linee in stile similare soltanto nei casi in cui si tratti di espressioni geometriche sprovviste di
originalità decorativa; indicazione delle aggiunte; rispetto delle condizioni di ambiente del monumento;
documentazione precisa dei lavori.
Lo studioso riferì, in un secondo intervento, anche sui mezzi moderni di costituzione applicati al restauro dei
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monumenti, notando come le diverse teorie che si oppongono tra di loro sui principi del restauro abbiamo la loro
ripercussione su tali problemi (es. i seguaci di Viollet-le-Duc vorrebbero l’uso di materiali analoghi a quelli originali).

In Italia le stesse indicazioni trapassarono nella Carta del restauro italiana (1931) e nelle successive Istruzioni per il
restauro dei monumenti (1938), e poi nella nuova legge di tutela del 1938, dovute al ministro Bottai.

La Carta del restauro, pur riprendendo quanto auspicato ad Atene, ebbe il pregio di ufficializzare una posizione
culturale ben mediata e in linea coi tempi. Dopo un richiamo alla necessaria qualità e perfezione di ogni intervento di
restauro e la considerazione che nell’opera di restauro debbano elidersi vari criteri di diverso ordine (le ragioni
storiche, il concetto architettonico che intende riportare il monumento ad una funzione d’arte, il criterio che deriva dal
sentimento dei cittadini), enuncia una serie di principi (manutenzione e consolidamento; non completamento ma solo
ricomposizione di esistenti parti smembrate; conservazione degli elementi aventi carattere di memoria artistica o
storica, rispetto delle condizioni ambientali; limitazione al minimo delle aggiunte- che devono essere evidenziate; uso
dei mezzi moderni per il rafforzamento; documentazione precisa).

Le Istruzioni per il restauro riprendono in gran parte, riferendoli tanto ai monumenti architettonici quanto a quelli
scultorei e pittorici, i concetti espressi dalla carta ma con alcune positive novità: abolizione della distinzione tra
monumenti vivi e morti; opposizione al trasporto dei monumenti; necessità di conciliare antichità e modernità.

Il metodo filologico (scientifico) entra in crisi nel momento in cui occorre provvedere alle rovine e alle distruzioni
dell’ultima guerra mondiale: l’enorme quantità dei problemi, il numero dei monumenti danneggiati e l’entità del
disastro fanno subito capire la necessità di un profondo ripensamento.
La vecchia concezione del restauro graduale e isolato non si dimostra più valida: occorre un restauro di massa e
d’urgenza. Secondo De Angelis, era necessaria una revisione della prassi: risarciture per danni di lieve entità;
ripristino parziale nelle forme precedenti per danni di maggiore entità; rinuncia dell’intervento per distruzione totale o
ricostruzioni ex-novo nel caso di monumenti di particolare importanza.

Quali sono le motivazioni del restauro post-bellico? Essi dovevano conservare o recuperare edifici considerati parti
vive e organismi funzionali delle città offese dalla guerra, elementi indispensabili alla fisionomia dei vecchi centri
urbani, salvando quanto più possibili i resti preziosi delle antiche e martoriate architetture.
Giovannoni ammise, per i monumenti classici e medievali, la necessità di restauri non scientificamente rigorosi:
“meglio un restauro imperfetto che rappresenti una scheda perduta nella storia dell’architettura, che la rinunzia
completa, la quale priverebbe le nostre città del loro aspetto caratteristico nei più significativi monumenti d’arte”.
Prevalse dunque la considerazione d’insieme, della totalità dell’immagine urbana di cui il monumento è visto come
parte essenziale.

Ambrogio Annoni è un operatore raffinato più che profondo teorico. La sua pubblicazione più importante è il volume
Scienza ed arte del restauro architettonico, ove sono sviluppate idee frutto di una lunga esperienza che lo portò a
superare i limiti del restauro scientifico, anticipando forme di restauro critico basate anche sopra un maggior rispetto
per le possibilità espressive dell’architettura moderna nel restauro. Fra le sue opere ricordiamo i lavori a San Giovanni
Evangelista di Ravenna e il restauro di Villa Marabella a Milano.

Rifuggiva dalle affermazioni dogmatiche in fatto di restauri, preferiva valutare di volta in volta le oggettive situazioni
e operare di conseguenza; suo principio è il non-metodo, per cui l’unica regola è quella del caso per caso, affidato allo
studio, alla sapienza e alla competenza del restauratore, che dovrà essere insieme vero storico e vero artista, quindi
vero architetto. Questo anche perché egli nota che i criteri di restauro variano a seconda del mutare del clima storico e
artistico, e rifiuta quindi ogni statica dottrina.
Come Giovannoni distingue monumenti vivi e morti e aggiunge quelli pericolanti, proponendo di conseguenza 3 tipi
di intervento: il restauro di conservazione, di sistemazione, di consolidamento.
In sostanza il principio di base è: “l’edificio stesso indicherà la possibilità della propria rinascita, suscitando i criteri
d’intervento e il loro grado, in ragione del danno, escludendosi però sempre la ricostruzione integrale ma non il
problema costituito dal “volto della città” ferito.

Respinge il falso, anche se esso fosse storicamente artisticamente e sentimentalmente gradito. Nega la ricomposizione
di un’architettura medievale (molteplice di organismo o di particolari), ma è più cauto quando si tratti di architettura
ben definitiva nella formula estetica e architettonica, cioè quelle del ‘500/’600.
Sostiene l’importanza di un corretto e continuo uso per evitare la mummificazione.
Non rifiuta come Giovannoni l’architettura moderna, ma vede come lui il monumento in relazione al tessuto urbano
circostante e quale elemento che fomenta non intralcia il moderno sviluppo della città.
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Negli anni fra le due guerre i restauri archeologici italiani videro spesso la collaborazione fruttuosa di architetti e
archeologici (il tempietto circolare di Vesta al Foro Romano, il Palazzo Orsini, il Teatro Marcello).

Gino Chierici (1877-1961), nato a Pisa ma formatosi a Bologna, una delle più interessanti personalità di
soprintendente e restauratore del nostro secolo, attivo in Toscana (abbazia di San Galgano, dove rifiutò qualsiasi
ripristino artistico e segui rigorosamente il principio di consolidare il monumento senza alterarne l'aspetto attuale,
lasciandoci un meraviglioso esempio di restauro a rudere), in Campgnaia (restauro della chiesa trecentesca di Santa
Maria Donnaregina, in cui l’intervento, di grandissimo impegno concettuale e tecnico, comportò ampie rimozioni e
reintegrazioni) e in Lombardia (la 'pusterla' di Sant'Ambrogio, con la reintegrazione di una torre attuata con l'uso di
materiali diversi dagli antichi, per garantirne la immediata distinguibilità).
Ne risulta il ritratto di un restauratore scientifico: non bisogna agire per analogia, ma lasciarsi guidare dal singolo
monumento su cui si lavora, e restaurare tenendo presente la necessità di conservare sia l’autenticità del monumento
sia di ottenere un risulto esteticamente accettabile. Il suo intento è di ricondurre il monumento a una forma compiuta,
frutto di un intervento che sappia evidenziare e dare unitarietà architettonica e piena leggibilità storica alle diverse
stratificazioni.

Restauratori attivi in questi anni:


‐ Attivi con oscillazioni fra restauro scientifico e restauro storico-ricostruttivo: Renato Bartoccini, Raffaello Nicoli.
‐ Attivi in maniera più direttamente scientifica: Carlo Ceschi, Luigi Crema, Guglielmo de Angelis.
‐ Attivi in ambito prevalentemente universitario: Piero Sanpaolesi, Giuseppe Zander (restauro della facciata della
basilica di San Pietro in Vaticano).
‐ Vanno infine menzionati i soprintendi Alfredo Barbacci e Pietro Ganzola.

La fine del secolo XIX vede in Francia alcune interessanti novità di struttura amministrativa , coerenti col più generale
clima di riorganizzazione scientifica della tutela:
- Nel 1887 l'attivazione, a cura del Service des Monuments historiques, di corsi per il reclutamento regolare, previo
esame, di architetti restauratori
- Nel 1897 la creazione del titolo di “architecte en chef des Monuments historiques” (scopo: condotta del cantiere e
direzione del servizio di manutenzione) e, contemporaneamente, la diffusione, per assicurare la migliore cura dei
monumenti, di un organico di “architectes ordinaires” (scopo: preparazione e esecuzione dell'intero programma di
lavoro, oltre alla sorveglianza diretta degli edifici di un'intera regione), residenti sul posto, collaboratori diretti
dell'“architecte en chef”, espressione invece dell'autorità centrale, a sua volta rispondente agli “inspecteurs
généraux” della Commission des Monuments historiques (scopo: esame dei progetti di restauro e il controllo
superiore dei lavori).
Si andò allora configurando il sistema che, con piccole modifiche, è tuttora, operante con buoni risultati, in Francia.

Sul problematico rapporto, fra opere moderne (figurative e tecniche) ed antiche preesistenze, Paul Léon (1874-1962)
si sofferma ampiamente. Per quanto riguarda gli aspetti tecnici ed in specie l'impiego del cemento armato la reazione
che si ebbe fu sempre costituita da un misto di prudenza e di entusiasmo (nota Léon che si trattava d'introdurre, in
edifici dalla struttura profondamente clastica, degli elementi rigidi suscettibili di alterarne l'equilibrio); spesso si
preferì limitare l’uso del cemento a interventi “nascosti” (consolidamento di muri, volte, solai). Il nuovo materiale
permetteva, comunque, di realizzare non solo opere di sostegno provvisorie ma anche consolidamenti definitivi, così
nella cattedrale di Rouen.
Oggi la questione è in pieno fermento, come vedremo meglio in seguito; mentre, da un lato, il procedere della ricerca
storica ed un rinnovato allargamento d'interesse storico-tecnico ci fanno percepire come fastidiose alterazioni anche le
protesi in ferro o cemento “nascoste”, sentiamo come giusta la convinzione che, se si deve pagare un prezzo al
consolidamento, va fatto preservando la figuratività dell’opera, con un atteggiamento critico, aperto a tutte le
possibilità ed opzioni e agendo caso per caso.

Nei paesi di lingua tedesca in questo periodo sono attivi Max Dvorak, storico dell’arte e autore, e successivamente
Paul Clemen.

Max Dvorak, che nel campo della tutela si mostra vicino a Ruskin e Riegl, è un esponente del restauro scientifico, e
non a caso discende, quale storico dell’arte e non architetto operante, da una linea conservazionista che fu sempre
privilegiata dagli uomini di lettere rispetto a quelli di cantiere. Individua come cause di rovina: le tendenze
utilitaristiche e di mercificazione, i rischi dell’industrializzazione, l’avidità, l’inganno, le malintese idee di progresso e
le presunte esigenze dell’età moderna, la mancanza di educazione e il cattivo gusto.
Trattando del valore dell’antico patrimonio, l’autore nota che l’impoverimento artistico e spirituale legato a tali
devastazioni rappresenta una perdita più grave di quella puramente economica: è una perdita del patrimonio storico-
aristico della nazionale; la tutela è quindi un dovere delle comunità e delle nazioni, e si devono evitare vaste
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trasformazioni e ricostruzioni che alterano la forma e l’aspetto dei monumenti, che lo snaturano  ogni restauro deve
quindi non essere fine a sé stesso, ma rappresentare un mezzo per garantire al monumento la sua condizione e per
conservarlo con rispetto alle generazioni future.

Il Catechismo per la tutela dei monumenti (1916) si conclude con una serie di raccomandazioni : conservare al
massimo i monumenti, comprese le rovine (ci si deve limitare a modesti interventi atti ad evitarne il declino); prestare
una cura continua agli edifici antichi ancora in uso; intraprendere i restauri di vasta portata con cura, affinché non
corrompano l’aspetto del monumento; nel caso di lavori che tocchino la sostanza e la forma del monumento, occorre
chiedere il consiglio di un esperto. Dà poi consigli legati alla tutela degli arredi delle chiese, delle sculture, dei dipinti,
e in generale legate al mercato d’arte e alla preservazione dell’aspetto naturale e urbanistico.
Dovrak si proclama per una strenua difesa del valore antico, dell’aurea, attraverso la conservazione e caute e corrette
operazioni di manutenzione e restauro ad esse complementari. Il rigore conservativo ha fatto del Catechismo un
manifesto che ha avuto una grande importanza in tutte le situazioni di frenetica attività edilizia ricostruttiva.

P. Clemen fu un restauratore militante, attivo sin dalla fine dall’800 e soprintendente in Renania, a Bonn; anche nel
suo pensiero ritorna il richiamo a Riegl ed al citato Georg Dehio, insieme con l'accettazione della formula inglese
“conservare non restaurare”.
Clemen considera il valore simbolico dei monumenti, non riducibili al valore culturale, anche se componente
essenziale di quello, che trascende la oggettività e materialità dell'opera d'arte.

Clemen muove da una definizione di monumento come di opere realizzate dall'uomo per il ricordo di Dio, di uomini
famosi o di grandi avvenimenti (monumenti volontari) ma anche come di opere che, per le loro vicende storiche, sono
assurte al valore di simbolo d'una città e di memoria collettiva (monumenti involontari). Osserva come l'antichità e il
medioevo conoscessero ed apprezzassero soltanto il genere dei monumenti intenzionali e come sia necessario giungere
sino al Rinascimento per vedere sorgere l'altra accezione del termine.
Infine, definisce il concetto di Denkmalpflege, cioè di “cura dei monumenti”; questa deve partire da un'attenta opera
di conservazione materiale, dalla volontà di perpetuare ciò che ci viene dal passato, da un'approfondita conoscenza
filologica dell'opera stessa, ma non si risolve tutta in ciò -> mantenere vivi i monumenti significa porli come testimoni
tangibili e visibili nel presente, significa forzarli a parlare e conferire loro una vita ulteriore. In questo senso il
contenuto spirituale del monumento è l'essenziale, e la consistenza materiale è solo la veste del tutto.
 Oggi ci è chiaro che, persa la materia antica, si perde anche il contenuto spirituale e simbolico che solo da essa
può venire suscitato.

Ogni monumento costituisce un unicum, sviluppatosi nella storia con modalità sempre diverse, ed è quindi corretto
l’atteggiamento “conservare più che restaurare”.
Può stabilirsi un confine netto fra la manutenzione la conservazione e il restauro o, addirittura, il ripristino? Clemen
sembra intravedere la soluzione proprio nel suo precedente richiamo alla necessità di salvare l'anima e non la veste
formale del monumento, cioè nell'invito a rifiutare il ripristino falsificante, lasciando spazio ad interventi (come quelli
assicurati dalle tecniche moderne) che siano il segno inequivocabile del tempo attuale e l'espressione sincera di un atto
di pietà nei confronti dei vecchi monumenti.

PARTE III: GLI ATTUALI ORIENTAMENTI DI PENSIERO

1.IL RESTAURO COME ATTO DI CULTURA

Il senso del progressivo distacco dal passato, con il sorgere della moderna coscienza critica fra ‘700 e ‘800, ha
prodotto le condizioni per la nascita del restauro modernamente inteso, quale azione distinta e storicamente autonoma
dal fare artistico e dalla stessa opera sulla quale interviene.
In tal modo, fin dal suo sorgere, il restauro si è definito come atto di cultura, mosso da esigenze prettamente spirituali
e di memoria (ove cultura sta precisamente a significare l'attenzione a valori permanenti e di durata storica, non
mutevoli nel breve periodo, come quelli pratici o anche sociali, utili per il momento presente), che tende a restituire
l'opera al suo mondo storicamente determinato e ed è intellettualizzato dalla presenza d'un atteggiamento scientifico;
la conferma della sua natura culturale si palesa nell'immediato scontro con le leggi del mercato antiquariale e nel suo
spontaneo interesse per gli oggetti meno utili di tutti, i monumenti archeologici.
Nel complesso il restauro, al suo sorgere, si manifesta come un'operazione che affonda le radici nella riflessione più
matura e avanzata del tempo.

Se oggi possiamo definire il restauro come un atto tendente alla conservazione, occorre aggiungere che il primo
compito da svolgere è il “riconoscimento” dell'opera, la definizione qualitativa del suo valore come documento e
come immagine; nonostante una diffusa tendenza a considerare possibile una tutela integrale di tutto quanto l'uomo
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produce (in primo luogo dell'eredità del passato) la vera conservazione non può che passare per una selezione dei
materiali della storia.
Stante il principio per cui affermare che tutto si conserva equivale, nei fatti, a dire che nulla si conserva, il problema
diventa quello di controllare, guidare e se possibile rallentare il mutamento che travolge ogni testimonianza materiale.

Ne consegue il primo grande problema, circa la scelta del sistema di pensiero (coincidente con una filosofia e, più
precisamente, trattandosi di opere d'arte, con un'estetica) mediante il quale verificare la storicità e l'artisticità
dell'opera. Non è però necessario che tale scelta di pensiero si richiami ad una ben determinata premessa filosofica;
basta che essa pervenga a distinguere l'opera d'arte attraverso un riconoscimento dato dalla coscienza individuale,
soggettivo ma non arbitrario.
È perciò evidente che l'ambito concettuale deve intendere l'arte che si concretizza nell'opera singola come presenza
autonoma rispetto all'esistente, come immagine espressa in forma unica e irripetibile, perennemente attuale.

In sostanza tutto dipende dal riconoscimento critico, sia la qualificazione dell'opera, sia la determinazione del restauro,
che dagli esiti di tale qualificazione e valutazione è guidato. Quindi la natura del restauro dipende dalle caratteristiche
dell'opera da restaurare; il che è propriamente quanto abbiamo verificato per via storica ripercorrendone le vicende nel
corso dell’800.
Attraverso l'esercizio della critica storico-artistica si determina il campo d'applicazione del restauro, che per l'esteticità
inerente a tutto il reale ess si estende anche alle opere umane, ivi comprese quelle edilizie, prive di qualità
propriamente artistica ma riconoscibili come momenti di gusto e testimonianze storiche.

Perciò, in definitiva, se la storia dell'arte e dell'architettura sono riconoscimento e valutazione, cioè critica, il restauro è
atto critico, è storiografia e critica insieme, prolungamento di queste nella pratica operativa; esso è stato definito come
il 'braccio secolare' della storia (R. Bonelli).
Nel confronto tra le due istanze, la storica (postulata dal valore testimoniale dell'opera, indipendentemente dalla sua
qualità artistica) e l'estetica (postulata dal suo essere immagine), ricade la dialetticità del restauro: se non si devono
cancellare le tracce della figurazione, non si dovranno neanche cancellare quelle del tempo trascorso. Ma si restaura in
base al valore storico o a quello artistico? La scelta dipende da un'approfondita valutazione comparativa, ma la
seconda ha forza maggiore, perché la storicità di un'autentica forma artistica risiede tutta nella sua artisticità. Appare
evidente, comunque, la responsabilità di questa scelta, che è limitata ad opere o parti di sicura qualità formale, mentre
il maggior numero d'oggetti di restauro sarà riconducibile ad una preponderante ragione storica.
Lo stesso restauro, in quanto problema d'immissione d'un nostro intervento nell'opera, quindi nel tempo e nello spazio
di questa, propone anche una nuova distinzione nei concetti di 'spazio' e di 'tempo', applicati all'oggetto d'arte, sui
quali ci soffermeremo meglio in seguito.

La problematicità culturale del restauro, quale intervento che si pone come l'equivalente metodologico e operativo
dell'azione critica, risiede nella questione basilare della precisazione dei limiti, non concettuali ma reali e concreti
della conservazione.
Il compito più difficile della cultura, in questo campo, è proprio quello di delimitare e regolare l'intervento , per far
coincidere concetto e metodo, teoria e prassi, momento valutativo e momento operativo della critica, scopi e risultati
in una più larga e comprensiva accezione dell'ambito categoriale.

Il restauro sorge dal riconoscimento del valore dell'opera e dalla coscienza della necessità di conservare o di ristabilire,
nel rispetto di quanto sussista della materia antica, l'unità dell'immagine figurata. Da qui l'accezione del restauro
critico come “reintegrazione dell'immagine”.
Gran parte dell'impulso originario del restauro risiede nel desiderio di tornare a contemplare l'opera nella sua vera e
completa forma; ciò corrisponde all'intento di renderla nuovamente valida e attuale, conservandola però nella sua
piena autenticità, anche fisica. La pulsione è sempre quella di tornare a possedere compiutamente l'opera, di farla
propria con una ricreazione totale; essa è ancora più forte per l'architetto orientato, per sua natura e formazione, più al
rinnovamento e all'invenzione che alla conservazione dell'esistente.
Per ovviare a tali rischi e per aderire alle più profonde esigenze della tutela il restauratore si è dovuto trasformare in
filologo, storico e critico, ampliando le sue competenze senza perdere tuttavia le sue caratteristiche primarie (perché il
restauro è sì critica, ma esercitata non solo 'parlando' dell'opera bensì agendo su di essa), in questo investito della
responsabilità d'un compito arduo che richiede decisioni difficili, impegnative e cariche di responsabilità verso la
cultura e la società civile.

La mutevolezza storica, dall'antichità ai tempi nostri, dell'idea stessa di conservazione ed il prevalere o d'una pratica e
artigianale manualità o di sottili costruzioni teoriche e di principio, non hanno potuto escludere né oscurare il legame
tra restauro ed estetica, tra restauro e concetto che ogni epoca ha avuto dell'arte.
Il legame fra il restauro ed il relativo concetto dell'arte, quindi dell'architettura, è dunque una costante che induce a
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indagare e ad approfondire questo rapporto, filosoficamente (nel senso di dedurre con rigore, dal concetto stesso
dell'arte, quello del restauro, traendone sistematicamente una teoria) ed empiricamente (identificando di volta in volta,
nell'ambito delle singole opere, le qualità artistiche e storiche che si intendono mantenere o restituire e stabilendo, di
conseguenza, i limiti ed i caratteri dell'intervento).

Ma le differenti posizioni sono sorgenti di «gravissime discrepanze», come sta ad attestare la dura polemica (1950) fra
italiani (tentativo di presentare l’opera nella sua originalità ma anche mantenendo i segni del tempo sulla materia di
cui è fatta, la patina) ed inglesi (tentativo di presentare le opere il più possibile nello stato in cui l’artista intendeva che
fossero viste) a proposito delle puliture di antichi dipinti effettuate presso la National Gallery di Londra.

Alle obiezioni di fondo contro la legittimità di un'estetica filosofica si accostano quelle correnti contro il legame
restauro-estetica, visto come fonte d'incertezza, d'arbitrio e freno ad ogni tentativo del restauro stesso di rinnovarsi
concettualmente dietro le trasformazioni, i progressi tecnici e quindi le ampliate possibilità d'azione che la moderna
civiltà industriale offre ai restauratori.
Ma in realtà le maggiori possibilità (cemento armato, ferro, titanio, leganti e mastici sintetici, cuciture e microcuciture
ecc.) e le opportunità espressive offerte dei nuovi materiali e sistemi costruttivi (la cui importanza oggi si tende,
comunque, drasticamente a ridimensionare) hanno solo fatto si che nella pratica si restaurasse diversamente o meglio,
con accorgimenti diversi ma pur sempre sulla base di principi sostanzialmente immutati, come ad esempio nel caso del
restauro ottocentesco del portico dei Consenti sotto il Campidoglio.

Sembra che in sostanza si possa concludere che una sistemazione teorica non solo sia possibile ma anche auspicabile,
per trovare in essa indicazioni metodologiche e pratiche coerenti e verificabili in successive esperienze. Difficoltà
insormontabili si frappongono ad inquadramenti di metodo che, senza essere teorie compiute, mirano ad assumere un
carattere onnicomprensivo; ciò distingue nella sostanza una visione speculativa (che va al fondo dei problemi ed è
sempre da intendersi come guida generalissima da inverare con un atto di coscienza e di cultura, cioè di comprensione
storico-critica del singolo caso), dai vari enunciati, precetti, casistiche, leggi e norme, non escluse, per certi aspetti, le
Carte, la cui validità è essenzialmente divulgativa, didattica e amministrativa.

Alla posizione intermedia di negazione del metodo, sostenuta da Longhi e Sanpaolesi, che è da intendersi come voluta
non esplicitazione di principi in forma teorica per lo scrupolo di non costringere in moduli precostituiti la multiforme
realtà storica del monumento e dei suoi problemi di conservazione, si oppongono:
- Le sistemazioni di Brandi o Riegl, o le precise puntualizzazioni di Bonelli e Philippot
- Gli enunciati empirici e direttamente operativi, fondati in specie sopra il buon senso, un gusto controllato e la fiducia
in una più diffusa sensibilità per gli esiti figurativi dell'operazione di restauro di U. Baldini o Feilden

Ma il problema cambia improvvisamente scala e diventa preoccupante quando, specialmente in campo architettonico,
dalle premesse teoriche si passa alla pratica applicazione: il pericolo di un tradimento dei concetti-guida è sempre
presente nelle difficoltà dei singoli casi concreti, che sembrano autorizzare l’accantonamento delle elaborazioni di
principio in favore di un diretto ed attivistico contatto col monumento.

Concludendo, ribadita la necessità d'una razionale visione del problema, l'esigenza più viva è quella di una sua
traduzione in indicazioni «pratiche ma non per questo empiriche» (Brandi) e soprattutto di controllate
sperimentazioni; il tutto sostenuto dal più ampio dibattito e dallo scambio di idee, opinioni, risultati tra tutti coloro
che, per esigenze di studio o d'ufficio, a questi problemi sono interessati.

2.RESTAURO CRITICO

Negli anni centrali della seconda guerra mondiale (1943-44), di fronte all'enormità dei danni provocati dai
bombardamenti ed alla necessità di porvi rimedio, si percepì nettamente la sensazione della pratica inapplicabilità
delle norme del 1931, concepite per una ordinaria, attenta e scrupolosa cura dei monumenti.
Quella fu l'occasione che diede il via ad un'ampia riconsiderazione dei principi del restauro, basata in primo luogo
sopra una serrata critica dei fondamenti del restauro filologico e scientifico (sbilanciamento verso l'istanza della
storicità ed una sottovalutazione delle qualità figurali del monumento).

Fu necessario un più profondo ripensamento di carattere estetico e filosofico, attuato soprattutto a Napoli e Roma, per
dare corpo a questo malessere nella forma di un’alternativa solidamente configurata: il restauro critico.
Esso muove dall'affermazione che ogni intervento costituisce un caso a sé, non inquadrabile in categorie, né
rispondente a regole prefissato, ma da reinventare con originalità di volta in volta, nei suoi criteri e metodi. Sarà
l'opera stessa, attentamente indagata con sensibilità storico-critica e con competenza tecnica, a suggerire al
restauratore la via più corretta da intraprendere.
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Ne consegue uno stretto legame del restauro con la storia artistica e architettonica, al fine d'ottenere risposte
soddisfacenti ai problemi che esso, fin dalle sue origini, pone: di reintegrazione delle lacune, di rimozione delle
aggiunte, di reversibilità e distinguibilità dell'intervento, di controllo storico-critico delle tecniche e così via.
Problemi che nel restauro, però, richiedono risposte non soltanto 'verbali' ma anche concretamente operative e
figurative.

Da qui la necessità per l'architetto-restauratore di essere, in primo luogo, preparato nel campo della storia artistica e
architettonica; di saper operare, poi, con competenza tecnica; di avere sicure capacità 'creative', gusto particolarmente
educato ed insieme grande umiltà  si tratta, infatti, di agire su beni unici e irripetibili, che domandano solo d'essere
rispettati e trasmessi nelle condizioni migliori alle generazioni future, non certo di essere attualizzati.
La creatività e l'inventiva, qualità proprie dell'architetto, vanno comunque reclamate, a pieno titolo, per garantire la
buona soluzione di ogni restauro.

Ma è soprattutto la diversa concezione dell'opera architettonica non meramente edilizia a costituire l'elemento di
novità, con tutte le ricadute pratiche che ne conseguono. Se fornita di qualità artistica essa rappresenta non tanto un
documento o una testimonianza quanto un valore diverso e una sintesi di livello superiore.

Il procedimento critico è quello che comporta la lettura dell’opera e il conseguente giudizio per riconoscere in essa la
presenza o meno della qualità artistica; successivamente, il recupero dell’opera liberandola da tutto ciò che la
interrompa o disturbi.
Da questa impostazione discendono i criteri da adottare, che sono un radicale capovolgimento del metodo filologico:
essi contemplano la necessità di eliminare le aggiunte che danneggiano l’integrità formale, il divieto di ricostruire nei
casi in cui le distruzioni abbiano provocato la perdita dell’unità figurale, il permesso di modete ricostruzioni.

Il restauro dunque coincide con l’azione critica, ma quando la figurazione sia interrotta da lacune o ingombri, il
processo di ripercorrimento critico è costretto a utilizzare la fantasia per completare idealmente l’opera. La fantasia
così da rievocatrice diventa produttrice ed è questo il primo passo per integrare la critica con la creazione artistica;
ecco quindi il restauro come processo critico e atto creativo.
Questa concezione di restauro si sviluppa seguendo il principio generale di rendere viva e presente l’opera d’arte e
d’architettura. In tale prospettiva il criterio filologico della conservazione assume un significato diverso, non più di
salvaguardia del solo documento, ma di sforzo per attualizzare un atto creativo nella sua piena validità; qui si uniscono
il riconoscimento e il godimento del valore artistico-storico col bisogno di restituire all’opera l’efficacia e la
pregnanza che il tempo ha corroso.

Il restauro come valutazione critica è parallelo alla storia artistica, della quale usa principi e metodi; ne rappresenta, in
sostanza, un caso particolare, in cui l'azione critica si prolunga nell'esecuzione pratica . Nel restauro così formulato la
nostra cultura attua pienamente se stessa, perché dimostra consapevolezza del momento storico ed una cosciente
continuità col passato.

È ovvio che tutto il ragionamento è stato costruito sulla divisione dell'intero patrimonio storico-artistico in due
categorie:
- Le vere opere d'arte (patrimonio artistico), perfettamente compiute, per le quali vigono i principi appena esposti
- Le opere di gusto, di prosa o di semplice letteratura (patrimonio storico), per le quali vale un diverso atteggiamento
restaurativo, con prevalenza dell'istanza storica e conservativa.
Altrettanto ovvio è che tale posizione presti il fianco a più o meno marcati fraintendimenti (si pensi al rischio implicito
valorizzazione, forma compiuta. creatività ecc.) ed a banalizzazioni  riducendosi spesso gli enunciati del restauro
critico a pretesti per disinvolte opere di liberazione dei monumenti o, più di frequente, per imporre esercitazioni
progettuali modernizzanti a danno dell'antico.

Risulta interessante notare infine come, soprattutto per merito di Bonelli, sia stata operata la coerente estensione dei
medesimi criteri ad un problema più vasto, quello del restauro urbanistico' e del paesaggio.
Le difficoltà relative ai centri storici sono anzitutto concettuali, riguardanti il compito di pensare teoreticamente la
città, simile ed insieme diversa dall'opera architettonica in sé; essa si può definire come una figurazione architettonica
e ambientale priva della purezza formale assoluta,
Il centro storico consiste essenzialmente nell'insieme dei valori figurali e materiali che riportano la realtà storica
(storia presente) a forma storicizzata: questa struttura richiede una lettura più complessa, che deve distinguere l'opera,
il linguaggio architettonico, la manifestazione letteraria o di gusto.

Le condizioni di lettura del paesaggio sono analoghe ma qui interviene una diversa costituzione dell'immagine.
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L'opera d'arte è fissata nella materia, occorre solo ripercorrerla; il paesaggio invece si confonde con il territorio (di cui
rappresenta gli aspetti visivi) e con la natura, ne risulta fissato, delimitato. Esso emerge solo grazie alle capacità
personale del fruitore (di chi lo guarda), che dovrebbe essere dotato della necessaria sensibilità e a ciò educato.

Si vuole riaffermare, in ogni modo, che sia per i monumenti sia per le opere d'arte, i centri storici e il paesaggio, la
qualità e la continuità del processo critico, dalla percezione alla valutazione e al restauro, si manifestano con rigore e
costanza assoluta.

La filosofia del restauro in Italia ancora oggi vede il suo punto di riferimento nel pensiero di Cesare Brandi, fondatore
e direttore per molti anni dell'Istituto Centrale del Restauro.
Accanto a lui abbiamo i teorici del restauro critico (da Roberto Pane ed A. Pica a Renato Bonelli e, su posizioni in
parte diverse Roberto Papini), che fin dagli anni dell'ultimo conflitto mondiale hanno vigorosamente operato per
sottrarre il restauro alle strettoie del vecchio positivismo, in cui ancora permaneva il restauro scientifico o filologico,
d'impronta tardo-ottocentesca, nonostante il lavoro svolto da un maestro dell'importanza di Gustavo Giovannoni.

Pica riconosce gli innegabili meriti del restauro scientifico mettendone, però, acutamente in luce i limiti e le
contraddizioni che coincidevano con quelli stessi del pensiero e della ricerca positivisticamente intesi; secondo Pica il
metodo, filologico più che scientifico è solo una teoria dei «danni minori» che «finisce, sì, per non contaminare il
monumento ma anche per trasporlo in una sorta di limbo che non è veramente suo e non è veramente nostro» una
teoria «da scrupoloso collezionista», per la quale «il monumento finisce per essere guardato e salvato e rimesso in
sesto più come una preziosa scheda per specialisti che come cosa viva».
Comunque, questi scrupoli sono tutt'altro che criticabili o privi di fondamento.

L'argomento, ripreso qualche anno dopo dallo stesso autore, con una visione allargata alla questione degli antichi
centri urbani, era stato affrontato nel 1944 da R. Pane, grande storico dell'architettura, che fornì il primo contributo di
generale ripensamento della materia sulla base d'una più solida concezione critica.
Gli enunciati di Pane sono di esemplare limpidezza: rilevata, nella Carta italiana del restauro (1931), un'imparzialità,
nei confronti di stratificazioni e trasformazioni che possano nel corso dei secoli aver modificato l'aspetto del
monumento, portata all’eccesso; sottolinea che è lecito rimuovere, contro le indicazioni prevalentemente conservative
del metodo filologico, aggiunte e trasformazioni prive di carattere artistico, le quali, pur testimoniando un trapasso
storico. offendono la figuratività del monumento; la loro valutazione e l'eventuale rimozione sono rimandate ad una
scelta e ad un giudizio critico. Alle esigenze documentarie si affiancano dunque, in posizione privilegiata, quelle della
qualità estetica.

A questo punto ci si domanda se ciò possa bastare o se, per caso, quando all'esigenza di liberare l'immagine da
aggiunte deturpanti si accompagni quella di ricucirla nelle sue eventuali lacerazioni, non sia necessario anche un
deciso impegno creativo. La risposta non può che essere affermativa poiché, come già osservava Pica, dietro
l'apparente neutralità del più semplice degli interventi si nasconde la necessità di risolvere un nodo figurativo che,
ignorato, può, anche nel più scrupoloso rispetto delle esigenze di conservazione portare malgrado tutto ad un risultato
negativo. Ecco il secondo postulato: il restauro è esso stesso opera d'arte, nella quale gusto e fantasia sono tesi a
fornisce una soluzione ai problemi.

Restauro come atto critico e restauro come atto creativo sono i due termini, dunque, di questa concezione che venne
ripresa e sistematizzata da R. Bonelli in numerosi scritti volti, da un lato, ad evidenziare i limiti delle precedenti
formulazioni, dall'altro a sottolineare l'ampia incidenza operativa del nuovo metodo, ideale riferimento valido anche in
un più esteso campo applicativo (dai monumenti all'ambiente urbano, dai problemi di semplice manutenzione a quelli
di recupero delle immagini più profondamente lacerate).
La critica al filologismo è pungente: “Il principio di conferire al monumento, o comunque all'edificio, il carattere di
autentica testimonianza di un passato storico, non è ormai più attuale. Anzitutto, ciò equivale ad operare una sezione
arbitraria nella concreta unità dell'opera, tentando di selezionarvi degli aspetti non isolabili”; e aggiunge “il criterio
filologico di porre come indispensabile l’autenticità dei corpi edilizi per ottenere la veridicità delle notizie che se ne
possono dedurre è un punto di vista che contraddistingue una determinata epoca ed una determinata cultura”, quella
permeata, appunto, di positivismo che vide nascere le teorie scientifiche del restauro e che, ormai, si rivela superata.

L'opera di revisione speculativa metodicamente compiuta da tali studiosi (a partire dalla metà degli anni ’40) è stata
intesa a trasferire, nel campo del restauro, le acquisizioni ormai consolidate sul piano estetico, critico e storiografico
del pensiero, neoidealistica e spiritualista, di Benedetto Croce. Da tale concezione estetica il restauro critico ha
mutuato, con un complesso ed originale lavoro d'elaborazione teorica, principi, metodi, criteri operativi e finanche
gran parte della terminologia (basti pensare al concetto di letteratura architettonica, introdotto al fine di precisare e
descrivere le qualità di tanta edilizia minore e di tanta parte del tessuto urbano che, pur non raggiungendo livelli d'arte,
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esprimono una loro esteticità diffusa), che hanno condotto a risultati di valore esemplare.
Entro la linea del restauro critico d'impronta idealistica s'è infatti mosso, pur con ampie e originali aperture verso la
fenomenologia e lo strutturalismo, il pensiero di C. Brandi.

Quali sono, riassumendo ed accostando le due linee di ricerca, i caratteri principali della concezione critica, così
rivisitata, del restauro?
- L'affermazione secondo la quale il restauro, lungi dall'essere una mera operazione empirica, trova il suo fondamento
nella storia e nella critica e, prima ancora, in una più generale apertura alla riflessione estetica
- Il restauro si definisce essenzialmente quale atto di cultura, discendendo, in primo luogo, da considerazioni critiche
ed estetiche e non da esigenze pratiche (che è proprio quanto la storia c'insegna)
- La prima operazione è quella che riconosce se l'opera presenti la qualità per essere conservata e trasmessa
- L'intervento conservativo è quindi motivato, come imperativo morale, dall'avvenuto riconoscimento
- Il restauro dovrà essere guidato e condizionato dalla valutazione dell'opera, ponendosi esso stesso come atto critico e,
s'è anche detto, creativo

Il puro interesse testimoniale è dichiarato inaccettabile perché un'opera architettonica non è solo un documento, ma è
soprattutto un atto che nella sua forma esprime totalmente un mondo spirituale; essa rappresenta per la nostra cultura il
grado più alto proprio per il suo valore artistico.

Per Bonelli, restauro come processo critico e restauro quale atto creativo sono dunque legati da un rapporto dialettico,
in cui il primo definisce le condizioni che l'altro deve adottare come proprie intime premesse.
Nel restauro critico, due diversi impulsi si contrappongono: quello di mantenere un atteggiamento di rispetto verso
l'opera in esame, e l'altro di assumere l'iniziativa e la responsabilità di un intervento diretto a modificare tale forma,
allo scopo di accrescere lo stesso valore del monumento attraverso la liberazione della sua vera forma o, nel caso di
profonde mutilazioni, attraverso un atto creativo.

Questo dunque il pensiero di Bonelli ed, in sintesi, i principi del restauro come atto critico e creativo; sono evidenti le
difficoltà concrete che investono una simile visione, ma più evidenti ancora le possibili obiezioni concettuali.
Obiezioni generali dei puri conservatori ed obiezioni più puntuali, attente allo spirito ma anche alla lettera degli
enunciati sopra esposti.
L'enunciato circa la «liberazione della... vera forma» è considerato antistorico (erroneamente: il concetto di “vera
forma” va inteso non come “forma originaria” ma come “forma compiuta”, che si è sviluppata nel tempo).

Molto stimolanti su questo tema saranno gli apporti di Paul Philippot, lo studioso che, meglio di ogni altro, ha
approfondito con originalità la linea del pensiero brandiano; la sua puntuale definizione del restauro come “ipotesi
critica”, non espressa verbalmente ma realizzata in atto, con il linguaggio stesso dell'opera da conservare, ha
costituito un importante progresso nelle formulazioni del restauro critico.

Su tutte le precedenti affermazioni il dibattito è aperto, specie guardo alle questioni di fondo, propriamente
concettuali, cui prima si accennava. A partire dalla metà degli anni ‘60 e con maggiore determinazione nel decennio
successivo, i principi del restauro critico sono stati da più parti avversati.
La crisi dell'estetica filosofica e, con essa, quella di ogni critica non empirica, hanno contribuito a svalutare qualunque
riferimento all'arte o all'artisticità degli oggetti di restauro, considerato incerto, mutevole, arbitrario, in una parola
fuorviante. Se la critica formula giudizi per loro natura provvisori e relativi, come potrà mai pretendere di servire da
guida al restauro il quale interviene concretamente sulla materia dell'opera, con alterazioni fisiche (rimozione delle
aggiunte, reintegrazione delle lacune, consolidamenti, trattamenti chimici ecc.) in gran parte irreversibili?
 Al giudizio estetico, ritenuto labile, soggettivo, e arbitrario, va sostituita la fiducia nelle certezze oggettive
dell'analisi e dell'intelligenza storica, con l'immediato corollario del rispetto assoluto di tutto ciò che ci perviene
dal passato, in quanto materiale d'esclusiva importanza testimoniale-documentaria, da tutelare rigorosamente nella
sua attuale consistenza fisica, quale possibile base di studi futuri  “restauro come integrale conservazione” e
convinzione che il restauro possa definirsi come scienza.

A questo genere di obiezioni, soltanto in parte accettabili (basti pensare alla pretesa oggettività della storia), si può
rispondere che nella sua formulazione più completa il restauro critico, il quale ha preso le mosse proprio dall'esigenza
di riconsiderare l'identità monumento documento, costituente uno dei punti di forza della teoria del restauro filologico
o scientifico, non esclude ma completa, in senso più profondo, le esigenze della conservazione.

Non propugna la sostituzione dell'antico col nuovo, ma riconosce la dialettica di critica e creatività insita nel restauro,
e afferma che la fantasia può intervenire nel caso che gli elementi rimasti non siano sufficienti a fornire la traccia per
restituire una o più parti mancanti dell'edificio, cosicché il restauratore si trovi a doverle sostituire con elementi nuovi,
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per ridare all'opera una propria unità e continuità formale giovandosi di una libera scelta creatrice.
 Ecco ricondotto l'intervento della «scelta creatrice» alla sola reintegrazione di «parti mancanti», di lacerazioni che
non è possibile ignorare.

Non postula come necessaria la rimozione delle stratificazioni (come le molteplici ridipinture di un quadro o le più
tarde fasi costruttive d'un manufatto architettonico) in vista del recupero di un'improbabile configurazione originaria
dell'oggetto, ma non esclude a priori tale possibilità.

Contempera ed accosta correttezza e qualità dell'intervento, nella convinzione che non possa sussistere l'una senza
l'altra e che, in ogni caso, l'appiattimento su semplici valori documentali di ciò che si riveli portatore di valori artistici,
sia un errore da evitare.

Pane, pur polemico con Bonelli, non trascura d'indagare le possibilità di un vitale rapporto fra antico e nuovo.
Affrontando i problemi del restauro di Santa Chiara a Napoli egli, fra l'altro, osserva come “la maggiore difficoltà non
consisterà nella sistemazione delle parti superstiti dei monumenti bensì nell'attribuire una forma estetica”.
“I vincoli del restauro imporranno i loro giusti e rigorosi limiti al gusto ed alla fantasia, ma saranno sempre e soltanto
questi ultimi a fornire una soddisfacente soluzione del problema”.

In questi ultimi anni altri orientamenti sono emersi nel campo del restauro; ma il quadro, nonostante tutto, si presenta
deludente, come si vedrà meglio in seguito (la dialettica delle due istanze tende sempre più ad appiattirsi su uno
soltanto dei due termini, quello della ragione storica o della volontà estetica).
In tale panorama le formulazioni del restauro critico, arricchite da decenni di continua feconda riflessione, smussate
nelle punte polemiche e aggiornate, con equilibrio, in chiave critico-conservativa, rappresentano ancora la più attuale e
completa proposta, teoreticamente solida e operativamente valida.

Il momento attuale, comunque, è assai difficile anche per irrompere nel campo della conservazione di forze
professionali e imprenditorie non sempre qualificate e mosse da intenti soprattutto speculativi; al tradizionale rischio
dell'abbandono e del disinteresse per il patrimonio culturale, dunque, si va oggi affiancando l'altro, assai più
pericoloso, d'un incontrollato eccesso d'attenzione nei suoi confronti.

Non possono, in ogni modo, essere trascurati quei problemi, legati al riconoscimento di valori non solo materiali ma
anche spirituali (estetici, simbolici, religiosi e via dicendo), di cui ogni monumento è significativo portatore.
Problemi individuanti quel di più che la concezione del restauro critico e, in modo più deciso, la cosiddetta
reintegrazione dell'immagine, hanno riconosciuto come fondamentale, anche se non esclusivo, polo di riferimento.

“Reintegrazione dell'immagine” s'è detto, quindi superamento del puro intento di conservazione materiale dell'opera; o
più precisamente, estensione dell'intervento a tutta quella serie di operazioni che, senza modificare direttamente la
realtà fisica dell'oggetto, incidono però su quella figurativa, ricadendo con ciò a pieno titolo nel campo del restauro.
Si tratta di una concezione che muove dalle acquisizioni del restauro critico, nel quale si riconosce, pur configurandosi
come sua particolare declinazione, attenta comunque agli aspetti creativi, aperta alle questioni di reintegrazione delle
lacune ed, ugualmente, a quelle di rimozione delle aggiunte (pur nel pieno rispetto del enunciate brandiano che
considera queste ultime come eccezionali).
Infatti, mentre non propugna di certo il ripristino o la sostituzione dell'antico con il nuovo, indaga senza preclusioni la
possibilità di affrontare il restauro in chiave progettuale; soprattutto, si pone come ausilio al superamento di casi
altrimenti insolubili, per i quali i soli strumenti della manutenzione e della conservazione si rivelano insufficienti. Il
tutto avendo ben chiaro che si tratta, in primo luogo, di agire al “contorno”, e poi, dopo averne salvaguardato la
sostanza antica, di operare preferibilmente tramite un'aggiunta che non una sottrazione di “materia”, in una prospettiva
critico-conservativa.

A tale linea di ricerca sono riconducibili anche interessanti esperienze di reintegrazione “virtuale” come quella tentata
nella chiesa di Donnaregina Nuova in Napoli (Soprintendenza Generale di Collegamento, arch. K. Martines).
Ad un artista moderno, il pittore Emilio Farina, è stato affidato il compito di studiare diverse varianti per la
restituzione dei quattro Evangelisti di Agostino Beltrano (1655) già dipinti sui pennacchi della cupola ed attualmente
perduti; si tratta di risarcire una lacuna d’immagine che compromette il godimento di tutta la chiesa.
 I diversi studi pittorici prevedono vari gradi di approssimazione (si va dai bozzetti iconograficamente descrittivi
ispirati ad opere analoghe dello stesso Beltrano, ad altri più astratti, tendenti a riproporre non tanto i volumi quanto
i campi cromatici). Il tutto è trasferito su diapositive, dopo un trattamento al computer per adattare le immagini alle
superfici curve dei pennacchi, è proiettato sui pennacchi stessi che funzioneranno da schermo.
È una soluzione d'immediata reversibilità che non tocca l'antico e che consente, inoltre, il confronto di opzioni diverse,
quindi un pubblico giudizio.
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3.LA TEORIA DI CESARE BRANDI

Negli enunciati in precedenza discussi, a proposito del restauro come “atto di cultura” e del suo fondamento teorico,
nonché nella sostanza delle affermazioni del restauro critico, si riconoscono elementi propri della riflessione di Cesare
Brandi (1906-88). Essa manifesta un implicito debito nei confronti del contributo sistematizzante e rigorosamente
teoretico di A. Riegl, oltre che degli apporti della personale esperienza critica dell'autore e delle sue speculazioni
filosofiche ed estetiche, ricche di riferimenti all'idealismo, alla fenomenologia ed allo strutturalismo.

Per vari decenni ed in specie dalla fondazione dell'Istituto Centrale del Restauro, Cesare Brandi, insieme alle ricerche
condotte in campo estetico, critico ed alle esperienze tentate nell'Istituto stesso, ha perseguito il disegno di un'ampia e
sistematica enunciazione filosofica del problema del restauro, traducibile tanto in una generale teoria quanto in solidi
principi operativi.

Basta ricordare il nucleo generatore del suo procedimento che, muovendo dalla definizione di «restauro come restauro
dell'opera d'arte», vede nel riconoscimento di quest'ultima come tale (quindi in un atto critico legato ad un'estetica, ma
non ad un'estetica particolare e privilegiata, bensì solo ad una concezione che accetti l'arte nell'economia della
coscienza umana) il primo atto di restauro, volto anche alla ricostituzione del testo autentico dell'opera, identificando
poi, in un secondo momento, l'intervento sulla materia di cui risulta composta l'opera.

L'opera d'arte, in quanto tale (ossia per il fatto basilare dell'artisticità e come prodotto o testimonianza dell'agire
umano in un certo tempo e luogo), pone la fondamentale duplice istanza secondo la quale strutturarsi: la storica e
l'estetica, ciascuna delle quali può, ai fini del restauro, reclamare esigenze proprie, diverse e contraddittorie, di pura
conservazione da un lato, profondamente reintegrative dall'altro.

Entro la più ampia trattazione brandiana, si possono rilevare tre fondamentali proposizioni:
1. Il “restauro” è un atto critico, una pratica riservata a quello speciale prodotto dell'attività umana a cui si dà il nome
di opera d'arte (che è definita opera d’arte solo dopo essere stata riconosciuta come tale), volto alla ricostituzione
del testo autentico dell'opera (in vista della sua trasmissione al futuro), attento al «giudizio di valore» (necessario a
superare, di fronte allo specifico problema delle aggiunte, l'opposizione delle due istanze, la storica e l'estetica)
2. Trattando di opere d'arte, il restauro non può non privilegiare l'istanza estetica («che corrisponde al fatto basilare
dell'artisticità per cui l'opera è opera d'arte»  la singolarità dell’opera sta proprio nella sua artisticità) a dispetto
di quella storica (l’opera d’arte è un prodotto umano attuato in un certo tempo).
3. L’opera d'arte è intesa nella sua più ampia totalità (come immagine e come consistenza materiale , risolvendo in
quest'ultima «anche altri elementi intermedi tra l'opera e il riguardante») e, di conseguenza, il restauro è
considerato come intervento sulla materia ma anche come salvaguardia delle condizioni ambientali che assicurino
il miglior godimento dell'oggetto e, ove necessario, come risoluzione del raccordo fra lo spazio fisico, nel quale
sia l'osservatore che l'opera stessa si collocano, e la spazialità propria dell'opera.

“Risarcimento” o “restituzione in pristino” (non restauro): qualsiasi inter vento volto a rimettere in efficienza un
prodotto dell'attività umana con lo scopo di ristabilire la funzionalità del prodotto.

In questo senso ci sembra che, come si accennava in apertura, pur nel rigore e nell'originalità dell'impostazione, la
Teoria non si ponga in contrasto con le acquisizioni del restauro critico ma ne risolva le indicazioni in un quadro
ampio e sistematico, accogliendone molti aspetti qualificanti e innovatori (in particolare, la prevalenza accordata
all'istanza estetica), insieme a numerose obiezioni mosse alle consolidate certezze del restauro filologico.

Volendo risalire ai precedenti di C. Brandi, nel campo della speculazione teoretica propriamente di restauro potremmo
forse riconoscere, accanto Riegl, qualche debito nei confronti di Quatremère-de-Quincy per gli accenni di museologia,
mentre Viollet-le-Duc e Ruskin non sono mai citati nella Teoria, come anche Boito e Giovannoni o, ugualmente, i
pensatori più antichi (Crespi o Algarotti).
Se colpisce l'assenza di riferimenti agli sviluppi concettuali del restauro architettonico, meglio si spiega quella
concernente il restauro pittorico che nello stesso periodo, non produsse contributi di particolare rilievo o novità.

In tal senso sembra corretto porre, quale momento di nascita d'una riflessione totalmente nuova, l'anno 1939 che vide
la fondazione dell'Istituto Centrale del Restauro e, da allora, un crescente diretto impegno di molti qualificati studiosi
e dello stesso Brandi.

Brandi ricerca i caposaldi su cui fondare la sua teoria in altra sede e fuori del campo proprio della conservazione, del
suo ambio speculativo, della sua tormentata vicenda storica; preferisce rifarsi, per via di principio e deduttiva,
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direttamente all'estetica ed alla filosofia dell'arte, da lui indagate parallelamente al restauro.


Su queste basi, con grande distacco e con sovrana indifferenza rispetto al contemporanco dibattito specialistico,
costruisce dalle fondamenta la sua teoria, riproponendosi le principali domande di sempre in materia di restauro: che
cosa è restauro, qual è il suo rapporto con l'opera d'arte, che cosa è opera d'arte e come noi la consideriamo in
relazione al restauro, se il restauro possa interessarsi di ciò che arte non è e via dicendo.
Da qui gli 'assiomi' e i 'corollari', tutti conseguenti e dettati da una logica rigorosa, nella quale si è creduto
recentemente di trovare facili varchi operando critiche le quali, spesso, non sono altro che petizioni di principio o veri
e propri fraintendimenti.

Si riconosce, nella lunga ed appassionata ricerca condotta dallo studioso senese, con l'apporto, di volta in volta, dei
nuovi contributi filosofici (muovendo, secondo un'ascendenza sempre kantiana, dall'idealismo e dallo spiritualismo
crociano verso la fenomenologia di E. Husserl prima, lo strutturalismo ed anche l'esistenzialismo di J. P. Sartre poi,
senza escludere, infine, M. Heidegger), degli esiti della sua militanza in campo critico e della personale capacita di
ricondurre ogni esperienza o stimolo all'unità di una proposta coerente, un corpus di riflessioni poderoso, solo in parte
raccolto nella Teoria del restauro, ma costituito da una miriade di scritti, fra i quali alcuni, di notevole importanza,
apparsi proprio sul «Bollettino dell'Istituto Centrale del Restauro».

La direzione dell'ICR, dalla sua fondazione al 1960, ha consentito a Brandi una straordinaria esperienza di verifica
degli assunti teorici in una prassi, sempre di altissimo livello e cosciente dei propri riferimenti di metodo, per la quale
ebbe l'aiuto di allievi come Giovanni Urbani, Licia Vlad Borrelli o Laura e Paolo Mora, restauratori e docenti, a loro
volta maestri di generazioni di più giovani operatori e studiosi nel campo del restauro.

Il problema, oggi, è semmai un altro, quello di estendere la sperimentazione, contenuta dall'ICR di preferenza nel
campo della pittura e della scultura, ad altri ambiti ed in specie all'architettura, con l'intento di ampliarne e rinnovarne
metodi ed applicazioni, ma anche di elevare la qualità media dei restauri, oggi per lo più insoddisfacente
In questo senso la saldatura, per molti versi possibile, della teoria brandiana col pensiero del “restauro critico” (Pane,
Pica, Papini, Ragghianti ed, in specie, Bonelli, non a caso coautore - insieme con Brandi ed altri - della voce Restauro
nell'Enciclopedia Universale dell'Arte) apre in effetti nuove prospettive di sviluppo.

Personalmente siamo convinti che la linea più corretta e più consona alla difesa del patrimonio culturale sia quella
critica-brandiana, purché si tenga presente che l'avvenuta estensione del concetto stesso di bene culturale, insieme con
il rapido consumo in alto d'ogni reliquia materiale del passato, ha fatto emergere la necessità d'una tutela diffusa e lo
speciale impegno richiesto a difesa delle documentazioni storico-testimoniali in quanto tali.

4. IL PENSIERO DI PAUL PHILIPPOT E ALTRI CONTRIBUTI EUROPEI

Paul Philippot, studioso belga, finissimo storico dell'arte e teorico del restauro, ora professore universitario a Bruxelles
ma per lunghi anni attivo a Roma come vice-direttore e poi direttore dell'ICCROM (Il centro internazionale di studi
per la conservazione e il restauro dei beni culturali promosso dall'UNESCO), fu idealmente allievo di Cesare Brandi e
di Paul Coreman (fondatori e direttori negli anni della sua formazione dell'Istituto Centrale del Restauro (ICR) a Roma
l'Institut royal du Patrimoine artistique (IRPA) a Bruxelles).
Egli si è sempre rifiutato di ridurre il restauro al suo substrato tecnico-scientifico, affermando che la conservazione
presenta innanzitutto un carattere culturale, insieme storico ed estetico, e che essa non potrebbe mai ridursi ad una
semplice opera di manutenzione; ha inoltre rilevato il pericolo insito nella convinzione che l'impiego di metodi nuovi
costituisse di per sé una garanzia di successo.
Dal punto di vista operativo ha costantemente professato l'idea d'una vera cooperazione interdisciplinare fra lo storico
dell'arte, il restauratore ed il ricercatore di laboratorio, con pari dignità per ognuno di essi.

La sua attività per l'ICCROM lo ha portato a curare molteplici aspetti del restauro: dalla formazione dei restauratori
all'organizzazione di sistemi di catalogazione e documentazione dei lavori compiuti, dalla ricerca di base all'assistenza
specialistica a progetti locali, con speciale attenzione ai paesi extraeuropei, come il Giappone, che come altri paesi
dell’Estremo Oriente è caratterizzato da una attitudine secondo la quale un'opera d'arte degna di questo nome deve
dare l'impressione di essere nuova, che porta a rinnovare spesso i monumenti e al rifiuto dell’apprezzamento per le
trace lasciate dal tempo trascorso sulle antiche opere.
 Si tratta di un problema solo apparentemente lontano da noi ma in effetti peculiare anche dell'antichità romana e
mediterranea oltre che, in genere, delle civiltà legate ad una concezione circolare e non il lineare del tempo; già
Riegl, poi, ne aveva già parlato, sottolineando la presenza, nel campo del restauro, di tendenza al ripristino ed di
forme estremo di manutenzione, tanto più subdole quanto più fondate proprio sulla capacità artigianale di
assimilare e ripetere le tecniche tradizionali.
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Fautore dell'attento giudizio caso per caso ed alieno da ogni dogmatismo o generalizzazione, Philippot fa discendere le
sue proposte di restauro dalla natura stessa delle opere da conservare.

Accanto ai suoi contributi sul restauro pittorico rivestono una speciale importanza quelli sulle sculture policrome
(troppo spesso trattate come forme d'arte minore); egli ha osservato soprattutto che il problema delle lacune non si
poneva in maniera uguale per le sculture policrome e per i dipinti:
- Nel primo caso, la lacuna resta in effetti «relativa», nella misura in cui la forma stessa della scultura si conserva
- Nel secondo caso essa oblitera necessariamente la lettura dell'immagine

Philippot ha riservato una speciale attenzione al problema del restauro delle facciate dipinte; anche qui la sua
preoccupazione è stata quella di far emergere sopra un terreno, in apparenza, pratico, gli aspetti di riflessione teoretica
e le conseguenti implicazioni di metodo ed applicative.
Egli si oppose sempre, come voce quasi isolata, alla crescente pratica del ripristino e tentò di ricondurre il dibattito ai
principi generali e di maggior rispetto espressi dalla Carta di Venezia (1964), di cui era stato uno dei coautori.

Philippot sul tema del trattamento del colore e dell'alterazione d'immagine delle città storiche, in specie di Roma, è
stato molto chiaro e severo; ciononostante il suo messaggio è stato ed è ancora oggi dai più ignorato, anche se
qualcosa incomincia finalmente a muoversi.
«Da una ventina d'anni l'immagine di Roma, come di tante altre città, è andata degradandosi sempre più rapidamente»;
rinnovamenti e restauri delle facciate sono condotti «manifestamente senza un approccio critico al problema, come se
il colore fosse una semplice veste decorativa, formalmente indipendente dalla struttura architettonica».
 Gli errori che si riscontrano alla base di tutto ciò sono di natura storico-critica, in primo luogo, tecnica poi e
coinvolgono non soltanto gli operatori generici ma anche gli specialisti (comprese le soprintendenze).
La proposta dello studioso belga è che, senza sottovalutare le ricerche che s'impongono nelle fonti letterarie e
d'archivio, l'esame diretto dei monumenti costituisca il fattore determinante per un approccio corretto.

Nell'ambito prettamente speculativo e teoretico in parte diverso da quello brandiano è il pensiero di questo autore che
si pone, fin dai suoi primi contributi in materia, in posizione di attenta e costruttiva critica riguardo agli enunciati del
di Brandi.
 Di fronte alle sue indeterminate e quasi sfuggenti possibilità di contemperamento delle due istanze, tende a
risolvere l’inevitabile conflitto tra le due istanze nel momento del restauro. Le soluzioni sono due: o si lascia
l'opera come si trova (e allora si rispetta la storia) oppure si interviene (e allora sarà l'estetica a prevalere); ma le
componenti del gusto intervengono necessariamente nel restauro, e quindi è inutile tentare soluzioni di
compromesso, anche la ragione d'essere dell'opera è l'estetica, non la storicità  l’attualizzazione estetica è l'unica
prospettiva del restauro.

Sua è la migliore definizione del restauro come “ipotesi critica” (cioè come una proposizione sempre modificabile se
sarà necessario, senza alterazione all’originale  reversibilità + distinguibilità), non espressa verbalmente ma in atto,
realizzata con il linguaggio medesimo dell'oggetto dell'intervento. In quanto atto critico esso è volto alla restituzione
del testo autentico dell'opera ed, accanto alla sua conservazione e trasmissione al futuro, a facilitarne la lettura , non
diversamente da una vera e propria edizione critica d'un testo letterario.

Nel rispetto della dialettica fra esteticità e storicità dell'opera, quest'ultima dovrà essere intesa comunque nella sua più
ampia totalità (come immagine e come consistenza materiale); di conseguenza, il restauro è considerato quale
intervento sulla materia ma anche quale salvaguardia delle condizioni ambientali che assicurino il miglior godimento
dell'opera e, dove necessario, come risoluzione del raccordo fra lo spazio fisico, nel quale sia l'osservatore che l'opera
stessa si collocano, e la spazialità propria dell'opera, accostandosi così, com'è giusto che sia, alla museografia e
restando in linea col pensiero brandiano.

D'altra parte questa attenzione all'opera nel suo ambiente, all'opera come “arte totale” (giudicata e apprezzata
nell'unità intrinseca di pittura, scultura e architettura) lo porta ad esprimersi contro frettolosi interventi di strappo e
spostamento, ad esempio, delle pitture murali, attuati per salvaguardare la semplice immagine isolata dal suo contesto
ed alterata nelle sue originali condizioni di visibilità.
 Si tratta non di proposizioni astrattamente teoriche ma ricchissime di conseguenze pratiche ed applicative,
includenti in sé anche l'antico criterio del minimo intervento.

Nella questione del trattamento delle lacune, Philippot mostra una predilezione favorevole al completamento e al
ripristino, che risulta del tutto naturale in una società tradizionale e può, in linea di principio, essere concepibile
ancora oggi, purché si parli di manutenzione o di riparazione ma non di restauro.
Bisogna invece chiaramente ribadire che quest'ultimo implica, nel suo stesso concetto, una presa di distanza storica nei
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confronti della tradizione, che rende impossibile la continuazione spontanea dei suoi procedimenti creativi, e non
permette altro che concepire un intervento sull'opera del passato quale opera unica ed irriproducibile, sia in quanto
documento storico che in quanto espressione artistica.

Contro gli eccessi del purismo conservativo, che conduce al rifiuto radicale di ogni forma d'intervento sulle lacune,
egli osserva che si tratta ugualmente d'un errore, quello di chi rifiuta a priori e per principio di considerare l'opera
d'arte in ciò che costituisce la sua stessa essenza e il fondamento del suo restauro, cioè la sua realtà estetica, il cui
godimento è indissociabile dalla presentazione dell'opera- che quindi non può essere lacunosa, perché, come dice
Brandi, la lacuna fa regredire l’immagine a sfondo.
Ridurre questo disturbo per rendere all'immagine il massimo di presenza che essa è ancora suscettibile di realizzare,
rispettando tuttavia la sua autenticità di creazione e di documento storico, è il vero problema critico della
reintegrazione delle lacune  obbiettivo: ristabilimento della “continuità formale” (intervento che comunque, per il
rispetto dell’autenticità, dovrà sempre potersi distinguere dall’originale).

Philippot si esprime con grande autonomia ed originalità circa il problema delle patine, delle puliture e del restauro
visto come “ricerca dell’equilibrio”.
Affermato che è impossibile ristabilire l'opera nel suo stato originale, e al massimo si può rivelare lo stato attuale della
materia originale, dà la definizione di “patina” come di “un concetto critico e non meramente fisico”.

Philippot ha chiara coscienza, trattando di lacune e reintegrazioni, della necessità, specie in architettura, di un'azione
ri-creativa oltre il restauro; egli, dopo aver notato che la lacuna, appare come un'interruzione della continuità della
forma artistica e del suo ritmo, osserva che, restando pienamente valide le due esigenze fondamentali del trattamento
reintegrativo delle lacune da un lato e della loro immediata riconoscibilità dall'altro, il campo d'azione si potrà
ampliare fino al punto in cui l'intervento diventerà ipotetico, o così esteso che solo una creazione moderna eviterebbe
una falsificazione. Per questa integrazione così creativa e moderna le vecchie parti costituiranno l'elemento basilare
del problema, essendo lo scopo il raggiungimento dell'unità complessiva, e sarà quindi necessario un tipo speciale di
studio della vecchia costruzione, del suo contesto, e di tutto il centro storico, secondo la necessità, per stabilire il ritmo
irregolare delle strutture sottostanti il vecchio complesso, ed adeguare lo schema della creazione moderna a tali
modelli e materiali originari.

Un'occasione di più generale ripensamento, sempre da parte di studiosi francofoni, è stato il colloquio, organizzato
dalla sezione francese dell'ICOMOS, a Parigi nel 1976. I lavori del convegno sono stati dedicati all'esame di tre
ordini distinti di problemi (teorici, generali e specifici).

Michel Parent esprimeva un certo fastidio per la opacità del sistema di restauro razionalista (per noi scientifico e
filologico) adatto piuttosto a temi d'archeologia che di architettura vivente. La sua intera argomentazione prendeva le
mosse da una serrata critica alla Carta di Venezia ed ai limiti che essa impone.

Jean-Pierre Babelon vede il rischio di una storicizzazione come mummificazione dei monumenti e, di conseguenza,
un contrasto oggettivo fra le esigenze e competenze degli architetti e quelle degli archeologi e degli storici.

Il grande storico dell'arte André Chastel rifiuta insieme i rigori d'una teoria che non sia intesa come amplissima legge-
quadro e le ristrettezze dell'empirismo tradizionale; egli fa invece opportunamente riferimento al giudizio di valore che
deve impegnare ogni processo di restauro.
Conduce poi un breve excursus sull'eredità di una concezione ancora stilistica che ha improntato di sé l'organizzazione
dei Monumenti Storici in Francia: essenzialmente la dottrina del “monumento-tipo” e delle “opere secondarie” (delle
quali si può accettare la perdita, perché ripetitive); l'autore, quindi, svolge osservazioni sul valore di simbolo acquisito
da certi monumenti (con il conseguente imperativo della restituzione integrale o, al contrario, dell'assenza totale
d'intervento) e sulla teoria di A. Riegl, che aprì la strada alla concreta applicazione del criterio del minimo intervento.
Lo studioso conclude affermando che più dell'autenticità stessa è importante riuscire a conservare il carattere delle
strutture e che, dunque, un restauro soddisfacente suppone un’interpretazione dell'opera. Si rifiuta quindi ogni
atteggiamento meccanico in favore della sapienza e sensibilità del restauratore.

Jean Taralon affronta l'interessante questione di definire se, e in quale misura, lo sviluppo delle tecniche abbia
concorso all'evoluzione delle teorie del restauro. Ne consegue, quale corollario, la domanda se la ricerca scientifica
possa contribuire a far meglio rispettare, con interventi sempre più appropriati, le direttive sulla conservazione.
- Sul secondo problema si potrebbe essere subito tutti d'accordo.
- Circa il primo la risposta è più incerta: dato che lo stesso identico grado d'evoluzione tecnica ha prodotto teorie
radicalmente opposte fra loro, sostenere che, ad esempio, il restauro stilistico di Viollet-le-Duc è dato in funzione
della sua nuova capacità di costruire secondo le tecniche originali e antiche, accuratamente riscoperte, è puro
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determinismo di stampo positivistico; sussiste di certo un legame ma non nei termini d'un rapporto di causa-effetto.

Un altro problema affrontato è la distinzione di conservazione e restauro affermata nella Carta di Venezia, che l'autore
correttamente critica.
Per Taralon l'opinione che vorrebbe la conservazione come puro intervento scientifico-tecnico ed il restauro come
intervento esteticamente intenzionato non è sostenibile, perché si danno frequentissimi casi d'interventi tecnici e
conservativi che influiscono sull'aspetto dell'opera (implicando in tal modo già delle inevitabili scelte estetiche e
quindi di restauro in senso stretto).

Altri autori mostrano un atteggiamento fortemente empirico che li conduce a porre sullo stesso piano ed a confondere
esigenze culturali e pratiche, igieniche, economiche e finanziari.
- Yves-Marie Froidevaux, quasi involontariamente, giunge ad affermare l'esatto contrario del principio brandiano: è
lecito ricostruire proprio se si tratta di un'opera d'arte, perché in tal caso le ragioni archeologiche passano in secondo
piano.
- Yves Boiret, ricco di una vasta esperienza operativa, preferisce raccomandare criteri basati sul buon senso e
rammentare sempre l'importanza dell'uso del monumento.
- Francois Enaud, trattando di pitture murali, richiama il pericolo dell'intellettualismo che rischia di cadere nella
secchezza e nella facilità di chi rifiuta, in odio agli eccessi restaurativi del secolo scorso, ogni apporto creativo anche
se criticamente inteso.

Quale ultimo, significativo contributo di questa breve sintesi del pensiero francese in materia, proponiamo il tema
della “leggibilità” degli interventi di restauro affrontato da Bertrand Monnet.
La questione se sia più opportuno evidenziarli o invece tentare di mimetizzarli è considerata alla luce dell'opposizione
fra esigenze estetiche ed esigenze storiche: queste ultime vorrebbero la piena riconoscibilità di ogni intervento ed il
rispetto della più assoluta onestà documentaria ed autenticità, la prima tenderebbe invece a conseguire una forma
compiuta ed elegantemente risolta. Non si coglie la dialettica fra le due istanze fondamentali né la possibilità d'una
successiva sintesi; esse sono staticamente contrapposte e neanche concettualmente esplicitate.
Si nota la mancanza di un sistema teorico di riferimento ma, al contrario, il contributo d'una sicura esperienza pratica
porta a numerosi efficaci suggerimenti (ad esempio, l'estensione del concetto di leggibilità al di là della materiale
consistenza del monumento: leggibilità è anche documentazione sul posto, pubblicazione dei risultati scientifici ecc.).

Negli autori menzionati prevale un'incertezza concettuale e teoretica, spesso compensata da una grande esperienza
operativa  espressioni di buon senso e di esperienza più che di reale dottrina.
Risulta assente, infine, una vera attenzione al confronto con gli studi e gli approfondimenti in materia svolti all'estero ,
specie in Italia.

Nel 1985, quasi un decennio dopo, Jean-Pierre Bady riassumeva le linee dottrinarie del restauro francese
contemporaneo riconoscendovi questi principi:
- L'obiettivo in generale perseguito è rappresentato dalla conservazione di un’opera , vale a dire dal mantenimento di
essa nello stato in cui ci è pervenuta; se il restauro è necessario, si domanderanno agli architetti dei monumenti
storici restituzioni scrupolose e discrete, che escludano ogni estrapolazione architettonica, e rispettino i segni della
storia sul monumento.
- Non è più ammesso che, in nome dell'unità di stile e dell'armonia d'insieme, gli architetti possano scegliere un'epoca
di riferimento privilegiata.
- Il restauro dei monumenti storici fa appello ai procedimenti più moderni senza ricorrere come una volta allo
smontaggio degli elementi antichi.
- L'arte moderna non è assente dal restauro, ma la sua compatibilità con l'architettura antica pone talvolta problemi.
- Contrariamente alla pratica di certi paesi stranieri, i restauri francesi si sforzano di passare inosservati (i materiali
sono scelti per fondersi con quelli dell'edificio). Dopo il restauro, una cura particolare è accordata alla manutenzione
dell'edificio o dell'oggetto.

Bruno Foucart, facendo espresso riferimento al menzionato Colloque parigino, considera il 1976 come un periodo
ormai lontano e chiuso, ultimo limite di un concetto di restauro “purista” ed “archeologico”, che ha fatto
inesorabilmente il suo tempo. Ritiene quindi che il restauro si trova in una fase di transizione, in cui il restauro sembra
tendersi verso l’eclettismo.

Se ancora nel 1951 Paul Léon, scrivendo La vie des monuments francais, respirava, pur convinto del contrario, la
stessa aria del XIX secolo, semplicemente un po' più pura e condizionata, oggi l'atteggiamento è profondamente
cambiato: la parola d'ordine è nella curiosità estensiva, nella comprensione indulgente, nella prudenza dei giudizi di
valore. Il tutto è complicato da un 'allargamento di gusto che induce a prendere in considerazione ed a tutelare un
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numero enorme e crescente di opere, configurando “una protezione di massa” che non potrà non imporre nuovi
approcci giuridici, finanziari e tecnici, di certo non più quelli molto selettivi dell'archeologismo.

La conclusione è che fra l'unità di stile e di tempo che fu il sogno del XIX secolo, fra la coscienza d'una temporalità
disintegrata di cui ogni momento reclamava l'esistenza, che fu il sogno del XX secolo, gli anni a venire cercano
un'altra strada: ella condurrà, sembra, a privilegiare l'epoca, anche tarda, nella quale il lavoro sull'edifico fu più forte.
Tutto ciò avrà conseguenze anche sui problemi di riuso dei monumenti e sulla stessa organizzazione dei servizi di
tutela, che dovranno accettare un inevitabile decentramento.
 Si tratta d'un contributo decisamente singolare e interessante, nel quale convergono però intuizioni diverse non
ricondotte ad unità (pulsioni creative nelle prime affermazioni circa il restauro come arte, accenni al peculiare
storicismo post-moderno, spinte finali verso posizioni tendenti alla conservazione, nell'accenno alla prudenza da
esercitare nel giudizio di valore), che non sono novità ma argomenti già affrontati all’estero, soprattutto in Italia
(forse non per merito ma per necessità, dato il grandioso patrimonio artistico italiano).

5. L'UNITÀ DI METODOLOGIA NELLA RIFLESSIONE DI UMBERTO BALDINI

Già Soprintendente dell'Opificio delle Pietre Dure e Laboratori di restauro, a Firenze, poi Direttore dell'Istituto
Centrale del Restauro in Roma, titolare di corsi universitari di storia, teoria e tecnica del restauro, Umberto Baldini si
occupa da più d'un quarantennio di conservazione delle opere d'arte. Ha organizzato mostre rimaste memorabili (es.
quella del 1972 intitolata “Firenze restaura”, per i quarant'anni di attività del Laboratorio fiorentino)
La sua frequentazione dei laboratori e il contatto diretto con gli operatori lo hanno portato a padroneggiare gli aspetti
tecnici del restauro, ma sempre inquadrati entro più generali considerazioni critiche e teoriche.

La sua riflessione propriamente di metodo ha trovato però la sua organica formulazione nei due volumi di Teoria del
restauro e unità di metodologia (1987-1981). pubblicati nel 1978 e nel 1981.

Costante è nella riflessione di Baldini il richiamo al restauro come atto critico, fondato sulla profonda comprensione e
conoscenza dell'opera (atto di filologia), sulla volontà di conservazione (osservazione dell'opera – mantenimento delle
aggiunte successive all’originale, no rimozioni), ma anche sulla necessità che questo atto (che dovrà sempre
rappresentare un'espressione del terzo tempo dell'opera, il momento presente, e non un atto retrospettivo) sappia
tutelare la piena figuratività dell’opera ( prevalenza al dato figurativo, pur nella massimo attenzione alla materia).

Se la sua polemica è quindi dura contro ripristinatori e falsificatori di qualsiasi tipo, lo è anche contro il rigorismo
fittizio di molto restauro sedicente scientifico-filologico.

In ciò si nota, pur senza espliciti riferimenti (anche perché, sebbene teorizzi di fatto, Baldini rifugge da ogni
astrattezza e genericità) una sua convergenza, più che adesione, sui principi del restauro critico e, pur con differenze e
critiche, su quelli esposti e discussi da Brandi e Philippot.
- Diverso è il linguaggio di riferimento, mutuato dalla psicanalisi freudiana piuttosto che dall'estetica filosofica
- Diverse le peculiari proposte operative (come l'astrazione della materia, la selezione cromatica ecc.)
- Differenti le aperture nei confronti dell'impiego di calchi e copie o del trasporto delle opere d'arte nei musei
- Diverso anche il concetto di “falso”, ma uguali la sostanza del pensiero e l'atteggiamento di fondo

Un'ultima considerazione riguarda la sicura attenzione “creativa” riservata al compimento dell'opera di restauro, con le
necessarie aggiunte ed integrazioni (mai falsificanti) utili a restituire le condizioni di godibilità, l'inquadramento
spaziale, il giusto rapporto fra le parti di un'opera complessa; da qui l'attenzione ad evitare che, nel cuore
dell'immagine stessa, le lacune emergano come elementi visivi di disturbo.
Le soluzioni proposte non sono, per Baldini, qualcosa di destinato a giacere su un piano diverso da quello del dipinto
né devono essere tali da potersi riconoscere come moderne da vicino e da confondersi se osservate da lontano; queste
sono ipotesi inaccettabili ed in certo modo offensive per l'eros dell'opera.
 Il restauro deve entrare nell'opera ed interagire visivamente con essa (non fisicamente , dato che si postula il
rispetto totale della parte antica) a pieno titolo.

Molteplici sono i riferimenti ai problemi dell'architettura, con osservazioni puntuali e spesso pungenti nei riguardi
degli eccessi archeologici e rigoristici di certi restauri (come quello di sistemazione dei ruderi romani antistanti la
cattedrale di San Giusto a Trieste); Baldini crede di notare una sostanziale differenza fra l'architettura, arte di
traduzione (dal disegno dell'artista alla mano dell'esecutore) e, ad esempio, la pittura, opera per lo più autografa.
Da qui la presunta riproducibilità, ogni volta che serva, del pezzo architettonico, mai autografo nel senso stretto del
termine; quindi il consenso ad una continua manutenzione-innovazione che potrà finire con l'aver sostituito tutta la
materia antica lasciandoci però, non il rudere, ma una vivente memoria dell'opera perduta.
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 Ragionamenti di questo tipo potranno forse valere per il disegno meccanico, quello relativo ai prodotti industriali,
ma non sono pertinenti al campo dell'edilizia, specie se tradizionale (la progettazione e l’invenzione continuano,
giorno dopo giorno, in cantiere).
L'opera d'arte è tale in quanto concretamente eseguita e non solo immaginata.

Il ragionamento può condursi anche secondo valutazioni d'ordine storico, ricordando che i segni della lavorazione, il
tipo di pietra, le tracce stesse dell'invecchiamento sono documenti anch'essi, di cultura materiale o delle vicende che
hanno interessato nel tempo l'edifico, meritevoli di tutela.

Il contrasto con Baldini emerge ancora più chiaro quando egli, invocando questa sorta di manutenzione sostitutiva,
afferma che in tal modo, pur senza pretendere di fermare il degrado, espressione dell'ordine naturale delle cose, si
possa mantenere il più a lungo possibile il cuore dell'opera' non si può che essere d'accordo sul fatto che il degrado
non si potrà mai fermare definitivamente ma solo rallentare, ma è più difficile accettare la sostituzione materiale, il re-
intervento sul primo tempo come capace di conservare realmente l'opera. La sua morte, invece che rimandata grazie
alla manutenzione, è solo addolcita da un'anticipata eutanasia,

In ogni opera d'arte si possono registrare almeno altri tre atti:


1. Il primo è quello della sua realizzazione da parte dell'artista
2. Il secondo è quello dell'azione su di essa del tempo
3. Il terzo è quello dell'azione dell'uomo, che può esplicarsi in due azioni primarie: 1) riparando l'azione
degeneratrice o comunque modificatrice del tempo; 2) modificando la realtà del primo atto e talvolta anche quella
del secondo, riproponendola in un nuovo contesto

La manutenzione o conservazione, pur essendo azione dell'uomo, assume il peso e il valore di atto secondo, mentre il
valore dell'atto terzo è assunto in toto soltanto dal restauro vero e proprio
Il lavoro di restauro, in quanto atto terzo di natura critica, si dovrà affidare ad un atto di metodo, che escluda sia
l'imitazione che la competizione, un atto che potremmo chiamare di astrazione della materia esistente (come
effettivamente si vede, nella pratica, nel restauro del danneggiatissimo Crocifisso di Cimabue).
 L'opera è una, immodificabile e non può essere rivestita di panni diversi secondo le esigenze della moda e del
nostro piacere; ciò non significa che l'opera è immutabile, proprio per il suo esistere, con noi, nel tempo-vita.
L'immodificabilità è un'altra cosa, e sta nella intangibilità dei dati di cui l'opera è originalmente formata e che non
dobbiamo né possiamo in nessun caso e a nostro arbitrio o piacimento minimamente alterare.

Altre riflessioni sul restauro sono legate:


- All’impossibilità, per noi oggi, di osservare un'opera d'arte tale quale uscì dalla bottega del pittore
- All'errore di confidare nel fatto che un intervento di restauro possa essere sostenuto solo da un'azione esclusivamente
meccanica
- Al diritto dell'atto terzo di accadere anche al di fuori della mera dimensione formale e materica dell'opera , perché atto
critico di inserimento, di rilegatura con lo spazio e con il luogo

Dopo aver affrontato la questione soprattutto dal punto di vista del tempo riguardo all'opera d'arte, nel secondo
volume Baldini la riconsidera ponendosi come primo riferimento la natura del danno (lacuna) sull'opera e le diverse
conseguenti modalità d'intervento.
Un altro tipo di danno, prevalentemente pittorico, è quello costituito dal differente modo d'invecchiare e d'alterarsi dei
diversi colori e dalla modificazione del loro rapporto cromatico; il restauro, in questo caso, consisterà nel recupero
almeno del loro rapporto, con forme di pulitura bilanciata (atto critico di restauro, capace di riacquisire nei loro
rapporti quei valori che si possono ancora cogliere nell'opera) ed alle volte con interventi di velatura, per spegnere un
colore rimasto troppo vivo in un contesto irreversibilmente offuscatosi.

Si entra poi più direttamente nel tema con l'affermazione che il “tempo-vita” di un'opera può assumere:
- Valore di atto negativo (lacuna-perdita): rappresenta l'allontanamento totale e permanente, una privazione
- Valore di atto positivo (lacuna-mancanza): rappresenta incompletezza o incompiutezza

Nel caso che la “chiusura” della lacuna sia tale da potersi compiere senza fare ricorso a ricostruzioni arbitrarie,
essendo già l'immagine pienamente estrinsecata, l'intervento potrà far regredire o trasformare questo tipo di “lacuna-
perdita” in una vera e propria “lacuna-mancanza”.
In caso contrario ciò non sarebbe possibile senza alterare l'opera stessa, e la perdita resterà dunque tale, non ci sarà
possibilità di un suo totale recupero; al massimo la si potrà portare ad essere una “lacuna-collegamento” (vale a dire
chiusura e sutura della lacuna, non già sua esclusione da tessuto originale).
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Due sono i metodi di intervento proposti:


- “Selezione cromatica”, cioè la scelta di colori fatta per conservare certi caratteri
- “Astrazione cromatica”, cioè la qualità dell'occhio di distinguere l'uno dall'altro i singoli colori di una policromia e
di poterli mettere insieme ciascuno indipendentemente dagli altri

Comunque, sia la “lacuna-perdita” che la “lacuna-mancanza” resteranno pur sempre “lacune” dell’opera, modificate
nel rapporto con l'esistente ma comunque rappresentanti alterazioni dell’opera. La loro esistenza contrassegna il
“tempo-vita”.

In conclusione il passaggio da un “atto di manutenzione” a un “atto di restauro” vero e proprio, quale “atto critico”,
avviene quando la “lacuna” nel contesto di un'opera è definibile “lacuna-perdita” (selezione cromatica).
E ove si abbia di necessità a intervenire in essa, non si potrà in nessun caso intervenire con il medesimo materiale di
cui è composta l'opera, ma dovrà entrare in campo in modo assoluto e tassativo la “differenziazione” (astrazione
cromatica), il mezzo corretto attraverso il quale si potrà riconquistare all'opera se non l'eros primitivo, almeno un suo
eros criticamente colto nella realtà stessa dell'opera; è una differenziazione che dev’essere dentro all’opera, messo al
suo servizio.

Erroneamente e impropriamente talvolta si usi distinguere fra “restauro conservativo” e “restauro estetico”, dal
momento che ogni atto, anche il più piccolo, pur compiuto in funzione conservativa della sola materia di cui l'opera è
composta, non potrà svincolarsi dal valore espressivo (estetico) che è ragione e motivo della sua esistenza.

La finezza del pensiero di Baldini, meno apprezzato e meno noto di quanto in effetti meriti, ma confortato da un'alta
qualità operativa testimoniata da centinaia d'interventi che comprendono, fra l'altro, opere come gli affreschi di
Masaccio nella Cappella Brancacci in Santa Maria del Carmine a Firenze, o la Primavera di Botticelli; tutti sempre
espressione e risultato di “metodo” e “scienza”, uniti al recupero e alla conservazione dell’immagine.

6. RESTAURO, CONSERVAZIONE, RIPRISTINO

1. Restauro come conservazione e dunque atto necessario, moralmente ineccepibile?


2. Restauro come inganno, indebito «ripristino» formale a scapito dell'autenticità delle antiche testimonianze?
È indubbio che nelle due affermazioni, plausibili entrambe, il termine “restauro” non sembra rimandare allo stesso
significato:
1. Nella prima è inteso come conservazione, atto eminentemente scientifico e tecnico, attento intervento sulla
materia dell'antica testimonianza storico-artistica, per mantenerla e tramandarla nella sua integrità ed autenticità
di oggetto che ci proviene dal passato e per questo va rispettato  operazione condotta da un'esigenza di
autenticità documentaria e di rigorosa considerazione dei valori storici (istanza storica), quindi più immediate
accettabile perché ancorata a valori documentari
2. Nella seconda è sinonimo di ripristino, letteralmente di restituzione in uno stato originario che si presume di
poter raggiungere reintegrando, con un processo di completamento para-artistico più che scientifico, il mutilo o
danneggiato oggetto antico  operazione guidata dalla necessità di tipo estetico di reintegrare una menomata
espressione (istanza estetica), quindi opinabile e soggettiva

In un momento di crisi dell'estetica come quello attuale, si è portati a considerare la distinzione (sulla base della
“qualità artistica dell'oggetto”) fra capolavori e produzione minore, fra arte e ciò che arte non è, una delle più gravi
iatture per i beni culturali nel loro complesso.
I rischi di un'errata valutazione estetica sono vari: mentre si ratifica la dispersione commerciale dei beni artistici
minori, fino ai più piccoli oggetti mobili, o la rovina degli antichi tessuti urbani (anch'essi composti da un'architettura
evidentemente minore), ancor più si trovano giustificazioni per restare indifferenti di fronte alla cancellazione dei
segni della storia sul territorio (tracciati viari, antiche colture, vecchi insediamenti industriali o manufatti di servizio)
per non parlare della perdita delle tradizioni popolari (minori anch'esse), fino agli stessi vecchi mestieri, beni culturali
doppiamente preziosi, come testimonianze del fare umano e come specifiche tecniche propriamente di restauro.
Non è negando il riconoscimento dell'opera d'arte, però, che il problema potrà essere risolto, e neppure ricusando i
diritti dell'intervento volto, oltre che a conservare fisicamente, anche a restituire la leggibilità di una mutila immagine
artistica.

In ragione della doppia polarità, storica ed estetica, cui l'oggetto di restauro risponde, si tratterà:
- Prima di agire in modo che, nel caso sorga un contrasto fra le due (come, ad esempio, di fronte ad un problema di
rimozione d'alcune ridipinture da una tavola), si possa definire volta per volta quale debba prevalere
- Poi di stabilire le linee dell'intervento, conservando il compito di coordinamento e di proposta e di scelta, a chi
(persona o gruppo di lavoro) abbia primarie e intrinseche competenze storico-critiche e, nel caso dell'architettura,
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anche progettuali.

Il restauro, in conclusione, sarà da concepire quale intervento ed anche eventuale modifica, a fini difensivi,
conservativi e di facilitazione della lettura, attuato nella sintesi dialettica delle due fondamentali istanze.
Detto questo, però, pur volendosi riconfermare la specificità e la liceità del restauro, bisognerà sostenere con decisione
che, tenuto conto della situazione attuale, l'impegno di tutti deve oggi principalmente rivolgersi proprio alla
conservazione ed alla prevenzione.

Il punto qualificante e distintivo, rispetto al “restauro critico”, è nella drastica separazione fra atto di restauro e
giudizio storico-critico o di valore: l'intervento non discende da una valutazione storica, come invece è avvenuto di
norma nell’800 e nei primi secoli del ‘900.
I giudizi storiografici sono d'ordine relativo, in funzione del materiale documentario, degli orientamenti e della
formazione dello storico-ricercatore, dello scopo stesso della ricerca, della temperie culturale nella quale essa si
svolge. E visto che la conoscenza che si ha del passato è sempre limitata, ne consegue che l'operatività di restauro non
può né deve nascere e svilupparsi dalla storiografia.
 Il giudizio storico-critico, in breve, non esiste- è un'invenzione idealistica e positivistica ottocentesca.

La storia non è operativa, ha solo il compito di consegnarci dati e frammenti che ci aiutano a meglio comprendere la
situazione presente; essa è, insieme alla natura, una fonte di conoscenza che consente di orientare, ma solo in senso
generalissimo, le scelte.

Non è un caso che la storiografia nazionalistica ottocentesca muoia dopo il 1918 e che sorga, nel giro di pochi anni, la
scuola delle «Annales», la nouvelle histoire volta ad indagare i fenomeni quotidiani, diffusi, di lunga durata e non gli
avvenimenti rilevanti e singolari (in qualche modo assimilabili ai tradizionali 'monumenti').

Il documento materiale assume il valore di una fonte autentica d'informazione, che può essere interrogata in maniera
sempre nuova e diversa. Il restauratore, di conseguenza, se non vuole che tale potenzialità corra il rischio d'essere
annullata, deve trasformarsi in conservatore, anche in funzione di un accorto riuso.
- I segni stessi del decadimento hanno importanza storica e vanno conservati, a meno non siano causa di degrado.
- Ogni nuovo intervento dovrà essere compatibile con la materia antica e non implicare pericoli ulteriori.

Oggi la conoscenza è intesa soprattutto come momento di analisi che non pone giudizi, ma propone possibilità. Di
conseguenza, nel restauro, dalle conoscenze storico-critiche bisogna passare a privilegiare quelle scientifiche.
Tutto ciò mortifica il restauratore, la sua opera, la sua creatività? Certamente no, anche perché la conservazione si
opera attraverso l'aggiunta (di elementi indispensabili per l’uso, come impianti e servizi) e non l'eliminazione; in
questo senso l'intervento sarà sempre creativo e spontaneamente attuale, e perciò schiettamente moderno, originale e
personale, pur senza essere invasivo.

Comune con il neoidealismo è l'affermazione che ogni fatto storico è fatto singolare ed ha importanza in sé, non sono
consentite generalizzazioni, astrazioni o tipologizzazioni di qualsiasi tipo.
Quanto all'architettura risulta evidente come essa non si esaurisca in sé stessa, ma abbia sempre connessioni di tipo
urbanistico; inoltre l'esigenza di tutela è riferibile a qualunque tipo d'oggetto  bisogna tutelare non solo i beni
culturali propriamente detti, ma tutte le risorse della collettività; bisogna porre un freno ai consumi incontrollati ed alla
produzione illimitata; bisogna rifiutare il consumismo e porsi il problema della durata delle cose che ci attorniano.

Il restauro deve porsi come un momento di conoscenza, non come atto risolutivo e conclusivo della storia dell'oggetto ;
esso è da intendere come un processo aperto che pone elementi futuri di conoscenza.

Se le teorie del restauro non hanno mai trovato sostanziale applicazione, è perché sono state travisate dagli operatori, i
quali spesso non avevano nessuna coscienza teorica. Si tratta dunque di formare restauratori sensibili e preparati, con
un'ampia specificità disciplinare che consenta loro di essere sicuri coordinatori dei tecnici più diversi. Né il restauro
dovrà estraniarsi dai meccanismi della produzione economica; anzi il suo imperativo, oggi, è di porsi come scelta
politica, una politica contraria allo spreco delle risorse e capace di confluire, in ultimo, nell'ecologia.
 L'intervento minimale e conservativo è quello, sotto l'aspetto sociale ed economico, oggi più conveniente.

Quale concreta sintesi del pensiero di Dezzi Bardeschi ricordiamo invece alcune proposizioni “promemoria semiserio
del buon restauratore”:
1. Il restauro oggi non può che coincidere con l'impegno civile, culturale, deontologico e tecnico, alla effettiva
conservazione dell'esistente, e dunque con l'impegno alla messa a punto di tutte le strategie scientifiche
disponibili per garantire la permanenza fisico-materica di ciò che è giunto fino a noi in vista della sua
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trasmissione al futuro.
2. Ciò che di consistenza fisica si perde in un'architettura è perduto per sempre , non si possono di richiamare in vita
le componenti perdute del nostro passato.
3. Il restauratore opera sul contesto fisico esistente e s'impegna a rispet-tarlo, conoscerlo e conservarlo. L'esistente
costituisce il patrimonio complessivo di una società, caratterizzata dall'essere irriproducibile.
4. La riproduzione come falsa “descrizione” sottrae autenticità e autorità alla fabbrica, inganna e mistifica sia il
valore storico che il valore d'antichità.
5. La corretta pratica-teorica del restauro si identifica con la tutela attiva e tempestiva, attraverso la cura, la
manutenzione e non l'ulteriore manomissione (paziente ricerca delle cause del degrado, progressiva messa a
punto di adeguate discipline analitiche, elaborazione del conseguente progetto di conservazione corredato della
relativa normativa specifica).
6. Intervenire per rimuovere le patologie e le cause del degrado non significa rimuovere i segni del tempo in cui si
manifesta la singolare storicità del manufatto
7. Il restauro, se correttamente inteso, non ha bisogno di aggettivazioni ideologiche tendenti a legittimare
interpretazioni di comodo a favore della mutazione/alterazione del testo.
8. La conservazione come indiscutibile principio biologico, istanza sociale e aspirazione culturale essenziale, non
può che tendere ad essere integrale; l'intero esistente ha diritto e dignità di continuare ad esistere,
indipendentemente dai mutevoli giudizi di valore.
9. Conservare, non sottrarre materia alla fabbrica è l'imperativo etico del restauratore
10. Per conservare occorre mantenere in uso e l'uso comporta comunque un consumo (da ridurre al minimo) di
risorse, ma anche il necessario apporto di nuove presenze materiali e di nuovi livelli di scrittura. Anche il
progetto del nuovo, se rispettoso, motivato e responsabile può legittimamente contribuire a produrre un
incremento (e non una depauperazione) di risorsa complessiva disponibile: la storia continua.

Molte delle convinzioni espresse da Bellini e Bardeschi si ritrovano nell'idea di restauro come “pura conservazione” o
come “conservazione integrale”, saldamente collegata alla crisi delle estetiche filosofiche in genere e al dissolversi
dell'eredità crociana, oltre che all'emergere di nuove empiriche metodologie critiche; ad essa si accompagnano motivi
di rinnovato interesse per la ricerca filologica, una diversa sensibilità storica (tutto è artistico, anche le materie, le
tecniche, i supporti, perfino lo stato di conservazione), ed indicazioni strettamente conservative mutuate dal dibattito
urbanistico e sociologico in materia.
Sul piano operativo ne consegue una rivalutazione del metodo filologico, inteso in senso più restrittivo e radicale; ma
è nell'episodicità delle proposizioni costruttive e distruttive di questa rinnovata concezione che si nota a debolezza di
un assunto non ancora pienamente espresso o maturato.

Nei capitoli precedenti abbiamo tentato di dare risposta alla particolare visione “critica” della storiografia e del
restauro, concludendo nel senso, però, che non il giudizio in sé sia in crisi, ma solo la formulazione filosofica o
estetica (non quella empirica) di tale facoltà di giudizio tanto che, in effetti, a tutt'oggi fra il dipinto di Raffaello ed
altre cose, come il bidone della spazzatura prima rammentato, sembra potersi rilevare ancora una notevole, quasi
'oggettiva', differenza.

La lunga dichiarazione di metodo di uno studioso d’architettura come Arnaldo Bruschi ha per noi il senso d'una
precisazione utile tanto nei confronti degli assunti della pura conservazione quanto di quelli inerenti al restauro visto
come manutenzione/ripristino, da una parte tramite il richiamo al giudizio critico, dall'altra a non assolutizzare la sola
fisicità di materiali, di tecniche e di strutture dell'opera.

Maurizio Calvesi è uno dei più lucidi sostenitori di questa moderna concezione; fra i suoi contributi, particolarmente
significativa è la prefazione, non firmata ma sua, al Catechismo di Max Dvorák, pubblicato sul Bollettino
dell'Associazione Itali Nostra' nel 1972.
Molto efficace è la collocazione, lungo un unico asse di distorsione storica, dei fanatici del ripristino (proiettati verso
un passato remoto non meno mitico ed astorico, in una fuga altrettanto inconsulta e frettolosa), degli sventratori
(giudica monumenti e testimonianze del passato alla stregua di un puro ingombro, nella corsa verso un futuro che
esige strade diritte e veloci), e degli abbellitori (vivono in chiave mitica, ovvero anti-storica, il presente; non
avvertendo infatti la condizione culturale del nostro tempo, si chiedono perché mai il talento artistico dei
contemporanei non possa e non debba misurarsi con quello degli antichi); ciò permette a Calvesi di coinvolgere
atteggiamenti solo apparentemente diversi in una critica complessiva rivolta a chi volutamente agisce in spregio alle
ormai solide acquisizioni della cultura storica.

Ma se sventramenti e ripristini in stile sono, almeno in sede teorica, quasi universalmente condannati, l'opera degli
“abbellitori” richiede, prima di essere proscritta, una maggiore attenzione:
- Se la condanna sta nella disinvoltura dell'intervento, cioè nel fatto che esso si ponga casualmente, sul piano del più
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opinabile ed incontrollato gusto arredativo, ogni possibile obiezione cade e ci si può dichiarare immediatamente
d'accordo
- Se come pare più probabile, nell’intervento si vuole riconoscere l'intollerabilità del moderno intervento (dove,
beninteso, esso sia indispensabile all'azione di tutela e di conservazione), il problema acquista subito tutto un altro
aspetto e richiede d'essere trattato con maggiore attenzione senza accomunare polemicamente sotto uno stesso
attributo dispregiativo modi d'operare concettualmente assai diversi

Il dilemma fondamentale, conservazione o intervento, storicità o esteticità del restauro, resta comunque sempre
presente e non basta a risolverlo negare uno dei termini, agendo, da un lato, da disinvolti innovatori e dall'altro da
accaniti conservatori; esso può e deve essere affrontato ogni volta con un atto ed una scelta critica che, in quanto tale,
è soggettiva, ma non per questo infondata o arbitraria.
Nel restauro, come nella critica e nella storiografia, quando essa non voglia ridursi a mera cronaca o nuda elencazione
di fatti, il momento della scelta e della selezione è inevitabile: si tratta solo di condurlo secondo criteri di cultura,
anche se storicamente condizionati, e non pseudoculturali (rappresentativi, simbolici) o anticulturali (utilitaristici,
commerciali, affaristici).
Scelta che non è limitata semplicemente al problema di ciò che si debba, nell'opera restaurata, rimuovere o conservare
ma anche di ciò che si deve aggiungere; in questo caso il restauro, traducendosi in una modifica (al fine di un
accrescimento della leggibilità e del riattualizzarsi del valore espressivo) dell'immagine figurata attraverso mezzi
figurativi anch'essi, non potrà non interessare aspetti creativi.

Critica e creatività dunque, formano i due termini del rapporto, in certo modo dialettico, intorno al quale non può non
ruotare tutta la problematica del restauro.

7. RESTAURO, RIUSO, RECUPERO

Ormai da qualche anno si vive con grande interesse, anche di pubblico, il tema del restauro e della tutela dei beni
culturali, in special modo quello del recupero del patrimonio edilizio. Interesse che dovrebbe significare maggior
attenzione e accortezza per le sorti di un'eredità singolarmente preziosa, ma non sempre questa attenzione è un bene; si
opera certo con una disponibilità di mezzi maggiore che in passato, ma non è sicuro che si faccia di meglio.

Si “conserva” e “restaura” per ragioni di cultura e più latamente scientifiche (intenzioni e ragioni di fondo:
economicistiche e praticistiche), mentre si “recupera” l'esistente per ragioni in primo luogo economiche e d'uso
(intenzioni e ragioni di fondo: di tutela e culturali).
In realtà la stessa dizione di “bene” culturale, lascia intendere che le questioni concernenti gli oggetti di storia e d'arte
non sono affatto separate da quelle economiche e che, a ragione, gli stessi beni culturali possono essere considerati
beni economici.

Il restauro “architettonico” (o “dei monumenti”, perché secondo l'attuale riflessione tutto ciò che è bene storico-
artistico è ipso facto monumento) in quanto “restauro” si apparenta e discende dal più generale “restauro delle opere
d'arte” (pittura e scultura) ed in questo è atto di cultura; in quanto attinente all'edilizia è tema architettonico a tutti gli
effetti, da sempre intriso di aspetti culturali (artistici, formali, linguistici) e pratici, politici, economico-finanziari,
sociali.

L'impegno per ben operare nel futuro ed evitare che l'attuale lavoro sui nostri centri storici si traduca in un rinnovato
“sacco” delle città antiche, richiederà di saper coniugare le due facce del problema, quella culturale e quella pratica,
con competenza, onestà e rigore; da qui l'importanza dell'educazione permanente in materia e del continuo
aggiornamento tecnica.
In questo campo ogni errore sarebbe letale, e causa di perdite per la maggior parte insanabili e definitive. Perciò è
necessario addestrarsi ad operare con la massima attenzione e sicurezza, soprattutto al fine di conservare le comuni
memorie.

Il “riuso” è una questione di straordinario interesse, implicante soggetti a rischio ormai quasi totalmente estraniati
dalla realtà storica che li ha visti nascere.
Restauro ed innesto di nuove funzioni (l'unica garanzia per far si che al restauro, atto saltuario e traumatico, si
sostituisca finalmente un’assidua manutenzione) vanno di pari passo, dovendo attingere entrambi tanto al rigore della
ricerca storica quanto a quel apporto di fantasia creatrice indispensabili a garantire la qualità del progetto di restauro e
l’idea giusta per ridare vita al monumento.
Correttamente s'è parlato più di “riuso”, dizione che può rientrare nel moderno concetto di restauro, che di “recupero”:
- Il “riuso” si pone come un mezzo, pur efficace, ma non come fine
- In termini rigorosi di “recupero”, le considerazioni economiche legate al riuso prevarrebbero spontaneamente su
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quelle culturali e conservative, subordinandole fino ad oscurarle del tutto; per queste ragioni, il recupero si pone
quale procedimento estraneo o collaterale al restauro, interessando tutto il costruito come possibile risorsa
economica da riattivare

Il riuso dev’essere compatibile con le vocazioni che il monumento, indagato con intelligenza storica, saprà rivelare.
Non necessariamente dell'uso originale (anche se questo sarà pur sempre preferibile, quando sia possibile conservarlo
o riproporlo), ma d'un uso corretto e rispettoso della realtà materiale e spirituale del monumento.
Il monumento merita la considerazione del documento storico, dell'oggetto di scienza e della testimonianza artistica da
rispettare compiutamente, anche per il tramite, imprescindibile nella maggior parte dei casi, del restauro; questo sarà
tale solo se culturalmente consapevole del bene sul quale opera e dei rischi che ogni errore o leggerezza potrebbero
comportare.

Si diceva che l'ultimo ventennio ha registrato un sempre più diffuso interesse, teorico-metodologico ed operativo, nei
confronti del patrimonio edilizio esistente. Diverse ragioni spiegano tale orientamento, in primo luogo la persistente,
drastica riduzione dell'attività di costruzione del nuovo.
Per le implicazioni, oltre che economiche anche sociali e politiche, del problema, ne è conseguita una vivace attività
legislativa, che ha visto nella Legge 457/78, incentrata sui problemi del recupero edilizio ed urbanistico, il punto
maggiormente innovativo.

Trattando di patrimonio edilizio esistente, la prima differenza da considerare, in un paese come il nostro, dovrebbe
essere quella fra costruito storico-artistico e costruito edilizio corrente, valutabile in termini prevalentemente
economici (quasi tutto l'edificato postbellico).
Una prima distinzione, quindi, va posta entro il campo stesso di ciò che si vuole conservare, chiarendo le motivazioni
di fondo della tutela; una seconda, sulle operazioni tecniche che ne discendono, individuabili in prima istanza come
“restauro” e come “recupero”.

Nella dizione di recupero, il senso letterale è quello di “ritornare in possesso”, “riavere”, ancor meglio “riscattare” un
oggetto perduto o trafugato; da qui alla concezione della tutela e del riuso come “riappropriazione” dei beni culturali e
quale “momento della lotta sociale” e politica il passo è breve.
La “riappropriazione dello spazio”, “la progettualità continua” e l'insofferenza per tutte le “limitazioni operative”,
anche di natura tecnologica, assumono un diverso e positivo significato non appena s'introduca la fondamentale
distinzione fra beni culturali, architettonici e ambientali, ed il generico patrimonio costruito , cioè fra ciò che ricade
sotto un'istanza storica o estetica e ciò che, invece, è pura risorsa economica o sociale da rimettere in funzione e da
gestire nel modo più accorto, nel pubblico o privato interesse.

Una volta eccettuata, entro il grande insieme delle preesistenze, la serie dei beni culturali, risulteranno chiariti compiti
e limiti del recupero edilizio, da un lato, del restauro e della conservazione dall'altro.
In quest'ultimo caso l'intervento mirerà innanzitutto alla tutela ed alla perpetuazione di valori culturali criticamente
riconosciuti, avvalendosi di tutte le tecniche e di tutte le strategie consentite (ivi comprese, ovviamente, la
riproposizione d'un interesse economico, sociale o d'uso degli antichi edifici).

8.ATTUALITÀ DEL PENSIERO DI ROBERTO PANE

Il volume Attualità e dialettica del restauro di Roberto Pane costituisce oggi la summa più efficace del suo pensiero
ed il miglior punto di riferimento anche per il tema dell'educazione all'arte, premessa indispensabile ad ogni coscienza
conservativa. I principi del restauro critico, cui Pane diede il suo magistrale contributo, costituiscano ancora oggi un
riferimento aggiornato e convincente.

Se osserviamo gli attuali orientamenti teorico-pratici del restauro, notiamo che dall'inizio degli anni ‘70 molto si è
prodotto scientificamente ed anche sul piano divulgativo. Da una parte l'attenzione per la conservazione ed il restauro
si è, almeno apparentemente, diffusa a più ampi strati della popolazione; dall'altra il tema del recupero dei centri
storici e del riuso delle preesistenze ha implicato il mondo professionale ed imprenditoriale per una complessa serie di
ragioni, più economiche e socio-demografiche che culturali.

Tre sono oggi i motivi di rischio e di confusione concettuale:


- La perdita del riferimento teorico di fondo, sul perché conservare.
- La tendenza a sopravvalutare ed assolutizzare l'apporto delle scienze ed in specie della tecnologia nel restauro,
puntando ad una fondazione totalmente scientifica del restauro stesso miraggio irraggiungibile e fallace, e
dimenticandone il nucleo dialettico e storico-critico.
- L'orientamento verso il ripristino più o meno filologico dell'oggetto da restaurare o mantenere.
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Le motivazioni di fondo del “perché conservare” sono da Pane riconosciute in una più generale e morale istanza di
civiltà: l'uomo nella sua interezza che chiede, in quanto tale, la tutela della memoria, la difesa del bello.
Pane osserva che negli ultimi anni si è indiscutibilmente andati incontro ad uno scacco, dovuto senza dubbio allo
squilibrio delle forze in campo, ma anche al fatto che si è puntato esclusivamente sui valori estetici e storici, a scapito
forse della difesa delle più generali condizioni strutturali, economiche, sociali, civili che tale patrimonio avevano
contribuito a generare.

Lo studio napoletano sottolinea costantemente l'importanza dei valori ambientali, in cui si esprime la continuità della
stratificazione che tante generazioni hanno conosciuto ed amato; di tale ambiente l'architettura è protagonista
privilegiata, e in esso s'invera e si completa il monumento singolo.
Questo solido inquadramento costituisce la premessa più chiara per una concezione veramente integrata del restauro.

Premesso che prima di essere una tecnica il restauro deve essere una filosofia, insieme con quella dell'estetica
meccanicistica, Pane svolge la sua critica della ingenua fiducia nella tecnologia, vista quale principio risolutore di
problemi che a suo avviso stanno, trattandosi di restauro, in ben altro ambito.
Contro la tradizione pragmatica ed il falso ottimismo della tecnologia, la risposta è nel pensiero dialettico secondo il
quale la risposta è da riconoscersi altrove: in ciò che non è possibile ridurre in puri e semplici termini razionali.

Ma ben più dure obiezioni Pane riserva alla tendenza verso il ripristino, presente tanto in campo archeologico quanto
architettonico. La pulsione a riportare a nuovo, a completare, a rinfrescare nei materiali, a sottrarre le opere al flusso
del tempo cancellandone i venerandi segni, è vista come un'offesa non tanto al singolo edificio ed al suo pregio
testimoniale o estetico, ma soprattutto ai valori ambientali.
 Le ricostruzioni massicce, perpetrate soprattutto dagli archeologi, ci danno opere né antiche né nuove, col
risultato di una falsificazione storicamente ed esteticamente assurda e repellente, creando un danno irreversibile
su ciò che prima al visitatore appariva come un vivo e drammatico documento del passato, una pittoresca
stratificazione.

Altre interessanti considerazioni riguardano il problema della distinguibilità delle parti di restauro da quelle originali,
preoccupazione eminentemente “psicologica” quando riguarda i rapporti fra il restauratore ed i suoi giudici più
qualificati, ma molto più concreta e solida se intesa come forma di rispetto e di reale interesse per tutta l’umanità.

Per Pane, oggi si pone la necessità di una visione che risponda più organicamente alla problematica ecologica, intesa
nella sua totalità, e cioè in tutti gli aspetti che sono modernamente suggeriti dalla interdisciplinarità delle scienze
umane. L'influenza che la psicologia e la psicoanalisi esercitano già da anni sulle ricerche della storia dell'arte riguarda
non meno direttamente il problema della sussistenza del patrimonio ambientale, sia del singolo uomo che della città
come stratificazione storica.
È quindi da proporre una terza istanza: quella psicologica, appunto, che mentre attribuisce maggiore validità alle altre
due (estetica e storica), si afferma come indifferibile esigenza umana.

Si evince uno speciale apprezzamento nei confronti del pensiero di Pane, ancora oggi attuale: è il pensiero di un
maestro che ha sempre saputo conservarsi totalmente libero e critico; che ha saputo andare controcorrente ed accettare
il peso dell'incomprensione; che soprattutto ci ha offerto un antidoto prezioso contro tante pericolose deviazioni
contemporanee, dovute a ripensamenti teorici ma in più gran parte all'inquinamento della disciplina da parte di un
improvvisa esplosione d'interessi economici.

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