HEGEL

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FRIEDRICH HEGEL

1.1. LE TESI DI FONDO DEL SISTEMA HEGELIANO


Le tesi di fondo del sistema hegeliano sono tre:

1) risoluzione del finito nell’infinito: il finito (tutto nasce e muore e niente dura in eterno)
non è secondo Hegel qualcosa di autonomo e separato ma fa parte di un organismo
unitario più grande che coincide con l’Assoluto e con l’Infinito. Tutto il resto coincide con il
finito. Il finito come singolo non esiste ma è un’espressione dell’infinito.
L’hegelismo è quindi una forma di monismo panteistico cioè una teoria che vede nel
mondo (il finito) la manifestazione di Dio (l’infinito). A differenza di Spinoza che vedeva
nell’Assoluto una sostanza immutabile, al punto da coincidere con la natura, invece, per
Hegel l’Assoluto è un processo di auto-produzione ossia si identifica con un soggetto
spirituale in divenire che si realizza progressivamente in tutti i suoi momenti e che solo alla
fine, cioè nell’uomo, acquista piena coscienza di sé.

________________________________________________________________________
Questo schema esprime il panteismo idealistico e dinamico di Hegel

Il finito e ⁄---- manifestazione ---|


l’infinito Il finito è -- --| | --------  dell’infinito (Assoluto,Dio, spirito)
coincidono \----- momento necessario --- |
in quanto

___________________________________________________________
La realtà (e quindi l’Infinito) non è statica ma è un soggetto dinamico che solo alla fine del suo
processo, cioè nell’uomo, si rivela per ciò che veramente è.

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2) l’identità tra ragione e realtà: il soggetto spirituale infinito che sta alla base della realtà
viene chiamato idea o ragione, termini che esprimono l’identità di ragione e realtà. Da ciò

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l’aforisma “ciò che è razionale è reale e ciò che è reale è razionale”. Cerchiamo di
capire meglio:
■ “ciò che è razionale è reale”: la razionalità non è astratta ma è la forma di ciò che
esiste, in quanto la ragione governa il mondo.
■ “ciò che è reale è razionale”: la realtà non è caos ma la manifestazione di una
struttura razionale, che si manifesta in modo inconsapevole nella natura e in modo
consapevole nell’uomo.
■ Con l’aforisma Hegel esprime la necessaria identità tra realtà e razionalità.
L’identità tra realtà e razionalità implica che “ciò che è risulta anche ciò che
razionalmente deve essere”. La realtà per Hegel è costituita da connessioni e passaggi
che confluiscono verso l’unica idea o ragione (panlogismo). E ritiene, pertanto, che la
realtà sia una serie di “gradi” o “momenti” che rappresentano il risultato obbligato del
“momento” precedente e il presupposto obbligato di quelli seguenti.

3) la funzione giustificatrice della filosofia: compito della filosofia è prendere atto della
realtà e comprenderne le strutture razionali che la costituiscono. Ciò è impossibile, perché
la realtà compie il processo di formazione prima che la filosofia possa coglierla. La filosofia
per Hegel deve rinunciare alla pretesa di determinare/giudicare la realtà, ma elaborare in
concetti il contenuto che l’esperienza offre, dimostrandone la razionalità. In altri termini, la
filosofia deve giustificare razionalmente la realtà.
1.3. IDEA, NATURA E SPIRITO: LE PARTIZIONI DELLA FILOSOFIA
Il farsi dinamico dell’Assoluto passa attraverso i tre momenti della triade dialettica di
Hegel, ovvero:
1) Tesi: l’idea in sé e per sé o idea pura, considerata in se stessa a prescindere dalla
sua concreta realizzazione nel mondo (Natura o Spirito). Da questa prospettiva l’idea è
assimilabile a Dio ovvero al programma o all’ossatura logico razionale della realtà, dal
momento che l’Assoluto hegeliano è un infinito immanente che non crea il mondo ma è
il mondo.
2) Antitesi: l’idea fuori di sé o idea nel suo essere altro è la Natura cioè l’alienazione
dell’idea nelle realtà spazio-temporale del mondo.
3) Sintesi: l’idea che ritorna in sé, è lo Spirito, cioè l’idea che dopo essersi fatta Natura
torna nell’uomo

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Ovviamente questa triade non va intesa in senso cronologico ma in senso ideale. Infatti
ciò che concretamente esiste nella realtà è lo Spirito (la sintesi), che ha a sua volta come
coeterna condizione la Natura (l’antitesi) e come suo coeterno presupposto il programma
logico rappresentato dalla tesi.

Ad ognuno di questi momenti strutturali dell’Assoluto, Hegel fa corrispondere tre rispettive


sezioni in cui si divide il sapere filosofico:
- la logica, che è la scienza dell’idea in sé, ossia l’idea considerata nel suo graduale
esplicarsi per sé;
- la filosofia della natura, che è la scienza dell’idea nel suo alienarsi da sé;
- la filosofia dello spirito, che è la scienza dell’idea che dal suo alienamento ritorna
in sé.

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1.4. LA DIALETTICA
Abbiamo notato come l’Assoluto in Hegel è inteso come realtà immanente nel mondo,
come un infinito che si fa mediante il finito, ossia un soggetto spirituale in divenire. La
legge che regola questo divenire è la dialettica che rappresenta la legge di sviluppo
della realtà, dunque ontologica, e la legge di comprensione della realtà, dunque logica.
Hegel distingue tre momenti o aspetti del pensiero:
- il momento astratto o intellettuale
- il momento dialettico o negativo-razionale
- il momento speculativo o positivo-razionale.
-
Nel momento astratto o intellettuale l’intelletto “concepisce” un concetto, un esistente
come statico, come un in sé, senza nessuna connessione con altri esistenti. L’esistente è
considerato nella sua isolata identità sulla base dei principi logici d’identità e non
contraddizione. Un esempio è il concetto di Bene considerato da solo.
Il momento dialettico o negativo-razionale, ci fa capire che ogni momento della realtà si
rovescia nel suo opposto. Infatti, il concetto di Bene è tale solo in confronto al concetto
opposto di Male, così come l’uno è tale solo in relazione ai molti, il finito all’infinito: ogni
cosa la si definisce differenziandola dal suo opposto. Ogni affermazione sottintende una
negazione: se dico cosa è il Bene, è sottinteso che già pongo una sua differenza con il
Male e, per fare ciò, devo metterli in relazione dialettica! (“omnis determinatio est negatio”
 ogni determinazione è una negazione, diceva Spinoza). Si chiama momento dialettico
poiché i due concetti (esistenti) sono messi in relazione (dialettica) come opposti in lotta
(negativo). Questo è il momento dell’altro da sé o del per sé: qui la dialettica mostra il
movimento attraverso cui il Bene viene negato e passa nel suo opposto. In questa tappa
inizia ad attivarsi la ragione, che va al di là dell’intelletto illuministico e ci fa capire che ogni
momento o aspetto della realtà è una negazione, ossia ogni concetto è tale giacché nega,
si oppone a tutti gli altri.
Il terzo momento, quello speculativo o positivo-razionale, consiste nel cogliere
l’unità che lega le determinazioni opposte, nel senso che esse sono aspetti parziali che
vanno compresi razionalmente all’interno di una realtà di cui fanno parte. Questo
momento, Hegel lo definisce con il termine Auf-hebung (auf: via/togliere, heben:
tenere/conservare) che significa superamento, poiché è un togliere e un conservare al
tempo stesso: esso nega la negativa contrapposizione dei primi due termini (ecco perché
la sintesi è anche detta negazione della negazione) e conserva il loro aspetto positivo,

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cioè il loro essere parte della realtà. Nella sintesi si vede con chiarezza il movimento
dialettico della realtà attraverso l’opposizione e la conciliazione delle sue determinazioni
concrete.
Esempio1: Uno e Molteplice, determinazioni opposte, divengono sintesi nella proposizione
secondo la quale la realtà è unità che vive e si concretizza nella molteplicità.
Esempio2: Pace e Guerra nella Storia, determinazioni opposte, divengono sintesi nella
proposizione secondo la quale la vera Pace è solo quella che supera il momento terribile
della guerra. Solo così si avrà una Pace più consapevole e più forte di prima.
Potremmo dire, ulteriormente, per essere più chiari, come da questi tre momenti del
pensiero, si può evincere la contrapposizione individuata da Hegel tra intelletto e ragione:
- l’intelletto pensa in maniera statica e immobilizza gli enti considerandoli solo nella
loro reciproca esclusione;
- la ragione è un modo di pensare dinamico capace di cogliere la concretezza del
reale dietro la fissità imposta dall’intelletto. E può essere dialettica, quando la
ragione nega le determinazioni astratte dell’intelletto, mettendole in relazione con
quelle opposte; speculativa in quanto coglie l’unità degli opposti operando la
sintesi.

Diciamo in sintesi che la dialettica consiste quindi:


- nell’affermazione di un concetto astratto e limitato, che funge da tesi;
- nella negazione di questo concetto come qualcosa di limitato o di finito e nel
passaggio a un concetto opposto, che fugge da antitesi;
- nell’unificazione delle precedenti affermazioni e negazioni in una sintesi positiva
che comprende entrambe.

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2.1. LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO
Col termine fenomenologia Hegel intende la scienza dell’esperienza della coscienza,
cioè la scienza di ciò che appare alla coscienza. Si tratta di una disciplina che ricostruisce
il cammino della coscienza nell’esperienza dei fenomeni, dove fenomeno non significa
l’oggetto esterno della conoscenza sensibile, come lo intendeva Kant. I fenomeni sono
qui, in senso più ampio, sono le manifestazioni storiche, concrete, dello sviluppo del
sapere umano, o, come dice Hegel, dello Spirito nella storia.
In altre parole, dal momento che nell’impianto hegeliano, l’intera realtà è Spirito, la
fenomenologia consiste nell’apparire dello spirito a se stesso, cioè lo spirito che perviene
alla consapevolezza di essere tutta la realtà, cioè l’Assoluto quale identità di finito e
infinito, reale e razionale.
La Fenomenologia si dive in due parti:
la prima parte comprende i tre momenti della coscienza (tesi) in cui predomina
l’attenzione verso l’oggetto, dell’autocoscienza (antitesi) dove predomina l’attenzione
verso il soggetto, e della ragione (sintesi) in cui si arriva a riconoscere l’unità profonda di
soggetto e oggetto, di io e mondo, di interno ed esterno;
la seconda parte comprende le tre sezioni dello spirito, della religione e del sapere
assoluto.

2.2. LA COSCIENZA
La coscienza è intesa come ciò che si rapporta a un oggetto ossia a qualcosa percepito
come esterno e “altro da se”. Essa si divide a sua volta in: certezza sensibile,
percezione e intelletto.

 Certezza sensibile o certezza dei sensi (tesi): è la forma più immediata di rapporto
tra noi e il mondo, la prima esperienza della coscienza comune, la prima “figura” che
essa verifica all’inizio della sua formazione; è il momento in cui soggetto e oggetto
appaiono nettamente separati perché il soggetto pone la verità fuori di sé, nel
particolare, in ciò che è in sé. La coscienza è certa che il dato sensibile immediato,
l’oggetto dei sensi, rappresenti la verità, ciò di cui non è possibile dubitare. Qui sta
l’inganno dell’empirismo, filosofia secondo cui il pensiero scopre, immediatamente,
la sua verità nel dato sensibile, tale evidenza ci induce a concludere che ciò che
avvertiamo coi sensi, qui ed ora, sia la verità. In realtà questo grado di conoscenza si

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rivela come il più fragile e illusorio: la coscienza si rende conto di quanto sia falso
porre la verità fuori di sé, nelle cose/nell’oggetto. Nella forma della certezza sensibile,
la coscienza sa solo che l’oggetto che le sta di fronte “è”, “esiste” nell’hic et nunc:
è un “questo” individuato nelle dimensioni dello spazio (qui) e del tempo (ora) ma di
esso non si sa niente al di là della sua mera presenza. Dire ad es., “adesso è notte”
significa affermare una verità che tra alcune ore non sarà più vera! Nel passaggio da
questa prima affermazione ad una nuova e diversa, però, qualcosa resta fermo, cioè i
termini “questo”, “qui”, “ora” e simili, cioè il linguaggio che si utilizza per descrivere
l’esperienza. Infatti, spazio e tempo non sono dimensioni oggettive ma dimensioni del
pensiero e come tali hanno un carattere universale. È la situazione di chi, di fronte ad
un oggetto sconosciuto, non sapendo designarlo con un nome appropriato, si limita a
dire che “esso è”.
Non è l’oggetto ad essere certo, ma le sue determinazioni “questo”, “qui” ed “ora”
le quali si mostrano come vaghi e vuoti contenitori universali ed astratti, adatti
genericamente a tutti gli oggetti e dunque proprie di nessuno. Quindi, per conoscere gli
oggetti non basta essere sicuri che essi esistano ma bisogna far riferimento
a categorie universali.
Ecco quindi un primo “rovesciamento della coscienza”: l’oggetto della certezza
sensibile, nella sua immediata singolarità, non ha verità ma questa dipende da
qualcosa di soggettivo. La verità coincide, infatti, con ciò che può essere pensato, cioè
con ciò che fa riferimento ad una categoria universale e linguisticamente espressa.
Proprio nell’impossibilità di esprimere il contenuto singolare della certezza sensibile, si
manifesta la non-verità di ciò di cui la coscienza ha certezza. La crisi della certezza
sensibile, che sembra ancora ancorata all’oggetto, rinvia all’Io e determina il
passaggio alla successiva figura: si tratta di analizzare l’attività dell’Io nella sensazione,
ovvero la percezione.
 La seconda figura della coscienza è la percezione (antitesi). In questa figura compare
un’altra contraddizione: da una parte l’oggetto appare diviso in parti e proprietà (cioè
l’insieme delle sue qualità) ma dall’altra esso giunge a noi come oggetto unitario, in
altre parole, si percepiscono le cose come unione di qualità sensibili. In un granello di
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sale, esemplifica Hegel, percepiamo molte qualità (è bianco, sapido, cubico ecc), che
costituiscono però una realtà unitaria. Il problema che ci si pone è il seguente: come si
concilia l’unità di ogni ente con la molteplicità delle sue qualità? Secondo Kant, la
categoria dell’unità non appartiene all’oggetto, non è intrinseca alla “cosa”, ma è frutto
di un’operazione di sintesi compiuta dal soggetto, operazione che consente di fatto
la conoscenza dell’oggetto. Le diversità delle percezioni dipendono dai differenti sensi,
e rinviano quindi al soggetto, così come l’unità che definisce la cosa non è nelle
qualità percepite e neppure nella cosa stessa, ma dal soggetto che percepisce, ossia
nelle funzioni unificatrici della coscienza. Pertanto, non-si-dà-mai oggetto-di
conoscenza senza un-soggetto-attivo nel processo di conoscenza. È la coscienza
stessa che, fungendo da “legislatrice dell’esperienza”, opera l’unificazione delle
molteplici proprietà della “cosa”, che in tal modo diviene fenomeno nel senso kantiano
del termine. In tal modo, la coscienza tende ad uscire dalla mera contrapposizione tra
oggetto e soggetto, vedendo in quest’ultimo, cioè nel soggetto, l’ambito in cui si
risolvono le leggi che governano l’oggettività.
 Con la negazione della verità della percezione (la quale aveva a sua volta negato la
certezza sensibile) si giunge così alla terza e conclusiva figura della coscienza, quella
dell’intelletto (sintesi): l’oggetto non viene più percepito dalla coscienza in quanto tale,
cioè nella sua individualità, ma solo nelle relazioni-con-le-altre-cose, quindi come
fenomeno. Hegel, influenzato dall’insegnamento kantiano, ritiene che queste leggi non
sono sensibili, ma a priori, perché è il nostro stesso intelletto a porre le leggi alla natura
che sono il prodotto di una serie di passaggi logici che lui stesso ha compiuto e tradotto
in formule o in espressioni linguistiche. Con queste considerazioni di carattere kantiano
sull’intelletto, si arriva ad un primo superamento della contrapposizione soggetto-
oggetto, comincia cioè ad affacciarsi timidamente l’idea che soggetto e oggetto non
siano due entità radicalmente opposte tra loro. Prima che si giungesse al momento
dell’intelletto, vi era un soggetto che conosceva e un oggetto (il mondo) che era
conosciuto. Ma se ogni fenomeno che percepiamo è manifestazione della legge della
natura e questa è posta dal nostro stesso intelletto, allora tale oggetto non è
radicalmente distinto dal soggetto, ma anzi è il soggetto. La verità dell’oggetto sta non
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nell’oggetto ma nell’io, che “tiene insieme” e costituisce (kantianamente) il mondo
sensibile attraverso le proprie categorie (qui entra in gioco quella di causa). In questa
fase la coscienza si rende conto di essere lo strumento che dà forma agli oggetti: il
mondo esterno, le “cose”, non sono indipendenti da lei, come sembrava in un primo
momento. Ciò significa che è sbagliato pensare che da una parte ci sia il soggetto e
dall’altra l’oggetto. In altre parole la coscienza prende consapevolezza di se stessa e
diviene autocoscienza, la certezza che l’Io ha di se stesso.

2.3. AUTOCOSCIENZA
Ora, se nella prima sezione della Fenomenologia, Hegel ha illustrato momenti
esclusivamente conoscitivi, appena si entra nella “tappa” dell’autocoscienza, ci si imbatte
in una sfilza di nuove figure storiche e, almeno in apparenza, esulanti dalla gnoseologia:
all’analisi della conoscenza segue l’analisi degli aspetti pratici (morali) della vita. Con
l’autocoscienza l’attenzione si sposta dall’oggetto al soggetto, ossia all’attività concreta
dell’io, considerato nei suoi rapporti con gli altri. Il soddisfacimento materiale datogli da un
oggetto naturale non riesce più a placare l’Autocoscienza, essa ha bisogno del
riconoscimento di un’altra autocoscienza.  
Hegel spiega che l’io (l’autocoscienza) giunge alla sicurezza del suo esistere solo
attraverso un altro io (un’altra autocoscienza, un altro uomo libero e pensante) che lo
riconosca come individuo. L’autocoscienza si vede come un’altra autocoscienza la vede.
L’autocoscienza è un qualcosa di “riconosciuto”: il contenuto con cui un soggetto si
conosce è un contenuto che altri riconoscono in lui. Ciò che il soggetto è, e sa di sé, è
oggetto della soggettività altrui. Se prima la coscienza aveva preso consapevolezza di sè
nel rapporto con le cose, ora si trova a dover compiere un nuovo cammino di
autoconsapevolezza nel rapporto con le altre coscienze. Nasce così la vita relazionale,
che segna il passaggio dalla sfera privata a quella intersoggettiva e, quindi, sociale e
pratica (nel senso kantiano di “morale”). Questa dialettica del riconoscimento reciproco
si svolge attraverso tre passaggi principali: servo/padrone, stoicismo e scetticismo,
coscienza infelice.

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 Servitù/padrone
Tale riconoscimento non avviene nella forma dell’amore, cioè in modo pacifico e imbelle,
ma è il risultato di una lotta molto simile a quella prospettata da Hobbes. Tale lotta termina
solo quando una delle due autocoscienze si sottomette all’altra.
Vince, diventa padrona l’autocoscienza più forte, quella che mette in gioco se stessa,
quella che mostra di essere indipendente dal legame con la vita al punto da metterla a
repentaglio, elevandosi ad un livello superiore rispetto alla pura naturalità. Questa è
il signore. 
Perde, rimane al livello della naturalità quell’autocoscienza che ha rifiutato di rischiare
preferendo la vita, che preferisce la materialità alla spiritualità, che rinuncia alla propria
autodeterminazione, quindi alla propria libertà, sottomettendosi al signore: questo è
il servo. 
Naturalmente Hegel, secondo i dettami dell’idealismo, non fa riferimento alla forza fisica e
materiale, ma a quella spirituale e dice testualmente che colui che diventa padrone è colui
che non ha avuto timore della morte. C’è chi, piuttosto di diventare schiavo, preferisce
correre il rischio della morte e chi, viceversa, piuttosto di correre il rischio della morte,
preferisce diventare schiavo: in altre parole, vince per davvero chi fa prevalere dentro di sé
l’aspetto spirituale, universale (rifiutando la servitù) e riesce a sconfiggere quello materiale,
propria di colui che è chiuso nella propria singolarità (il timore della morte della carne).
Disprezzando la servitù e preferendo la morte, si trionfa, ancor prima che sul nemico,
all’interno di se stessi, facendo vincere la spiritualità. Entrando nel dettaglio della
dialettica servo-padrone, prima figura dell’Autocoscienza, che è identificabile nel periodo
greco-romano o per altri critici nel dispotismo orientale, bisogna precisare che:
 qui, la servitù, più che la subordinazione materiale (le catene dello schiavo), esprime
una dipendenza interiore;

 tali rapporti conflittuali non devono mai portare all’annullamento dell’autocoscienza


antagonista, poiché un’autocoscienza non può davvero essere tale se non in rapporto
con altre autocoscienze: venendo meno uno dei due opposti, anche l’altro si sgretola.
Perciò il rapporto-conflitto tra le autocoscienze non porta mai alla distruzione
totale di uno dei rivali, bensì porta all’asservimento, ovvero al prendere possesso
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in forma di schiavitù dell’autocoscienza antagonista: un’autocoscienza diventa
padrona, l’altra schiava.
Marx apprezzò tale figura in modo particolare per la grande abilità con cui Hegel tratteggia
la nascita della schiavitù ma ancora di più per il fatto che Hegel dimostra che quello tra
servo e padrone è un rapporto dialettico, dinamico e aperto al capovolgimento.
Infatti, con la tecnica del capovolgimento dialettico, il rapporto di schiavitù tende a
stravolgersi nel suo contrario con la conseguenza che il vero padrone è il servo. In
particolare, Hegel fa notare che il rimedio di asservire l’altra autocoscienza senza
eliminarla, in realtà porta all’eliminazione della figura del signore, poiché si finisce per
considerare l’autocoscienza-serva non più come un’autocoscienza, ma come una
‘cosa’. Infatti, il padrone, come già aveva dimostrato Aristotele, considera il proprio servo
come una cosa, alla pari del bue o dell’aratro. In altre parole, dinamiche come quella di
dominio/sottomissione non possono produrre forme autentiche di riconoscimento poiché
viene a mancare il momento dialettico dell’oggettivazione, del riconoscimento di sé:
autentico riconoscimento si ha solo nel momento in cui ogni autocoscienza offre
liberamente all’altra la propria indipendenza in un rapporto di mutuo riconoscimento.
Il servo, invece, dipendendo dal signore, non ha autonomia, è ridotto ad una cosa al pari di
un qualsiasi oggetto della natura. Il padrone, non avendo più un’autocoscienza con cui
confrontarsi, perde la propria natura di autocoscienza, infatti, il riconoscimento che riceve
dal servo non è quello che voleva ottenere all’inizio, non è il riconoscimento da parte di
un’autocoscienza di pari dignità ed è quindi inautentico, in quanto non avviene
liberamente. Il padrone, insomma, non avendo più un’autocoscienza con cui confrontarsi,
perde la propria stessa natura di autocoscienza e alla fine il vero padrone è il servo
stesso, l’unico che si confronti con un’autocoscienza, l’unico ad avere di fronte a sé
un’autocoscienza che è quella del padrone.
Diverso sarà anche il rapporto col mondo materiale: anche qui siamo di fronte al
capovolgimento dialettico per cui ad essere veramente importante è il servo e non il
padrone.  Il padrone non lavora, il servo sì: il servo è uno strumento mediante il quale
agire sulle cose ma si tratta di un dominio solo apparente. “Lavorare” significa dominare le
cose mettendo l’impronta dello spirito nella materia. Il padrone, costringendo il servo a
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lavorare al suo posto, vive la natura passivamente, attraverso un rapporto di mera
fruizione ma non impone su di essa il proprio suggello: non si confronta con il mondo della
natura che oppone resistenza e rinuncia a dominarlo, rendendosi dipendente dal
servo.  Dall’altra parte il servo aveva perso la propria indipendenza per aver avuto paura
della morte, pertanto, l’autocoscienza servile è l’autocoscienza del soggetto che, come
immagine di sé, ha l’immagine che l’altro (il signore) si è fatto di lui. In altre parole,
l’autocoscienza servile concepisce la sua esistenza come schiavitù, e non vede altro
senso per la propria esistenza che la mera esecuzione della volontà del signore. Il signore
è la verità, l’essenza, l’assoluto del servo. Il servo, tuttavia, diviene libero nella misura in
cui padroneggia e trasforma le cose da cui il signore riceve il proprio sostentamento, cioè
attraverso il lavoro. Più in particolare, questo processo di progressiva acquisizione di
indipendenza da parte del servo avviene attraverso tre momenti:
 paura della morte cioè non la paura di questo o di quello, ma la paura di perdere la
propria essenza;
 servizio, col quale il servo si autodisciplina e impara a vincere la paura e gli altri istinti
naturali;
 lavoro, attraverso il quale perviene alla coscienza della propria indipendenza, della
sua capacità di dar forma alle cose, di trasformare la natura recalcitrante e ostile
dandole il proprio ordine, di oggettivarsi in essa e quindi umanizzarla, conferendole
cioè spiritualità, trasformandola in un prodotto spirituale: un tavolo non è solo un albero
tagliato in un certo modo, ma un insieme di valori e di funzioni spirituali, un oggetto in
cui è impressa la traccia dello spirito umano. Quindi, attraverso il lavoro, il servo non è
più quello di prima, diviene un altro, o meglio, come dice Hegel, nel lavoro la coscienza
prende consapevolezza di sé, ritrova se stesso, ritrova la sua libertà, la sua spiritualità:
se il padrone, privo di un riconoscimento autentico, si è dissolto, il servo, attraverso il
lavoro, prende consapevolezza della sua superiorità in quanto soggetto autonomo,
libero.
Si è realizzato quindi un capovolgimento dialettico: il servo diviene autocosciente
mediante il lavoro, mentre il signore, che ha rinunciato ad uscire da sé, a confrontarsi con
le cose lasciando al servo questo compito, perde gradualmente l’autocoscienza. Tuttavia,
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la libertà del servo è solo astratta perché egli di fatto è ancora dipendente dal signore: lo
schiavo in catene può certo considerarsi libero e superiore nei confronti di colui che lo
opprime, ma non per questo le catene cesseranno di vincolarlo. La coscienza, insomma,
perviene alla conclusione che la sua è una libertà solo interiore: egli è libero solo nel
pensiero puro, slegato dalla vita.

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 Stoicismo e scetticismo
Queste sono forme di libertà ancora “astratte” e conducono, come vedremo, la coscienza
alla sua infelicità. Spetta allo stoicismo il merito di aver tentato di uscire da questa
condizione in cui si trova il servo insegnando che a contare non è la condizione materiale
in cui ci si trova (tant’è che furono allo stesso modo stoici un re, Marco Aurelio, e uno
schiavo, Epitteto) ma il pensiero puro che afferma la sua superiorità su ogni forma
particolare di esistenza. Pur ammettendone l’esistenza, lo Stoicismo nega l’importanza del
mondo materiale verso il quale assume come atteggiamento l’atarassia, cioè
l’indifferenza: la coscienza rimane del tutto impassibile di fronte alla relazione con l’altro e
con il mondo esterno, qualunque sia la forma in cui l’altro e la realtà si presentino. La
coscienza si sente libera sotto qualsiasi condizione, potremmo dire che la coscienza si
sente sul trono e in catene.
Una più radicale negazione dell’alterità si realizza nella coscienza scettica:
lo scetticismo porta alle estreme conseguenze queste considerazioni e, assolutizzando
la spaccatura tra interno ed esterno, arriva a mettere in dubbio l’esistenza di un mondo
esterno al soggetto e invita a comportarsi come se il mondo materiale non esistesse.  
L’indifferenza verso il mondo da parte dello scettico, la negazione di ogni oggettività e
l’affermazione solo della propria consapevolezza, della propria soggettività, si traduce
in libertà assoluta ma astratta: la libertà così concepita è vuota, incapace di appagare la
coscienza stessa. Spingendo fino in fondo il ragionamento, lo scettico cade in
contraddizione logica interna: se si deve dubitare dell’esistenza del mondo materiale,
allora si deve dubitare di tutto, coscienza compresa. In effetti, il ragionamento scettico è
paradossale: da una parte sostiene che niente è vero (quindi non esiste la verità), dall’altra
pretende di dire una verità (cioè che niente è vero); in realtà, la potenza nientificante di
questa contraddizione si volge anche verso la stessa coscienza. Il risultato è che la
coscienza stessa, insieme a tutto il resto, perde valore e fiducia in se stessa: è quello che
Hegel designa col nome di momento della coscienza infelice.

 Coscienza infelice
Nella coscienza infelice Hegel esprime la sua visione della cultura tardo antica e dell’Alto
Medioevo. La conquista della libertà dal mondo esterno non appaga l’autocoscienza, anzi
questa è segnata da una lacerazione interna, risultando profondamente scissa in due
realtà, l’una positiva (l’immutabile e l’uguale, o nel linguaggio hegeliano, l’intrasmutabile),
l’altra negativa, in un divenire (il trasmutabile). Il positivo viene proiettato dalla
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coscienza fuori di sé, in un Essere irraggiungibile, perfetto e immutabile, un Dio
trascendente; mentre il negativo è posto nella condizione umana.
La coscienza infelice è, quindi, la coscienza che vive se stessa come coscienza finita,
mortale, che per esistere deve ancorarsi a una realtà assoluta, infinita, del tutto estranea
alla coscienza stessa (= Dio trascendente). In questa figura c’è quindi una profonda
scissione tra l’autocoscienza dell’uomo (finita, mutevole e soggetta al peccato) e l’oggetto
della coscienza, la realtà vera, assoluta, infinita, a cui la coscienza tende senza mai
poterla raggiungere. La coscienza infelice è dunque la religione concepita
come alienazione e più in generale la separazione tra finito e infinito, avvertita come
scissione dolorosa. Con tale scissione tra soggetto e realtà, tra l’uomo e Dio, tra
l’immutabile e il mutevole, si chiude l’Età antica e si apre il Medioevo cristiano. Hegel, a
differenza della maggior parte dei Romantici, non guarda con simpatia al Medioevo poiché
in esso è il momento in cui domina la coscienza infelice.
L’infelicità non indica una condizione psicologica o sentimentale, ma la consapevolezza di
questa separazione ancora irrisolta, la consapevolezza della propria finitudine in rapporto
a Dio: è la nostalgia dell’infinito, identificato con la divinità e avvertito come
irraggiungibile da parte della coscienza umana, collocata in questo mondo ma rivolta
all’altro. Nella figura della coscienza infelice ogni accostamento dell’uomo alla Divinità
trascendente significa una mortificazione, un’umiliazione, un sentire la propria nullità, e da
ciò deriva appunto l’infelicità. In realtà, tale scissione aveva registrato il suo momento più
acuto con l’ebraismo, in cui Dio viene considerato come un giudice severo, dimorante in
una trascendenza assoluta. Questa distanza viene colmata in una certa misura dal
cristianesimo, il cui Dio, incarnandosi nell’uomo, si avvicina alla coscienza e al mondo.
Questo tentativo di ricongiungersi con il divino per il tramite di un momento sensibile (Dio
incarnato) si rivela però illusorio. Nel cristianesimo si cerca insomma di rendere
accessibile il Dio trascendente per mezzo del Dio incarnato (Gesù Cristo); tuttavia,
secondo Hegel, la pretesa di cogliere l’Assoluto in una figura storica è destinata al
fallimento, perché Cristo, vissuto in uno specifico e irripetibile periodo storico, risulta pur
sempre lontano e quindi per la coscienza rimane separato, estraneo. Dal punto di vista
storico, ciò è evidente nell’evento delle crociate, in cui la coscienza, desiderosa di
15
riunificarsi col divino per mezzo della pienezza sensibile, trova solo una desolante
assenza: il “sepolcro vuoto”. La figura del sepolcro riguarda sia la coscienza infelice
medievale sia la coscienza intesa come soggettività ancora legata alla realtà sensibile, al
qui. Hegel vedrà nella figura delle crociate il simbolo storico di una verità metafisica: il
sensibile non può contenere il concetto. Di conseguenza, anche con il cristianesimo, la
coscienza continua ad essere infelice e Dio continua a configurarsi come
un irraggiungibile al di là che sfugge. La vicenda della coscienza infelice trova il suo
culmine, ma anche la sua conclusione, nell’ascetismo del cristianesimo medievale. Le
figure dell’infelicità cristiano-medioevale sono:
 la devozione, cioè il pensiero religioso-sentimentale che non è ancora elevata a
concetto, essendo emozione pura e semplice. La coscienza tende verso l’immutabile,
ma questi le sfugge continuamente e ciò la rende prigioniera in questa tensione,
tipicamente romantica, di una infinita nostalgia che aumenta il dolore della scissione;
 il fare o l’operare, cioè la coscienza rinuncia a cercare l’immutabile, ma cerca di
esprimersi nel desiderio e nel lavoro. Anche questa esperienza ha però in sé una
scissione: il lavoro, le nostre capacità vengono intese come doni di Dio. In questo
modo, l’uomo si sente passivo nel suo operare;
 la mortificazione di sé, cioè il momento di massima disperazione della coscienza
relativamente alle proprie possibilità. L’ascetismo del cristianesimo medievale porta
l’uomo a rinunciare ai propri piaceri, alla proprietà, alla volontà, al proprio io, alla
propria individualità, a provare ripugnanza verso ogni aspetto naturale dell’esistenza.
Ma questa rinuncia dolorosa e drammatica è ciò che gli consentirà di riconoscere una
volontà universale, Dio, come libertà assoluta e di unificarsi ad essa dopo essersi
spogliato di ogni realtà particolare, sia interiore che esteriore. È questo il momento in
cui avviene l’unificazione mistica col divino. Con l’ennesimo capovolgimento
dialettico, che parte dalla concezione di un Dio radicalmente opposto all’uomo, si
arriva con la mistica alla concezione di un’unità inscindibile tra uomo e Dio, si chiude la
seconda tappa (autocoscienza) della Fenomenologia e si apre la terza, la tappa della
ragione. L’ascetismo diviene il momento più alto: rinunciando a sé, la coscienza si
avverte parte di una realtà superiore, diviene consapevole che la propria individualità
16
ha una dimensione più ampia del suo esistere particolare. Attraverso l’esperienza
ascetica, l’uomo si innalza a Dio e si perde in Lui, trova il divino in se stessa.
L’autocoscienza si rende conto di comprendere in sé l’intera realtà, di essere ogni
realtà, di essere ragione.

2.4. RAGIONE
Come soggetto assoluto, l’autocoscienza diventa dunque ragione e assume in sé ogni
realtà. Per Hegel la ragione è la certezza di essere ogni realtà. Le tappe della ragione
sono tre: la ragione osservativa, la ragione attiva e l’individualità.

La ragione osservativa, la coscienza individua la razionalità nell’osservazione delle leggi


della natura. Egli esamina a questo proposito due scienze che erano di moda ai suoi
tempi: la fisionomia e la frenologia che pretendeva di conoscere il carattere dalla forma del
cranio.

La ragione attiva, invece, che ha come sfondo l’Illuminismo e la rivoluzione francese, si


avvale di tre figure: il piacere e la necessità; la legge del cuore e il delirio di presunzione; e
la virtù e il corso del mondo. Ma il contrasto tra virtù e la realtà concreta si conclude con la
sconfitta del “cavaliere della virtù”. Nella ragione attiva si deve realizzare l’idea di unità tra
uomo e mondo. Si deve dunque superare il dualismo che in alcune filosofie si è posto tra
uomo e mondo esterno. Tuttavia, secondo Hegel, questa unità non è data ma è da
conquistare. La prima figura (il piacere e la necessità) è quella in cui l’individuo deluso
dalla scienza e dalla ricerca naturalistica si getta nella vita e va alla ricerca del proprio
godimento per sperimentare come nel mondo ci si possa stare, come il mondo non sia
separato da noi. La seconda figura della ragione attiva è la legge del cuore e il delirio
della presunzione che porta ad individuare un bene e a perseguitare tutti coloro che a
questo bene non si attengono. Una volta che si è capito il limite, l’inconsistenza di questo
atteggiamento si passa, invece, alla terza e ultima figura della ragione attiva ovvero la
virtù e il corso del mondo. Il vero virtuoso, infatti, è colui che pratica individualmente la

17
virtù ma lascia liberi gli altri di praticare la propria. Ha pertanto un atteggiamento di
tolleranza nei confronti del mondo.
Alle sezioni della ragione osservativa e della ragione attiva, Hegel fa seguire una terza
sezione che denomina “l’individualità”, pur potendo raggiungere la propria realizzazione,
rimane, in quanto tale, astratta e inadeguata.
La prima figura è quella del regno animale dello spirito e l’inganno. Agli sforzi e alle
ambizioni della virtù subentra l’atteggiamento dell’onesta dedizione ai propri compiti
particolari. Alla base di questo regno animale vi è l’inganno, in quanto l’individuo tende a
spacciare la propria opera come la cosa stessa, cioè come il dovere morale stesso,
mentre essa esprime solo il proprio interesse.
La seconda figura è quella della ragione legislatrice dove l’autocoscienza cerca in se
stessa delle leggi che valgono per tutti.
La terza figura è la ragione esaminatrice delle leggi ossia cerca delle leggi
assolutamente valide. Tuttavia, nella misura in cui sottomette le leggi al proprio essere,
essa appare costretta a porsi al di sopra delle leggi e quindi a ridurne la validità intrinseca
delle leggi stesse.

Le figure fin qui analizzate, fanno dire a Hegel che se ci si pone dal punto di vista
dell’individuo, si è condannati a non raggiungere mai l’universalità. Quest’ultima si
trova solo nella fase dello spirito ossia di ciò che Hegel denomina spirito oggettivo ed
eticità, intendendo con questa espressione la ragione che si è realizzata concretamente
nelle istituzioni storico-politiche di un popolo, soprattutto dello Stato.
Infatti le leggi etiche risultano pure astrazioni se manca lo Stato a determinarne il
contenuto. In altri, la ragione reale non è quella dell’individuo ma quella dello spirito o
dello Stato che per Hegel reggono e rendono possibile ogni atto della vita individuale.

18
2.5. LO SPIRITO, LA RELIGIONE E IL SAPERE ASSOLUTO
Abbiamo visto che per spirito Hegel intende l’individuo nei suoi rapporti con la comunità
sociale di cui fa parte. La sezione dello spirito comprende tre tappe fondamentali:
lo spirito vero; l’eticità;
lo spirito che si è reso estraneo a sé; la cultura;
lo spirito certo di se stesso; la moralità.
Il primo momento corrisponde alla polis greca caratterizzato dalla fusione di individuo e
comunità
Il secondo momento corrisponde alla frattura tra l’io e la società con una cultura
corrosiva che tende a criticare e a distruggere tutto. Periodo storico di riferimento è la
rivoluzione francese che volendo instaurare il regno della libertà ha dato invece origine a
una società di Terrore.
Il terzo momento è quello di una ripresa eticità e armonia tra individuo e comunità, dove
lo spirito si riconosce nella sostanza etica dello Stato.
Con la religione e con la filosofia, l’individuo acquista la piena, totale ed esplicita
coscienza di sé come spirito. Dopo che l’autocoscienza ha trovato pace nello Stato e la
verità nella filosofia idealistica di Hegel, il ciclo del fenomeno appare esaurito.

3.1. LA LOGICA HEGELIANA


Il sistema hegeliano si articola in tre sezioni: la logica, la filosofia della natura e la filosofia
dello spirito.
Alla logica Hegel dedica l’opera la Scienza della logica che contiene la dottrina
dell’essere, la dottrina dell’essenza e la dottrina del concetto.
La logica studia la struttura programmatica o l’impalcatura originaria, logico-razionale del
mondo. Hegel distingue:
- la filosofia che si occupa di oggetti concreti
- la logica che considera la struttura astratta degli oggetti concreti che si specifica a
sua volta in concetti o categorie.
Per Hegel il pensiero è l’oggetto di studio della logica, e quindi non è una facoltà
dell’individuo. La logica hegeliana assume come punto di partenza l’equazione idealista
19
tra soggetto e oggetto, pensiero ed essere, forma e contenuto, e pertanto indaga il
pensiero in quanto è la realtà così come si presenta alla coscienza come suo oggetto.
Pertanto i concetti studiati dalla logica non sono pensieri soggettivi ma pensieri oggettivi
che esprimono la realtà nella sua essenza.
Un altro aspetto nel quale emerge lo stretto rapporto della logica con la realtà è dato dalle
rappresentazioni che sono una prima interiorizzazioni degli oggetti. Pertanto il pensiero
non opera direttamente sulle “cose”, sugli oggetti esteriori ma ha come sua materia le
rappresentazioni che interiorizza sempre più per poi elevarle alla purezza del concetto.
Possiamo dire che i concetti della logica hegeliana sono concetti purificati perché partiti
da concrete esperienze storico-fenomenologiche.

Per questo possiamo affermare che c’è uno stretto rapporto tra fenomenologia e logica
perché sia le figure della fenomenologia che le categorie della logica hanno lo stesso
contenuto, anche se si pongono a un livello di astrazione diverso. Come il parlare
concreto rende possibile individuare le regole grammaticali, così le categorie logiche sono
presenti e operanti nelle diverse esperienze storiche dell’umanità.
Pertanto le categorie hegeliani non hanno origine nell’oggetto ma sono determinazioni
del pensiero e della realtà in sé e nello stesso tempo.
Se le rappresentazioni si fondano sulla distinzione tra oggetto e soggetto, il pensiero della
logica non ha invece alcun oggetto intuitivo o rappresentato di fronte a sé. E in quanto
capace di autodeterminarsi, cioè di produrre dentro di sé e da sé la ricchezza di contenuti,
il pensiero logico diviene per Hegel il modello stesso della libertà.
Dopo che la coscienza, nel cammino della Fenomenologia, si è liberata dal limite della
cosa in sé e dall’alterità dell’oggetto, il sapere puro della logica è pensiero che si
muove liberamente nel proprio substrato ossia nei pensieri.

Consideriamo ora le varie posizioni del pensiero rispetto all’oggettività:


- la prima corrisponde al procedere ingenuo, secondo cui da una parte c’è il
pensiero e dall’altra le cose, e il pensiero può conoscere ciò che gli oggetti
veramente sono;
20
- la seconda posizione è quella dell’empirismo che elevando il contenuto della
percezione a rappresentazione, fa della rappresentazione la norma e la misura
dell’oggettività, riducendo la realtà vera delle cose a qualcosa di incognito che il
pensiero non può penetrare, cadendo così nello scetticismo;
- la terza posizione è la filosofia della fede a cui Hegel l’onore di “saltare” contro
ogni scetticismo dal pensiero all’essere.

Come si nota, la logica (studio del pensiero) e la metafisica (studio dell’essere) sono
per Hegel la stessa cosa.

21
L’articolazione della logica hegeliana

La logica hegeliana si divide in logica dell’essere, logica dell’essenza e logica del


concetto, e mostra un percorso logico di come partendo dai concetti più poveri e astratti si
arrivi, sotto l’assillo della ragione dialettica che svela la parzialità dei concetti di volta in
volta raggiunti e il loro trapassare in altre categorie, a concetti sempre più ricchi e concreti
fino ad arrivare all’Idea.

La logica dell’essere.
La logica dell’essere si divide in logica della qualità (che è la categoria più immediata
attraverso cui si colgono le cose), della quantità (che consiste nel superare la
determinazione qualitativa mediante la numerazione) e della misura (che della qualità e
della quantità rappresenta la sintesi).
La qualità è la determinazione indeterminata, cioè la determinazione concettuale più
immediata e generica. La qualità specifica l’essere e lo rende finito. La conoscenza
fondata sulla rappresentazione qualitativa, conduce ad una rappresentazione del mondo
fondata su individualità sussistenti di per sè, come le monadi leibnitziane. La triade con cui
comincia il movimento logico della categoria della qualità è costituita dall’essere, dal non
essere e dal divenire.
 L’essere è la categoria più vuota, povera e astratta, assolutamente indeterminata,
priva di ogni possibile contenuto e come tale essa si dà in modo semplice ed
immediato, senza identificarsi con questo o quell’essere particolare. Un qualcosa,
infatti, è tale solo in quanto si distingue da tutte le altre cose per le sue qualità. In
questo senso, la nozione di essere, in quanto priva di qualsiasi determinazione,
cioè non determinata, predicabile per tutto, non avendo una realtà propria, coincide
di fatto col nulla. In questo modo tutto è essere ma nulla lo è in modo esclusivo (si
tratta di essere in generale e non di essere particolare).
 Nulla: essere e nulla, contrapposti solo apparentemente, in realtà coincidono
perché dell’essere non si può predicare nulla senza con ciò stesso determinarlo.
Quindi il concetto di essere è identico a se stesso ma anche al concetto del nulla.
L’identità tra essere e nulla, a primo acchito talmente contraddittorio da risultare
22
incomprensibile, è semplicemente un nuovo modo di vedere la realtà: un modo
cioè dialettico. Per superare questa contraddizione, cioè l’identità tra essere–nulla,
il pensiero deve trovare un concetto che li ricomprenda entrambi su un piano più
elevato, un concetto che costituisca cioè la sintesi di essere e nulla. Questo
concetto è il divenire.
 Divenire: è l’unità di essere e nulla, in quanto il “divenire”, il
“mutare” è essere e non essere contemporaneamente (ciò che diviene,
infatti, è sempre se stesso ma non-è più ciò che era prima). Il divenire è la
reciproca trasformazione dell’essere nel non essere e viceversa. Ciò equivale
a dire che la realtà si presenta sempre nella forma di un divenire: ciò che diviene
infatti transita incessantemente dall’essere al nulla (muore) e dal nulla
all’essere (nasce). Dal divenire viene il qualcosa: l’essere non è più indeterminato
ma si determina.
La quantità corrisponde all’approccio meccanicistico al mondo;
La misura, la quale è data dal rapporto qualità-quantità e determina la quantità della
qualità (il quanto qualitativo): nella realtà, ogni qualità sussiste in un certo grado, così
come ogni quantità stabilisce il grado in cui sussiste una certa qualità. Il limite di Leibniz e
del meccanicismo consiste nel privilegiare un solo approccio, ignorando il rapporto che
esiste tra quantità e qualità. La misura pertanto supera la contrapposizione tra quantità e
qualità ma, in quanto mero ed estrinseco rapporto numerico, è inadeguata a cogliere
l’autentico quid delle cose: l’Essere non può essere colto nelle sue caratteristiche
immediate: qualità, quantità e misura. Tali categorie infatti si rivelano
insoddisfacenti poiché considerano l’essere nel suo isolamento mentre l’essere
determinato, che è sempre un’entità finita, non si può comprendere se non in
riferimento ad altro. Questo “fallimento” determina il passaggio ad una nuova sezione
della logica in cui assume rilevanza fondamentale “la verità dell’essere”, cioè l’essenza.

23
La logica dell’essenza
L’Essere, che è immediatezza, livello superficiale, si supera e trapassa nell’Essenza,
che è il fondamento, la verità dell’Essere. Ciò avviene attraverso il momento
della riflessione in cui l’Essere si ripiega su se stesso, finendosi per riconoscere
uguale a se stesso e diverso dalle altre essenze. Nella logica dell’essenza, quindi, il
pensiero si approfondisce, ossia cresce secondo la dimensione della profondità perché
vuol vedere che cosa c’è sotto la superficie dell’essere e arrivare al fondo di esso,
trovando la verità, il fondamento, le radici, l’Essenza stessa dell’Essere. L’essenza, però,
non è rinchiusa in una definizione, ma si fa nel rapporto e nel conflitto, in un rapporto
dialettico. L’essenza nasce quando il dato iniziale è messo in relazione con la negazione,
cioè con il suo opposto, con la differenza (omnis determinatio est negatio). Nel momento
in cui si definisce qualcosa in modo preciso, si esclude, cioè si negano tutte le altre
determinazioni. Attraverso la negazione, ogni realtà definisce se stessa, ma al tempo
stesso chiarisce le proprie relazioni con le altre realtà. La negazione, tuttavia, non nega
mai tutto, nega sempre qualcosa di determinato, un contenuto particolare. Per questo è
una negazione determinata. Quindi la negazione ha un ruolo positivo, dinamico e pone le
basi per il superamento delle differenze, delle opposizioni, giungendo così ad una totalità
superiore. Qui Hegel respinge la logica aristotelica fondata sul principio di identità (A è A),
di non contraddizione (A non è non A) e del terzo escluso (A o non A).

La logica del concetto


Scaturisce dal superamento delle due precedenti fasi. Nella logica del concetto il pensiero
raggiunge la sua compiutezza, ossia si attua l’identità tra pensiero e essere. Il concetto
non è più il concetto dell’intelletto astratto e unilaterale, diviso dalla realtà e opposto ad
essa, ma è l’idea, il concetto della ragione, che è il solo punto di vista della verità. Il
Concetto è il pensiero stesso, è il Soggetto che autocreandosi crea tutte le
determinazioni logiche, produce i suoi contenuti, si scopre insomma essere tutta la
realtà. In altre parole, il pensiero, nel suo procedere, realizza se stesso e il proprio
contenuto. La logica del concetto non sfugge alla consueta struttura tripartita e si divide in
dottrina della soggettività, dottrina dell’oggettività e dottrina dell’idea. In altre parole, la
dialettica del concetto mira nel suo complesso a un “riassorbimento” dell’oggettivo nel
soggettivo e alla definitiva affermazione del sapere assoluto o spirito come soggetto o
24
idea. L’idea è l’unificazione compiuta di pensiero e realtà: è la struttura dinamica
dell’esistenza. Qui Hegel intende fornire una “dimostrazione” definitiva di quell’identità
dialettica di soggetto e oggetto che costituisce il nucleo della sua filosofia: è la ragione,
intesa come unità dell’ideale e del reale, del finito e dell’infinito, dell’anima e del corpo, del
soggetto e dell’oggetto. Il concetto è l’Idea che si auto-crea e auto-creandosi crea la
totalità della realtà in tutta la ricchezza delle determinazioni logiche e relazioni
interiori.

Hegel ha quindi ripristinato l’unità tra pensiero ed essere, considerando le idee non come
qualcosa di astratto e irreale: esse infatti “hanno mani e piedi” per muoversi e agire nella
realtà. Con ciò la struttura logica è completata: l’idea esce da sé, si spazializza, per
diventare mondo, per uscire fuori di sé in direzione della natura.

3.2. LA FILOSOFIA DELLA NATURA

La filosofia della natura, illustrata nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche, è la seconda


parte del sistema hegeliano. La prima parte di esse, la logica, riguarda l’Idea in sé,
considerata nella forma del pensiero puro. Per oggettivarsi, per essere oggetto a se
stessa, l’Idea deve quindi uscire dall'”in sé”, esteriorizzarsi, diventare “altro” rispetto al
pensiero puro. Questa “Idea nella forma dell’essere altro” è la natura. Se il pensiero
puro (l’Idea in sé) è universalità, necessità, unità, invece la natura (l’Idea fuori dal sé) è,
al contrario, particolarità, accidentalità, dispersione, “per sé”. La natura è infatti
caratterizzata dall’estraneità non solo nel senso che essa è “altro” rispetto al pensiero
puro, ma anche nel senso che è estrinsecità in se stessa, ossia dispersione di momenti
particolari che non trovano un principio e una legge unitari.
Anche la natura, però, come le altre parti del sistema, obbedisce ad uno schema dialettico.
Infatti, essa si presenta come un sistema di gradi di cui l’uno esce dall’altro
necessariamente ed è la prossima verità di quello da cui risulta. Questi, che sono poi tre,
costituiscono una gerarchia in cui si rivela un progressivo passaggio dall’estrinsecità
all’unitarietà, attraverso il graduale affermarsi di quell’elemento dell’individualità che
troverà  il suo più proprio campo di applicabilità  nell’ultima parte del sistema hegeliano, la
filosofia dello spirito.
La filosofia della natura in Hegel ha dunque una funzione prevalentemente sistematica:
essa è il necessario momento di passaggio della logica alla filosofia dello spirito, ossia dal
pensare che non ha un oggetto esterno a sé, all’autocoscienza dell’Assoluto come

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unità sostanziale di soggetto e oggetto, di pensiero e realtà, di finito ed infinito. Ma questo
passaggio può avvenire soltanto attraverso la negazione dell’Idea in sé, attraverso
l’esperienza di quel che non è il pensiero puro, di quel che è puro oggetto senza soggetto,
ossia appunto la natura.
Le divisioni fondamentali della filosofia della natura sono: la meccanica, la fisica e la
fisica organica:
- la meccanica: rappresenta il momento dell’estrema particolarità ed estrinsecità. In
essa, infatti, l’unità della forma è imposta soltanto dal di fuori, attraverso leggi
astratte (le leggi del movimento della materia) e concetti anch’essi astratti (come lo
spazio ed il tempo).
- la fisica: comincia a sorgere l’individualità, dapprima come individualità
universale (le qualità fisiche degli elementi fondamentali), poi come
individualità particolare (le proprietà fondamentali della materia: peso specifico,
coesione, suono, colore) ed infine, come individualità  totale (le qualità  fisiche
considerate come espressioni particolari di tutta la natura: la struttura dei corpi, il
magnetismo, l’elettricità , il chimismo).
- la fisica organica, in cui emerge l’elemento dell’individualità soggettiva tenuta su
da un’unità che presenta già caratteri ideali. I tre momenti interni alla fisica organica
(natura geologica, natura vegetale, natura animale) sono interpretati in chiave
teologica e vitalistica, in modo da essere finalizzati gerarchicamente alla
realizzazione dell’individualità  soggettiva, la quale trova piena espressione soltanto
laddove le parti animate diventano membra di un unitario organismo animale.
Hegel è fortemente polemico con le concezioni romantiche della natura. Rispetto ad esse
egli dissente su due punti fondamentali. Prima di tutto, egli non accetta l’identificazione
della natura con Dio (o comunque un riconoscimento di un carattere divino della natura).
Questo equivarrebbe a identificare la natura con la sostanza infinita, mentre per Hegel
essa rappresenta soltanto una “caduta”, una “negazione” (per quanto necessaria per la
successiva realizzazione dialettica dello spirito) rispetto alla purezza dell’Idea in sé. In
secondo luogo, Hegel non condivide la concezione romantica e soprattutto propria di
Schelling di una natura sostanzialmente convergente con lo spirito: al contrario, per lui
spirito e natura si oppongono e lo spirito non può sorgere se non laddove la natura in
quanto tale (ovvero in quanto non-pensiero, in quanto esteriorità) viene negata e risolta in
un momento interno all’Idea. In comune con la filosofia romantica della natura, Hegel ha
invece la profonda ostilità alla tradizione newtoniana che aveva imparato nel Settecento.

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La fisica newtoniana (e, prima ancora, galileiana) era fondata sulla convergenza di due
metodi: metodo empirico e metodo matematico. Nessuno dei due piace ad Hegel.
All’esperienza concreta, ossia empirica, egli oppone il metodo speculativo, che non si
limita a connettere le testimonianze della sensibilità, ma definisce ogni aspetto particolare
della realtà mediante il suo rapporto con il tutto inteso come sostanza infinita ed assoluta.
Al metodo matematico, che impone agli oggetti una razionalità astratta ed estrinseca,
Hegel sostituisce il metodo dialettico, che mostra l’intrinseco derivare di un aspetto
dall’altro in una reciproca relazione di opposizione e di unità. Invece la filosofia
speculativa, con il suo metodo dialettico, fornisce un fondamento assoluto ad ogni aspetto
della realtà, riconducendolo, attraverso successive mediazioni, alla totalità infinita (che
ovviamente, per Hegel, è fondata su se stessa).

3.3. LA FILOSOFIA DELLO SPIRITO


Hegel considera la filosofia dello spirito come la forma di conoscenza più alta e difficile.
Oggetto dello studio è l’idea che, dopo essersi estraniata da sé, si eclissa come natura per
farsi soggettività e libertà, cioè auto-creazione e auto-produzione.
Lo sviluppo dello spirito avviene attraverso tre momenti principali:
- lo spirito soggettivo, che è lo spirito individuale nell’insieme delle sue facoltà;
- lo spirito oggettivo, che è lo spirito sovra-individuale o sociale;
- lo spirito assoluto, che è lo spirito che sa e conosce se stesso nella forma
dell’arte, della religione e della filosofia.
Hegel nota come anche lo spirito procede per gradi e ogni grado è compreso e risolto nel
grado superiore, il quale a sua volta è già presente nel grado inferiore. Un esempio per
intenderci: l’individuo non esiste accanto alla società ma è ricompreso nella società, la
quale società a sua volta è presente nell’individuo fin dall’inizio.

3.3.1. LO SPIRITO SOGGETTIVO

Lo spirito soggettivo è lo spirito individuale, la singola esistenza, ossia l’individuo


separato dalla trama delle relazioni sociali, degli scambi intersoggettivi e dei rapporti
istituzionali: è il singolo astratto (separato) dalla comunità.

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Lo spirito soggettivo è appena uscito dalla natura, di cui porta ancora le tracce: esso è
dunque considerato nel suo lento e progressivo emergere dalla natura, attraverso un
processo che va dalle forme più elementari di vita psichica alle più elevate attività
conoscitive e pratiche.
La filosofia dello spirito soggettivo si divide in tre parti: antropologia, fenomenologia,
psicologia.
L’antropologia considera lo spirito come anima, la quale si identifica con la fase iniziale,
primitiva della vita cosciente, studia lo spirito nel suo progressivo differenziarsi
dall’esteriorità naturale: suo oggetto sono le interazioni fra l’anima e il corpo, ciò che noi
chiameremmo oggi i fenomeni psicofisici, nei quali la vita psichica è strettamente
connessa alla parte fisica e corporea (la sensazione, il sonno, la veglia, le relazioni
sessuali, le emozioni e il loro agire sul corpo etc.).
La fenomenologia studia lo spirito in quanto coscienza, autocoscienza e ragione e
riprende le figure principali di cui Hegel aveva già parlato proprio nella Fenomenologia
dello Spirito (è la scienza della coscienza).
La psicologia studia lo spirito individuale sia nelle forme universali del conoscere
teoretico, considerate da Hegel come intuizione, rappresentazione, memoria,
immaginazione, linguaggio, volontà: si tratta delle classiche facoltà cognitive, sia
praticamente. Si sviluppa in:
- spirito teoretico (conoscere)
- spirito pratico (agire)
- spirito libero (come sintesi di conoscenza e volontà).
Da qui è necessario uscire il prima possibile e costruire le relazioni sociali che portano allo
Spirito oggettivo (passaggio da Spirito soggettivo a quello oggettivo)

3.3.2. LO SPIRITO OGGETTIVO


Nella sfera dello Spirito oggettivo, lo Spirito si manifesta e si realizza in istituzioni
sociali concrete, facendosi mondo a livello sociale. A questa parte della sua
filosofia Hegel dedica, oltre a una parte dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in
compendio, i Lineamenti di filosofia del diritto (1821), unica opera di rilievo risalente al
periodo berlinese.
28
I momenti dello Spirito oggettivo sono: diritto astratto, moralità ed eticità.

29
Diritto astratto
Il diritto astratto, o formale, riguarda la manifestazione del volere libero del singolo
individuo, considerato come persona giuridica, ossia nella sua capacità esteriore di
compiere atti giuridicamente corretti, indipendentemente dai caratteri specifici che lo
caratterizzano e dalla sua interiorità.
Il diritto astratto si articola in tre momenti:
- Proprietà: l’individuo trova il suo compimento in un oggetto a lui esterno, che
rimane però espressione della sua volontà libera, giacché ciascuno può decidere
cosa fare con gli oggetti in suo possesso;
- Contratto: consiste nel reciproco riconoscimento delle proprietà private;
- Illecito e pena: è diviso a sua volta in tre momenti, diritto, delitto e pena.
L’esistenza di un determinato diritto, infatti, ammette la possibilità del delitto, in cui
la libertà altrui viene lesa, e la conseguente pena, intesa a sua volta come un diritto.
Infatti, nel momento in cui un individuo compie un delitto, si auto-esclude
dall’universalità di cui faceva parte e l’unico mezzo per ritornare nella società
consiste nel ricevere la punizione e riconoscerla interiormente.

Moralità
La moralità è il momento della libertà soggettiva, in cui l’individuo non è più
considerato nella sua esteriore capacità di possedere una proprietà o contrattare, bensì
nella sua dimensione interiore. Detto altrimenti: la volontà non si realizza più solamente in
rapporto all’esserci delle cose, ma si riflette in se stessa come soggettività e
autodeterminazione. Questo momento, a sua volta, si articola in:
- Proponimento e responsabilità: la volontà, in rapporto con le cose, trovandosi
coinvolta in differenti relazioni, riconosce come proprie le azioni che rispondono ad
un suo deliberato proposito, ad un suo proponimento.
- Intenzione: il proponimento prende la forma dell’intenzione; infatti la volontà non
può fermarsi ad un’amara rappresentazione, ma deve innalzarsi al pensiero.
- Bene in sé e per sé e coscienza morale: il fine della volontà diventa il bene e
consiste nell’integrazione universale di soggettività e benessere.
È questo un capitolo denso di riferimenti all’etica kantiana, nei confronti della quale Hegel
stabilisce analogie e differenze. Anzitutto, essendo la moralità fondata sull’interiorità, viene
posta di fronte al contrasto tra il bene universale cui aspira e il benessere parziale cui
ognuno tende. Inoltre la moralità conduce al conflitto tra essere e dover essere, tra la

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razionalità oggettiva e quella ideale dell’imperativo categorico tipicamente kantiano.
Tuttavia, sulle orme di Friedrich Schiller, Hegel si contrappone a quel rigorismo
morale secondo il quale si dovrebbe “fare con avversione quello che il dovere impone”,
affermando che essere morali significhi avere una propensione interiore al bene. La
moralità, nonostante ciò, non costituisce l’ultimo momento dello Spirito oggettivo, poiché si
esaurisce nell’interiorità e si configura come sterile inseguimento di un bene astratto.
Eticità 
L’eticità, terzo momento dello Spirito oggettivo, è definita da Hegel come “il concetto
della libertà divenuto mondo sussistente e natura dell’autocoscienza” ed è la moralità
sociale, ovvero la realizzazione concreta del diritto e del bene nelle forme istituzionali
della famiglia, della società civile e dello Stato:
- Famiglia: “è il primo momento dell’eticità, cioè della condivisione oggettiva di valori
morali. L’eticità nel suo momento immediato e naturale”; Si articola, a sua volta
in: matrimonio, che “è la prima forma della negazione dell’individuo in quanto tale:
ciò che era ‘due’ diventa oggettivamente ‘uno’” (è la sintesi che trasforma - “senza
perderli” - l’uomo e la donna in un legame indiviso e indivisibile, in “un’unica
persona”); patrimonio, in cui vi è la comunione dei beni dei differenti individui che
costituiscono la famiglia; educazione dei figli, momento di compimento ma anche
di disgregazione della famiglia, poiché “i figli escono dalla vita concreta della
famiglia, cui originariamente appartengono: diventano esseri per sé, destinati per
altro a fondare una nuova famiglia reale. Il matrimonio si scioglie essenzialmente in
forza del momento naturale che è la morte dei coniugi”.
- Società civile: è un sistema di rapporti egoistici, “sistema dell’atomistica, campo di
battaglia dell’interesse privato e individuale di tutti contro tutti”, che si identifica sia
con la sfera economico-sociale, sia con quella giuridico-amministrativa del vivere
insieme. Si articola in tre momenti: il sistema dei bisogni (è un sistema in cui gli
individui vengono inseriti, da una parte come soggetti con particolari bisogni che
devono essere soddisfatti, dall’altra come soggetti dotati di capacità volte a
soddisfare i bisogni altrui. Di qui, ne consegue la suddivisione in classi della
società: si hanno la classe sostanziale - costituita da chi “ha il suo patrimonio nei
prodotti naturali di un terreno che lavora”, ossia dagli agricoltori - quella formale -
costituita da “chi ha per sua occupazione il dar forma al prodotto naturale”, ossia
dagli artigiani - e quella universale, costituita da “chi ha per sua occupazione gli
interessi universali della situazione sociale”, ossia dai pubblici
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funzionari); l'amministrazione della giustizia (che considera l’individuo nella legge e
con la legge e riguarda la sfera delle leggi e della loro tutela); la polizia e le
corporazioni (la polizia provvede alla sicurezza sociale, garantendo la protezione
dello sviluppo degli interessi; le corporazioni, invece, promuovono la realizzazione
della soddisfazione dei bisogni e la volontà del singolo con quella del gruppo,
prefigurando l’universalità statale).

Lo Stato
È l’ultimo momento dell’eticità e rappresenta la riaffermazione dell’unità della
famiglia (tesi) aldilà della dispersione della società civile (antitesi). Questa concezione di
uno Stato divinizzato in quanto incarnazione della Ragione Infinita, si differenzia
profondamente dal modello elaborato da John Locke, dal giusnaturalismo più in generale
e anche da Immanuel Kant, in quanto non è più una costruzione artificiale volta a garantire
i diritti degli individui. Secondo Hegel, inoltre, accettare le teorie liberali significherebbe
confondere la società civile con lo Stato e scrive a tal proposito:

«Se lo Stato viene confuso con la società civile e la destinazione di esso viene posta nella
sicurezza e nella protezione della proprietà e della libertà personale, allora l’interesse
degli individui come tali e il fine estremo per il quale essi sono uniti, e ne segue parimenti
che essere membro dello Stato è qualcosa che dipende dal proprio piacimento. Ma lo
Stato ha un rapporto diverso con l’individuo; giacché lo Stato è Spirito oggettivo,
l’individuo stesso nella sua oggettività verità ed eticità in quanto membro del medesimo».

Occorre, altresì, rammentare, come ha fatto notare Norberto Bobbio, che Hegel si


richiama al giusnaturalismo, considera lo Stato il punto apicale del processo storico, e la
legge la più alta manifestazione della volontà dello Stato. Questa concezione, tuttavia, si
differenzia anche da quella elaborata da Jean-Jacques Rousseau, il quale aveva ritenuto
che la sovranità risiedesse nel popolo; infatti, secondo Hegel “i molti come singoli sono
certamente un insieme, ma soltanto come una moltitudine - una massa informe”. La
polemica anti-liberale e anti-democratica ha come presupposto la concezione organicistica
dello Stato, secondo la quale lo Stato fonderebbe gli individui, precedendo quindi questi
ultimi sia cronologicamente che idealmente.

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Anche lo Stato presenta tre momenti: diritto statuale interno,  diritto statuale
esterno  e  storia del mondo.
Nel primo momento sono affrontati problemi più importanti del pensiero politico. Anzitutto
si discute sulla costituzione, che non è opera di un mero agglomerato atomistico di
individui, bensì qualcosa che emerge dalla vita storica di un popolo e che determina i tre
poteri che regolano la vita politica: potere legislativo, esecutivo o governativo, principesco
o monarchico (in cui convergono l’aspetto dell’individualità - il sovrano come persona
singola - e quello dell’universalità - il sovrano come rappresentante dello Stato). Hegel si
esprime a favore della monarchia costituzionale, in quanto essa rappresenta la
“costituzione della ragione sviluppata, rispetto alla quale tutte le altre appartengono a gradi
più bassi”. La monarchia costituzionale risolve in se stessa sia la monarchia, sia
l’aristocrazia, sia la democrazia; in essa il sovrano non comanda arbitrariamente, ma
fonda la propria volontà su quella popolare. 
Il secondo momento, invece, riguarda il diritto che regola i rapporti internazionali dello
Stato. In esso, Hegel sostiene la non esistenza di un organismo superiore in grado di
accordare gli Stati, secondo l’ipotesi kantiana di una “pace perpetua”: l’unico modo per
dirimere le controversie è la guerra, momento strutturale della storia, tribunale del mondo.
 
3.3.2.1. LA FILOSOFIA DELLA STORIA
La nozione di “storia universale” o “storia del mondo” conclude la filosofia dello Spirito
oggettivo (essendo l'ultimo momento dello "Stato") e ad essa vengono dedicate, oltre che
gli ultimi paragrafi dei Lineamenti di filosofia del diritto, le Lezioni sulla filosofia della storia
universale, tenute a Berlino in diversi corsi universitari. Questo momento, inoltre, si colloca
tra lo Spirito oggettivo e lo Spirito assoluto, poiché in esso gli Stati, massima espressione
dello Spirito oggettivo, si rivelano come manifestazioni storiche della Ragione Infinita.
Hegel, pur non negando il fatto che la storia possa apparire all’intelletto come un tessuto
contingente e caotico di fatti, afferma che “il grande contenuto della storia del mondo è
razionale, e razionale deve essere” e prosegue sostenendo che “una volontà divina
domina poderosa nel mondo, e non è così impotente da non saperne determinare il gran
contenuto”. Il fine della storia, infatti, è che lo Spirito giunga alla piena coscienza della
propria assolutezza, mediante uno sviluppo conflittuale, che avviene per
rovesciamenti e opposizioni, e per mezzo degli individui e delle loro passioni. Gli individui
sono così distinti:

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 Individui conservatori: questo genere di individuo deve consolidare lo spirito
del popolo nel quale vive, tramandando i costumi e agendo in conformità ai doveri
della classe. L’attività di questi, dunque, come scrive Hegel “consiste nel prendere
parte all’opera collettiva e nel contribuire a farla essere nelle sue forme particolari”.
 Individui cosmico-storici: questi sono uomini eccezionali, eroi che sanno andare
aldilà del proprio tempo, arguendo un contenuto spirituale che ancora non è stato
realizzato e facendo di esso il proprio scopo. Essi sono i “veggenti” ed “esprimono
ciò di cui è giunta l’ora”: trasformano il mondo e fanno progredire la storia,
determinando così l’epilogo e il superamento del contesto storico dal quale
provengono. Su di essi, tuttavia, incombe un tragico destino: infatti, la loro
funzione non è quella di realizzare la loro personale felicità, ma ha fini e destini
universali. Si tratta, in particolare, di “un’astuzia della ragione”, che si serve degli
individui e delle loro passioni come strumenti per realizzare i propri fini, lasciando
cadere gli eroi come “gusci vuoti” quando hanno adempiuto al loro compito.
Hegel individua quindi quattro fasi fondamentali del processo storico, detti mondi storici,
nelle quali si viene manifestando progressivamente la libertà, ossia il carattere essenziale
dello spirito:
 Regno orientale: è l’età infantile della storia ed è contraddistinta da un’autorità
patriarcale, tanto che il rapporto tra il sovrano e i sudditi richiama quello tra padre e
figli. Questo regno, inoltre, si configura come una teocrazia, poiché il sovrano è
divinizzato e manca una netta distinzione tra il potere temporale e quello spirituale.
Vi è un solo individuo libero ed è l’imperatore, il quale, tuttavia, esercitando una
libertà dispotica, non è libero come uomo. Scrive Hegel al riguardo: “Gli orientali
non sanno ancora che lo spirito, o l’uomo come tale, è libero in sé. Non sapendolo,
non lo sono. Essi sanno solo che uno è libero; ma appunto perciò questa libertà è
arbitrio […]. Quest’uno è perciò solo un despota, non un uomo libero, un uomo”.
 Regno della bella libertà (Grecia): è l’età della giovinezza della storia che
si “manifesta in una pluralità di Stati e dove sono uniti i due estremi del mondo:
libertà soggettiva e sostanzialità”. Qui sono liberi solo alcuni individui, altri sono
schiavi o, come afferma Hegel, “non solo i Greci ebbero schiavi, e la loro vita e il
sussistere della loro bella libertà fu vincolata a tale condizione, ma anche la loro
libertà non fu in parte che una fioritura accidentale, elementare, transitoria e
ristretta e, in parte, insieme, una dura schiavitù dell’umano”;

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 Regno romano: è l’età matura della storia, dove l’uomo, senza sottomettersi
all’arbitrio di un signore o al proprio, lavora faticosamente per un fine universale.
Per questo motivo, l’individuo si sacrifica e si sottomette allo Stato, diventando
una persona giuridica come privato. Anche qui, solo alcuni individui sono liberi;
 Regno germanico: è il regno che si è costituito con il cristianesimo e “solo le
nazioni germaniche sono giunte alla coscienza che l’uomo come uomo è libero, che
la libertà dello spirito costituisce la sua più propria natura”.
Infine, come si può notare, lo sviluppo storico segue un percorso eliodromico, tanto
che Hegel paragona il decorso di tale processo a quello della luce che va da Oriente ad
Occidente.
3.3. LO SPIRITO ASSOLUTO
Lo spirito assoluto è il momento in cui l’idea giunge alla piena coscienza della
propria infinità o assolutezza, ossia si prende coscienza che tutto è spirito e che nulla vi
è fuori dallo spirito. Tutto questo è il risultato di un processo dialettico rappresentato
dall’arte, dalla religione e dalla filosofia. Queste attività non si differenziano per il loro
contenuto ma per la forma, dove ognuna presenta lo stesso contenuto, che è l’Assoluto o
Dio:
- l’arte conosce l’Assoluto nell’intuizione sensibile;
- la religione nella rappresentazione
- la filosofia nella forma del puro concetto

L’arte
L’arte vive in maniera immediata la fusione tra soggetto e oggetto, spirito e natura, e
che la filosofia afferma come la natura sia una manifestazione dello spirito. Infatti quando
facciamo esperienza della bellezza artistica di fronte ad una statua greca, spirito e
natura vengono recepiti come tutt’uno, sia perché nella statua l’oggetto (cioè il marmo)
è già manifestazione sensibile di un messaggio spirituale, sia perché il soggetto (l’idea
artistica) è già concetto incarnato e reso visibile.
Esempio più evidente: ho dinanzi a me una statua lignea che rappresenta la Vergine Maria
Addolorata. La statua lignea, cioè l’oggetto, lavorata in un certo qual modo già mi
comunica un messaggio spirituale ossia una donna che soffre per la perdita del suo figlio
ma anche per tutta l’umanità sofferente. Il soggetto, ossia il messaggio che l’artigiano
vuole comunicarmi è già reso tangibile nella statua lignea stessa.

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Hegel dialettizza la storia dell’arte in tre momenti:
 l’arte simbolica: è caratterizzata dallo squilibrio tra contenuto e forma, ossia si
manifesta come incapacità di esprimere un messaggio spirituale (l’Assoluto)
mediante forme sensibili adeguate;
 l’arte classica: è caratterizzato da un armonico equilibrio tra contenuto
spirituale e forma sensibile, reso concreto mediante la figura umana;
 l’arte romantica: è caratterizzata da un nuovo squilibrio tra contenuto spirituale
e forma sensibile, dovuto al fatto che lo spirito prende coscienza che qualsiasi
forma sensibile è insufficiente ad esprimere in maniera compiuta l’interiorità
spirituale, e per questo preferisce volgersi alla filosofia.
La differenza con l’arte simbolica è data dal fatto che mentre in quest’ultima il messaggio
spirituale è così povero da non trovare la sua espressione figurativa adeguata, nell’arte
romantica invece è così ricco il messaggio spirituale da trovare inadeguata ogni
figurazione sensibile. Tale morte dell’arte esprime l’inadeguatezza dell’arte ad
esprimere la complessa spiritualità moderna.

La religione
Nella religione l’Assoluto si manifesta nella forma della rappresentazione che sta nel
mezzo tra l’intuizione sensibile dell’arte e il concetto razionale della filosofia.
La religione non esprime Dio in forma materiale (come avviene nell’arte) ma neanche in
termini concettuali puri (come avviene nella filosofia). Questo perché Dio è un oggetto del
pensare che la mente umana si pone davanti come se fosse una cosa separata dal mondo
e dall’uomo. Non essendo capaci di pensare Dio in maniera adeguata, la religione finisce
per fermarsi di fronte a un presunto mistero dell’Assoluto.
Diversamente dal pensiero, la rappresentazione procede non in maniera dialettica ma in
maniera a-dialettica. In altre parole, la religione è incapace di cogliere il movimento logico
e atemporale del concetto.
Nella religione, l’Assoluto è rappresentato in forma storica cioè come un evento
(creazione, incarnazione, redenzione) la cui verità viene accettata a partire dall’autorità di
una rivelazione. La filosofia attinge invece la verità non come fatto storico ma come
concetto eterno e necessario
Hegel affronta il problema del rapporto tra filosofia della religione e la religione stessa. La
filosofia della religione non deve creare la religione ma solo riconoscere la religione che

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c’è già. L’oggetto della religione è Dio mentre il soggetto della religione è la coscienza
umana indirizzata a Dio, lo scopo invece è l’unificazione di Dio e della coscienza.
Poiché alla religione è essenziale il rapporto tra Dio e la coscienza, la prima forma della
religione è il sentimento. Ma il sentimento non è in grado di giustificare questa certezza e
di trasformarla in verità oggettivamente valida.
Un passo avanti allora al sentimento è l’intuizione di Dio che si ha nell’arte e in particolar
modo nella rappresentazione che diventa il modo tipicamente religioso di pensare Dio.
Lo sviluppo della religione è lo sviluppo dell’idea di Dio nella coscienza umana attraverso
quattro stadi:
- nel primo stadio, detto religione naturale, Dio appare ancora come sepolto nella
natura. Le forme più basse della religione naturale sono la stregoneria e il feticismo,
quelle più alte sono quelle dove Dio appare come potenza o sostanza assoluta dei
fenomeni;
- nel secondo stadio troviamo le religioni naturali che già preludono alla visione di
Dio come spirito libero ma che si muovono ancora in un orizzonte naturalistico;
- nel terzo stadio troviamo le religioni dell’individualità spirituale in cui Dio appare in
forma spirituale, o in sembianze umane;
- nel quarto stadio troviamo la religione assoluta, cioè la religione cristiana, in cui
Dio si rivela per quello che è, cioè puro spirito infinito.
Anche se la religione cristiana si presenta come la più alta e vicina, con i suoi dogmi, alle
verità della filosofia (Cristo uomo-Dio, esprime l’identità tra finito e infinito), essa presenta
pur sempre dei limiti che sono tipici di ogni religione.
Per Hegel l’unica via di uscita alla religione è la filosofia che pur parlandoci di Dio e dello
spirito lo fa non con rappresentazione ma attraverso il concetto.
Per Hegel la religione è lo strumento attraverso cui tutti gli uomini possono entrare in
rapporto con la verità e apprendere che tutto è spirito, che la realtà è razionale.

La filosofia e la storia
Nella filosofia l’idea giunge alla piena coscienza di sé medesima. La filosofia ha lo
stesso contenuto e la stessa verità della religione. La filosofia è la ragione di Dio, cioè la
comprensione che Dio ha di se stesso, l’autocoscienza di Dio, il quale manifestandosi
all’uomo si svela a se medesimo. Ecco perché la filosofia è rivelazione piena e totale di
Dio.

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Hegel ritiene che la filosofia è l’intera storia della filosofia giunta finalmente a
compimento con Hegel. Per questo i vari sistemi filosofici che si sono avuti nel tempo
costituiscono una tappa necessaria del farsi della verità, che supera quella che precede ed
è superata da quella che segue.
Su questi presupposti Hegel riconosce nel proprio pensiero l’ultima espressione della
filosofia.

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