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Il rapporto tra uomo e natura nell’età romantica non è un argomento, né un tema, né
un aspetto di un argomento o di un tema: è un sistema. Ciò vuol dire che in esso
entrano in gioco un’infinità di motivi i quali, lungi dal dipanarsi in princìpi semplici e lineari, coinvolgono una fitta rete di intrecci talvolta anche ambigui e contraddittori. Affrontare, seppure sommariamente, un sistema del genere, significa anzitutto acquisire la consapevolezza che qualsiasi sistema complesso, indagato in un preciso momento del suo divenire, non può prescindere dalle manifestazioni del pensiero che, in epoche precedenti, hanno tentato di dare una risposta storica a domande perenni. Difficile individuare, nella storia umana, un sistema più presente ed indagato di quello che pone l’uomo di fronte alla natura: nel bene o nel male è ancora questo il dialogo in cui siamo impegnati, a nostra volta con le nostre risposte. La filosofia, la letteratura, le scienze e le arti del movimento romantico hanno dato interpretazioni forse oggi non più attuali, ma certamente ancora spendibili nella loro tensione e nel loro sforzo di chiarezza. Indagare quella tensione, o anche soltanto alludervi, è il proposito di questo scritto.
La filosofia schellinghiana della natura ha maggiori consonanze romantiche che non
quella di Fichte. La natura che in Fichte ha un ruolo puramente “negativo”, nel senso di un suo valore da concepirsi non come autonomo, ma come ostacolo che dev’essere superato ed eventualmente determinato dallo spirito (e non viceversa), in Schelling diventa una manifestazione dell’Assoluto pari a quella dello spirito: ciò che spiega la natura è quella stessa Intelligenza che spiega l’Io: ciò significa trasferire alla natura quella “attività pura” intesa da Fichte come essenza dell’Io. In tal modo Schelling giunge alla conclusione che la Natura è prodotta da un’intelligenza inconscia, che opera all’interno di essa, e che si sviluppa a gradi teleologicamente. La Natura diventa così, secondo il principio della filosofia schellinghiana, Spirito visibile e lo spirito Natura invisibile. E’ nell’assoluta unità dello Spirito nell’uomo e della Natura fuori dall’uomo che si deve risolvere il problema come sia possibile una Natura al di là della persona. E’ evidente come il naturalismo di Schelling segni il distacco dal meccanicismo settecentesco, presupponendo una natura animata e vivente. Vi è, nella natura, un’organizzazione generale e l’organizzazione, secondo quanto scrive in proposito il filosofo Nicolai Hartmann, non è ipotizzabile senza una forza produttiva. Una tale forza, tuttavia, ha necessità di un principio organizzativo che non può essere un cieco principio reale (oltre, dunque, la forza operosa di ascendenza foscoliana?), ma deve aver prodotto agendo in vista di una finalità: si può dunque trattare solo di un principio spirituale, di uno spirito al di fuori del nostro spirito. Il problema è che ad una mente fenomenica e finita non è lecito ammettere una coscienza al di là dell’Io, sicché lo spirito che opera nella natura dev’essere uno spirito inconscio. E’ qui che risiedono, allo stesso tempo, sia il punto di contatto che quello di divisione da Fichte. La Dottrina della scienza presupponeva il sorgere della Natura dall’immaginazione produttiva dell’Io (in modo solo idealistico), Schelling invece, pur mantenendo questo operare privo di coscienza, lo trasferisce nella realtà oggettiva, dal momento che il principio che vi opera spiritualmente non è per lui l’Io, ma qualcosa al di fuori di esso. E’ in sostanza un principio del reale che è esterno alla coscienza ed in questa misura la filosofia schellinghiana della natura, rapportata alla Dottrina della scienza è assolutamente realistica; si tratta tuttavia di un principio spirituale e pertanto, di conseguenza, di un principio ideale, contemporaneamente ideale e reale (il "real-idealismo”, infatti, del quale parla Hartmann). Ma vi è un’altra conseguenza che investe, a titolo speculativo, la temperie romantica: se Spirito e Natura derivano da un medesimo principio, allora nella Natura deve riscontrarsi quella dinamica della forza che si espande e di un limite che le si contrappone che già si può riscontrare in Fichte e nella dottrina dell’Io. Ma l’opposizione del limite (tema carissimo al risvolto poetico della filosofia, soprattutto leopardiana) non arresta che momentaneamente la forza espansiva, la quale torna ad espandersi fino al limite successivo e così via. A ciascuna di queste fasi espansive corrisponde la produzione di un grado e di un livello della natura progressivamente più elevato (e gerarchizzato): il primo incontro tra forza d’espansione e forza di limite dà luogo alla materia. Tutto il processo successivo si configura pertanto come un meccanismo universale, un processo dinamico che Schelling dimostra come vero ricorrendo al manifestarsi delle forze, della loro polarità, del magnetismo, dell’elettricità, dei fenomeni chimici che per lui sono una visione pre – scientifica, quasi rinascimentale e campanelliana e per i quali, tuttavia, non nasconde l’essenzialità della scienza galileiana pur ritenendola insufficiente. L’identico schema di ragionamento vale a spiegare il livello più alto della Natura, che è il livello “organico”, dal quale si giunge all’uomo, “l’ultima e la più alta riflessione”, il livello nel quale si accende la coscienza e l’intelligenza raggiunge la sua consapevolezza. Si comprende così come Schelling abbia potuto presentare di nuovo l’antico concetto di “anima del mondo”, figura teoretica antichissima e molto famosa da Platone in poi, che il filosofo tedesco interpreta come intelligenza inconscia in grado di produrre e reggere la natura ma che solo con la nascita dell’uomo si apre alla coscienza. E proprio l’uomo, che considerato nell’infinitudine del cosmo appare ben poca cosa (“[…]ed io che sono?” è la domanda che il pastore errante dell’Asia pone, senza aspettative di risposta, all’ “infinito seren”), risulta, per contro, essere il fine ultimo della Natura, poiché in lui si ridesta lo spirito, assopito in tutti gli altri gradi della natura. Appare evidente, pur nella differenza sostanziale degli approcci, la consonanza con le posizioni kantiane della Critica del giudizio (nel dimensionamento dell’essere fra “cielo stellato” e legge morale), per le quali proprio quell’uomo fenomenico e finito appare poi effettivamente votato all’infinito, in virtù di una sorta di metafisica che si accinge a trascendere gli orizzonti dell’illuminismo per giungere al romanticismo ed alla sua pulsione (poetica e filosofica) proprio verso l’infinito. Certo sarebbe interessante pensare ora alle posizioni del tutto differenti di Hegel, il quale non mostra alcuna simpatia per la Natura. Se gli sono estranee le concezioni rinascimentali, molto più estranee sembrano essergli le posizioni di molti romantici. Holderlin, anzitutto: si pensi alla divinizzazione della Natura, intesa come origine di tutto e, in particolare, si pensi al personaggio di Iperione, il protagonista del romanzo Iperione o l’eremita in Grecia. Di fronte al crollo dell’illusione storica e davanti alla delusione d’amore (due temi, questi ultimi, ben noti al Foscolo), Iperione si rifugia nella divina Natura per trovar pace. L’inno alla Natura, con cui termina l’Iperione, è, non a caso, una delle espressioni più cospicue del naturalismo romantico. L’idea che soltanto la natura viva davvero, che solo in essa risieda la bellezza del mondo e la giovinezza perenne e che, infine, un solo ritorno sia possibile all’uomo in direzione della felicità, e cioè il ritorno alla Natura, sono posizioni che può condividere Schiller, non Hegel. Alla tesi secondo cui un piccolo evento naturale possono farci intuire Dio e la Verità, Hegel contrappone l’idea secondo cui il più piccolo evento dello Spirito ci fa conoscere la Verità e Dio in modo incomparabilmente migliore, e che perfino il male che l’uomo compie è incomparabilmente superiore a qualsiasi astro del cielo ed a qualunque fenomeno naturale per quanto bello, terribile, prodigioso o grande, in quanto il male è un atto di libertà e la libertà costituisce l’essenza dello spirito. Hegel è molto chiaro in proposito, lui che, solitamente, è invece difficile e talvolta oscuro nel pensiero e nella scrittura: “La natura, contemplata nel rispetto della sua esistenza determinata per la quale appunto essa è natura, non è da divinizzare” ; ed ancora: “[…] i fatti spirituali in genere sono stimati meno delle cose naturali e le opere dell’arte umana sono posposte alle cose naturali per la ragione che il loro materiale deve essere tolto dall’esterno, e che non sono viventi. Come se la forma spirituale non contenesse una più alta vitalità, e non fosse più degna dello spirito che non la forma naturale […]”. Le divisioni della filosofia hegeliana della Natura rispecchiano esattamente quelle della Logica, e non potrebbe essere altrimenti. Fra le molte ed interessanti particolarità che ne derivano, una appare pertinente al nostro discorso: la Natura, concepita come un sistema ascensivo di gradi, in realtà non si evolve (con buona pace di Schelling), perché non si evolvono le forme, ma si evolve lo Spirito che vive sotto queste forme. Qui sta non solo il superamento di Schelling, ma anche quello di Goethe. E’ vero che, più di una volta, Goethe condanna le escrescenze patologiche del fenomeno romantico, ma per quanto riguarda le tematiche specifiche non va dimenticato che la concezione goethiana della Natura alimenta, in un certo senso, l’esperienza romantica. La natura è tutta viva, fin nei minimi particolari (che nulla impressionano Hegel)e la totalità dei fenomeni è interpretata come organica produzione della “forma interiore”. Una polarità di forze (ancora contrazione ed espansione) dà luogo alle diverse formazioni naturali, che segnano un accrescimento e producono un'elevazione progressiva. Né si dimentichi che lo stesso concetto di genio (carissimo ai romantici) si risolve per Goethe in una formula che condensa, come meglio non si potrebbe, la sua vicinanza alle istanze romantiche: il “genio” è natura che crea e l’arte è attività creatrice e creazione come la natura, e addirittura al di sopra della natura. E’ facile, a questo punto, giungere a consonanze schilleriane, ma la via che conduce all’unione di poesia e filosofia (posizione molto leopardiana, a giudicare l’annotazione di Zibaldone, 3382-3387) parte, ancora una volta, da Schelling. Se il sistema schellinghiano, infatti, è definito idealismo oggettivo, esso è anche connotato quale idealismo estetico: l’arte diventa il supremo organo della filosofia, poiché per suo tramite si raggiunge pienamente l’identità originaria rappresentata dal connubio spirito – natura. E’ nella creazione estetica che ritroviamo la sintesi del momento inconscio (natura) e di quello cosciente (spirito): mentre la filosofia non riesce concretamente a cogliere l’identità perché il pensiero è necessariamente scisso (pensante – pensato) , l’emozione estetica coglie istantaneamente, prima di ogni distinzione, l’Assoluto come identità. Non la ragione astratta, quindi, (filosofia), ma la creazione estetica coglie la vera natura del principio primo ed è per tale ragione che il poeta si configura anche come il vero filosofo. Posizione vagamente leopardiana, fatto salvo il concetto di principio sul quale Leopardi non concorderebbe, ma posizione assolutamente non manzoniana, dato che l’idea di creazione artistica non ha valore per il Manzoni ed è sostituita da quella di invenzione. Ciò va ricordato, si potrebbe dire, ante rem, vista l’importanza delle posizioni manzoniane riguardo all’estetica romantica. Del resto nel dialogo Dell’Invenzione (1850) il Manzoni rifiuta nettamente il concetto di “creazione” poetica quando esso sia inteso come “la finzione isolata e arbitraria dell’uomo che si richiude nel suo studio per fabbricare pezzetti di storia secondo il suo bisogno e il suo gusto”. Ispirandosi piuttosto alla filosofia del Rosmini, egli ritiene che l’invenzione poetica non consista nell’inventare, ma nell’invenire, cioè nel trovare, in Dio (che è l’unico Principio), la verità profonda celata dietro le apparenze. Secondo l’ontologismo rosminiano, infatti, l’intuizione certissima ed immediata dell’Essere costituisce la base di tutto il sapere: è da Dio che deriva la comprensione della realtà nella sua complessa globalità. Quell’artista che Schelling vorrebbe incendiato dall’intuizione geniale dell’identità assoluta, percorre secondo il Manzoni una strada diversa: attraverso Dio giunge alla verità e l’invenzione, così concepita, diviene la chiave di volta in grado di conciliare “vero storico” e “vero poetico”. Certamente Schiller dà alimento a posizioni assai diverse. Il suo saggio Sulla poesia ingenua e sentimentale fonda la fortuna di una distinzione non ignota al Leopardi. La poesia antica era ingenua, perché l’uomo antico agiva come unità armonica e naturale e “sentiva naturalmente”: l’antico poeta era natura egli stesso e quindi immediata espressione di natura. Il poeta “sentimentale”, cioè il poeta moderno, non è ma sente la natura, o, meglio ancora, riflette sul sentire ed è su questo che fonda la commozione poetica. Ne deriva che il poeta sentimentale si sente, così, separato dall’ideale degli antichi e, allo stesso tempo, proteso (con la sua Sehnsucht) verso di esso: ancora una volta è la condizione della separazione a rendere possibile la riappropriazione. I fermenti romantici sono evidenti. Non può non tornare alla mente il Discorso di un Italiano sulla poesia romantica del Leopardi. Sebbene in questo scritto ancora giovanile il poeta mostri di apprezzare quasi esclusivamente il senso del patetico elaborato dalla scuola romantica (e si dichiari invece in toto ammiratore degli antichi), poco più tardi, in correlazione con la sua maturazione filosofica, egli fa sua la distinzione tra poesia di immaginazione (propria degli antichi) e poesia di sentimento (propria dei moderni). Vera poesia diventa così solo quella ingenua e spontanea del mondo (vichianamente) ancora fanciullo, ancora a stretto contatto con la Natura: la poesia primitiva, omerica, classica. All’uomo moderno, nutrito di cultura, anestetizzato nello sviluppo civile dei sensi, assuefatto non ad una prima e vera natura, ma ad una seconda (chiamata infatti da Leopardi, non a caso, proprio assuefazione), è possibile solo una poesia di sentimento, con la quale addentrarsi nell’intimo della coscienza ed analizzare la sua condizione di fronte alla natura ed alla società. E’ necessariamente, si capisce, una poesia “riflessa” che può esistere solo quando il poeta torni ad avvicinarsi agli antichi o riacquisti, recuperandola nella memoria, la propria fanciullezza, riacquistando un poco di naturalezza e spontaneità. Va sottolineato un punto, tuttavia, che può apparire piuttosto equivoco. Laddove Schiller presuppone una riappropriazione nata dalla separazione dall’ideale antico, Leopardi oppone, invece, l’impossibilità di qualsiasi recupero che esuli dal senso dell’infinito e dalla poetica della rimembranza. L’itinerario leopardiano parte da una visione confortante della natura: solo la natura eccita i sentimenti profondi ed è quindi la vera fonte della poesia (cfr. Zib., 15), solo la natura, nella sua grandezza, ha compensato la mancanza di piaceri reali infiniti con le illusioni e con l’immensa varietà delle cose (cfr. Zib., 167), solo la natura non conosce il male, poiché il male non fa parte del suo ordine e del suo sistema, ma è “come un’eccezione, un inconveniente, un errore accidentale nel corso e nell’uso di detto sistema” (Zib., 364- 366). Quello che i critici hanno designato come pessimismo storico di Leopardi, si basa su una prima fondamentale antitesi: natura / ragione. Essa, com’è noto, caratterizza la fase che va dalla “conversione letteraria” alla crisi degli anni 1819 – ’22 ed è espressione di una delusione storica per la situazione dell’Europa e dell’Italia nell’età della restaurazione. E’ doveroso, tuttavia, chiarire che istanze storico – politiche in Leopardi hanno un valore eminentemente di pretesto, né più né meno come le prime canzoni cosiddette civili e patriottiche che preparano, più che altro, il classicismo peregrino del Bruto minore e dell’ Ultimo canto di Saffo. Importante appare, caso mai, il concetto di infelicità come opera degli uomini i quali, allontanatisi dalla natura, hanno perso il linguaggio della natura stessa a causa del dominio della ragione. Qui è forte il richiamo al Rousseau e, sotto parecchi aspetti, anche legittimo, ma va aggiunto che l’ultimo Leopardi si attesterà a conclusioni antitetiche rispetto a quelle di Rousseau. Il male viene dall’uomo, aveva scritto il filosofo, e non dalla natura che è ordine: la natura è certamente ordine, risponderà Leopardi, ma ordine fondato sul male (Zib., 4510-4511). E non si ferma a questo la divergenza tra i due. Il fatto è che Rousseau vive ante rem e Leopardi post rem, e questa cosa, decisiva non solo per loro, è stata la Rivoluzione francese. Rousseau aveva aperto, in un certo senso, sia la strada alla Rivoluzione che al Romanticismo, ma Leopardi, che vive nell’età romantica, non si abbandona alle sollecitazioni etiche e politiche che da quella età provengono. La storicità del suo pessimismo starà dunque in questo dissidio per il quale la ragione, la ragione settecentesca che Leopardi condanna, è anche quella che egli ama, l’unica che egli riconosce e riconoscerà fino al termine del sistema, quella che aveva prodotto la filosofia razionalistica e materialistica nel ‘700 accendendo speranze che Leopardi non poteva non vedere deluse. Per ora, tuttavia, la natura appare come sorgente unica di vera grandezza, vitalità, illusioni, risorse artistiche. C’è, in Leopardi, il vagheggiamento di una società primitiva ricca di magnanime illusioni sentimentali che lo porta a scindere definitivamente gli antichi, ancora vicini alla natura e perciò “vivi”, dai moderni, nutriti di ragione e condannati al tedio: si approfondisce la visione materialistica, ogni concezione metafisica è ripudiata a vantaggio di un orientamento sempre più antiprovvidenzialistico ed antiteistico. A partire dal 1823, come documentano in modo perfetto lo Zibaldone e le Operette morali, Leopardi enuncia la teoria del piacere, secondo la quale la felicità dell’uomo non può essere una felicità spirituale ed ultraterrena, ma una felicità materiale esperibile dai sensi: secondo l’annotazione di Zib., 3835, la vera “somma e sostanza ultima” della felicità è solo il piacere. Edonè aveva già detto Epicuro: per natura l’uomo cerca il piacere e fugge il dolore e se il piacere è un bene, il dolore è senz’altro un male. Aristippo aveva considerato il piacere un movimento leggero, il dolore un movimento violento dell’anima. Epicuro corregge Aristippo e distingue tra “piacere in movimento” (per Leopardi il moto è già uno stato di felicità) e “piacere catastematico” o “piacere in riposo”. Ogni piacere è un bene, anche quello in movimento, ma il piacere in movimento è turbato, è mescolato di dolore, perché intimamente legato ad un bisogno, ad un desiderio. Il piacere catastemico, invece, è puro e deriva dall’assenza o dalla cessazione del dolore. Del resto per Epicuro, ma potremmo dire per l’uomo ellenistico in generale, la filosofia ha un fine essenzialmente pratico: indirizzare gli uomini alla felicità. La scienza ha valore solo in quanto contribuisce a rendere gli uomini felici: la grande opera epicurea Sulla natura (ben trentasette libri) non dà peso a geometria, dialettica, storia o astronomia intese come fondamenti della felicità. Ha senso, invece, la teoria della conoscenza: per Epicuro prima fonte di ogni nostra conoscenza sono i sensi e la sensazione è il fondamento di qualunque scienza. A giudicare dagli sviluppi successivi del pensiero, questa rivalutazione della sensazione come fondamento del mondo dello spirito è una parte veramente vitale della filosofia epicurea, più ancora del concetto di “prolessi”, altro criterio di verità basato, com’è noto, sull’osservazione che, ripetendosi le percezioni, la memoria conserva certe immagini comuni a più oggetti. Anche le “prolessi” nascono dalle sensazioni, ma a formarle contribuisce il ragionamento, che fa i confronti e scorge le analogie. E’ certamente difficile non pensare a Lucrezio ed al suo De rerum natura: più in particolare ancora difficile non pensare allo splendido inno a Venere genitrice con il quale il poema si apre. La Venus lucreziana è stata ricondotta all’Afrodite empedoclea, ed effettivamente nell’inno di Lucrezio essa è il simbolo del concepimento universale, è la possente energia creatrice e ordinatrice di ogni bellezza, è insomma la Natura epicurea da cui ha origine il tutto, anche l’armonia del canto e la pace degli uomini, perché la forza naturale dell’amore è l’unica in grado di vincere gli aspri costumi dell’odio e della guerra. Ma Venus non è, in senso classico, una divinità: nel mondo lucreziano non c’è posto per gli dèi e sole, cielo, terra, mare, luna non sono divinità, perché sono esseri inanimati. Tutto ciò che è è mortale, tutti i concilia atomici sono mortali e con loro il mondo, che è una summa rerum. L’uomo non è che una piccolissima parte del mondo e, come tale, è soggetto alle medesime leggi meccanicistiche che regolano l’universo. Il cosiddetto progresso civile, la melior res reperta (libro V, 1412-1435), non apporta nessun vantaggio, ma solo un ingiusto disprezzo per cose un tempo apprezzate e godute: così nasce l’infelicità, non per la necessità dell’esistenza, ma per colpa del genere umano che non conosce i limiti delle ricchezze, né gli alimenti della vera felicità e si sfibra dalla tensione verso un desiderio e verso un altro ancora. E la natura ci ha messo del suo, creando l’uomo e rendendolo il più disgraziato fra i viventi: artefice di tutto, la Natura, benigna provveditrice di tutto, per ogni essere animato, fuorché per l’uomo. In tal senso, ancora, si cancella qualsiasi idea di natura come divinità provvidenziale: bella, ma inesorabilmente lontana. La ragione è lo strumento di cui la natura ha dotato l’uomo perché si difenda contro la natura stessa. Essa, madre e matrigna, ha creato nell’uomo la sua vittima e il suo trionfatore; lo ha messo in condizione di conseguire la felicità o di volere il contrario e precipitare nell’abisso di ogni miseria. Homo artifex perché libero e questa libertà (che per Lucrezio è data dalla scienza) è anche strumento di maledizione. D’altra parte questo raggiungimento della felicità è forse altro da un risultato di una battaglia incessante contro il dolore? In tale appello alla sapienza contro la stoltezza è tutta la tragedia dell’umanità: la tanta culpa della Natura, la forza cieca che annulla in un istante le fortune umane, si risolve alla fine del De rerum natura in un memorabile quadro di dolore e furore (il mortifero aestus che ammorba Atene), su cui la morte scende liberatrice. Lucrezio ripete da Epicuro il detto che la scienza rende l’uomo felice e pareggia il conto con la forza della natura, ma già il Virgilio della Georgica dimostra di non credere più a questa possibilità. Il riferimento a Virgilio non è ozioso: egli aveva frequentata, nella prima giovinezza, la scuola epicurea ed aveva avvertito il fascino di Lucrezio. Il fatto è che Virgilio non può restare a lungo seguace di una dottrina negatrice dell’eternità dell’anima e della divinità. Nelle Bucoliche l’insegnamento epicureo persiste e nell’ecloga sesta Virgilio è ancora lo scolaro di Sirone; ma già l’ecloga quarta aveva fatto intravedere una netta inclinazione verso il misticismo orfico-pitagorico. Nella Georgica passa, ogni tanto, un soffio della grande poesia di Lucrezio (si pensi al libro III ed al concetto d’amore avvertito come forza universale), ma Virgilio non crede più all’ideale epicureo della felicità. Egli diventa, piuttosto, un “sacerdote” della natura: la terra è il grande scenario, fatto di luci e di ombre, dove agiscono le piante e gli animali, fra l’assiduo travaglio delle opere umane. La terra riempe l’anima e l’immaginazione del poeta e tante volte egli solleva lo sguardo contemplativo verso le Muse dulces ante omnia (Georg. II, 475) chiedendo loro di poter seguire il cammino degli astri. Ma proprio qui Virgilio si separa definitivamente da Epicuro, da Lucrezio ed anche da Leopardi: nel suo panteismo di poeta georgico rapito dalla natura, in religioso contatto con tutte le cose, egli non sente il mistero dei mondi al di là del mondo degli uomini, non ha il senso poetico dell’infinito che invece ha, ad esempio, Seneca, allorché di fronte alla terra oscura ed addormentata esclama: “Che immense cose accadono nel silenzio di questa notte!” (De beneficiis, IV, 23). Virgilio conosce, è vero, l’incanto della notte (varrà la pena ricordare che le grandi domande leopardiane alla natura si inscrivono, spesso, in illimitati scenari notturni), ma non sospetta quali misteri l’infinito, o l’indefinito, nascondano alla fenomenica mente degli uomini. Virgilio non si stanca mai della terra, né delle opere umane, per naufragare, come Lucrezio, nell’estatica oppure turbinosa visione dell’universo: in lui il rapporto tra uomo e natura si risolve in un’aspirazione ad un mondo di uomini umili, senza sapienza filosofica, che lavorano in concordia sulla terra feconda e benedetta dal cielo. In tal senso la Georgica appare il massimo monumento ad una natura perennemente animata e benevola: nessun piacere sembra poter derivare da qualcosa che sia al di fuori della natura. Nulla di più lontano dalle posizioni di un Leopardi che va ad elaborare la sua seconda antitesi come antitesi natura / uomo. L’aspirazione al piacere, che nell’uomo è continua, è destinata a restare insoddisfatta, dato che la natura umana comporta malattie, vecchiaia, fugacità del piacere. La dimensione del piacere è dunque, allo stesso tempo, una dimensione di dolore ed anche quel piacere che, eventualmente, l’individuo giunge a provare non è altro che la momentanea cessazione di una consueta dimensione di sofferenza. L’irrealizzabilità del desiderio, la costante tensione verso un fine pressoché inattingibile è già dolore: il concetto di natura si approfondisce, Leopardi si accorge della sua ostilità nei confronti degli uomini (i soli che sanno di soffrire e di morire) e giunge ad una rivalutazione della ragione stessa, l’unica che gli abbia consentito di demistificare il concetto di natura. La consonanza più suggestiva ad emergere, è quella in direzione di Schopenhauer. Difficile non riscontrare nel pensiero del filosofo tedesco echi leopardiani. Del resto è Schopenhauer ad osservare che la vita oscilla fra bisogno e dolore. Se il bisogno viene soddisfatto, allora si piomba nella sazietà e nella noia: “il fine, in sostanza, è illusorio: con il possesso svanisce ogni attrattiva; il desiderio rinasce in forma nuova e, con esso, il bisogno; altrimenti ecco la tristezza, il vuoto, la noia, nemici ancor più terribili della noia”. Dei sette giorni della settimana sei sono dolore e bisogno, il settimo è noia: non è strano sentire in queste osservazioni note provenienti dal Sabato leopardiano. Ma c’è di più. Come si può “cessare di volere”? Non è, forse, il naufragio nel mare dell’essere la cessazione del desiderio? Secondo Schopenhauer ci si può liberare dal dolore e dalla noia attraverso l’arte e l’ascesi. Nell’esperienza estetica, infatti, l’individuo si stacca dalle catene della volontà, si allontana dai suoi desideri, annulla i suoi bisogni. L’uomo nell’esperienza estetica si annienta come volontà e si trasforma in “puro occhio del mondo”, si immerge nell’oggetto e dimentica il dolore (dolce, non si dimentichi, è il naufragare nel mare dell’infinito). Il piacere estetico è proprio questo immergersi nello stato di pura contemplazione, liberandoci (momentaneamente) da ogni desiderio e preoccupazione, è il divenire inconsapevoli di noi stessi ma consapevoli degli oggetti intuiti (la fictio dell’ Infinito leopardiano): l’esperienza estetica è, in breve, l’annullamento temporaneo della volontà e quindi del dolore. L’arte - che dall’architettura (la quale esprime l’idea delle forze naturali), alla scultura, alla pittura ed alla poesia giunge alla tragedia, la forma più alta dell’arte - oggettiva la volontà e chi contempla ne è, in certo qual modo, fuori. Così la tragedia (sarà Nietzsche a rovesciare l’immagine romantica della civiltà classica ne La nascita della tragedia, del 1872) esprime ed oggettiva il dolore senza nome, “l’affanno dell’umanità, il trionfo della perfidia, la schernevole signoria del caso e il fatale precipizio dei giusti e degli innocenti”; ed è in tal modo che essa ci permette di contemplare la natura del mondo. Tra le arti, poi, la musica non è che esprima le idee, cioè i gradi dell’oggettivazione della volontà, ma la volontà stessa: la musica è pertanto l’arte più universale e più profonda. Ripensando a Pitagora, verrebbe da dire anche più matematica (assolutamente incapace di scoprire qualcosa di poetico secondo Leopardi, Zib., 3242, ma necessaria all’uso della ragione, ivi, 2213). Non va dimenticato che proprio un’intuizione musicale (il celebre episodio del suono dei martelli sulle incudini, narrato da Giamblico nella sua Raccolta di dottrine pitagoriche) permette a Pitagora di formulare quel legame fra matematica e natura che costituisce una delle scoperte più profonde e feconde dell’intero pensiero umano. Dall’osservazione e dall’esperimento, in perfetto stile scientifico, Pitagora deduce la sua teoria, secondo la quale esistono tre tipi di musica: quella strumentale propriamente detta, quella umana e quella mondana suonata dal cosmo. La sostanziale coincidenza dei tre tipi è responsabile da un lato dell’effetto emotivo prodotto, per risonanza, dalla melodia sull’uomo, e dall’altro della possibilità di dedurre leggi matematiche dell’universo da quelle matematiche. Poiché nelle leggi dell’armonia scoperte da Pitagora intervengono soltanto numeri frazionari, detti anche razionali, ed i rapporti armonici corrispondono perfettamente a rapporti numerici, il grande matematico può così enunciare, in una massima famosa, che tutto è numero (razionale). “Ragione”, in pratica, non sarebbe altro che capacità di esprimere concetti mediante un rapporto numerico, come testimonia l'uso dello stesso vocabolo per entrambi i termini sia in greco (logos) che in latino (ratio). Visto che poi, per i greci, logos indica anche l’idea stessa di “parola”, il vocabolo finisce per esprimere la triplice coincidenza fra linguaggio, razionalità e matematica. Questa coincidenza è tuttora alla base della filosofia ed il Tractatus di Wittgenstein ne è l’ultima formulazione riveduta e corretta. L’aspetto esoterico della teoria pitagorica, tramandato da Platone nel Timeo, è rimasto per secoli il punto di riferimento per la cosmologia, tanto che ancora Keplero, nel 1619, lo utilizza nella descrizione delle leggi musicali che regolano il moto dei pianeti (come non pensare al Paradiso di Dante?), specificando che nella sinfonia celeste Mercurio canta da soprano, Marte da tenore, Saturno e Giove da bassi, Terra e Venere da alti. Senza considerare che, nella terza delle tre famose leggi di Keplero, ricompare proprio il rapporto di quinta: il quadrato del periodo di rotazione di un pianeta attorno al sole è proporzionale al cubo della sua distanza da esso. E’ su queste basi che Newton dimostra come anche la legge della gravitazione universale sia implicita nelle leggi dell’armonia pitagorica: non generica matematizzazione della natura. Varrà la pena ricordare che Leopardi, dei tre generi fondamentali della poesia (epico, tragico e lirico) riconosce, almeno a partire dal 1828, la poesia lirica come vera poesia, come canto di affetti spontanei, senza intromissione di elementi intellettualistici e culturali, “espressione libera e schietta di qualunque aspetto vivo e ben sentito dell’uomo”: in un’annotazione dello Zibaldone (pagg. 3208 – 3224) egli non a caso si sofferma sugli effetti profondi e l’elevata funzione morale e sociale della musica greca, opera di poeti. A partire dal 1823, per tornare alla storia del pessimismo leopardiano, il poeta approfondisce, sulla base di considerazioni filosofiche, la sua idea di dolore universale, scoprendo l’inganno di una natura che è madre di parto e di voler matrigna. Qui risiede, in gran parte, l’ambivalenza insita fin dall’inizio nel concetto leopardiano di natura. E’ chiaro, infatti, che il poeta debba necessariamente rendersi conto, prima o poi, che quella stessa Natura che aveva concesso all’uomo le care illusioni, gli ha concesso anche la ragione destinata a dissolverle. Nella prima fase del pensiero di Leopardi, come si è già avuto modo di mettere in luce, la Natura pietosa nasconde all’uomo, proprio mediante le illusioni, l’amara verità della sua condizione: ma ciò porta a scoprire che neppure lo stato originario dell’umanità era stato di una felicità obiettiva, ma piuttosto di una felicità velata. In questo risiedono l’inganno (“perché di tanto / inganni i figli tuoi”, A Silvia, vv. 38-39) e la desolata consapevolezza del dolore come appartenente non solo all’uomo, ma a tutto ciò che è (cfr. il Canto notturno). L’ultima fase del pessimismo leopardiano è generalmente definita pessimismo eroico, o titanismo. Il poeta non cerca più conforto neanche nella memoria ed assume un impegno “morale”, proponendosi agli uomini con un invito alla solidarietà contro la comune “inimica”, la Natura (cfr. La ginestra). Come la ginestra che, pur sapendo di poter essere travolta dalla furia distruttrice della lava, non abbandona “i deserti” ed anzi li consola spandendo intorno il suo delicatissimo profumo, così il poeta non abbandona il “gran deserto del mondo”, ma offre agli altri uomini il conforto della sua poesia. E’ evidente, allora, che non di titanismo si tratta (il titanismo, di matrice più alfieriana che non leopardiana, ha qualcosa di irrazionalmente furente) ma di magnanimità: è la magnanimità che consente agli uomini di scoprirsi simili, e dunque solidali, e di poter riconoscere nella Natura la sola vera nemica. Quale distanza, ormai, dall’esaltazione romantica della natura! Torna alla mente, quasi per coincidentia oppositorum, l’opera del pittore Giacomo Trecourt, Lord Byron sulle sponde del mare ellenico (olio su tela). Il grande poeta è immaginato seduto (“sedendo e mirando” scrive il Leopardi dell’Infinito, ed ancora, riferendosi alla ginestra, “tu siedi, o fior gentile” - La ginestra, v. 34 -, e “seggo la notte”, - ivi, v. 161, di fronte al desolato spettacolo vesuviano): una luce arcana rende opalescenti le due figure a metà dello sfondo, il cielo sembra raccogliere i pensieri di Lord Byron, mentre il movimento dell’acqua tremola fra gli scogli ed attualizza, vivificandola, l'intera scena. La corrispondenza tra natura ed animo sembra veramente fuori discussione, in questa che resta una delle pochissime rappresentazioni del romanticismo pittorico italiano volto non tanto all’esegesi di un colloquio intimo fra uomo e natura, quanto ad un impegno prevalentemente politico e sociale, oltreché storico. Invano cercheremmo la sostanza di quel colloquio in autori quali Hayez, Antonio Caimi, Cherubino Cornienti o Gaetano Turchi, presi da altro che non dall'interesse per il rapporto che pure lega indissolubilmente l'individuo al mondo della natura. Ciò risiede, anzitutto, nel carattere particolarissimo, storicista e risorgimentale, del nostro romanticismo, al quale sono estranee le esaltazioni che possiamo invece ravvisare in Girtin, per esempio, con il suo The rocking stone (solito motivo rovinista del castello su sfondo di un cielo enigmatico), oppure, con forza maggiore, in Elias Martin, Paesaggio romantico (Stoccolma, Nationalmuseum) in cui tutti i motivi fondamentali dell’oscura forza della natura (la roccia, il cielo quasi apocalittico, lo sforzo degli alberi fra i quali impressiona l’enorme abete inclinato dall’erosione) paiono sintetizzare un elogio del caos primigenio e dell’ignoto sconosciuto ed inconoscibile. E’ pertanto evidente che il dialogo fra uomo e natura al di fuori del romanticismo italiano ha interpretazioni particolari, non rapportabili alla critica cui esso è sottoposto dai nostri autori. Neppure per un istante, in sostanza, sarebbe possibile comparare la luna di Casper Friedrich, Moon, con la luna del Canto notturno leopardiano. In Friedrich il grande tema della luna attraversa le simbologie, talvolta cimiteriali, delle rovine invase dall’edera e giunge, nel celeberrimo dipinto, a rischiarare una natura inquietante, fatta di radici in forma di artigli che alla fine s’imprimono con più forza che non le due figure umane colte di spalle; in Leopardi la luna diventa dimensione esistenziale e filosofica, non disgiunta da un elemento illuministico ignoto sia a Friedrich che agli altri pittori romantici tedeschi ed inglesi. Si potrebbe osservare che già Parini, e poi anche Foscolo, per non dire di Cesarotti e la sua traduzione delle Notti dello Young (non dispiaciuta al Leopardi), hanno dato il proprio contributo ad un certo gusto del buio e dell’oscurità: osservazione senz’altro vera, come però è vero che in loro quel gusto non è stato che una tappa, e neanche fondamentale, verso temi ed accenti di illimitato respiro.